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Domenico Fontana di Melide, l’architetto di papa Sisto V

Quando nel 1563, all’età di vent’anni, Domenico Fontana partì dalla sua Melide alla volta di Roma come semplice stuccatore, probabilmente non avrebbe mai immaginato di diventare l’architetto prediletto del papa.

L’attività di Fontana è strettamente legata al pontificato energico e determinato di papa

Sisto V, che, in soli cinque anni, dal 1585 al 1590, diede un volto nuovo alla Città Eterna

Sebbene manchino ancora alcuni tasselli per completare la conoscenza della sua formazione e dell’intreccio di relazioni che dalle rive del Ceresio lo condussero alla Città Eterna, ciò che risulta più che certo è che Domenico Fontana riuscì a imporsi sulla scena artistica romana non soltanto per la sua intraprendenza e per le sue indubbie competenze tecniche, ma anche grazie alle sue sorprendenti capacità di organizzazione e di coordinamento dei lavori, che lo hanno reso un vero e proprio impresario di maestranze complesse attive su progetti molto sofisticati.

D’altra parte, Fontana sapeva bene che per potersi affermare in un conte- sto ricco di occasioni ma al contempo molto difficile come quello dell’Urbe non sarebbe bastato essere abili nel proprio mestiere. Serviva saper dirigere ogni opera, con le molteplici figure professionali coinvolte, come un perfetto ingranaggio in grado di muoversi con sollecitudine ed efficienza. Ed è proprio questo aspetto a rappresentare l’apporto più innovativo che Domenico Fontana ha dato alla pratica del cantiere artistico del Cinquecento.

Come per la spettacolare impresa del trasporto e dell’elevazione dell’obelisco Vaticano, alla quale si è soliti ricondurre la fama dell’architetto ticinese, l’attività di Fontana è strettamente legata al pontificato energico e determinato di papa Sisto V, che, in soli cinque anni, dal 1585 al 1590, ha dato un volto nuovo alla città di Roma. La Cappella Sistina di Santa Maria Maggiore, la Villa Montalto alle Terme, la Scala Santa, la Biblioteca Vaticana, l’asse viario romano, l’erezione degli obelischi nelle piazze principali delle basiliche sono soltanto alcuni dei prestigiosi incarichi che Fontana riceve da Sisto V, a testimonianza dell’interesse del pontefice marchigiano per la sua architettura solida e programmatica e per le sue inusuali doti di regia dei lavori. E anche quando, dopo la morte del suo mecenate, lascia Roma per approdare a Napoli, Fontana riesce a mantenere nella nuova città una posizione di rilievo, operando al servizio della committenza reale spagnola per numerosi interventi di edificazione urbana.

A questa figura industriosa e volitiva, appartenente a quel novero di maestri ticinesi che hanno fatto fortuna lontano dal proprio Paese d’origine, la Pinacoteca Züst di Rancate dedica una rassegna molto ricca ed esauriente, che ha il merito di occuparsi di Domenico Fontana non come singola personalità, bensì in relazione ai tanti artisti e artigiani che hanno collaborato ai grandi lavori da lui diretti. L’attività dell’architetto di Melide viene così inserita in un più vasto contesto facendoci conoscere le dinamiche sottese alla realizzazione delle sue opere, caratterizzate proprio dalla compresenza di specialisti diversi.

Queste «storie di cantiere» ci vengono raccontate non solo attraverso disegni, incisioni e dipinti ma anche da un ottimo apparato multimediale concepito per essere al servizio dei contenuti. È così che scopriamo come i progetti fontaniani fossero tutto un brulicare di muratori e stuccatori, di pittori, scultori, bronzisti e indoratori e, ancora, di vetrai, fabbri e stagnai che operavano in perfetta sinergia sotto la guida sicura di Domenico. Un armonioso lavoro di squadra, il loro, che aveva il suo punto forte proprio nella coralità degli apporti finalizzata all’esecuzione di un prodotto unitario di altissima qualità e per giunta eseguito in tempi tutt’altro che lunghi.

