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Pechino strizza l’occhio ai talebani

Prospettive

Francesca Marino

◆ Il Dragone ha firmato un accordo multimilionario per lo sfruttamento dei giacimenti

Il flirt tra la Cina e i talebani continua a dispetto di tutto, anche del buon senso. La firma di un contratto multimilionario tra la Xinjiang Central Asia Petroleum and Gas Company e i talebani di Kabul viene presentata difatti da questi ultimi come la prima grande vittoria economica dal ritorno dell’Emirato islamico nell’agosto 2021. L’accordo, stimato in 540 milioni di dollari, garantisce a Pechino l’accesso al bacino dell’Amu Darya, nel nord dell’Afghanistan. Copre un’area di 4500 chilometri quadrati complessivamente nelle province settentrionali di Sarepol, Jowzjan e Faryab, e creerà, secondo il ministro delle Miniere talebano Shahabuddin Delawar, circa tremila posti di lavoro. Dilawar ha aggiunto che l’amministrazione di Kabul parteciperà al progetto con una quota del 20%, con la possibilità di aumentarla al 75%, e specificando che la lavorazione del greggio avverrà all’interno del Paese. L’Afghanistan possiede giacimenti minerari di piccole e medie dimensioni, la maggior parte dei quali rimane inesplorata, stimati in oltre mille mi- liardi di dollari, a cui si erano dichiarati interessati un certo numero di investitori stranieri, scoraggiati dalla situazione politica nel Paese.

In realtà un accordo simile era già stato firmato dalla National Petroleum Corporation, un’altra compagnia statale cinese, con il precedente Governo afghano. Delawar ha però dichiarato praticamente nullo il contratto precedente che «presentava problemi» senza chiarire la natura di questi ultimi. La Cina ormai da molti anni cerca di mettere le mani sull’Afghanistan, regione strategicamente cruciale per molti motivi. Nel corso degli anni, difatti, Pechino ha ospitato diverse delegazioni talebane. Nel 2021, a Tianjin, pochi mesi prima della conquista di Kabul da parte dei talebani, l’allora ministro degli Esteri cinese Wang Yi ospitò Abdul Ghani Baradar, oggi vice primo ministro ad interim dell’Afghanistan. E da allora, sebbene Pechino non abbia formalmente riconosciuto i talebani, è stato uno dei pochi Paesi, assieme a Iran, Turchia, Russia e Pakistan, a tenere aperta la sua ambasciata a Ka- bul. D’altra parte, in questo gioco, il Pakistan riveste un ruolo centrale, sia in senso economico che strategico. Legare l’Afghanistan alla Belt and Road Initiative (Nuova via della seta), continuando il Corridoio economico Cina-Pakistan, rimane difatti per i cinesi uno dei principali obiet- allontanato o penalizzato molti imprenditori privati.

Alla luce di queste sfide, alcuni si chiedono se l’incidente del pallone-spia non sia stato un autogol involontario, magari perfino il sabotaggio interno ordito da un’ala dura delle forze armate per impedire il disgelo con gli Stati Uniti. In ogni caso tutte le reazioni successive all’abbattimento del pallone-spia hanno acutizzato le tensioni fra Pechino e Washington anziché smorzarle. Il problema è che questo incidente – a differenza di quello dell’aprile 2001 – è avvenuto quando la Cina ha un’autostima ingigantita, ha aumentato la sua potenza di fuoco, ha coltivato un’opinione pubblica nazionalista. Coincide con una fase politicamente delicata sull’altra sponda del Pacifico. La nuova maggioranza repubblicana alla Camera incalza Joe Biden denunciando il suo ritardo nell’abbattere il pallone-spia come una debolezza. Una cosa invece è rimasta identica dall’aprile 2001 ad oggi: non c’è il «telefono rosso», manca una procedura collaudata per appianare le crisi. Immaginarsi come questo possa far precipitare un incidente su Taiwan fino alla deflagrazione di un conflitto totale fa venire i brividi.

petroliferi in Afghanistan

tivi strategici, così come tenere l’Occidente il più possibile fuori dall’Asia centrale. E però, nonostante gli sforzi di Pechino per convincere i talebani, ad esempio, ad agire contro gruppi uighuri come il Turkistan Islamic Party che colpiscono obiettivi cinesi nello Xinjiang, la situazione non appare del tutto rosea. Da qualche anno, ormai, gli interessi cinesi vengono colpiti in Pakistan e, da qualche tempo, cominciano a essere colpiti anche in Afghanistan a causa, probabilmente, anche del deteriorarsi delle relazioni tra il Pakistan e i talebani ma soprattutto visto il trattamento riservato dai cinesi alle popolazioni locali. Sfruttamento economico, violazioni dei diritti umani e occupazione militare viaggiano infatti lungo i «corridoi» della Belt and Road Initiative. E, per quanto riguarda l’influenza dell’Occidente, l’invasione russa dell’Ucraina ha cambiato, e non di poco, le carte anche sul tavolo dell’Asia centrale in generale e dell’Afghanistan in particolare. Molti Stati della regione, ad eccezione del Tagikistan, hanno accettato l’arrivo dei talebani perché non volevano alimentare conflitti ai loro confini. Oggi discutono apertamente di cooperazione regionale con Kabul.

L’invasione dell’Ucraina da parte della Russia ha anche offerto agli Stati Uniti lo spazio per un nuovo impegno in Asia centrale. E nonostante Pechino si affanni a sostenere che «la Cina rispetta la scelta di indipendenza fatta dal popolo afghano e rispetta le credenze religiose e le usanze nazionali dell’Afghanistan» e che «Pechino non ha mai interferito negli affari interni dell’Afghanistan e non ha mai cercato interessi personali per le cosiddette sfere di influenza in Afghanistan» nessuno ci crede, tantomeno i talebani. Che a giocare su diversi tavoli hanno imparato, e bene, dal loro padre spirituale: il Pakistan. La Cina sembra aver preso un abbaglio non da poco se sperava, come sperava, di gestire l’Afghanistan attraverso l’ormai compromesso e instabile, economicamente e politicamente, Pakistan. E sembra pronta a diventare l’ennesima vittima della «tomba degli imperi» afghana.

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