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Nessuno è in salvo

Turchia/Siria ◆ Cataclismi e responsabilità umane

Romina Borla

In Israele il Governo di Benjamin Netanyahu, tornato al potere per la sesta volta grazie ad una coalizione con partiti ultraortodossi e della destra nazionalista religiosa, si è insediato a fine dicembre. Al suo fianco spiccano tra gli altri Itamar Ben-Gvir, leader del partito di estrema destra Otzma Yehudit, ministro della sicurezza interna, e Bezalel Smotrich, leader del partito nazionalista Sionismo Religioso, ora ministro delle finanze. Mentre Smotrich nelle interviste non ha esitato ad autodefinirsi «omofobo, razzista e fascista», a inizio gennaio Ben-Gvir, simpatizzante di Meir Kahane (estremista sionista religioso), si è presentato sulla spianata della moschea, luogo sacro per i musulmani, per una «passeggiata» che ostentava una chiara affermazione della sovranità assoluta di Israele sul territorio. Queste e altre provocazioni sempre più frequenti si accompagnano all’escalation di violenza nei territori occupati e all’inasprimento delle misure adottate dall’esercito israeliano che, solo nella giornata del 26 gennaio, ha causato a Jenin la morte di una decina di palestinesi. Naturalmente la risposta palestinese non ha tardato a farsi sentire tramite attentati e sparatorie di singoli contro i civili israeliani e la gettata di razzi da Gaza. La tensione nella regione è di nuovo alle stelle.

Forse per la prima volta in settant’anni gli israeliani temono una sorta di colpo di stato con ovvie ripercussioni sull’economia e la sicurezza dei cittadini

Pur essendo i primi a farne le spese, i palestinesi non sono tuttavia gli unici a sentirsi minacciati da questo clima di nazionalismo etnico, religioso e culturale. Dall’inizio di gennaio, infatti, decine di migliaia di ebrei, a Tel Aviv, ma anche nelle altre città, scendono in strada ogni sabato sera per protestare veementemente contro il nuovo Governo che sembra intenzionato a mutare il contratto sociale mettendo rapidamente a repentaglio le istituzioni democratiche, a cominciare dalla magistratura. In cima alla lista delle proteste vi è infatti una pericolosa riforma del sistema giudiziario che, oltre a modificare la procedura di nomina dei giudici, esautora la Corte suprema consentendo al Parlamento la possibilità di annullarne le decisioni con estrema facilità. Essendo Isra- ele privo di una Costituzione, la Corte è di fatto l’unico organo a tutela dei diritti individuali. Forse per la prima volta in settant’anni gli israeliani temono una sorta di colpo di stato con ovvie ripercussioni sull’economia e la sicurezza dei cittadini.

D’altro canto, quella della compresenza nell’ebraismo delle componenti di nazione e religione è una questione ambigua e ampiamente dibattuta nel corso dei secoli. Se la fondazione d’Israele nel 1948, all’indomani della Shoah, sembrava aver fornito una risposta a tale spinoso dilemma identitario, oggi è evidente che l’acquisizione della sovranità ebraica all’interno dei confini di uno Stato non solo non si è tradotta affatto in una soluzione, bensì ha contribuito al sorgere di nuovi interrogativi. Tanto il protrarsi dell’occupazione ai danni del popolo palestinese, quanto il fallimento e l’inattuabilità della tanto decantata soluzione dei due Stati, stanno minando alle fondamenta la definizione di Stato ebraico democratico, ormai sfruttata all’estremo come antidoto alle critiche del resto del mondo nei confronti della dubbia condotta etica di Israele. Anche se la soluzione di uno Stato unico per ebrei e palestinesi è di fatto quella che è venuta a delinearsi, per porre fine all’apartheid è necessario conferire parità di diritti e cittadinanza a tutti i suoi residenti, implicitamente rinunciando all’esclusività della connotazione ebraica che definisce Israle dalla sua fondazione. Se già fino ad ora una simile rinuncia alla supremazia ebraica era un prezzo che gli ebrei, compresi quelli della Diaspora, non sembravano essere affatto disposti a pagare, l’esito delle ultime elezioni sembra allontanare ancora di più quest’ipotesi.