Non a caso Giovan Pietro Bellori, il più importante storiografo dell’arte del Seicento, nelle sue Vite de’ pittori scultori e architetti moderni sottolineava come Fontana fosse «occupatissimo nelle invenzioni di tante opere, che gli bisognava eseguire con celerità per l’animo ardente del Papa, che nel dubbio dell’età sua cadente, non permetteva indugio alcuno».

Il fatto poi che lo stesso Bellori abbia inserito nel suo volume Fontana quale unico rappresentante della professione di architetto, ci dà ancor più l’idea di quanto il lavoro dell’artista di Melide fosse apprezzato e, in una visione più ampia, di quanto il portato ticinese abbia contribuito all’edificazione di un patrimonio culturale europeo. Non si dimentichi che in piazza San Pietro, luogo tra i più famosi al mondo, c’è molto della nostra terra: non solo l’obelisco Vaticano innalzato da Fontana ma anche la facciata della Basilica eseguita da Carlo Maderno, nipote dello stesso Domenico che proprio grazie a lui ha mosso i primi passi a Roma fino ad arrivare a lavorare al simbolo della cristianità nel mondo.

D’altronde sappiamo bene che il fenomeno migratorio artistico ha segnato molto la storia del Ticino, e a ricordarcelo a inizio rassegna sono alcune installazioni virtuali che documentano i tanti cantieri in atto a Roma e a Napoli nel periodo in cui Fontana vi ha lavorato. Da questo materiale si scopre, ad esempio, che nella città papale erano presenti ben trentasei figure provenienti dal nostro cantone, tra scalpellini, stuccatori e muratori, a dimostrazione di quanto fossero rinomate le maestrante ticinesi.

L’approfondito percorso espositivo di Rancate ci mostra le peculiarità dei cantieri più rilevanti allestiti da Fontana, come quello della Cappella Sistina di Santa Maria Maggiore, primo vero banco di prova per il maestro ticinese all’apertura del pontificato di Sisto V. Grazie anche alla veduta immersiva dell’edificio, riusciamo a cogliere l’armoniosa unione tra architettura e decorazione che caratterizza i progetti di Fontana, capace di scandire e modellare lo spazio attraverso una profusione di affreschi, stucchi e sculture frutto di una sapiente organizzazione del lavoro.

Tanti sono anche i materiali che testimoniano l’impresa del già citato obelisco Vaticano, a cui tra l’altro Fontana dedica un volume pubblicato a Roma nel 1590. In riferimento a questo testo troviamo il prezioso fascicolo che raccoglie le bozze di gran parte delle tavole del Libro primo, corredate dalle osservazioni manoscritte del vescovo agostiniano Angelo Rocca.

Altrettanto interessante è la sezione riguardante il santuario costruito per ospitare la Scala Santa. Qui ci sono alcuni disegni di Cesare Nebbia e lo schema iconografico della decorazione a opera di Giovanni Guerra, due specialisti che hanno collaborato molto con Fontana per gli aspetti relativi agli affreschi. Sono presenti inoltre alcuni bei dipinti di artisti facenti parte delle squadre pittoriche attive nei cantieri di Fontana, come Ferraù Fenzoni, talentuoso faentino a cui fu concessa ampia autonomia nella realizzazione delle scene, e Paul Bril, anversese scelto per la sua grande abilità nell’esecuzione di paesaggi.

Ben documentati sono infine i lavori eseguiti a Napoli, Amalfi e Salerno. Nella città partenopea Fontana si cimenta in opere di idraulica, riassetto urbano, architettura, decorazione e restauro per i viceré, riuscendo a saldare l’esperienza romana al gusto dei nuovi committenti e dando prova, anche in questo contesto, delle sue ineguagliabili doti di valente e ingegnoso impresario.

Dove e quando Le «Invenzioni di tante opere». Domenico Fontana (1543-1607) e i suoi cantieri. Pinacoteca Cantonale Giovanni

«Di qualsiasi cosa siano fatte le nostre anime, la mia e la sua sono la medesima cosa», dice Catherine in Cime Tempestose pensando a Heathcliff. Per Goethe «la vista di due innamorati è uno spettacolo per gli dèi». Chi sa cosa è l’amore, alzi la mano. Io, vi confido, non lo so, ma quando lo sento risuonare nella letteratura mi illumino d’immenso: «Seguimi lettore! Chi ha detto che non c’è al mondo un amore vero, fedele, eterno? Gli taglino la lingua malefica a quel bugiardo! Seguimi lettore e io ti mostrerò un simile amore!».

