7 minute read

Un piccolo passo verso la

Fusione Nucleare Controllata

Energia ◆ Il successo annunciato due mesi fa dal Lawrence Livermore National Laboratory si inserisce in una ricerca con più di 70 anni di storia

Marco Cagnotti

«Una svolta storica». E altrove: «Un risultato epocale». Addirittura. Sono trascorsi due mesi: che cosa è stato di quel risultato epocale?

Il 13 dicembre scorso il Dipartimento dell’Energia degli Stati Uniti annunciava che presso il Lawrence Livermore National Laboratory (LLNL) era stata ottenuta per la prima volta una fusione nucleare controllata dalla quale era stata ricavata più energia di quella introdotta per innescarla: circa il 50% in più. Da cui i titoli sensazionalistici sui media. Perché, se fosse vero, saremmo di fronte al primo importante passo verso… già, verso che cosa? «Verso la soluzione al problema del fabbisogno di energia, con una fonte pulita, rinnovabile e inesauribile!», rispondono gli ottimisti. «Non oggi, non domani, ma forse dopodomani». Ma non sarà un’esagerazione?

Gli esseri umani ricavano energia dai nuclei atomici dal 1942, quando Enrico Fermi a Chicago ottenne la prima reazione a catena controllata e autosostenuta. Una reazione di fissione: si prende un nucleo di un atomo massiccio, per esempio di uranio o di plutonio, gli si spara contro un neutrone per spezzarlo e se ne ricavano nuclei più leggeri, altri neutroni e parecchia energia. In 80 anni abbiamo imparato a farlo bene, e oggi tutte le centrali nucleari sfruttano la fissione. Un processo molto efficiente. E molto problematico.

Quando si parla di energia nucleare, subito vengono in mente Cernobyl e Fukushima. In realtà il rischio di un incidente in una centrale è assai modesto. I problemi sono altri: il materiale fissile e le scorie. Il primo è una risorsa finita e distribuita in maniera non uniforme. Sulle scorie poi tutti formulano il pensiero «nimby »: «not in my back yard», ovvero «non nel mio cortile». L’energia va bene, ma gli scarti pericolosi vanno scaricati lontano da casa mia.

Diverso è il caso della fusione nucleare: si prendono dei nuclei atomici leggeri, li si fanno fondere e si ottengono nuclei più massicci e parecchia energia. Con tre vantaggi e un problema. Primo vantaggio: i nuclei sono di idrogeno, l’idrogeno si ricava dall’acqua, di acqua ne basta poca – non bisogna svuotare il Mediterraneo, per intenderci – ed è una risorsa diffusa ovunque. Secondo vantaggio: le scarse scorie sono poco radioattive. Terzo vantaggio: una centrale a fusione è sicura, perché se qualcosa va storto non esplode ma si spegne. Il problema: non siamo capaci. Anzi no: siamo capaci benissimo. Infatti a partire dagli anni Sessanta le armi nucleari si basano sulla fusione. Siamo però incapaci di produrre energia da fusione confinata e controllata. una partecipazione attiva di Cantoni e Comuni. Fu sottolineato in particolare l’intento di gestire al meglio le capacità esistenti riducendo le concentrazioni della domanda nelle ore di punta. Le candidature volontarie per svolgere progetti-pilota furono poche, si concretizzò però uno studio su un’area-campione nella regione di Zugo. I risultati confermarono la bontà del concetto sul piano teorico, simulazioni con modelli ne hanno indicato il beneficio in termini di minori fenomeni di congestione stradale e sui trasporti pubblici e i notevoli progressi nel campo dell’informatica e delle telecomunicazioni ne hanno decretato la fattibilità tecnica.

