Anno LXXXVII 29 gennaio 2024
Cooperativa Migros Ticino
G.A.A. 6592 Sant’Antonino
Settimanale di informazione e cultura
edizione
05 MONDO MIGROS
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SOCIETÀ
TEMPO LIBERO
ATTUALITÀ
CULTURA
Ad Airolo in collaborazione con l’Università della Svizzera italiana nasce la Casa della sostenibilità
Non serve sempre decretare un vincitore, esistono anche giochi infiniti che ci arricchiscono la vita
Un inizio tutto in salita per Beat Jans, il nuovo ministro di Giustizia e polizia
La National Gallery compie due secoli e tra i suoi tesori conserva la tela dell’esecuzione Lady Jane Grey
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◆
Ma quanto è folle Un occhio di riguardo la nostra normalità per le differenze di genere Amo e al tempo stesso detesto l’idea di «normalità», di cui discute a pag. 8 Stefania Prandi con l’autrice del libro Sono normale?. Lasciamo da parte l’ardua definizione del concetto, che è diversissima a seconda del contesto: oggi per un abitante di Gaza sono normali le bombe che piovono dal cielo, per un ticinese del fondovalle lo sono le code di veicoli sulle strade tra le 6 e le 8 del mattino. Ciò detto, amo la normalità in quanto antidoto alla fascinazione per tutte quelle posture fisiche o mentali che pretendono di essere «valori» per il solo fatto di distinguersi dalla «norma». Con la scusa di rifuggire la banalità e l’omologazione delle vite, delle scelte e dei pensieri ordinari – tipo andare in vacanza al mare o in montagna, ritenere che la Terra sia rotonda, dar retta ai medici invece che a internet – c’è chi sdogana teorie e prassi scellerate, supponenti e il più delle volte stupide. Tipo disprezzare le persone semplici e/o con ambizioni comuni e rifiutare per principio le tesi dominanti: non perché possono essere sbagliate, ma perché sono universalmente diffuse. Dimenticando che se lo sono, il più delle volte è perché hanno superato empiricamente la selezione naturale del tempo, dimostrando nei fatti di essere valide. Bene che esistano spiriti intelligentemente critici, pronti ad andare controcorrente, male che alcuni si spaccino per tali senza una reale cognizione di causa, per il bisogno narcisistico di distinguersi a tutti i costi dalla massa. In tempi incattiviti come i nostri, la normalità è quindi uno strumento di autodifesa dall’arroganza, dall’assurdo, dalle bufale confezionate e diffuse a getto continuo per i più svariati, e di solito meno nobili, interessi. C’è una normalità «sacra» che dobbiamo tenerci stretta e per la quale i nostri antenati hanno dovuto sacrificare tempo, ingegno e a volte la vita stessa. Comprende tutte quelle condizioni esistenziali, quei servizi, quei comportamenti, quelle idee e quelle caratteristiche che rendono possibile e auspicabile la vita in società: la pace, ad esempio, le libertà fondamentali, l’accesso ai servizi minimi per un’esistenza dignitosa (casa, cibo, acqua, cure mediche, sicurezza) e il corrispondente impegno di ognuno di noi per «guadagnarseli» (se possibile lavorando, rispettando le leggi e i codici di vita civile, pagando le tasse...). In molti Paesi questo tipo di normalità è
Lorenzo De Carli – Pagina 3
un sogno, un lusso alieno. In piccola parte può esserlo anche da noi: pensiamo a quanto sia illogica la differenza salariale tra uomini e donne per le medesime prestazioni e/o i medesimi meriti, ad esempio. Brutta è invece la normalità del «grigiore», del «quieto (e smunto) vivere», dell’adesione acritica alla voce del più forte, o alla moda del momento: non perché è moda, che ha quasi sempre una sua dignità, ma perché la seguono tutti e un momento dopo non vale più nulla, «costringendo» il gregge globale a sposare la moda successiva sborsando il conquibus necessario per raggiungerla. La normalità più pericolosa, tuttavia, è quella che pretende di imporre uno standard etico basato sulle caratteristiche fisiche e mentali della maggioranza della popolazione, quelle dell’«uomo medio». Se, per dire, il referente universale della normalità è un maschio caucasico tra i 20 e i 30 anni, alto 1,77, tendenzialmente eterosessuale (vedi l’articolo di Lorenzo De Carli a pag. 3), i «diversi», tutte le persone che differiscono dal modello originale, rischiano di apparire inadeguate e minacciose. Allora «il concetto di “normalità” può creare aspettative irrealistiche, causando disagio e senso di fallimento a livello individuale e una vera e propria discriminazione a livello sociale», come osserva nell’articolo citato all’inizio l’esperta Sarah Chaney. Ma chi è meno normale? Chi sceglie di vivere controcorrente o chi sta nelle righe senza accorgersi dell’insensatezza che ci sommerge? Suggeriamo la lettura di Papalagi, un libro di Erich Scheurmann scritto, nella finzione letteraria, da un capo tribù polinesiano in visita in Occidente a inizio 900. Ogni Papalagi (uomo bianco), scrive il capo tribù, «ha un mestiere. È molto difficile spiegare che cosa sia un mestiere. È qualcosa che si dovrebbe aver voglia di fare, ma il più delle volte non se ne ha». O ancora: «Il Papalagi è povero perché desidera tanto ardentemente le cose. [...] Quanto più un uomo è un vero europeo, tanto maggiore è il numero delle cose di cui ha bisogno». È solo un pamphlet satirico, ma svela quanto sia stravagante la nostra normalità: i nostri sprechi, gli eccessi non solo alimentari, il correre da destra a manca che sfibra noi e avvelena il pianeta, per esempio. Alla fine, anche la nostra follia è diventata normale.
Lin Pan
Carlo Silini
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Anno LXXXVII 29 gennaio 2024
azione – Cooperativa Migros Ticino
MONDO MIGROS
Soddisfazione e impegno in azienda
Management ◆ Sono stati resi noti i risultati del sondaggio che Migros Ticino ha svolto presso collaboratrici e collaboratori; ne parliamo con Rosy Croce, responsabile del dipartimento Risorse umane Oggi più che mai l’impegno e la soddisfazione sul posto di lavoro sono un atout che vanno ad aggiungersi a una serie di altri aspetti prioritari quando si parla di impiego. In altre parole, in un mercato difficile e complesso come quello del nostro Cantone, confrontato, soprattutto nel commercio al dettaglio, con una concorrenza spietata, il fatto che collaboratrici e collaboratori di Migros Ticino attribuiscano al proprio datore di lavoro un’ottima valutazione di engagement (impegno/ coinvolgimento/ingaggio dei dipendenti), indica la presenza, oltre che di ottime prestazioni, anche, appunto, di quegli atout di cui sopra. Migros Ticino, dunque, un’azienda in cui il 90% delle collaboratrici e dei collaboratori risiede nella regione, attraverso il sondaggio collaboratori ancora una volta ha visto premiati i propri sforzi atti a migliorare costantemente le condizioni di lavoro. E questo in un equilibrio spesso sottile poiché – va ricordato – Migros Ticino non è un’azienda a scopo di lucro, e dunque ha margini di guadagno molto ridotti. Il sondaggio collaboratori del 2023 si è focalizzato in particolare sulla misurazione del coinvolgimento e dell’impegno dei collaboratori (engagement), un indicatore considerato fondamentale per la gestione strategica delle risorse umane, poiché si basa sull’attaccamento emotivo di un/a dipendente a un’azienda. E i risultati in questo senso sono più che positivi, infatti la percentuale di soddisfazione arriva a ben 87 punti percentuali, situandosi di due punti (2%) al di sopra del benchmark (parametro di riferimento) svizzero (per il quale sono state prese in considerazione 93 aziende per un totale di 57’787 intervistati). Rosy Croce, responsabile delle risorse umane, nonché esempio di leadership al femminile sul nostro territorio (lo ricordiamo, Migros Ticino,
Rosy Croce, responsabile del dipartimento Risorse umane di Migros Ticino, nonché esempio di leadership al femminile.
con i suoi 1400 impiegati all’interno di tutte le società a lei correlate, è la più grande azienda privata del Cantone) sottolinea come i risultati del sondaggio confermino la bontà dei presupposti su cui è impostato il lavoro di Migros Ticino. «Tutta l’azienda, dal management alla collaboratrice e al collaboratore, è oggi molto più attenta e sensibile ai temi legati all’engagement lavorativo. Sappiamo che chi si sente coinvolto e sta bene in azienda, si ingaggia più volentieri. È una politica importante da coltivare affinché l’esito di questa strategia si possa concretizzare in risultati tangibili in termini di soddisfazione delle collaboratrici e dei collaboratori, di motivazione e di ottimizzazioni al servizio clienti». Per mantenere un alto standard di qualità lavorativa è però necessario un contratto di lavoro robusto. «Esatto,» continua Rosy Croce, «il Contratto Collettivo di Lavoro Nazionale Mi-
gros (CCLN, in vigore dal 1983 e rinegoziato ogni quattro anni; il vigente CCLN è valido per il periodo 20232026) offre alcune delle migliori condizioni lavorative in Svizzera. Questo include un sistema di pensionamento altamente favorevole per i dipendenti, e i cui premi vengono finanziati per due terzi dall’azienda. Inoltre, il CCLN promuove un equilibrio tra lavoro e vita personale, sostenendo modelli di lavoro flessibili fornendo un maggior numero di opzioni per le vacanze (da 5 a 7 settimane) nonché un congedo maternità di 18 settimane, pagate al 100%, un congedo paternità di 4 settimane pagate e ulteriori 4 settimane su richiesta. Entrambi i congedi sono fruibili in modo flessibile. Infine, il contratto promuove anche lo sviluppo professionale e la formazione continua, fornendo un supporto supplementare per i giorni di vacanza extra utilizzati a tale scopo». Dal sondaggio è emerso che i di-
pendenti di Migros Ticino sono favorevoli alla Strategia e alla Leadership dell’azienda, al suo impegno sostenibile, all’orientamento al cliente e alla diversità e inclusione. A questo proposito, ribadisce ancora Rosy Croce, «nella gestione delle risorse umane, dal 2007 Migros Ticino applica la metodologia M-FEE, una sistematica a sostegno della conduzione, dello sviluppo e della retribuzione di collaboratrici e collaboratori basata sulla conduzione partecipativa e l’equità di trattamento, che permette di motivare e coinvolgere i collaboratori». Ed è grazie a questo impegno che la Cooperativa può fregiarsi del prestigioso Label «Friendly Work Space», un riconoscimento di Promozione Salute Svizzera alle aziende che dimostrano di avere introdotto una gestione sistematica della salute in azienda. Ottenuto nel 2015 e riconfermato ogni 3 anni, il prossimo assessment avrà luogo nel corso del 2024.
Airolo ospita il Migros Ski Day
Sponsoring ◆ Un’indimenticabile giornata di famiglia sulle piste da sci (nel segno dell’inclusività) e la gara Grand Prix Migros: il 24 e il 25 di febbraio ad Airolo vi aspetta un ricco programma
Sulle piste con tutta la famiglia Domenica 25 febbraio, ad Airolo, a tutte le famiglie che amano lo sci si prospetta un’indimenticabile giornata sulle piste a un prezzo speciale: in occasione del Migros Ski Day ci si potrà scatenare sugli sci o sullo snowboard insieme ai membri della propria famiglia per soli Fr. 95.–*. Il Migros Ski Day è uno Unified Event ufficiale e si svolge in collaborazione con la fondazione Special Olympics Switzerland (presente in veste ufficiale ad Airolo il 25 febbra-
Concorso «Azione» mette in palio 3 pacchetti famiglia per il Migros Ski Day di domenica 25 febbraio ad Airolo. Per partecipare al concorso mandare una e-mail a giochi@azione.ch (oggetto «Migros Ski Day»), indicando i dati della propria famiglia entro il 4 febbraio 2024. Buona fortuna!
io): ci teniamo a sottolineare che anche le famiglie con bambini e ragazzi affetti da disabilità sono benvenuti al Migros Ski Day. L’iscrizione avviene allo stesso modo, per mezzo del modulo d’iscrizione al Migros Ski Day.
Condizioni di partecipazione e costi • 3-5 persone per famiglia, con sci o snowboard • A lmeno un bambino nato nel o dopo il 2010, massimo due adulti • Possibilità di un massimo di due partecipazioni per famiglia e per stagione. La tassa d’iscrizione ammonta a Fr. 120.– per famiglia. * I membri di Famigros e di SwissSki usufruiscono di uno sconto di Fr. 25.– e pagano per la giornata sciistica con tutta la famiglia solo Fr. 95.–.
Giovani campioni crescono grazie al Grand Prix Migros La nuova stagione del Grand Prix Migros è stata inaugurata a Sa-
as-Fee il 7 gennaio. Le dieci gare di qualificazione successive hanno avuto o avranno luogo in diversi comprensori sciistici della Svizzera. L’evento si concluderà in grande stile con la finale di stagione (Hoch-Ybrig, tra il 21 e il 24 marzo 2024), in cui i bambini e i ragazzi più veloci delle rispettive gare di qualificazione si sfideranno in due giornate di gara. Per ogni partecipante verrà realizzato un video individuale.
La tappa ticinese del Grand Prix Migros 2024 avrà luogo sabato 24 febbraio ad Airolo. Non mancate di mettere alla prova il vostro talento sugli sci grazie alle due giornate organizzate insieme a Swiss-Ski! Info e iscrizioni www.gp-migros.ch/it; www.migros-ski-day.ch/it
A cena al Bellavista
Concorso ◆ Vincete i due ticket in omaggio per la serata all’insegna della cassoeula del 10 febbraio 2023 Nel corso di tutto l’inverno il Buffet Bellavista, situato a 1200 metri lungo la linea che porta in vetta al Monte Generoso, offrirà una serie di serate all’insegna della buona cucina regionale. Il ristorante, da poco ristrutturato, grazie a un’atmosfera intima e curata, incanterà gli ospiti. «Azione» estrarrà a sorte settimanalmente due ticket per scoprire la bellezza del Monte Generoso. Il prossimo appuntamento è il 10 febbraio con una serata dedicata alla cassoeula. Il menù comprende insalata di puntarelle, nervetti, patate e salsa verde, cassoeula, torta alle castagne. Dove e quando Serata cassoeula sabato 10 febbraio 2024, Buffet Bellavista. Orari: partenza da Capolago ore 19.00, discesa da Bellavista ore 21.30. Prezzi: Trenino e menù a 3 portate, bevande escluse: adulti CHF 60.–; ragazzi 6-15 anni CHF 40.–; bambini 0-5 anni treno gratuito. Info e prenotazioni www.montegeneroso.ch
Concorso «Azione» mette in palio due ticket per il 10 febbraio 2024 che includono ciascuno un biglietto andata e ritorno a bordo del trenino a cremagliera e la cena di tre portate. Per partecipare al concorso mandare una e-mail a giochi@azione.ch (oggetto «Cassoeula»), indicando i propri dati, entro domenica sera 4 febbraio 2024 (estrazione 5 febbraio). Buona fortuna!
Un’escursione Forum elle ◆ Il 7 febbraio alla scoperta del bosco di Redde
Forum elle, l’organizzazione femminile della Migros, invita a una gita nel bosco di Redde, alla scoperta della chiesetta di San Clemente, XIII sec. e dell’omonimo antico villaggio, abbandonato nel XVI sec. Si potranno osservare i muri e le fondamenta della Torre medievale di Redde. Sosta a Ponte Capriasca per ammirare una copia dell’Ultima Cena di Leonardo da Vinci nella Chiesa di Sant’Ambrogio, attribuita a un suo allievo, Cesare da Sesto. Risalita a Tesserete, passando da Sala Capriasca. Dove e quando Mercoledì 7 febbraio 2024 ore 13.30 ritrovo parcheggio centro sportivo di Tesserete Iscrizioni: entro venerdì 2.2.2024, e-mail: simona.guenzani@forumelle.ch; tel. 091 923 8202. Info: www.forum-elle.ch
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Anno LXXXVII 29 gennaio 2024
azione – Cooperativa Migros Ticino 3
SOCIETÀ ●
Ingegnere e architette in rete Uno sguardo femminile sul territorio: le attività e i progetti di Rete Donna e SIA
Cervello e cuore in medicina La psiche ha una forte capacità nell’influenzare la funzione del nostro apparato cardiovascolare
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La Casa della sostenibilità Sta per essere inaugurata ad Airolo, intervista alla coordinatrice Cristina Morisoli-Gianella
È giusto geolocalizzare i figli? Cresce il numero di genitori che usano dispositivi e app per sapere sempre dove si trovano i figli
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Un mondo solo a misura d’uomo
Saggistica ◆ Dalla medicina alla scienza, passando per il design: l’ambiente in cui viviamo è disegnato da uomini per uomini
Dagli anni Ottanta a oggi, la bibliografia degli studi di genere è cresciuta costantemente, anche perché una lettura «gender sensitive» – cioè a dire attenta agli aspetti di genere – non solo ha investito pressoché ogni branca delle scienze umane, ma ha prestato attenzione anche a scienze quali matematica, biologia, fisica, chimica, e informatica. Editore con spiccata attenzione per le implicazioni sociali degli sviluppi scientifici, Codice Edizioni ha pubblicato Per soli uomini, un libro di Emanuela Griglié e Guido Romeo che nel sottotitolo circoscrive l’ambito del loro studio: Il maschilismo dei dati, dalla ricerca scientifica al design. Gli argomenti trattati spaziano dalla medicina all’urbanistica, dal giornalismo all’intelligenza artificiale e per l’appunto dalla ricerca scientifica al design – mostrando come, a tutt’oggi, il mondo che ci circonda è fatto a una misura d’uomo tale, da renderlo non solo poco vivibile per le donne ma anche per molti uomini. Il mondo del design è emblematico di una standardizzazione che esclude una grande percentuale di donne ma anche una buona parte di uomini: «perché alla base c’è sempre lui: il “reference man” o uomo standard, maschio, caucasico, tra i 20-30 anni, alto un metro e 77 e di 70 chili. Il mondo è disegnato per lui». E per questo motivo, se molte donne hanno difficoltà ad assicurarsi adeguatamente ai tientibene negli autobus perché troppo alti, per parte crescente degli uomini i sedili di treni e aeroplani sono troppo stretti e scomodi perché quasi nessuno di loro ha le proporzioni di Modulor, la scala di proporzioni inventata da Le Corbusier. Per soli uomini documenta la nuova sensibilità urbanistica caratterizzante le città che hanno l’ambizione di diventare più vivibili. Proprio perché città scandinave come Copenaghen, Malmö e Helsinki già da tempo si distinguono per il grado elevato di attenzione a una mobilità che confina l’automobile ai margini, Vienna è l’esempio sul quale Emanuela Griglié e Guido Romeo si soffermano più diffusamente. Negli ultimi trent’anni, infatti, la città austriaca ha rinnovato la sua pianificazione urbanistica, definendo nuove priorità: «Era il 1991 e allora l’espressione gender planning nemmeno esisteva, ma le indagini sulla mobilità mostravano in modo chiaro che i pedoni erano fantasmi, semplicemente non comparivano nella testa dei decisori pubblici. Si pensava solo al trasporto pubblico e automobilistico e si iniziava a guardare alle bici, ma non ai pedoni. E la maggioranza dei pedoni era costituita da donne». I nuovi approcci urbanistici più
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Lorenzo De Carli
meditati tengono conto del fatto che le strade non possono più essere progettate assecondando il vecchio paradigma che prevedeva la netta distinzione tra casa e luogo di lavoro, pianificando strade come rette tracciate dall’una all’altra, generalmente percorse da maschi che vanno e vengono dal lavoro; ma mobilità più fluide e miste, che devono assecondare le necessità di una popolazione variegata che si muove per andare a scuola, a far la spesa, alla temporanea sede di coworking, al pronto soccorso, dal dentista – senza soffrire l’ostacolo di strade che privilegiano il transito delle automobili ad ogni costo, ostacolando il moto fluido di chi va a piedi o in bicicletta. «Insomma, quando si guarda al genere, la mobilità urbana non è affatto neutrale e resta ferma a modelli elaborati nella seconda metà del XIX secolo, quando fu costruita la prima metropolitana, nell’ottica di collegare le aree più periferiche con i luoghi di lavoro, concentrati in centro, con una netta divisione tra spazio privato domestico (femminile) e spazio pubblico-produttivo (maschile)». Copenaghen dimostra che è possibile una mobilità fluida, attiva e sicura, dove sono le donne professioniste che portano i bambini al nido in bicicletta a regolare il traffico del mattino. Un capitolo della ricerca condotta
da Emanuela Griglié e Guido Romeo è dedicato alla medicina, mettendo subito in rilievo che «da oltre un secolo la ricerca medica mira a sviluppare rimedi e procedure cliniche prima di tutto per pazienti uomini». Basterebbe pensare alle malattie cardiovascolari: solo recentemente si è cominciato a prestare attenzione alla specificità femminile dei segnali premonitori. «Mal di stomaco, respiro affannato, nausea e a volte solo fatica e ansia» sono sintomi femminili, ai quali non si dava ascolto con la necessaria attenzione, facendo convergere le preoccupazioni verso quel «dolore al petto» che, viceversa, contraddistingue i segnali premonitori maschili. Ma anche gli studi stessi sono orientati verso preoccupazioni maschili: quelli sulla disfunzione erettile, per esempio, sono cinque volte maggiori degli studi sulla sindrome premestruale, alla quale è soggetto il 90% delle donne. Mentre patologie invalidanti come l’endometriosi, che colpisce un decimo delle donne in età fertile e per la quale ancora non esistono cure, tendono a essere poste in secondo piano, nonostante i costi elevati per curare i sintomi associati. Anche là dove sembrerebbe non dovrebbero esserci differenze tra uomini e donne, vale a dire nel campo delle interfacce informatiche, emerge
un’attenzione prevalente per gli uomini. Le interfacce vocali, per esempio, che presto prenderanno il sopravvento su quelle grafiche per impartire ordini ai dispositivi che ci attorniano, percepiscono la voce maschile come più intelligibile perché addestrate in contesti di sviluppo industriale prevalentemente maschili: «nel 2016, Rachael Tatman, ricercatrice linguistica all’Università di Washington, ha scoperto che il riconoscimento vocale di Google aveva il 13% di probabilità in più di comprensione con parole pronunciate da un uomo». Quanto discriminante possa essere il milieu di sviluppo lo si comprende bene – spiegano Emanuela Griglié e Guido Romeo – quando ci si occupa di riconoscimento visivo (un altro campo in pieno sviluppo) che si dimostra essere meno efficace quando i tratti degli utenti si discostano da quelli dell’americano medio – nonostante rappresenti solo il 4 % della popolazione globale. Anche in questo caso, gli autori di Per soli uomini dichiarano che un’attenzione molto più pronunciata per le donne creerebbe le condizioni per una più viva attenzione per le differenze etniche, a vantaggio di tutti perché dietro l’angolo c’è l’Internet delle cose, alle quali comunicheremo a voce e che sapranno riconoscerci per le nostre fattezze.
Quanto importante sia il valore dell’inclusività tecnologica lo si comprende bene, ponendo attenzione alle caratteristiche che hanno le automobili: «Le donne sono mediamente più basse e tendono ad avvicinare il sedile al volante per arrivare meglio ai pedali. Così facendo, assumono quasi sempre una posizione di guida che non è quella standard e in caso di collisioni frontali sono di conseguenza soggetti a maggior rischio». Non è un caso, perché «i crash test sono stati eseguiti solo con manichini modellati sul maschio medio», mentre in alcuni casi il manichino femminile è stato testato solo sul sedile posteriore. Emanuela Griglié e Guido Romeo hanno fatto emergere come «per soli uomini» siano progettate molte cose della vita quotidiana. È possibile e necessario correggerne molte, «perché un mondo a misura solo di uomini va stretto a tutti»; tuttavia per gli autori è necessario che avvenga una svolta radicale a livello dei decisori – che non possono più essere solo «maschi bianchi e sessantenni». Bibliografia Emanuela Griglié, Guido Romeo, Per soli uomini. Il maschilismo dei dati, dalla ricerca scientifica al design, Torino, Codice Edizioni, 2021.
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MONDO MIGROS
Pasta di qualità 100% italiana
Novità ◆ Il marchio italiano Sgambaro approda sugli scaffali di Migros Ticino con un assortimento variegato di pasta dall’ottimo rapporto qualità-prezzo. Pierantonio Sgambaro, presidente della Sgambaro Spa, ci spiega cosa contraddistingue questa azienda famigliare
LA RICETTA DEL PASTIFICIO SGAMBARO
Pierantonio Sgambaro presidente della Sgambaro Spa
Signor Sgambaro, qual è la storia e la filosofia della vostra azienda? Fondato da mio nonno Tullio Sgambaro nel 1947, Sgambaro è uno storico pastificio veneto che produce pasta di altissima qualità, frutto del sapere trasmesso all’interno della famiglia e delle nostre intuizioni. L’obiettivo di Sgambaro è da sempre portare sulla tavola dei consumatori una pasta buona, sana e sicura. Siamo una delle poche realtà medio-grandi del settore ad avere un «mulino interno». Utilizziamo dal 2001 esclusivamente grano duro prodotto in Italia: una scelta che da un lato assicura il controllo della filiera e, dall’altro, si traduce in un rapporto diretto e stretto con i fornitori. Sempre alla ricerca del grano perfetto, proprio la collaborazione con gli agricoltori ci ha portati negli anni alla selezione di grani duri speciali e grani antichi come il farro monococco per produrre a livello industriale pasta dalle elevate proprietà nutrizionali. Cosa caratterizza la vostra produzione? L’attenzione alla materia prima – che selezioniamo e controlliamo costantemente – e la capacità di macinare il grano nel nostro mulino, lavorandolo nel modo che riteniamo ideale per mantenerne i profumi, il gusto, le qualità organo-
Un primo piatto goloso, facile e veloce, che vede come protagonista la pasta condita con una crema fresca e delicata a base di succo e buccia di limone. Provare per credere!
lettiche e anche la salubrità e l’assenza di residui. E poi siamo un pastificio con la cultura del territorio e del rispetto del nostro ambiente. Adottiamo molte iniziative per l’e-
cosostenibilità e siamo convinti che una pasta buona debba esserlo per tutti, incluso l’ambiente. È importante rispettare la terra, per poterne trarre i migliori frutti.
Cosa vuol dire produzione sostenibile per voi? Cosa fate concretamente per salvaguardare l’ambiente? Compriamo solo grano al 100% italiano, spronando gli agricoltori a produrlo di qualità, e questo abbassa notevolmente le emissioni nel trasporto. Lo stabilimento produttivo è alimentato con sola energia verde e per quanto possibile tutti noi utilizziamo mezzi elettrici nei nostri spostamenti. Abbiamo inoltre investito in nuove confezionatrici per poter realizzare i pack dei prodotti in film carta, per limitare l’uso della plastica al massimo della nostra capacità, e questo è un processo in costante sviluppo. E poi, personalmente, come amante della natura e della montagna, non posso esimermi da operazioni di piantumazione, riforestazione e manutenzione dei boschi.
La gamma Sgambaro a Migros Ticino Linguine; Mezze Penne Rigate; Casarecce; Mini Cuccioli; Fusilli; Paccheri; Penne rigate; Spaghetti 500 g Fr. 1.50 Trivelline Integrali Bio; Penne Rigate Grano Duro Integrale Bio 500 g Fr. 1.95 Penne Rigate Khorasan Bio; Fusilli Khorasan Bio 500 g Fr. 4.90 (già in assortimento)
Ingredienti per 4 persone • 500 g Spaghetti Grano Duro Etichetta Gialla Per il brodo di limone • 2 l di acqua • 6 foglie di limone • scorze di limone, • 1 limone intero • Sale q.b Per l’olio al limone • scorza di 2 limoni, • 100 g di olio di vinaccioli Per la mantecatura • 50 g di burro • 30 g parmigiano • 35 g olio di oliva Come procedere
1. Per prima cosa prepariamo il brodo che servirà per la cottura della pasta: riempite la casseruola di acqua, inserite circa sei foglie di limone, 4-5 scorze e 1 limone intero tagliato a metà. Mettete sul fuoco e portate ad ebollizione. 2. Passiamo poi all’olio al limone: mettete le scorze del limone in un frullatore, unite l’olio di vinacciolo e frullate alla massima potenza. Una volta frullato, lasciate riposare l’olio circa 15/20 minuti e poi filtratelo con un setaccio. Se necessario aiutatevi con il dorso di un cucchiaio, schiacciandolo sulla maglia del setaccio per recuperare tutto il succo del limone. 3. Successivamente mettete a cuocere gli spaghetti fino a metà del tempo di cottura. Scolateli e preparatevi a risottarli: mantenendo la padella sul fuoco aggiungete il brodo aromatizzato al limone preparato in precedenza. 4. In questa fase è importante non toccare gli spaghetti per circa due minuti, in quanto l’acqua li ha inteneriti ma non effettivamente cotti, dunque si romperebbero. 5. Passati circa due minuti potete iniziare a mantecarli fuori dal fuoco. 6. Aggiungete l’olio, il burro e il parmigiano e mantecate. Una volta mantecati, se la consistenza della pasta risulta molto compatta, aiutatevi con delle gocce di brodo, che vi aiuteranno a correggere la consistenza per arrivare a una cremosità perfetta. Ora potete impiattare… aggiungendo l’olio al limone, un’ultima grattugiata di limone, e buon appetito!
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MONDO MIGROS
La prelibatezza delle Lofoten
Attualità ◆ Come consuetudine, in questo periodo nei reparti pesce Migros arriva il pregiato merluzzo norvegese Skrei, una bontà sostenibile disponibile per poco tempo
La Norvegia è nota non solo per i vichinghi, i fiordi, i villaggi pittoreschi e le aurore boreali, ma da questa nazione scandinava proviene anche una chicca gastronomica, attualmente disponibile alla Migros fino a marzo: il merluzzo Skrei. Questo pregiato pesce, considerato l’oro delle isole Lofoten, si caratterizza per la carne soda e tenera, dal sapore delicato e dal tipico colore bianco perlaceo. Le sue inconfondibili proprietà organolettiche sono dovute al lungo viaggio che ogni anno intraprende per riprodursi, percorrendo un migliaio di chilometri tra il Mar Glaciale Artico di Barents e l’arcipelago delle Lofoten, dove le acque sono più calde e temperate. Durante questo viaggio lo Skrei aumenta la sua massa muscolare, che si riflette nella qualità della carne. Inoltre, essa risulta povera di grassi ma ricca di proteine nobili. Lo Skrei venduto alla Migros è certificato secondo le direttive MSC per una pesca sostenibile. Solo le aziende che soddisfano i severi criteri del Norwegian Seafood Export Council
Azione 30% Filetto dorsale di merluzzo Skrei MSC per 100 g Fr. 3.95 invece di 5.65 dal 30.1 al 5.2.2024
relativi a pesca, selezione, conservazione e trasporto possono commercializzare il pesce. I quantitativi di Skrei pescati e i metodi di pesca so-
no strettamente regolamentati e costantemente controllati dalle autorità norvegesi in modo da preservare gli stock ittici.
