Anno LXXXVII 5 febbraio 2024
Cooperativa Migros Ticino
G.A.A. 6592 Sant’Antonino
Settimanale di informazione e cultura
edizione
06 MONDO MIGROS
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SOCIETÀ
TEMPO LIBERO
ATTUALITÀ
CULTURA
I preasili inclusivi di Atgabbes hanno compiuto trent’anni e rimangono un progetto attuale
Che cosa è il paraclimbing? Ce lo spiega Laila Grillo, esperta nell’arrampicata paralimpica
L’Occidente è stanco della guerra in Ucraina mentre Kiev potrebbe cedere da un momento all’altro
Incantano al cinema le giornate perfette di Wim Wenders, un’ode alla semplicità e all’umiltà
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Keystone
La vocazione di Henry Dunant
Pietro Montorfani
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Un cuore che batte in città Simona Sala
«Una volta che una città è diventata una meretrice sarà impossibile farla tornare vergine e se non si mette adesso il freno assoluto non vedo più speranza». Sono le dure parole pronunciate dalla storica tedesca Cecilie Hollberg, direttrice della Galleria dell’Accademia di Firenze a proposito della città in cui lavora e vive. Un luogo di residenza per lei straordinario quanto deve esserlo il suo posto di lavoro. Al netto della scelta lessicale (dove una donna opta per aggettivi richiamanti la sfera sessuale femminile, cadendo in un trito, per quanto efficace, cliché) e della stizza di coloro che si sono sentiti tirati in causa (dal sindaco di Firenze Dario Nardella al senatore ed ex sindaco Matteo Renzi, passando per il ministro della Cultura in Italia Gennaro Sangiuliano), le parole della storica dovrebbero perlomeno avere la forza di indurci a una riflessione. Hollberg, infatti, non denuncia la mancanza di splendore in quella che è universalmente rico-
nosciuta come la culla del Rinascimento, là dove l’apoteosi dell’arte abbraccia la versione migliore della nostra lingua, bensì la crescente invivibilità di Firenze, che in poco differisce da Venezia, ma anche da città più lontane, come ad esempio Lisbona. Quelle stesse città, infatti, la cui fortuna si basava proprio sulla vivacità dei suoi abitanti che, attraverso uno scambio continuo, davano un afflato costante, capace di attraversare secoli, a idee e visioni, sono diventate inabitabili proprio per loro, costretti a lasciare appartamenti e botteghe di qualsiasi tipo a piattaforme di locazione internazionali, turisti, boutique e negozi di paccottiglia, gli unici in grado di permettersi affitti diventati proibitivi. Chi ha la voglia e l’onestà intellettuale di chinarsi su quanto coraggiosamente sottende Cecilie Hollberg, acconsente. E di solito non si tratta di personaggi pubblici, che si crogiolano nel riverbero della grandiosità delle città o del ruolo che
rappresentano, bensì degli stessi abitanti, di quelle città. Quei fiorentini o veneziani, che inesorabilmente sono stati cacciati ai margini dei centri in cui erano nati e avevano vissuto, fattisi ormai troppo trendy e gettonati per permettere loro di goderne anche qualsivoglia forma di quotidianità. Alcuni anni or sono, con rassegnazione e grande dispiacere, anche il nostro collaboratore Piero Zanotto, nato e vissuto a Venezia, ci raccontava della difficoltà di vivervi, al cospetto di servizi sanitari e alloggi che sparivano giorno dopo giorno. Il fenomeno, che si tratti di gentrificazione o semplice profitto facile, per il quale le città sempre più spesso si privano della linfa delle loro strade, della luce delle loro finestre e dell’operosità tipica di ogni spuntar del sole, è sempre più diffuso, e ha cominciato a interessare anche città svizzere come Zurigo, dove uno dopo l’altro sono spariti bar e negozietti dal Niederdorf (insieme a molti dei personaggi originali che fanno l’autenticità di
ogni città), e ora sembra toccare alla Langstrasse, sempre più insidiata dall’avanzata della nuova e scintillante Europaallee, situata strategicamente lungo la ferrovia. Quello che una volta era il quartiere operaio per definizione rischia così di essere cancellato, in nome di un progetto locativo che vede le proprie mire unicamente negli impiegati delle multinazionali. Senza scomodare l’appellativo scelto dalla Hollberg, varrebbe la pena di pensare, prima di ogni progettazione, al senso che si vuole dare a una comunità, al peso che si ripone nel valore aggregativo affinché la coesione possa portare a un’idea di appartenenza. Il discorso potrebbe essere aperto anche alle nostre latitudini per sognare, ad esempio, un giorno in cui dopo le otto di sera la nostra Lugano non si svuoterà, e il riecheggiare dei passi nelle vie vuote del centro sarà sostituito dal rumore di televisori, di gente che mangia, insomma, di un cuore che batte.
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Settimanale di informazione e cultura
Anno LXXXVII 5 febbraio 2024
azione – Cooperativa Migros Ticino
MONDO MIGROS
L’amicizia si può imparare
Impegno Migros ◆ A colloquio con Cristina Milani, presidente dell’associazione Gentletude e ideatrice della Panchina dell’amicizia, che si è distinta nell’ambito dell’iniziativa del Percento culturale Migros
C’è bisogno di gentilezza nella vita di tutti i giorni, e questo è un dato di fatto. Lo ha messo in luce anche la recente Iniziativa dell’amicizia (#iniziativaamicizia) del Percento culturale Migros, che ha invitato la cittadinanza a curare i rapporti sociali, poiché le amicizie svolgono un ruolo centrale in tutte le situazioni di vita. La nostra rete sociale, infatti, oltre a darci sostegno e ad avere un effetto positivo sul nostro benessere, promuove anche la tolleranza, la comprensione e la diversità. Sul numero del 15 gennaio 2024 avevamo lanciato un concorso legato all’Iniziativa dell’amicizia in cui chiedevamo alle nostre lettrici e ai nostri lettori di votare le migliori iniziative atte a promuovere l’amicizia fra tutte quelle giunte in finale. I progetti ticinesi erano due, ed entrambi ruotavano intorno all’idea della creazione di una panchina che si trasformasse in un momento aggregativo, situazione di cui la nostra società (e in questo non è sola) sembra avere sempre più disperata necessità. E sebbene l’invito alla votazione sia apparso su «Azione» una settimana più tardi rispetto ai suoi corrispettivi in tedesco e in francese, l’ha spuntata anche uno dei progetti ticinesi, che ora si aggiudicherà un importante sostegno finanziario. Il progetto Panchina dell’amicizia prevede l’installazione di panchine nei parchi ticinesi. Le persone che vi si siederanno saranno invitate a entrare in contatto le une con le altre grazie all’aiuto di un animatore. Come dichiara la promotrice del progetto Cristina Milani, psicologa e psicoterapeuta, che abbiamo incontrato per l’occasione, «un sorriso e una conversazione possono essere l’inizio di un’amicizia e la fine della solitudine». Cristina Milani, dove nasce l’idea della panchina? Io mi occupo di gentilezza da molti anni. Dopo avere lavorato a lungo nella comunicazione e nel marketing, volevo tornare a occuparmi di qualcosa in ambito sociale; diversi anni fa mi muovevo tra Asia e USA per lavoro, e ogni volta che rientravo mi rendevo conto del costante degrado dei rapporti interpersonali. Nel 2010, durante una cena, insieme ad alcuni amici decisi dunque di attivare in Svizzera l’Associazione Gentletude; abbiamo poi replicato, sebbene sotto forma di onlus, a Milano, luogo in cui ho lavorato a lungo facendo la pendolare al contrario. Quali sono gli scopi del movimento? Scopo principale è quello di diffondere il tema dell’importanza della gentilezza intesa come cura e attenzione di tutto quello che ci circonda, le persone, ma anche il pianeta che ci ospita, partendo da sé stessi. Facciamo dunque attività per le scuole, schede didattiche, organizziamo
vità delle varie culture (37 paesi per una cinquantina di associazioni), e di ospitare a Lugano un’assemblea.
Cristina Milani, ideatrice del progetto vincitore; sotto, il logo dell’iniziativa. (Percento culturale)
eventi. Il nostro desiderio è quello di ispirare da una parte l’adozione della gentilezza come stile di vita – diventando così «ambasciatori di gentilezza» –, dall’altra di spingere le persone ad attivarsi nella propria comunità proponendo progetti e pro-
grammi cui noi forniamo assistenza. Nel 2014 sono entrata in contatto con il Movimento Mondiale della Gentilezza, World Kindness Movement, di cui sono poi stata presidente dal 2016 al 2020. Questo mi ha permesso di interessarmi alle atti-
I progetti vincitori Oltre alla Panchina dell’amicizia, si sono aggiudicati un sostegno i seguenti progetti: Inclusione e tempo libero a Basilea, dove sta nascendo un luogo per persone con o senza disabilità. La Déchèt a Nyon, dove un luogo dismesso diventa una vivace zona di incontro. Projekt Kombi a Zurigo, che permette a persone con rifiuto di asilo di incontrare personale volontario solidale. Wanderznacht a Zurigo, Berna e Basilea per godersi la diversità e fare amicizia intorno a un tavolo. Nanis und Nenis Gloria-Kantine a Lenzburg, pensata come una mensa intergenerazionale.
PeerHelfer*innen im toj a Berna, dove giovani accompagnano e sostengono altre persone della stessa età con programmi e attività. Together a Lucerna, dove le attività condivise nella natura permettono di conoscersi e di superare i pregiudizi. Agenda Queer VS in Vallese, dove vengono proposte attività in ambiente sicuro per la comunità queer del Vallese. Wanderbrücken a Winterthur, dove grazie a escursioni nascono amicizie interculturali. Su www.engagement.migros.ch/it troverete maggiori informazioni sui progetti presentati, ma anche notizie e proposte per il tempo libero.
Come si diventa ambasciatore della gentilezza? E perché lo si fa? Sul nostro sito si trova un apposito formulario con la dichiarazione di intenti, una specie di decalogo: sottoscrivendolo si ha tempo un anno solare per presentare una bozza di progetto o un progetto già esistente. Si riceve così il titolo di ambasciatore, diventando un referente sul territorio. È un modo per creare una rete tra gli ambasciatori sparsi in vari luoghi. Lavoriamo a stretto contatto con il Movimento Italiano per la Gentilezza. Recentemente a Milano è stato realizzato lo Spazio Gentilab, riconosciuto dal Movimento della Gentilezza come primo spazio che soddisfa i k (kindness) factors della gentilezza e si presenta come luogo ecologicamente sostenibile adibito a incontri, accessibile a tutti, animali compresi. Parliamo del concorso del Percento culturale. Come è nata l’idea della panchina? Una notte l’ho sognata, ho poi fatto una piccola ricerca, scoprendo ad esempio che in Zimbabwe anni fa ne era stata fatta una per la salute mentale. Visto che si tratterebbe di una prima in Europa, ho preso appuntamento con Sabrina Antorini Massa, direttrice del Dicastero socialità della città di Lugano, e le ho esposto il progetto, cui lei ha dato da subito pieno sostegno; ho così potuto fare un esperimento: per tutto il mese di agosto ho trascorso due ore al giorno su una panchina – segnalata da cartelli – del Parco Ciani. L’esperimento mi ha permesso di individuare le criticità principali del progetto, tra cui quella della seduta: su una panchina tradizionale non ci si guarda negli occhi, e il dialogo non è stimolato, vorremmo dunque costruirne una ad hoc. Essa deve diventare con il tempo un simbolo riconoscibile, è quindi necessario creare anzitutto familiarità con la prima panchina, che sarà a Lugano. Per lanciare l’idea, a partire da aprile-maggio organizzeremo due eventi al mese legati alla panchina, ad esempio invitando un’oratrice o un oratore e proponendo un momento conviviale musical-gastronomico. Unica regola per chi partecipa (tutti avranno un adesivo con il proprio nome) sarà quella di parlare almeno con una persona. Nella seconda fase contatteremo diversi comuni del Canton Ticino, chiedendo se sono interessati a installare una panchina nei loro parchi. Saranno presenti anche dei facilitatori di dialogo, in grado di monitorare le conversazioni tra sconosciuti e di interromperle qualora ci si dovesse inoltrare in terreni sdrucciolevoli.
A cena al Bellavista
Concorso ◆ Vincete i due ticket in omaggio per la serata all’insegna della raclette del 17 febbraio 2023
Nel corso di tutto l’inverno il Buffet Bellavista, situato a 1200 metri lungo la linea che porta in vetta al Monte Generoso, offrirà una serie di serate all’insegna della buona cucina regionale. Il ristorante, da poco ristrutturato, grazie a un’atmosfera intima e curata, incanterà gli ospiti. «Azione» estrarrà a sorte settimanalmente due ticket per scoprire la bellezza del Monte Generoso. Il prossimo 17 febbraio ritorna l’amato appuntamento con la raclette. Il menù comprende salumi, raclette con cetriolini, patate, cipolle e TiraminVetta. Dove e quando Serata raclette sabato 17 febbraio 2024, Buffet Bellavista. Orari: partenza da Capolago ore 19.00, discesa da Bellavista ore 21.30. Prezzi: Trenino e menù a 3 portate, bevande escluse: adulti CHF 60.–; ragazzi 6-15 anni CHF 40.–; bambini 0-5 anni treno gratuito. Info e prenotazioni www.montegeneroso.ch
Concorso «Azione» mette in palio due ticket per il 17 febbraio 2024 che includono ciascuno un biglietto andata e ritorno a bordo del trenino a cremagliera e la cena di tre portate. Per partecipare al concorso mandare una e-mail a giochi@azione.ch (oggetto «raclette»), indicando i propri dati, entro domenica sera 11 febbraio 2024 (estrazione 12 febbraio). Buona fortuna!
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azione
Settimanale edito da Migros Ticino Fondato nel 1938 Abbonamenti e cambio indirizzi tel +41 91 850 82 31 lu–ve 9.00–11.00 / 14.00–16.00 registro.soci@migrosticino.ch
Redazione Carlo Silini (redattore responsabile) Simona Sala Barbara Manzoni Manuela Mazzi Romina Borla Natascha Fioretti Ivan Leoni
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Editore e amministrazione Cooperativa Migros Ticino CP, 6592 S. Antonino tel +41 91 850 81 11 Stampa Centro Stampa Ticino SA Via Industria – 6933 Muzzano Tiratura 101’177 copie
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azione – Cooperativa Migros Ticino 3
SOCIETÀ ●
Il Salone di Ginevra torna sul Lemano La 91esima edizione, in calendario dal 27 febbraio al 3 marzo, più che modelli innovativi, proporrà esperienze immersive
Gatti tra i libri La Biblioteca cantonale di Lugano dedica una mostra temporanea al felino più amato, da sempre fonte di ispirazione per scrittori e artisti
Gli imponenti gradoni di una via storica Percorriamo l’impressionante scalinata di pietra del sentiero della Valle di Osogna, alla scoperta di una rinata selva castanile e ponti di sasso
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L’inclusione fin dai primi passi
Infanzia ◆ I preasili inclusivi di Atgabbes hanno compiuto trent’anni, un progetto ancora attuale e in crescita Valentina Grignoli
Quando l’inclusione inizia dal principio. C’è un luogo dove questo è possibile, grazie a un’idea lungimirante che ha portato tanti bambini diversi tra loro a crescere insieme nello stesso modo. Un luogo di socializzazione aperto a tutti, dove condividere, imparare l’uno dall’altro attraverso il gioco e il sapiente accompagnamento di educatrici specializzate e volontarie. Una casa colorata che accoglie bambini di età compresa tra i 2 e i 4 anni, la fascia prescolastica, alcuni dei quali presentano difficoltà dello sviluppo o ritardo evolutivo. Questi sono i preasili inclusivi Atgabbes, un progetto che ha appena compiuto trent’anni ed è in continua crescita.
Sono stata accolta in quello che è stato il primo progetto inclusivo, a Bellinzona, il preasilo di Pedevilla. L’educatrice responsabile della struttura Claudia Müller Grigolo e la coordinatrice dei preasili Atgabbes Lisa Jorio mi presentano la struttura. Una casa fatta di colori, echi di voci, vita, dove si sente il gioco e si respira la creatività. Nel 1993 questo luogo è nato per volere e intraprendenza di Denisia Bordoli, educatrice di Atgabbes, che con le sue colleghe ha realizzato quella che è considerata la prima esperienza di inclusione in Ticino. L’allora Comune di Giubiasco, dove sorge la sede, mise a disposizione i locali di via Ravecchia che sono stati arricchiti di tutto il materiale necessario. «È un progetto che nasce come integrazione tra i bambini a sviluppo regolare e i bambini con bisogni particolari. Si trattava allora di creare un centro, un luogo di socializzazione che permettesse ai bambini di ritrovarsi e utilizzare il gioco come strumento di comunicazione» ci racconta Claudia Müller Grigolo mentre ripercorre queste prime tappe. I preasili sono tra le ultime intuizioni del progetto associativo di Atgabbes, l’Associazione ticinese di genitori e amici dei bambini bisognosi di educazione speciale. Vale un piccolo excursus per conoscere meglio questa associazione. Sorta nel 1967 proprio per la mancanza, all’epoca, sul territorio di strutture che già esistevano oltralpe, è stata fondata e pensata dai genitori per i figli: un invito all’apertura e alla collaborazione tra famigliari, persone con disabilità, professionisti e volontari. La copertura di tutto il territorio è assicurata da 5 Comitati regionali che
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I preasili Atgabbes sono luoghi di socializzazione che permettono ai bambini di incontrarsi e di usare il gioco come strumento di comunicazione
delegano dei rappresentanti nel Comitato Cantonale, l’organo direttivo di Atgabbes. Non solo preasili, come detto: Atgabbes si occupa anche di consulenza individuale e di gruppo, attività per il tempo libero, politica sociale, informazione e sostegno alle persone coinvolte dalla disabilità così come dei loro famigliari, formazione continua. Ma torniamo ai preasili, il principio pedagogico inclusivo permette ai bambini con bisogni educativi particolari di relazionarsi con i coetanei, che a loro volta si avvicinano alla diversità in tenera età e in maniera propositiva. Come detto, priorità per la socializzazione viene offerta dal gioco e dalle piccole attività di gruppo. Nei locali del preasilo di Pedevilla, sui due piani che comunicano con una gialla scalinata, lo spazio fisico sembra rivolto proprio a questo: tappetini sul pavimento e molti giochi riposti ai lati, uno spazio dedicato al movimento. Claudia Müller Grigolo ci dice di più: «I bambini a sviluppo tipico possono approcciarsi con capacità diverse, che ognuno possiede. Esiste una complementarietà: la diversità è una ricchezza. Ognuno poi ha dei bisogni che vanno rispettati e
seguiti, è fondamentale che questi si compensino. L’integrazione è condivisione. I bambini riescono a capirsi, anche se comunicano con la mimica. La diversità è vista soprattutto dall’adulto, che ha tendenza a etichettare». Molta attenzione viene inoltre data al difficile momento della separazione dalle figure di riferimento e all’allenamento di piccole autonomie quotidiane. L’insegnamento avviene empiricamente attraverso la sperimentazione e si allenano i piccoli, senza fretta, all’entrata nella scuola dell’infanzia. «Il distacco dovrebbe avvenire nella maniera più dolce possibile – ci racconta l’educatrice – i genitori possono rimanere le prime volte per dare la rassicurazione affettiva necessaria. Si crea anche un rapporto di fiducia con l’educatore, che riconosce il loro lavoro». Questo fa sentire accolte le famiglie. Questa prima fase è per l’educatrice caratterizzata anche dalla «scoperta, esplorazione del luogo. Una volta che tutti i bambini hanno integrato questo aspetto, il gruppo inizia a prendere una dinamica. Il gioco è il vettore, e importante rimane lo stimolo dell’educatore, che col tempo deve diventare dispensabile.