Ad uno sguardo attento non sfugge che Israele non è lo Stato laico e democratico che si presenta all’esterno, dal momento che le influenze della componente ebraica religiosa nella res publica e nei poteri esecutivo, legislativo e giudiziario sono da sempre molteplici e profondamente variegate. L’inquietante operato e il percorso di soggetti come Ben Gvir e Smutritch, tuttavia, rischia non solo di creare sospetto e dissenso, favorendo l’isolamento di Israele sul piano internazionale, ma anche di trasmettere all’esterno una fuorviante immagine monolitica e riduzionistica dell’ebraismo ortodosso. Dietro l’osservanza condivisa dei precetti ebraici e presunti comuni interessi politici, si

Le la del Muro Occidentale, il luogo più dove gli possono pregare, nella Città Vecchia di Gerusalemme. (Keystone/AP Photo/Maya Alleruzzo) cela infatti una molteplicità di mondi estremamente sfaccettati e diversi per provenienza, pensiero, tradizioni e ideologie. Non si tratta di uno, bensì di tanti ebraismi che coesistono insieme, come pianeti paralleli spesso in buona parte sconosciuti anche all’israeliano laico che vi vive accanto.

Per condurre i lettori di «Azione» alla scoperta del pluralismo delle voci e delle diverse correnti che compongono l’ebraismo osservante nell’Israele di oggi cominceremo con una mappatura. Scomporremo l’affascinante mondo ultraortodosso nelle sue componenti ashkenazite e sefardite, entreremo nelle corti chassidiche e nelle scuole rabbiniche lituane. Incontreremo i principali leader religiosi che hanno fatto la storia degli ultimi decenni, come Rav Chaim Kanievsky (1928-2022) leader indiscusso dell’ebraismo ashkenazita ultraortodosso, e Rav Ovadia Yosef (1920-2013) leader del partito Shas fondato nel 1984. Conosceremo gli ultra ortodossi moderni che si aprono al mondo di internet e del lavoro, e prestano servizio nell’esercito.

Incontreremo i cosidetti modern-ortodox di provenienza anglosassone e i sionisti religiosi, questi ultimi in particolare attraverso l’esperienza di Rav Shagar (Shimon Gershon Rosenberg 1949-2007). Parleremo di omosessualità e fecondazione assistita, ma soprattutto delle donne, grandi protagoniste di molte delle più recenti rivoluzioni interne in una società di matrice maschilista e patriarcale. Infine ci soffermeremo su una delle poche gradevoli sorprese delle ultime settimane: l’emergere di una sinistra religiosa i cui attivisti, di diversa provenienza e dalle curiose identità trasversali, si sono raccolti per la prima volta in un congresso tenutosi a Gerusalemme lo scorso 23 gennaio. Con un’agenda molto promettente che individua proprio nei valori ebraici il fondamento di quel pluralismo politico, solidarietà e uguaglianza che oggi sembrano venire minacciati, saranno forse questi ultimi a costituire un’alternativa e a fungere da collante per evitare una spaccatura definitiva della società ebraica israeliana?

Proprio nel momento storico in cui si registra un inedito spostamento ideologico e coinvolgimento pratico degli ultraortodossi a favore del sionismo, il dibattito sulla possibilità di separare sionismo ed ebraismo, «salvando» quest’ultimo, si fa più che mai attuale e necessario.

Un piccolino senza vita avvolto da una coperta rossa. Il suo volto non si vede, solo quello pietrificato dell’uomo che lo sorregge, il padre. Intorno la corsa contro il tempo per salvare chi ancora aspetta vivo sotto le macerie. In un’altra immagine, una neonata nuda tra le mani di un soccorritore, le braccia abbandonate lungo il corpicino impolverato. Un uomo getta verso di lei quella che pare un’immensa tenda verde. Per proteggerla dal freddo. È nata settimana scorsa, proprio quando lo sciame sismico devastava il suo mondo, un’area a cavallo fra Turchia e Siria (con un picco di magnitudo 7,8 della Scala Richter). L’hanno trovata a Jandairis – in Siria appunto – con il cordone ombelicale attaccato al corpo della madre morta. È l’unica sopravvissuta della famiglia.