Il merluzzo Skrei è una prelibatezza cucinato nelle più svariate modalità: al vapore, affogato, al forno, arrostito o grigliato. In Norvegia amano con-
sumarlo semplicemente cotto al vapore, accompagnato da una salsina leggera per non comprometterne la straordinaria sapidità. Annuncio pubblicitario
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Napoli, tra i cunicoli e le gallerie Reportage ◆ Uno spaccato ipogeo della città partenopea con le affascinanti escursioni tra lunghi cunicoli, reperti archeologici, grandi Tommaso Stiano, testo e foto
Tutta la forza delle erbe svizzere Approfittatene subito!
Nel percorso di «Napoli Sotterranea» si osserva una grande nicchia adibita a cava per l’estrazione dei blocchi di tufo attraverso un pozzo scavato appositamente.
È quasi inimmaginabile quanta storia stratificata possa nascondersi nel sottosuolo, dove continua a vivere anche solo per farsi ammirare dai turisti una realtà tutta da scoprire. Parliamo di quanto sta al di sotto delle strade e dei quartieri, che ha preso forma nei lunghi secoli della storia di Napoli, a partire dai Greci. Nelle viscere dei suoi rioni centrali si trovano infatti quaranta chilometri di gallerie scavate dall’uomo di cui però solo un decimo sono accessibili al pubblico. Noi cominciamo da tre itinerari ben definiti e fruibili solamente con l’accompagnamento di guide preparate.
Sono in totale circa quaranta i chilometri di gallerie scavate dall’uomo sotto Napoli, e di queste solo un decimo è accessibile al pubblico Inoltriamoci dunque nel ventre della metropoli che ci riserva gradite escursioni, specialmente quando fa un caldo insopportabile, o troppo freddo; è, infatti, molto piacevole scendere a grande profondità sotto il livello del suolo perché la temperatura è costante attorno ai 20°C o anche meno.
La «Napoli Sotterranea» L’itinerario denominato «Napoli Sotterranea» che parte da Piazza San Gaetano 68 (Basilica di San Paolo MagDa 2 pezzi giore, centro storico) è quello più attempato e maggiormente frequentato, dura poco più di un’ora e permet-
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te di conoscere le vicende millenarie della città. L’ingresso si trova proprio sotto la scritta omonima scolpita sulla traversa dell’entrata e accompagnata da una figura apotropaica (mascherone) che, secondo la superstizione locale, ha la funzione di tenere lontani gli spiriti malvagi dalle gallerie sotterranee. In gruppo scendiamo i 136 scalini e a 40 m dalla superficie ci fermiamo davanti a una grande nicchia allestita a cava. Sotto la città troviamo soprattutto una pietra d’origine lavica chiamata tufo giallo napoletano, un ottimo materiale edile, di buona consistenza e facile da lavorare. La guida ci spiega che prima di tutto furono i Greci, attorno al V-IV secolo a.C., a scavare dei pozzi per estrarre i blocchi di pietra che servirono a costruire ai bordi del mare un nuovo insediamento chiamato NeapoNeá polis cioè lis, dal greco Nuova città. Asportato il tufo, rimanevano molte cavità ipogee e i cunicoli di collegamento che i Romani trasformarono in rete idrica con grosse cisterne d’acqua potabile alimentate dal Serino, un fiume a 70 km di distanza. Questa fonte sotterranea rimase in funzione per molti secoli, ampliandosi fino all’Ottocento, con un bel po’ di pozzi pubblici e privati che permettevano di attingere acqua fresca direttamente dai palazzi e alimentare le fontane dei rioni in espansione. Ci fermiamo nel bel mezzo di un’enorme cisterna e con il naso all’insù scorgiamo le bocche dei pozzi rischiarate dalla luce del cielo. La guida ci narra dell’avventuroso mestiere di pozzaro (il munaciello) che teneva puliti va-
sche e condotti arrampicandosi su per i cunicoli verticali grazie e dei fori nelle pareti tuttora ben visibili. L’acquedotto fu ampliato nel periodo borbonico (1734-1861) in modo che tutti gli abitanti avessero acqua potabile a portata di mano. Stringendo un po’ le spalle, passiamo in fila indiana attraverso un cunicolo molto stretto e buio (tutti subito con la luce dei cellulari accesa) e arriviamo a una cisterna con acqua limpida sopra la quale si apre un pozzo; si tratta di una raccolta d’acqua a scopo dimostrativo perché l’approvvigionamento idrico di Napoli da parecchio tempo non si serve più dell’antico acquedotto. L’ambiente che percorriamo è molto umido tant’è che in una postazione hanno piazzato un orticello illuminato da lampade a dimostrazio-
ne che si possono coltivare piante senza l’uso d’acqua, solo con l’umidità; un esperimento in corso d’opera. Ci fermiamo poi davanti a una cancellata dove scorgiamo un piccolo carro armato e resti militari a testimoniare che durante la Seconda guerra mondiale queste gallerie sono state trasformate in rifugi anti aerei e hanno salvato i napoletani dai pesanti bombardamenti degli Alleati, tranne in un caso che fece 72 vittime per una bomba penetrata dall’apertura di un pozzo. Usciamo ora all’aperto, ma l’itinerario di «Napoli Sotterranea» non è concluso perché la guida ci porta a vedere i resti dell’antico Teatro Romano oggi inglobati in un’abitazione. Entriamo e ci lasciamo sorprendere da un letto a scomparsa che libera una boto-
la, la apriamo e scendiamo una rampa di scale per vedere ciò che rimane del manufatto romano risalente al I-II secolo d.C. Cava per tufo, cisterne per acqua potabile, rifugio antiaereo e adesso itinerario per turisti, insomma, un sotterraneo polivalente e un’ora al fresco per 2500 anni di storia della città.
Il percorso Laes Molto simile, il secondo percorso, quello offerto dalla Libera associazione escursionisti sottosuolo che parte da Vico Sant’Anna di Palazzo 52 e poi sbuca in via Chiaia. Anch’esso dura un’ora e comincia da una lunga scala a chiocciola che scende a circa 40 m sotto le stradine dei Quartieri Spagnoli.
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La Galleria Borbonica
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Non lontano da Piazza Plebiscito, in Vico del Grottone 4, troviamo l’entrata del terzo itinerario di esplorazione della città sotterranea, la Galleria Borbonica. Questa è di gran lunga più recente dei cunicoli descritti sopra perché venne promossa da Ferdinando II di Borbone, che regnò su Napoli dal 1830 al 1859, come via di fuga dal Palazzo Reale verso Piazza della Vittoria che si trova vicino al mare. L’escursione guidata dura un’ora e un quarto e comprende alcune tappe che permettono alla guida di spiegare l’evoluzione del cunicolo che, in fase di esecuzione, s’intersecò con l’acquedotto ancora in uso. Dopo l’Unità d’Italia (1861), queste cavità furono abbandonate e riempi-
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Il criptoportico è uno dei resti archeologici del periodo romano visibili sotto la Basilica di San Lorenzo Maggiore.
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Lo sguardo femminile sul territorio e la città
Professioni tecniche ◆ Nuovo slancio, interessanti iniziative e progetti concreti del Gruppo regionale ticinese di Rete Donna e SIA Stefania Hubmann
Puntare su progetti concreti, inclusivi e di valore per promuovere il ruolo e le competenze delle donne nelle professioni tecniche a favore di una migliore qualità di vita per tutta la popolazione. È ripartita secondo questi principi e con nuovo slancio circa un anno fa l’attività del Gruppo regionale ticinese di Rete Donna e SIA, che a livello nazionale festeggia quest’anno il ventesimo di fondazione (vedi sotto). Fra le prime iniziative promosse dal nuovo comitato figurano il confronto su progetti di rilievo che trasformeranno le città del cantone, in modo da favorire un approccio che tenga conto della sensibilità delle professioniste operanti in questo settore e del ruolo della donna nella società. Da promuovere anche il dialogo all’interno e all’esterno della Rete, in particolare con le nuove generazioni pronte a impegnarsi nell’ampio ventaglio di professioni che Rete Donna e SIA riunisce.
Tra le iniziative promosse vi sono il ciclo Donne per la città iniziato a Locarno e una serie di incontri con gli studenti della SUPSI
In Ticino il Gruppo regionale Rete Donna e SIA desidera avvicinarsi alle giovani generazioni per fungere da stimolo nella scelta formativa delle carriere tecniche. (Freepik.com)
La responsabile regionale Valentina Donnini, di professione architetta, parte proprio da questo punto forte della Rete Donna e SIA. «Architettura, ingegneria, fisica della costruzione, sviluppo dei materiali, ma pure ambiente, design e fotografia architettonica sono alcuni esempi dei settori che includiamo e che contribuiscono a forgiare i luoghi di vita pubblici e privati. Diversi di questi settori sono ancora considerati prettamente maschili, per cui è necessario valorizzare la presenza femminile e le competenze che la medesima apporta». Sebbene costituita sotto il cappello della SIA (Società svizzera degli ingegneri e degli architetti), la Rete, presente in Ticino dal 2016, è un ente che abbraccia molteplici professioni e che, a prescindere dal nome, è aperto a tutti coloro che ne condividono i principi di inclusività e parità, indipendentemente dal loro genere. «Il nuovo impulso scaturito dall’assemblea dell’anno scorso – prosegue Valentina Donnini – ha favorito la promozione di incontri bimestrali interni per approfondire temi specifici e innovativi legati alla diversità delle professioni rappresentate. Per presentare gli argomenti si punta sulla professionalità delle componenti della Rete, pur non escludendo la presenza di esperte esterne». Attualmente le prime sono una trentina, ma l’obiettivo è di incentivare l’adesione che è gratuita e può avvenire online. Il progetto principale avviato l’anno scorso, promosso e coordinato dalla vice responsabile regionale Katia Accossato, è intitolato Donne per la città. In confronto a… Locarno-Ascona, Bellinzona, Lugano, Mendrisio-Chiasso. Si tratta di un ciclo di incontri pubblici i cui principi sono applica-
ti alle realtà territoriali dei centri urbani dove si tengono le conferenze. «L’obiettivo – spiega la promotrice – è di migliorare la partecipazione delle donne alla comprensione dei cambiamenti che interessano questi centri. Considerare lo sguardo femminile in tale contesto significa tenere presente una diversa percezione dello spazio, una lettura del territorio propria al genere e uno specifico modo di viverlo, favorendo nel complesso una maggiore integrazione». Cinque i punti essenziali per l’architetta Accossato: «È necessaria innanzitutto trasparenza nella comunicazione dei progetti che trasformano la città, favorendo i processi partecipativi sia nella programmazione de-
azione
Redazione Carlo Silini (redattore responsabile) Simona Sala Barbara Manzoni Manuela Mazzi Romina Borla Natascha Fioretti Ivan Leoni
gli spazi, sia nella realizzazione delle opere. In secondo luogo vanno contrastati gli effetti negativi dei cambiamenti climatici con azioni che mirano a una efficace e virtuosa gestione del verde pubblico. Desideriamo inoltre soffermarci sul miglioramento della qualità degli spazi collettivi attraverso aree ed edifici da riconvertire, operazione che passa da un maggior ascolto delle istanze. Promuovere luoghi aggregativi (con particolare attenzione ai giovani e alle donne) e favorire l’inserimento lavorativo, così come la partecipazione pubblica delle donne sono altre due azioni del “manifesto” delle conferenze». Il primo incontro si è svolto lo scorso novembre a Locarno. Cosa
è emerso dal confronto con popolazione e politici? Risponde la vice responsabile per il Ticino di Rete Donna e SIA: «A Locarno sono stati sviscerati diversi temi che per la nostra associazione rappresentano altrettanti stimoli nel contribuire a rispondere ai bisogni manifestati dalla società. Alcuni spunti sono mirati come la costruzione dei bandi di concorso e la relativa presenza femminile, altri riguardano la valorizzazione del patrimonio verde e la visione paesaggistica d’insieme, al di là dei confini comunali. In generale è emersa la necessità di un maggior coinvolgimento delle donne nelle politiche urbane a tutti i livelli, dalle figure professionali nei settori del-
In giugno in Ticino la Rete nazionale festeggia i vent’anni Sarà il Ticino e in particolare la Città di Lugano a ospitare il prossimo 21 giugno l’assemblea generale annuale di Rete Donna e SIA, assemblea che segna il ventesimo di fondazione della Rete a livello nazionale. Quest’ultima, alla quale aderiscono circa 600 professioniste di vari settori, è copresieduta dal 2021 da Paola di Romano e Alexa Bodammer, in precedenza già membre del comitato. La prima, residente a Ginevra dove è titolare di uno studio di architettura, è di origine ticinese e ha contribuito a promuovere il rilancio del Gruppo al Sud delle Alpi. «I sei gruppi regionali (Berna, Basilea, Ginevra, Ticino, Vaud e Zurigo) – spiega ad “Azione” – lavorano sul territorio, sviluppando le tematiche inerenti le rispettive realtà, mentre a livello nazionale ci occupiamo di strategie
globali. Ciò significa anche portare le questioni rilevanti per le donne attive nel settore della costruzione all’attenzione della Società svizzera degli ingegneri e degli architetti (SIA)». Nel 2022 è stata ad esempio lanciata la piattaforma «sia NOW!» acronimo di Network Of Women, per valorizzare le competenze e le esperienze dei profili femminili. «Le ingegnere e le architette attive in Svizzera – prosegue la copresidente nazionale – possono così godere di maggiore visibilità in ambienti che sono tuttora a forte prevalenza maschile. L’elenco, che conta circa 260 iscritte, permette di individuare con facilità profili da inserire in team di progettazione e in giurie, come pure da interpellare per conferenze o mostre. Operatrici e operatori del settore possono insomma tro-
vare velocemente la professionista di cui hanno bisogno. La rete favorisce inoltre il contatto fra le professioniste stesse, ad esempio quando si è chiamati a operare in una parte del Paese che si conosce meno e per la quale è utile poter contare su un contatto in loco». La Rete Donna e SIA segue con attenzione ciò che avviene in tutta la Svizzera, grazie anche alla copresidenza di due professioniste attive rispettivamente in Romandia e nella regione di Zurigo. Da sottolineare come diversi progetti locali, fra i quali spiccano quelli dei gruppi regionali di Ginevra, Vaud e Basilea, siano dedicati a bambini e adolescenti, per favorire il superamento delle barriere sociali legate al genere nelle future scelte professionali.
la costruzione alle cittadine attive in altri ambiti, alle donne di ogni età impegnate in associazioni per la promozione sociale e culturale». I prossimi appuntamenti con le conferenze territoriali sono fissati in primavera a Bellinzona e in autunno a Lugano con a seguire Mendrisio-Chiasso. Al riguardo la responsabile Valentina Donnini precisa che «la scelta dei quattro centri urbani per l’avvio di questo progetto non significa voler escludere il resto del cantone. In un secondo tempo intendiamo infatti occuparci anche delle Valli e della loro realtà territoriale e sociale». Nei prossimi mesi partirà anche un altro progetto che sta a cuore alla rappresentante di Rete Donna e SIA. Spiega Valentina Donnini: «Abbiamo previsto una serie di incontri con gli studenti della Scuola universitaria professionale della Svizzera italiana (SUPSI) per facilitare l’inserimento delle giovani generazioni nel mondo del lavoro attraverso il confronto con l’esperienza professionale e umana maturata sul campo dalle nostre affiliate. La scelta di coinvolgere in primo luogo la SUPSI è in sintonia con l’eterogeneità dei suoi percorsi formativi. Gli incontri sono infatti aperti a tutti gli studenti. Per noi si tratta anche di capire quali siano le aspettative e i valori del mondo giovanile rispetto ai temi di cui ci occupiamo come le pari opportunità e la ricerca di un equilibrio fra vita professionale e famiglia. Il fil rouge di questi primi quattro incontri sarà il rapporto con la committenza, quindi un aspetto concreto legato all’esperienza professionale più che alla formazione. A seguito di questa esperienza pilota abbiamo intenzione di coinvolgere anche altre realtà formative». Consapevole che questa iniziativa si rivolge ai giovani con la scelta formativa già compiuta, la Rete desidera avvicinarsi in futuro anche alle fasce di età antecedenti per fungere da stimolo nella direzione delle carriere tecniche. Entrambe titolari di uno studio di architettura, Valentina Donnini e Katia Accossato, così come altri membri, rivolgono lo sguardo anche al resto della Svizzera e oltre il confine, cercando di attivare la SIA International ed esplorare le dinamiche del territorio di frontiera. Per costruire i luoghi di vita del futuro, la concezione e la partecipazione femminili sono essenziali, poiché riflettono la pluralità di visioni presenti nella società. Con le sue molteplici iniziative, alcune mirate, altre rivolte alla popolazione nel suo insieme, la Rete Donna e SIA affronta le questioni legate al territorio e alla cultura della costruzione privilegiando questo approccio senza mai perdere di vista la realtà, sia essa una visione d’insieme o un contesto locale. Informazioni e iscrizioni donna.TI@sia.ch www.sia.ch www.sia.now.ch
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Un dialogo aperto vicendevole e trilaterale
Malattie cardiovascolari ◆ La connessione fra cuore, mente e psiche influenza in modo determinante la nostra salute
Secondo i dati dell’Ufficio federale della sanità pubblica (Ufsp), le malattie cardiovascolari sono la causa di morte più frequente in Svizzera, così come nel resto del mondo: «Nel nostro Paese sono responsabili di più di 20mila decessi all’anno, pari a circa un terzo del totale». Dobbiamo innanzitutto soffermarci sul concetto di «malattie cardiovascolari»: nella sua accezione più generica, si riferisce a quelle malattie che interessano cuore e sistema circolatorio. Ma secondo la Classificazione statistica internazionale delle malattie e dei problemi sanitari correlati (International Statistical Classification of Diseases and Related Health Problems) dell’Organizzazione mondiale della sanità, il ventaglio delle patologie che le compone è ben più ampio. Oltre alle malattie cardiovascolari note come ipertensione, cardiopatie ischemiche e via dicendo, comprende anche le patologie cerebrovascolari (del sistema vascolare del cervello) come l’ictus ischemico (infarto cerebrale) e l’ictus emorragico (emorragia all’interno del cervello). Questa premessa per sottolineare la stretta interconnessione fra cuore e cervello, pure suggellata dalla Fondazione svizzera di cardiologia che, a questo scopo, nel 2020 ha lanciato una campagna nazionale per aiutare a riconoscere i sintomi di un ictus (www.ictuscerebrale.ch) e permettere in tal modo di agire tempestivamente per salvare delle vite. Sono ormai lontani i tempi in cui Cartesio separava drasticamente corpo e cervello: le neuroscienze hanno percorso parecchia strada dagli anni Novanta, quando il neurologo Antonio Damasio confutava questa separazione, affermando nel suo libro L’errore di Cartesio che «è come se noi fossimo posseduti da una passione
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Maria Grazia Buletti
per la ragione: un impulso che ha origine nel nucleo del cervello, permea gli altri livelli del sistema nervoso, ed emerge sotto forma di sentimenti (…)». Così sdoganava il legame fra ragione e sentimento, fra psiche, cervello e corpo. «La correlazione cuore-cervello esiste: anatomica e funzionale, e l’influenza fra questi due organi è enorme», esordisce il professor Sebastiano Marra, cardiologo torinese che mette «correlazione» fra virgolette, «su quello che può essere un accordo perfetto tra i due organi che non possono non funzionare in sintonia». Il cuore è una pompa che fornisce ossigeno al cervello, e il cervello ha assolutamente bisogno di quell’ossigeno perché eventuali carenze («per ostruzioni, per emorragie vascolari») non sono tollerate che per pochissimi minuti: «Quindi il rischio di danni grandi, gravi e permanenti è molto alto». Marra aggiunge che il cervello «non è solo tessuto. È portatore meraviglioso di un patrimonio che ci permette di essere qui, consapevoli e
coscienti: la psiche, ovvero la capacità intellettiva». Cuore e cervello connessi, insieme alla psiche che, a sua volta: «Ha una forte capacità nell’influenzare la funzione del cuore e dell’apparato cardiovascolare». Tutto ciò non è stato scoperto ieri, spiega il collega neurologo Riccardo Torta: «Il reciproco condizionamento è stato definito per la prima volta nel 1628 dal medico inglese William Harvey, il primo a descrivere accuratamente il sistema circolatorio umano e le proprietà del sangue pompato dal cuore in tutto il corpo. Egli intese pure come gli aspetti emozionali fossero in grado di danneggiare cuore e circolazione». I due specialisti concordano sulla grande intuizione di Harvey: «La medicina avanza per intuizioni, prima ancora di avere verifiche che, peraltro, sono giunte molto dopo, negli anni Cinquanta, quando Hans Selye definì come «Sindrome generale di adattamento» quella risposta che l’organismo mette in atto quando è soggetto agli effetti prolungati di diversi stimoli stressogeni». Dunque: il dia-
logo aperto fra cuore, psiche e cervello è vicendevole e trilaterale. Per quanto attiene l’influenza del cuore sul cervello, il professor Marra ricorda la responsabilità dell’ipertensione che: «Può influenzare la struttura delle arterie, comprese quelle del cervello; può avanzare con l’età, quindi aumenta il rischio di un evento cardiovascolare, così come aumenta il rischio di un evento cerebrale importante». Oltre all’ipertensione: «Anche il Foramen ovale pervio (ndr: foro aperto fra cuore destro e sinistro che, generalmente, causa un aumento della pressione nel ventricolo destro e, di conseguenza, una mescolanza tra sangue venoso e sangue arterioso in grado di causare ictus ed embolie), fumo, colesterolo, sovrappeso e obesità, fibrillazione atriale, insieme a fattori genetici, sono “tanta roba” che ci danneggia e può creare problemi sull’asse cuore-cervello». A sua volta, anche la psiche può danneggiare il cuore: «Alcuni elementi come ansia e depressione possono attivare dei precisi fattori fisiopatologici, quindi non è solo un discorso “mentale”: da anni si osserva un’alta incidenza di depressione tra soggetti cardiopatici per vari motivi, ma c’è da dire che la depressione è diventata un fattore di rischio autonomo indipendente ed è un dato di fatto che i pazienti depressi hanno un rischio da due a quattro volte superiore rispetto ai non depressi di sviluppare una cardiopatia ischemica o un danno vascolare». Tutto è così collegato che è facile immaginare anche l’esistenza di «una depressione del sistema immunitario che, a sua volta, può portare gradualmente allo sviluppo di una malattia cardiovascolare cronica». Il quadro si chiude: «Altre problematiche del si-
stema nervoso autonomo alterato possono innescare una tendenza alla tachicardia, tendenza alla regolazione della frequenza cardiaca e tendenza ipertensiva». Il professor Paolo Cerrato pure neurologo, fa a sua volta un punto della situazione sulle malattie che colpiscono il cervello, annoverando quelle neurodegenerative: «In realtà non sono naturali: una volta si viveva 40 anni e non c’erano malattie cardiovascolari, né quelle neurovegetative. Si moriva di un sacco di altre cose, di denutrizione o malattie infettive». Oggi bisogna fare i conti anche con Alzheimer e Morbo di Parkinson: «La popolazione invecchia e le malattie cerebrovascolari acquisiscono un peso epidemiologico sempre più importante». Prevenzione è la parola d’ordine, oltre che la via adeguata da seguire: «I fattori di rischio agiscono nell’ombra, si influenzano a vicenda, spesso non danno sintomi. Ipertensione, diabete, colesterolo sono abbinabili; chi è in sovrappeso fa poca attività fisica (ndr: un toccasana per la prevenzione della salute), più facilmente avrà diabete, più facilmente fumerà. Prevenire è meglio che curare, ma come fare?». Anche sulle raccomandazioni i medici concordano ad attribuire al medico di famiglia la regia principale: «Perché conosce il paziente e le sue abitudini di vita. Non fumare, praticare attività fisica e sportiva, sono pratiche che agiscono su peso e pressione: 30 minuti a passo sostenuto ogni giorno, in luogo salubre. Limitare alcol, correggere l’alimentazione con più frutta, verdura fresca, limitare sale nella dieta. E controllare pressione, glicemia e valori del sangue». Raccomandazioni certamente note a tutti, ma che vanno messe scrupolosamente in pratica.
E tu, sei davvero normale?
Pubblicazioni ◆ La storica Sarah Chaney ricostruisce l’origine dell’idea di «normalità» e il suo potere di discriminare Stefania Prandi
nessuna corrispondeva precisamente a Norma, neppure la vincitrice, Martha Skidmore. La scultura non ritraeva una figura reale: il suo corpo, infatti, così come quello del fidanzato, era stato modellato su un campione selezionato di ragazze tra i diciotto e i vent’anni, prive di disabilità, sane e quasi esclusivamente bianche. Ancora ai giorni nostri, gran parte di ciò che crediamo «normale» si basa su dati provenienti da una piccola porzione dell’umanità: occidentale, istruita, industrializzata e benestante. Il
trend della «normalità» è iniziato nel 1800, dice Sarah Chaney ad «Azione». In quel periodo gli astronomi usavano un metodo statistico per calcolare l’errore nelle loro misurazioni e lo raffiguravano con una curva a campana, mettendo al centro la misura considerata corretta. «L’astronomo e statistico belga Adolphe Quetelet pensò di applicare lo stesso criterio alle persone e lo estese a tutte le caratteristiche umane, dall’altezza all’abilità artistica. Nel suo studio sull’argomento, pubblicato nel 1835, sosteneva che l’uomo idea-
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Capita a tutti di paragonarsi agli altri. Ci si ritrova a pensare che, per essere più contenti, certe volte basterebbe avere un corpo, un carattere e delle relazioni più «normali». Ma qual è esattamente l’idea che abbiamo della «norma»? Sarah Chaney, storica e ricercatrice al Queen Mary Centre di Londra (i suoi articoli sono stati pubblicati sulla rivista «The Lancet») cerca di rispondere a questa domanda nel suo ultimo libro, intitolato Sono normale? (Bollati Boringhieri). Tra le pagine racconta che, nel 1945, il «Cleveland Plain Dealer», il principale quotidiano dell’Ohio, indisse il concorso Are you Norma, Typical Woman? («Sei Norma, la donna tipica?»). Le partecipanti dovevano inviare al giornale tutte le loro misure, dall’altezza al peso, passando per busto, fianchi, vita, coscia, caviglia e numero di piede. Lo scopo era quello di trovare la donna più somigliante alla scultura realizzata dal sessuologo Robert L. Dickinson e dallo scultore Abraham Belskie. Norma – questo il nome della statua – aveva anche un compagno, ribattezzato Normman: le due figure incarnavano sia una media statistica sia un ideale. Quasi 4’000 donne parteciparono al concorso, ma
le fosse quello medio. Questo slittamento tra ideale e medio è continuato da allora». Nel corso del 1800 Francis Galton portò l’idea di normalità all’estremo, promuovendo l’eugenetica, «una pseudoscienza che prometteva di migliorare la razza umana attraverso la riproduzione». All’inizio del 1900 l’eugenetica si era insinuata in gran parte della medicina occidentale e nel 1907, in Indiana, fu approvata la prima legge al mondo che rendeva obbligatoria la sterilizzazione per «criminali, idioti e stupratori» in custodia statale. La regola di punire chi deviava dalla «norma» assunse, come sappiamo, dimensioni abominevoli in Europa, durante il nazismo, culminando con l’olocausto. Così come l’eugenetica, gli standard di bellezza femminile che continuano ancora oggi hanno radici storiche. «Francis Galton si appostava agli angoli delle strade per misurare di nascosto la bellezza delle donne che passavano, usando degli strumenti di sua invenzione. Tramite questo processo del tutto soggettivo, Galton stabilì che le donne di Londra erano le più belle e quelle di Aberdeen le più “ripugnanti”. Per gli scienziati tardo-vit-
toriani come Galton, la bellezza delle donne era particolarmente importante per comprendere l’evoluzione umana, seguendo la teoria della selezione sessuale di Charles Darwin». Sono normale? include anche alcuni questionari che, negli ultimi due secoli, sono stati utilizzati per valutare la salute mentale e i tratti emotivi della popolazione. Quello sulla personalità, stilato dall’Università di Chicago nel 1928, è particolarmente interessante. L’ho compilato rispondendo «sì» a domande come «avete paura di cadere quando vi trovate in posti elevati?», «vi spaventano molte cose?», «fantasticate su eventi improbabili?» e «vi confondete spesso in posti nuovi?». Ho scoperto che le mie risposte rientrano tra quelle considerate «nevrotiche». Secondo gli standard di cent’anni fa, non sarei rientrata nella «norma». D’altra parte, ci ricorda Chaney, «il concetto di “normalità” può creare aspettative irrealistiche, causando disagio e senso di fallimento a livello individuale e una vera e propria discriminazione a livello sociale». E lancia un invito: «La prossima volta che userete questa parola, forse, potreste fermarvi a riflettere con più attenzione su ciò che intendete per davvero».
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Promuovere la cultura dello sviluppo sostenibile Ticino ◆ In marzo ad Airolo sarà inaugurata la Casa della sostenibilità nata dalla collaborazione tra il Comune e l’USI Guido Grilli
Un microcosmo da dove osservare gli accadimenti del pianeta e in cui riflettere su come poter creare una società più sostenibile per l’oggi e soprattutto per le generazioni future. Ad Airolo, immersa nella regione del San Gottardo, il 21 marzo sboccerà con la primavera la Casa della sostenibilità, una prima assoluta alle nostre latitudini. Per scoprire i contenuti del progetto, realizzato dall’Università della Svizzera italiana e dal Comune di Airolo, che vede l’inaugurazione di un luogo di formazione e promozione della cultura dello sviluppo sostenibile – non solo per l’ateneo, ma anche per le scuole e il pubblico – abbiamo interpellato Cristina Morisoli-Gianella, coordinatrice operativa della Casa della sostenibilità. Sede dell’iniziativa sarà l’ex ufficio postale, un edificio su quattro piani, che al termine della sua ristrutturazione contemplerà 23 posti letto, un pianoterra in cui si svolgeranno i corsi, uno spazio seminariale, refettorio, cucina. E, ancora, uno spazio di dialogo per accogliere corsi improntati alla condivisione, alla discussione e alla riflessione. Come Galileo, i suoi ospiti potranno simbolicamente puntare il cannocchiale verso lo spazio alpino, scrutarne gli orizzonti e rivolgere la propria attenzione alle sfide odierne che sempre più richiedono rivoluzioni e innovazioni tecnologiche, ambientali, sociali ed economiche per una società ben funzionante. Cristina Morisoli-Gianella, come è sorta l’iniziativa? Il progetto di una Casa della sostenibilità è nato da un’idea dell’ex sindaco di Airolo, Franco Pedrini e dell’ex rettore dell’USI, Boas Erez. Avevano entrambi necessità che si sono incontrate: da un lato c’era l’esigenza per l’ateneo di approfondire il tema della sostenibilità – molti studi parlano della natura delle Alpi come un
do circondati da uno spazio alpino prezioso, che ci permette di toccare con mano alcune delle grandi sfide con cui siamo confrontati, saranno previste anche uscite sul territorio. E lo stesso avverrà per il Seminario alpino riservato agli studenti dell’USI della durata di due giornate e mezzo che rientrerà nei loro programmi formativi con la possibilità di riflettere sulla sostenibilità, alla presenza di professori attivi in diversi ambiti. Airolo si manifesterà dunque come un’aula a cielo aperto.
Un’uscita sul territorio durante il Seminario alpino 2023 per gli studenti dell’USI. (casasostenibilita.usi.ch)
luogo privilegiato per osservare alcuni dei grandi temi concernenti lo sviluppo sostenibile – e dall’altro il Comune aveva uno stabile in disuso, dal momento che l’Ufficio postale si è trasferito di qualche metro, lasciando vuoto questo bell’edificio inserito nel centro del paese. Nel 2020 sono iniziati a concretizzarsi i primi scambi che hanno portato alla realizzazione di uno studio di fattibilità, grazie al sostegno dell’Ente regionale di sviluppo Bellinzonese e Valli, portato avanti da L’ideatorio USI e dallo Studio Gendotti SA per la parte architettonica. Centrale, per dare avvio al progetto, è poi stato il contributo da parte del Canton Ticino di 1 milione di franchi per la ristrutturazione dell’edificio, nel frattempo acquistato dal Comune. Ora ci apprestiamo all’inaugurazione che avrà luogo in due tappe: il 21 marzo per media, sponsor e partner che consentirà di far partire le attività della
Casa della sostenibilità; e il 1° agosto giorno in cui si svolgeranno le porte aperte con un programma di proposte riservate alla popolazione. Vi sarà pure un planetario astronomico, come quello presente a L’ideatorio di Cadro… Sì, il planetario astronomico sarà presente come uno strumento didattico per comprendere in maniera concreta, attraverso anche l’esplorazione dei pianeti a noi vicini, che non esiste un pianeta B. Inoltre, vedere la nostra Terra da una prospettiva cosmica è di una bellezza disarmante, di fronte a ciò la necessità di tutelare e saper custodire il nostro pianeta si fa particolarmente concreta. Con i suoi 23 posti, il planetario potrà accogliere anche il pubblico e le scuole. Oltre ai seminari alpini, la Casa della sostenibilità si aprirà quindi
anche alle scuole e al pubblico? Esatto. Le attività delle scuole saranno coordinate in collaborazione con L’ideatorio USI, che avrà così un’antenna alpina. Per le scuole, oltre alle proiezioni nel nuovo planetario, saranno sviluppati dei laboratori dall’autunno prossimo proprio sul tema della sostenibilità. Ne è un esempio un’iniziativa pilota a cui stiamo lavorando, che vedrà la luce ad aprile, con due classi del Liceo Lugano 1, all’interno di un loro progetto di istituto. Come saranno programmate le attività ad Airolo? Le attività per le scuole saranno su prenotazione. Per il pubblico avremo un programma di eventi che tenterà di esplorare il tema della sostenibilità facendo capo anche a linguaggi diversi, come il teatro o il cinema, che andranno ad aggiungersi a conferenze e incontri. Naturalmente, essen-
Quali apporti potrà offrire la Casa della sostenibilità alla comunità scientifica? Ad Airolo, per il momento almeno, non si svolgerà un’attività di ricerca – questa continuerà a tenersi all’USI. A mia conoscenza, tuttavia, l’interesse non manca. La Casa della sostenibilità di Airolo diventerà dunque un polo dedicato allo sviluppo sostenibile. Stanno giungendo già da qualche tempo richieste da parte di istituti di ricerca d’Oltralpe, dall’università di Zurigo, da associazioni ed enti che operano nel campo della sostenibilità, che vogliono far capo al nostro Centro come luogo di partenza per approfondire determinate tematiche: da architetti che intendono riflettere su un’urbanistica più sostenibile ad aziende che si stanno impegnando per una maggiore sostenibilità nel loro operato, fino a ricercatrici da tutt’Europa che intendono riflettere sulla sostenibilità in ambito informatico. L’interesse dimostrato è incoraggiante. Va inoltre evidenziato che una Commissione scientifica e didattica creata ad hoc segue le attività della Casa e ne stabilisce le priorità. Il centro non è da intendersi come una casa montana: chiunque passi dalla struttura di Airolo è chiamato a portare a casa una riflessione sulla sostenibilità. Il responsabile del centro è Giovanni Pellegri, che sarà pure docente dei corsi per gli studenti USI.
La città che non c’è (più)
Il Ticino nel cybermondo – 4 ◆ Lo stato del Wyoming, la regione del Molise e la cittadina di Bielefeld sono luoghi accomunati da una caratteristica: non esistono. O almeno è quanto sostengono le cyberbufale. Eppure Bielefeld ha uno straordinario archivio Giovanna Caravaggi
Conosci un abitante di Bielefeld? Ci sei mai stato? Conosci qualcuno che c’è andato? Se anche a una sola di queste domande rispondi di sì, fai necessariamente parte della cospirazione.
Le teorie satiriche del Complotto di Bielefeld ci conducono alla scoperta delle fotografie di Hermann Albrecht Insinger Perché Bielefeld non esiste. Lo dice internet, formidabile canale che a queste teorie del complotto satiriche ha regalato vasta notorietà e diffusione, ma che mi ha anche permesso di conoscere l’esistenza, questa molto solida e concreta, di un ricchissimo patrimonio fotografico che proprio nell’archivio della città di Bielefeld è conservato. Si tratta del fondo riferibile a Hermann Albrecht Insinger (1827-1911), commerciante, politico e
appassionato fotografo olandese che ha immortalato con migliaia di scatti i moltissimi luoghi visitati. Straordinarie le fotografie scattate a Parigi durante l’esposizione universale del 1900, ma non meno affascinanti sono le quasi 400 immagini a noi più famigliari di Lugano e dintorni, di Bellinzona, del Mendrisiotto e dei loro abitanti. Sono rimasta folgorata dallo sguardo un po’ sfocato di una bambina vestita di bianco, apparizione eterea e angelica che fissa l’obiettivo. La scarna didascalia originale riportava «Lugano. Fête de charité. Mlle Paronelli», l’anno il 1901. Ho voluto saperne di più. Grazie a un blog e ai quotidiani dell’epoca riesco a scoprire che la bambina è Fede Paronelli nelle candide vesti di Beneficenza, ritratta nel giardino di Villa Ceresio, ora scomparsa, durante la festa organizzata dal dottor Basilio Bonardi e dal pubblicista Federico Paronelli per la raccolta fondi a favore della creazione
Lugano, giardino di Villa Ceresio, festa di beneficenza, ritratto di Fede Paronelli. (© Stadtarchiv Bielefeld, Bestand 200,158/Bildarchiv Hermann Albrecht Insinger)
dell’Ospedale italiano, aperto l’anno successivo. Due giorni di concerti, spettacoli, aste, bancarelle, figuranti, imbonitori da fiera e vasto pubblico, dal Ticino e dalla Lombardia, in una serie di splendidi ritratti.
I Paronelli, originari di Asti, risiedevano allora a Lugano: padre e figlia con la mamma Matilde Arietti. Basta digitare questi nomi per scoprire storie affascinanti e colpi di scena come nei migliori roman-
zi d’appendice e per apprendere del rilievo che la famiglia ha avuto nel mondo culturale ticinese dell’epoca. Ma è soprattutto Fede a stagliarsi in tutto lo splendore che già i suoi 8 anni sembrano prefigurare. Cresciuta con un’educazione non convenzionale, poliglotta, formata alla musica, alla recitazione, all’astronomia, alla filosofia, ai testi classici e a quelli scientifici, fonda una scuola, tiene letture pubbliche, è poetessa e scrittrice. Allieva prediletta di Camille Flammarion, a lei sono stati dedicati un asteroide e l’appellativo di «Signora delle stelle» per la sua lunga appassionata opera di insegnante e divulgatrice scientifica presso il Planetario Hoepli di Milano. In collaborazione con l’Ufficio dell’analisi e del patrimonio culturale digitale, Divisione della cultura e degli studi universitari, Dipartimento dell’educazione, della cultura e dello sport.
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SOCIETÀ
Geolocalizzare i figli cura solo le paure dei genitori Famiglia ◆ Cresce il numero degli adulti che usano dispositivi e app di geolocalizzazione per sapere dove si trovano i figli, ma c’è chi avverte: non aiuta i ragazzi e in gioco ci sono fiducia e autonomia
Sono sempre più i genitori che dotano i propri figli di dispositivi di geolocalizzazione, per mezzo dei quali poter sapere dove essi si trovano. Smartphone con app di localizzazione, orologi connessi, segnalatori GPS da attaccare agli zaini: gli strumenti a disposizione sono sempre più numerosi. Anche gli AirTag, messi in commercio nel 2021 da Apple – che aveva specificato come questi dispositivi di localizzazione fossero pensati per il ritrovamento di oggetti, come chiavi e valigie – vengono di fatto utilizzati per tracciare la posizione di figli ed animali domestici.
Sapendo di essere monitorati, i bambini potrebbero non sviluppare abilità critiche come sapere dove si trovano e tenere traccia del tempo Negli Stati Uniti – Paese precursore per quel che riguarda le tendenze – uno studio del Pew Research Center di Washington, riportava che già nel 2018 il 16% dei genitori aveva geotaggato i propri figli di età compresa tra i 13 e i 17 anni tramite il telefono. Difficile avere un quadro preciso di quanto il fenomeno della sorveglianza
digitale sia diffuso in Svizzera. «Non sono a conoscenza di dati specifici al riguardo e non penso che il Ticino si differenzi dalle altre regioni della Svizzera o dell’Europa; l’impressione è comunque che un numero discreto di genitori approfitti delle nuove disponibilità tecnologiche per geolocalizzare i movimenti dei figli», afferma Pierfranco Longo, presidente della Conferenza cantonale dei genitori. Genitori che non sono nemmeno gli unici ad utilizzare le possibilità offerte dalla tecnologia in questo campo. Vi sono infatti alcuni Comuni in Svizzera che hanno scelto – con il consenso dei genitori – di dotare gli alunni dei primi anni di scuola di strumenti di localizzazione per avere un controllo sulla presenza sugli scuolabus oppure per mappare i percorsi e identificare delle aree potenzialmente pericolose. La tecnologia d’altronde – in questo come in altri ambiti – esiste ed evolve e per alcuni scegliere di non usufruire delle informazioni che ci può mettere a disposizione può portare ad una certa esitazione. «Credo d’altra parte che ogni genitore sappia quanto sia importante che il figlio si renda progressivamente indipendente nei vari aspetti della vita, anche nell’affrontarne i rischi – continua Longo – oltre a ciò,
va precisato come in molti Comuni del nostro Cantone i bambini siano incoraggiati da scuola e genitori a compiere il tragitto da e verso casa autonomamente, e questo già dal primo ciclo delle elementari; un percorso di autonomia cui penso sia coerente aspirare, come famiglia». Quanto fin qui detto consente già di percepire come il tema della tendenza da parte dei genitori a sorvegliare i figli tramite applicazioni e dispositivi sia più complesso e sensibile di quanto possa sembrare a prima vista: «Sullo sfondo giocano un ruolo importante il dovere di sorveglianza dei genitori e la nuova interpretazione che a questo concetto deve essere data dai legislatori e dai genitori stessi alla luce della nuova tecnica, ma anche il diritto del minore alla protezione dei propri dati personali e della propria privacy e, infine, la centralità del suo interesse», spiega il presidente della Conferenza cantonale dei genitori. A riprova del fatto che la tematica sia semplice solo in apparenza, si aggiunge la constatazione che se la geolocalizzazione di bambini e ragazzi è utile per far sentire i loro genitori al sicuro, questa onnipresenza di legame rischia di esser d’ostacolo al naturale e graduale processo di se-
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Alessandra Ostini Sutto
parazione dei figli. Man mano che il bambino cresce, deve infatti imparare che i genitori non sono sempre presenti e disponibili e che, a volte, dovrà arrangiarsi con le proprie risorse. Secondo Sally Beville Hunter, assistente professore clinico di pediatria presso l’Università del Tennessee, Knoxville – che al tema ha dedicato un articolo sul «New York Times» – sapendo di essere monitorati, i bambini potrebbero non apprendere abilità critiche come sapere dove si trovano e tenere traccia del tempo, che sono ancora in via di sviluppo durante l’adolescenza. Oltre a ciò, il fatto di essere costantemente controllati, può far percepire il mondo come pericoloso, probabilmente più di quanto non lo sia in realtà, con ripercussioni facilmente immaginabili, per esempio sull’ansia, che è già di per sé più presente nella nuova generazione rispetto a quelle che l’hanno preceduta. Il fenomeno di cui stiamo parlando rientra in una tendenza più ampia che vede i bambini perdere progressivamente autonomia nello spazio pubblico. Una tendenza di cui ha con ogni probabilità esperienza chi è adesso genitore, o nonno, di un bambino o di un adolescente, influenzata, anche, dalla copertura mediatica dei tragici casi di cronaca che purtroppo di tempo in tempo si verificano, oltre che da un’atmosfera generale sempre più ansiogena, nella quale i genitori diventano iper protettivi verso i propri figli e pessimisti verso la società. Nella loro quotidianità, i genitori di oggi si trovano spesso a doversi destreggiare tra vari impegni, loro e dei figli, e a vivere la sensazione di dover tenere tutto sotto controllo. Elementi, questi, che possono effettivamente trovare una risposta, facile, immediata e rassicurante in una delle tante possibilità che la tecnologia mette a disposizione. Tra le ragioni addotte dai genitori per motivare la loro scelta di sorvegliare i figli tramite applicazioni e localizzatori è la sicurezza a figurare al primo posto. «La geolocalizzazione viene utilizzata per curare le paure dei genitori riguardo allo spazio urbano e alle sue incertezze», afferma Yann Bruna, docente di sociologia all’Università di Parigi-Nanterre, che ha pubblicato un articolo sulla sorveglianza parentale e la geolocalizzazione degli adolescenti sulla rivista scientifica «Tic & Société» nel 2022:
«Sono ben consapevoli che non impedisce che si verifichi un incidente, ma sottolineano che se succede qualcosa, sanno dove sono i loro figli». Questi strumenti non possono però essere considerati la soluzione: «Credo sia importante che ogni genitore si faccia un’idea critica della differenza tra sentirsi sicuri e la sicurezza del figlio, e distingua tra bisogni dei figli e proprie scelte. Personalmente ritengo importante conservare il primato della relazione, in cui ci si parla di come vanno le cose fuori casa, riconoscendo ai figli la libertà di raccontarsi dal proprio punto di vista, ma anche di coltivare il concetto di privacy, già tanto messo a dura prova da un modello di società iper-connessa», commenta Pierfranco Longo. A tal proposito, Sonia Livingstone (docente presso il dipartimento di media e comunicazione della London School of Economics and Political Science), intervistata sul sito della Bbc, ritiene che nel lungo periodo il fenomeno della sorveglianza digitale possa ripercuotersi negativamente sulla relazione genitore-figlio. Per esempio, usare un’app per scoprire dove si trova il ragazzo o cosa stia guardando online, soprattutto se a sua insaputa, potrebbe portarlo a ingegnarsi per disattivare il rilevamento o ancora a compiere delle scelte più rischiose. Quando invece la cosa più importante nella relazione sarebbe proprio che il bambino impari a fidarsi del genitore e viceversa. Le famiglie che scelgono di ricorrere ad un’app di monitoraggio, orologi connessi o simili, sarebbe bene che spiegassero le proprie motivazioni ai figli, facendo in modo che sia per loro chiaro che questa scelta non è fatta per mancanza di fiducia. Altro elemento fondamentale è che l’uso di tali dispositivi venga adattato nel tempo, man mano che il bambino cresce e aumenta il bisogno di indipendenza. Come dicevamo, infatti, anche i ragazzi hanno diritto alla privacy, in particolare quando stanno diventando dei giovani adulti. Durante l’adolescenza sarebbe infatti giusto che i genitori non sapessero sempre ciò che fa il figlio, perché è anche facendo le proprie esperienze e correndo qualche rischio che si ha la possibilità di evolvere e diventare indipendenti; esperienze che potrebbero invece venir inibite se il ragazzo si dovesse sentire costantemente sotto controllo.
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TEMPO LIBERO ●
Reportage dal sottosuolo di Napoli Affascinanti itinerari tra storia, architettura, archeologia fino ad esplorare le cosiddette stazioni d’arte della metropolitana partenopea
Alpinismo: in solitaria al Monte Legnone Il brivido di arrampicarsi lungo una parete rocciosa o ghiacciata per raggiungere la vetta più alta del settore occidentale delle Alpi Orobie
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Quando non si finisce mai di giocare
Tra il ludico e il dilettevole ◆ Non tutte le sfide hanno un vincitore. Scopriamo perché esistono anche dei passatempi infiniti, e cosa succede se la vita si trasforma in gioco
Su un treno regionale due bambine, sedute l’una di fronte all’altra, sono intente a svolgere un semplice esercizio che, scopro ben presto, si rivela essere una sorta di gioco. Entrambe guardano fuori dal finestrino del treno e, a turno, ciascuna pronuncia una parola o, meglio, indica la presenza di qualcosa: un dettaglio, una persona, o un oggetto presenti nelle loro immediate vicinanze o, alternativamente, prelevati dal paesaggio che si offre alla vista fuori dal finestrino. All’inizio il treno è fermo, in attesa della partenza, ma poi comincia a muoversi. Continuo ad ascoltare e, intanto, comincio a intuire la logica. Mi dico che, ora che il treno è in movimento, gli spunti per garantire la continuità al gioco non mancano. Un treno in movimento, e un paesaggio incorniciato da un finestrino: due dettagli che, da soli, bastano a scacciare l’immobilità, offrendo un sollievo alla monotonia. Mentre ascolto l’alternarsi di quelle voci che, a turno, descrivono un pezzo di mondo, ho una piccola rivelazione. Se, come intuisco, il movimento del treno garantirà un continuo fluire di nuovi dettagli – alcuni minuscoli, altri più evidenti – evitando che, in mancanza di stimoli, il gioco stagni o si esaurisca, allora quelle due ragazzine stanno giocando a un gioco potenzialmente infinito. Ormai sufficientemente incuriosito, mi giro (occupo, nel treno semivuoto, i quattro sedili di fronte), rivolgendomi alle due signorine che, sorridenti, garbatamente mi confermano che sì, effettivamente si tratta di un gioco. Attento a non turbare le evoluzioni dello stesso, mantengo la postura di un osservatore discreto, ciò che consente alle due giocatrici di proseguire indisturbate nel loro esercizio. Approfitto, quindi, per mantenere un orecchio attento, e poco dopo, mi accorgo di una caratteristica del gioco che non avevo previsto, e che gli conferisce una nuova dimensione. Si possono nominare – così mi pare –, anche persone, cose o oggetti in qualche modo presenti solo nella mente delle giocatrici, nei loro ricordi, nella loro memoria: questo amplia di molto il loro raggio d’azione, dato che permette di attingere alle risorse del mondo interiore nominando, oltre che le cose presenti e visibili, anche quelle assenti e lontane. I giochi che decretano un vincitore si potrebbero chiamare dei giochi finiti. E anche se il gioco può ripartire, è pur sempre una nuova partita, la quale presuppone che quella vecchia sia conclusa. Il gioco proposto dalle due bambine mi sembra decisamente più indeterminato, più aperto: non finisce, ma semmai può essere – an-
Joe Shlabotnik
Sebastiano Caroni
che solo momentaneamente – abbandonato, e poi ripreso, come una conversazione, a piacimento. Purtroppo, la società competitiva in cui viviamo ci ha abituato a pensare che i giochi abbiano quasi sempre un vincitore e, di converso, ci fa dimenticare che esistono dei giochi di un altro tipo, meno competitivi, e più collaborativi.
Le espressioni linguistiche che si affidano al gioco per esprimere retoricamente le sfumature del reale sono davvero tante Insomma, questa faccenda mi porta a interrogarmi su quali siano le condizioni affinché un gioco possa autoalimentarsi fino a diventare, come dicevo, potenzialmente infinito. E su come il gioco sia una presenza così diffusa nella nostra esistenza e nel nostro linguaggio: avere buon gioco, entrare in gioco, essere in gioco, far gioco, fare il doppio gioco, fare il gioco
di qualcuno, fare gioco pesante, fare un gioco di prestigio, mettersi in gioco, fare qualcosa per gioco, prendersi gioco di qualcuno, scoprire il gioco di qualcuno, stare al gioco, un bel gioco dura poco, un gioco da ragazzi. Le espressioni linguistiche che si affidano al gioco per esprimere le sfumature del reale sono davvero tante. A volte poi ci sono dei momenti della nostra giornata, delle situazioni, delle affinità con una persona, delle circostanze e degli stati d’animo particolari che fanno sì che la vita suggerisca, spontaneamente, l’esperienza del gioco. Il gioco aperto, indeterminato, può altresì diventare filosofia di vita: e allora il gioco finisce per diventare una potente metafora utile a descrivere la vita. Come scordarci che, in inglese e in francese, interpretare un ruolo si dice to play a role e jouer un rôle e che, come diceva un personaggio di Shakespeare «all the world’s a stage» («Tutto il mondo è un teatro»)? Ricordo che, tempo fa, in un breve frammento descrissi il dialogo fra due persone come se fosse una
partita a tennis. Faceva così: «Discutevano per delle ore intere, poi si fermavano ad ascoltare la pioggia battere contro la finestra. La pioggia si insinuava fra di loro, tamburellando nel silenzio. Stavano perfezionando l’arte del dialogo prolungato: ascoltavano, parlavano, ascoltavano, parlavano. I cambi di voce erano ritmati da un’esigenza di perdersi dietro alle parole. Seguiva le sue parole mentre spiccavano il volo dalla sua bocca per poi perdersi nell’aria come in una nuvola di denso fumo bianchissimo. Poi osservava il movimento a pendolo della sua voce e della voce di lei, concentrandosi sul movimento simmetrico, andirivieni di parole. Cercava di modulare il dialogo in modo che le loro parti fossero simmetriche. Di nuovo seguiva il movimento delle voci, lento e pigro oscillare di parole, ma questa volta dall’esterno. Si metteva esattamente in mezzo, e osservava. Come se il dialogo fosse una partita a tennis. Parlava in modo sciolto, disinvolto. Ma lui era altrove; era sul bordo del campo: esattamente al centro, a os-
servare il fraseggio dei giocatori. Sul bordo del campo osservava la partita. Era diventato spettatore partecipe di una partita in cui vedeva crescere l’intesa degli scambi: complice e artefice di una simmetria tale da alimentare, da sola, il ritmo di un gioco che ora si reggeva su sé stesso». Quello delle due ragazzine era un gioco che si regge su sé stesso. E in fondo anche il tennis, e così molti altri sport, se praticati in un certo modo, possono trasformarsi in un gioco infinito. Basta non contare i punti e, se si fa una pausa, riprendere il gioco come si riprende una conversazione interrotta. Ma allora perché si dice che «un bel gioco dura poco»? Non bisognerebbe dire che un brutto gioco dura poco e che, del bel gioco, semmai bisogna ritrovare il filo? Come diceva Nietzsche, «la maturità di una persona consiste nell’aver trovato di nuovo la serietà che aveva da bambino, quando giocava». E prima di lui Platone, a quanto pare, affermava che «la vita deve essere vissuta come gioco».
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Napoli, tra i cunicoli e le gallerie d
Reportage ◆ Uno spaccato ipogeo della città partenopea con le affascinanti escursioni tra lunghi cunicoli, reperti archeologici, grandi cis Tommaso Stiano, testo e foto
Nel percorso di «Napoli Sotterranea» si osserva una grande nicchia adibita a cava per l’estrazione dei blocchi di tufo attraverso un pozzo scavato appositamente.
È quasi inimmaginabile quanta storia stratificata possa nascondersi nel sottosuolo, dove continua a vivere anche solo per farsi ammirare dai turisti una realtà tutta da scoprire. Parliamo di quanto sta al di sotto delle strade e dei quartieri, che ha preso forma nei lunghi secoli della storia di Napoli, a partire dai Greci. Nelle viscere dei suoi rioni centrali si trovano infatti quaranta chilometri di gallerie scavate dall’uomo di cui però solo un decimo sono accessibili al pubblico. Noi cominciamo da tre itinerari ben definiti e fruibili solamente con l’accompagnamento di guide preparate.
Sono in totale circa quaranta i chilometri di gallerie scavate dall’uomo sotto Napoli, e di queste solo un decimo è accessibile al pubblico Inoltriamoci dunque nel ventre della metropoli che ci riserva gradite escursioni, specialmente quando fa un caldo insopportabile, o troppo freddo; è, infatti, molto piacevole scendere a grande profondità sotto il livello del suolo perché la temperatura è costante attorno ai 20°C o anche meno.
La «Napoli Sotterranea» L’itinerario denominato «Napoli Sotterranea» che parte da Piazza San Gaetano 68 (Basilica di San Paolo Maggiore, centro storico) è quello più attempato e maggiormente frequentato, dura poco più di un’ora e permet-
te di conoscere le vicende millenarie della città. L’ingresso si trova proprio sotto la scritta omonima scolpita sulla traversa dell’entrata e accompagnata da una figura apotropaica (mascherone) che, secondo la superstizione locale, ha la funzione di tenere lontani gli spiriti malvagi dalle gallerie sotterranee. In gruppo scendiamo i 136 scalini e a 40 m dalla superficie ci fermiamo davanti a una grande nicchia allestita a cava. Sotto la città troviamo soprattutto una pietra d’origine lavica chiamata tufo giallo napoletano, un ottimo materiale edile, di buona consistenza e facile da lavorare. La guida ci spiega che prima di tutto furono i Greci, attorno al V-IV secolo a.C., a scavare dei pozzi per estrarre i blocchi di pietra che servirono a costruire ai bordi del mare un nuovo insediamento chiamato NeapoNeá polis cioè lis, dal greco Nuova città. Asportato il tufo, rimanevano molte cavità ipogee e i cunicoli di collegamento che i Romani trasformarono in rete idrica con grosse cisterne d’acqua potabile alimentate dal Serino, un fiume a 70 km di distanza. Questa fonte sotterranea rimase in funzione per molti secoli, ampliandosi fino all’Ottocento, con un bel po’ di pozzi pubblici e privati che permettevano di attingere acqua fresca direttamente dai palazzi e alimentare le fontane dei rioni in espansione. Ci fermiamo nel bel mezzo di un’enorme cisterna e con il naso all’insù scorgiamo le bocche dei pozzi rischiarate dalla luce del cielo. La guida ci narra dell’avventuroso mestiere di pozzaro (il munaciello) che teneva puliti va-
sche e condotti arrampicandosi su per i cunicoli verticali grazie e dei fori nelle pareti tuttora ben visibili. L’acquedotto fu ampliato nel periodo borbonico (1734-1861) in modo che tutti gli abitanti avessero acqua potabile a portata di mano. Stringendo un po’ le spalle, passiamo in fila indiana attraverso un cunicolo molto stretto e buio (tutti subito con la luce dei cellulari accesa) e arriviamo a una cisterna con acqua limpida sopra la quale si apre un pozzo; si tratta di una raccolta d’acqua a scopo dimostrativo perché l’approvvigionamento idrico di Napoli da parecchio tempo non si serve più dell’antico acquedotto. L’ambiente che percorriamo è molto umido tant’è che in una postazione hanno piazzato un orticello illuminato da lampade a dimostrazio-
ne che si possono coltivare piante senza l’uso d’acqua, solo con l’umidità; un esperimento in corso d’opera. Ci fermiamo poi davanti a una cancellata dove scorgiamo un piccolo carro armato e resti militari a testimoniare che durante la Seconda guerra mondiale queste gallerie sono state trasformate in rifugi anti aerei e hanno salvato i napoletani dai pesanti bombardamenti degli Alleati, tranne in un caso che fece 72 vittime per una bomba penetrata dall’apertura di un pozzo. Usciamo ora all’aperto, ma l’itinerario di «Napoli Sotterranea» non è concluso perché la guida ci porta a vedere i resti dell’antico Teatro Romano oggi inglobati in un’abitazione. Entriamo e ci lasciamo sorprendere da un letto a scomparsa che libera una boto-
la, la apriamo e scendiamo una rampa di scale per vedere ciò che rimane del manufatto romano risalente al I-II secolo d.C. Cava per tufo, cisterne per acqua potabile, rifugio antiaereo e adesso itinerario per turisti, insomma, un sotterraneo polivalente e un’ora al fresco per 2500 anni di storia della città.
Il percorso Laes Molto simile, il secondo percorso, quello offerto dalla Libera associazione escursionisti sottosuolo che parte da Vico Sant’Anna di Palazzo 52 e poi sbuca in via Chiaia. Anch’esso dura un’ora e comincia da una lunga scala a chiocciola che scende a circa 40 m sotto le stradine dei Quartieri Spagnoli.
La Galleria Borbonica
Il cimitero delle moto sequestrate dalla polizia napoletana e depositate «temporaneamente» nella Galleria Borbonica.
Il criptoportico è uno dei resti archeologici del periodo romano visibili sotto la Basilica di San Lorenzo Maggiore.
Non lontano da Piazza Plebiscito, in Vico del Grottone 4, troviamo l’entrata del terzo itinerario di esplorazione della città sotterranea, la Galleria Borbonica. Questa è di gran lunga più recente dei cunicoli descritti sopra perché venne promossa da Ferdinando II di Borbone, che regnò su Napoli dal 1830 al 1859, come via di fuga dal Palazzo Reale verso Piazza della Vittoria che si trova vicino al mare. L’escursione guidata dura un’ora e un quarto e comprende alcune tappe che permettono alla guida di spiegare l’evoluzione del cunicolo che, in fase di esecuzione, s’intersecò con l’acquedotto ancora in uso. Dopo l’Unità d’Italia (1861), queste cavità furono abbandonate e riempi-
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TEMPO LIBERO
della città sotterranea
sterne, catacombe millenarie, rifugi antiaerei e le grandiose «stazioni d’arte» della metropolitana
Una veduta parziale delle grandi catacombe di San Gennaro nel rione Sanità con le diverse tipologie di sepoltura.
e decumano). Scendiamo quindi una rampa di scale e ci troviamo immersi in un caratteristico criptoportico con le volte a botte. Su un lato poco distante, tutte in fila, le aperture delle varie botteghe (tintoria, forno, lavanderia…) di duemila anni fa a testimonianza che i mestieri di una volta ci sono ancora adesso.
Catacombe di San Gennaro
te di detriti. Durante la guerra furono trasformate in ricovero temporaneo dei napoletani rimasti senza casa a causa dei bombardamenti (c’era anche la sala parto) e poi, fino al 1970, la Galleria Borbonica fu usata come deposito giudiziale comunale, ecco perché lungo il percorso troviamo carcasse d’auto d’epoca e il cimitero delle moto arrugginite, tutti veicoli sequestrati dalla polizia locale per infrazioni varie.
La Neapolis romana Una mattina ci spostiamo nel nucleo storico carico di stradine caratteristiche e arriviamo al maestoso Complesso monumentale di San Lorenzo Maggiore con la splendida Basilica, il chiostro, la Sala capitolare e il refettorio. Qui ci preme però segnalare l’area archeologica che si trova sotto la chiesa con i resti della città romana (cardo Nell’affresco all’inizio delle catacombe di San Gaudioso l’Allegoria della morte o «memento mori»; lo scheletro dipinto, con cranio vero spezzato in verticale, indica la clessidra, un libro, la corona e lo scettro come a suggerire il trionfo della morte sul tempo, sulla sapienza e sui poteri temporali dell’uomo.