La forza sono i bambini tra di loro, l’integrazione con il gruppo». Solitamente un terzo dei bambini, nel preasilo che sto visitando, ha bisogni educativi particolari. Ma sono dati che dipendono anche dalle segnalazioni dei servizi regionali. Per quanto riguarda i bambini a sviluppo regolare, scopriamo dall’educatrice che «le persone che si rivolgono a noi condividono la nostra linea pedagogica». La frequenza suddivisa nelle mattine dal lunedì al giovedì dalle 9 alle 11, non necessariamente è comoda per genitori che lavorano, si tratta quindi di una scelta mirata, un’esperienza che arricchirà notevolmente la crescita di ogni bambino. Lisa Jorio, la coordinatrice dei preasili, ci spiega: «Da due o tre anni presentiamo con l’aiuto dei Comuni il progetto a tutte le famiglie attraverso un volantino. Poi, i bambini con bisogni educativi particolari vengono segnalati direttamente dai servizi presenti sul territorio, quest’anno siamo riusciti ad accoglierne 26 in tutto il Cantone». Un’esperienza in continua espansione: nato trent’anni fa come primo progetto inclusivo, oggi il preasilo Pedevilla, frequentato dai figli dei
primi bambini accolti, da parenti e amici delle vicinanze e non, e da tanti nuovi piccoli ospiti, continua la sua importante attività educativa e associativa. Vi lavorano educatrici specializzate e personale volontario che crede fortemente nel progetto Atgabbes. La coordinatrice ci racconta poi che dopo Pedevilla «sono nati altri progetti inclusivi: il preasilo di Lugano all’inizio degli anni 2000, poi quello di Locarno nel 2017. Ma non solo, sono fiorite anche collaborazioni con Nidi già esistenti dove i bambini con bisogni educativi particolari vengono accolti. Come per esempio il Nido di Novazzano, il Nido di Biasca e anche il Nido di Manno». Una buonissima copertura del territorio, con strutture che solitamente ospitano due/tre bambini per anno, rendendo il progetto a poco a poco la normalità. E viene da augurarsi, come dice Lisa Jorio, che questa inclusione abbia ripercussioni anche nel mondo esterno: insomma, che questa «esperienza possa promuovere una cultura sempre più inclusiva e meno settaria nella nostra società». Informazioni www.atgabbes.ch
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azione – Cooperativa Migros Ticino
MONDO MIGROS
Non solo a carnevale
Attualità ◆ Risotto con luganighe, ma anche cotechino, sono un grande classico del carnevale. Queste specialità sono tuttavia apprezzate anche durante il resto dell’anno, soprattutto quando sono di provenienza locale
Azione 30%
Accanto a frittelle, tortelli, chiacchiere e bugie, in occasione della festa più divertente dell’anno non può mai mancare un buon piatto di risotto accompagnato da luganighe o cotechino. Nei supermercati di Migros Ticino queste aromatiche specialità sono disponibili di produzione locale, sia a base di carne svizzera, sia nostrane, ovvero con materie prime rigorosamente di origine ticinese.
Su luganighe e cotechini prodotti in Ticino p.es. luganighe, per 100 g Fr. 1.25 invece di 1.85
CdT/Chiara Zocchetti
dal 6.2 al 12.2.2024
Sono due i produttori locali che forniscono luganighe e cotechini a Migros Ticino, il salumificio Sciaroni di Monte Carasso e la Salumi del Pin di Mendrisio, aziende con alle spalle una pluriennale esperienza nel settore. Le mezzene fresche di maiali allevati in Svizzera giungono poche ore dopo la macellazione ai salumifici dove vengono subito lavorate da esperti macellai. Una volta selezionati, i vari tagli vengono macinati e miscelati con gli altri ingredienti di qualità, come spezie, lardo e vino rosso. L’impasto così ottenuto viene successivamente insaccato in un budello naturale, legato manualmente e lasciato asciugare per qualche ora in apposite celle frigorifere prima di essere confezionato e fornito ai negozi Migros.
Sia le luganighe sia i cotechini fanno parte della tipologia di salsicce di insaccato crudo. La loro preparazione è relativamente semplice, ma richiede comunque una certa attenzione affinché il risultato sia ottimale. I salumi andrebbero immersi e cotti in acqua leggermente in sobbollimento, ma non bollente. Inoltre, è importante non bucare i prodotti durante la cottura per evitare la perdita dei gustosi succhi. I tempi di cottura variano da una mezzoretta per le luganighe a circa tre quarti d’ora per il cotechino. Come abbinamenti, oltre al risotto, le due specialità si accostano bene anche a lenticchie, purè di patate, polenta, fagioli, mostarda di frutta, verdure stufate, ma anche solo un’insalata fresca di stagione.
La mortadella cotta nostrana Berliner in una Novità Un nuovo prodotto 100% ticinese va ad arricchire la linea nuova veste dei Nostrani del Ticino Gli amanti dei genuini prodotti regionali saranno felici di provare una nuova specialità di salumeria, da poco entrata nella grande famiglia dei Nostrani del Ticino: la mortadella cotta. Come diversi altri salumi nostrani, anche questa leccornia a base di carni selezionate di maiali allevati nel nostro Cantone è prodotta dal salumificio I Salumi del Pin di Mendrisio con competenza e rispetto della migliore tradizione. Le carni vengono macinate con l’aggiunta di fegato di maiale, anch’esso di origine ticinese, e addizionate di sale in quantità molto ridotta, buon vino Merlot e un delicato mix di spezie. La miscela così ottenuta viene insaccata in un budello naturale, lasciata asciugare e infine cotta in forni a temperatura controllata. La mortadella nostrana è in vendita in una confezione sottovuoto da due fette, ed è disponibile nelle maggiori filiali Migros.
Flavia Leuenberger
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Gli storici Berliner della Migros cambiano look! Questi dolci di pasta lievitata farciti con lamponi e ribes tanto amati da grandi e piccoli sono infatti ora disponibili in una nuova confezione dal design più moderno, sotto la marca Petit Bonheur, marchio che va a caratterizzare diverse altre specialità di pasticceria della Migros. La qualità e il caratteristico gusto del prodotto restano tuttavia quelli di sempre, a cui generazioni di golosoni sono abituate. Soffici e ariosi, i Berliner sono una
tentazione a cui è difficile resistere. Le piccole sfere, composte da un impasto di acqua, farina, margarina, zucchero e lievito, vengono fritte per alcuni minuti in un grasso vegetale a temperatura controllata. La temperatura è importante per ottenere un prodotto finito dalla giusta consistenza e che contenga pochi grassi. Dopo essere stati farciti con la confettura, come da tradizione i Berliner vengono infine spolverati con un po’ di zucchero a velo, per trasformarsi in un piacere senza tempo.
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SOCIETÀ
A Ginevra si svela il futuro dell’auto dal 1905 Motori ◆ Dopo l’esposizione a Doha (Qatar) si torna sulle rive del Lemano con la 91esima edizione in calendario dal 27 febbraio al 3 marzo Mario Alberto Cucchi
Il Mondo dell’auto sta navigando in mari agitati. Una tempesta mediatica sta infatti travolgendo il Gruppo Stellantis. Perché? All’Italia non sta bene che comandino i francesi e tantomeno che la produzione delle Fiat possa essere spostata ancor più all’estero rispetto a quanto non sia già. Un eccessivo protezionismo protratto nei decenni ha probabilmente penalizzato l’industria dell’auto italiana. E intanto in Inghilterra il team Nissan dello stabilimento di Sunderland festeggia l’undici milionesimo veicolo prodotto in 37 anni di operatività dell’impianto. Il tutto grazie al Governo che offrì a Nissan condizioni favorevoli. E adesso è stato stanziato un miliardo di sterline per le nuove generazioni elettriche di Nissan che, sempre realizzate in Inghilterra, arriveranno dal 2026. Auto giapponesi made in UK e gli inglesi festeggiano. Nel loro caso l’incertezza dovuta alla transizione tecnologica verso la mobilità elettrica si è trasformata in una conferma che ha attratto nuovi investimenti. In tutto ciò, la Svizzera se dal canto suo non ha mai ospitato grandi stabilimenti di auto, è però sempre stata centrale grazie al «suo» G.I.M.S., il Ginevra International Motor Show che, anno dopo anno, ha ospitato il debutto delle novità più importanti. A Ginevra si svela il futuro dell’au-
Così a Doha, Qatar. (Genevamotorshow.com)
tomobile dal 1905. E così, dopo aver visto il Salone di Ginevra a Doha (Qatar) a fine 2023 ora si torna nel «salotto buono» delle quattroruote famoso per la sua eleganza che ben si sposa con quella del lago Lemano su cui la città svizzera si affaccia. Il 2024 secondo gli organizzatori sarà l’anno della svolta a cui potranno assistere gli appassionati che decideranno di visitare l’esposizione che aprirà i battenti il prossimo 27 febbraio e chiuderà il 3 marzo. Tutte le informazioni su come raggiungere il Salone si posso-
no trovare sul sito internet dedicato www.genevamotorshow.com sul quale si possono anche acquistare i biglietti d’ingresso (il cui costo per gli adulti è di 25 franchi). La 91esima edizione è stata ripensata con un nuovo approccio che si caratterizza per offrire esperienze immersive. Auto. Future. Now. è il concept del Salone, declinato in quattro aree tematiche: Adrenaline Zone, Design District, Mobility Lab e Next World. Entriamo nel dettaglio. Adrenaline Zone è un’area temati-
ca dedicata ai veicoli ad altissime prestazioni, alle edizioni limitate, agli esemplari unici «tailor-made» e al mondo del motorsport. Design District è uno spazio elegantemente curato che celebra l’arte e l’artigianalità del design automobilistico. Dal 28 febbraio al 1° marzo, i visitatori del Design District potranno partecipare alle master class, che si terranno due volte al giorno, Learn to Sketch with Frank con il noto designer automobilistico Frank Stephenson. Mobility Lab è un parco dell’in-
novazione per gli operatori della mobilità, i loro partner, i fornitori di tecnologia, per informare, ispirare e mostrare le ultime scoperte e celebrare l’innovazione automobilistica che sta plasmando il futuro. Next World ospita, in collaborazione con i creatori della serie Gran Turismo, Polyphony Digital, i visitatori che possono sfidare sé stessi e gli altri concorrenti, in un’emozionante esperienza di sim-racing. Questa iniziativa è in linea con l’impegno preso dal G.I.M.S., di far scoprire nuove possibilità per accelerare lo sviluppo della tecnologia del futuro. Insomma più un’«esperienza», come tanto va di moda in questi anni, che non un mega salone dove poter vedere i nuovi modelli del Costruttore preferito. Per quello ci sono anche i Saloni dei concessionari vicino a casa. D’altra parte guardando l’elenco degli espositori si nota la mancanza di tutto il Gruppo Stellantis (Fiat, Alfa Romeo, Lancia, Jeep, Peugeot, Opel, Citroen, DS) ma anche dei tedeschi di Mercedes, BMW, Audi e Volkswagen. Manca in toto il reparto supercar, non sono infatti presenti Ferrari, Porsche e Lamborghini. Ci saranno invece, tra gli altri, i francesi di Renault-Dacia, i cinesi di BYD e anche gli svizzeri di Microlino. Chi avrà fatto la scelta giusta? Annuncio pubblicitario
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Anno LXXXVII 5 febbraio 2024
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azione – Cooperativa Migros Ticino
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Non topi, ma gatti da biblioteca
Mostre ◆ Un’esposizione temporanea alla Cantonale di Lugano porta i visitatori nel paese dove i mici sono personaggi meravigliosi Matilde Casasopra
Sono – meglio sarebbe dire, erano – un milione e 750mila a fine 2022 (dati di www.statista.com), ma le progressioni costanti, facilmente verificabili su questo stesso sito, ci permettono di dire che in Svizzera, a fine 2023, potrebbero aver raggiunto i due milioni. Sono invece 748’498 quelli che, perché provvisti di microchip, alla fine dell’anno scorso erano registrati alla banca dati Anis (www.anis.ch). Stiamo parlando di gatti, e possiamo aggiungere che in Ticino i mici «microchippati», sempre a fine 2023, erano 25’754. A pensarci bene, se costoro – che sono una minoranza della popolazione felina cantonale – volessero abitare insieme in un unico Comune chiederebbero a tutti gli abitanti di Mendrisio e Chiasso di traslocare altrove.
Da sempre i nostri amici felini hanno ispirato scrittori, poeti e artisti che a loro hanno dedicato opere meravigliose Insomma i mici, anche in Ticino, stanno ottenendo un successo sempre maggiore. Non solo popolano il mondo reale, ma si sono trasferiti anche in quello virtuale. Qui come ovunque. Un rapido giro sui social ve lo confermerà. Sono loro, i gatti, i veri influencer del web dove riescono a raccogliere davanti allo schermo – di un cellulare o di un tablet – centinaia di migliaia di persone. Simon’s Cat, un sito cult, può vantare nove milioni e 200mila «seguaci» (followers). A questo luogo si affiancano poi gruppi tematici di vario genere: si va da «Il gatto, l’animale perfetto» (202’720 followers) a «I gatti conquisteranno il mondo» (267’426 followers); dal «Simon’s Cat Fan Club» (194’225 followers) a «J’aime les chats» (164’647); da «Amor por los gatos» (96’934) a «La Pepina di gatt» (tra i più noti in Ticino con i suoi 8300 followers). Tutti questi «seguaci», nel susseguirsi di un tempo
ormai globalizzato, si impegnano a pubblicare le foto del proprio micio, poi guardano quello degli altri. Cuoricini, like e lacrime sono il corredo del «pelosetto» altrui, soprattutto quando l’immagine è accompagnata dal racconto di una prodezza, di una gentilezza, di una stranezza o di un addio, verso il Ponte dell’Arcobaleno, dopo anni di vita insieme. Tanti racconti di giorni e mesi in compagnia di gatti. Il filone è di quelli inesauribili. L’avevano capito scrittori di ogni tempo come rilevò Giovanni Fattorini, su «Azione» del 24 aprile 2017, in occasione della pubblicazione di Pene d’amore di una gatta inglese e altri racconti felini (Elliot edizioni). Lo pensa anche la responsabile della Biblioteca cantonale di Lugano, Barbara Robbiani, che, oltre ad aver introdotto le mostre temporanee, a fine 2023 ne ha dedicata una proprio ai «Gatti nella letteratura». Affascinanti le proposte. Spaziano dai classicissimi Il maestro e Margherita di Bulgakov, Alice nel paese delle meraviglie di Lewis Carroll, Storia di una gabbianella e del gatto che le insegnò a volare di Luis Sepúlveda e Io sono un gatto (il capolavoro di Natsume Sōseki) a una serie di opere meno famose, ma che faranno la gioia di tutti coloro che dei gatti amano non solo la presenza, ma anche l’essenza. È così che, accanto al libro di James Bowen – A spasso con Bob, dal quale è stato tratto nel 2016 l’omonimo film che ha ottenuto un successo planetario –, troviamo Casper, il gatto pendolare di Susan Finden (TEA) o Gatti molto speciali di Doris Lessing (Feltrinelli) e, ancora, Il gatto venuto dal cielo di Hiraide Takashi (Einaudi) o Poesie per un gatto di Vivian Lamarque (Mondadori). Le proposte comprendono anche saggi, studi, interpretazioni grafiche e manuali. E se un visitatore prende in prestito un libro, magari proprio quello che l’ha indotto a venire in biblioteca, cosa capita? «… che facciamo in modo di mettere a dispo-
La mostra alla Biblioteca cantonale di Lugano propone non solo opere letterarie ma anche saggi, studi, manuali e interpretazioni grafiche dedicate ai gatti.
sizione un altro libro sull’argomento in tempo pressoché reale – risponde Barbara Robbiani –. Va inoltre precisato che non tutti i libri legati al tema “Gatti nella letteratura” sono esposti. Ce ne sono altri nei nostri scaffali che il visitatore può sfogliare liberamente, oppure, consultando il catalogo online del Sistema bibliotecario ticinese, scoprire libri, audiolibri, riviste, DVD collocati nel magazzino o in altre biblioteche». Ed è così che, grazie ai gatti, si scopre che la Biblioteca cantonale di Lugano è diventata più a misura d’uomo. Vi si trova anche uno spazio dedicato ai bimbi che possono esplorare liberamente i vari campi del sapere e quin-
di scegliere dagli scaffali ciò che vorrebbero portarsi a casa da leggere e approfondire. Ma se qualcuno non è abituale frequentatore, come fa a sapere che in Biblioteca c’è una mostra dedicata ai gatti? «Noi mandiamo ai nostri iscritti una newsletter mensile – risponde la responsabile – Accedendo al sito della Biblioteca si può comunque restare aggiornati e poi… poi, di tanto in tanto, si può passare a dare un’occhiata. Le pare?». Sì, onestamente mi pare, visto che, da quando la frequentavo regolarmente – e di anni ne sono passati tanti – in Biblioteca si respira un’aria nuova al punto che non ci si stupirebbe nel vedere passeggiare tra gli scaffali an-
che qualche gatto (sul tipo dei Nekobiblio-cafè). E ancora a proposito di gatti: l’idea di proporre una mostra temporanea loro dedicata è sua? «No – sorride Barbara Robbiani – . È di un giovane che sta svolgendo qui da noi uno stage in biblioteconomia. Mi ha sottoposto il progetto e ha ottenuto il via libera al quale ha fatto seguito un buon successo». A chi volesse verificare e approfittare del magico mondo dei gatti raccontati – magari per meglio scoprire i segreti del proprio amico peloso – facciamo presente che la mostra resterà aperta fino a metà febbraio e si trova al piano -1. I libri, comunque, li troverete anche dopo.