Non che non ci si provi: il risultato annunciato si inserisce proprio in una ricerca con ormai 70 anni abbondanti di storia. Scherzando ma non troppo, i fisici affermano che «la fusione controllata è sempre quella cosa che otterremo fra 40 anni». Era vero 40 anni fa, è vero anche oggi. Perché? Perché la sfida scientifica e tecnologica è formidabile. Siccome i nuclei di idrogeno si respingono fra loro, per fonderli bisogna raggiungere e mantenere temperature di decine di milioni di gradi. Non esiste materiale che regga quelle temperature. Perciò le procedure escogitate sono due.

Con il confinamento magnetico i reattori a forma di ciambella chiamati tokamak usano i campi magnetici per contenere l’idrogeno caldissimo. La fusione si mantiene e l’energia viene prodotta con continuità. Alcuni Stati hanno dei tokamak sperimentali, ma il progetto internazionale più ambizioso e promettente è ITER, purtroppo però in ritardo sui tempi previsti per la realizzazione di un prototipo.

Con il confinamento inerziale un breve impulso di fasci laser fa implodere l’idrogeno in una piccola capsula, scatena la fusione e genera energia. Non c’è quindi produzione continua e costante. Proprio ciò che è stato realizzato alla National Ignition Facility del LLNL. Nel 2021 era stata annunciata un’efficienza del 70%: se i laser introducevano energia 100, dalla fusione si ricavava 70. Due mesi fa, il successo: un’efficienza del 150%. Infine un bilancio positivo, con più energia ottenuta di quella immessa dai 192 laser usati. Ma davvero?

Pagare tariffe differenziate per percorrere un tratto di strada, il concetto è semplice, la sua attuazione un po’ meno. Nella letteratura economica si chiama road pricing, è la tariffazione per l’uso dell’infrastruttura stradale e si basa sulla legge della domanda e dell’offerta: a ore, giorni o stagioni e in luoghi con diversa intensità di traffico corrispondono prezzi diversi. Al road pricing sono stati attribuiti diversi obiettivi: il finanziamento delle infrastrutture, una efficace gestione del traffico (per ridurre la congestione) e la diminuzione dell’impatto ambientale. Una configurazione pratica del principio per soddisfarli tutti non è per nulla scontata; ciò ne ha finora reso complessa o parziale la realizzazione. In alcuni Paesi e agglomerati urbani progetti di questo genere, declinati secondo modalità diverse, sono tuttavia realtà già da parecchi anni (Londra, Stoccolma, Milano) e sono principalmente orientati a ridurre il flusso del traffico nei centri.

Tecnicamente sì: non è una fake news, davvero nell’esperimento i laser hanno scaricato sull’idrogeno meno energia di quella ricavata dalla fusione. Però… …però, se sommiamo tutta, ma proprio tutta l’energia usata per generare i fasci laser, per alimentare l’elettronica, per raffreddare l’impianto, il bilancio continua a essere negativo. Molto negativo. Difatti si ritiene che, per arrivare a un reale guadagno, bisognerebbe produrre almeno 100 volte più energia. Non solo: ogni fusione avviene con un impulso, poi tutto l’apparato dev’essere ricaricato e per farlo servono ore.

Insomma il risultato non è né «storico» né «epocale». Tuttavia è un progresso, piccolo ma innegabile. Ottenuto peraltro in un centro consacrato alla ricerca militare, dove gli esperimenti servono a simulare le esplosioni degli ordigni nucleari, proibite dai trattati internazionali. La fusione per scopi civili è un effetto collaterale.

Dunque rimangono sempre i proverbiali 40 anni? Sì, con questi investimenti di poche decine di miliardi di euro. Rimane infatti l’impressione che, al di là di tutti gli ostacoli scientifici e tecnologici tuttora non superati, in fondo sia soprattutto una questione di soldi, ovvero di volontà politica. Due esempi storici inducono a riflettere.