Prendiamo ora in considerazione altri luoghi della Napoli nascosta sotto la coltre terrestre, come lo sono le catacombe dell’antico rione Sanità, un tempo luogo privilegiato per l’inumazione dei corpi perché era al di fuori dell’area urbana. Ci sono quelle di San Gaudioso nel sottosuolo della Basilica di Santa Maria della Sanità che abbiamo visitato, ma vi parliamo di quelle più grandi dette di San Gennaro in via Capodimonte 13, la cui visita è sempre accompagnata da ragazzi della Cooperativa La Paranza, una bella iniziativa per valorizzare i beni culturali di Napoli partita nel 2006, promossa da giovani del quartiere che intendono lavorare nella legalità e con successo, vista l’evoluzione dei visitatori nei due complessi sepolcrali da loro gestiti. Ci sono sempre un sacco di turisti italiani e stranieri, tanto che è necessario prenotare giorno e ora per entrare in comodità. Aspettiamo il nostro turno al bar della struttura e all’ora stabilita arriva la nostra guida. Il sostantivo catacombe viene dal catá cùmbas, osgreco sia «presso le grotte» sotterranee, ecco perché scendiamo anche qui un bel po’ di gradini per imboccare l’ingresso. Queste cavità – ci spiega la ragazza – sono state scavate come cimitero dei pagani e dei primi cristiani attorno al II-III secolo d.C. e usate per tanti secoli. Siamo nel bel mezzo del regno dei morti, l’ambiente è stato ripulito dai giovani della cooperativa che hanno pure tracciato un percorso con queste tappe esplicative: i vari tipi di sepoltura (tombe a terra, loculi a parete, arcosoli per famiglie), gli ampliamenti a opera dei fossori (scavatori di tufo) sia in verticalità, con due livelli visitabili, sia in orizzontalità con circa 6mila mq, gli affreschi per decorare le tombe dei più abbienti, l’iconografia cristiana, la Basilica e la cripta dei vescovi. Arriviamo poi al centro della cittadella sotterranea dove troviamo la tomba di San Gennaro (di lì il nome delle catacombe, lui morì martire il 19 settembre del 305), cioè il luogo dove dimoravano i suoi resti mortali prima che venissero traslati nel duomo di Napoli. Al livello inferiore vediamo anche un battistero dell’VIII secolo, la lunga galleria con ambulacri, loculi e cripte, la Basilica di Sant’Agrippino e la Basilica di San Gennaro fuori le mura (VI sec. d.C.). In conclusione, possiamo certamente asserire che la passeggiata di un’ora nella necropoli del protettore di Napoli è stata una bella lezione di storia antica, un momento di pace fuori dal caos di superficie e pure un memento mori per tutti noi. Informazioni Sul sito www.azione.ch si trova una più ampia galleria fotografica.
L’installazione artistica sopra le scale mobili della stazione Toledo della Linea 1/ gialla a opera di Oscar Tusquets Blanca e Robert Wilson.
Le favolose «tre A» della metropolitana Senza ombra di dubbio, la Napoli sotterranea più gettonata e vivace è la metropolitana che collega il centro storico alla periferia e tra loro le porte della città, ossia lo scalo ferroviario dove arriva l’alta velocità (fermata Garibaldi), il porto turistico per le isole (Municipio) e, dal 2025 si spera, anche l’aeroporto internazionale (Capodichino). Il primo tratto della Linea 1/gialla risale al 1976 e via via si sono aggiunte le successive stazioni, la cui progettazione è sempre stata affidata ad architetti di levatura mondiale come Mario Botta che sta ultimando le fermate Tribunale e Poggioreale in direzione dell’aeroporto; a conclusione dei lavori la Linea gialla avrà 23 fermate (ora 19 attive) su 18,2 km. Collegare terra, acqua e aria è, diciamo, la funzione pragmatica della via ferrata sotto il livello del suolo, ma la metropolitana di Napoli, essenzialmente la Linea 1, è essa stessa un polo d’attrazione culturale sintetizzato da «tre A»: archeologia, architettura e arte.
Mario Botta sta ultimando due stazioni della Linea 1 Anzitutto, è riconosciuta per l’elevato livello architettonico arricchito poi da opere d’arte contemporanea che la trasformano in una sorta di museo ipogeo diffuso lungo tutto il tracciato… al modico prezzo di un biglietto del metrò. Sono all’incirca 160 gli oggetti d’arte (un centinaio gli artisti) che si possono ammirare lungo la Linea 1 le cui stazioni diventano così sale d’esposizione permanente che, oltre all’arte, presentano pure una selezione di numerosi reperti archeologici emersi durante la costruzione. Come dire, il passato remoto (archeologia) e il presente (architettura e arte) assieme per fare di un tipico «nonluogo» (M. Augé) privo di identità-rel-
azionalità, un posto bello, uno spazio riconoscibile, un luogo di cultura, sia pure solo di striscio per la moltitudine, sebbene ci sia anche chi si sofferma ad ammirare e fotografare gli ambienti e le opere come nel nostro caso. Certo, non è come essere in un museo dove si ammirano in tutta tranquillità gli oggetti esposti: qui l’arte è immersa nel trambusto quotidiano, nel via vai senza sosta. Per ragioni di spazio, ci limitiamo a qualche dettaglio in più della stazione Toledo, la più spettacolare. Progettata dallo spagnolo Oscar Tusquets Blanca e aperta al pubblico nel 2012, nel 2015 ha ricevuto l’«Oscar delle strutture sotterranee» ed è quindi elogiata come la più bella d’Europa sia per l’architettura sia per i grandiosi rivestimenti: la parte sotto il livello del mare, detta appunto Galleria del mare di Bob Wilson, è decorata con mosaici blu e azzurri che evocano gli abissi marini, rischiarati dal Crater de Luz (il Cono di Luce) con lo spettacolare gioco luminoso che fa ondeggiare le tessere dell’immenso mosaico. Le tinte sui muri diventano sempre più chiare e assumono tonalità calde, che ricordano le spiagge, mentre si sale con le scale mobili; i pavimenti e le maioliche ocra sulle pareti invece richiamano la pietra naturale dell’antica cinta muraria aragonese: grandioso! Molto bello è anche il mosaico su tutta la parete dell’atrio interrato che racconta la Storia di Napoli secondo l’artista sudafricano William Kentridge, poi c’è il celebre fotografo Oliviero Toscani che trasforma l’uscita Montecalvario (Quartieri Spagnoli) di questa stazione in una lunga galleria di volti della Razza Umana che ci scrutano nel nostro breve apparire. Lasciamo agli estimatori delle cose belle scoprire le altre «stazioni d’arte» che colorano il frenetico fiume di gente nel suo scorrer via veloce e torniamo in superficie, alla luce del bel sole.
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TEMPO LIBERO
Sua Maestà delle Orobie: io e Lei, soli
Alpinismo ◆ In solitaria lungo la costa Ovest del Monte Legnone fino a raggiungere la sua croce in vetta Jacek Pulawski, testo e foto
Con i suoi 2610 m s.l.m., il Monte Legnone è la vetta più alta del settore occidentale delle Alpi Orobie. Si trova ai piedi di Dervio, piccolo comune italiano della provincia di Lecco situato sulla sponda orientale del Lago di Como. Ho notato la sua cima per la prima volta due anni fa, durante un trekking sul Monte Grona e poi successivamente sul Monte Bregagno. Stava lì, dominante sulle altre vette con le pareti a strapiombo e le ripidi creste. Da quell’istante, ogni volta che mi allenavo sul Monte Generoso, il Bisbino, il Sasso Gordona e tutte le altre vette del triangolo Chiasso, Porlezza e Gravedona, mi soffermavo a guardare il suo aspetto intimidatorio.
Non incontrerò nessuno: i numerosi incidenti avvenuti nelle ultime settimane sembrano aver scoraggiato altri scalatori Ed è proprio quell’apparente inaccessibilità ad avermi attratto, tanto che dopo una scalata di preparazione sulla Grigna settentrionale, mi sono deciso a salire su quella che i Romani battezzarono «Tricuspide», perché dava loro l’idea di essere composta da tre cime distinte. La strada, tutta asfaltata, che conduce al rifugio Roccoli Lorla (1469 m s.l.m.) si presenta molto stretta e insidiosa a causa di alcuni precipizi che la costeggiano. Per mia fortuna sono partito molto presto e procedo senza dover incrociare altri veicoli provenienti dalla parte opposta. Gli slargamenti della carreggiata sono pochi e lontani tra loro. Alle 6:30 arrivo al posteggio e preparo il materiale per la scalata. Ho la perfetta visuale sulla cresta Ovest che conduce alla traversa della vetta. Da qui sembra molto ripida e stancante. Preferendo affrontare i tratti più impegnativi con maggior freschezza fisica mi decido ad alleggerire il pacchettaggio. A scapito della corda mi porto la seconda piccozza. Disabilitato per un’eventuale discesa d’emergenza sono consapevole di dover avanzare in modo lento e preciso, senza mai «deragliare» dalla via normale. Sono ormai le 7.00 di mattino e il termometro indica –6 °C. Il laghetto vicino al rifugio è una spessa calotta di ghiaccio e intorno regna il silenzio. A dire il vero speravo di incontrare altri «delinquenti» di montagna, sui quali avrei potuto riposare gli occhi nei momenti più difficili. Invece, come poi risulterà, quel giorno non incontrerò nessuno. L’imminente Santo Natale e i numerosi incidenti avvenuti nelle ultime settimane sembrano aver scoraggiato gli altri scalatori. Sulla direttissima muore un esperto alpinista di Milano. Altri quattro vengono tratti in salvo sul canalone Sovian dopo un salvataggio durato ben otto ore. Infine, un escursionista di 40 anni rimane incrodato su una parete dopo aver sbagliato la strada proprio sulla cresta Ovest. Il sentimento di solitudine riesce a penetrami fin nelle viscere dell’anima. Dopo un paio d’anni di continui corteggiamenti a distanza mi trovo davanti al cospetto di Sua Maestà delle Orobie. Io e Lei, soli. Osservo per l’ultima volta il crocifisso sul ripido ammasso di roccia, neve e ghiaccio. Per la prima volta sono deciso a rinunciare di toccarlo… Nel frat-
tempo le forti raffiche di vento gelido cessano di soffiare con il primo chiarore mattutino: è il momento di mettersi in moto. Il sentiero che conduce alla capanna Cà de Legn è tra i più belli che ho potuto incontrare in montagna. Circondato esclusivamente da conifere, profuma di pino ed è ricoperto degli aghi caduti dai rami rendendo piacevoli i passi lungo il cammino. Purtroppo con il guadagnare della quo-
ta assume le sembianze di un campo minato che, come per metamorfosi, diventa gradualmente ghiacciato e innevato. Il fastidio provocato da quel miscuglio consiste non soltanto nel pericolo di scivolare, ma anche nel fatto di essere poco «ramponabile» viste le numerose rocce e anche i detriti che ne compongono la superficie. Con l’ausilio del GPS evito l’alpe di Agrogno e continuo su una va-
riante parallela; più faticosa a causa di una maggiore inclinazione, ma molto più sicura e gradevole per le articolazioni. Venti minuti dopo, giungo sul sentiero principale che dà inizio alla cresta Ovest, ormai diventata una lastra di ghiaccio. Da qui in avanti è necessario l’uso dei ramponi. Non è un sentiero difficile ma è stretto e richiede un buon equilibrio. Aiuta la presenza di alcune corde fisse che facilitano il percorso verso la capanna situata a 2146 m s.l.m. Posizionata poco dopo la «Porta dei merli», un passaggio roccioso con un panorama mozzafiato su tutta la Valsassina, Cà de Legn venne eretta nel 1894 da un gruppo di pionieri dell’escursionismo milanese. La struttura in legno fungeva da casello per la caccia della selvaggina e l’abbattimento degli orsi che stavano sovrappopolando la zona ai danni del resto della fauna locale. A proposito di plantigradi, il Monte Legnone è ricco di leggende e aneddoti. C’è quella che narra di un feroce orso che vagava per i sentieri della zona, quando incontrò un toro. Il tratto era talmente stretto che non presentava vie di fuga per entrambe le bestie. I due animali si fermarono fissandosi ben bene negli occhi. L’orso, apparentemente affamato, vi vide un delizioso boccone. Si drizzò grugnendo sulle zampe posteriori e si gettò sulla preda. Il toro abbassò la testa e con un abile colpo di corna inchiodò l’avversario contro la roccia, aprendogli il ventre. L’orso perì all’istante, ma rimase in posizione eretta, perché il toro, per la paura che fosse ancora vivo, continuò a tenerlo inchiodato alle corna. Qualcuno dice che rimase lì, nella stessa posizione, fino a morire di fame. Altri assicurarono che i pastori lo liberarono tre o quattro giorni dopo, guadagnandoci la pelle. L’orso più celebre del Legnone rimane però quello soprannominato «il chirurgo». Un giorno un gozzuto che passeggiava ai piedi della montagna vide due orsacchiotti nel bosco. L’idea di impossessarsene però, non fu tra le più brillanti. L’orsa madre, nascosta tra gli alberi, infatti si scaraventò immediatamente sul malcapitato. Con un colpo degli artigli gli
aprì la gola. Ne uscì un secchio d’acqua e il povero contadino si sentì risollevato, perché grazie a quell’intervento tornò a respirare meglio. Al suo ritorno nel paese tutti ne furono strabiliati. La caccia sistematica eseguita dalla Cà de Legn ha con il tempo privato il Legnone del suo antico dominatore. Oggi viene comunemente chiamato il bivacco Silvestri, in onore di un alpino di Dervio che, nel 1951, vi svolse dei lavori di ristrutturazione, trasformandolo in una struttura in sasso. Così, dei possenti onnivori non rimane più traccia, ma il tratto da scalare per arrivare in vetta necessita una forza da orsi. Classificato con un T4 (itinerario alpino) nella stagione estiva, è da considerarsi un PD (poco difficile) in quella invernale. Le pendenze variano tra i 45 e i 70 gradi, secondo la via intrapresa durante la scalata. La superficie del tracciato lascia sempre a desiderare. Un firn (ndr: neve allo stato granulare) fragile, con enormi buchi profondi fino alla coscia, il ghiaccio, la roccia nuda e la neve, sono la ragione dei numerosi incidenti delle recenti settimane. Per quanto mi riguarda avanzo con i ramponi. Non è una soluzione da manuale alpinistico, ma il ghiaccio nascosto sotto quel tappeto rognoso è l’aspetto che temo maggiormente. Giungo alla fine della cresta là dove si unisce alla traversa che conduce in vetta. Qui comincia la parte più tecnica, nonché la più esposta. Con l’aiuto delle due piccozze mi arrampico sul muro di ghiaccio che porta al bivio delle due creste. Le forti raffiche di vento nella direzione del precipizio mi obbligheranno a cambiare strategia. Non continuerò sulla cresta, bensì qualche metro più in basso. Preferisco essere spinto verso la parete pur camminando su un pendio poco agevole, che avanzare su un piano ben battuto ma estremamente esposto. Dopo circa 15 minuti arrivo ai piedi della vetta. Nelle condizioni odierne è l’ostacolo più arduo. Si stratta di un cumulo di rocce che andrebbero superate con l’uso di una corda fissa. Purtroppo la neve e il ghiaccio non ne rivelano un grande quantità e il rimanente risulta bucato dalle ramponate degli alpinisti passati in precedenza. Questa barriera che difende la vetta è posata a ridosso di uno striminzito colletto di ghiaccio fra due precipizi, uno di quei posti ove si cade una volta sola. Con l’aiuto di un cordino e un moschettone mi assicuro con un nodo prusik, un autobloccante in caso di inaspettate cadute. Come molti stratagemmi che uso in montagna, anche questa non è un’operazione necessaria ma ha il merito di fornirmi un notevole confort mentale. In questo modo posso scavare qualche scalino preparando un appoggio più fidato, nonché sondare la consistenza del manto nevoso. Una tattica che ripeterò tre volte prima di arrivare in vetta e, che si dimostrerà utile durante la discesa. Alle 12:30 sono davanti al crocifisso del Legnone. Come su ordine di Sua Maestà le potenti raffiche di vento si azzittiscono. Riesco a udire soltanto l’affanno del mio respiro corto, mi sento bene, mi sento minuscolo. Informazioni Su www.azione.ch, si trova una più ampia galleria fotografica.
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TEMPO LIBERO
Il gratta e vinci di San Valentino
Crea con noi ◆ Realizzate una busta e dei cuori che nascondono piccole sorprese per il giorno più romantico dell’anno Giovanna Grimaldi Leoni
Materiale
Oggi proponiamo un tutorial romantico per gli amanti di San Valentino. Una busta artigianale con simpatici cuori gratta e vinci. Il vostro/a partner potrà grattare la superficie di uno o più cuori e scoprire quale sorpresa lo attende. Sarà forse una gita romantica o il suo dolce preferito? Con pochi semplici passaggi e materiali come cartoncino, nastro adesivo e pittura acrilica, potrete realizzare questo originale biglietto.
Seguendo le indicazioni del cartamodello, ritagliate i pezzi per costruire la busta. Utilizzate il bastoncino di colla per incollare le varie parti di carta. Per la finestra trasparente è consigliabile utilizzare del nastro biadesivo, fissandolo all’interno della cornice di cartoncino. Una volta costruita la busta, ritagliate i cuori «gratta e vinci» che nel frattempo si saranno asciugati e inseriteli al suo interno. Potete aggiungere paillettes a forma di cuore o altri piccoli elementi. Incollate la busta sullo sfondo con il titolo precedentemente stampato. Infine posizionate il tutto su un cartoncino o all’interno di una cornice. Utilizzando uno spiedino in legno e un po’ di cartoncino oro, realizzate una freccia e legate alla sua coda uno spago. Agganciate un tondo di cartoncino su cui avete fissato una moneta, alla fine dello spago.
Procedimento Stampate le due pagine, che trovate su www.azione.ch, su carta pesante (120gr). Mettete da parte la prima pagina con il titolo e coprite con pellicola o nastro adesivo trasparente tutti i cuori. Dipingete i cuori con l’acrilico rosso utilizzando un pennello piatto. Non diluite il colore per ottenere una copertura ottimale. Se necessario, applicate più mani, lasciando asciugare tra una e l’altra. Per velocizzare il procedimento potete utilizzare un asciugacapelli.
Giochi e passatempi Cruciverba Marito e moglie sorseggiando un calice di vino. Lui: «Ti amo tanto, non so come avrei fatto senza di te!» Lei: «Grazie, ma sei tu che parli o è il vino?» Trova la risposta del marito risolvendo il cruciverba e leggendo le lettere evidenziate. (Frase: 2, 4, 4, 2, 3, 5, 2, 4) ORIZZONTALI 1. Non tutti possono sedervisi 6. Dei punti sul tessuto 10. Un disco in macchina 11. Sono audace 12. Un corpo come il tuo 13. Dicesi di personaggio leggendario 16. Un anagramma di «teli» 17. Bianca per chi lascia fare 18. Desinenza di diminutivo femminile 19. Un numero 20. Grandezza fisica che indica acidità 21. Le iniziali dell’attore Accorsi 22. Ha un valore di mezzo 23. Bilancia il contro 24. Leva di comando 25. Machine nei casinò 26. Si contrappone alla verità ufficiale
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VERTICALI 2. Nome di donna 3. Pesce dalle carni pregiate 4. Persone non all’altezza 5. Figlio di Iside e Osiride 6. Stato europeo 7. Materiale ceramico edile 8. Un Continente 9. Un esame radiologico
Concludete decorando a piacere, aggiungendo piccole paillettes a cuore o cuoricini fustellati. Buon San Valentino!
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Scoprite i 3 numeri corretti da inserire nelle caselle colorate.
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(I materiali li potete trovare presso la vostra filiale Migros con reparto Bricolage o Migros do-it)
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12. Personaggio dell’Odissea 14. Lo è il pelo arruffato 15. Fiume russo e frazione di Varsavia 17. Una bibita 19. Si accendono in chiesa 20. Formula augurale usata nel brindisi 22. Un popolare Perry 23. Piega di tessuto nel corpo umano 24. Un vizio deleterio 25. Sottile, magro, in inglese 27. Vanno in cerca di alibi 28. Rende stretti i vestiti
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Soluzione della settimana precedente LINGUE DAL MONDO – Le tre lingue più parlate nel mondo sono: CINESE MANDARINO, SPAGNOLO, INGLESE
C I N E I S E M P I C A N I D I O N A R I O N E O S O L P I O N E R A G N O T T E L A N G O L I A N E G T U T O R L E S E D I T O O S T I E
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Regolamento per i concorsi a premi pubblicati su «Azione» e sul sito web www.azione.ch I premi, tre carte regalo Migros del valore di 50 franchi, saranno sorteggiati tra i partecipanti che avranno fatto pervenire la soluzione corretta entro il venerdì seguente la pubblicazione del gioco. Partecipazione online: inserire la soluzione del cruciverba o del sudoku nell’apposito formulario pubblicato sulla pagina del sito. Partecipazione postale: la lettera o la cartolina postale che riporti la soluzione, corredata da nome, cognome, indirizzo del partecipante deve essere spedita a «Redazione Azione, Concorsi, C.P. 1055, 6901 Lugano». Non si intratterrà corrispondenza sui concorsi. Le vie legali sono escluse. Non è possibile un pagamento in contanti dei premi. I vincitori saranno avvertiti per iscritto. Partecipazione riservata esclusivamente a lettori che risiedono in Svizzera.
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TEMPO LIBERO / RUBRICHE
Viaggiatori d’Occidente
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di Claudio Visentin
Un eroe della globalizzazione
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Quale personaggio storico incarna l’idea di globalizzazione? Facile, direte voi: Ferdinando Magellano, il navigatore portoghese passato al servizio degli spagnoli. Cinque secoli fa Magellano progettò la prima circumnavigazione del globo; per sfidare il monopolio portoghese, Magellano cercò una rotta alternativa per le Molucche, le isole delle spezie. Ma quando il 6 settembre 1522 l’ultima nave superstite, la Victoria, rientrò a Sanlúcar de Barrameda ‒ il porto di Siviglia da dove era partita nel 1519 ‒ in pessime condizioni e con solo diciotto marinai a bordo, Magellano non era più tra loro. Il coraggioso comandante era morto nelle Filippine il 27 marzo del 1521, nel tentativo di conquistare l’isola di Mactan e convertire gli indigeni al Cristianesimo. Magellano si era gettato a capofitto nell’impresa con pochi soldati, sicuro del sostegno divino.
Curioso: l’alfiere della globalizzazione multiculturale era un fanatico credente e, mentre collegava tra loro popoli e mercati, si preoccupava soprattutto della salvezza delle anime. Potremmo allora prendere come nostro eroe il basco Juan Sebastián Elcano, il nuovo comandante che dopo mille peripezie riuscì a ritrovare la strada di casa. Elcano fu senza dubbio il primo europeo a circumnavigare il mondo, ma era anche un uomo infido, pericoloso. Quando la flotta navigava lungo le coste del Sud America, alla ricerca dell’incerto passaggio che sarà poi chiamato lo Stretto di Magellano, Elcano si ammutinò, insieme ad altri ufficiali. Fu sconfitto e incatenato per mesi, prima di ottenere il perdono. Un altro candidato è il vicentino Antonio Pigafetta: se Elcano dettò a Carlo V uno scarno resoconto di settecento parole soltanto, Pigafetta diede alle
Passeggiate svizzere
stampe la sua dettagliata Relazione del primo viaggio intorno al mondo. La più grande impresa mai tentata sugli oceani fu dunque raccontata in un cantilenante dialetto veneto. Ma Pigafetta fu appunto solo il cronista di quella interminabile navigazione. Qualcuno crede invece che il primo uomo a circumnavigare il globo sia stato Enrique di Malacca, anche se a malapena è ricordato dagli storici. Enrique era uno schiavo di Magellano, catturato bambino nel 1511 quando i portoghesi saccheggiarono la capitale della Malesia. Quando nel 1519 Magellano salpò dalla Spagna portò con sé Enrique come interprete, poiché il malese era una sorta di lingua franca in quei mari d’Asia. Nel suo testamento il gran capitano promise di restituire la libertà a Enrique, quale ricompensa per i suoi servigi; ma quando Magellano fu ucciso, i suoi compagni
non mantennero l’impegno. Duarte Barbosa, il comandante della nave, minacciò anzi di far frustare Enrique se non avesse continuato a svolgere i suoi compiti abituali a bordo. Fu allora che il malese ‒ racconta Pigafetta ‒ ordì una congiura. Sfruttando la sua conoscenza della lingua convinse re Humabon di Cebu, fresco di conversione, ad attaccare gli spagnoli in difficoltà e a impadronirsi dei loro beni. E così, durante un banchetto, la maggior parte degli occidentali furono uccisi, salvo naturalmente Enrique. I pochi sfuggiti al massacro cominciarono un lungo e penoso viaggio di ritorno di 15mila chilometri, costantemente insidiati da portoghesi. Da questo momento le fonti storiche tacciono su Enrique. Ma sappiamo per certo che egli era vivo sull’isola di Cebu, a soli duemila chilometri dalla sua nativa Malacca. Sappiamo inoltre
che il re di Cebu gli era debitore, che era uomo di mare e che molte navi di mercanti siamesi o cinesi partivano regolarmente da Cebu verso la Malesia. Insomma, la strada del ritorno era aperta davanti a lui, relativamente facile e veloce. Se Enrique l’ha percorsa, come sembra logico pensare, è senza dubbio tornato a casa prima degli spagnoli e sarebbe dunque lui il primo uomo ad aver circumnavigato il globo. Infatti, nel decennio precedente era già andato dalla Malesia alla Spagna come schiavo, poi dalla Spagna alle Filippine con la spedizione di Magellano; non gli mancava che quest’ultimo tratto. In Malesia, Enrique è un eroe nazionale. Ma forse anche a noi viaggiatori d’occidente fa bene pensare che il miglior simbolo della globalizzazione sia uno schiavo che si rende padrone del suo destino.
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di Oliver Scharpf
Qualche sgraffito a Cinuos-chel ◆
Le peccete a perdita d’occhio ricoperte di neve, dal treno, in Engadina, non smetteranno mai, ogni volta, d’incantarmi. Sulla strada innevata, poco dopo la chiesuola seicentesca che vale la pena buttarci un occhio per la sua sobrietà assoluta, spoglia di tutto, in cui risaltano le volte ogivali e si respira l’odore di cembro utilissimo all’anima, becco i delfini. Incontrati per la prima volta a pagina otto di Sgraffito im Engadin und Bergell (1977) di Iachen Ulrich Könz ed Eduard Widmer, dal vivo percorrono ora grotteschi, con la lingua fuori che diventa fiore o foglia, lungo un fregio, la facciata color tufo. La neve, alta oltre un metro, intorno, accresce la sensazione di fiabesco scaturita da questi delfini sgraffiati a fresco, dall’intonaco di calce, nel 1594. Le cui code formano gigli fiorentini. L’arte dello sgraffito sboccia a Firen-
ze nel Rinascimento per poi sparire, a differenza dell’Engadina – e sull’isola di Chios – dove attecchisce bene e si è tramandata fino ai nostri giorni. Sopravvissuti grazie «al clima oltremodo secco dell’Engadina» secondo Iachen Ulrich Könz, questi sgraffiti cinquecenteschi, oggi, ci sono anche grazie proprio a Iachen Ulrich Könz (1899-1980): personaggio seminale in questo ramo. Oltre che autore – assieme al fotografo Widmer noto forse a qualcuno per aver catturato con grazia l’architettura ottomana – del libro citato, è un architetto che ha restaurato lui stesso questi sgraffiti nel 1938. Nello stesso periodo restaura quelli di Guarda, assieme alle loro case, ed è il papà di Constant Könz, classe 1929, e Steivan Liun Könz (1940-1998): sgraffitisti ammirevoli che hanno contribuito a mantenere viva e propagare quest’arte da strada che mi ha stupito fin da
Sport in Azione
bambino. Seppure di grande pregio, non sono questi «mostri marini» come li chiama più vagamente Erwin Poeschel in Die Kunstdenkmäler des Kantons Graubünden (1940), la ragione del mio viaggio a Cinuos-chel. Paesino dell’Alta Engadina dal nome non facilissimo da tenere a mente di centocinquanta anime sulla sponda sinistra dell’En. Dove, da casa Feltscher – dopo aver lanciato un ultimo sguardo a delfini, motivo delle onde, conchiglia di San Giacomo stilizzata sopra una finestra con la classica svasatura profonda engadinese, ritrovabile, intagliata, due volte, sulla porta enorme tipica a tutto sesto – credo di avvistare già la casa con gli sgraffiti in mente. A ventisette passi, vis-àvis della fontana, di primo pomeriggio verso fine gennaio, sulla facciata di casa Capon, catturo le quattro sirene e i due draghi che cercavo. Risalenti al 1659, a milleseicentotredici
metri sul livello del mare, giallo cenere su sfondo malta, questi graffiti sono più selvaggi dei precedenti. Le sirene bicaudate dal tratto infantile hanno i capelli come spaghetti e lo sguardo stralunato, tre senza pupille. Colpisce subito l’intreccio tra la coda del drago e una delle due code di una sirena. A fianco delle sei finestre in alto, con svasatura sgraffiata a trompe-l’oeil fregiata di stella dei venti, dodici vasi di fiori a sgraffito. Un mazzo di fiori ulteriori è in mano all’unica sirena non bicaudata, sdraiata in un angolo. Spazzo la neve sulla panchina in faccia alla casa e a fianco della fontana, poso il rucksack, e mi siedo. «Non ci si stanca di studiare queste opere tappezzanti» osserva, nel suo libro Sgraffito (1928), Hans Urbach, un ingegnere berlinese a zonzo da queste parti. Per lo studio della simbologia della sirena bicaudata nota anche co-
me melusina, spirito acquatico ambientato piuttosto bene nella regione e conosciuto nelle leggende grigionesi come la ritscha – incontrata, nelle nostre passeggiate, tempo fa a Valendas – stiamo qui fino a domani. Va almeno detto qualcosa a proposito del suo significato ambivalente di protezione e pericolo: non per niente tengono stretta, in mano, una coda da una parte e una dall’altra. Così come il sentimento dell’uomo, al contempo, è un misto di attrazione e repulsione, desiderio e paura, e così via. L’intrecciarsi, raro, con il drago che vive sulle nuvole e dorme in fondo ai laghi e il cui polisimbolismo richiederebbe pure ore, giorni, anni, vite intere, ne potenzia la forza. Lo scorrere dell’acqua della fontana, presenza-chiave ricorrente più volte in questi villaggi fatati, acuisce la ierofania rurale di draghi, capesante, delfini, sirene.