Lo avete riconosciuto? È l’amore del Maestro per la sua Margherita nel romanzo di Michail Bulgakov (18911940). Pubblicato postumo per la prima volta a puntate solo nel 1966 sulla rivista «Moskva», per Rita Giuliani, professoressa di letteratura russa alla Sapienza, è il più bel romanzo del Novecento «non ho letto altri testi altrettanto belli, altrettanto ricchi, altrettanto profondi e altrettanto russi. È un romanzo fantastico, è un romanzo d’amore, è un romanzo satirico, è un romanzo politico la cui profondità sta anche nella scrittura, nel cambio di registro, di stile. I capitoli ambientati a Mosca sono pieni di giochi linguistici, di calambour, di realizzazione della metafora, uno dice “va al diavolo” e quello al diavolo ci va sul serio».

A ispirare la Margherita del Maestro è stata sicuramente Elena Shilovskaya, la sua terza moglie mi racconta Julie Curtis, professoressa di letteratura russa alla Facoltà di lingue medioevali e moderne di Oxford, profonda conoscitrice di Bulgakov al quale ha dedicato molte opere. «Elena era una donna estremamente bella e affascinante, una sorta di moglie tigre che si batteva per lo scrittore e lo proteggeva. Il suo ritratto è un tributo alla loro storia d’amore. Così nel romanzo la figura di Margherita è molto più forte di quella del Maestro: è coraggiosa, prende decisioni straordinarie, senza esitare si trasforma in una strega. Era l’amore della sua vita, il romanzo è un omaggio a lei».

Basta leggere il racconto che il Maestro fa al poeta Ivan Nikolaevič Ponyrëv quando si incontrano nella clinica del prof. Stravinskij per sentirne tutta l’intensità: «Mi guardò stupita, e d’un tratto compresi – e fu una cosa del tutto inaspettata – che per tutta la vita avevo amato proprio lei… L’amore ci aveva sorpreso inatteso e violento come un assassino che sbuchi fuori d’improvviso, e ci aveva pugnalati entrambi. Cosi colpisce il fulmine…».

Margherita Nikolaevna vuole salvare l’amato dalla sua condizione e la grandezza della sua coraggiosa figura si rivela a noi al gran ballo del plenilunio che che per fasti, iperboli e fantasticherie rappresenta l’apice narrativo del racconto. Avviene di notte, come molte altre scene ma qui la dimensione surreale e fantastica raggiunge la sua apoteosi. Proprio per questo colpisce il lettore, anche un lettore speciale come Ezio Mauro, già direttore di «Repubblica», inviato e corrispondente da Mosca alla fine degli anni Ottanta che della sua opera prediletta possiede il samizdat, una copia trovata da sua figlia a Vienna. «Sembra quasi che lui scriva sotto allucinazioni. La dimensione spaziale si dilata fino all’inverosimile, ci sono queste figure che resuscitano dalla morte per andare a baciare Woland e Margherita». Una scena incredibile, mentre si legge non ci si crede, Bulgakov raccon- ta di bare che cascano dal camino e personaggi che resuscitano «e tu te lo immagini, vedi questo spazio che diventa una reggia, vedi Margherita trasformarsi in una regina». Tuffiamoci nel testo: «Rotolò dal camino una piccola bara che s’apri e lasciò uscire un altro cadavere. L’uomo gli balzò incontro galante e porse il suo braccio. Era una donna irrequieta con scarpine nere e penne nere in testa, e insieme s’affrettarono su per lo scalone». C’è anche Margherita che davanti a tutto questo chiude gli occhi per un istante «d’un tratto le erano piombati addosso suoni, luci, odori: ecco il gran ballo. Aggrappata al braccio di Korov’ev, Margherita si trovò in una foresta tropicale. Pappagalli dal petto rosso e dalla coda verde gridavano: “Felice di conoscerla!”».

Il pensiero al Faust, alla notte di Valpurga di Goethe corre veloce «c’è già tutto nell’esergo con le forze che tendono al male e operano continuamente per il bene» dice Ezio Mauro e gli fa eco Rita Giuliani «il Faust è proprio una delle fonti immediate, quella di Bulgakov è una notte di Valpurga sovietica. Goethe è una fonte acclarata in gran parte dell’opera bulgakoviana. Lui ne fa una rivisitazione moderna e russa però mantenendo certe funzioni. Margherita non a caso si chiama Margherita e salva il Maestro proprio come Margherita salva Faust».

Julie Curtis ci indica invece come l’origine di questa scena sia collegata a un fatto di vita reale «il gran ballo si legge come una scena fantastica di assoluta forza, molto spettacolare, una scrittura di grande intrattenimento che Bulgakov si è divertito a immaginare e mettere su carta per molti anni, probabilmente decenni. Una sorta di apice barocco del romanzo. In verità si tratta di uno dei pochi passaggi basato su esperienze realmente vissute. Sappiamo che Bulgakov prese parte al ballo organizzato dall’ambasciata americana a Mosca nel 1935 (si era insediata nel 1930, in era staliniana). Un ballo che doveva lasciare a bocca aperta tutta Mosca e al quale partecipò tutta la crème della nomenclatura russa. Agli angoli della pista da ballo c’erano piccoli animali esotici presi in prestito allo zoo, piante e uccelli, alcuni arrivati dalla Finlandia, il cibo da Parigi… Fu il ballo più stravagante che le persone potessero immaginare. Bulgakov e sua moglie entrarono in buoni rapporti con gli americani che dicevano di apprezzare le sue opere e di volerle pubblicare mentre in Russia venivano censurate».

La censura procura grande sofferenza allo scrittore che, come ricorda Ezio Mauro, si rivolge agli organi dei dirigenti del partito con una supplica precisa, «tenete presente che io non sono un politico, sono uno scrittore. Non giudicatemi con i canoni della politica ma della letteratura». Disperato, poco prima del suicidio di Majakovski, nel 1930 scrive anche a Stalin, si sente perseguitato «la lettera è di tre settimane prima, Stalin guarda caso lo chiama il 18 aprile proprio dopo il funerale di Majakovskij che ha una grande presa sulla popolazione. Liquida in poche battute la sua volontà di andare via dal Paese “non credo che vi daremo il permesso. Ma siamo dunque così cattivi che ci volete lasciare?” E lui – attraversato come molti altri scrittori e intellettuali dallo stesso tormento (andare o restare?), dalla paura di perdere le proprie radici – ha subito un ripensamento. Stalin passa allora al problema esistenziale: “ma che cosa chiedete?” E lui dice “un impiego”». Bulgakov vorrebbe lavorare al teatro dell’arte ma è sta- dirigente del teatro ma c’erano i macchinisti, i trovarobe, i tecnici delle luci, le persone che hanno lavorato con lui. Liubimov è entrato nel teatro, io gli sono andato dietro. Scendeva, saliva, girava, ad un certo punto siamo sbucati sul palco. Si sono accese le luci e lì c’è stato un episodio meraviglioso: tutti si sono fermati mentre il regista è andato in un punto preciso del palcoscenico. Si è fermato in quello che era un punto della sua memoria e ha detto “qui parlava il Maestro”. Poi ha fatto due passi a sinistra, si è raccolto, ha fatto un salto in aria con il mantello nero che si è aperto a ruota e ha detto “qui volava Margherita”. Una cosa meravigliosa, con tutta questa gente, questo popolo del teatro attorno. Bellissimo, quasi un rito di riconciliazione tra Mosca e Bulgakov. Sono felice di averlo visto». to respinto. «A questo punto da parte dell’onnipotente c’è questa formulazione quasi paternalistica “provate a rifare la domanda, credo che avrà una buona accoglienza”». A mettere a soqquadro la rappresentazione del potere nel romanzo ci pensano Woland e i suoi aiutanti, quelle forze del male che operano per il bene. Margherita Nikolaevna sulle prime ha dei dubbi ma è disposta a tutto per il Maestro «so a che cosa vado incontro – dice al gatto ippopotamo Azazello ma sono pronta a tutto per lui perché non c’è più per me altra speranza al mondo. Ma le voglio dire solo questo: se mi rovina dovrà vergognarsene! Io mi perdo per amore!». A proposito di Margherita (che ci piace immaginare come la figura femminile nel dipinto di Chagall qui sopra dal titolo La passeggiata), Ezio Mauro ricorda un aneddoto memorabile del suo periodo a Mosca. «Nel 1977 Yuri Liubimov portò in scena Il Maestro e Margherita al Taganka di Mosca. Quando arrivai io, dieci anni dopo, in città ne parlavano ancora. Quella rappresentazione – con l’immagine degli attori che sul finale uscirono in scena un infinito numero di volte chiamati dagli applausi del pubblico (l’ultima uscirono sul palco con i ritratti di Bulgakov) - si era fissata in una leggenda. Dopo aver lasciato il Paese il regista fece ritorno a Mosca alla fine degli anni Ottanta con un breve permesso. Nessuno lo aveva annunciato, nessun giornale e nessun media aveva dato la notizia ma la gente come un atto di fede è andata ad aspettarlo al Taganka dicendo “se è a Mosca deve venire qui”. È arrivato al mattino, una signora ha tirato fuori dalla borsa sette garofani rossi e glieli ha dati. Eravamo già in piena Perestroika, ad aspettarlo non c’era un solo

