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Nel futuro del cattolicesimo
Prospettive ◆ Il significato del viaggio di papa Francesco in Africa, un continente dove continuano a crescere i fedeli e il numero di sacerdoti
Giorgio Bernardelli
Sono settimane travagliate in Vaticano, tra il «vaso di pandora» delle polemiche aperto nel fronte tradizionalista dal dopo-Ratzinger, lo scontro tra la Curia romana e i vescovi tedeschi sulle modalità del Sinodo e l’ennesimo scandalo per gli abusi di cui ora è accusato il notissimo gesuita slovacco padre Marko Ivan Rupnik, vicinissimo a Bergoglio. Nel mezzo di tutti questi veleni, rischia di passare – a torto – in secondo piano il viaggio che papa Francesco (nella foto) si appresta a compiere dal 31 gennaio al 5 febbraio nella Repubblica democratica del Congo e in Sud Sudan.
In Congo Bergoglio potrà recarsi solo nella capitale Kinshasa, saltando invece Goma a causa della guerra che è tornata a dilagare
Sarà la terza visita di papa Francesco nell’Africa subsahariana, dopo quella del 2015 in Kenya, Uganda e Repubblica Centrafricana e quella del 2019 in Mozambico, Madagascar e Mauritius. Arriva dopo un rinvio. Papa Francesco avrebbe infatti dovuto recarsi in questi due Paesi già nel luglio 2022, ma fu poi costretto a rinviare questo viaggio a causa dei problemi al ginocchio.
Nonostante l’evidente fatica nei movimenti, il pontefice ha voluto tenere comunque fede all’impegno. Anche se in Congo potrà recarsi solo nella capitale Kinshasa, saltando invece Goma, la martoriata città dell’est che era prevista nell’itinerario dello scorso anno. La ragione è una guerra dimenticata, tornata a dilagare: da mesi si rincorrono notizie di eccidi e ondate di profughi. Troppo alti i rischi, non solo per il pontefice ma anche per le migliaia di fedeli che si sarebbero radunate per incontrarlo.
Del resto, quella in atto da decenni nella Repubblica democratica del Congo è una vera ecatombe: dalla metà degli anni Novanta i morti hanno già superato i 6 milioni, il numero delle vittime della Shoah. Una strage infinita, alimentata dagli interessi legati allo sfruttamento delle risorse minerarie di cui è molto ricco questo Paese africano. È la guerra per l’accaparramento del coltan, della cassiterite, del litio, materie prime essenziali per la produzione dei telefoni cellulari, batterie per le auto elettriche e tanti altri prodotti dell’hi-tech.
L’est del Congo del resto non conosce pace da quando, dopo il genocidio ruandese del 1994, si è riversato in questa regione più di un milione di profughi. Oggi il Governo congolese accusa quello del Ruanda di sostenere i ribelli dell’M23: il presidente congolese Félix Tshisekedi parla espressamente di tendenze espansionistiche del Ruanda, per accaparrarsi le zone dei maggiori giacimenti minerari. Kigali – a sua volta – accusa Kinshasa di sostenere le Forze Democratiche per la Liberazione del Ruanda, un gruppo armato composto principalmente di hutu di origine ruandese, presenti in Congo dal 2000.
In questo groviglio di interessi e violenze, da qualche anno si è affacciato persino il fondamentalismo islamico, nonostante queste zone siano a stragrande maggioranza cristiana (i musulmani sono appena l’1,5%). Domenica 15 gennaio, in un villaggio a poche decine di chilometri dal confine con l’Uganda, un commando di forze alleate dell’ISIS ha attaccato una chiesa pentecostale: almeno una ventina le vittime.