●
di Giancarlo Dionisio
Morituri te salutant, ovvero the show must go on ◆
Chi fa spettacolo lo fa anche per chi, malato di «voyeurismo», è disposto a sottoporsi alla prova del sangue. Quello degli altri. Non vado a ravanare nel repertorio delle discipline estreme. Mi limito a una breve disamina di uno spettacolo che da novembre a marzo entra settimanalmente nelle nostre case. Nei giorni scorsi la pista del Lauberhorn di Wengen ha ospitato quattro gare in altrettanti giorni. Tre di queste riservate alle discipline veloci. Si sono verificati alcuni incidenti di portata considerevole. Per Alexis Pinturault, stagione conclusa a causa della rottura di un crociato del ginocchio. Il giorno successivo la sorte pareva essere stata ancora più ria nei confronti di Aleksander Aamodt Kilde. All’uscita della esse finale, il norvegese, stremato, ha perso il controllo degli sci ed è andato a sbattere violentemente contro le reti di protezione. Immobile a lungo,
è stato trasportato in ospedale imbragato e appeso a un elicottero. Per chi ha memoria storica, il pensiero è corso ai drammi del passato. Quello dell’austriaco Gernot Reinstadler, che proprio nello stesso punto, e per giunta in una discesa di prova, concluse la sua breve esistenza sulle nevi di Wengen. E come dimenticare le dissolvenze tra le immagini del tragico incidente mortale di Ulrike Maier, con quelle di lei, mamma, che solleva al cielo, la sua piccola creatura. In fondo anche quella fu una forma subdola di istigazione al voyeurismo. A Kilde è andata meglio. In un primo momento si supponeva una frattura scomposta di un femore. Se l’è cavata con la lussazione di una spalla e parecchie contusioni. Lo rivedremo. Non è nuovo a un calvario del genere. Il suo volo è servito a far parlare i diretti interessati, gli sciatori. Per fortuna, ad aprire il libro, sono stati i primi tre classificati nel terzo
sforzo consecutivo in programma. Marco Odermatt, fenomenale trionfatore delle due discese, ha accennato al «retrogusto amaro della sua vittoria, che non è stata la gara più giusta». Più caustico il secondo classificato, il francese Cyprien Sarrazin: «La caduta poteva essere evitata, disputare tre gare di velocità di fila e chiudere con la discesa più lunga della Coppa del Mondo è troppo». L’altoadesino Dominik Paris, terzo, ha puntato il dito contro il calendario: «Non credo che le doppie gare siano ottimali. Il calendario è estenuante». Originariamente, quest’ultimo tiene in considerazione le esigenze di atleti e atlete. Tuttavia, l’eccezione verificatasi a Wengen, rischia di diventare una costante. Il riscaldamento climatico sta sconvolgendo l’afflusso di acqua e neve sul pianeta, alternando preoccupanti periodi di siccità, ad altri in cui le piste vengono travolte da nevicate ipercopiose. Se vorrà conser-
vare il numero di gare in calendario, la FIS sarà chiamata a concentrare più prove nelle poche località in cui si possono svolgere in condizioni ideali di innevamento. Contraddizioni e pericoli saranno sempre più spesso in agguato. Finora showman e showgirl si sono loro malgrado adeguati. Fino a quando? Sono coscienti del fatto che il rischio-zero non faccia parte del loro mondo. Tuttavia, si tratterà di volta in volta di sedersi al tavolo per tentare di conciliare gli interessi sportivi della Federazione con quelli commerciali degli sponsor e, soprattutto, con quelli umani di chi è chiamato a lanciarsi a 130 all’ora sulla neve ghiacciata con i piedi agganciati a due listarelle larghe dieci centimetri, lunghe poco più di due metri. A scanso di equivoci, per coloro che hanno una relazione saltuaria e superficiale con le competizioni sciistiche, aggiungiamo che la giorna-
ta di un/a discesista non si limita ai due minuti di brivido. Lanciarsi sul ripido a mezzogiorno, significa alzarsi all’alba, alimentarsi adeguatamente, salire in quota parecchie ore prima della partenza, effettuare l’ultima meticolosa ricognizione, preparare a puntino abbigliamento ed equipaggiamento, e attendere, evitando tensioni e ansie, il momento in cui le gambe apriranno il cancelletto di partenza e faranno scattare la fotocellula cronometrica. Alla fine, chi non vince se ne torna in albergo. I migliori saranno sottoposti ai consueti, inevitabili rituali: interviste radiotelevisive, controllo antidoping, conferenza stampa. E il giorno dopo, e quello successivo ancora, tutto si ripropone. Come sul Lauberhorn. Evitare lo stress significa limitare i rischi. Non sarà facile, ma sarà indispensabile provarci. Ne va dell’incolumità dei protagonisti e della credibilità dell’ambiente.
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Settimanale di informazione e cultura
Anno LXXXVII 29 gennaio 2024
azione – Cooperativa Migros Ticino 23
ATTUALITÀ ●
Verso la tredicesima AVS? Qualche spunto di riflessione in vista della votazione popolare prevista il prossimo 3 marzo
Reportage dall’Arabia Saudita Viaggio nelle ambizioni di modernità di Riad, con un occhio di riguardo ai diritti umani
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Iran e Pakistan: cosa succede Dopo il recente scambio di bombe, tra Teheran e Islamabad sembra tornato il sereno. Ecco come mai
Memorie difficili Riflessioni sulla Giornata della memoria mentre gli attacchi israeliani si abbattono su Gaza
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◆
Un inizio tutto in salita per il nuovo arrivato
Berna ◆ Beat Jans deve riuscire a ridare forza e capacità d’azione al Dipartimento di giustizia e polizia, uscito malconcio dalla gestione di Elisabeth Baume-Schneider. I dossier più caldi che lo attendono: asilo e immigrazione specie d’origine europea Roberto Porta
E ora son due i batteristi in Consiglio federale. Dopo Albert Rösti, in carica ormai da un anno, anche il neo-eletto Beat Jans si diletta con la batteria, strumento che suona da quando aveva 10 anni. Entrato in Governo da un mese soltanto, il ministro basilese ha davanti a sé uno spartito politico tutto da scrivere, e da buon percussionista dovrà riuscire a trovare il ritmo giusto per poter affrontare le tante sfide che assediano il Dipartimento che è chiamato a dirigere, quello di giustizia e polizia. Il primo problema sta proprio nella nomea di questo Dipartimento, che da qualche tempo a questa parte viene visto come una sorta di «angolo del castigo», da cui scappare il prima possibile. Non per nulla negli ultimi vent’anni sono stati ben sei i ministri che si sono succeduti in quella carica.
Il neo-eletto Beat Jans rischia di dover ridurre le spese per la gestione dei profughi in arrivo nel nostro Paese Nessun altro Dipartimento ha conosciuto una rotazione così frequente del proprio numero uno, segno appunto che al momento la reputazione di «Giustizia e polizia» non è un granché. La ragione principale di questa scarsa considerazione è da ricercare nel tipo di problemi che questo settore deve affrontare, primi fra tutti l’asilo e l’immigrazione. Temi sui quali si rischia di finire facilmente nel mirino delle critiche, anche feroci, in arrivo in particolare dall’UDC, partito che attorno a questi argomenti ha costruito il suo successo e che in questi ultimi 20 anni solo in un’occasione – con Christoph Blocher in persona – ha assunto la guida di quel Dipartimento. Per Jans si tratta ora di riuscire a ridare forza e capacità d’azione a questo settore, uscito un po’ malconcio dalla gestione di Elisabeth Baume-Schneider. Non per nulla la ministra giurassiana appena ha potuto è andata ad accasarsi altrove, ora è agli Interni dopo aver trascorso solo un anno in veste di ministra di giustizia e polizia. Beat Jans si è così ritrovato tra le mani l’unico Dipartimento rimasto libero. «Giustizia e polizia» sembra così essere scivolato all’ultimo rango, superato anche dal Dipartimento della difesa, storicamente il meno gettonato del nostro Governo. In questi ultimi anni, sotto la guida di Viola Amherd, la sua reputazione sta tuttavia riprendendo quota, anche perché le contingenze internazionali hanno riportato il tema della sicurezza militare al centro delle preoccupazioni e anche degli investimenti finanziari. Al di là di queste vicende va det-
In primo piano Beat Jans durante una riunione del Consiglio federale. (Keystone)
to che in queste sue prime settimane in Consiglio federale Beat Jans è stato subito catapultato in prima linea. «Un inizio in salita», ha fatto notare lo stesso neo-Consigliere federale. Come ogni anno in gennaio quasi tutti i ministri del nostro Governo si trasferiscono per diversi giorni a Davos, per partecipare al Forum economico mondiale. Una vetrina internazionale che, al di là delle foto di rito e delle strette di mano, permette anche di affrontare alcuni temi concreti. Per lui, da discutere c’erano soprattutto questioni legate all’asilo, in particolare il futuro dei profughi ucraini che in Svizzera usufruiscono ancora dello statuto di protezione «S» e la questione degli accordi di riammissione dei richiedenti che non ottengono asilo nel nostro Paese, tema affrontato a Davos in particolare con il ministro degli Esteri iracheno, Faud Hussein. Da notare che il Consiglio federale ha finora sottoscritto ben 66 accordi di questo tipo, nessun altro Paese europeo dispone di un numero così alto di intese sul tema della riammissione.
Sul settore dell’asilo pende comunque la spada di Damocle dei risparmi. Proprio mercoledì scorso il Governo ha adottato una serie di decisioni per arginare il deficit di bilancio, con un disavanzo previsto di due miliardi e mezzo di franchi, a partire dal 2025. E l’asilo sarà uno dei settori in cui si prevede di ridurre i fondi a disposizione. In primavera se ne saprà di più, ma in ogni caso Beat Jans rischia di dover ridurre le spese per la gestione dei profughi in arrivo nel nostro Paese. Oltre all’asilo, l’altro grande ambito d’azione del neo-ministro è quello dell’immigrazione, in particolare quella d’origine europea. Tema politicamente scottante, che ha direttamente a che vedere con l’accordo sulla libera circolazione delle persone, e più in generale con il dialogo in corso per rilanciare le relazioni bilaterali tra Svizzera e Unione europea. Un nodo che per il neo-ministro va sciolto al più presto; a suo dire il nostro Paese ha più che mai bisogno di relazioni stabili con l’Ue. E lui, da basilese, sa di cosa parla, viste le tante intercon-
nessioni del suo Cantone d’origine e le regioni circostanti d’oltre frontiera, in Germania e in Francia. E qui val la pena sottolineare che Jans, da ministro di Giustizia e polizia, avrà un ruolo particolare. Spetta a lui partecipare in nome del nostro Paese alle riunioni dei ministri degli interni dei Paesi membri dell’Unione europea. Un vertice di questo tipo si è tenuto proprio la settimana scorsa a Bruxelles, ed è stato il primo che ha visto anche la presenza del ministro basilese. La Svizzera fa parte dello Spazio Schengen e Dublino, che gestisce asilo, immigrazione e lotta alla criminalità, e pertanto può partecipare a queste riunioni ministeriali europee. In questa veste Jans rappresenta una sorta di avamposto svizzero nei meccanismi decisionali dell’Unione, nessun altro consigliere federale prende parte a vertici europei di questo tipo, nei propri settori di competenza. Tornando in Svizzera c’è da dire che il neo-ministro ha di certo un asso nella manica, visto che politicamente gestisce l’Ufficio federale di giustizia, il
perno attorno al quale ruota l’attività legislativa di tutta l’Amministrazione federale. Le consulenze e le perizie di questo ufficio pesano come macigni. Un ambito sensibile anche per la vita concreta dei cittadini. Un paio di esempi: questo ufficio è il punto di riferimento per quanto riguarda la parità di genere tra uomo e donna, ad esempio a livello salariale. Ma l’Ufficio federale di giustizia si occupa anche delle questioni legate alle rivendicazioni delle persone trans, non binarie o appartenenti ad altre minoranze sessuali. Da presidente del Governo basilese, Beat Jans aveva promosso una riforma in questo ambito, la prima in Svizzera, approvata di recente dal Parlamento di quel Cantone. Tema di certo divisivo, visto che a Basilea si parla già di un possibile referendum. Argomento che approderà presto anche a livello federale. E così, al batterista e neo-ministro non mancheranno di certo le sfide, in questo e in tutti gli altri ambiti di sua competenza. A lui il compito di evitare di andare fuori ritmo.
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Anno LXXXVII 29 gennaio 2024
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azione – Cooperativa Migros Ticino
ATTUALITÀ
Il presidente dell'Alleanza del Centro Gerhard Pfister. (Keystone)
Tredicesima AVS?
Svizzera ◆ Qualche spunto di riflessione in vista della votazione popolare del 3 marzo Ignazio Bonoli
Le nuove ambizioni dell’Alleanza del Centro
Berna ◆ Il partito di Gerhard Pfister intende diventare un attore chiave nel panorama politico, con un peso maggiore in Consiglio federale Luca Beti
A volte i numeri mentono, o almeno non dicono tutta la verità. È il caso, ad esempio, per il risultato delle ultime elezioni federali. Il Partito liberale radicale ha ottenuto il 14,3% delle preferenze, mentre l’Alleanza del Centro il 14,1%. Eppure, il terzo partito sotto la Cupola federale è quello di Gerhard Pfister e non quello di Thierry Burkart. Infatti il Centro ha conquistato 5 seggi in più rispetto al PLR: 4 in più nel Consiglio degli Stati, uno in più nel Consiglio nazionale. Una vittoria, quella di Pfister, ottenuta attraverso una strategia intelligente che ha sfruttato al meglio le peculiarità del sistema proporzionale attraverso oculate congiunzioni di liste. Ma è stata anche una vittoria lungamente preparata, nata circa 4 anni fa, nel 2020, con la fusione con il Partito borghese democratico e il cambiamento del nome. Eliminando la «C» e ogni riferimento cristiano nella denominazione, ancora presente nelle versioni tedesca e francese, l’obiettivo è attrarre le elettrici e gli elettori che si riconoscono in uno schieramento del centro, ma non necessariamente nell’ispirazione cristiana del CVP. Pfister ha vinto la sua scommessa, riuscendo a far risalire la china a un partito in perdita di consensi dagli anni Ottanta, quando la sua quota di voto superava il 20%. E ora? La sfida è soddisfare le attese del nuovo elettorato, giovane e femminile, non legato alle tradizionali roccaforti, che desidera un centro forte, capace di stringere alleanze e creare compromessi. Si tratta di trovare soluzioni ai grandi temi della politica federale, come la riforma dell’Assicurazione vecchiaia e superstiti (AVS), le relazioni con l’Ue, i crescenti costi della sanità. «Il partito deve definire chiaramente il suo ruolo, distanziandosi dalla polarizzazione tra destra e sinistra. Dall’Alleanza del Centro ci si attendono nuovi impulsi e idee, e anche qualche sorpresa. Tuttavia è ancora presto per riconoscere il nuovo ruolo del partito», spiega Lukas Golder, condirettore dell’Istituto di ricerca demoscopica gfs.bern. Intanto, il risultato delle elezioni di ottobre ha dato una nuova consapevolezza politica all’Alleanza del Centro, partito che non intende limitarsi a fare da ponte tra i due blocchi, ma diventare protagonista attivo del-
la politica federale. Un nuovo posizionamento che Gerhard Pfister ha ripetuto più volte, quasi come un mantra: il partito deve proporre «soluzioni costruttive» e combattere «la polarizzazione». Secondo Pfister, il panorama politico in Svizzera ha subito un cambiamento fondamentale, come ha evidenziato in un’intervista rilasciata alla «Neue Zürcher Zeitung»: «Il blocco borghese, come lo si conosceva in passato, non esiste più. Si sta delineando invece un sistema formato da tre poli: UDC e PLR a destra, il PS e i Verdi a sinistra, e un centro guidato dall’Alleanza del Centro».
Il Centro può esercitare il suo potere politico solo se le due Camere remano nella stessa direzione Anche se introdotto più di tre anni fa, il nuovo corso imposto da Pfister è stato poco visibile, in parte a causa di una legislatura segnata dalla pandemia e poi dalla guerra in Ucraina. «L’attuale legislatura sarà decisiva per dimostrare se l’Alleanza del Centro può veramente incarnare questa nuova identità e agire efficacemente tra i diversi blocchi politici», sottolinea Golder. La sfida per il partito non si limita a definire e consolidare il proprio ruolo nel panorama politico, ma comprende anche la gestione delle diverse correnti interne. Infatti, il Centro può esercitare il suo potere politico solo se le due Camere remano nella stessa direzione. «In particolare i consiglieri agli Stati non hanno ancora fatto propria questa nuova dinamica imposta da Pfister», sostiene il politologo. Nell’ultima legislatura, specialmente quando a Berna si sono discusse questioni sociali come il finanziamento degli asili nido e dei container per i richiedenti l’asilo o la riduzione dei premi delle assicurazioni malattia, i senatori non hanno sempre rispettato gli ordini di scuderia, segnalando così che gli interessi dei Cantoni che rappresentano hanno la priorità rispetto a quelli del partito. «Sarà soprattutto il Consiglio degli Stati a decidere se in futuro l’Alleanza del Centro saprà davvero interpretare questo nuovo ruolo», prosegue Golder, ricordando che, sebbene sulla carta le due Camere siano su un piano di parità, in realtà il Consiglio degli Stati ha spes-
so maggiore peso, trattando per primo gli oggetti importanti e avendo quindi la possibilità di tracciare le grandi linee del progetto legislativo. E dato che con 15 seggi l’Alleanza del Centro è il partito più rappresentato nel Consiglio degli Stati è evidente che l’attenzione dell’elettorato e dei media sarà rivolta verso la Camera alta. L’avanzata dell’Alleanza del Centro mette anche in discussione l’attuale formula magica in Consiglio federale. Intanto la presidente della Confederazione Viola Amherd è già uscita allo scoperto, profilandosi nelle prime settimane dell’anno, promuovendo a Davos la conferenza sulla pace per l’Ucraina e sostenendo la necessità di riprendere i negoziati con l’Ue dopo un incontro con la presidente della Commissione europea Ursula von der Leyen. Gerhard Pfister, all’inizio di gennaio, ha dichiarato in un incontro con la stampa che nel medio termine il suo partito mira a una maggiore responsabilità di Governo con un secondo seggio. Ha poi esortato gli attuali consiglieri federali a rimanere in carica per l’intera prossima legislatura. Più che un invito, le parole di Pfister possono essere interpretate come un avvertimento indirizzato a Karin Keller-Sutter e Ignazio Cassis. «I due ministri del PLR stanno affrontando grandi sfide nei loro dipartimenti», osserva Golder. «Forse sono un po’ ottimista, ma credo che non manchi loro la motivazione per portare avanti i propri dossier nei prossimi anni, nonostante la situazione sia bloccata in particolare per quanto riguarda i trattati bilaterali con l’Ue». Le prossime elezioni federali del 2027 potrebbero di nuovo cambiare gli equilibri in Parlamento, affossando le pretese dell’Alleanza del Centro e del suo presidente. Infatti a Berna si dice che quando Gerhard Pfister si guarda allo specchio, veda sempre un consigliere federale. Al momento, però, ha messo da parte le sue ambizioni personali a favore del partito. È difficile immaginare l’Alleanza del Centro senza il suo leader, che dal 2016 ne sta dettando le sorti e consolidando il suo ruolo come forza centrale e costruttrice di ponti nella politica svizzera. Finora i numeri gli danno ragione.
Nella nostra recente analisi della situazione finanziaria dell’AVS («Azione» 13.11.23) accennavamo al fatto che l’iniziativa per una 13esima mensilità delle rendite (che provocherebbe un aumento dell’8,3% delle rendite da pagare), senza nuove fonti di finanziamento, creerebbe pesanti difficoltà finanziarie ai conti. Vista la situazione congiunturale prospettata per quest’anno (e forse dopo), per un aumento delle entrate vediamo due possibilità: una crescita dei contributi dei lavoratori e dei datori di lavoro e/o un aumento dei sussidi della Confederazione. Nel frattempo i sindacati (promotori dell’iniziativa) hanno iniziato la campagna in vista della votazione popolare (3 marzo). Il Consiglio federale raccomanda di respingere l’iniziativa a causa delle spese supplementari che comporterebbe, stimate ad almeno 4,1 miliardi di franchi l’anno. Come sappiamo, il futuro dell’AVS è condizionato dall’aumento dei pensionati. È stato calcolato che l’88% di questi ricevono di più di quanto hanno versato all’AVS. Proporzione che non è più constatabile per gli stranieri che vengono a lavorare in Svizzera. Il saldo migratorio negli ultimi 20 anni è stato di 66 mila persone circa ogni anno. Visto che gli immigrati sono in maggioranza compresi fra i 20 e i 50 anni di età danno un contributo positivo alle finanze dell’AVS. Un recente studio ha valutato che, oltre a migliorare la struttura per età dell’AVS, coprono il 40% delle entrate e solo il 30% delle uscite. E questo nonostante i salari globali percepiti dagli immigrati siano inferiori a quelli degli svizzeri e abbiano un tasso di disoccupazione maggiore, soprattutto se provenienti da fuori dell’area Ue/Aels. In ogni caso va rilevato che i beneficiari di pensioni versate dall’AVS all’estero hanno ormai superato la considerevole cifra di 800mila. Una situazione che potrebbe prolungarsi negli anni se il saldo dell’emigrazione continuerà a mantenersi su questi livelli. È quanto prevede anche lo scenario di riferimento dell’Ufficio federale di statistica, per cui potrebbe compensare l’arrivo al pensionamento dei nati nel periodo del cosiddetto «baby boom». Ma qui emerge un altro tema che suscita discussioni. La forza del franco svizzero, moneta con cui l’AVS paga le rendite, si ripercuote positivamente sui pensionati all’estero, sia stranieri, sia svizzeri emigrati. È stato calcolato che una rendita AVS percepita all’estero, negli ultimi 20 anni, ha più che raddoppiato di valore in Italia o in Francia, mentre per chi è rimasto in Svizzera l’aumento è stato del 22%. Per valutare bene queste cifre bisogna tener conto dell’inflazione che
in Svizzera, nel periodo considerato, è stata del 15% circa, mentre negli altri Paesi è stata generalmente ben superiore. Ciò nonostante è evidente che l’utile sul cambio va a beneficio di chi vive all’estero. Utile che, in molti casi, è superiore all’aumento dei prezzi. Infatti anche in Svizzera il cosiddetto paniere della spesa costa mediatamente l’84% in più di quello medio dei Paesi dell’Ue, con Paesi come la Spagna che sono perfino al di sotto del costo medio europeo. La differenza è ancora più evidente in Paesi fuori dall’Ue. Per esempio in Turchia questa differenza è 5 volte superiore. A titolo di confronto si può considerare che una rendita minima AVS di 1225 franchi mensili è superiore allo stipendio mensile di un docente. Il salario minimo in Turchia è pari a 480 franchi svizzeri. Queste cifre inducono effettivamente a chiedersi se l’AVS per chi vive in Svizzera è troppo bassa rispetto al costo della vita. È del resto l’argomento di base per l’iniziativa sulla 13esima mensilità. In realtà bisogna tener conto del fatto che l’AVS fa parte del sistema previdenziale svizzero dei tre pilastri, che si compone anche della previdenza professionale e della previdenza privata. Vi sono però casi in cui una rendita AVS (sola o male accompagnata) non basta per far fronte al crescente costo della vita in Svizzera. Subentra allora il sistema delle prestazioni complementari, a carico dei Cantoni. Si potrebbe pensare che questi casi siano molto frequenti. Invece, secondo le statistiche dell’AVS, solo l’8% dei nuovi beneficiari di rendite è costretto a chiedere una prestazione complementare. Il sistema ha l’indubbio vantaggio di fornire un aiuto immediato ai casi di bisogno effettivo. Evita così una distribuzione «a pioggia», come avviene per l’AVS. Questo è proprio uno dei maggiori rimproveri che gli oppositori fanno all’iniziativa sulla 13esima mensilità AVS. Al che i promotori rispondono: se anche il pensionato miliardario riceve un mese in più di rendita, sarà sempre meno di quello che ha pagato all’AVS fino al pensionamento. A monte c’è però il problema finanziario: nel 2032 le spese per l’AVS saliranno da 49 a 63 miliardi di franchi. Con la tredicesima saliranno ad almeno 67 miliardi. Questi miliardi in più sono oggi realistici ma, secondo l’iniziativa, sono frutto del pessimismo del Consiglio federale. In realtà il capitale dell’AVS, che è attualmente pari a 57 miliardi di franchi, scenderebbe a 32 miliardi tra il 2026 e il 2033. Con uscite annue di circa 70 miliardi non riuscirebbe più a rispettare il principio di riserve che coprano almeno un anno di uscite. Il futuro dell’AVS è condizionato dall’aumento dei pensionati. (Unsplash)
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MONDO MIGROS
Come la Svizzera risparmia La maggior parte della popolazione mette da parte fino a 1000 franchi al mese. Questo è il risultato di un sondaggio condotto dalla Banca Migros. Il bisogno di sicurezza sta determinando il risparmio della popolazione svizzera in modo più marcato rispetto agli anni precedenti. Solo pochi approfittano dell’aumento dei tassi di interesse Testo: Jörg Marquardt
il
61%
dei risparmiatori svizzeri di età superiore ai 18 anni mette da parte fino a 1000 franchi al mese. In generale, gli uomini risparmiano più delle donne. L’importo risparmiato è più alto tra le persone di mezza età che tra i giovani tra i 18 e i 29 anni.
il 55%
degli intervistati risparmia per poter far fronte a costi imprevisti, ad esempio in seguito a un incidente. Le riserve finanziarie sono quindi diventate per la prima volta il principale obiettivo di risparmio della popolazione. La previdenza, in cima alla classifica nei sondaggi precedenti, si è piazzata al secondo posto (51%). Il risparmio per una casa di proprietà rimane al terzo posto (29%).
il
41%
dei giovani tra i 18 e i 29 anni risparmia per un viaggio più lungo, un numero significativamente maggiore rispetto alle persone di età tra i 30 e i 55 anni (23%) e di oltre i 55 anni (21%). Gli uomini sono più propensi a mettere da parte i soldi per un’auto.
il 39%
degli intervistati prevede un peggioramento della situazione economica. Nel 2019 la percentuale era del 29%. I cittadini della Svizzera francese sono i più pessimisti: il 45% degli intervistati considera critica la situazione attuale. In Ticino i pessimisti sono il 42% e solo il 37% nella Svizzera tedesca.
il
22%
della popolazione è molto interessata ai temi finanziari e di investimento. Nel complesso, tuttavia, l’interesse è basso in tutti i gruppi di età. Il disinteresse è più marcato tra le donne (49%) che tra gli uomini (30%). C’è anche una disparità tra le regioni linguistiche: la maggior parte degli intervistati della Svizzera francese non è affatto interessata a questi argomenti (48%), rispetto al 45% degli intervistati in Ticino e al 37% nella Svizzera tedesca.
il 32%
il 15%
della popolazione risparmia senza un obiettivo concreto. La maggior parte di loro giustifica il fatto di farlo comunque con la sicurezza finanziaria in caso di imprevisti. Il 14% degli intervistati non risparmia affatto.
il
49%
Quasi la metà della popolazione risparmia semplicemente senza pensare al modo migliore per raggiungere un determinato obiettivo. Questo vale soprattutto per i più giovani e per le donne. Sebbene circa un terzo degli svizzeri non si rivolga a una banca o a un altro fornitore di servizi per una consulenza, ha comunque predisposto un piano di risparmio. Le persone a partire dai 55 anni di età fanno ricorso con maggior frequenza (24%) a una consulenza per raggiungere i propri obiettivi di risparmio.
da 50 a 100 franchi Questo è l’importo che quasi la metà degli intervistati utilizzerebbe (in media) al mese per avviare un investimento.
1º posto
Il conto di risparmio rimane chiaramente la forma di risparmio e investimento più popolare per quasi tutti gli obiettivi di risparmio, seguito dal conto privato. Solo per quanto riguarda la previdenza e il pensionamento anticipato il pilastro 3a è, come previsto, la forma di risparmio preferita. Quasi l’80% degli intervistati ha un conto di risparmio. Lì si trova buona parte del patrimonio liberamente disponibile. Nonostante l’aumento dei tassi di interesse, quattro intervistati su cinque hanno lasciato il proprio denaro su un conto di risparmio invece di impiegarlo per investimenti a più alto rendimento come obbligazioni o depositi a termine. In particolare per i giovani una delle ragioni principali di tale scelta è la mancanza di conoscenza delle forme di risparmio e di investimento.
2 anni
Questo è l’arco di tempo durante il quale la maggior parte della popolazione svizzera risparmia per poter acquistare una nuova auto o per fare un viaggio più lungo. Per l’acquisto di beni di consumo il 58% degli intervistati risparmia per meno di un anno.
degli intervistati ritiene molto importante che i propri investimenti comportino possibilmente un «rischio basso». Seguono «molta flessibilità» (15 percento) e «commissioni/costi bassi» (12 percento). Gli uomini sono tendenzialmente più propensi ad affrontare i rischi rispetto alle donne e quindi si concentrano maggiormente sulle plusvalenze e sui redditi elevati da interessi e dividendi. Rispetto agli anni precedenti, la flessibilità e la sostenibilità di un investimento sono considerate leggermente meno importanti.
il
27%
della popolazione dichiara che la propria situazione finanziaria è peggiorata negli ultimi due anni. Si tratta di un dieci per cento in più rispetto al precedente sondaggio del 2021. Questo sviluppo è probabilmente legato agli attuali conflitti politici e all’inflazione. In particolare, le persone fino a 29 anni (46%) vedono un miglioramento. Il 40% degli uomini ritiene che la propria situazione finanziaria sia migliore rispetto a due anni fa, contro il 29% delle donne.
Sondaggio rappresentativo Il sondaggio online eseguito su incarico dalla Banca Migros si basa su 1502 interviste a persone maggiorenni residenti in tutta la Svizzera. Risparmiate con la Banca Migros: bancamigros.ch/risparmio
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azione – Cooperativa Migros Ticino
ATTUALITÀ
Laboratorio di modernizzazione e laicizzazione?
Reportage – 2 ◆ La seconda tappa del nostro viaggio ci porta in Arabia Saudita alla scoperta degli ambiziosi progetti di Riad Federico Rampini
Dopo il Qatar (Dove si incontrano il diavolo e l’acqua santa su «Azione» del 22 gennaio 2024, p. 21) continua il nostro viaggio attraverso la penisola arabica. Non ci sarà una soluzione durevole alla tragedia israelo-palestinese senza un coinvolgimento diretto dell’Arabia Saudita: è l’unica potenza mediorientale ad avere risorse finanziarie adeguate per ricostruire Gaza, sostenere la creazione di un futuro Stato palestinese, e nella transizione verso quel traguardo «tacitare» con i suoi soldi le tante resistenze e opposizioni. Ma l’Arabia è a sua volta una parte del problema, come dimostra il basso profilo adottato dalla sua diplomazia – e dalle sue forze armate – nelle due crisi del momento: Gaza e Mar Rosso.
Veduta di Riad. (Unsplash)
Non ci sarà una soluzione durevole alla tragedia israelo-palestinese senza un coinvolgimento diretto dell’Arabia Saudita Se guardiamo a questi sconvolgimenti in un’ottica di lungo periodo, il sospetto è che il mandante di Hamas, di Hezbollah, degli Huthi, abbia come bersaglio finale proprio l’Arabia Saudita. Il mandante è l’Iran, ovviamente. Della teocrazia sciita che governa con ferocia a Teheran sappiamo gli obiettivi dichiarati: cancellare per sempre lo Stato d’Israele, sconfiggere e umiliare il «grande Satana», come l’ayatollah Khomeini definì l’America. Ma c’è un obiettivo meno conclamato eppure perfino più importante per un regime fanaticamente religioso: conquistare i due luoghi sacri dell’Islam, Mecca e Medina. L’invasione dell’Arabia Saudita, o perlomeno della sua regione più importante per 1,6 miliardi di musulmani, è l’unica spiegazione razionale per quell’«arco delle milizie sciite» che l’Iran ha costruito pazientemente negli anni in Libano, Siria, Iraq, Palestina, Yemen. Quell’arco accerchia l’Arabia. Queste riflessioni mi vengono in mente nel mezzo di un lungo viaggio in Arabia Saudita, dominato da tutt’altre questioni. È un viaggio all’insegna della rivoluzione saudita in ogni campo: leggi, diritti e costumi, economia, turismo. Ogni tanto mi assale una sensazione di déjà vu. Incontrando molti imprenditori stranieri nel loro entusiasmo ritrovo un’atmosfera che vissi vent’anni fa in Cina. All’inizio del millennio, a Pechino e Shanghai, incontravo tanti industriali convinti che in Cina si stava costruendo il futuro. Ora respiro un’eccitazione simile in Arabia Saudita e anche in alcuni suoi vicini del Golfo che le hanno fatto da apripista (Emirati, Qatar). Il paragone tra la Cina e l’Arabia è una forzatura, lo ammetto. La Cina è un colosso da 1,4 miliardi di persone. Ha potuto diventare la fabbrica del pianeta grazie alle dimensioni immense della sua forza lavoro. A questa stazza enorme vanno aggiunti altri ingredienti. Una storia capitalistica molto antica (la Cina meridionale conobbe forme di proto-capitalismo nel nostro tardo Medioevo). La cultura confuciana con la sua etica del lavoro. Il ruolo della diaspora, in particolare i capitalisti taiwanesi che furono i pionieri nell’investire in fabbriche non appena Pechino abbandonò il maoismo.
no dei segnali positivi in questo senso, ma non si cancellano in un istante decenni di abitudini consolidate. Spiego in che senso mi ricorda l’eccitazione che respiravo in Cina al passaggio del millennio. Molti imprenditori occidentali che operano su questo mercato si stanno convincendo che «qui tutto è possibile». Sono affascinati dai progetti grandiosi di MbS. Per esempio la rivoluzione urbanistica e architettonica in corso a Riad. Oppure il progetto ancora più avveniristico di Neom: i cantieri faraonici per costruirvi la città del futuro, le industrie tecnologiche più avanzate e la sfida della sostenibilità.