Due bambini – le vittime innocenti per eccellenza – con un destino diverso. Una linea sottile, quella che separa la vita dalla morte. Solo questione di fortuna. Ma di che fortuna si tratta? Chi è salvo per davvero in luoghi dove povertà, guerra e terremoti sono di casa? Gli occhi sbarrati di una bimba (potrebbe avere 5 anni) estratta da quel che resta della sua casa ci fanno capire che il disastro è lontano dall’essere concluso, anzi, si tratta solo dell’inizio… «Dov’è la mamma? Chi mi proteggerà adesso?». E ancora l’istantanea di un uomo che non lascia la mano di sua figlia, 15 anni, morta sul suo letto e ancora sepolta dai detriti a Kahramanmaras, in Turchia, epicentro delle prime forti scosse. Poi le immagini di chi ancora spera in un finale diverso con gli occhi fissi sui calcinacci. Calcinacci da dove fuoriuscivano richieste di aiuto, lamenti, sms disperati. Adesso più. La carrellata di fotografie in arrivo dall’Anatolia è un pugno nello stomaco. Ci ricorda situazioni di devastazione già viste, certo, da lontano: Sumatra (2004), Fukushima (2011), Nepal (2015), Amatrice (2016). Ci spinge a riflettere sull’ineluttabilità delle catastrofi naturali ma anche – e come sempre – sulle responsabilità umane. Tra le altre voci ricordiamo anche quella – ripresa dal «Corriere della sera» – di Mustafa Erdik, docente all’Università del Bosforo, ad Istanbul, il quale spiega: «Il numero tanto alto di vittime è causato dalla scarsa qualità degli edifici». Anni di incuria e abusivismo edilizio, molto marcato nel sud-est della Turchia, hanno da sempre reso questa zona –altamente sismica – particolarmente esposta alla furia dei terremoti. Inoltre, nel Paese, si sta diffondendo il malcontento riguardo all’impiego della «tassa sui terremoti» imposta alla popolazione da Ankara dopo il sisma del 1999 che provocò la morte di oltre 17mila persone. «Come sono stati spesi i soldi raccolti finora tramite l’imposta?», chiede l’opposizione ad Erdogan. Oltrepassiamo il confine, seguendo il filo delle responsabilità umane. Andiamo nel nord della Siria, dove infuria da tempo la guerra civile. La crisi scoppiò infatti nel 2011 – quando iniziarono le proteste contro il regime di Bashar al Assad, nel contesto delle Primavere arabe, represse con violenza dalle autorità – e non è mai finita. È solo scomparsa dalle nostre cronache. Altri drammi e conflitti l’hanno cancellata dalla nostra memoria. Guerre che, come i cataclismi, ammazzano innocenti e devastano regioni. Guerre che, al contrario dei terremoti, si potrebbero evitare. Ma com’era la situazione in quella «terra di mezzo» prima del sisma? «Dopo l’operazione militare turca “Fonte di pace”, nel 2019, la situazione sul campo è rimasta relativamente stabile, ma senza avanzamenti dal punto di vista dei negoziati», spiega Francesco Mazzucotelli che insegna Storia della Turchia e del Vicino Oriente all’Università di Pavia. «Il conflitto è stato “congelato”. Una fascia lungo il confine è controllata dal Governo provvisorio formato dalla Coalizione nazionale dei gruppi di opposizione. Di fatto è un’area amministrata dalla Turchia. Questa confina, ad ovest, con un’area controllata dal Governo di salvezza formato da diversi gruppi della galassia jihadista. Nella provincia di Idlib – dove i gruppi di opposizione si sono combattuti tra loro – si sono riversati molti sfollati in fuga dai territori sotto il controllo delle forze governative (a sud). Queste ultime dalla fine del 2019 in poi hanno cercato di riconquistare l’autostrada che collega Aleppo con il porto di Latakia, ma senza riuscirci in maniera definitiva». Si possono intuire le condizioni precarie in cui già viveva la popolazione in quell’area martoriata; le prospettive dopo il terremoto sono inquietanti.

Save the Children in particolare esprime la sua preoccupazione per i bambini che dormono all’aperto, al gelo, e vivono nel terrore che la terra tremi ancora. Manca tutto: cibo, coperte, ripari, acqua pulita e latrine. «La situazione sul terreno rende difficile immaginare la logistica degli aiuti internazionali», sottolinea Mazzucotelli. «Senza un accordo politico che coinvolga anche le potenze esterne (Turchia, Russia, Iran) è improbabile che le diverse aree possano coordinare gli aiuti, anche in maniera minima, con conseguenze disastrose per la popolazione. La razionalità dovrebbe spingere a una tregua provvisoria, ma le ostilità pregresse (Governo turco contro PKK, Governo siriano contro ribelli di entrambi i tipi) sono troppo radicate per rendere possibile questo scenario». Poche speranze, dunque, mentre un piccolino che conosciamo bene ci chiede: «Ma i terremoti arrivano anche qui da noi?».

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