In questo groviglio di interessi e violenze da qualche anno si è affacciato persino il fondamentalismo islamico
Papa Francesco, dunque, sarà chiamato a portare una parola di pace dentro a questi conflitti. A Kinshasa come nel Sud Sudan, l’altro Paese che toccherà durante questo viaggio. La Nazione più giovane dell’Africa, divenuta indipendente dal Nord del Sudan solo nel 2011, doveva essere la grande opportunità per la regione abitata in gran parte da popolazioni cristiane, a differenza della musulmana Khartoum. Invece, il Sud Sudan è subito precipitato in un nuovo conflitto che ha alla radice lo sfruttamento del petrolio locale e delle risorse idriche. Insieme al primate anglicano Justin Welby e al moderatore dell’assemblea generale della Chiesa di Scozia, Iain Greenshields, papa Francesco ha cercato in questi anni di promuovere un processo di riconciliazione che a Juba, insieme, cercheranno di consolidare.
Due missioni impegnative sul piano politico, dunque. Ma per papa Francesco sarà anche un’immersione in un Continente cruciale per il cattolicesimo di domani. Nelle statistiche l’Africa resta la parte di mondo dove continuano a crescere i fedeli e il numero di sacerdoti: rappresenta già quasi il 19% della popolazione cattolica globale e la crescita è costante. La Repubblica democratica del Congo – in particolare – conta oggi oltre 52 milioni di cattolici battezzati, più dell’Italia. Ed è un Paese giovane, in forte crescita demografica: secondo l’ONU nel 2050 sarà una delle dieci Nazioni più popolose al mondo.
Quale impronta daranno al cattolicesimo di domani le comunità africane? Difficile dirlo. Da una parte porranno certamente la questione della povertà e degli squilibri planetari. Ma l’Africa è anche un continente dove la fede religiosa è un fattore identitario, fortemente ancorato ai valori della tradizione. Per dare un termine di paragone: nel mondo anglicano sono state spesso le comunità africane a osteggiare più duramente le aperture «progressiste» sui temi etici come la questione dell’omosessualità. E, anche tra i cattolici, il guineano Robert Sarah è oggi uno degli esponenti più in vista del fronte conservatore all’interno del Collegio cardinalizio.
Questa settimana con papa Francesco a Kinshasa e a Juba sarà dunque un’occasione importante per capire che molto più che nelle aule sinodali dell’Europa, è nelle periferie delle metropoli africane che si deciderà la direzione del cattolicesimo nel XXI secolo. Anche per questo, superare le ferite e le contraddizioni che le attraversano è un’urgenza che papa Francesco non si stanca di ricordare.
Al servizio di Saied
Potentissime ◆ Ritratto della premier tunisina Najla Bouden Romdhane
Cristina Marconi
Avere una donna al potere è un segno di progresso. Offre tra le altre cose alle bambine e alle ragazze un modello a cui ispirarsi per non sentirsi costrette in un ruolo tradizionale, liberando nel lungo termine energie positive. Ma nel breve termine, a volte, sono purtroppo i furbi a guadagnarci e fare bella figura. Nel caso della Tunisia la nomina a premier di Najla Bouden Romdhane (nella foto), compassata ingegnera e geologa di 64 anni con studi a Parigi e nessuna esperienza politica, è apparsa da subito come uno di quei casi ad alto rischio di «pinkwashing» («lavaggio in rosa») con cui un sistema autoreferenziale si dà un tono – adottando un apparente atteggiamento di apertura nei confronti dell’emancipazione femminile – per continuare a esercitare il potere come preferisce.
