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La rabbia dei peruviani
Il punto ◆ Le proteste continuano, così come la repressione governativa
Angela Nocioni
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Scontri tra polizia e manifestanti: scudi e mitraglie da un parte, sassi e bastoni dall’altra. Decine e decine di morti, centinaia di arresti. Le garanzie individuali annegate dentro uno stato d’emergenza in vigore dal 14 dicembre scorso che consente centinaia di detenzioni e fermi arbitrari. In Perù le proteste continuano. I fatti tragici delle ultime settimane si innestano nella profonda instabilità politica del Paese che accompagna anni di disoccupazione e l’impoverimento dei ceti medio-bassi dopo l’illusione – avuta nel 2007-2008 – di un boom economico rivelatosi poi effimero.
Parte del Paese è in rivolta contro il Governo di destra di Dina Boluarte subentrata all’ex presidente – destituito per volere del Congresso – Pedro Castillo, un maestro presentatosi alle ultime elezioni nel 2021 come outsider di sinistra e poi, una volta eletto, scivolato via via su posizioni radicali proprie dell’estremismo di destra latinoamericano. I manifestanti non chiedono il suo reintegro ma la sua scarcerazione, la rimozione di Boluarte, lo scioglimento del Congresso, la convocazione di un’Assemblea costituente ed elezioni anticipate.
Il muro contro muro è totale, visto che Boluarte non ha nessuna intenzione di dimettersi e di indire subi- to elezioni. Né, si suppone osservando la violenza della repressione, di obbligare la polizia a interventi nell’ambito della legge. Boluarte è l’ex vicepresidente del Perù. Ad inizio dicembre ha sostituito Castillo, destituito e poi arrestato con l’accusa di aver cercato di sciogliere il Parlamento in un tentativo di golpe. Castillo era stato eletto nel luglio del 2021, al ballottaggio, con soli 50mila voti di vantaggio rispetto a Keiko Fujimori, populista di destra, figlia dell’ex tiranno Alberto Fujimori, sotto il cui pugno di ferro il Perù è stato dal 1990 al 2000. Castillo è entrato nell’occhio del ciclone da subito per aver nominato come primo ministro un ex simpatizzante di Sendero Luminoso, gruppo di vaga ispirazione maoista che ha mietuto morti per decenni in Perù con metodi terroristici in nome di una rivoluzione che non è stato mai capace di tentare. Altra nomina contestata è stata quella a ministro degli Esteri di Héctor Béjar, ex guerrigliero dell’Esercito di liberazione nazionale peruviano. Nei suoi (soli) 17 mesi alla presidenza Castillo ha avuto 5 rimpasti di Governo. E non è stato difficile per l’asse di potere conservatore che ha in mano la gestione dello Stato in Perù, nonché gran parte del Parlamento, farlo fuori attraverso la minaccia di messa in stato d’accusa parlamentare. Il Congresso è stato poi accusato dai manifestanti di aver abusato del proprio potere. Lo scorso 7 dicembre Castillo si è trovato ad affrontare il terzo tentativo da parte del Congresso di metterlo sotto accusa, dopo che i primi due non avevano raggiunto la maggioranza necessaria. Alla vigilia del voto Castillo ha detto: «Abbiamo deciso di instaurare un Governo di emergenza per ristabilire la legge e la democrazia». Un autogolpe, comunque la si veda. Dopo l’annuncio, diversi membri del suo Governo si sono dimessi e le forze armate hanno diffuso un comunicato in cui dicevano che Castillo non aveva l’autorità per sciogliere il Congresso. Quest’ultimo ha poi votato la sua decadenza e Castillo è stato arrestato con l’accusa di aver violato l’ordine costituzionale. Il giorno stesso Boluarte ha giurato come presidente. Il fatto che lei sia la sesta persona a ricoprire il ruolo di presidente del Perù dal 2016 la dice lunga sulla stabilità politica locale. Quasi tutti i suoi predecessori sono stati «eliminati» da accuse di corruzione. L’indisponibilità sua a indire nuove elezioni e la disperazione degli strati sociali coinvolti nella protesta fanno temere l’escalation della violenza repressiva. E l’avvitarsi della crisi in una spirale senza fine.