Il neutrone viene osservato in laboratorio nel 1931, la prima bomba atomica viene fatta esplodere nel 1945: in mezzo, un abisso tecnologico superato in 13 anni. Lo Sputnik viene messo in orbita nel 1957, il primo uomo tocca il suolo lunare nel 1969: in mezzo, un altro abisso tecnologico scavalcato in 12 anni. Com’è stato possibile? Semplice (si fa per dire): i politici, pungolati dalle necessità belliche o dal bisogno di prestigio internazionale, hanno reclutato i migliori cervelli e hanno offerto loro finanziamenti di fatto inesauribili. Così in pochi anni hanno reso possibile quello che prima sembrava fantascienza. Sicché è legittimo chiedersi: se la stessa volontà politica fosse applicata alla ricerca sulla fusione nucleare controllata, magari invece di 40 anni ne basterebbero 20 o 15 o 10?

In Svizzera la Costituzione stabilisce che l’uso delle strade è di principio gratuito. Il Parlamento può tuttavia autorizzare eccezioni, ciò che è stato il caso con l’introduzione della tassa d’uso della galleria del Gran San Bernardo, con la vignetta autostradale e con la tassa sul traffico pesante, che possono essere considerate forme ancora rudimentali di road pricing Questo termine è entrato ufficialmente nell’arena politica elvetica agli inizi degli anni 2000 a seguito di alcuni atti parlamentari che chiedevano al Consiglio federale di valutarne una possibile introduzione. Nella risposta del 2004 il governo, nonostante ne indicasse i presumibili vantaggi dal profilo della gestione del traffico e della salvaguardia dell’ambiente, ne ritenne la concretizzazione prematura. Diede tuttavia avvio a una serie di approfondimenti tecnico-economici in collaborazione con l’Associazione svizzera dei professionisti della strada e dei trasporti (VSS), che nella sostanza ne certificarono sul piano teorico l’opportunità e la fattibilità. Il termine di riferimento fu cambiato in mobility pricing per significarne l’estensione dei principi anche ai trasporti pubblici e alla gestione dei posteggi.

Dopo un periodo di stallo nel 2015/16 il Consiglio federale riprese l’iniziativa. Lo fece dando il via a un’indagine conoscitiva su una «Bozza di Piano strategico mobility pricing », che auspicava una realizzazione a tappe della riforma sulla base di test circoscritti a contesti urbani e con

Nel 2021 si compì un passo avanti nella verifica della fattibilità politica e sociale del progetto. Nel convincimento che una riforma di questa portata dovesse fondarsi su diverse esperienze pratiche ritagliate in base alle caratteristiche di alcune regioni, il Governo ha posto infatti in consultazione una proposta di Legge federale concernente progetti pilota di mobility pricing, che fornisse una base legale per il proseguimento dei lavori. La consultazione non sembra aver incontrato favori tali da dare una spinta decisiva alla riforma, nonostante in generale siano emersi pareri di principio interessati. In termini sportivi si direbbe che sta prevalendo la melina, con il timore dei diversi attori, fondamentalmente partiti e associazioni, di essere presi in contropiede da sviluppi inattesi o indesiderati.

Intanto il traffico, superati gli effetti pandemici, ha ripreso a crescere e con esso le perturbazioni e le congestioni mentre le risposte per ampliare le capacità delle infrastrutture costano sempre di più, si concretizzano sul terreno solo decenni dopo le decisioni e, peraltro, tendono ad allontanare il problema di qualche anno ma non a risolverlo. Il Consiglio federale comunque prosegue il suo cammino. A inizio dello scorso dicembre ha comunicato di aver selezionato cinque idee di progetto per concretizzare corrispondenti esami di fattibilità, che godono del sostegno attivo di Cantoni e Comuni interessati. Si tratta delle città di Frauenfeld, di Ginevra e di Bienne nonché di comprensori nei Cantoni di Argovia e Zugo; un progetto toccherà specificatamente alcune linee e regioni servite dalle FFS. Sarà sufficiente per convincere i più, superare il Rubicone e intraprendere nuove vie nella gestione della mobilità?

This article is from: