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Se le superpotenze non si parlano
USA/Cina ◆ Il caso del pallone-spia si innesta in un contesto di crescente tensione globale
Federico Rampini
Joe Biden non lo ha mai citato esplicitamente nel discorso sullo Stato dell’Unione che ha tenuto davanti al Congresso il 7 febbraio, ma il pallone-spia cinese proiettava su quel discorso un’ombra inquietante. Il presidente ha preferito non soffermarsi su quell’incidente, poco lusinghiero per l’intelligence e le forze armate degli Stati Uniti. Dopotutto lo spazio aereo della prima superpotenza mondiale è stato violato dalla sua rivale più pericolosa, che ha potuto raccogliere immagini e informazioni per quattro lunghi giorni prima che Biden prendesse la decisione di farlo abbattere. Per di più si è scoperto, a posteriori, che le incursioni di palloni-spia cinesi in passato erano già avvenute senza che la U.S. Air Force intercettasse questi strumenti di spionaggio. Brutta storia di per sé, che si innesta in un contesto di crescente preoccupazione per il riarmo della Repubblica Popolare: è recente la notizia che la Cina ha superato l’America per il numero di piattaforme di lancio di missili intercontinentali (quelli che possono trasportare testate nucleari). Ultimo dettaglio che accentua l’allarme: si susseguono le rivelazioni sulle forniture di armi dalla Cina alla Russia, in spregio alle sanzioni occidentali e alle promesse più volte fatte da Xi Jinping di non mischiarsi direttamente nella guerra in Ucraina. Ma forse più di ogni altra cosa la vicenda del pallone-spia deve preoccupare per il modo in cui è stata gestita, o non-gestita, dalle autorità di Pechino. Chi e perché ha autorizzato questa operazione di spionaggio alla vigilia di un importante viaggio del segretario di Stato Antony Blinken, che doveva essere ricevuto a Pechino dallo stesso
Xi Jinping? L’annullamento di quella visita – che doveva contribuire ad un parziale disgelo bilaterale – era un obiettivo previsto, calcolato, desiderato? Perché dopo l’abbattimento del pallone-spia le autorità cinesi hanno continuato a propagare la menzogna secondo cui era intento a fare solo osservazioni meteorologiche? Perché avere in seguito rifiutato la telefonata del segretario alla Difesa americano e quindi aver respinto un tentativo di de-escalation?
Per capire la gravità dell’accaduto, che va ben oltre il peso del singolo pallone-spia, è utile fare un salto indietro nella storia. Spionaggio dai cieli, tensione Cina-Usa: un precedente risale a 22 anni fa. A ruoli invertiti e in un contesto profondamente diverso. Ricordare quell’incidente aiuta anzitutto a misurare quanto è cambiato il rapporto di forze; poi serve a capire i rischi che si corrono quando due superpotenze non si parlano. Il primo aprile 2001 un aereo spia americano che sorvolava l’isola di Hainan nel Mare della Cina meridionale (fuori dallo spazio aereo nazionale) venne intercettato dai caccia dell’Esercito Popolare di Liberazione. Ci fu una collisione, un caccia cinese precipitò e il pilota morì. L’aereo americano riuscì un atterraggio di emergenza, i 24 dell’equipaggio vennero detenuti. A Washington c’era George W. Bush. A Pechino Jiang Zemin, continuatore della strategia di Deng Xiaoping nell’integrare la Cina all’economia globale. Trovarono un’intesa per il rilascio degli americani in dieci giorni. Ma furono dieci giorni gravidi di tensione, in cui la situazione poteva sfuggire di mano e la crisi poteva precipitare verso esi- ti pericolosi. Si scoprì in quel frangente che tra Pechino e Washington non esisteva un «telefono rosso» come quello attivato tra Mosca e Washington durante la guerra fredda per comunicazioni d’emergenza che evitassero una terza guerra mondiale (nucleare). Oltre al «telefono rosso» mancava tutto quello che quello strumento di consultazione veloce tra i vertici presuppone: delle regole di condotta concordate preventivamente per operare una de-escalation, ricondurre un incidente imprevisto entro limiti controllabili.
Cinque mesi dopo la crisi dell’aereo-spia abbattuto nell’aprile 2001, l’America veniva colpita dagli attacchi dell’11 settembre, la sua attenzione si rivolse al Medio Oriente, con le due lunghe guerre in Afghanistan e in Iraq. Con il senno di poi, «sprecò» un ventennio sottovalutando l’unica sfida seria alla sua leadership, quella cinese. Il riarmo della Repubblica Popolare in questo periodo è stato spettacolare, per la prima volta nella storia Pechino dispone di una flotta militare più grossa della U.S. Navy. Una parte del riarmo cinese, e del decollo economico, è avvenuto grazie allo spionaggio. Dalle università alla Silicon Valley, l’FBI ha dovuto inseguire un crescendo di furti di tecnologie, industriali e belliche. L’ascesa di Huawei, colosso telecom fondato da un militare, è segnata dalle accuse di aver rubato tecnologie occidentali. La velocità con cui la Cina ha modificato i rapporti di forze è evidente a Taiwan. Il Pentagono ritiene che in un conflitto le probabilità di vittoria siano a favore della Cina.
Resta dal punto di vista di Xi Jinping un’asimmetria intollerabile. Gli Stati Uniti, superpotenza globale e difensori della libertà di navigazione in tutti gli oceani, hanno basi militari vicino alla Repubblica Popolare: dal Giappone alla Corea del Sud, con l’aggiunta recente di nuove basi filippine. L’Esercito Popolare di Liberazione non ha una presenza così imponente al largo della California. La vicenda del pallone crea a Pechino danni indesiderati, se è vero che Xi Jinping voleva usare la visita di Blinken per normalizzare i rapporti bilaterali. Xi deve traghettare il suo Paese dalla politica «zero Covid» verso la nuova apertura; deve rilanciare una crescita economica che l’anno scorso è stata asfittica per i troppi lockdown e quarantene; deve rassicurare gli investitori nazionali e stranieri spaventati dalla sua sterzata «socialista» che ha