Neom dovrebbe diventare una sorta di Stato autonomo dentro il Regno arabo saudita, con regole e stili di vita decisamente più occidentali che arabe. Anche in tutto il resto del Paese l’evoluzione dei costumi e di certi diritti è palpabile, ad esempio la libertà per le donne di vestirsi come vogliono, di guidare, di uscire da sole in luoghi pubblici, di viaggiare da sole all’estero. MbS ha studiato i laboratori di Dubai e del Qatar e vuole replicare quel tipo di laicizzazione in un Paese ben più grande e soprattutto ben più centrale per l’Islam. Gli imprenditori occidentali sono colpiti dalla visione di lunghissimo periodo, un altro punto in comune con la Cina, e una differenza netta rispetto all’Occidente che vive di palpitazioni elettorali a ciclo frenetico. Chi investe in Arabia Saudita comincia a condividere un’opinione che unisce Riad a Pechino, e molte altre capitali di Nazioni emergenti: l’idea che l’Occidente è il passato, è una civilta in declino, mentre il futuro appartiene a «loro». Ho detto quanto l’Arabia sia oggettivamente piccola rispetto alla Cina. È piccola – come popolazione, non come Pil o ricchezza finanziaria – anche rispetto a tre attori geopolitici delle vicinanze: l’Iran che sfiora i 90 milioni di abitanti, la Turchia che si avvicina con oltre 85 milioni, l’Egitto a quota 113 milioni.
gativa. Negli ultimi otto anni, da quando il principe della Corona bin Salman è l’uomo forte del Regno, ci sono state oltre 1250 impiccagioni; i difensori dei diritti umani sono in prigione e vengono emesse regolarmente condanne a decenni di carcere anche solo per aver scritto un post su una piattaforma social». Nel Rapporto 2022/23 I afferma: «I tribunali hanno emesso sentenze di morte dopo processi gravemente iniqui anche nei confronti di minorenni al momento dei presunti reati. (...) Migliaia di residenti sono stati sfrattati con la forza dalla città costiera di Gedda. I lavoratori migranti han-
no continuato a essere abusati e sfruttati (...). Diverse migliaia di loro sono stati detenuti arbitrariamente in condizioni disumane, sottoposti a tortura o ad altri maltrattamenti e rimpatriati contro la loro volontà nei Paesi d'origine (...). È entrata in vigore la prima legge relativa allo stato personale del Paese che codifica la tutela maschile e la discriminazione nei confronti delle donne». Secondo la CIA, Mohammed bin Salman è stato inoltre il mandante dell’omicidio del giornalista dissidente Jamal Ahmad Khashoggi, ucciso nel consolato dell'Arabia Saudita a Istanbul nell’ottobre del 2018. / Red.
Il principe Mohammed bin Salman. (Keystone)
Nulla di tutto ciò esiste in Arabia. Ha solo 32 milioni di abitanti, di cui un terzo sono immigrati stranieri. Molti sauditi si erano abituati a vivere di rendita sulle entrate petrolifere: rendita sontuosa per i privilegiati, piccola rendita assistenziale per la maggioranza abituata a un Welfare modesto ma onnipresente. In certe mansioni la popolazione immigrata è indispensabile perché i sauditi le rifiutano: in particolare lavori di tipo operaio. La rivoluzione in corso sotto il 38enne principe Mohammed bin Salman (abbreviato in MbS) vuole costringere i giovani a cambiare atteggiamento verso il lavoro, e ci so-
Diritti umani calpestati L'Arabia Saudita è stato teatro – dal 18 al 22 gennaio scorso – della Supercoppa italiana di calcio. Per il giornalista e presidente del premio Sport e diritti umani di Amnesty International (AI) Riccardo Cucchi «il calcio non può rinunciare ai valori (...) in cambio di soldi. Se lo fa minaccia la sua stessa identità di sport per trasformarsi in strumento di un processo di cancellazione della realtà. Una realtà che, in Arabia Saudita, è violazione dei diritti umani, violenza e totalitarismo». Per il portavoce di AI Italia, Riccardo Noury «la situazione dei diritti umani in Arabia Saudita è estremamente ne-
Nei confronti delle mire egemoniche di Teheran e Ankara, la monarchia saudita ha degli svantaggi che non sempre il denaro può compensare. Nonostante i suoi armamenti sofisticatissimi, il Regno arabo saudita non è riuscito in passato a domare la rivolta Huthi nello Yemen sobillata dall’Iran, per cui oggi devono occuparsene America e Regno Unito. Per quanto «piccola» rispetto ad altri, l’Arabia Saudita è invece gigantesca se il paragone lo facciamo con gli Emirati e il Qatar, quei laboratori di modernizzazione e laicizzazione che il principe MbS ha sempre studiato con attenzione. Il Regno arabo saudita vuole replicare quegli esperimenti di successo su una scala assai superiore, e con una storia gloriosa alle spalle. Il custode dei luoghi sacri di Mecca e Medina ha come tale un prestigio notevole in tutto il mondo islamico che va dal Marocco all’Indonesia e include buona parte dell’Africa. La visione di MbS rilancia in chiave futuristica un «impero arabo» che nella storia fu capace di colonizzare anche l’Andalusia e la Sicilia, l’India settentrionale; e per alcuni secoli ebbe la civiltà più avanzata del pianeta. Questa memoria storica è un altro punto di contatto con la Cina, anch’essa erede superba di una civiltà con un senso di autostima sconfinato. Il mio impatto attuale con la «nuova Arabia» (la versione precedente la visitai nel 2017 viaggiando al seguito di Donald Trump, visita che sembra distante ben più di sette anni) mi suggerisce qualche cautela. Venendo dal vicino Qatar, nel Regno arabo saudita tutto mi sembra un po’ meno efficiente, e più caro. È uno dei tanti segnali della «febbre dell’oro»: tutti vogliono essere qui, chi vende ospitalità e servizi se ne approfitta, vedo un rapporto qualità-prezzo più esoso che a Manhattan. E il fenomeno da «febbre dell’oro» non riguarda solo gli hotel di una certa qualità e livello.
Chi vende ospitalità e servizi se ne approfitta. Vedo un rapporto qualità-prezzo più esoso che a Manhattan Grandi imprese che danno lavoro a maestranze importanti – migliaia di operai in cantieri edili – mi rivelano che il regno saudita specula sui dormitori per i dipendenti, affittando delle piccole stanze per cento euro a notte. Sono segnali di boom che potrebbero anche, a posteriori, rivelarsi come i sintomi di una bolla speculativa. MbS è impegnato in una corsa contro il tempo per realizzare tutti i progetti avveniristici della sua Visione 2030 prima che qualcosa vada storto e si metta di traverso. Già un poderoso vento contrario si è sollevato dal 7 ottobre 2023 con la strage di civili ebrei da parte di Hamas, e la conseguente reazione delle forze armate israeliane a Gaza. Il principe MbS aveva scommesso su una normalizzazione dei rapporti con Israele che ora è molto problematica. È un esempio dei tanti incidenti di percorso che possono interferire con i suoi piani. L’Iran di sicuro non vuole che l’Arabia decolli verso un futuro migliore, perché il successo di MbS e del suo laicismo metterebbe ancor più in evidenza la criminale incompetenza degli ayatollah.
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ATTUALITÀ
Pakistan e Iran di nuovo «amici»
L’analisi ◆ Cosa c’è dietro il recente scambio di bombe tra Teheran e Islamabad? Focus sul dramma della popolazione baloch Francesca Marino
È finita, come da copione, a tarallucci e vino. Anzi, vista la latitudine, a chai e samosa. Iran e Pakistan hanno emesso un comunicato congiunto in cui reiterano l’amicizia tra i due Paesi e mettono fine allo scambio di bombe avvenuto di recente. Ricapitolando i fatti: lo scorso 16 gennaio l’Iran lancia 14 missili e 7 droni suicidi nella zona di Panjgur, nel Belucistan (in inglese: Balochistan) pakistano per colpire, secondo Teheran, postazioni del gruppo militante della Jaish-ul-Adl. Sempre secondo Teheran, l’attacco dell’esercito iraniano è avvenuto come rappresaglia per la morte di 11 membri delle forze di polizia iraniane, uccisi dalla Jaish il mese scorso. Il Pakistan risponde dopo meno di quarantotto ore attaccando «nascondigli di terroristi del Balochistan Liberation Front e del Balochistan Liberation Army» nel Sistan-Belucistan in territorio iraniano. Sia il Pakistan che l’Iran dichiarano di aver colpito «gruppi terroristici» ma, a quanto dichiarano gli abitanti delle zone colpite, a morire sono stati soltanto donne e bambini.
Sia il Pakistan che l’Iran dicono di aver colpito «gruppi terroristici» ma, a quanto pare, a morire sono stati donne e bambini Non era la prima volta, in realtà, e molto probabilmente non sarà nemmeno l’ultima. Questa volta la questione è finita sulla stampa internazionale soltanto perché l’Iran aveva precedentemente bombardato Siria e Iraq nel contesto della guerra tra Israele e Hamas. A essere precisi, bombardare il Belucistan sia per Teheran che per Islamabad è una specie di sport nazionale. La storia comincia da lontano. Il Belucistan è stato diviso nel diciannovesimo secolo in East Balochistan, sotto il controllo dell’impero britannico, e West Balochistan rimasto a far parte dell’impero persiano. L’Est Belucistan, che coincideva più o meno con i confini dell’allora Khanato di Kalat, godeva di una certa autonomia all’interno dell’impero britannico mentre l’altra parte, occupata dagli iraniani, è praticamente scomparsa dalla carta geografica trasformandosi in una provincia dell’Iran. L’Est Belucistan è stato forzatamente annesso al Pakistan all’indomani della Partition ed è da allora perennemente in lotta contro Islamabad per ottenere l’indipendenza. In Iran, le istanze dei nazionalisti baloch sono state tenute sotto controllo dal Governo di Teheran che ha sempre usato il pugno di ferro, l’esercito e la polizia segreta per evitare che si formas-
Esponenti della comunità baloch con i ritratti dei familiari scomparsi a Islamabad, in Pakistan. (Keystone)
quando c’è bisogno di un diversivo a buon mercato e senza conseguenze. Il Pakistan deve andare alle elezioni il prossimo 8 febbraio, e la classe politica è in condizioni disperate mentre l’esercito è al minimo di popolarità storica.
È ridicolo, se non tragico, che due sponsor del terrorismo come Pakistan e Iran parlino di lotta al terrorismo
sero movimenti organizzati. Attuando le stesse strategie messe in atto da Islamabad e ottenendo alla fine più o meno, sia pur con le dovute differenze, gli stessi risultati: la nascita cioè di organizzazioni di guerriglia che chiedono l’indipendenza, come in Pakistan, o migliori condizioni di vita, come in Iran. Esattamente come in Pakistan, il Belucistan iraniano è estremamente ricco di gas, oro, rame, uranio e petrolio. Nonostante questo, sia in Iran che in Pakistan la regione ha il più basso reddito pro-capite e si stima che circa l’80% della popolazione viva sotto la soglia di povertà. Sia in Pakistan che in Iran, nell’area sono state installate moltissime basi permanenti dell’esercito (il Pakistan ha in Belucistan le sue installazioni nucleari) e si è incoraggiata l’immigrazione interna per tenere le eventuali rivolte sotto controllo.
L’8 febbraio si terranno le elezioni in Pakistan, la classe politica è allo sbando, l’esercito al minimo di popolarità
fico di organi, stupri e minacce sono all’ordine del giorno. Lo scorso ottobre, ad esempio, i civili di Dera Bugti, nel Belucistan pakistano, sono stati bombardati dalle truppe del loro Paese per più di venti giorni senza che nessuno se ne preoccupasse all’estero
né tantomeno in Pakistan. La colonizzazione cinese del porto di Gwadar e di larga parte del Belucistan pakistano ha inasprito sia le condizioni di vita della popolazione locale che le istanze di rivolta. Niente di meglio, quindi, che prendersela coi baloch
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Non solo: mentre da parte iraniana si stima che circa l’80% delle esecuzioni capitali sia a danno di cittadini baloch, in Pakistan gli abitanti della regione sono da settanta anni vittima di quello che in molti definiscono un vero e proprio genocidio, sia culturale sia fisico. Sparizioni forzate, omicidi extragiudiziali, fosse comuni, trafNawaz Sharif, tre volte primo ministro e volto-simbolo della corruzione endemica della classe politica pakistana. (Keystone)
Imran Khan, ex-premier e una delle figure politiche più popolari del Paese, è in prigione da mesi con le accuse più disparate mentre è stato fatto rientrare in patria Nawaz Sharif, tre volte primo ministro e volto-simbolo della corruzione endemica della classe politica pakistana. Bombardare l’Iran (o meglio, i baloch) è servito a ricompattare la popolazione attorno all’esercito e a distrarre i più dal fatto che le elezioni saranno, come sempre, truccate e gestite dai militari. Stesso discorso, con varianti minime, da parte iraniana: le Guardie rivoluzionarie sono in prima fila contro la lotta ai terroristi. E sarebbe ridicolo, se non fosse tragico, che due sponsor del terrorismo come Pakistan e Iran parlino di lotta al terrorismo e del terrorismo si dichiarino vittima.
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ATTUALITÀ
Memorie faticose: istruzioni per l’uso
Giorno della Memoria ◆ La difficoltà di provare empatia e solidarietà per la tragedia del popolo ebraico mentre gli attacchi israeliani si abbattono con ferocia sui palestinesi dimostra anche il fallimento dell’Europa. Le possibili vie d’uscita Sarah Parenzo
Inutile negarlo: la Giornata della memoria – celebrata il 27 gennaio per commemorare lo sterminio del popolo ebraico durante il Secondo conflitto mondiale – di quest’anno è stata per molti fonte di disagio al limite del fastidio. La durissima reazione di Israele ai crudeli massacri perpetuati da Hamas il 7 ottobre scorso ha indignato il mondo intero e trascinato il popolo vittima della Shoah sul banco degli imputati con la grave accusa di genocidio.
ri e intellettuali israeliani, palestinesi ed ebrei, il volume, curato dal teorico politico palestinese Bashir Bashir e dallo storico israeliano della Shoah Amos Goldberg, propone uno sguardo inestricabile sui diversi passati e una coraggiosa cornice concettuale, politica e storica che ambisce a strutturare una nuova grammatica che consenta di ripensare insieme a tali eventi. I contributi del libro presentano in modo approfondito aspetti diversi di un approccio storico e della memoria binazionali. Ognuna delle parti detiene una narrazione storica propria che, a sua volta, sfocia in una giustizia esclusiva. Nel nucleo di ognuna di tali narrazioni si erge un trauma che ha improntato l’identità e il percorso di ciascuna delle parti: la Nakba per i palestinesi e la Shoah per gli ebrei. Tali memorie «esclusive» continuano a gettare benzina sulla mancanza di giustizia in Israele/ Palestina, ostacolando la rappacificazione tra i popoli.
A prescindere dalla fondatezza delle accuse e dall’appropriatezza del gergo, la drammatica crisi umanitaria e il numero spropositato di vittime tra i civili di Gaza ha prestato per forza di cose il fianco alla narrativa delle vittime trasformatesi in carnefici. La rabbia e l’impotenza rispetto alla tragedia che si consuma in Palestina hanno finito per annullare anche la distinzione tra ebrei israeliani ed ebrei della diaspora, originando una miscela esplosiva che purtroppo non rende sempre agile la distinzione tra antisemitismo e legittima critica allo Stato ebraico e alle politiche del suo Governo.
Mancanza di autocritica Ad appesantire la situazione vi è senz’altro l’atteggiamento refrattario all’autocritica e al pluralismo delle istituzioni ebraiche europee che le rendono un interlocutore rigido e affatto disponibile a rinunciare al primato di vittima anche in queste paradossali e imbarazzanti circostanze. Tuttavia, l’obiezione diffusa della difficoltà di provare empatia e solidarietà per la tragedia del popolo ebraico mentre gli attacchi israeliani si abbattono con ferocia sui palestinesi dimostra anche il fallimento di un’Europa che, non a caso, rigurgita antisemitismo, islamofobia, razzismi e mancate integrazioni. Accostarsi al 27 gennaio percependolo quale tributo obbligato alle comunità ebraiche e alle loro vittime (che al loro interno commemorano la Shoah in primavera secondo il calendario lunare ebraico) significa ignorarne la funzione pri-
Keystone
Vittime e carnefici
maria che richiede di tenere viva la memoria europea, combattere l’ignoranza storica e favorire un’assunzione di responsabilità e un’elaborazione che dopo ottant’anni sono ancora troppo lacunose.
Il ruolo dell’Occidente Inoltre, se è sacrosanto vigilare sulla strumentalizzazione della Shoah e dell’antisemitismo da parte di Israe-
le, affinché essi non vengano utilizzati come pretesto per perpetuare l’occupazione e altre pratiche ai danni dei palestinesi, altrettanto fondamentale è interrogarsi sul ruolo dell’Europa nel legittimare tali politiche. Infatti, se Israele può commettere crimini contro l’umanità è anche, e soprattutto, perché gode della protezione e dell’appoggio delle maggiori istituzioni occidentali che si rendono complici ignorando, per l’ennesima volta, quello stesso monito insito nella
Il libro: Olocausto e Nakba Olocausto e Nakba. Narrazioni tra storia e trauma, a cura di Bashir Bashir e Amos Goldberg (Zikkaron, 2023), è un libro in cui intellettuali arabi ed ebrei esaminano le interconnessioni storiche, politiche e culturali tra Olocausto e Nakba, senza offuscare le tante e profonde differenze. Olocausto, ovvero lo sterminio degli ebrei nei campi di sterminio nazisti durante la seconda guerra mondiale, e Nakba,
«catastrofe» in arabo, termine con cui si indica, nella storiografia araba contemporanea, l’esodo forzato di circa 700 mila arabi palestinesi dai territori occupati da Israele nel corso della prima guerra arabo-israeliana del 1948 e della guerra civile che la precedette. Il libro citato è una rassegna di scritti interdisciplinari per ripensare modelli radicati di memoria e aprire spiragli verso un reciproco riconoscimento.
Giornata della memoria nei confronti della quale provano insofferenza.
Maggiore creatività Si tratta quindi di un groviglio complesso, che va affrontato da tutti gli attori in gioco con pazienza e umiltà, nella consapevolezza che ognuna delle parti in causa detiene delle responsabilità di cui è chiamata a rispondere. In un’intervista per «Azione» del 2022, dal titolo «La memoria come opportunità», la storica Anna Foa lanciava un appello agli intellettuali israeliani affinché venissero in aiuto dei colleghi europei per affrontare la Giornata della memoria con maggiori creatività e libertà di pensiero. E così è stato, poiché oggi, se è vero che la realtà pone sfide impensabili solo due anni fa, i lettori di lingua italiana sono tuttavia equipaggiati di un nuovo prezioso strumento. Mi riferisco al volume Olocausto e Nakba. Narrazioni tra storia e trauma pubblicato in italiano lo scorso autunno dalla casa editrice Zikkaron. Frutto dello sforzo collettivo di ricercato-
Sospendere il giudizio Il libro Olocausto e Nakba rappresenta un punto di svolta, sostenendo non solo che è possibile, ma che è necessario agire diversamente. Esso afferma che, nonostante l’enorme differenza tra gli eventi, e nonostante l’asimmetria nelle relazioni di potere e nelle responsabilità storiche tra le parti, è fondamentale narrare le due vicende traumatiche insieme, collegandole l’una all’altra. Questo volume, pubblicato nell’originale inglese dalla Columbia University Press, sta rivitalizzando il dibattito sulla Shoah e la Memoria che da tempo si era adagiato e arenato su posizioni stagnanti e autoreferenziali. Si tratta di un libro necessario per il pubblico europeo in generale per tutto ciò che riguarda le questioni della memoria, dell’empatia, del passato coloniale, dell’antisemitismo, della pace e della giustizia storica in Israele/Palestina, così come in altri luoghi. Pur nella consapevolezza dell’oggettiva complessità dei saggi e della potenziale resistenza psicologica che essi possono suscitare nel lettore che vi affronta la rottura di un tabù, si suggerisce di sospendere il giudizio prima di aver letto il testo. Annuncio pubblicitario
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Arance prodotte con amore
Chiara lo Bianco produce in Sicilia arance Bio per Migros. La decisione di diventare imprenditrice anziché ricercatrice è stata la più difficile della sua vita. E forse la migliore Testo: Monica Müller Immagini: Paolo Dutto
Chiara lo Bianco si trova su un ballatoio e guarda nel capannone del magazzino della Bio Sikelia, vicino a Siracusa. È qui che i frutti del suo lavoro vengono immagazzinati, confezionati e spediti. Le cataste di scatole rosa alte diversi metri si notano subito. Ride mentre spiega come ha scelto questo colore. «Peppa Pig» l’ha ispirata a farlo. È il maialino dei cartoni animati che sua figlia Sofia di cinque anni ama tanto. E probabilmente voleva anche inviare un segnale. All’età di 27 anni rilevò l’azienda dal padre che allora aveva 87 anni ed era stanco. Lui le aveva detto: «Sei libera di decidere. Se continuerai a fare la ricercatrice, venderò l’azienda». Chiara lo Bianco aveva appena terminato la sua tesi di dottorato in agronomia a Roma. Aveva diretto un progetto internazionale in collaborazione con l’università spagnola di Cartagena e l’università di Riverside negli Stati Uniti. Insieme avevano svolto ricerche sui miglioramenti genetici del carciofo. Era piena di idee per ulteriori progetti di ricerca e in grado di comunicare fluentemente in spagnolo e in inglese. E il suo professore voleva sostenerla. Ciononostante, decise di continuare l’attività di famiglia in Sicilia. Aveva vissuto a Roma fino all’età di dieci anni e in seguito in Sicilia. Fin da bambina sognava di seguire un giorno le orme del padre. Ma nei primi quattro anni da imprenditrice si svegliava ogni mattina in un bagno di sudore e pensava: «Che incubo!». L’azienda era infatti in difficoltà. Perdeva clienti, perché la qualità dei prodotti era soggetta a notevoli variazioni. Inoltre, nel settore del biologico c’era ormai concorrenza. Suo padre, ingegnere, aveva deciso di avviare già a suo tempo un’azienda agricola biologica in Sicilia invece di costruire ponti e strade a Roma. Essendo restio all’uso di pesticidi, piantò patate biologiche già nel 1992. Presto poté osservare nella sua azienda le farfalle di giorno e le lucciole di notte, il che lo rese più felice di qualsiasi altra cosa. 30 anni più tardi altri avevano tuttavia superato il pioniere lungo il suo cammino. Quando il padre morì nel 2012, Chiara inizialmente pensò di andarsene via. Ma poi decise di affrontare la sfida, rimase ogni sera in azienda a lavorare fino a mezzanotte e disse a sé stessa che l’azienda sarebbe stata sua! Nei confronti dei suoi dipendenti aveva uno stile dirigenziale da pari a pari,
L’imprenditrice Chiara lo Bianco celebra le prime arance della stagione dalla sua infanzia.
modernizzò i processi e sfruttò le sue conoscenze specialistiche nella coltivazione dei campi. Quando rilevò l’azienda, c’erano 4 persone che lavoravano in ufficio e 60 nei campi. Oggi sono 15 in ufficio e 170 nei campi. Nuove con la gemma Bio
Chiara lo Bianco fornisce la Migros con i suoi prodotti Bio come arance bionde, semisanguigne, sanguigne e limoni, ma anche zucchine, finocchi, fagiolini e carote durante la fa-
se di transizione dal vecchio al nuovo raccolto svizzero. Come novità i suoi agrumi sono certificati con il marchio della gemma di Bio Suisse. La conversione è stata relativamente semplice, in quanto l’azienda già soddisfaceva le severe condizioni del marchio e, parzialmente, addirittura le superava: «Oltre il 20% delle nostre superfici coltivate sono dedite alla biodiversità, ciò che per api e uccelli è molto importante», spiega lo Bianco.
«La biodiversità è importante per le nostre api e i nostri uccelli» Chiara lo Bianco
Chiara lo Bianco ha un rapporto speciale con le sue arance. Con il suo team coltiva 14 varietà e ne sperimenta anche di nuove. L’obiettivo è quello di estendere la stagione delle arance a dieci mesi e forse un giorno addirittura all’intero anno. Grande, ma famigliare
Le sue preferite sono le arance Tarocco. Da bambina a gennaio si sedeva sotto l’albero di arance Tarocco davanti a casa, sbucciava il primo
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MONDO MIGROS
«Le scatole viola sono diventate il nostro segno distintivo»
Stoccaggio e controllo della qualità presso Bio Sikelia, l’azienda di lo Bianco a Siracusa, sulla costa orientale della Sicilia.
Chiara lo Bianco
Sono 14 le varietà di arance coltivate da Chiara lo Bianco.
Lo sapevi? Le varietà Moro e Sanguinello sono considerate arance sanguigne. Sono arance sanguigne pure. In seguito agli sbalzi di temperatura la polpa e talvolta la buccia assumono un colore rosso sangue. Sono ottime per le spremute. La varietà «Tarocco» è un arancia semisanguigna meno pigmentata. Ha una polpa succosa di colore arancione intenso con una leggera tendenza al rosso. Ha un sapore deliziosamente dolce e un contenuto di acidi inferiore a quello delle arance sanguigne pure. È inoltre più facile da sbucciare rispetto alle arance sanguigne.
Gli sbalzi di temperatura contribuiscono a colorare di rosso la polpa e la scorza.
frutto della stagione e se lo gustava. Oggi ripete ancora il rituale insieme a sua figlia. «Questa prima e migliore arancia della stagione ha per me il sapore dell’infanzia», dice. Nonostante le dimensioni di Bio Sikelia, l’azienda è rimasta a conduzione familiare. La madre di Chiara, conosciuta da tutti come la «signora Caterina», è, anche all’età di 82 anni, presente ogni giorno in azienda. È avvocato, responsabile del personale e sorveglia il programma giornaliero. Alla
fine del mese controlla manualmente ciò che Chiara iscrive a bilancio nel computer. Sostiene inoltre i dipendenti, ad esempio, nell’acquisto di una casa propria o nel trasferimento della loro famiglia. Stefano, il marito di Chiara, si occupa di tutto ciò che riguarda la grafica, gestisce la pensione Casa di Melo e si prende cura di Sofia. Chiara ha ereditato l’amore per la terra dal padre. E da sua madre ha imparato il valore dell’amicizia e della fa-
miglia. Per loro questo significa anche sostenere e incoraggiare i propri dipendenti. Il 40% di loro è italiano, il 60% proviene da altri Paesi dell’area mediterranea. Ridah, ad esempio, è il vice direttore del magazzino. Originario di Tunisi, è un ingegnere elettrotecnico qualificato. Ha iniziato a lavorare come bracciante nei campi di finocchi. Oggi fa parte della squadra dirigente. Un’impresa gestita da donne è ancora una rarità in Sicilia, dice Chiara. Con
30% Bio Sikelia vuole dimostrare quanto possa essere sostenibile un’azienda agricola moderna. E ispirare altri a seguire il suo esempio. La rattrista il fatto che tanti giovani lascino la Sicilia per costruirsi un futuro altrove. Inizialmente, i dipendenti si vergognavano di andare in giro con le scatole rosa e le nascondevano dietro modelli più discreti. Oggi non è più così. Al contrario: «Le scatole rosa sono diventate il contrassegno della nostra marca».
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Preparazione: 1. Preriscaldare il forno a 225°C e tagliare il pollo a strisce sottili. Mettere quindi le strisce di pollo in un sacchetto di
plastica con il mix di spezie e i due cucchiai di olio e agitare bene. Disporre quindi ogni striscia di pollo condita su una teglia e cuocere in forno per circa 15 minuti fino a quando il Crispy Chicken avrà assunto un colore dorato.
2. Dopo - o contemporaneamente - togliere la tortilla dalla confezione, avvolgerla in un foglio di alluminio e cuocere
sul ripiano piastra centrale per 6-8 minuti (sempre a 225°C). Mettere da parte coprire le tortillas per tenerle calde fino al momento di servirle. In alternativa, le tortillas possono essere riscaldate nel microonde a 650-800 watt. Rimuovere le tortillas dalla confezione, metterle su un piatto adatto al microonde e riscaldarle per circa 35-40 secondi
3. Per servire, è sufficiente farcire una tortilla calda con il pollo croccante, aggiungere lattuga fresca e pomodori
succosi, spalmare un po’ di crème fraîche e arrotolare il tutto a formare una fajita. Buon Appetito! Consiglio: è ancora più facile con il Crispy Chicken Fajita Kit di Pancho Villa™. Altre ricette su www.pancho-villa.ch
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ATTUALITÀ / RUBRICHE
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Il Mercato e la Piazza
di Angelo Rossi
Economia svizzera: crescita modesta, inflazione tollerabile ◆
A inizio anno è stato pubblicato il rapporto trimestrale sull’andamento congiunturale della Seco. Questa volta era particolarmente atteso perché, a Capodanno, dalla Germania erano arrivate notizie preoccupanti: l’economia tedesca sarebbe entrata in una seria recessione. Erano quindi da attendersi ripercussioni negative anche per la nostra economia. Stando al rapporto della Seco non sembra che questo sia il caso. La prestazione dell’economia svizzera per il 2023 non è certo brillante ma il tasso di crescita del Pil (Prodotto interno lordo) supera comunque l’1%. Siamo lontani dal 2,5% del 2022, però quell’anno era ancora influenzato dalle esigenze di ripresa che avevano marcato la congiuntura dopo il Covid. Per quel che concerne l’evoluzione della domanda globale, l’aggregato che zoppica è, come era da attendersi, quello degli investimenti. Da attendersi perché la Banca Na-
zionale Svizzera (BNS), a partire dal giugno 2022, ha innalzato il tasso di interesse di riferimento dal – 0,75% all’1,75%. Investire è quindi diventato più caro come può verificare attualmente chi deve accendere o rinnovare un’ipoteca. Stando alle stime Seco del mese di dicembre, il tasso di variazione annuale degli investimenti nell’industria delle costruzioni sarebbe diminuito nel 2023 del 2%. Ma anche gli investimenti nelle attrezzature e negli impianti delle aziende, che nel 2022 erano ancora aumentati del 4,6%, sarebbero calati dello 0,7%. Gli altri aggregati della domanda globale, i consumi privati e quelli dello Stato, le esportazioni e le importazioni dovrebbero invece conoscere tassi di variazione positivi anche per il 2023. La frenata congiunturale dell’anno scorso è dunque da attribuire al calo degli investimenti e questo, a sua volta,
alla lievitazione dei tassi di interesse. Si tratta quindi di una frenata che ha la sua origine soprattutto nella politica di lotta contro l’inflazione praticata dalla BNS. Una politica che sembra aver raggiunto i suoi scopi perché l’indice dei prezzi al consumo dovrebbe assestarsi per il 2023 sul 2%. Di conseguenza la BNS non ha ritenuto, né nella sua valutazione del mese di settembre, né in quella del dicembre 2023, di dover aumentare il tasso di interesse di riferimento. Questa posizione potrebbe essere riveduta anche a breve termine se il tasso di inflazione, che in altri Paesi industrializzati continua a essere alto, dovesse da noi riprendere a salire. Indipendentemente dalle gravi ipoteche della politica internazionale, questa situazione di incertezza quanto all’andamento dell’inflazione a livello globale sembra aver pesato negativamente sulle previsioni per il 2024. Così la Seco prevede
per l’anno in corso un tasso di crescita del Pil pari all’1,1%, un poco inferiore insomma alla crescita che si stima sia stata realizzata nel 2023. I contributi degli aggregati della domanda globale alla crescita saranno diversi da quelli dello scorso anno. Ci si attende infatti che gli investimenti riprendano anche se con tassi di variazione modesti. La frenata congiunturale verrà invece dai consumi privati e dalle esportazioni. Infine i consumi dello Stato (ossia la sua spesa) conosceranno addirittura una diminuzione. I commenti degli esperti a queste previsioni sono in generale molto cauti. Le banche segnalano che l’inflazione è ancora lungi dall’essere stata debellata. Si accenna sia alla ripresa dei prezzi del petrolio, sia all’aumento dei prezzi dei servizi quali possibili focolai di un nuovo rincaro. I rami che esportano ricordano che le ripercussioni negative della recessione dell’economia tedesca e,
più in generale, la debole crescita delle economie europee, nonché una possibile ulteriore rivalutazione del franco, potrebbero ridurre i tassi di aumento delle esportazioni di beni ancora di più di quanto venga stimato dalla Seco. Il quadro globale è poi sempre reso incerto dagli sviluppi della politica internazionale in particolare dai conflitti in Ucraina e nel territorio di Gaza. Dovesse la congiuntura dell’economia elvetica potersi sviluppare senza essere influenzata troppo negativamente da questi fattori e le previsioni della Seco realizzarsi, avremmo davanti a noi due anni di crescita modesta, comunque superiore a quella dei Paesi della zona euro, e con un tasso d’inflazione tollerabile. Anche l’occupazione dovrebbe restare relativamente esente da problemi. Nel 2024 il tasso di disoccupazione della Seco per la Svizzera potrebbe infatti addirittura scendere a un valore da record, al disotto dell’1%.
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In&Outlet
di Aldo Cazzullo
Il ritorno di Trump, l’Hulk Hogan della politica americana ◆
È tornato. Nel 2016 aveva sete di potere. Nel 2024 ha sete di rivincita, anzi di vendetta. Donald Trump segna la fine della destra liberale, moderata, conservatrice, e l’avvento di una nuova destra, populista, aggressiva, anarcoide. Il modello di Trump non è mai stato Bush, Reagan, Nixon o Eisenhower. Il suo modello è Hulk Hogan, il re del wrestling. Come Hogan, Trump visto da vicino è altissimo, sovrappeso, torvo, minaccioso, malmostoso ma sempre pronto ad aprirsi in un sorriso ammiccante, a tirare all’interlocutore una pacca condiscendente (mai però a stringergli la mano). I suoi non sono comizi, sono show. Sostiene di non aver mai sentito un discorso di Obama sino alla fine perché «i discorsi politici sono finiti». Lui usa Twitter, almeno finché non glielo tolgono, o appunto lo spettacolo. Ha passato gli ultimi anni a dire due cose: l’America non è mai stata tanto forte, ricca, po-
tente nella storia; eppure l’America è in pericolo e deve essere protetta. Tutta la sua politica va letta come un’alternanza tra orgoglio e paura, tra senso di superiorità e allarme per l’impoverimento della classe media e la perdita di sovranità a favore del mondo globale. Sentimenti estranei all’élite che studia, viaggia, compete con l’estero, ma molto vivi nelle classi popolari, in particolare i bianchi. Uno dei passatempi di Donald Trump è sedurre le donne degli amici. Un giorno, in viaggio sull’aereo privato con un miliardario e una modella, propose di scendere ad Atlantic City per visitare uno dei suoi casinò. Seccato, l’amico rispose che ad Atlantic City non c’era niente da vedere: solo «white trash», spazzatura bianca. «Cosa vuol dire white trash?» chiese la modella. «Sono quelli come me», rispose Trump. «Solo che loro sono poveri». Il rapporto tra The Donald e
la sua gente è molto diverso da quello che legava Obama ai sostenitori. La gente ammirava Obama, la sua storia personale, la sua cultura; ma non era sfiorata dall’idea di essere come lui, di essere lui. Con Trump l’identificazione è totale. Perché Trump non è percepito come un miliardario, ma come un povero con i soldi. Che pensa e sente come i suoi elettori. Fino a quando non accade l’incidente, che pure nel wrestling è sempre in agguato. L’assalto a Capitol Hill è stato l’incidente. Per questo avevamo pensato che Trump fosse fuori gioco. Sbagliavamo. Trump è tornato e ha sbaragliato tutti. Ha costretto alla resa prima il miliardario ultraconservatore Vivek Ramaswamy, poi il suo ex pupillo Ron DeSantis; ed entrambi si sono schierati con lui. Resiste solo Nikki Haley, l’ex ambasciatrice all’ONU, che però è crollata in Iowa e non è riuscita a prevalere in uno Stato che avrebbe
dovuto essere il suo bacino elettorale, il New Hampshire, terra di moderati. Il ritorno di Trump è un vantaggio per Joe Biden, che si presenta come l’unico in grado di contenere l’aggressività del tycoon. Biden aveva avuto un avvio folgorante. Il grande piano di rilancio dell’economia, sia a sostegno delle famiglie povere, sia per la costruzione di nuove infrastrutture. Lo sprint della campagna vaccinale. I toni duri con la Turchia di Erdogan, con la Cina di Xi, con la Russia di Putin. Il sostegno all’Ucraina. Unica pecca: il ritiro dall’Afghanistan, già impostato da Trump, ma reso definitivo da Biden, con tempi e modi improvvidi. Senza le esasperazioni di Trump, Biden ha affrontato il tema dell’indipendenza produttiva e tecnologica degli USA; e ha lavorato per continuare a riportare in patria pezzi di filiera industriale. Perché allora è così impopolare? Solo perché è vecchio? Il cam-
mino verso la Casa Bianca è ancora lungo. Ma difficilmente saranno i magistrati a fermare Trump. Tanto meno la Corte Suprema, dove i repubblicani sono in maggioranza. La scelta, a meno di clamorose sorprese, spetterà agli elettori. Da europeo spero che un altro mandato di Trump si possa evitare. Ma non credo abbia ragione Biden, quando sostiene che con Trump morirebbe la democrazia. Per quale motivo se c’è una scoperta scientifica, un’innovazione tecnologica, una moda culturale – si pensi alla rivoluzione dell’entertainment con Netflix, Amazon, lo streaming – viene sempre e comunque dagli USA? Perché sono un Paese attrattivo, dove gli stranieri colti e preparati trovano il modo di entrare ed essere valorizzati, dove le minoranze possono dare il meglio di sé stesse. In una parola, perché l’America è una democrazia. E lo resterà anche con un pessimo personaggio come Trump.
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Zig-Zag
di Ovidio Biffi
Passeggiando tra ChatGpt e graffiti ◆
Divagazioni attorno a immagini e concetti che ritornano in questi tempi disordinati e conflittuali. Intelligenza artificiale Da oltre un anno assistiamo a una corsa verso tutto quanto riguarda, anche solo marginalmente, l’intelligenza artificiale (IA). L’elenco dei possibili influssi sul futuro della nostra società di questa scoperta legata al digitale e all’informatica è sterminato e si allunga ogni giorno creando, assieme a speranze e illusioni, anche preoccupazioni. Per dire: mentre qualcuno invoca leggi per imporre un’etica digitale o perlomeno dei controlli «veri», giunge notizia che siamo già arrivati al primo premio letterario (autorevole in Giappone) a una scrittrice che ammette di aver usato ChatGpt, cioè un’applicazione basata sull’intelligenza artificiale! Di sicuro non tranquillizza chi relativizza i pericoli affermando che in
fondo l’IA è pur sempre un prodotto dell’ingegno umano. Vero, un po’ simile al nucleare, e per questo a generare preoccupazione sono le ricerche su impiego e sfruttamenti. Così, immaginare che un giorno l’IA possa essere installata (pc, smartphone, cloud o… cervelli?) come una sorta di TomTom dei viaggi mentali di ogni singolo individuo dovrebbe bastare a decretare se non la messa al bando, perlomeno ferrei controlli. Quello che manca Su Twitter (mi rifiuto di chiamarlo X) incontro un messaggio con un elenco che mi colpisce: Amazon non ha negozi, Uber non possiede macchine, Facebook non ha contenuti, Airbnb non ha immobili, Alibaba non ha merci, Netflix non è una tv, Bitcoin non è denaro fisico. Mi suona un po’ come il consuntivo dei cambiamenti degli ultimi decenni, anche perché a
ognuna delle mega-aziende citate possono essere aggiunte decine di proliferazioni nate su internet e diventate una conferma pratica e impressionante dei mutamenti in corso nella nostra società. Per provare a commentare questa asserzione mi avventuro in diverse ricerche senza risultati concreti, fintanto che in un articolo dedicato ai fenomeni geopolitici che stanno creando disordine e conflitti un po’ ovunque nel mondo, incontro un pensiero del Mahatma Gandhi che illumina: «A distruggere l’uomo sono la politica senza principi, la ricchezza senza lavoro, la sapienza senza carattere, gli affari senza morale, la scienza senza umanità, la religione senza fede, l’amore senza sacrificio». Non ho gli attrezzi né la capacità di commentare oltre. Riesco solo ad augurarmi che le nostre scelte future tengano sempre conto delle parole del Mahatma.
Riferimenti Si susseguono, anzi, si sono intensificati sui media in questi ultimi tempi i rimandi che ricordano giudizi espressi da noti pensatori e personaggi sui grandi temi ritornati di attualità, ad esempio su fascismo, comunismo, oscurantismo, populismo ecc. Me ne accorgo durante la ricerca accennata prima e conclusasi con l’aforisma di Gandhi, tanto che mi sfiora l’idea di riempire il mio spazio (sarebbe facilissimo compilare un’intera pagina di giornale) con una raccolta di pensieri finiti nella cartella «Memento del momento» del mio disordinatissimo archivio digitale. Ne propongo solo uno che mi sembra il più appropriato per i momenti che stiamo vivendo: «Il vero oscurantismo non consiste nell’impedire la diffusione di ciò che è vero, chiaro e utile, ma nel mettere in circolazione ciò che è falso». Più o meno duecento anni fa J. W. Goethe aveva
già individuato lo Zenit e il Nadir che oggi ritroviamo nelle nostre preoccupazioni e che un po’ ovunque, dai dibattiti politici ai talk show televisivi, vengono abbinati ai condizionamenti delle moderne tecnologie. «Resisti!» Ormai da tanti anni tra i sempre brutti e indecifrabili graffiti sui muri delle case capita di vedere anche la parola «Resisti», scritta in corsivo. Ci ho fatto caso pochi giorni fa, mentre in auto sostavo in colonna. «Certo che lui resiste» mi son subito detto. La colonna si è mossa lentamente e, sempre suggestionato da quel graffito, giocando un po’ sulla parola, mi sono interrogato: chissà fino a quando resisteranno le scritte di chi resiste da anni a scrivere «Resisti» sui muri? Altra domanda: arriverà mai il giorno in cui non si avvertirà più l’esigenza di esortare gli altri a resistere?
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PUBBLIREDAZIONALE
Perché vale la pena di far analizzare il mio riscaldamento a pavimento? Perché invecchia senza che si noti! Se valgono i seguenti criteri, è necessario agire rapidamente: 4 Installazione tra il 1970 e il 1990 4 in funzione da oltre 30 anni 4 Calore insufficiente o irregolare
I
n passato per gli impianti di riscaldamento a pavimento malridotti esisteva un’unica soluzione: la completa sostituzione. Oggi la prevenzione è possibile. Pensa quindi a fare analizzare per tempo il tuo riscaldamento a pavimento prima che sia troppo tardi e che debba essere sostituito a caro prezzo.
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Il sistema di riscaldamento invisibile invecchia. La fragilità e lo strato melmoso che si forma all’interno delle serpentine sono le principali cause del malfunzionamento del riscaldamento a pavimento. Se questi problemi non vengono riconosciuti tempestivamente, di solito i danni sono irreparabili.
Ne sono particolarmente colpiti gli impianti installati tra il 1970 e il 1990 in quanto durante quel periodo per le serpentine si utilizzava principalmente una materia sintetica semplice che con il tempo si infragilisce.
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Grazie a un laboratorio mobile viene analizzata l’acqua del riscaldamento. Questo aiuta a capire quanto è invecchiato l’impianto di riscaldamento e quali misure sono necessarie e possibili. In poche ore questa valutazione fornisce indicazioni sullo stato dell’impianto. Gli esperti ti forniranno in seguito un rapporto di analisi con un elenco dei provvedimenti necessari e le proposte di soluzione.
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CULTURA ●
Marguerite è stata qui Un libro insolito e per certi versi lirico, ripercorre i luoghi e i legami del cuore della Yourcenar
Juraj Valcuha al LAC Intervista al direttore d’orchestra che l’8 febbraio riaprirà la stagione dei concerti dell’OSI al LAC
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Il successo di West Side Story Pubblico dai grandi numeri e due repliche in più segnano la fortuna di un musical senza tempo
Les paradis de Diane Intervista alla regista Carmen Jaquier che ha inaugurato le Giornate del cinema di Soletta
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Una tela controversa e duecento anni di storia
Tesoro nascosto – 4 ◆ Retroscena e curiosità attorno al dipinto di Paul Delaroche che ritrae gli ultimi istanti di Lady Jane Grey Gianluigi Bellei
La National Gallery di Londra è un museo particolare. Diversamente dalla maggior parte delle altre istituzioni non nasce da un nucleo di opere di origine reale o principesca. Più di cento anni dopo che i Medici hanno donato allo Stato di Toscana le loro collezioni, nel 1823 Sir John Beaumont, patrono di Constable, promette di lasciare la propria collezione di opere alla nazione a patto che venga trovata una sede adatta; seguito nello stesso intento dal reverendo Holwell Carr. Nel 1824 nasce così la Galleria. Nei decenni successivi ulteriori donazioni ne arricchiscono il patrimonio.
La National Gallery ha un’altra particolarità: sin dall’inizio non rimane aperta solo agli artisti e ai copisti, bensì a tutti i cittadini, soprattutto i più poveri, e ai bambini. Ancor oggi l’entrata alla collezione permanente è gratuita. Le opere sono esposte cronologicamente. Nell’Ala Sainsbury troviamo i dipinti dal 1250 al 1500 senza una suddivisione nazionale. D’altronde allora non esistevano le nazioni concepite come oggi; non c’erano la Germania, l’Italia, l’Olanda… Come non perdersi la pala d’altare dell’Annunciazione con Sant’Emidio di Carlo Crivelli del 1486 o la Vergine col Bambino con Sant’Anna e San Giovannino di Leonardo da Vinci del 1499? Nell’ala Ovest ci sono i dipinti dal 1500 al 1600. Qui troviamo Bronzino, Correggio, Cranach il Vecchio, Michelangelo, Raffaello, Tiziano, Tintoretto, in una sfilza di capolavori. Nell’Ala Nord ci sono i dipinti dal 1600 al 1700: la fa da padrona la pittura di paesaggio, senza dimenticare la graziosa sensualità delle gambe nude della Giovane donna al bagno in un ruscello di Rembrandt del 1654. Nell’Ala Est ci sono i dipinti che vanno dal 1700 al 1900. Un olio particolarmente controverso è la grande tela L’esecuzione di Lady Jane Grey (nell’immagine) di Paul Delaroche del 1833. Siamo in pieno Romanticismo, movimento capeggiato da Victor Hugo che nel 1831 pubblica Notre-Dame de Paris. Nella prefazione alla seconda edizione denuncia lo scempio attuato a Parigi con le demolizioni degli edifici storici. Hippolyte, detto Paul, Delaroche (1787-1856) è uno dei migliori allievi di Jean Gros. Al Salon del 1824 presenta tre dipinti, due dei quali vengono ben accolti
Keystone
Un olio particolarmente controverso è la grande tela L’esecuzione di Lady Jane Grey di Paul Delaroche del 1833
dalla critica. Inizia così un percorso articolato con dipinti di storia prevalentemente francese come L’imbarcazione da parata di Richelieu del 1829 o Il cardinale Mazarino sul letto di morte del 1830. Una produzione che ha come oggetto il Medioevo o il Rinascimento inglese. La morte di Elisabetta I, regina d’Inghilterra del 1828 segna l’inizio di questa produzione. Renaud Temperini sostiene che Delaroche «alla sua epoca non è meno celebre di Delacroix» per la sua attenzione per l’esattezza dei dati storici e per l’esecuzione levigata e brillante delle impaginazioni teatrali e dei drammi storici pazientemente ricostruiti. Naturalmente non tutti sono d’accordo. Ma vedremo. Dal 1837 al 1841 lavora a un gigantesco Emiciclo all’Ecole Nationale Supérieure di Parigi dove sono raffigurati i maggiori artisti e architetti di tutti i tempi. Una sorta di Scuola di Atene di Raffaello. Prima di parlare del dipinto in questione scopriamo brevemente chi è Lady Jane Grey. La sua vita sembra un drammone pieno di intrighi che non pare neanche tanto vero. Chi fosse interessato può leggere la sua
biografia scritta dal pastore evangelico Paolo Castellina. In breve, il padre è Henry Grey, marchese di Dorset, e la madre Frances Grandon. Nasce nel 1537 e viene educata per essere la futura regina. È piccola, dai capelli chiari e fini. La sua pelle molto delicata con delle lentiggini. Viene trattata come se fosse la figlia del Re. Castellina scrive che si svegliava alle 6 con la preghiera. Seguiva la colazione di pane, birra e carne. Poi continua con le lezioni di greco e latino.
Il dipinto di Delaroche fissa l’ultimo istante prima dell’esecuzione quando Jane già bendata cerca il ceppo per appoggiarvi la testa Al pomeriggio lezioni di musica e letture bibliche. A 6 anni, per aumentarne lo status sociale, viene mandata dalla regina Caterina Parr sposa di Enrico VIII che, convertita alla fede evangelica, influisce notevolmente su Jane. Tra il 1549 e il 1550 ritorna dai genitori che l’affidano per il prosieguo dell’educazione
a John Elmer. A Jane piace scrivere, leggere e fare musica. Il 25 maggio 1553 viene fatta sposare con Guilford Dudley. Tre giorni più tardi muore il re Edoardo VI. Seguono lunghi intrighi per fare decadere la legittima erede la regina Maria, definita dal Consiglio della corona «bastarda», e incoronare Jane. Dopo 9 giorni di regno viene detronizzata e il Consiglio il 19 luglio proclama Maria legittima erede. Incarcerata viene uccisa il 12 febbraio 1554 a soli 17 anni. Castellina scrive che nel momento dell’esecuzione indossa un abito nero con un foulard bianco. Ai pochi presenti dice: «Davanti a Dio e davanti a voi, buoni cristiani, nell’innocenza mi lavo le mani». Dopo averle tolto le vesti il boia le chiede ritualmente perdono. Poi il colpo d’ascia e il carnefice alza la tesa di Jane dicendo: «Così periscano tutti i nemici della regina. Ecco la testa di una traditrice». Il dipinto di Delaroche fissa l’ultimo istante prima dell’esecuzione, quando Jane già bendata cerca il ceppo per appoggiarvi la testa e non trovandolo viene aiutata dal guardiano della torre. Di fianco, con le calze
rosse, il boia svetta sull’abito bianco della ragazza. A sinistra, una damigella addolorata e dietro un’altra volge le spalle al tragico evento. Nella scheda relativa al dipinto, pubblicata nella Guida del museo, Erika Langmur sostiene che l’artista ha falsato la realtà storica dato che l’esecuzione avvenne all’aperto e non nella torre. In più la regina non poteva avere un vestito di raso bianco con le stecche di balena e sicuramente non i capelli sciolti. Un dipinto levigato, meticoloso, dettagliato che non piace perché rappresenta «l’apoteosi della fragilità femminile, compatita da un garbato carnefice». Nel 1563 John Foxe nel libro dei martiri scrive: «Che questa degna signora sia conosciuta come una santa: e che tutte le nobili signore che ne portano il nome imitino le sue virtù». Avrete notato, leggendo, che il 2024 è il bicentenario della nascita della National Gallery. Quest’anno iniziano le celebrazioni. Buon viaggio, anche solo immaginario. Informazioni The National Gallery, Londra. www.nationalgallery.org.uk
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CULTURA
Romeo e Giulietta
Opera ◆ La tragedia lirica di Bellini protagonista al Luzerner Theater fino a febbraio
La forza tranquilla di Marguerite Yourcenar
Pubblicazione ◆ Eugenio Murrali ripercorre i luoghi dell’esistenza della scrittrice francese raccontandola attraverso le voci di chi le è stato accanto Blanche Greco
Un libro che è una mappa di straordinarie passioni, una sorta di diagramma sotterraneo, immaginate quello della metropolitana di New York, solo che in questo caso incrocia i nomi delle persone con gli avvenimenti; le parentele e le vicissitudini famigliari con i paesaggi; i viaggi e le influenze degli eventi mondiali con le scelte che tracciarono il destino e accompagnarono la vita di una bambina e poi di una donna diventata una grande scrittrice: Marguerite è stata qui di Eugenio Murrali è la biografia di Marguerite Yourcenar, ma anche il romanzo della sua vita, indagata e ripercorsa nei suoi più segreti frammenti sentimentali. Quanto influisce l’infelicità sul talento di un’artista? Cosa rimase a Marguerite del dolore e del lutto che accompagnarono la sua nascita?
Marguerite è stata qui è un libro insolito, una biografia di Marguerite Yourcenar che divaga, un’indagine sulla memoria, sull’architettura del pensiero umano Orfana in fasce, molto amata dal padre che però sparisce anche lui troppo presto: «Marguerite aveva la forza tranquilla di chi non rincorre la felicità» e l’autore inizia il racconto della sua vita con questa frase che pare un viatico. Forse è proprio questo atteggiamento ciò che affascina Murrali, che suggella quella sintonia che lo spinge a partire sulle tracce di Marguerite Yourcenar, a prendere aerei, treni, ad attraversare Paesi, il mare e soprattutto il tempo per incontrare chi l’ha cresciuta, chi l’ha conosciuta, chi l’ha amata e chi non l’ha voluto, o potuto fare, forse timoroso della sua intelligenza. È così che Murrali a Bruxelles, in mezzo agli ippocastani fioriti di Avenue Louise, rievoca l’atmosfera di quell’8 giugno 1903, e
dei giorni che seguirono in quella palazzina del 193 in cui era nata Marguerite de Crayancourt, attraverso una sinfonia di voci e di pensieri che s’intrecciano e ne ricostruiscono gli eventi: c’è la cuoca Aldegonde, l’ostetrica Azélie, la bambinaia Barbe; mamma Fernande, i sogni della quale si perdono in un ultimo anelito di vita e d’amore per il suo Michel René destinato a restare di nuovo vedovo, stavolta con una figlia; e l’implacabile nonna Noémi, che ormai teme i tragici capricci del destino che sembrano governare la storia della sua famiglia e dei matrimoni del figlio, colpevole ai suoi occhi, di cercare l’amore. In un crescendo d’incontri e di perdite raccontate dagli stessi testimoni, conosciuti, o anonimi, ritroviamo Marguerite a Parigi, a Roma, a scuola, o in viaggio, prima con papà, poi senza di lui: a Tivoli tra le mura e i giardini di Villa Adriana nel 1924 quando entra a far parte dei suoi pensieri l’imperatore Adriano; quindi in Grecia, in Austria, di nuovo in Francia e poi in America. È il 1931 quando, diventata Marguerite Yourcenar, sorta di anagramma elaborato nelle lunghe conversazioni con papà, inizia a pubblicare La nouvelle Eurydice, Pindaro e poi Alexis. Dalla passione per André, colui che le ha aperto le porte dell’editore Grasset, intellettuale che l’ammira, ma che «non poteva amarla», scaturisce Fuochi splendido libro di poesie «che non deve leggere nessuno». Ad Andreas, il suo amico greco, poeta surrealista, psicanalista e suo compagno di strada per un periodo, dedica le Novelle Orientali pubblicate nel 1938. Mentre l’ombra dell’Imperatore Adriano diventa una presenza che negli anni prende sempre più spazio nei pensieri e nei taccuini di Marguerite, gli amori, i problemi famigliari e finanziari e infine la guerra, le scompigliano la vita e la inducono a partire per New York su invito di Grace Frick, studentessa ame-
ricana conosciuta a Capri, dove è stata sua compagna di viaggio e complice di tenerezze. Roma, Parigi, l’Aia, le Mont-Noir, New York e poi Mount Desert Island nel Maine, il viaggio di Eugenio Murrali continua, guidato dalle pagine dei libri e dalla geografia degli affetti di Marguerite Yourcenar. Non è un caso che le voci narranti che a questo punto si alternano siano la sua e quella di Grace Frick, la compagna di quasi tutta la vita di Marguerite, quella che assiste alla nascita del suo libro più importante: Memorie di Adriano (Mémoires d’Hadrien), che consacra il suo talento, le sue opere e sarà determinante per gli onori che le saranno tributati da quel momento in poi, sino alla sua elezione all’Académie Française. Marguerite è stata qui è un libro insolito, una biografia di Marguerite Yourcenar che divaga, più una indagine sulla memoria, sull’architettura del pensiero umano, sulle influenze della storia e gli effetti dell’amore, ma soprattutto è un gioco di specchi dove destino, passioni, ed eventi vengono distillati nei monologhi dei vari personaggi che parlando di Marguerite, raccontano sé stessi. È Jerry, un giornalista, ultimo amore di Marguerite, a ricordare l’ebbrezza della loro relazione esaltante e frenetica come la loro agenda dei viaggi, sinché non s’infrange davanti ad altre passioni e al tradimento. È Murrali a tirare le fila del romanzo che in questo groviglio di voci irretisce il lettore, lo seduce ricordando vagamente la voce limpida dell’Imperatore Adriano, quella malinconia evocata con maestria da Marguerite Yourcenar come il suo desiderio bruciante dell’amore perfetto, ideale, per Antino che attraversa il tempo e la sua mente. Bibliografia Antonio Murrali, Marguerite è stata qui, Neri Pozza, Milano, 2023
Bellini compone la tragedia lirica in due atti I Capuleti e i Montecchi in poco più di un mese, come spesso gli capitava di fare, tanto da dover riciclare, modificandoli, motivi di opere precedenti; in questo caso, Zaira. L’opera era poi andata in scena per la prima volta con enorme successo a Venezia nel 1830, grazie anche ad un cast eccezionale, tra cui la famosa Giuditta Grisi nel ruolo di Romeo. Se già alla fine di quel secolo ci si era però poi praticamente dimenticati de I Capuleti e i Montecchi, negli ultimi anni del nostro l’opera ha incominciato a godere di ampio interesse. Per fortuna, ci sentiamo di dire, ed è possibile rendersi conto di come questo lavoro di Bellini sia un vero e proprio gioiello anche grazie alla nuova produzione in cartellone al Luzerner Theater con la direzione musicale affidata alla bacchetta di Jonathan Bloxham. Si tratta di una realizzazione in forma di semiconcerto (semikonzertant la definiscono qui) di Christine Cyris, ma si dovrebbe piuttosto parlare di semi allestimento. Senza scenografia a parte qualche accessorio, per intenderci, ma con una sobria e così accurata guida delle dramatis personae che tutto è fuorché minimalismo registico. Un semi allestimento senza perciò nulla da invidiare alle rappresentazioni complete di scene, che finiscono a volte (non sempre, ovviamente) per banalizzare musica e testo. Librettista di quest’opera di Bellini è Felice Romani, il quale aveva riadattato un libretto che aveva scritto nel 1825 per Giulietta e Romeo di Nicola Vaccai. Della tragedia di Shakespeare non vi è molto, in questi Capuleti e i Montecchi, in quanto il libretto si concentra sulla parte conclusiva, eliminando quasi interamente lotte, risse e, soprattutto, quell’apice di drammaturgia che è la morte di Mercuzio. Anzi, Mercuzio proprio non c’è, e i personaggi sono soltanto cinque. Jonathan Bloxham alla testa della Luzerner Sinfonieorchester riesce a trasmettere tutta la bellezza di una formidabile partitura che alterna qualche momento di alta tensione a lunghissimi flussi melodici. Il Maestro britannico dirige perfettamente calibrato, ma anche con polso ove necessario, senza tuttavia mai sottolineare eccessivamente le sonorità più intense e, soprattutto, sempre in ossequio a quella che è la struttura belcantistica squisitamente belliniana. Il cast canoro, dunque sempre in sintonia con l’orchestra, è stellare; vi campeggia So-
lenn Lavanant Linke che con grinta dà vita ad un Romeo brioso, dinamico e coinvolgente. Con appagante espressività e, soprattutto, sempre cogliendo i tempi, il colore e il ritmo più appropriati per ogni situazione, il mezzosoprano francese interpreta magnificamente il suo non facile ruolo sin dalla cavatina «Se Romeo t’uccise un figlio». Nel tratteggio del personaggio di Giulietta (nella foto), le è accanto il soprano inglese Elizabeth Bailey che affronta la parte con una vocalità ben modulata e timbrata, con un buon fraseggio e muovendosi senza problemi anche in zona acuta. Entrambe le cantanti fanno di ogni abbellimento vocale uno strumento espressivo e drammatico che non si limita a momenti di virtuosismo fini a se stessi; giustamente e anche secondo le intenzioni del compositore, per il quale non conta soltanto l’eleganza della melodia ma anche le emozioni dei personaggi.