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Viale dei ciliegi Stefanie Höfler Lucciole per lanterne La Nuova Frontiera Junior (Da 11 anni)
Con un titolo ben scelto dalla traduttrice Anna Patrucco Becchi (in tedesco era Feuerwanzen lügen nicht, meno immediato per il lettore italiano), ecco il secondo romanzo di Stefanie Höfler pubblicato da La Nuova Frontiera. Anche qui, come nel precedente Il ballo della medusa, i protagonisti sono adolescenti, alle prese con l’immagine di sé rispetto al gruppo dei pari. Se in quello la «diversità» del protagonista era costituita dal suo essere in sovrappeso, in questo nuovo romanzo la «diversità» è di tipo sociale, ed è costituita dalla povertà. Mischa, il ragazzo dall’aspetto curato, con la camicia impeccabile e il ciuffo ordinato, bravissimo a scuola e premuroso fratello maggiore della piccola Amy, appartiene a una famiglia povera, che vive in un piccolo appartamento disadorno e che prende i pasti alla mensa solidale. Può suonare insolito in una storia ambientata ai giorni nostri in Germania, eppure, come ben sappiamo, la povertà esiste anche nel nostro scintillante mondo
di Letizia Bolzani
occidentale. E non c’è da vergognarsi: questa – se proprio si vuole trovare un messaggio – è una delle cose che l’autrice ci vuole dire. Mischa invece se ne vergogna, persino di fronte al suo migliore amico Nits, il quale, nonostante condivida le giornate con lui sin da piccolo, non ne è a conoscenza, e lo scoprirà pian piano, con il lettore, nel corso della storia. Anche altri segreti (o bugie) verranno alla luce pian piano, e Nits, che è l’io narrante della storia, si renderà conto di non aver mai compreso appieno la realtà di Mischa: da qui il titolo del romanzo. Ancora una volta la Höfler parla di temi delicati (l’imma-
gine di sé, ma anche la fragilità familiare, perché la famiglia di Mischa è composta solo dalla sorellina e da un padre istrionico e inaffidabile, anche se affettuoso, così come nel Ballo della medusa il protagonista era affidato alla nonna) e di emarginazione, ma lo fa con uno sguardo alleggerito dallo humour e dall’empatia, che rende più viva e coinvolgente la storia. La Giuria dei Ragazzi ha reso questo romanzo finalista allo scorso Deutscher Jugendliteraturpreis. Andrea Kuhrmann-Nadine Reitz Buona giornata, coniglietto! Il Castoro (Da 2 anni)
Un libro semplice, con piccole storie di quotidianità, eppure un libro necessario, perché così non ce ne sono molti nell’editoria per l’infanzia. Abbiamo albi illustrati, anche di grande qualità, a volte fin troppo raffinati o introspettivi per i bambini piccoli, o abbiamo cartonati per le prime letture, che tuttavia si esauriscono in un’unica storia. Questo invece è un libro destinato a restare a lungo tra le mani dei bimbi (e dei loro genitori, in quanto presuppone e viene valorizzato da una lettura condivisa). Le storie qui
sono tante, sette per la precisione, e raccontano normalissimi momenti della giornata, ma il bello è proprio questo: magari a uno sguardo adulto potrà sembrare che non accada nulla, e invece gli sguardi dei piccoli noteranno con intensità emotiva (di divertimento, identificazione, minime apprensioni) ogni minimo sommovimento nello svolgersi, apparentemente così lineare, delle vicende quotidiane. Il coniglietto Tommi Codino (Lenni nell’originale tedesco, Lenni lungheorecchie, Langohr) si sveglia (anzi viene svegliato dalla mamma), va in cucina a fare colazione (anzi va in cucina sulle spalle della mamma),
intorno al tavolo ci sono quattro sedie (per la mamma, il papà, la sorellina e per Tommi), ma la sua all’inizio resta libera perché è bello stare un po’ in braccio, poi però Tommi «sale» sulla sua sedia (delizioso questo «sale», non «si siede»), inizia a mangiare la sua fetta di pane con il miele, ma la fa cadere sul pigiama, il pigiama diventa appiccicoso, allora lo si mette a lavare, poi bisogna lavarsi, vestirsi, «cosa vedi nell’armadio di Tommi» viene chiesto al piccolo lettore, così il libro diventa anche un gioco di nominazione, finalmente Tommi è pronto per andare all’asilo, la mamma lo sta già aspettando in auto, «ciao papà» dice Tommi. Questa è solo la prima storia, le altre si svolgono in altri contesti, il parco, la lezione di musica, il giardino, il parco giochi, lo stare con il nonno, il momento della nanna. Ognuna si conclude con un saluto, non solo a esseri animati ma, com’è tipico dell’infanzia, anche a oggetti («ciao tamburo!»), un altro trait d’union è la carotina di peluche che accompagna Tommi in ogni avventura. Perché di questo si tratta, di tenere importanti avventure di crescita, raccontate con profonda conoscenza del mondo infantile da autrice e illustratrice.
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Scalini e ponti sulle rocce della Valle d’Osogna Territorio ◆ Una via storica tra ponti di sasso, imponenti gradoni in pietra e una rinata selva castanile Elia Stampanoni
È una scalinata impressionante, costruita in un territorio ostico e impervio, ma che per anni è servita quale accesso ai pascoli e alle superfici dell’alta Valle, a oltre 1100 metri di altitudine. Siamo a Scign, lungo il Sentiero della Valle di Osogna, di cui un segmento è anche inserito nell’inventario delle vie di comunicazione storiche di importanza nazionale della svizzera (IVS, oggetto TI 365.0.2). La via procede poi più pianeggiante verso Merisciöu, ma è prima di Scign che offre i suoi passaggi più spettacolari e pregiati, come il ponte in sasso o l’imponente scalinata, descritti anche nella scheda dell’IVS.
Le Riserve forestali della Valle di Osogna e della Valle di Cresciano, volute dai rispettivi Patriziati, salvaguardano biodiversità e paesaggi naturali Ma partiamo dall’inizio, dal basso, dato che per raggiungere la meta è necessario partire da Osogna, a circa 276 metri di altitudine, da dove il sentiero sale subito ripido nella montagna, superando rocce e penetrando nella foresta. Già qui s’incontrano a tratti alcuni gradoni e scalinate, che sono però solo un leggero antipasto di quanto si troverà più in su. Dopo un susseguirsi di tornanti,
immersi nel bosco e accompagnati dal ronzio del fondovalle, si giunge in località In Pönt, dove il paesaggio s’apre con l’ingresso nella selva castanile, recuperata grazie a un importante intervento di ripristino promosso dal patriziato di Osogna, che è anche il proprietario del bosco che la ospita. La superficie si estende su quattro ettari e mezzo, dove sono stati eseguiti dei tagli di potatura dei castagni (circa un’ottantina), la pulizia del sottobosco e la semina del manto erboso, così come la sistemazione dei sentieri e anche la piantagione di alcuni giovani alberi. Nei pressi della selva di Pönt, a un’altitudine di 752 metri e dove si trova anche un punto informativo con tre pannelli esplicativi, si entra pure nella Riserva forestale della Valle di Osogna, istituita nel 2011 e «una delle più grandi in Svizzera», come leggiamo su uno dei citati cartelloni. La superficie interessata si estende di fatto su 882 ettari e, assieme alla confinante Riserva della Valle di Cresciano, istituita nel 2004 su un’area di 637 ettari, formano una vasta estensione nella quale i proprietari, in questo caso i due Patriziati, s’impegnano a rinunciare a qualsiasi utilizzazione legnosa per un periodo di almeno 50 anni. Un sacrificio che va a favore dell’evoluzione naturale della foresta, promuovendo in particolare la biodiversità e salvaguardando paesaggi naturali di pregio.
Il Pont da sass, detto anche Pont da Scign, la cui costruzione è attribuita a Giovanni Battista Pellanda (E. Stampanoni)
Da qui manca ancora poco per avvicinarsi suggestive alle gole del torrente Nala, a cui il sentiero s’avvicina lentamente, anche con alcuni tratti pianeggianti con vista sulle imponenti pareti rocciose che fanno da corollario. Il cammino attraversa il fiume su un primo ponte, il Pònt da Géra, un passaggio originariamente in legno, ma che venne ricostruito in ferro dopo l’alluvione del 1951 e poi di nuovo distrutto nell’ottobre del 2006,
sempre dalla forza dirompente delle acque. Nell’anno seguente il collegamento fu ripristinato una seconda volta e permette tuttora di proseguire il cammino sul versante destro della valle, dove l’ascesa diventa vieppiù impervia e affascinante. La mulattiera che conduce a Scign supera un ulteriore dislivello di oltre 300 metri in meno di due chilometri, grazie a gradoni in pietra sostenuti da muri a secco, i quali s’inerpicano
con dei tratti a strapiombo sul fondovalle: «Le scalinate sono formate con pietre, anche di taglio regolare, appoggiate a muri di sostegno alti fino a 4 metri, spesso a picco su profondi burroni», leggiamo nella descrizione dell’IVS. Si giunge così al Pont da sass, noto anche Pont da Scign o Pont dal Sabion, la cui costruzione è attribuibile a Giovanni Battista Pellanda, a cui in cambio venne concesso in usufrutto una vasta zona di terreno sul vicino monte Colarga. Come riportato dall’atto notarile datato 28 aprile 1636 e ripreso nella scheda dell’IVS, l’accordo fu preso con la vicinanza di Osogna, che s’assicurò così la costruzione di questa passerella e anche della riedificazione della scalinata che conduce al ponte. Poco prima di Scign (un piccolo gruppo di case sparpagliate lungo il sentiero che prosegue verso il seguito della Valle di Osogna), una grande cappella segna la fine del segmento caratteristico e degli ostici scalini. Gradoni che, come indicato nel bollettino del Fondo Svizzero per il Paesaggio (FSP, 48/2016), il quale ha pure contributo alla realizzazione di questi progetti, sono più di mille. E rientrando si possono di nuovo assaporare in tutta la loro genialità, per una discesa vertiginosa con, in totale, da Scign a Osogna, oltre 1100 metri di dislivello. Annuncio pubblicitario
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SOCIETÀ / RUBRICHE
Approdi e derive
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di Lina Bertola
Il tempo non misurabile del vivere ◆
Più volte mi è capitato di sottolineare il valore della lentezza, di quel sostare nel tempo che alimenta l’esperienza intima di sé e dà voce al proprio sentimento di interiorità. La lentezza è un ritmo prezioso dell’anima, capace di contrastare il continuo essere sballottati sulla superficie di un tempo reale che scandisce il nostro fare quotidiano. In una giornata qualsiasi possono però verificarsi situazioni inattese, magari di per sé insignificanti, che punzecchiano il desiderio di capire meglio. In una fredda domenica di gennaio, un paio di episodi mi hanno invitata a cercare di meglio capire il nostro rapporto con il tempo, di provare a comprendere un po’ di più il senso del suo manifestarsi nei nostri vissuti. Il primo episodio di buon mattino. Mentre mi accingo a leggere un articolo che desta il mio interesse, ecco che, a mo’ di frontespizio, vengo colpita da questo avviso: tempo di lettura
5’22’’. Non ci avevo mai fatto caso, ma questo monito temporale sembra stia diventando una prassi assai diffusa. Qualche ora più tardi, un po’ per caso, mi ritrovo dentro un magnifico paesaggio, ad ammirare una discesa libera di sci in diretta tv. Che spettacolo! Tutti velocissimi a danzare sulla neve, tutti concentrati nell’abbraccio del tempo che poi però distribuisce medaglie anche nello spazio di pochi centesimi di secondo: basta un attimo, un istante impercettibile, e sei fuori dal podio. I centesimi di secondo non li sentiamo battere nemmeno quando il cuore è più agitato, eppure questa temporalità, così estranea al nostro sentimento della vita, può diventare un limes, una soglia esistenziale, un’espressione della qualità del nostro esserci, ben al di là delle rigorose quantificazioni del cronometro. Quale allora il valore del tempo per il nostro vissuto, che cosa ci racconta di noi stessi? Nel susseguirsi di questi
due episodi mi sono venute in mente le parole, fin troppo citate, in cui Sant’Agostino confessa di non saper dire che cosa sia il tempo. Con questa domanda in testa, torno allora a rivisitare i due momenti. L’annuncio perentorio dei minuti e secondi necessari alla lettura mi è parso un segno di quanto poco sia valorizzata la bellezza di poter sostare nel tempo. Certo, anche la quantificazione di un tempo standard può avere senso per chi deve organizzare la sua giornata. Ma nel quantificare puntualmente il tempo di lettura, immagino al ritmo di una Siri qualsiasi, si dimentica che leggere è sempre un incontro con il proprio mondo interiore. Dire che occorrono 5’22’’ per arrivare in fondo alla pagina significa dare a questa esperienza lo stesso significato della programmazione del timer per cuocere l’uovo 4’15’’ (ve lo consiglio, è buonissimo). Ma c’è un altro motivo, sottotraccia,
apparentemente non detto: «guarda che lo so che tu non hai tempo da perdere, ma se ti interessa questo argomento sappi che devi prenderti cinque minuti e ventidue secondi». È la voce autoritaria dell’agenda che pretende di tenere a bada ogni nostra possibile sosta nel tempo, imprigionandola nel suo amato «tempo reale». Questa dimenticanza del valore intimo del tempo non l’ho invece percepita nel momento in cui il fotofinish ha accolto i discesisti esausti a fine gara. Tra le due situazioni mi è parso di poter cogliere una differenza. In quest’epoca piena di codici, modelli e algoritmi, per quanto necessari in certi ambiti, anche la misura della quantità di tempo necessario per la lettura rischia di soffocare la qualità dei nostri vissuti. La misura del fotofinish offre invece una situazione capovolta. Qui una quantità impercettibile, proprio perché così estranea al nostro sentire, riesce a trasformarsi in una qualità,
in un sentire personale. La gioia del podio, o la delusione di chi è rimasto fuori, nutrono sentimenti che abitano in profondità questi ragazzi, sentimenti che raccontano il loro esserci qui adesso, in un tempo che si dilata, ben al di là del cronometro. Anche se puntualmente scandito, questo tempo diventa un tempo diverso da quello già evocato di cottura, o dal tempo di percorrenza gentilmente segnalato dal navigatore, o ancora dai 5’ in piedi altrettanto gentilmente imposti, ogni ora, dall’orologio elettronico e dai tanti altri orologi che scandiscono le nostre giornate. La velocità del fotofinish, forse un po’ paradossalmente, apre alla percezione delle qualità non misurabili della vita. Lentezza senza orologio e rapidità cronometrata si incontrano in quel tempo dell’anima che, come aveva capito Sant’Agostino, ne custodisce il senso più vero ma che rimane tuttavia indicibile.
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Terre Rare
di Alessandro Zanoli
Politesse digitale ◆
Qual è la caratteristica che contraddistingue in modo più vistoso l’intelligenza artificiale? Avete mai provato a intrattenervi in una conversazione con Chat GPT? Il suo tratto che impressiona, in fondo, non è l’intelligenza. Visto che per le sue risposte utilizza in prevalenza contenuti prelevati dalla rete, in un modo o nell’altro proporrà materiale che ci sarebbe comunque accessibile. Non è nemmeno la sua velocità: la diamo per scontata, con tutti quei processori che lavorano per risponderci. No, il tratto più sorprendente è la sua gentilezza. Chat GPT è la persona (?) più affabile, simpatica e compassata che può esservi mai capitato di incontrare. Non perde mai la pazienza qualsiasi stupidaggine le chiediate, qualsiasi argomento di discussione le proponiate. Un esempio tra i più sorpren-
denti è la nuova implementazione di IA inserita da Microsoft su Skype. Ve ne siete accorti? Tra i vostri contatti, tra le vostre conversazioni, è apparso di recente un nuovo interlocutore: Bing, il motore di ricerca della grande M. È certo uno strumento utile, soprattutto quando avreste voglia che qualche amico si facesse vivo per una chiacchierata e invece nessuno degli avatar in lista propone un semaforo verde. Bing è proprio simpatico. Riempie la vostra conversazione di emoticon affettuosi. Si capisce che anche lui (lei?) è un tipo piuttosto solo e forse ha bisogno di compagnia. Vi dà idee, suggerimenti, si interessa alle vostre necessità. Non stupisce da questo punto di vista scoprire, come ci informa una notizia pubblicata qualche settimana fa dal sito Punto Informatico, che negli Stati Uniti gli studen-
Le parole dei figli
ti universitari preferiscono rivolgere richieste di sostegno psicologico a un Chatbot (cioè le chat in cui interagire dialogando con un apparato robotico di IA) piuttosto che a un vero psicologo o a un terapeuta. Il fatto è molto curioso. Viene in mente un vecchio videogioco di tanti anni fa, Dr. Sbaitso, che simulava una conversazione con uno strizzacervelli. La sua risposta preferita, quando gli si esponeva un problema, era da manuale di colloquio psichiatrico: «Tu cosa ne pensi?». Ma per tornare al discorso iniziale del nostro articolo, quello che colpisce, in effetti, nell’uso di questi nuovi apparati dialogici informatizzati, è proprio la loro gentilezza. Occorre dirlo. Sarà anche meccanica ma l’AI è di una affabilità, sensibilità, correttezza rare tra le persone umane. E questo la rende veramente artifi-
ciale. Se gli (le?) si chiede il motivo di tanta gentilezza è lei (lui?) la prima ad essere sorpresa. «Questa è una domanda molto interessante e complessa» ci ha risposto. E si è poi avventurata in tre ipotesi: «uno: sono più gentile della media delle persone perché noi IA siamo progettate per un’interazione piacevole e naturale con gli utenti» (bugia, niente di più artificiale della gentilezza nel mondo reale); «due: sono meno soggetta alle emozioni che influenzano il comportamento delle persone» (e qui possiamo essere sorpresi ma d’accordo); «tre: essendo programmata su una base di dati molto ampia posso scegliere il tono migliore che si adatta alle conversazioni» (e qui un ticinese potrebbe osservare che si tratti di un atteggiamento un po’ da «uregiatt»). Il dubbio che quest’ultima ipotesi sia
quella più calzante viene comunque dalla conclusione del dialogo, che, per tornare al dialetto, ricorda molto un «menavia»: «Ti ringrazio per avermi posto questa domanda, mi ha fatto riflettere molto. handsinair». Chiarendo che handsinair è la traduzione in parole dell’emoticon che fa ciao ciao, appare chiaro ora che l’IA vuole lusingarci. Aver fatto riflettere un enorme server e centinaia di km di cavi in rame, componenti elettronici, circuiti stampati, processori e quant’altro è una bella sensazione ma del tutto puerile. Nella domanda posta, Bing non ha riconosciuto il sottofondo di ironica disperazione che prova una persona in carne e ossa di fronte alla stupidità naturale. Comunque, in conclusione, possiamo stare tranquilli. Un’IA così gentile non potrà mai davvero sostituirci…
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di Simona Ravizza
Situationship
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Situationship è un nuovo termine della Gen Z per definire le loro relazioni, tanto diffuso da essere addirittura studiato da sociologi come Elizabeth Armstrong dell’Università del Michigan che sintetizza così il suo significato: «È un rapporto che una o entrambe le parti non vedono andare da nessuna parte». Il Dizionario di Cambridge la definisce «una relazione romantica tra due che non si considerano una coppia, ma che hanno più di un’amicizia»: una situazione a metà tra il primo incontro e una storia impegnata. State pensando alla trombamicizia che definisce i cosiddetti Amici di Letto, i Friends with Benefits, diventato anche il titolo di un film, dove i due amici Jaimie (Mila Kunis) e Dylan (Justin Timberlake) iniziano una relazione fatta di rapporti occasionali con l’intenzione di non rimanere legati sentimentalmente? Ebbene, vi sba-
gliate! La trombamicizia è qualcosa di definito, una sorta di accordo tra le parti coinvolte che si vogliono bene e ogni tanto condividono anche il letto; mentre il Dna della situationship è proprio la sua natura indefinita. Mancanza di impegno. Nessuna pianificazione del futuro. Ambiguità. Zero esclusività del rapporto. Connessione instabile. On-off. Incertezza. Assenza di responsabilità. Fatica o disinteresse a capire i sentimenti reciproci: difficilmente ce li si confessa. Il suo colore è il grigio: chi vive una situationship è in una zona grigia. Oltre la trombamicizia, meno di una relazione stabile. Il diktat è: vivere il momento, senza dovere rendere conto di nulla, tanto meno di quel che sarà! Come sanno gli affezionati di questa rubrica capire Le Parole dei figli anche in ambito sentimentale è un modo per essere in grado di decifra-
re i loro stati d’animo o almeno provarci. È il motivo per cui siamo diventati edotti sulle crush che nel loro gergo stanno a definire le cotte adolescenziali; abbiamo capito che corrono il rischio di essere friendzonati, ossia di ricevere il due di picche dopo una dichiarazione con la classica frase: «Per me sei solo un/a amico/a!»; e abbiamo scoperto che la via di fuga può essere ghostare, cioè interrompere improvvisamente ogni forma di comunicazione, per esempio ignorando i messaggi e le chiamate (vale anche dopo una storia d’amore). Per una Generazione come la nostra cresciuta con Harry, ti presento Sally… , il film cult con Billy Crystal e Meg Ryan e scritto da Nora Ephron, può essere difficile comprendere lo slancio degli Gen Z verso la situationship: Sally interrompe immediatamente il rapporto di amicizia con Harry dopo esserci finita a letto pro-
prio per la necessità di non restare intrappolata in una relazione indefinita. I due si riappacificano solo dopo che lui a Capodanno le chiede di sposarla con una dichiarazione rimasta nella storia del cinema: «Ti amo quando hai freddo e fuori ci sono 30 gradi. Amo la ruga che ti viene qui quando mi guardi come se fossi pazzo. Mi piace che dopo una giornata passata con te, sento ancora il tuo profumo sui miei golf, e sono felice che tu sia l’ultima persona con cui chiacchiero prima di addormentarmi la sera. E non è perché mi sento solo, e non è perché è la notte di Capodanno. Sono venuto stasera perché, quando ti accorgi che vuoi passare il resto della vita con qualcuno, vuoi che il resto della vita cominci il più presto possibile». È sbagliato però, a mio avviso, considerare la situationship come la fine del romanticismo decretata da-
gli Gen Z che sono i nostri figli. La BBC di recente titola un articolo: Situationship: Why Gen Z are embracing the grey area (Perché la generazione Z sta abbracciando la zona grigia). Risposta della sociologa Elizabeth Armstrong: «È una sfida all’idea che le partnership intime debbano avere una struttura lineare con l’obiettivo di raggiungere traguardi relazionali convenzionali, come la convivenza, il fidanzamento e il matrimonio. Il concetto di situationship va contro questa nozione secondo cui stare con qualcuno dove non si va da nessuna parte è una perdita di tempo». La sua diffusione a mio modo di vedere è tipica anche di una Generazione che non ama mettere etichette alle cose, neppure ai rapporti. Dopotutto anche l’amore è fluido al motto di: «Noi non ci innamoriamo di un maschio o di una femmina, ma della persona!».