Prima donna a occupare un posto così importante nella storia della Tunisia (nei Paesi musulmani ci sono precedenti, come Benazir Bhutto in Pakistan), è stata nominata dal presidente e uomo forte di Tunisi Kais Saied nel settembre del 2021, dopo quello che in molti considerano un golpe, avvenuto il 25 luglio con la destituzione dell’ex primo ministro Hichem Mechichi, vicino al partito islamista moderato Ennahdha e in carica da appena 10 mesi, la sospensione del Parlamento e la concentrazione del potere legislativo e giudiziario nelle mani dello stesso Saied. I due vengono dallo stesso ambiente e dalla stessa regione. Bouden è, sulla carta, una figura impeccabile, ancorché priva di quell’esperienza che le avrebbe consentito di navigare con autonomia le turbolente acque politiche tunisine: addottorata alla prestigiosa École des Mines francese, insegna all’università, è un’esperta di terremoti e disastri ambientali, è stata direttrice del Ministero dell’istruzione e responsabile di un programma della Banca Mondiale per le scuole. Una scienziata e una tecnica che ha meno carte in mano rispetto ai suoi predecessori visto che Saied ha indetto uno stato di emergenza a tempo indeterminato mentre il Paese da diversi mesi vive una delle più gravi crisi alimentari della sua storia. Lo scorso 17 dicembre – dodicesimo anniversario della morte del venditore ambulante Mohamed Bouazizi, che si diede fuoco per protestare contro le condizioni di vita sotto il regime di Ben Ali, dando il via alle Primavere arabe – si è tenuto il voto per eleggere il nuovo Parlamento, un’assemblea composta di 161 deputati che sostituirà quella dissolta da Saied. Molti analisti le hanno definite «elezioni vuote»: con le nuove regole il voto andava al candidato e non alla lista o al partito, aprendo di fatto la strada solo a chi ha soldi e potere per fare campagna; in alcune circoscrizioni non si è presentato nessuno; su oltre mille candidati solo un centinaio era donna. L’opposizione, per non convalidare l’assetto politico voluto da Saied, ha boicottato il voto. Resta comunque il potentissimo presidente a formare il Governo. Intanto sono state depositate decine e decine di ricorsi al Tribunale amministrativo tunisino contro i risultati preliminari del voto e un secondo turno è previsto in febbraio.
La situazione nel Paese resta incandescente. Pandemia da Covid e guerra in Ucraina hanno alimentato una terribile crisi economica e sociale: il costo della vita è insostenibile e i cittadini non hanno accesso a beni primari – a volte manca lo zucchero, a volte il grano, a volte il latte – e questo crea una situazione estremamente instabile. Inoltre Saied, che ha scelto un’altra donna, Nadia Akacha, come sua capa di gabinetto, ha messo prevedibilmente mano anche alla libertà di espressione e di stampa, con una legge sulla criminalità online che, in nome della lotta alle fake news, sta generando un clima di incertezza e terrore.
Il primo a farne le spese è stato il direttore di «Business News», Nizar Bahloul, che è stato interrogato a lungo per un articolo intitolato Najla Bouden, la gentildonna, in cui un giornalista denunciava in modo deciso l’immobilismo del Governo e la terribile situazione di degrado in cui versa il Paese. Tutte cose che i media e l’opposizione dicono in continuazione ma che la ministra della Giustizia, Leila Jaffel, ha deciso di affrontare, nel caso di «Business News», per mandare un avvertimento a tutti i media che avevano ritrovato una certa libertà dopo gli anni bui di Ben Ali.
Secondo l’articolo citato, Bouden Romdhane non solo non interviene ma non rilascia interviste, non ha neppure un ufficio stampa tanto il tema della comunicazione è irrilevante per lei e mantiene un ruolo meramente cerimoniale durante le visite di Stato. Inoltre non sta facendo nulla per contrastare gli enormi problemi del Paese, che conta su un prestito del Fondo Monetario Internazionale per stare a galla. Bouden Romdhane: una donna al servizio del potere maschile dunque. Sicura di sé al punto da non indossare il velo durante una visita in Arabia Saudita ma incapace di farsi valere? Possibile, probabile. Eppure il potere dei simboli rimane forte e non si può non pensare che magari i tunisini e le tunisine, fieri di essere il Paese dell’area meno chiuso nei confronti delle donne, si affezioneranno all’idea di presentarsi al mondo con una guida diversa.