Il pubblico ha accolto la nuova produzione con gratitudine ed entusiasmo Per quanto riguarda le parti maschili, ci è piaciuto Daniel Jenz nei panni di Tebaldo. Il tenore dimostra eloquentemente di saper agire con naturalezza in questo repertorio, esibendo una voce importante e un buon fraseggio. Ottima anche la prestazione dei due bassi, Christian Tschelebliew nei panni arcigni ma non troppo di Capellio, padre di Giulietta, e Vladyslav Tlushch in quelli di Lorenzo (qui medico e confidente di Giulietta), nonché quella del l’Opernchor Luzerner Theater preparato da Manuel Bethe. Gli abiti che i cantanti indossano sono creati da Ulrike Schneiderer, neri e sui toni del grigio per gli uomini, bianco per Giulietta, contrasto ancor più evidenziato dall’efficace Light Design di Ivo Schnider. Resta ancora da dire, anzi da ribadire, che grazie alla già citata guida degli interpreti e, ovviamente, alla verve drammatica di questi, anche una realizzazione senza scene può risultare, come in questo caso al Luzerner Theater, molto suggestiva e di grande impatto. Il pubblico ha accolto la nuova produzione con gratitudine e entusiasmo. Le repliche de I Capuleti e i Montecchi di Vincenzo Bellini si protrarranno ancora sino a febbraio 2024. Informazioni www.luzernertheater.ch
Ingo Hoehn
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Marinella Polli
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azione – Cooperativa Migros Ticino
CULTURA
«Mio padre non voleva che facessi il musicista»
Intervista ◆ Juraj Valcuha l’8 febbraio dirigerà il concerto dell’OSI al LAC accostandosi alla celeberrima Eroica di Beethoven Enrico Parola
Con «Azione» al LAC «Azione» mette in palio alcuni biglietti per il concerto dell’OSI diretto da Juraj Valčuha con Piotr Anderszewski al pianoforte giovedì 8 febbraio alle 20.30 alla Sala Teatro del LAC. Per partecipare al concorso inviate una mail a giochi@azione.ch, oggetto «direttore» con i vostri dati (nome, cognome, indirizzo, no. di telefono) entro domenica 4 febbraio alle 24.00).
tasti fu il modo con cui entrai in contatto con la musica». Difficile però trovare una classe di cimbalon al Conservatorio di Bratislava, «e allora, pur di entrare nel mondo della musica, mi iscrissi a composizione». Stava imboccando una strada che l’avrebbe portato in una direzione inattesa e imprevista, ma decisiva: «Al corso di composizione si imparano anche i rudimenti della direzione d’orchestra.
«Capii che quando i brani sono difficili e magari c’è anche poco tempo per provarli, l’apporto del direttore è un aiuto importante» L’insegnante, dopo qualche lezione, mi consigliò di provare a prendere in seria considerazione quella strada, gli sembravo portato. La prima volta che salii su un podio fu per dirigere una mia composizione, un Settimino; capii che quando i brani sono difficili e magari c’è anche poco tempo per provarli, l’apporto del direttore può rappresentare un aiuto importante, così decisi di dare il mio contributo alla musica e ai musicisti salendo su un podio». Ancora oggi, dopo centinaia di concerti e opere, si stupisce nel «vedere come un singolo movimento, uno scatto o una flessione di un solo dito possano creare un’intima connessione tra il podio e l’orchestra e far variare dinamiche, suoni, accenti, fraseggi. È come una discussione: mentre la musica avanza accade qualcosa, e non si può andare avanti senza tenere in considerazione che cosa sta succedendo, la reazione che l’orchestra ha avuto a un mio stimolo». Dialogando ci si conosce sempre più, e «quando si instaura questa fiducia reciproca, allora si può tentare di far qualcosa di diverso, di nuovo,
© Juraj Valcuha
Forse, se avesse studiato pianoforte come Piotr Anderszewski, non sarebbe diventato un direttore d’orchestra e non si sarebbe presentato, come farà giovedì 8 febbraio, sul podio dell’Orchestra della Svizzera Italiana forte di un curriculum di assoluto prestigio. Juraj Valcuha è stato il direttore musicale del teatro San Carlo di Napoli, di orchestre prestigiose come la Rai in Italia, di Houston e Pittsburgh in America; al LAC accosterà la terza sinfonia di Beethoven, la celeberrima Eroica, al terzo concerto per pianoforte di Bartok, solista proprio Anderszewski. Tutto iniziò col cimbalo: «Mio padre non voleva che facessi il musicista» ricorda il quarantottenne musicista di Bratislava. «In famiglia la musica non aveva avuto mai grandissimo spazio. Però il mio bisnonno, quando era emigrato a Pittsburgh per cercare lavoro, aveva scoperto e studiato il cimbalon, uno strumento desueto che noi colleghiamo immediatamente alla musica popolare, al repertorio folclorico, ma che fu usato nel Novecento da autori come Stravinskij, Dutilleux e Boulez. Quando mio nonno ritornò in patria, ne portò a casa uno; e quando ero piccolino si trovava ancora nel salone di mio nonno; a me piaceva toccarlo, azionarne i
si può osare. Anche perché per me la curiosità è un elemento fondamentale: bisogna lasciarsi sfidare e provocare, bisogna spaziare e scoprire, passare dall’opera alla sinfonica, dal grande repertorio alla contemporanea, e se possibile aprire un dialogo e un confronto con i compositori viventi». Se quel Settimino fu un’ispirazione e tracciò la strada, il percorso prese la direzione della Russia svoltando a New York: «Nel 1994 avevo diciotto anni e cantavo nel coro del Conser-
vatorio; tenemmo una tournée lungo la Est Coast degli Stati Uniti; a New York c’era un concerto della NY Philharmonic, orchestra mito; a dirigere c’era un personaggio che non mi diceva assolutamente nulla, un certo Valery Gergiev (ride: è considerato uno dei massimi diretttori degli ultimi trent’anni, ndr.), allievo di Ilya Musin. Mi sono detto: se uno che ha studiato a Leningrado arriva alla Filarmonica di New York, vuol dire che la scuola russa è una buona scuola. Un
anno dopo ero davanti a Ilya Musin. Era nato nel 1903, tre anni prima di Shostakovich, ma nonostante l’età andava a insegnare al Conservatorio di San Pietroburgo ogni giorno; fui suo allievo per due anni, un periodo decisivo». Anche l’essere nato a Bratislava ebbe un’influenza non secondaria: «Ai miei tempi era dentro la “cortina di ferro” – infatti sono cresciuto con i grandi autori russi – e prima faceva parte dell’impero Austro-Ungarico, era una sorta di sorella minore di Vienna e Budapest: per questo gli autori che hanno avuto l’impatto maggiore quando ero studente sono stati i viennesi di inizio Novecento come Mahler e Richard Strauss, i cechi e i magiari come Janacek e Bartok». Autori su cui convergono le attenzioni anche del pianista Anderszewski che pure abbiamo sentito: «Da alcune stagioni sto eseguendo sempre più Bartok e Janacek, sto capendo e ammirando sempre più la loro musica. Bartok, soprattutto: è un gigante; non posso dire di amare tutto ciò che ha scritto, ma quanto del suo catalogo scelgo di affrontare… beh, lo adoro. Talvolta non riesco a cogliere appieno il lato etnografico, l’acribia scientifica con cui recuperava la tradizione musicale popolare più sinceramente ungherese, e in generale percepisco un lato misterioso dietro le sue note cui non riesco ancora ad arrivare, ma, essendo io polacco, ho la sensazione di parlare lo stesso linguaggio, che non è parte del ceppo indoeuropeo, e questo mi aiuta a interpretare la sua musica». Anche lui era passato dall’America, «e con fatica, perché dalla Polonia prima della caduta del Muro di Berlino era difficile andare oltreoceano; ma fu una delusione: in quel sistema, dominato da una corsa frenetica verso la carriera e il successo, mi sembrava di correre solitario nel deserto, non avevo una guida che mi aiutasse a sviluppare il mio talento, come poi accadde tornato in Europa».
Francesca Fagnani, cortesemente senza limiti
SmartTV ◆ Ritratto della giornalista italiana che conduce Belve – talk show della RAI – dimostrandosi un’ottima intervistatrice
È contenta di avere due cagnoline, hanno il vantaggio che «non diventeranno mai delle adolescenti irriconoscenti»; lucida e lapidaria, Francesca Fagnani. Ho appena visto un bell’incontro con Luca Sommi (rassegna Dedalo, Parma), un ottimo intervistatore che intervista un’ottima intervistatrice. L’intervista – e in sommo grado quella sui media elettronici – è un vero genere giornalistico, che richiede onestà intellettuale, preparazione, improvvisazione ben sorvegliata, istinto per tempi e ritmi, senso della misura e rispetto; impone un conflitto con il proprio ego, per evitare quella vertigine autoreferenziale che conduce molti, anche bravi bravi (Gruber su tutti), a mettersi sempre in scena, con domande che sommergono le risposte. Quindi, rispetto per l’intervistato ma soprattutto del pubblico, che è interessato alle risposte (se le domande sono giuste). La Fagnani ha tutte le qualità necessarie; e anche quel quid (ineffabile, non basta il solo fascino) che le consente domande che ad altri sarebbero precluse.
Belve (prima Nove, finora Rai2) è uno degli spazi che hanno trovato legittimazione – e anzi una sorta di necessità – nel «mercato» televisivo delle ospitate, drogato dalla politica e dalle esigenze di autopromozione. La sensazione è che vi venga creato, per gli ospiti, un ambito di libertà pur nel rischio dello svelamento e dell’emozione, uno spazio che è una corda senza rete, senza preparazione e senza condiscendenza, anzi retto dalla sorridente e ironica crudeltà della cerimoniera; il brivido dell’imprevisto, del «fuori sceneggiatura», dell’imbarazzo possibile, non nella rassicurante ovatta delle intervistine d’occasione, condiscendenti e pilotate. Ed è così che anche personaggi stranoti, apparentemente più che prevedibili, diventano straordinari, cioè fuori dal «loro» ordinario mediatico. Fagnani fa non solo la seconda, ma anche la terza domanda, anzi tenta di scartare la prima (quella banale, quella che esaurisce invece il «lavoro» di altri colleghi suoi); su tutto, la capacità di essere cortesemente senza limiti e senza regole, il coraggio di essere imprevedi-
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Marco Züblin
bile. Viene da una storia professionale molto varia (Minoli, Santoro, cronaca), che le ha permesso di togliere artifizi e pregiudizi, e di giungere all’essenziale, all’osso, cioè al fatto; sotto ogni costruzione e ogni orpello, soprattutto faccia a personaggi che vivono/esistono nell’ambito fasullo
della loro sovraesposizione mediatica. C’è in Fagnani l’esigenza feconda di uscire dall’ovvio, dal senso comune, dalla facilità; evitando di assecondare l’intervistato, di fare le cosiddette «domande di appoggio» (quelle che assecondano e che offrono pretesti per qualche messa in scena), esce
– forse – la vera verità delle persone. Direi meglio le prime versioni di Belve, cioè quelle senza pubblico; la presenza della gente, l’orrida claque da tribuna, rischia di diluire l’impatto dell’intervista, permettendo all’ospite di fare sponda con il pubblico e di deviare così l’attenzione da qualche proprio imbarazzo, accreditando per applauso interposto la versione celebrativa di sé che l’intervista sta mettendo in discussione. Un altro pianeta rispetto a programmi come Ciao Maschio (Rai1), in cui Nunzia de Girolamo alimenta l’ego degli intervistati, che dal proprio autoeretto pulpito mettono in scena una versione improbabile di sé stessi; e l’intervistatrice fa finta di sfrugugliare ma lo fa male, con sostanziale deferenza e con evidente complicità. In attesa della nuova edizione al via a settembre 2024, Fagnani sembra resistere alle sirene dell’intrattenimento, che vorrebbero usarla come «traino» e così facendo la snaturerebbero, omologandola e forse delegittimandola; ha evitato di ballare in tivù, riuscirà ad evitare nuovi Sanremo?
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Lenny e l’opera immortale dalle diverse letture
Musical ◆ West Side Story, il capolavoro di Leonard Bernstein, registra al LAC uno strepitoso successo che aggiunge due repliche
Con West Side Story Leonard Bernstein (1918-1990) scrive una delle pagine più ispirate, scintillanti e coinvolgenti dell’intero Novecento musicale. Un amalgama semplicemente perfetto. Un musical? È una definizione che gli va stretta. Piuttosto «un’opera che valica i confini del suo genere», come l’ha definita il musicologo Michele Girardi, e che corrisponde alle aspirazioni di gloria permanente ovvero, perché non dirlo, di immortalità attraverso la musica, del compositore ebreo americano di origine ucraina.
L’orchestra di venti elementi diretta da Grant Sturiale, avvince il pubblico con un suono travolgente L’idea è del geniale coreografo Jerome Robbins con cui Bernstein ha già lavorato e di quell’idea i due discutono fin dal 1949: si tratta di realizzare un musical ispirato a Romeo e Giulietta di Shakespeare. In un primo momento la vicenda dei due clan rivali si configura come lotta fra ebrei e cattolici, ma in seguito i Montecchi e i Capuleti si trasformano in due bande di ragazzi emarginati e violenti, gli immigrati portoricani Sharks e i sedicenti americani bianchi Jets. Romeo è Tony, di origine polacca, amico del capo dei Jets Riff (il Mercuzio della situazione), mentre Giulietta è la portoricana Maria, sorella di Bernardo (il Tebaldo della situazione), capo degli Sharks. Le corrispondenze con la drammaturgia shakespeariana sono puntuali: Bernardo uccide Riff e Tony uccide Bernardo per vendicare l’amico. Diverso il fina-
le, in cui Tony viene ucciso da Chino, amico di Bernardo e innamorato di Maria, e Maria sopravvive, mentre le due bande conoscono un’effimera riconciliazione. Per la prima volta il musical affronta temi gravi come l’immigrazione, il razzismo, la disoccupazione, il disagio giovanile. Bernstein scopre subito il nodo del problema: «La cosa più importante – scrive nel suo diario - è fare un musical che narri una storia tragica in termini di commedia musicale e usando solo tecniche da commedia musicale, senza cadere nella trappola “operatica”. Possibile farlo? Finora qui, in questo Paese, non ci si è riusciti». Il librettista Arthur Laurents è coinvolto nel progetto fin dalle prime fasi, ma fra dubbi e impegni di lavoro si arriva alla seconda metà degli anni 50 senza aver concluso nulla. Al trio già affiatato si aggiunge il giovane compositore Stephen Sondheim, cui è affidato l’incarico di scrivere i testi per i songs. Si tratta di armonizzare, attraverso danza e movimento, musica e parole, la dimensione shakespeariana e quella dell’oggi metropolitano, il linguaggio alto della tragedia e quello infimo dei ghetti giovanili. La scelta collettiva di affidarsi al linguaggio diretto e immediato del corpo trova in Jerome Robbins il grande inventore di una coreografia capace di esprimere violenza e sensualità, tenerezza e passione. Nel ’56, invitato ad esprimersi sul musical davanti al pubblico televisivo americano, Bernstein dichiara: «Ci troviamo in una situazione simile a quella del teatro popolare in Germania poco prima dell’avvento di Mozart. Allora, nel 1750, la grande attra-
Johan Person
Sabrina Faller
zione era il Singspiel, che non era altro che l’Anna prendi il fucile di quei giorni. Anche Il flauto magico è un Singspiel: di Mozart, però. È come se questo fosse il nostro grande momento nella storia della musica, come se la nostra ricchezza di talenti creativi in quest’epoca fosse una necessità storica.» E aggiunge: «Noi abbiamo il jazz e con esso forse l’inizio di una nuova forma musicale. Attendo proposte. Non si fa avanti nessuno?». West Side Story approda sulla scena di Broadway nel 1957, e con esso gli americani trovano il loro Singspiel e il loro Mozart. Neppure Bernstein sa esattamente cosa sia il musical: «Si trova da qualche parte fra variété e opera». Ma riesce a inventarlo, o meglio a inventare una nuova forma di musical, costruendo un lavoro che coniuga melodie stile Broadway con vari stili jazz e con ritmi ispanizzanti, talvolta mischiando nello stesso brano jazz e melodia.
Una delle tante meraviglie di questo capolavoro è che offre diversi piani di lettura. E può essere amato e capito anche da chi non sa nulla di Shakespeare o di Singspiel. I musicologi vi scoprono impensabili segreti: una fuga di Beethoven che si nasconde nel celebre quintetto, una reminiscenza wagneriana nelle pagine finali, una complessità strutturale che non ritroviamo nei musical precedenti né nei precedenti lavori di Bernstein e soprattutto quell’elemento unificante della partitura, l’intervallo di tritono, il vecchio «diabolus in musica» che in West Side Story fa capolino dappertutto e conferisce alla musica quella sospensione e tensione percepibili anche all’orecchio più sprovveduto. La produzione giunta al LAC nei giorni scorsi, che ha riscosso un gradimento di pubblico eccezionale – tanto che si sono dovute aggiungere due repliche – diretta dal regista
Lonny Price, ricalca fedelmente l’originale di Broadway, come lui stesso ha dichiarato nell’intervista pubblicata sulle nostre pagine nell’edizione del 15 gennaio. Una nota personale se l’è permessa nell’allestimento scenografico, che insiste sulla presenza di cartelloni pubblicitari appesi ai muri degli edifici dell’Upper West Side di Manhattan (quartiere demolito poco dopo le riprese del film di Wise, e la cui demolizione è «registrata» all’inizio dell’omonimo, recente film di Spielberg), cartelloni che incitano all’acquisto di elettrodomestici e grosse auto, un modo questo per alludere polemicamente al falso mito dell’American Dream, realizzabile soltanto per gli americani bianchi e irraggiungibile -benché sempre presente davanti ai loro occhi- per gli immigrati portoricani. Anche i dialoghi non sono stati cambiati di una virgola, non concedono nulla alla stretta attualità, mostrando di non averne alcun bisogno. Nulla è invecchiato di West Side Story, musica e parole, coreografie e libretto sono freschi e ammalianti come lo erano nel 1957. L’orchestra di venti elementi (ma all’orecchio parevano molti di più), diretta da Grant Sturiale, avvince il pubblico con un suono travolgente, esaltato dall’eccellente acustica della sala. La compagnia, composta di oltre trenta performers, è come deve essere un’ottima compagnia americana da grande musical, con interpreti che sanno essere cantanti, danzatrici e danzatori, attrici e attori. Una gioia per gli occhi e per il cuore, lo scintillio di un classico che è entrato ormai a far parte del patrimonio culturale dell’intero pianeta.
Sogni dal carcere e note di danza contemporanea Teatro ◆ Tindaro Granata presta la sua voce ad alcune detenute mentre Villa Ciani ha ospitato il progetto di Ariella Vidach
Profondità e leggerezza. Un ossimoro che spiega un accostamento raro, uno snodo per individuare e raggiungere una chiave interpretativa, un lasciapassare per entrare nella cifra teatrale e umana di Tindaro Granata, attore e autore di Vorrei una voce, spettacolo e monologo andato in scena in prima assoluta al Teatro Foce di Lugano nell’ambito della stagione del LAC. Un exploît che per tre sere ha recentemente emozionato la platea tutta, senza riserve, grazie a storie speciali e uniche di donne recluse nella Casa Circondariale di Messina, il luogo in cui l’artista ha tenuto un articolato ciclo di laboratorio teatrale con alcune detenute della sezione femminile di alta sicurezza. Un teatro per sognare era il titolo dell’iniziativa di Daniela Ursino, direttrice artistica del Piccolo Shakespeare, la struttura teatrale costruita dentro il penitenziario, durante il quale alcune canzoni di Mina sono state l’idea portante e il fulcro di un progetto trasformato in una sorta di transfert narrativo dalle parole e dagli intramontabili e popolari motivi musicali della tigre di Cremona, brani scelti dal suo ultimo e storico concerto alla Bussola di Viareggio dell’agosto del 1978. La sua voce, già riferimento e rifugio da sempre per l’attore siciliano, ha permesso di toccare e raccontare stati d’animo, gioia e dolore, abito e profilo
di molte donne diverse, ognuna con la propria personalità, ognuna con una propria visione del mondo. È stata quella la piattaforma di lavoro, il contesto utilizzato da Tindaro per coinvolgere le sue non-attrici in una trama di racconti e confessioni di cui si è fatto rispettoso interprete come attore. Granata è un artista completo. Abbiamo imparato a conoscerlo anche grazie alle sue originali proposte teatrali. Da spettacoli premiati di cui è lui stesso autore come l’autobiografico Antropolaroid e Geppetto e Geppetto alle riuscite interpretazioni in Macbeth le cose nascoste, La locandiera, La bisbetica domata e Lo zoo di vetro. In Vorrei una voce non ci sono solo i racconti di vita delle detenute. Con grande sensibilità e coraggio, per l’attore siciliano diventa anche un’opportunità per raccontare sé stesso. Come attorno al disagio causato da un male di vivere nato da una lunga avventura omosessuale iniziata da bambino, da uno stato di innocenza che conduce alla consapevolezza di appartenere a una società crudele, arcaica e ostile, ingabbiata nelle sue tradizioni e discriminazioni, nei silenzi accusatori e nelle intime segretezze che finiscono per far male e causare uno stato di sofferenza da cui dover uscire con forza. Il suo racconto si interseca così con
Masiar Pasquali
Giorgio Thoeni
quello delle donne recluse mimando stralci delle canzoni eseguite in playback con una esemplare perfezione di gesti e movenze. La dice lunga una breve sequenza filmata di Mina proiettata sullo sfondo all’inizio dello spettacolo con l’attore alle prese con un primo brano, una didascalia sul minuzioso lavoro preparatorio. Pochi elementi in scena, piccole e luccicanti bluse in strass da indossare man mano e diventare Sonia, Vanessa, Jessica, Rita e Assunta, lo specchio di un’umanità negata come il loro sogno di una libertà negata in un luogo che ha lo scopo di annullare la personalità per punire il crimine. Vorrei una voce svela una dimensione femminile condivisa, speciale,
in cui l’attore riconosce le sue passioni restituendole a una platea attenta, emozionata da una narrazione in cui a tratti echeggia il cunto siciliano e una bravura interpretativa straordinaria sviluppata con ironia, con un registro di verità e commossa partecipazione. Il numeroso pubblico luganese l’ha molto apprezzato tributando a Tindaro Granata ripetuti, meritati e sinceri applausi.
COREOmedia Sempre per rimanere nell’ambito degli appuntamenti proposti dal LAC, per La Regionale, la grande mostra collettiva che riunisce i lavori di ar-
tisti provenienti dal Ticino e dal Grigioni italiano, gli spazi della Villa Ciani hanno ospitato COREOmedia, una performance di danza contemporanea site specific della compagnia AIEP Avventure in Elicottero Produzioni. È un progetto che è parte di uno spettacolo più articolato creato dalla coreografa e danzatrice Ariella Vidach con il videoartista Claudio Prati. Un intervento performativo in fieri che si inserisce in un contesto spaziale che, come vuole la modalità del site specific, può cambiare a seconda dell’ambiente in cui ha luogo collocando gli spettatori, come nel nostro caso, lungo il perimetro di una sala. Due danzatrici, Federica D’Aversa e Francesca Linnea Ugolini, attraversano lo spazio dapprima al buio, guidate da sottili strisce di luce sui loro passi. Un sottofondo informale avvolge i passi e i movimenti. Sulle pareti cominciano a costruirsi bianche immagini, come un’esplosione di pulviscoli che si trasformano in un filamentoso reticolo geometrico elicoidale che ricorda la struttura del DNA. Una metafora di vita che genera due cerchi in movimento, due cellule rotanti spinte dai sensori legati alle vite delle danzatrici. Dimensioni mutanti fino a scomparire lentamente. Un riassunto sintetico per mezz’ora di elegante tensione dal lessico suggestivo e postmoderno.
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CULTURA
La bellezza del dare dignità alle debolezze
Soletta ◆ Incontro con la regista Carmen Jaquier che alle Giornate del cinema ha presentato Les paradis de Diane
Per l’apertura della loro cinquantanovesima edizione, le Giornate di Soletta – firmate da Niccolò Castelli e Monica Rosenberg – hanno regalato al pubblico un film intenso e coraggioso che libera la parola su un argomento molto delicato, quello della maternità e più in particolare del suo rifiuto. Les paradis de Diane, opera bicefala di Carmen Jaquier, tra le registe svizzere più intriganti della sua generazione, autrice del lungometraggio Foudre e Jan Gassmann, regista del provocante 99 Moons, è uno di quei film che non ha paura di scuotere gli spettatori confrontandoli con tematiche scomode di grande attualità. Al centro della storia c’è Diane, una giovane donna che fa una scelta per molti incomprensibile, mostruosa, di cui non si vorrebbe nemmeno sentire parlare, ossia quella di abbandonare, dall’oggi al domani, il suo compagno e la figlia appena nata. Quella raccontata dal duo di registi è la storia di una donna che fugge dal ruolo sociale a lei assegnato perché non corrisponde ai suoi desideri profondi. Per Diane, fuggire non è una scelta ponderata, maturata con il tempo, ma frutto di una folgorazione, la consapevolezza improvvisa e brutale di non poter aderire a un immaginario collettivo, quello della donna-madre, che ancora oggi è difficile rendere materia di discussione.
«Ascoltandola, ho scoperto che la maternità poteva essere qualcosa di più oscuro rispetto a quello che mi immaginavo» Come confidato dalla regista che abbiamo avuto il piacere di incontrare a Soletta insieme a Jan Gassmann e all’attrice principale del film Dorothée de Koon (nella foto), il suo bisogno di interrogare l’immagine idilliaca della maternità, il bisogno di decostruire questo stesso concetto arricchendolo con una molteplicità di punti di vista, nasce dalla confessione di un’amica che si è confrontata con una depressione post parto tenendola nascosta. «Ascoltandola, ho scoperto che la maternità poteva essere qualcosa di più oscuro rispetto a quello che mi immaginavo». Un punto di vista, questo, condiviso da Jan Gassmann che aggiunge: «Gli uomini sono forse ancora di più legati a questa immagine della donna-madre perché è rassicurante». Come spiegato dai due registi, quando nel 2016 hanno cominciato a documentarsi per il film, non è stato facile trovare dei saggi che riflettessero sulla questione. Regretting Motherhood di Orna Donath, uscito nel 2015, è stato il punto di partenza delle loro riflessioni arricchite da discussioni con chi ha vissuto l’esperienza della maternità sulla propria pelle. Ascoltandole con attenzione, senza giudicare, si sono resi conti di quanto fosse difficile per queste persone esprimere i sentimenti negativi che, inevitabilmente, emergono con la nascita di un bambino. «Ci siamo confrontati con la collera – dice Jan Gassmann – con le emozioni intime e inesprimibili che queste donne provavano senza osare esprimerle. Farlo avrebbe significato, per loro, ammettere di essere delle cattive persone». Per la protagonista del film, fuggita dall’ospedale e approdata nella stralunata città di Benidorm, andarsene è l’unica opzione possibile. Libe-
2:1 film
Giorgia Del Don
rata dal suo ruolo sociale di compagna e madre, Diane si trasforma in semplice involucro corporeo, anonimo, un corpo stanco, guidato solo dai suoi bisogni primari, ferito ma già proteso a guarire. Come spiega la regista: «Diane è un personaggio in modalità di sopravvivenza, incapace di prendere decisioni e quando tutto si fa troppo difficile decide di partire. La sua è una fuga per la sopravvivenza. Dorme, mangia, prende le sue medicine, ricostruisce il suo quotidiano giorno dopo giorno in base ai suoi bisogni». Soddisfare i propri bisogni, esplorare gli angoli più oscuri del proprio essere senza paura di perdersi, è qualcosa che Diane non si è mai concessa di fare. Essere, semplicemente essere, anonima e sola, gli dà una forza che niente potrà più togliergli. Come gli altri esseri feriti e coraggiosi che abitano le strade di Benidorm, la protagonista del film cerca di diventare l’essere umano che vuole davvero essere. Come spiegato molto bene da Carmen Jaquier, «la questione non è quella di avere o non avere figli, ma di riflettere diversamente sulla maternità, anche da un punto di vista filosofico, politico ed estetico». Attraverso le peregrinazioni di Diana e l’incontro decisivo con una misteriosa signora (interpretata dalla grandiosa Aurore Clément), Rose, che abita all’ultimo piano di un immenso condominio affacciato sul mare, il film ci regala il ritratto di una donna che sceglie volontariamente la solitudine. Ritirandosi dal mondo che ha sempre conosciuto per costruirsi il suo paradiso, o meglio i suoi paradisi personali, lontano dalle costrizioni sociali che hanno troppo a lungo soffocato il suo io profondo, Diane si trasforma nell’eroina della sua stessa vita. La solitudine sociale che sceglie diventa l’elemento centrale del film che caratterizza e plasma i personaggi ai quali i registi sono molto vicini e che hanno ispirato e nutrito il loro immaginario. Fra questi, le protagoniste di Les rendez-vous d’Anna di Chantal Akerman, quelle di Wanda di Barbara Loden e di Wendy and Lucy di Kelly Richard. «Volevamo raccontare la storia di un personaggio che decide di scomparire – dice la regista – anche se oggi è molto difficile e poi: ha il diritto di farlo? Le persone a lei vicine riusciranno ad accettare la sua scelta, tanto più che si tratta di una neo mamma? La scelta di trattare queste tematiche è stata influenzata anche da film, principalmente degli anni 60 e 70, che ci hanno regalato dei ritratti di
donne solitarie. La solitudine sociale per una donna è qualcosa di affascinante e raro, anche semplice il fatto di attraversare sole una città di notte è di per se uno statement. È l’unicità di questi ritratti ad affascinarci». Sin dal suo primo lungometraggio Foudre, Carmen Jaquier mette in scena personaggi femminili che sfidano le convenzioni sociali alla ricerca di una libertà profonda. L’irruzione di traiettorie vitali «altre» all’interno di un panorama cinematografico che deve ancora essere arricchito con
punti di vista minoritari è qualcosa a cui la regista tiene molto: «Sono cresciuta in un contesto molto sessista e ho realizzato solo più tardi quanto ho dovuto lottare per un po’ di dignità. Sento il bisogno di confrontarmi e riconciliarmi con personaggi che mi interessano ma di cui non si parla. Diane è il ritratto di una donna e non quello delle donne, bisogna solo accettare l’esistenza di una moltitudine di possibilità. A volte ho l’impressione che le persone si sentano aggredite da percorsi di vita altri. In
realtà esistono molteplici punti di vista che devono poter coabitare ed essere rispettati». Un’apertura mentale e una sensibilità nei confronti della differenza riscontrate anche in altri film, soprattutto di registi e registe emergenti, presentati alle Giornate di Soletta. Fra questi, l’intrigante e poetico Electric Fields di Lisa Gertsch che, avvalendosi di un potente bianco e nero, svela, con poesia, l’assurdità del reale. Fra i personaggi che mette in scena impossibile non citare la coppia, libera e scanzonata, formata da Sabine Timoteo e Jasmin Mattei. Rinfrescante e toccante è anche il ritratto di Milene, interpretata da Rita Cabaço, una giovane donna con un leggero ritardo mentale, proposto da Jeanne Waltz nel suo Le vent qui souffle dans les grues. Attraverso la narrazione di storie di donne anticonvenzionali, il cinema partecipa alla creazione di paradisi personali, inaspettati e liberi. All’interno della generazione di registi svizzeri di cui Carmen Jaquier e Jan Gassmann fanno parte, si evince il bisogno di esplorare sensazioni e punti di vista che si scostano dai sentieri battuti. Come tanti piccoli falò, simili a quelli che bruciano nel primo film di Michael Karrer Füür Brännt presentato a Soletta, Diane, Rose e Rita ridanno dignità alle debolezze illuminando in modo catartico i lati oscuri che esistono in ognuno di noi. Annuncio pubblicitario
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