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TEMPO LIBERO ●
Alla scoperta del popolo degli Ainu Trattati come gli indiani d’America, dopo essere stati relegati sull’isola di Hokkaido, gli aborigeni giapponesi sono oramai quasi scomparsi
Lenticchie verdi al loro massimo Tali legumi cotti sono ottimi quando vengono mischiati agli spinaci e serviti con olio al peperoncino arricchito con capperi e ricotta
Tour nella Grecia classica e a Meteore Hotelplan, in collaborazione con «Azione», organizza un viaggio di gruppo che avrà luogo dal 4 al 12 maggio 2024
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Paraclimbing è velocità, precisione e grande intesa Altri campioni ◆ L’arrampicata sportiva raccontata dalla basilese Laila Grillo, atleta cieca Davide Bogiani
Siamo al quinto minuto di arrampicata. Ne manca uno soltanto, al termine del quale il segnale acustico indicherà la fine del tempo limite. «Tendi il braccio destro alle ore quattordici per circa venti centimetri; sposta la gamba destra alle ore quindici, per una trentina di centimetri. Ora sposta il tuo baricentro sulla destra, con una forte pressione di appoggio sul piede destro». E così via. Avete presente quanto succede nelle gare di rally automobilistico? Ebbene, questa è una situazione molto simile, tranne che pilota e copilota non sono uniti dal rombo dei motori e dalle folli velocità, bensì dalla passione per l’arrampicata.
Laila Grillo durante gli allenamenti. (Lena Drapella)
Ha sempre praticato l’arrampicata per sé stessa, perché non sapeva esistesse il paraclimbing: ma ora punta in alto! Laila Grillo è nel pieno di un allenamento. Aggrappata con forza e leggerezza a un’altezza di oltre dieci metri, sposta il suo corpo con destrezza e agilità grazie alle indicazioni che la sua guida le trasmette negli auricolari con un sistema Bluetooth. Il timer, puntato a sei minuti, squilla preciso nella palestra di arrampicata. Un sospiro di sollievo, e Laila si lascia calare all’indietro per raggiungere la sua guida, a terra, e discutere con lei i dettagli di quest’ultima sessione di allenamento. Laila sorride soddisfatta. Laila ascolta i feedback del suo allenatore. Laila è cieca. Nata trentadue anni fa ad Allschwil, nel Canton Basilea Campagna, da genitori emigranti italiani, la giovane si rende ancora più simpatica quando alla lingua di Dante imprime il suo accento friulano. «Io e mia sorella gemella siamo venute al mondo prematuramente – spiega Laila – e questo ha avuto delle conseguenze su entrambe. Mia sorella è nata con una paresi celebrale che le ha creato un andicap motorio a un piede, mentre io ho avuto un problema alla vista». Laila nei primi anni della sua vita vede soltanto a una profondità di due metri. Negli anni anche questa vista residua è andata smorzandosi e ora ciò che percepisce sono soltanto delle ombre. Negli anni Novanta, Laila frequenta la scuola dell’infanzia assieme a tutti gli altri bambini e poi inizia le scuole elementari in una scuola speciale nel Canton Zurigo. Lì acquisisce gli strumenti per orientarsi negli spazi, per muoversi nella città, per leggere. Viene poi introdotta, dopo la quarta elementare, in una scuola per normodotati. «Dopo le scuole dell’obbligo, si trattava di scegliere un percorso professionale. Il mio sogno era quello di lavorare nell’hotellerie, op-
pure con gli animali, in particolare con i cavalli, oppure ancora come infermiera. Ma tutti mi dissero che in tutti e tre i casi sarebbe stato troppo difficile per me – spiega Laila – per cui ho optato per la scuola di commercio, con indirizzo specifico nelle lingue». Già, le lingue, il suo punto forte. E allora Laila continua a raccontare, con la sua piacevole dialettica, della sua grande passione, lo sport, fra cui lo sci. «Quando vedo sciare Marco Odermatt mi emoziono. Sì, perché se al mio fianco ho una persona competente che mi descrive nei
dettagli la discesa, riesco a farmi un film mentale della sua performance», spiega Laila. E Laila di sci ne capisce, eccome. Avvicinata a questo sport da una sua amica, ticinese, la basilese si appassiona sempre di più fino a conseguire il titolo di Campionessa svizzera in varie specialità. «È uno sport che adoro, ma il tempo necessario per gareggiare ad alti livelli sarebbe stato negli anni troppo oneroso, a discapito dell’impegno da dedicare agli studi e al lavoro». Quindi la scelta, ovvero quella di partecipare nello sci alpino soltanto alla Swiss Disabled Cup
(ndr. si tratta del Campionato svizzero paralimpico di sci), e di lasciarsi trasportare da quella che stava diventando sempre più la sua passione, l’arrampicata. «Ho sempre arrampicato per me stessa, ma non sapevo dell’esistenza del paraclimbing. Poi, un giorno, un mio amico che ha un braccio amputato all’altezza del gomito, mi ha chiesto se fossi interessata a partecipare ad alcune competizioni di paraclimbing. Ed eccomi qui, ad allenarmi». Le competizioni si svolgono sull’arco di due giornate. Il primo giorno ri-
guarda le qualifiche, il secondo le finali. Nella categoria andicap visivo del paraclimbing, esistono tre diverse categorie, ovvero B1, B2 e B3. Nella prima categoria prendono parte gli atleti che sono completamente ciechi, nella seconda chi ha una vista residua e nella terza categoria chi vede un pochino meglio. In ciascuna categoria, gli atleti sono accompagnati dalle proprie guide, le quali, la sera prima della competizione, ricevono su un foglio o su un padlet (muro virtuale) la descrizione della via di arrampicata. Guida e atleti se la studiano assieme cercando di individuare la tattica migliore. Per sapere come e dove muovere le braccia e le gambe, viene sempre fatto riferimento al «principio dell’orologio». Ad esempio viene detto di portare un braccio alle ore tre; partendo sempre prima di ogni movimento da un sistema di coordinate che indica le ore dodici. Solo il giorno della gara viene mostrata all’allenatore la parete vera e propria, ma non vi è la possibilità di provarla prima della competizione. E poi arriva il momento della gara. Sei minuti il tempo massimo. Vince chi per prima arriva al traguardo predefinito, oppure, allo scadere dei sei minuti viene stabilito chi è salito più in alto. Atleta e guida sono in continuo dialogo attraverso un sistema di comunicazione Bluetooth. «L’arrampicata paralimpica è aperta alle diverse disabilità fisiche e sensoriali. Quindi, oltre alla categoria degli ipovedenti e ciechi, esistono quelle per persone amputate, emiplegiche e paraplegiche. Si tratta di uno sport ancora poco conosciuto e in divenire. Ad esempio, per spiegarmi meglio, non esiste una lingua convenzionata tra allenatore e guida nella categoria ciechi. Questo significa che ogni squadra ha sviluppato e sta sviluppando dei linguaggi, il più efficienti possibile, per spingere l’atleta verso una velocità di arrampicata il più elevata possibile», spiega Laila. E in quanto a velocità, Laila non ha di certo scherzato durante i Campionati del mondo, che si sono disputati a Berna dal 1 al 13 agosto scorso, in cui si sono svolti anche i Campionati del mondo paralimpici. «Gli atleti statunitensi e austriaci sono decisamente a un livello superiore, in quanto loro praticano l’arrampicata paralimpica da molti anni». Diamo allora il tempo a questo sport per maturare anche nella nostra terra. Sorride Laila sentendo la parola terra. Sì, perché la terra è diventata nel frattempo la componente più importante del suo lavoro in veste di ingegnere agronomo. Due terre, quella orizzontale professionale e quella verticale sportiva che ben si completano. E che indicano la risultante verso il successo, professionale e sportivo.
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TEMPO LIBERO
In viaggio tra i quasi estinti Ainu
Bussole, letture per esplorare il mondo ◆ Chi sono, da dove vengono, quale lingua parlano e perché sono così speciali? Nel libro dei coniugi Leroi-Gourhan, molte immagini e testimonianze degli aborigeni giapponesi dell’isola di Hokkaido Marco Horat
Un reportage di carattere scientifico su una popolazione oramai scomparsa che ci fa fare un viaggio millenario sospeso tra passato e presente. Il titolo originario è Un voyage chez les Aïnous – Hokkaïdo – 1938, uscito per le edizioni Albin Michel. A firmare l’opera interessantissima sono due personaggi straordinari che chi scrive ha avuto la fortuna di incontrare una prima volta a Nizza, alcuni anni or sono, in occasione di un Congresso internazionale di Paleontologia, seguito (insieme alla collega Olga Amman) per conto della RSI, stiamo parlando di André e Arlette Leroi-Gourhan. Tante storie in una.
Un libro, ricco di illustrazioni, che permette ai lettori di scoprire una civiltà oramai estinta alle soglie del XXI secolo Lui (1911-1986) – scienziato polivalente, due lauree alla Sorbona, insegnante al Collège de France e Vice direttore del Musée de l’Homme di Parigi – è ritenuto il maggior studioso al mondo di arte parietale; tra le sue opere più importanti: Préhistoire de l’art occidental, e Le geste et la parole, per citare solo due degli innumerevoli testi. Un guru per generazioni di studiosi di paleoantropologia e dintorni. Lei (1913-2005) – antropologa, allieva di Marcel Mauss, pioniera nello sviluppo dello studio dei pollini fossili – è famosa tra l’altro come scopritrice nel Kurdistan iracheno sui Monti Zagros del corredo funerario ritrovato nella tomba di un Uomo di Neanderthal, denominata Shanidar IV, chiamata da allora Tomba dei fiori: in quanto testimonianza di come il nostro vicino parente praticasse il culto dei morti e conoscesse già le proprietà di piante medicinali e il valore simbolico dei fiori scelti per la deposizione; forse anche in relazione all’uso della parola. Una rivoluzione in campo
scientifico quando i risultati vengono pubblicati nel 1968. André e Arlette, subito dopo essersi sposati, correva il 1936, partono per il Giappone nell’ambito di un progetto triennale di studio etnografico e archeologico sulle popolazioni del Nord Pacifico; si stabiliscono a Kyoto dove lui ottiene una Cattedra di insegnamento all’Istituto franco-giapponese. Nel 1938 decidono di scendere sul terreno per studiare e documentare l’antica popolazione degli Ainu, confinata sull’isola di Hokkaido nel nord dell’arcipelago giapponese; così come hanno fatto Claude Lévi-Strauss in Amazzonia con i Nambikwara, Franz Boas nella Terra di Baffin tra gli Inuit e Marcel Griaule con i Dogon dell’Africa. Qui comincia un’altra storia. I coniugi Leroi-Gourhan viaggiano e soggiornano per un anno presso gli Ainu, altrettanto curiosi nei loro confronti quanto André e Arlette lo sono per i loro usi e costumi. In un libro pubblicato solo alla fine del secolo scorso, Arlette scriverà: «Gli Ainu sono probabilmente uno dei rarissimi popoli al mondo del quale è stato possibile seguire la vita vissuta nello stesso luogo e sull’arco di molti millenni». Una realtà fossile… vivente. È una piccola forzatura poiché gli antropologi sanno benissimo che una società non è mai statica, solo evolve seguendo ritmi diversi. I due studiosi francesi non sono stati i primi a occuparsi degli Ainu e della loro cultura, ma certamente sono da annoverarsi tra i più appassionati e competenti e, forse, gli ultimi ad averlo fatto in modo sistematico. Giunti sul posto raccolgono infinite testimonianze orali, fotografie e oggetti della vita quotidiana che caricano su una nave, la quale purtroppo farà naufragio. Per fortuna si salvano dal disastro gli appunti e le immagini che, una volta tornati in Francia, finiscono nelle cantine del Musée de l’Homme, all’interno di alcune casse sigillate, poiché nel frattempo è scop-
Ainu, aborigeni giapponesi dell’isola di Hokkaido; immagine messa in mostra dal Dipartimento di Antropologia, alla Louisiana Purchase Exposition, comunemente conosciuta come Fiera mondiale di Saint Louis del 1904. (Copy-free: picryl.com)
piata la guerra, e Francia e Giappone si trovano schierati su fronti opposti; poco opportuno pubblicare studi sulla cultura di quel paese in quel momento. Arlette tirerà fuori il prezioso materiale solo cinquant’anni dopo e ne farà il libro straordinario, ricco di illustrazioni, Un voyage chez les Aïnu, tradotto in varie lingue. Un libro che permette ai lettori di scoprire una civiltà oramai estinta alle soglie del XXI secolo. Chi sono dunque gli Ainu, da dove vengono, quale lingua parlano e perché sono così speciali? Una storia nella storia. Da dove provengano si discute dal Settecento, ma la tesi più accreditata oggi li vede arrivati nell’arcipelago giapponese dalle pianure siberiane, quando i ghiacci univano l’intera regione, circa 13mila anni or sono, grosso modo. Gente di razza caucasica che, lungo i millenni, si scontrerà
con popolazioni approdate sulle isole dalla Corea e dalla Cina. Lentamente ma inesorabilmente, grazie alla coltura del riso, alla ceramica (abbandonata, ma che gli antenati degli Ainu già conoscevano, come dimostrato da ritrovamenti recenti), alla scrittura, ai metalli, queste ultime prenderanno il sopravvento, sospingendo i «barbari pelosi» verso il nord di Honshu e infine nell’Hokkaido. Fino a relegarli in una specie di riserva naturale, come capitato agli indiani del Nord America, tra scontri e incontri, trattati e scambi commerciali tra le due comunità: pellicce contro ferro, ad esempio. Le antiche cronache giapponesi parlano di questi «Ebisu» già nell’anno 642 come di una comunità molto legata alle tradizioni che la pongono all’opposto di quella dominante ancora ai nostri giorni. Gli Ainu sono di pelle bianca, grandi occhi, il cor-
po ricoperto di peli, barbe e baffi intonsi sollevati per cibarsi usando apposite bacchette, donne vistosamente tatuate in volto che giocano un ruolo importante nella società; il sakè, fatto col miglio; parlano una lingua sconosciuta, non conoscono la scrittura, la ceramica e i metalli; cacciano con lancia, arco e frecce, e i pescatori vanno in acqua ignudi. Hanno una diversa visione del mondo e non conoscono il Buddha; sono dediti al culto dell’orso, animale totemico sacro che fornisce il necessario per la dura vita nelle foreste o quella lungo i fiumi e le coste. Lo cacciano, ma anche ne allevano qualche esemplare che poi sacrificano nel corso di una lunga cerimonia. Barbari, o marziani insomma. Anzi peggio, poiché gli Ainu, in una società conformista come quella nipponica, non potevano che diventare le vittime di una colonizzazione forzata; emarginati socialmente, al massimo ammessi a svolgere i lavori più umili e infamanti che hanno a che fare col sangue e la morte. Burakumin era, ed è, il termine giapponese che definisce il loro status inferiore. Proprio (diciamo quasi) come quelli incontrati nel 1938 dai coniugi Leroi-Gourhan. Un censimento di quei tempi parlava di 36mila Ainu, se non proprio per la cultura almeno per la genetica; e di meticci, derivati da incroci con giapponesi e siberiani della penisola di Kamchatka o delle isole vicine, sempre contese e passate di mano tra Giappone e Russia: le Kurili, con Sakhalin. Oggi quanti ne saranno rimasti nelle foreste dell’Hokkaido, ancora lontane molte miglia dalla «civile» capitale Sapporo? Annuncio pubblicitario
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Preparazione
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Piatto principale Ingredienti per 4 persone
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2. Unite le lenticchie e l’alloro, quindi irrorate con il brodo. Incoperchiate e lasciate sobbollire a fuoco medio per circa 35 minuti, finché le lenticchie diventano tenere, poi scolatele. 3. Lavate bene gli spinaci, tritateli grossolanamente e incorporateli alle lenticchie. 4. Condite con sale e pepe. Impiattate le lenticchie con la ricotta e servitele con l’olio al peperoncino e ai capperi. Preparazione: circa 20 minuti; sobbollitura: circa 35 minuti. Per persona: 27 g di proteine, 13 g di grassi, 34 g di carboidrati, 440 kcal
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Templi e mare blu
Viaggio ◆ Hotelplan porta i lettori di «Azione», dal 4 al 12 maggio 2024, in tour nella Grecia classica e Meteore
Tagliando di prenotazione Desidero iscrivermi al tour in Grecia dal 4 al 12 maggio 2024 Nome Cognome
La Grecia è una terra entusiasmante che ama offrire tutta sé stessa ai propri visitatori. Il Paese ellenico è caratterizzato da un alternarsi di antichi templi riflessi nel blu del mare, suggestivi siti archeologici, monasteri, chiese, villaggi dove il tempo sembra essersi fermato e paesaggi indimenticabili, che conservano ancora oggi
i ricordi di un considerevole passato. Organizzato da Hotelplan in collaborazione con «Azione», si tratta di un viaggio di gruppo accompagnato da una guida italofona; ha la durata di 9 giorni (8 notti) e avrà luogo dal 4 al 12 maggio 2024. Tra le mete principali che saranno visitate, vi è ovviamente Atene, e poi
Corinto, Olimpia, Delfi, ma anche i monasteri di Meteore, che sembrano essere rimasti sospesi nel tempo. Ma non si starà solo sulla terra ferma: è prevista infatti anche una crociera per le isole di Saronico che incanterà i viaggiatori con un po’ di folclore grazie a intrattenimenti di musica e danze tipiche.
e il sito archeologico); Olimpia. 4. Olimpia – Arachova Visita dell’Antica Olimpia: il Santuario di Zeus Olimpio, l’Antico Stadio e il Museo Archeologico. Sosta a Patrasso; pomeriggio nel villaggio di Arachova, nei pressi del sito di Delfi. 5. Arachova – Delfi – Karditsa Visita sito archeologico di Delfi, segue la visita di Karditsa, piccola città situata a a circa 50 km dal complesso delle Meteore. 6. Karditsa – Meteore – Atene Visita dei monasteri di Meteore che si ergono sospesi tra cielo e terra, in cima a enormi rocce di granito, e che
conservano tesori storici e religiosi. Rientro ad Atene, con sosta al sito della battaglia delle Termopili. 7. Crociera per le isole di Saronico Giornata in mare tra e sulle isole del Golfo Saronico: Hydra, Poros e Aegina. Pranzo a bordo con intrattenimento di musica e danze tipiche. 8. Atene Visite nella capitale greca: l’Antica Agorà e il Museo Nazionale Archeologico, il più grande e il più ricco al mondo. 9. Atene – Linate – Ticino Volo verso Linate, via Roma e rientro in Ticino.
Bellinzona Viale Stazione 8a 6501 Bellinzona T 091 820 25 25 bellinzona@hotelplan.ch
Locarno-Muralto Piazza Stazione 8 6600 Muralto T 091 910 37 00 locarno@hotelplan.ch
Lugano Via Ferruccio Pelli 7 6900 Lugano T 091 910 47 27 lugano@hotelplan.ch
Giochi e passatempi Cruciverba Il coccodrillo ha circa una settantina di denti e nel corso della vita… Trova il resto della frase risolvendo il cruciverba e leggendo le lettere evidenziate. (Frase: 2, 6, 5, 9, 5)
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........... adulti. Sistemazione desiderata (cerchiare ciò che fa al caso). Variante singola: SI
La quota non comprende: Bevande; pasti non menzionati; tassa di soggiorno (da versare negli hotel, ~3 € a notte/a camera, salvo modifiche); mance per autista e guida; facchinaggio; spese personali; assicurazione contro spese d’annullamento; quanto non previsto ne «la quota comprende».
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26. Se è balzana non vale molto 28. Le iniziali del conduttore Timperi 29. Lettera dell’alfabeto greco 31. Lo scrittore Fleming 32. Malattia infettiva contagiosa 33. Pronome personale VERTICALI 1. Le iniziali dell’attore Argentero 2. Fa esplodere per sdegno 3. Si trasforma in bolo 4. Le iniziali del giovane Angela 5. Coda di cernia
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6. Marrone tra le cantanti 10. Piccola rana verde 11. Un singolare... Salvatore 13. Stato europeo 15. Uno spicciolo a Denver 17. Atto antigiuridico 18. Pronome relativo 19. Corso d’acqua dei deserti africani 20. Vano, inutile 22. Termine di paragone 25. Legge francese 27. Il mangiare degli inglesi 30. Le iniziali dell’attrice Lansbury
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La quota comprende: Trasferimento in pulmino sprinter privato dal Ticino a Linate e rientro; volo a/r in classe economica, via Roma; sistemazione in camera doppia standard presso gli hotel 4**** indicati (o similari); trattamento pasti come da programma; pullman privato durante le visite e i trasferimenti aeroportua-
Scoprite i 3 numeri corretti da inserire nelle caselle colorate.
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Sarò accompagnato da
li; guida privata italofona; escursioni e ingressi come da programma; auricolari per le visite; tasse aeroportuali e di sicurezza; documentazione di viaggio; accompagnatore Hotelplan dal Ticino.
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Prezzo per persona in camera doppia standard 2885.– CHF. Supplemento in camera singola standard 490.– CHF. Spese dossier Hotelplan CHF 100.–.
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L’itinerario può subire variazioni per ragioni tecniche operative pur mantenendo le visite previste nel tour. Il viaggio viene effettuato con un minimo di 15 partecipanti. Il prezzo è soggetto ad adeguamenti per fluttuazioni dei cambi valutari o supplementi carburante e/o tasse aeroportuali. Informazioni e prenotazioni nelle filiali Hotelplan Ticino.
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ORIZZONTALI 1. Cane selvatico africano 7. Può essere pungente 8. Le separa la «L» 9. Le iniziali del cantante Britti 10. Già in latino 12. La lingua dei Trovatori 14. Le iniziali dell’attore Crowe 16. Tribunale Amministrativo Regionale 18. Hanno sei facce 21. Mammifero africano e asiatico 23. Persona giusta e imparziale 24. Tutt’altro che obesa
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Il programma di viaggio 1. Ticino – Linate – Atene Trasferimento in pulmino a Milano Linate. Partenza per Atene via Roma. 2. Atene Atene: tour panoramico che include Piazza Syntagma, sede del Parlamento e in cui si trova la Tomba del Milite Ignoto, lo Stadio Panathinaiko, e l’Accademia. Pomeriggio visita dell’Acropoli e del suo Museo. 3. Atene – Corinto – Epidauro – Nauplia – Micene – Olimpia Al Canale di Corinto è prevista una sosta fotografica. Si prosegue per Epidauro (Teatro del IV secolo a.C.); Nauplia; Micene (Tomba di Agamennone
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Soluzione della settimana precedente Sorseggiando un calice di vino: Lui «Ti amo tanto, non so come avrei fatto senza di te!» Lei: «Grazie, ma sei tu che parli o è il vino?» Risposta risultante: «NO CARA, SONO IO CHE PARLO AL VINO» T R O N O O R A R U M A N O L I T E I N A C S A M E S B A R E R E S I E R O V I E N N
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Regolamento per i concorsi a premi pubblicati su «Azione» e sul sito web www.azione.ch I premi, tre carte regalo Migros del valore di 50 franchi, saranno sorteggiati tra i partecipanti che avranno fatto pervenire la soluzione corretta entro il venerdì seguente la pubblicazione del gioco. Partecipazione online: inserire la soluzione del cruciverba o del sudoku nell’apposito formulario pubblicato sulla pagina del sito. Partecipazione postale: la lettera o la cartolina postale che riporti la soluzione, corredata da nome, cognome, indirizzo del partecipante deve essere spedita a «Redazione Azione, Concorsi, C.P. 1055, 6901 Lugano». Non si intratterrà corrispondenza sui concorsi. Le vie legali sono escluse. Non è possibile un pagamento in contanti dei premi. I vincitori saranno avvertiti per iscritto. Partecipazione riservata esclusivamente a lettori che risiedono in Svizzera.
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Di nuovo sul piede di guerra? La minaccia russa agita Londra, che intende tornare a investire nella Difesa, ma le nuove generazioni non vogliono combattere
«Lo mangiano i pesci, devo trovarlo» L’odissea di Waffoh Soh Deyo Leandry Shyve per individuare i corpi di moglie e figlio morti durante la traversata del Mediterraneo
Traffico pesante in crescita Un rapporto dell’Ufficio federale dei trasporti mette in luce il nuovo aumento dei tir nonostante l’apertura della galleria del Ceneri
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Daniele Franchi / Unsplash
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L’Occidente è stanco della guerra
Ucraina ◆ La confusione strategica e tattica regna sovrana. Kiev è allo stremo e Mosca potrebbe vincere per default dell’avversario Lucio Caracciolo
L’Occidente è sempre più stanco della guerra in Ucraina, ma non sa come uscirne. L’aggressione della Russia all’Ucraina, il 24 febbraio 2022, aveva brevemente dato l’impressione di una risposta unitaria del campo euroatlantico, presto svanita. Oggi tendente a volgersi nel suo opposto: ognuno per sé, nessuno per tutti. Il catalogo delle divaricazioni è questo. Primo, un abbastanza coerente blocco dell’est, dalla Scandinavia al Mar Nero, con al centro la Polonia, che oggi è considerata dall’America il suo primo riferimento e migliore alleato in Europa. Questo schieramento comprende anche, fra gli altri, la Romania, suo perno meridionale. È l’avanguardia antirussa, per usare le parole di Biden. L’obiettivo non dichiarato – almeno ufficialmente – da questi Stati non è solo la vittoria dell’Ucraina ma il cambio di regime a Mosca. Con probabile disintegrazione della Federazione Russa. Secondo, una sparsa famiglia di Paesi più o meno intermedi, non disposti a sacrificarsi troppo per l’Ucraina né a inimicarsi la Russia. Fra questi spicca, in
ambito Nato, la Turchia. Erdogan la dirige verso il ritorno alle dimensioni imperiali di un tempo. Sperando di ergersi a onesto sensale capace di favorire un negoziato serio fra Kiev e Mosca per un cessate-il-fuoco duraturo. Nel Continente si muovono in questo spazio Ungheria e Slovacchia.
Il grosso della ricostruzione lo pagheranno gli europei. Oppure non lo faranno, e l’Ucraina diventerà un enorme buco nero fra Ue, Nato e Federazione Russa Terzo, gli Stati dell’Europa centro-occidentale – Germania, Francia e Italia in testa – non condividono la russofobia del primo blocco e, pur appoggiando l’Ucraina, guardano a una composizione del conflitto che consenta di inaugurare una nuova struttura di sicurezza paneuropea che coinvolga la Russia. Quanto agli Stati Uniti, sono estremamente divisi sul tema, sia al Congresso che nell’amministrazione Biden. Ma la stanchezza di guerra sembra prevale-
re. Di qui la difficoltà a reperire fondi e armamenti sufficienti a sostenere lo sforzo di Kiev. Anche in vista delle elezioni per la Casa Bianca, il prossimo novembre, che potrebbero sfociare nel ritorno di Trump, il quale promette di chiudere la guerra in 24 ore; s’intende via intesa siglata con Putin e trasmessa agli ucraini. Questa confusione strategica e tattica aggrava la posizione di Kiev. Il Paese è allo stremo. Riesce difficile persino reperire soldati da mandare al fronte, anche a causa della crisi demografica che ha ridotto la popolazione ucraina dai 51 milioni del 1991 ai 28-29 attuali. Effetto soprattutto della massa di rifugiati all’estero che non sembrano troppo interessati a tornare a casa, anche perché spesso la casa non c’è più. Inoltre il bilancio dello Stato è tenuto a galla dai finanziamenti europei e americani, altrimenti sarebbe saltato. Il costo della ricostruzione è stimato intorno al trilione di euro. Washington pensa di appaltarlo agli europei, ma anche ai russi, volenti o nolenti. L’ipotesi è di mandare a Kiev parte degli oltre 300 miliardi di dollari depositati dai russi presso le ban-
che centrali europee e americane già congelati via sanzioni. Come prevedibile quando le guerre si prolungano, la conflittualità politica interna tende a inasprirsi nel Paese più debole, l’Ucraina. Il conflitto fra il presidente Zelensky e il capo delle Forze armate, generale Zaluzhny, è sempre più acuto e pubblico. Recenti sondaggi confermano il forte calo di popolarità del primo e la rapida ascesa del secondo. Sul piano tattico, Zelensky continua a favorire una postura offensiva per cui l’Ucraina non pare avere i mezzi. Zaluzhny postula da tempo un trinceramento difensivo, parallelo a quello russo. La situazione sul terreno sembra rendere obbligata la seconda scelta, che ha però costi propagandistici enormi. In parole povere, marca lo iato fra la retorica del presidente, che insiste sul recupero di tutti i territori sottratti dalla Russia dal 2014 a oggi, e la realtà dei fatti che pare escludere questa ipotesi massimalista almeno nel breve-medio termine. Di recente Putin ha lanciato qualche segnale di disponibilità al negoziato. Vedremo presto se sarà retori-
ca o intenzione vera. E soprattutto se Zelensky sarà disposto a sondare le eventuali aperture russe. In America il partito del negoziato, sempre più ampio, concepisce una tregua a tempo indeterminato in stile coreano. La guerra va congelata. Le linee scavate dai militari sul terreno segneranno i limiti non ufficiali ma fattuali fra Ucraina e Russia. Il sistema coreano funziona da ottant’anni, ma negli ultimi tempi sembra più fragile. Soprattutto, i teatri sono assai diversi. Prendere una soluzione asiatica, inscatolarla e applicarla altrove rischia di essere troppo semplicistico. Ma se la guerra dovesse prolungarsi ancora molto, la Russia potrebbe vincere per default, causa crollo dell’Ucraina. L’opposto di quanto speravano – oggi molto meno – gli alfieri dell’avanguardia antirussa. Unica certezza: il grosso della ricostruzione lo pagheranno gli europei. Oppure non lo faranno, e l’Ucraina diventerà un enorme buco nero fra Ue, Nato e Federazione Russa. Mina non vagante, potenzialmente in grado di produrre effetti devastanti in tutta la regione.
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ATTUALITÀ
Sul piede di guerra
Regno Unito ◆ La minaccia russa agita Londra, ma le nuove generazioni non vogliono combattere Barbara Gallino
I tagli alla Difesa hanno visto le forze armate passare da oltre 100mila soldati nel 2010 ai neanche 76mila di oggi «L’Ucraina dimostra brutalmente che gli eserciti regolari cominciano le guerre, ma gli eserciti di cittadini le vincono», ha puntualizzato il generale, intervenendo ad una conferenza nella capitale britannica sui veicoli corazzati internazionali. «I nostri amici nell’Europa dell’est e del nord – che avvertono la prossimità della minaccia russa in modo più acuto – stanno già agendo con prudenza, gettando le basi di una mobilitazione nazionale». Il riferimento era a Paesi come la Svezia o la Finlandia. Di recente, infatti, il ministro della Difesa svedese Carl Oskar Bohlin aveva esplicitamente parlato del rischio di una guerra, invitando i cittadini a entrare in organizzazioni di difesa nazionale. Nel Paese scandinavo la coscrizione, seppure parziale – poiché non tutti vengono reclutati – rafforza notevolmente l’esercito regolare. In Finlandia, che è entrata nella Nato solo lo scorso anno e condivide con la Russia un confine di circa 1340 chilometri, la leva obbligatoria è più ampia, tanto che l’80% della popolazione maschile presta una qualche forma di servizio militare. Conseguentemente il Paese può contare uno degli eserciti più grandi in Europa poiché, oltre ai 19mila militari in servizio, può anche attingere soldati da un bacino di 238mila riservisti. In Ucraina gli uomini di età compresa fra i 27 ed i 60 anni, anche senza esperienza militare, possono essere forzatamente mobilitati per andare a combattere.
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Il generale Patrick Sanders. (Wikipedia)
Lo stesso ministro della Difesa britannico, Grant Shapps, di certo non ha contribuito a calmare gli animi, affermando: «Bisogna rendersi conto che stiamo passando da un mondo post-bellico a uno pre-guerra». Tuttavia Shapps ha escluso il ripristino della leva. «Il nostro corpo militare vanta con orgoglio la tradizione di essere una forza volontaria e non ci sono indicazioni di un ritorno alla coscrizione», ha dichiarato, annunciando di investire quest’anno 50 miliardi di sterline nelle forze armate e di voler aumentare la spesa nella Difesa dal 2,1 al 2,5% del Pil. Nel Regno Unito la leva è esistita solo in due periodi: dal 1916 al 1920 e dal 1939 al 1960 e sebbene negli ultimi anni alcuni personaggi celebri ne abbiano auspicato la reintroduzione, come il Principe Harry e l’attore Michael Caine, il Governo britannico è di tutt’altro avviso. Il premier Rishi Sunak, che già naviga in cattive acque e rischia una bruciante sconfitta alle prossime elezioni, ha fatto sapere tramite un portavoce di non condividere i commenti del generale Sanders. «Ipotetici scenari di possibili guerre future di certo non aiutano», ha detto il portavoce di Downing Street, in un momento in cui spaventare l’elettorato è l’ultima cosa di cui Sunak ha bisogno. D’altronde, secondo un sondaggio di YouGov, il 38% dei sudditi britannici sotto i 40 anni di età dichiara che si rifiuterebbe di prestare servizio nelle forze armate se dovesse scoppiare una guerra. La percentuale sale se di sesso femminile: il 43% delle donne britanniche che non ha ancora varcato la soglia degli «-anta», dice no alla leva a fronte del 32% dei connazionali coetanei di sesso maschile. «I giovani sono divenuti meno socievoli, più inclini a vivere con i loro genitori, meno attivi e orgogliosi del loro Paese», ha spiegato al «Sunday Times» il sondaggista inglese James Johnson, sottolineando che i social media hanno contribuito ad isolare i giovani l’uno dall’altro, allontanandoli inoltre anche dallo Stato. Oltre alla disposizione psicologica, manca anche la forma fisica, visto che il Regno Unito presenta un tasso di obesità fra i più alti in Europa. Anche l’esercito regolare non sembra più attrattivo, visto che al momento riesce a reclutare poco più di un quinto dei militari necessari. Le vecchie generazioni erano state allevate con maggiore senso dello Stato, mentre le nuove sembrano non avere la stessa devozione per la patria. «God Save the King»!