Con il giornalista ricordiamo i personaggi «gli aiutanti di Woland sono un altro quadro formidabile, mezzi folletti, mezzi cartoni animati, si allungano, si vestono in modo improbabile, hanno gli occhiali rotti… Woland ha un occhio di un colore, uno dell’altro, zoppica leggermente, ha una sciarpa logora, caratteristiche tipiche del diavolo nelle rappresentazioni russe». Poi c’è la scena dell’unguento, del volo di Margherita sulla scopa sopra la città con la cameriera Nataša «Margherita spalmandosi l’unguento accetta di entrare in un’altra dimensione, in quella fase di trasformazione che può servire al Maestro, al loro amore, al loro destino. È chiaro che questo procedere surreale è completamente fuori dai canoni della letteratura di regime. Todorov durante un nostro dibattito ha detto una cosa intelligente: “Il fatto di aver scritto sapendo che non poteva rappresentarlo lo ha liberato: ha scritto quello che sentiva, non ha scritto pensando”. Pasternak dirà che va pubblicato così com’è, inaccettabile».

Quando Ezio Mauro arriva a Mosca cerca in Bulgakov una guida: «Avevo bisogno che mi aiutasse a scoprire e capire la città. L’ho letto andando a cercare i posti, guardando la città con i suoi occhi. Sono andato a cercare la sua casa, sono andato a Besarapski Rynok, il vecchio mercato di Kiev che lui descrive come una stagione di opulenza con le anatre che volano in vetrina, il dorso dello storione che sembra un pezzo di gesso. Quando ci sono andato io era un posto di povertà con le teste di maiale a quindici rubli. E a proposito della stagione dell’opulenza, nel romanzo c’è il magnifico racconto del ristorante dell’Unione degli scrittori al Griboedov. Bulgakov ci racconta di questi pranzi sontuosi in cui gli scrittori e gli intellettuali si ritrovano nella veranda mentre suona la musica dell’orchestra jazz e i cavalli dipinti sul soffitto prendono vita. Ci sono stato alcune volte con degli amici scrittori, era sicuramente un posto privilegiato dal punto di vista del cibo ma non c’era più questa opulenza».

Seduti in una bella sala del Collegio Cairoli di Pavia, dove Ezio Mauro è stato invitato a tenere un ciclo di lezioni, ci guardiamo già pensando alla prossima rilettura in cerca di nuovi significati nascosti. Il sole d’inverno bacia gli alberi del chiostro e noi – con quella gratitudine che si prova per gli scambi letterari profondi che nutrono l’esistenza – sull’onda delle parole profetiche di Margherita - «tutto può ancora accadere perché nulla può durare in eterno» - ci salutiamo.

Quando il momento è magico

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