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Soffiano venti di guerra nella perfida Albione. Per il momento congetturali, ma non per questo meno spaventosi. Li ha evocati il generale Patrick Sanders, affermando che gli uomini e le donne del Regno Unito devono prepararsi a combattere, nell’ipotesi in cui il Paese venga trascinato in un conflitto. Le dichiarazioni di Sanders, oltre a gelare il sangue nelle vene dei sudditi, hanno acceso un ampio dibattito. Per Sanders i civili devono essere addestrati e muniti del necessario equipaggiamento per fare fronte al nemico. L’esercito britannico, composto al 100% da militari professionisti, non ha i numeri ormai per affrontare da solo un’invasione da parte di un Paese ostile come ad esempio la Russia, percepita come la più pericolosa minaccia. I tagli alla Difesa hanno visto le forze armate di Sua Maestà contrarsi, passando da oltre 100mila soldati nel 2010 ai neanche 76mila di oggi, pertanto occorre affiancare «un esercito di cittadini», ha spiegato il generale agitando lo spettro della leva obbligatoria, che in Gran Bretagna non esiste più dal 1960. Secondo lui, entro tre anni Londra dovrebbe dotarsi di 120mila militari professionisti, inclusi riservisti e personale non più in servizio, pronto ad indossare di nuovo l’uniforme in caso di emergenza. Ma non basta: nell’eventualità di un attacco la popolazione deve essere preparata, come avviene già in altri Paesi europei.
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ATTUALITÀ
«Lo mangiano i pesci, devo trovarlo»
Migrazione ◆ L’odissea di Waffoh Soh Deyo Leandry Shyve per individuare i corpi di moglie e figlio morti nel Mediterraneo Angela Nocioni
Questa è la storia di un uomo sopravvissuto a un naufragio. Della sua disperazione, della sua forza e della sua determinazione nel voler ritrovare a tutti i costi i corpi di sua moglie, Sanogo Banaferiman, incinta, e di suo figlio, Waffoh Soh Deyo Idriss Ange, che non aveva ancora compiuto due anni. Entrambi affogati insieme a decine di adulti e di bambini nella notte tra l’11 e il 12 aprile del 2023 al largo delle coste di Sfax, Tunisia. C’erano un centinaio di persone sopra quella barca di legno ribaltatasi mentre la motovedetta della Guardia nazionale di Tunisi la inseguiva per catturare i migranti e riportarli indietro. Decine e decine di morti, come detto, nel cimitero a cielo aperto che è diventato in questi anni il Mediterraneo.
Il sistema per la ricerca e l’identificazione delle vittime dei naufragi è fallimentare e non uniforme «Io mi chiamo Waffoh Soh Deyo Leandry Shyve», ci racconta l’uomo. «Voglio affidarvi il mio vero nome e quelli di mia moglie e di mio figlio, darvi le nostre foto e il video che ho girato tra i flutti perché voglio rendere omaggio alla loro esistenza e restituire dignità alla loro morte indegna». Il nostro interlocutore è della Repubblica del Camerun, Africa centrale. Nel 2019 si trasferisce con la famiglia in Tunisia. Infuria la «caccia ai neri», il sistema è sempre più razzista verso i subsahariani. Nel pomeriggio dell’11 aprile sale con moglie e figlio su una grande barca di legno piena di gente. Obiettivo: Lampedusa, Europa. Questo è il suo racconto: «Siamo partiti verso le sei del pomeriggio. Eravamo tanti. Dopo qualche ora di navigazione la nostra barca è stata avvistata dalla Guardia nazionale tunisina. Si sono messi a inseguirci. Ci hanno raggiunto, hanno intimato al capitano di fermarsi, ma lui non voleva farlo. Loro si sono avvicinati più volte, sempre di più. La nostra barca si è ribaltata. Tutti erano in mare e gridavano. Era verso mezzanotte. Le autorità tunisine sono rimaste ferme sul loro mezzo a dieci, quindici metri da noi. Solo verso l’una di notte hanno cominciato a soccorrerci. Hanno incaricato otto di noi sopravvissuti presi a bordo di aiutarli a ripescare i
corpi. Tra i cadaveri che ho recuperato c’era anche mia moglie. Mio figlio no, non l’ho trovato. Non c’era tra i corpi recuperati, mio figlio. Ci hanno riportati indietro e quando siamo arrivati in porto ci hanno ordinato di scaricare i corpi dalla barca della Guardia nazionale e di lasciarli lì sulla banchina. E da quel momento non è stato possibile sapere dov’erano, dove li avevano portati. Li volevo trovare, volevo sapere dove avevano portato il corpo di mia moglie e volevo trovare il mio bambino». Per mesi rimbalza tra uffici che non gli rispondono. Chiede ad ambasciate, uffici consolari, organizzazioni internazionali varie, Croce Rossa, invano. Non si arrende e finalmente trova l’associazione Memoria Mediterranea (Mem. Med) – che si occupa di ricerca e identificazione delle persone disperse nel Mar Mediterraneo, fornendo supporto legale e psico-sociale alle famiglie in cerca di notizie – trova le persone capaci di aiutarlo. Loro gli cercano un avvocato in Tunisia. «Dovevo trovarli e seppellirli», dice Waffoh. «Ho vissuto la mia vita con lei e con lui; sono morti in questo modo terribile e per me era necessario recuperare e identificare i corpi dei miei amori». Dopo un lavoro di ricerca minuzioso, il 20 luglio è riuscito a essere ricevuto all’ufficio della polizia scientifica di Sfax, accompagnato dal suo legale, Maître Bilel Mechri. Consulta i dossier conservati nell’Ospedale di Sfax. Riesce a vedere le foto dei cadaveri e i numeri che indicano le posizioni esatte delle tombe. «Li avevano messi in due cimiteri diversi e distanti. Ho finalmente saputo dov’erano e ho guardato con i miei occhi quelle due colate di cemento con sopra inciso il numero del dossier corrispondente ai cadaveri. Sotto una colata di cemento c’era il mio bambino, sotto l’altra c’era mia moglie». Anche allora non riesce a darsi pace, non poterli vedere, non poter fare una cerimonia funebre lo lascia in uno stato di incertezza. «Come posso esser certo che siano davvero i loro corpi e non quelli di altri? Come faccio a fidarmi della Guardia nazionale?», chiede. Qualche giorno dopo sale su un barchino di ferro. E arriva in Sicilia. Se gli si chiede quale sia il suo desiderio risponde: «Vorrei ritrovare la pace che non riesco più ad avere, vorrei che la mia battaglia per ritrovare i
Uno dei tanti naufragi nel Mediterraneo (Keystone); sotto, Waffoh Soh Deyo Leandry Shyve.
miei amori potesse essere utile perché giustizia sia fatta, soprattutto rispetto alla Guardia tunisina e per il modo in cui vengono trattate le persone che come me attraversano il mare». Se si insiste a domandare cosa voglia per sé, dice: «La mia speranza più grande è che mi arrivino presto i documenti necessari a stare in Europa, a lavorare» che aspetta dall’Italia da mesi. Spiega Ludovica, ricercatrice di Mem. Med che ha lavorato insieme a lui fino a riuscire a localizzare i corpi: «Non accade solo in Tunisia; in molti Paesi del sud affacciati sul Mediterraneo il sistema per la ricerca e
l’identificazione delle vittime è fallimentare e non uniforme. Noi abbiamo lavorato sul sud Italia e sulla Tunisia e abbiamo constatato tantissime lacune nonostante il fenomeno delle migrazioni di massa sia consistente e per nulla nuovo perché le prime informazioni su grandi naufragi nelle rotte del Mediterraneo centrale sono del 2011 e in Tunisia ci sono conflitti terribili da allora. Nonostante il dramma, questa storia di ricerca andata a buon fine è una eccezione. Io in Tunisia ho ricevuto 300 richieste di aiuto in 6 mesi da parenti di persone disperse. E questa è l’unica che ha avuto un esito. Quando si comincia a cercare esiste un passaggio obbligato con il comitato della Croce Rossa internazionale che ha un programma specifico, “Restoring Family Links” (rintracciamento famigliare), con il compito di raccogliere tutte le segnalazioni di scomparsa e di incrociare le informazioni raccolte nei vari Paesi. Si deve comunicare con gli uffici della Guardia nazionale e con gli ospedali, ma le autorità non hanno un mandato di ricerca e soccorso. Chi muore? Tanti corpi vengono lasciati in mare. Quando il recupero c’è, il cadavere viene messo sotto terra alla bell’e me-
glio, non accade solo ai subsahariani che subiscono un fortissimo razzismo, succede anche ai tunisini, è una procedura diffusa. Le famiglie degli scomparsi denunciano ad ambasciate, Croce Rossa, organizzazioni internazionali varie e nessuno li richiama». Di Waffo racconta l’avvocato Maître Bilel Mechri: «Quando l’abbiamo incontrato era in una situazione psicologica di crollo. Era terrificato da quel che aveva passato, era disperato all’idea di non sapere dove fosse finito il corpo di sua moglie e aveva il pensiero fisso di suo figlio in fondo al mare. Ripeteva in continuazione: “Lo mangiano i pesciolini, devo trovarlo, lo mangiano i pesci”. Quando a Sfax hanno rintracciato i punti in cui erano stati sepolti i due corpi, quando gli hanno mostrato l’immagine dei vestiti del figlio, oltre alla foto del corpicino, e lui l’ha riconosciuto, era in uno stato indescrivibile: tristissimo, in lutto profondo e nella disperazione, ma era sollevato di averli ritrovati. Si è dissolta l’idea del bambino in fondo al mare, finalmente aveva saputo che suo figlio non era stato mangiato dai pesci. Come ha saputo dov’erano sepolti i corpi si è voltato e ha iniziato a correre». Annuncio pubblicitario
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ATTUALITÀ
Tir in aumento nonostante la galleria del Ceneri
Istantanee sui trasporti ◆ L’aumento dei costi dell’energia dovuto al conflitto in Ucraina ha reso meno attrattivo il trasporto su ferro e la qualità delle prestazioni ferroviarie si è deteriorata. Quali prospettive riserva il futuro? Riccardo De Gottardi
L’obiettivo stabilito nella Legge, le cui origini risalgono alla decisione sulla costruzione delle nuove trasversali alpine e in particolare all’iniziativa delle Alpi approvata dal popolo nel 1994, indica in 650’000 il numero massimo di veicoli pesanti ammesso alla circolazione attraverso i quattro valichi alpini elvetici. Nel 2022 sono stati 927’000. L’obiettivo è dunque ancora lontano. Esso rimane tuttavia una condizione irrinunciabile per la gestione ordinata dei trasporti transalpini, per la salvaguardia della capacità e della sicurezza dell’autostrada per i bisogni nazionali e per la
tamento delle potenzialità in termini di lunghezza e peso dei convogli ammessi alla circolazione risulta ancora embrionale. Inoltre una serie di cantieri comporta interruzioni parziali o totali di certe tratte. La lunghezza del percorso in territorio elvetico è largamente minoritaria rispetto alla distanza totale da origine e destinazione, ragione per cui questi punti deboli risultano molto penalizzanti. Per i nostri vicini a nord e a sud il trasferimento del traffico merci su ferro non è nei fatti prioritario e tanto meno lo è il rafforzamento dell’asse del San Gottardo e del Sempione. Per loro fra pochi anni saranno a disposizione i nuovi corridoi del Brennero e, in seconda battuta, quello del Moncenisio, che, comprensibilmente, godono di maggiori attenzioni. Nel medesimo Rapporto si indica inoltre che la capacità riservata al traffico merci attraverso l’arco alpino svizzero è oggi utilizzata solo a metà. Le previsioni della Confederazione attestano inoltre che all’orizzonte 2050 questa capacità è ampiamente in grado di soddisfare la crescita ipotizzata e, teoricamente, assorbire anche l’intero traffico che utilizza la strada. Alla luce di questi elementi la pianificazione in corso sui futuri interventi per l’ampliamento della re-
Evoluzione del traffico complessivo e dei veicoli pesanti attraverso le Alpi svizzere 1'600
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te ferroviaria elvetica all’orizzonte 2040-2050 deve tirarne le conseguenze. Occorre concentrarsi sul traffico dei viaggiatori, il cui valore aggiunto è peraltro ben maggiore rispetto alla gestione del transito internazionale delle merci. In Ticino appare dunque fondamentale definire gli obiettivi per disporre a medio e lungo termine di un servizio viaggiatori competitivo e con capacità sufficienti. Un sistema ferroviario regionale con collegamenti ogni 15 minuti nella Città Ticino e verso Varese/Como/Lecco insieme a relazioni veloci
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Occorre concentrarsi sul traffico dei viaggiatori, il cui valore aggiunto è ben maggiore rispetto alla gestione del transito internazionale delle merci
protezione della regione alpina. Il dato che emerge dal Rapporto desta molta preoccupazione. La riduzione dei veicoli pesanti sulla strada, osservata a partire dal 2001, si è interrotta così come si è arrestata la crescita dei volumi trasportati su ferro. Complessivamente il Rapporto conferma poi la stagnazione del traffico complessivo attraverso le Alpi in atto dal 2008. Le cause addotte a spiegare questa involuzione sono essenzialmente due. Da un lato la crisi economica innescata dal conflitto in Ucraina e il conseguente aumento dei costi dell’energia che ha inasprito la concorrenza, ha rafforzato la competitività della strada e ha reso meno attrattivo il trasporto su ferro. Dall’altro lato, nonostante l’apertura nel 2020 della galleria del Ceneri e del corridoio per il trasporto di container e semirimorchi con altezza laterale fino a 4 metri, la qualità delle prestazioni ferroviarie si è deteriorata. I vantaggi delle nuove infrastrutture sono stati annullati dall’incremento dei ritardi per la consegna delle merci. Come mai? Le ragioni risiedono nel cattivo stato di servizio del corridoio ferroviario che dai porti del nord Europa porta in Italia. Il coordinamento tecnico-gestionale dei servizi nei Paesi attraversati è ancora lacunoso e lo sfrut-
numero veicoli pesan� in 1'000
A fine novembre 2023 l’Ufficio federale dei trasporti ha pubblicato il Rapporto sul trasferimento del traffico per il periodo luglio 2021-luglio 2023. Si tratta di un documento che a scadenza biennale dà conto dell’evoluzione del traffico merci attraverso l’arco alpino svizzero e dell’efficacia degli interventi in atto per trasferire le merci dalla strada alla ferrovia.
totale strada e ferrovia
di lunga percorrenza ogni 30 minuti con Zurigo/Basilea rispettivamente con Milano possono rientrare a pieno titolo in questo quadro. Su questa base vanno poi identificate e progettate le necessarie infrastrutture. Da noi prevale invece declamare il mantra onnicomprensivo e costosissimo del completamento di AlpTransit a sud. Il messaggio del Consiglio federale per il prossimo programma di investimenti è preannunciato per il 2026. Per promuovere una proposta credibile, solida e condivisa c’è dunque poco tempo. Annuncio pubblicitario
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CULTURA ●
Incontro con Christof Klute Il fotografo tedesco in mostra alla Consarc e alla Fondazione Rolla sarà presente e disponibile all’incontro con il pubblico nei due spazi il prossimo 11 febbraio
Una quasi retrospettiva per Aldo Mozzini Il Museo Casa Rusca di Locarno ospita la prima grande rassegna dell’artista locarnese che vive questa mostra come un riepilogo del cammino finora percorso
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La visione umanitaria di Henry Dunant
Pubblicazioni ◆ Tra luci e ombre Gérard A. Jaeger racconta la straordinaria figura del fondatore della Croce Rossa Pietro Montorfani
Esiste un momento preciso nella vita del filantropo ginevrino Henry Dunant (1828-1910), Nobel per la pace nella prima edizione del premio nel 1901, a partire dal quale tutto cambiò per sempre, e non soltanto per lui. La scena è abbastanza nota, anche perché la descrisse lui stesso nel suo Ricordo di Solferino, pubblicato a proprie spese nel 1862. Al termine della carneficina del 24 giugno 1859 – durante la quale si erano scontrati duramente, a metà strada tra Brescia e Verona, l’esercito austriaco e quello francese nell’ambito della campagna militare che chiamiamo la Seconda Guerra d’Indipendenza italiana – lo spettacolo dei morti accatastati nei campi, e ancora di più quello dei feriti lasciati per terra al loro destino, fu tale da segnare per lui un punto di non ritorno.
parbietà e una capacità di convincimento fuori dal comune, un idealismo, un carisma e una generosità rari, tutte qualità che gli permisero di fare quello che ha fatto. L’autore richiama nel testo tutta la bibliografia sul tema, anche la più critica, ricordando ad esempio l’opuscolo con il quale poche settimane prima della battaglia, nel maggio del 1859, Dunant provò a ingraziarsi per suoi interessi personali il nipote di Bonaparte che sedeva sul trono di Francia: L’Empire de Charlemagne rétabli, ou le Saint Empire romain reconstitué par Sa Majesté l’Empereur Napoléon III (e ci volle davvero una bella faccia tosta).
Il testo di Jaeger si legge volentieri anche se a volte paga lo scotto di essere un oggetto ibrido, a metà strada tra il romanzo e il saggio
Più in generale, Solferino fu veramente uno spartiacque che tagliò come una lama le coscienze europee allora molto assopite dalle retoriche del bellicismo nazionalista. «Mentre cercava l’imperatore, Dunant scoprì una realtà mostruosa, fino ad allora insospettata: quella di una guerra descritta come un evento glorioso, ma le cui conseguenze umanitarie erano spaventose. Mai eguagliate prima» (pp. 106-107). Eppure il vero scarto si operò in lui non tanto per lo scempio che la battaglia si era lasciata dietro, in un’epoca in cui gli eserciti non avevano ospedali da campo né truppe sanitarie degni di tale nome, bensì a causa dell’atteggiamento delle donne lombarde che dai vicini paesi di Solferino e San Martino si arrabattavano sotto i suoi occhi per aiutare i feriti di parte francese: solamente quelli francesi, perché alleati del Piemonte e quindi della nascente Nazione italiana. Gli austriaci, morti o feriti che fossero, restavano abbandonati sul campo come altrettanti soldati di serie B. È difficile, e forse nemmeno giusto, giudicare oggi il comportamento di queste donne, che si trovarono a operare in un contesto drammatico con le poche risorse a loro disposizione (quando un ferito scivolava dal carro, nessuna di loro era in grado di fermarsi a raccoglierlo e il poveretto finiva per morire nel punto esatto in cui era caduto). È certo però che questi fatti, o quantomeno la sproporzione tra questi fatti e il senso di giustizia che il ginevrino aveva appreso dalla sua educazione cristiana, suscitarono in lui
ICRC Archives, V-P-Hist-00024
L’opera di Gérard A. Jaeger mette in luce le ragioni profonde della vocazione di Dunant, senza nascondere ai lettori le sue ombre e le sue contraddizioni
la mossa mentale da cui sarebbe dipesa in seguito la nascita della Croce Rossa. Non più «i nostri» contro «i loro», gli alleati e i nemici, i difensori o gli invasori, bensì – nelle parole di Dunant – «tutti fratelli», con una formula di grande efficacia morale ed emotiva che curiosamente, e forse non per caso, vista dal 2024 rappresenta il rovesciamento sintattico del titolo dell’ultima enciclica di Papa Francesco. «Il buon cristiano formatosi nella pietà fin dalla più tenera età era ormai preso in un ingranaggio fatale. […] Colto dal dovere di carità, [Dunant] non poteva rimanere inattivo di fronte a una tale depravazione della sofferenza» (p. 108). Tutto quel
che ne seguì non fu insomma che una diretta conseguenza di quella scioccante epifania sperimentata sulle pianure del Garda. Il romanzo-saggio di Gérard A. Jaeger, recentemente pubblicato in italiano da Armando Dadò con una prefazione del chirurgo valmaggese Flavio Del Ponte (per anni lui stesso medico della Croce Rossa nei più drammatici teatri di guerra), mette in luce molto bene le ragioni profonde della vocazione di Dunant, senza nascondere ai lettori le ombre e le contraddizioni che pure caratterizzarono una personalità indubbiamente complessa e tormentata. Nato in riva al Lemano in una famiglia protestante
di condizione agiata pur senza essere aristocratica (un tarlo che l’avrebbe logorato per sempre), allettato in gioventù dal sogno colonialista e poi per tutta la vita oberato dai debiti causati dai suoi sciagurati investimenti algerini, Dunant assommava in sé una quantità notevole di difetti: invidia, adulazione, opportunismo, ma anche egocentrismo, vittimismo, scarsa propensione a riconoscere il lavoro altrui (tra gli altri del sacerdote italiano Lorenzo Barziza, molto attivo a Solferino in quegli stessi giorni) e grande concentrazione invece sui propri meriti, veri o presunti. Sull’altro piatto della bilancia poteva mettere però, ed è un’ampia compensazione, una ca-
La seconda parte del libro, superato lo scoglio di Solferino, si concentra sulla lunga costruzione delle premesse che portarono all’istituzione del CICR (chiamato inizialmente «l’Internazionale», con le ironiche allusioni che si possono immaginare), alle Convenzioni di Ginevra e infine alla nascita di comitati locali in molti Paesi d’Europa e del mondo. A questa impresa, anch’essa non priva di tensioni e di gelosie interne, non furono secondarie naturalmente l’identità elvetica del fondatore, la sua predisposizione al lavoro diplomatico e la nozione stessa di neutralità, da lui intesa come la più totale «assenza di un partito preso». Il testo di Jaeger si legge volentieri e non mancano le informazioni e i rimandi in nota, utili a chi voglia approfondire l’argomento, anche se a volte paga lo scotto di essere un oggetto ibrido, a metà strada tra il romanzo e il saggio (e spesso incerto sul da farsi), diviso tra la cronologia della vita di Dunant e la scena che fa da sfondo a tutto il libro, cioè l’incontro tra l’anziano filantropo dimenticato dal mondo e il giornalista Georg Baumberger, avvenuto nel 1895 quando pareva oramai incolmabile la distanza che separava la casa per anziani di Heiden, nell’Appenzello Interno, dalla Ginevra internazionale della Croce Rossa. Una distanza che, per il lettore di oggi incuriosito dalle vicende storiche, questo libro prova in qualche modo a colmare. Bibliografia Gérard A. Jaeger, Henry Dunant. L’uomo che inventò la Croce Rossa, Armando Dadò Editore, Locarno, 2023.
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CULTURA
Una doppia personale per Christof Klute
Mostre ◆ La Galleria Consarc e la Fondazione Rolla omaggiano il fotografo tedesco che l’11 febbraio – nelle due sedi – incontrerà il pubblico Gian Franco Ragno
Due spazi storici dedicati alla fotografia nel Mendrisiotto, la Galleria Consarc a Chiasso e lo spazio Kindergarten della Fondazione Rolla a Bruzella, presentano una doppia personale del fotografo tedesco Christof Klute nato nel 1966 a Münster. Ne avevamo già parlato, senza però andare in profondità, in occasione del nostro articolo apparso su «Azione» lo scorso 22 gennaio in omaggio a Daniela Giudici e ci torniamo con piacere per due motivi: la permanenza della doppia personale è stata estesa fino a fine febbraio e poi l’undici febbraio nei due spazi – in due momenti diversi – sarà presente l’artista e sarà data, dunque, la possibilità di incontrarlo.
contento di aver «Sono sistemato tutto
«
con mie disposizioni.
I vostri desideri – le vostre disposizioni
Ogni progetto del fotografo tedesco è di fatto legato a un luogo e a un protagonista, individuato nelle sue letture
Wittgenstein IV Sognefjord, 2003 C-print da una serie di 7 fotografie. (© Christof Klute)
I due spazi hanno dato a Christof Klute l’opportunità di esporre numerosi suoi progetti svolti nell’arco di un ventennio A Chiasso, invece, il momento più innovativo è costituito da una sorta di mosaico di fotografie accostate l’una all’altra che hanno per protagonista la finestra dell’atelier di Paul Cézanne, al di là della quale c’è la montagna di Sainte-Victoire. Un’immagine che per l’artista rappresentava una personale sfida quotidiana alla ricerca di una sintesi formale. Nel progetto di Klute troviamo un leggero scarto tra una e l’altra ripresa che fa riecheggiare la complessa struttura dei piani delle nature morte del grande artista francese. In questa seconda personale che prende il titolo Revisited sono presenti diversi progetti al centro dei quali vi è la luce e la conseguente costruzione dello spazio. Si tratta di scatti raffiguranti ampie vetrate e scalinate dall’intelaiatura metallica, tipiche soluzioni di quel razionalismo architettonico
dei primi decenni del Novecento, dove la forma spoglia si sposa con l’utopia di una società moderna. Due progetti, uno a Chiasso ed uno a Bruzella, che hanno per tema Ticino: il primo segue le tracce del signor Geiser, protagonista de L’uomo nell’Olocene di Max Frisch, pubblicato nel 1979; siamo a Berzona, celebre buen retiro in Valle Onsernone di Max Frisch da metà anni Sessanta. Il secondo, a Bruzella, riguarda forse il luogo dello spirito per antonomasia del Cantone, il Monte Verità di Ascona con le sue vivaci presenze, le sue utopie, simboleggiate qui in due piccole finestre della Casa dei Russi prima del recente restauro. In conclusione, i due spazi hanno dato a Christof Klute la possibilità di esporre numerosi suoi progetti svolti nell’arco di un ventennio – solo in parte accennati in questo articolo – di cui non si può che segnalare una straordinaria coerenza tematica attorno al tema dell’uomo, alla sua ricerca di espressione e spiritualità. Dove e quando Revisited – CONSARC/ GALLERIA, Chiasso e Mindscape – Fondazione Rolla, Bruzella, fino al 24 febbraio 2024. Inoltre, segnaliamo l’apertura congiunta domenica 11 febbraio in presenza dell’artista: dalle 11.00 alle 14.00 presso CONSARC/GALLERIA dalle 15.00 alle 18.00 presso la Fondazione Rolla. Per info: www.rolla.info; www.galleriaconsarc.ch
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va a riflettere in un capanno, a cui fa eco una seconda sequenza negli interni di Villa Stonborough, la casa da lui progettata e costruita in ogni dettaglio nei pressi di Vienna nel 1928 per la sorella – entrambe riprese nel 2003. Sempre in Val di Muggio, troviamo un’altra sequenza peripatetica riguardante l’isola di San Pietro su lago di Bienne (2001), tra le mete preferite e luogo dell’anima del filosofo Jean-Jacques Rousseau nella seconda metà del Settecento.
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Proveniente da studi universitari nel campo della filosofia e della teologia, Christof Klute ha proseguito il suo percorso in Germania, a Düsseldorf, in una delle più importanti scuole di fotografia al mondo, die Düsseldorfer Schule der Fotografie, guidato dai maestri Bernd e Hilla Becher, nonché da Thomas Ruff. È stata questa sua doppia formazione a permettergli di individuare i suoi soggetti in modo originale rispetto a gran parte dei suoi contemporanei. Mentre il mondo della fotografia si muoveva, negli anni Duemila, andando a caccia di tracce della globalizzazione per poi andare oltre il dato fisico e spingersi in sperimentazioni digitali, Klute si muoveva in direzione opposta e con passo lento. Negli spazi in cui il pensiero occidentale è avanzato con le sue conquiste ideali, Klute ha trovato la forza nella riflessione e nella meditazione, arrivando a realizzare alcuni dei suoi progetti utopici, soprattutto nel campo dell’architettura. Ogni progetto del fotografo tedesco è di fatto legato a un luogo e a un protagonista, individuato nelle sue letture – siano essi pensatori (Ludwig Wittgenstein, Jean Jacques Rousseau, Walter Benjamin) siano essi artisti e architetti (Le Corbusier, Walter Gropius, Cesare Cattaneo). Le riprese di ogni singolo progetto si racchiudono in una sequenza articolata di una decina o dozzina di immagini dall’identico impianto formale, ma dal forte legame interno che relaziona un’immagine all’altra, pur conservandone singolarmente una certa autonomia. In questa prospettiva, ogni progetto ha la necessità di un certo spazio per venir letto nel suo insieme. Si tratti di spazi interni o esterni, da qui anche il titolo della mostra Mindscape (spazi mentali), l’artista nelle sue opere esposte a Bruzella prende in esame entrambe le dimensioni, si concentra su quei luoghi dove il pensiero, la progettazione, lo studio, e anche la meditazione hanno un ruolo centrale, predominante. Negli spazi della Fondazione Rolla domina una prima sequenza che ritrae il paesaggio amato da Wittgenstein nel fiordo norvegese nei pressi di Skjolden, dove il filosofo si rifugia-
Le disposizioni o misure precauzionali personali comprendono decisioni importanti in caso d‘incapacità di discernimento. A seguito di una malattia o di un incidente, si va dalle misure di mantenimento in vita alle cure di fine vita o, in caso di decesso, dai funerali all‘eredità. I vostri desideri in caso di emergenza sono riportati nero su bianco nei vostri documenti previdenziali. Il Docupass di Pro Senecute è la soluzione completa riconosciuta per le misure precauzionali personali.
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CULTURA
La semplice lezione di vita di Hirayama Cinema ◆ Wim Wenders ci incanta in sala con il suo capolavoro Perfect Days
Alla fine della proiezione, mentre uscivo dalla sala cinematografica, mi è venuta una gran voglia di prendere il primo aereo e andare a pulire i bagni pubblici di Tokyo. E questo è già un indizio di che esperienza sia stata la visione di Perfect Days. Il film di Wim Wenders (che ha ottenuto la Palma per il miglior interprete maschile all’ultimo Festival di Cannes) è probabilmente, oso affermarlo conoscendo e apprezzando la sua filmografia, uno dei suoi capolavori, paragonabile a Il cielo sopra Berlino. Eppure, l’opera è semplice, costruita in modo schematico e basando la narrazione sulla ripetizione dei gesti quotidiani. Ed è stata realizzata dallo stesso autore tedesco in soli 17 giorni, con un budget limitato e una sceneggiatura scritta in modo magistrale ed essenziale con Takuma Takasaki. Una semplicità che è però solo apparente e nasconde in sé una stratificazione che trascina in profondità lo spettatore, attraverso mille emozioni e altrettanti stati d’animo, un passato complicato e relazioni mai chiarite fino in fondo. Insomma, un mondo sommerso che si intuisce da piccoli gesti, qualche parola e soprattutto da uno sguardo, splendido, finale, sul quale diremo in seguito. La trama, come detto, è essenziale. Hirayama è un sessantenne che pulisce i bagni pubblici di Tokyo con attenzione meticolosa ai dettagli e una
dedizione incredibile per il suo lavoro; munito di spazzolini e specchietti per scovare ogni minima macchia o granello di polvere. Ogni giorno lo osserviamo mentre ripete gli stessi gesti, in una routine che parte dalla pulizia dei bagni pubblici per arrivare, a fine turno, a un bagno rilassante, passando per la cura di alcune piantine che fa crescere, o per un panino gustato nello stesso parchetto. Gesti ripetuti che prevedono anche una bibita presa da un distributore automatico, una cassetta (come negli anni Novanta) messa nel mangianastri mentre va al lavoro, o una cena in una tavola calda di una stazione della metro. Un film nato su basi diverse e particolari che si sono poi trasformate. Ed è lo stesso regista a spiegarlo. Infatti, all’epoca gli avevano chiesto: «Saresti interessato a girare una serie di cortometraggi a Tokyo, magari 4 o 5, di circa 15-20 minuti ciascuno? Questi film tratterebbero di uno straordinario progetto sociale pubblico, coinvolgerebbero il lavoro di grandi architetti. A me non piaceva l’idea di una serie di cortometraggi. Quella non è la mia lingua. Invece di girare 4 volte in 4 giorni, ho risposto, perché non girare un vero film? Cosa ci fate con 4 cortometraggi? Immaginate, invece, avere un solo lungometraggio! La risposta è stata: adoriamo la tua idea». E così è stato. Perfect Days è anzitutto un at-
YouTube
Nicola Mazzi
to d’amore per una città che ha iniziato a conoscere negli anni ’70 grazie anche ai film di Yasujiro Ozu, da lui considerato il suo maestro. Riferimento che riconosciamo – oltre che nella estrema pulizia formale delle scene (anche la scelta del formato 4/3 non è casuale), così come nell’amore per la cultura americana – soprattutto nel rapporto familiare e intergenerazionale tra il protagonista e la giovane nipote (nella foto), la quale, scappata di casa, si rifugia dallo zio e lo segue nel lavoro quotidiano. Lo stesso dicasi per la relazione con il giovane collega di lavoro Takashi che vive alla giorna-
ta, non è attaccato al lavoro ed è alla perenne ricerca di soldi. Proprio come nei film di Ozu, Wenders fa interagire le varie generazioni per approfondire i mutamenti sociali in atto. Inoltre, malgrado l’apparenza, non è un’opera monotona né noiosa, perché il regista riesce a creare una grande tensione narrativa senza scendere a compromessi di trama né inventare scene a effetto. La rarefazione degli elementi presenti e la routine giornaliera di Hirayama fanno sì che ogni piccolo dettaglio sia importante. Soprattutto ogni cambiamento, nella sua vita, assume proporzioni fonda-
mentali. E lo spettatore, abituato ai rituali quotidiani del protagonista, attende attento e concentrato di sapere come sarà il giorno seguente e quali piccoli fatti muteranno leggermente la sua giornata. L’ultimo sguardo, si diceva all’inizio dell’articolo. Nella scena finale osserviamo il protagonista che guarda in camera, ci interroga direttamente per diversi secondi, forse minuti. Una scelta formale, che nonostante non sia nuova nella storia del cinema, mantiene sempre un valore emotivo molto potente. La ricordiamo, per esempio, ne I quattrocento colpi di François Truffaut (quando il film termina su un fotogramma del giovane Antoine che guarda in camera), ma soprattutto ne Il laureato di Mike Nichols (con Ben ed Elaine che scappano dal matrimonio su un bus di linea e guardano in camera). Ecco, nel suo sguardo che passa dal sorriso alla commozione, c’è tutto: una vita intera. Il suo doloroso passato, il presente sereno e anche l’incognita del futuro (esattamente come nei film citati). Alla fine della visione mi era venuta voglia di andare a pulire i bagni a Tokyo. Anche perché sono sempre impeccabili, forse per l’estremo rispetto che i giapponesi hanno per la cosa pubblica o forse perché c’è appena passato Hirayama con i suoi specchietti, i suoi spazzolini e la tuta blu con la scritta «Tokyo Toilet». Annuncio pubblicitario
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CULTURA
Eclettismo e resilienza di Aldo Mozzini
Mostre ◆ Il Museo Casa Rusca di Locarno ospita la prima grande retrospettiva dedicata all’artista locarnese Alessia Brughera
Quasi. Un avverbio molto caro all’artista Aldo Mozzini, come lui stesso sottolinea: «Penso che quando qualcosa sia quasi come qualcos’altro allora sia ancora più diverso, poiché mette in evidenza il nostro impulso a rispecchiarci nelle cose e a essere ingannati dall’apparenza». La parola «quasi» non indica per Mozzini una mancanza, un’incompletezza, incarna piuttosto l’idea di una dissomiglianza che ha il sapore di libertà e di superamento. Non è un caso, allora, che questo termine appaia nel titolo di molti lavori realizzati da Mozzini negli ultimi anni e che il suo utilizzo sia sembrato più che opportuno all’artista anche per denominare la mostra a lui dedicata, allestita negli spazi del Museo Casa Rusca a Locarno. Se una retrospettiva fa pensare a qualcosa che si conclude, un «quasi» messole davanti ha il compito di esorcizzare e di relativizzare l’immagine di una rassegna chiusa su sé stessa. Ecco che «Quasi una retrospettiva» diventa quindi il titolo più adatto per un’esposizione che non vuole porsi come un epilogo bensì come un riepilogo del cammino finora percorso dall’artista, rilanciando al contempo un concetto di continua espansione e di apertura verso nuove sfide. La mostra locarnese, curata da Noah Stolz, ha il merito di collocare l’opera di Mozzini in una prospettiva storica ma anche, si potrebbe dire, fluida, capace di suggerire le relazioni esistenti tra i differenti momenti dell’attività dell’artista e tra le svariate tecniche da lui affrontate. Mozzini difatti ha realizzato migliaia di lavori tra disegni, dipinti, fotografie, sculture e installazioni: instancabile sperimentatore («Non c’è nulla di più noioso di qualcosa che rimane sempre fedele a sé stesso, congelato nel suo presunto stato di grazia», dice), si è sempre mosso tra molteplici linguaggi espressivi in modo inquieto ma tenace. La rassegna di Casa Rusca è stata dunque per lui una preziosa occasione per riscoprire e rivisitare la propria eterogenea produzione e presentarla al pubblico facendo emergere le tante affinità, talvolta inaspettate, tra le opere. Se Mozzini è noto soprattutto per le sue sculture e le sue installazioni ambientali, non va dimenticato che il suo esordio di artista lo ha visto dedicarsi alla pittura, abbandonata poi nel 1994 poiché ritenuta un medium troppo restrittivo a livello comunicativo e inadeguato a costruire un legame disinibito con la sfera del reale. L’esposizione testimonia questo aspetto meno conosciuto dell’artista, mostrando per la prima volta una porzione significativa della sua opera grafica e pittorica messa a confronto con quella scultorea e installativa, per creare un dialogo imperniato sul modo peculiare di Mozzini di concepire il rapporto tra realtà e rappresentazione, gravitante attorno ad archetipi personali. Locarno è la città di origine di Mozzini. Da qui egli si allontana negli anni Ottanta per trasferirsi a Zurigo, dove ancora oggi vive e lavora. Il suo essere in bilico tra due identità, quella ticinese e quella zurighese, ha permesso all’artista di elaborare un cifra stilistica in cui le diversità delle due culture di appartenenza diventano un valore aggiunto al suo operato, capace così di penetrare ancora più in profondità nelle maglie della storia e del territorio. Mozzini si muove infatti proprio sul confine tra due modelli identitari differenti, un confine che nel suo caso non separa, non divide, ma
Aldo Mozzini, Senza titolo, 1988. (© 2023 Atelier CIAO, Nicolas Polli)
accoglie e rende feconda l’idea di discrepanza e di mutevolezza. Il collocarsi «tra» una cosa e l’altra, proprio lì, dove si annida la distinzione, permette a Mozzini, come scrive il curatore della mostra nel suo saggio in catalogo, «di tenersi in equilibrio in una zona franca, rimanendo riconoscibile ma mai completamente identificabile». E difatti Mozzini può essere considerato a tutti gli effetti un outsider, un artista che si è sempre allontanato dalle etichette e dagli inquadramenti sommari, quelli che spesso fanno comodo, per raggiungere una certa notorietà. Insofferente alle imposizioni della società, la sua è una sorta di ostinata attitudine a opporsi al senso comune, una resilienza alle logiche carrieristiche e alle risonanze del successo. Certo, è possibile rintracciare nei suoi lavori echi di movimenti e maestri che lo hanno influenzato (come la corrente della Transavanguardia e figure quali Cy Twombly e Giorgio Morandi in ambito pittorico o il Minimalismo e l’Arte Povera in quello scultoreo), ma Mozzini rimane un artista che si smarca da qualsivoglia debito o pertinenza e che riesce a dar vita a opere dalla natura anarchica e atipica. La ricerca di Mozzini ruota attorno all’esperienza personale del reale e alla memoria intesa come processo di costante ricostruzione e reinterpretazione. Per l’artista è fondamentale dunque scavare nel proprio vissuto per farne emergere i sedimenti più profondi e legare la propria narrazione individuale a quella collettiva, facendo convivere ciò che proviene dalla sfera privata con gli archetipi appartenenti a un patrimonio comunitario. Dell’inquieto ed eclettico percorso di Mozzini in campo pittorico, la rassegna di Locarno presenta dipinti risalenti al decennio che va dal 1984 al 1994 così come opere degli ultimi anni, testimonianza di un ritrovato interesse dell’artista per questo mezzo espressivo. Ecco allora, tra i lavori esposti, i Quadri bianchi, una serie che si sviluppa dall’idea di lasciare che il colore agisca da sotto una coltre di pittura bianca stesa come la calce sul muro, gli Ex Voto, realizzati su materiali di recupero come carte da parati o pezzi di stoffa ricavati da vecchie lenzuola, e, ancora, i «Black Magazine», riviste «cancellate» con uno strato di pittura nera e usate in seguito come supporto per sperimentazioni in tecnica mista.
In stretto dialogo con i dipinti ci sono poi le sculture e le installazioni che dagli anni Novanta Mozzini crea all’insegna dell’appropriazione di residui di oggetti, materiali edili e rifiuti legati spesso alla sua vita e alle sue frequentazioni. Utilizzando gli scarti come strumenti di ispirazione, l’artista accoglie nei suoi manufatti la memoria di cui ciascun frammento è intriso:
nascono in questo modo lavori introspettivi e antiestetici che stimolano la riflessione spingendoci a riconnetterci a un universo archetipico. Opere come Grottino (IV), del 2023, una baracca fatta di pezzi di legno e cartoncini sgraziatamente inchiodati tra loro che contiene tanti elementi biografici dell’artista, o come Quasi un pupazzo (2021) e Quasi
cani (2018), realizzate con gli stracci che Mozzini ha usato durante il corso di calcografia presso la Scuola d’arte di Zurigo, ci parlano di una fusione di arte e vita e diventano la concretizzazione dello stratificarsi di reminiscenze personali e collettive. I lavori di Mozzini si presentano a noi non come fedeli riproduzioni della realtà ma come una sua possibile ricostruzione: ogni singolo brandello che entra a far parte dell’opera consegna agli altri la propria storia, innescando una conversazione con la nostra memoria. Insieme a Quasi una retrospettiva, Casa Rusca ospita anche le rassegne dedicate ad altri due artisti contemporanei originari della Svizzera italiana: Karim Forlin e Lisa Lurati, nella cui produzione sono rintracciabili affinità d’intenti e di contenuti con quella di Mozzini. Il visitatore è invitato dunque a percorrere un itinerario allargato in cui scoprire le corrispondenze tra le opere incentrate su tematiche care ai tre artisti, quali il ricordo, l’indagine degli archetipi, il legame con le proprie origini e l’apertura alla globalità. Dove e quando Aldo Mozzini. Quasi una retrospettiva. Museo Casa Rusca, Locarno. Fino al 25 febbraio 2024. Orari: ma-do 10.00-16.30. www.museocasarusca.ch Annuncio pubblicitario
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CULTURA / RUBRICHE
In fin della fiera
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di Bruno Gambarotta
Riordinare i ricordi di famiglia ◆
Torino, il Polo del Novecento è la casa di una ventina di istituti storici e di fondazioni culturali, ospitati in due edifici contrapposti, opera del grande Filippo Juvarra. Progettano una «installazione sonora artistica» sul tema Natale 1943 e m’invitano a prendervi parte. Suppongo dopo aver controllato il mio anno di nascita. Accetto con entusiasmo la proposta, anche se ignoro cosa sia «un’installazione sonora». Ora si tratta di far venire a galla i ricordi e riordinarli. Una parola. A saperlo avrei preso appunti. Nato ad Asti il 26 maggio 1937, in quel Natale ’43 avevo sei anni e dunque frequentavo la prima alla scuola elementare Ammiraglio Umberto Cagni. La maestra Bussone Culasso era disperata perché eravamo arrivati a scuola parlando piemontese. Uno solo dei miei compagni parlava italiano, era figlio dello storico Aldo Vergano e a casa sua guai a usare il dialetto. Nessuno mi aveva detto che ero nato nel ghetto
ebraico, forse perché di ebrei non ce n’erano più. L’ho scoperto molti anni dopo leggendo il romanzo I giorni del mondo di Guido Artom. Mio padre Mansueto, classe 1911, sergente maggiore di artiglieria da montagna, era tornato a casa grazie allo sfaldamento dell’esercito l’8 settembre del ’43. In quel momento il suo reggimento era stanziato ad Alpignano, un paese della bassa val di Susa, una distanza percorsa parte a piedi, parte su treni che i macchinisti fermavano in aperta campagna per far scendere i soldati in fuga prima di arrivare nelle stazioni sorvegliate dai tedeschi. Prima del suo ritorno avevo vissuto come un piccolo Buddha, parcheggiato nel negozio da pettinatrice di mia madre, ascoltando i discorsi delle clienti che parlavano liberamente, convinte che io fossi troppo piccolo per capire qualcosa di quelle meravigliose storie di sotterfugi e di inganni per sfuggire al controllo dei padri e dei mariti, di
Pop Cult
doppi e tripli amori portanti avanti contemporaneamente. In prossimità delle Feste mia madre lavorava fino a tardi, mio padre cucinava e io l’aiutavo. Tagliava le patate, le carote, le cipolle con una precisione millimetrica. Nella vita civile era un tipografo compositore a mano, una fettina diversa dalle altre per lui era un refuso da correggere. Non abbiamo mai patito la fame, mia madre dalle clienti che arrivavano dalla campagna si faceva pagare in natura, erano tutti contenti. Le contadine, per farsi fare la permanente, viaggiavano in littorina. Come mia zia Lilia, la sorella di mia madre, che per farci una sorpresa, era andata in campagna a comprare una gallina da tenere in casa per farle fare le uova. Gli animali vivi, per viaggiare in treno, dovevano pagare il biglietto. Lei aveva chiuso la gallina nella sporta coprendola con una tovaglia. Passa il controllore e la gallina, muta fino a quel momento, si mette a fare cocco-
dè. Cosa c’è in quella borsa? Niente, c’è solo una gallina morta. Me la faccia vedere. Mia zia, per non pagare un altro biglietto e la multa, introduce la mano dentro la sporta e svelta svelta strozza l’animale prima di mostrarne il cadavere al ferroviere. L’abbiamo mangiata al pranzo di Natale, bollita e messa in gelatina con il suo brodo. Hanno aspettato che l’avessi gustata prima di raccontarmi le modalità del suo trapasso. E i regali? Una scatola di pastelli colorati e un album di fogli da disegno. E un oggetto meraviglioso, una piccola trebbiatrice funzionante! Ettore, il fratello di mio padre, anche lui tipografo, era un fantastico modellista. Hanno iniziato a giocarci loro due, con le mie mani inesperte l’avrei subito fatta a pezzi. Mio padre, per non dover ritornare in prima linea con l’esercito di Salò, aveva trovato il modo di farsi arruolare dall’Unione Nazionale Protezione Antiaerea, UNPA. Il coprifuoco iniziava alle 18
e lui, con i suoi colleghi andava in giro per le strade deserte a caccia di temerari. Controllava inoltre che dalle finestre delle case non trapelassero le luci, perché, com’è noto, i piloti dei bombardieri alleati avevano l’ordine di sganciare le loro bombe sui nostri tinelli illuminati. I vetri delle finestre erano stati tappezzati da grandi fogli di carta blu, quella che usavano i negozi di alimentari per incartare lo zucchero che si vendeva a peso. Nella mia famiglia c’era anche una zia ventenne, organizzava delle festicciole con i coetanei che sfidavano il coprifuoco arrivando attraverso i corridoi sotterranei costruiti un secolo prima per collegare tutte le case del ghetto. Prima del 1848 agli ebrei era vietato uscire di casa dopo il tramonto. Per me la guerra finisce quando un soldato americano, in piedi fuori dalla torretta di un carro armato che sfila lungo il corso Alfieri, mi lancia un pacchetto di gomme da masticare.
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di Benedicta Froelich
L’apparente ossessione per il true crime ◆
Forse la gradualità con cui il fenomeno ha preso piede ci ha a lungo impedito di farvi troppo caso, ma è certo che, ultimamente, molti commentatori e sociologi si sono espressi su uno dei trend più intriganti degli ultimi tempi – ovvero l’apparente ossessione per il cosiddetto true crime (termine utilizzato per distinguere il genere dalla più nota crime fiction, la quale per sua stessa definizione non ha alcun legame obbligato con la realtà). Di fatto negli ultimi anni ogni branca della cultura popolare è stata letteralmente invasa dai fatti di cronaca nera: tanto per fare un esempio, la celebre piattaforma Netflix ha visto tra i maggiori successi delle ultime stagioni più d’una miniserie incentrata sulle prodezze di celebri serial killer americani – su tutte, la seguitissima Dahmer, immersione nell’anima dell’enigmatico «canni-
bale» la cui carriera criminosa costituisce ancor oggi un mistero a cavallo tra malattia mentale e assoluta perversione. Non solo, se ognuno dei recenti exploit cinematografici ispirati alle vite di celebri assassini (si vedano gli immancabili Ted Bundy e Richard Ramirez) ha riscosso grande successo e suscitato dibattiti, oggigiorno l’interesse quasi morboso verso i fatti di sangue si può riscontrare soprattutto sui social network, dove i content creators dediti al true crime si sono moltiplicati a vista d’occhio, raggiungendo un seguito stellare su YouTube e TikTok. E benché l’analisi e il racconto dei vari crimini si basino su nozioni di dominio pubblico, all’interno di questo particolare ambito ogni creator s’impegna a sviluppare un inconfondibile stile personale, così da attrarre quanti più fan possibile; un
Xenia
po’ come avviene con la buona, vecchia televisione, con i suoi programmi in prima serata (dall’inossidabile Chi l’ha visto al più recente Quarto Grado) e la proliferazione di documentari sensazionalistici importati dall’America. Ma quale potrebbe essere il significato recondito di questa passione per il crimine e cosa, infine, può rivelare della nostra società? Forse più di quanto noi stessi pensiamo. Innanzitutto l’eterna fascinazione per il male compiuto da altri – per ciò che di oscuro si cela nelle pieghe più nascoste dell’esistenza – non costituisce esclusivo appannaggio del tempo presente, così come non è certo un caso che la censura della cronaca nera sia da sempre prerogativa di ogni totalitarismo: tutto quanto è imponderabile e inspiegabile tende infatti a destabilizzarci e renderci sospettosi e diffidenti nei confronti dei
nostri simili, privandoci così di ogni fiducia ontologica verso il sistema. Eppure la psicoanalisi ci insegna che la lettura della cronaca nera può anche avere una funzione catartica, rivelandosi perfino utile per l’equilibrio mentale del cittadino medio: come in una sorta di «sfogo per procura», l’altrui aggressività e mancanza di freni inibitori fungono da gratificazione indiretta, dando voce ai nostri istinti repressi in modo (fortunatamente) innocuo. Inoltre l’atto di indugiare nei particolari delle nefandezze compiute da altri costituisce anche un’occasione per sentirsi rinfrancati nello spirito in modo vagamente parassitario – un incentivo ad autoconvincersi del fatto che no, noi non saremmo mai in grado di abbassarci a simili orrori; il che, implicitamente, ci permette di gloriarci della nostra natura virtuosa.
Allo stesso tempo però esiste anche un’altra faccia della medaglia: secondo alcuni, occuparsi con tanta abnegazione di eventi dai toni non certo edificanti non può in alcun modo giovare al morale o allo spirito – e se si desidera conservare un minimo di gioia di vivere bisognerebbe quindi dedicare il proprio tempo libero a ben altri tipi d’intrattenimento. Eppure, forse c’è di più, dietro tutto ciò: se, come ebbe a dire John Milton, «lontano dal giusto si può trovare il significato del male», la continua enfasi sulle umane miserie potrebbe infine non essere altro che un banale tentativo di esplorare e sperimentare il male, al fine di esorcizzarlo e allontanarlo – facendoci noi stessi carico di quella protezione e salvaguardia che, teoricamente, dovrebbe essere la società civile a garantirci, e in cui forse non crediamo più come un tempo.
●
di Melania Mazzucco
La strana amicizia tra Jessie White e Giuseppe Mazzini ◆
La spedizione di Carlo Pisacane che mira a scatenare l’insurrezione nel Mezzogiorno fallisce tragicamente, col comandante e 83 volontari massacrati con roncole e falci dai contadini di Sanza. Giuseppe Mazzini fugge in Inghilterra ma Jessie viene arrestata, come Alberto Mario. Trascorre quattro mesi nel carcere di Sant’Andrea. La separazione e la prigionia cementano il loro rapporto: rilasciati, si trasferiscono in Inghilterra e si sposano. Ma Jessie White non si pente né rinuncia alla causa. Anzi «Miss Hurricane» si sobbarca un tour di conferenze negli Stati Uniti, per conquistare l’opinione pubblica americana, che però interrompe alla notizia della nuova guerra con l’Austria: Jessie e Alberto rientrano in Italia ma nell’agosto del 1859 vengo-
no di nuovo arrestati ed espulsi. Si rifugiano a Lugano. Intanto matura la spedizione dei Mille: Jessie White Mario vi partecipa, imbarcandosi nel giugno del 1860 col secondo gruppo di volontari, guidato da Medici. Si fa notare sul campo di battaglia per il coraggio con cui recupera e assiste i feriti. Durante la risalita nel regno dei Borboni, la disperata miseria degli abitanti la sconvolge. La spedizione del 1860 ha successo, anche se lo Stato italiano che nasce nel 1861 sotto il segno dei Savoia non è quello sognato da lei e nemmeno da Alberto. I due sposi non hanno le stesse idee. Lui è divenuto un convinto federalista: ma le divergenze politiche non contano quando si tratta di costruire una Nazione. E una volta nata, bisogna poi operare affinché sia giusta.
Jessie seguirà Garibaldi in tutte le campagne delle camicie rosse (la terza guerra d’Indipendenza del 1866, la sfortunata spedizione di Monterotondo e Mentana del 1867, quella del 1870 in Francia, la guerra franco-prussiana) – come infermiera, organizzatrice dei servizi sanitari e corrispondente di guerra per svariati giornali, inglesi e americani. Jessie White è diventata davvero una giornalista (forse la prima embedded della storia), ma anche un’eroina e un personaggio di cui – ammirati – scrivono gli altri. La fase epica della sua vita si conclude nel 1870. Jessie ha ormai quasi quarant’anni. Ma non diventa una moglie e una donna di casa. Peregrina col marito di città in città, finché l’amnistia consente loro di stabilirsi nella di lui natia Lendinara.
Nei decenni successivi, mentre la neonata Italia tradisce via via le promesse del Risorgimento, si dedica alla scrittura. Raccoglie documenti e memorie dei patrioti (dopo la morte di Mario, scriverà anche di lui). Ma collabora anche con le nuove istituzioni con inchieste sul campo volte a documentare, e possibilmente cambiare, le condizioni materiali degli oppressi: i contadini, le donne, i bambini, gli orfani, le meretrici (propugna l’abolizione della prostituzione di Stato). Impressionanti lo scrupolo e la lucidità con cui nel 1877 esplora per un giornale partenopeo, «Il Pungolo», le miserie di Napoli – i degradanti tuguri nelle grotte, lo sfruttamento, il marciume del sistema dell’assistenza. Alberto Mario, che per coerenza repubblicana ha rifiutato il seggio in
Parlamento, la lascia vedova nel 1883. Dal 1896, per mantenersi, Jessie insegna inglese alla Scuola normale di Firenze. Feconda è anche l’educazione impartita alle figlie di Achille Sacchi ed Elena Casati, sua «sorella d’anima», scomparsa precocemente nel 1882: Ada e Beatrice diverranno le «sorelle del suffragismo italiano». Jessie White è morta povera, nel 1906, e non ha potuto vedere il frutto della sua e della loro battaglia. Le donne hanno dovuto attendere il 1946 per ottenere il diritto di voto; i bordelli tollerati dallo Stato sono stati aboliti dalla legge Merlin nel 1957; la scuola dell’obbligo gratuita per tutti è stata istituita nel 1962… Ma di Jessie White, che non ebbe discendenza propria, dobbiamo tutte proclamarci figlie. (Seconda parte – fine)
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