SOCIETÀ
Scrivere e recitare un testo teatrale come esame di fine tirocinio: l’idea diventata realtà al CPT di Locarno
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TEMPO LIBERO
Stewart Brand e la trasformazione della controcultura USA anni 60 nella cybercultura dei giorni nostri
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ATTUALITÀ
La morte di Navalny e la necessità di immaginare un’azione politica in una Russia diventata dittatura
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Sulle ali del Conte Caproni
edizione
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MONDO MIGROS
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CULTURA
Con Helbling e Saltamacchia andiamo dietro le quinte del Teatro Sociale e la sua fortunata stagione
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Simona Sala
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Non ditelo alle macchine, ma siamo meglio noi
L’esplosione dell’intelligenza artificiale (IA), con la quale ognuno di noi può flirtare grazie a qualche App sul telefonino o sul computer, marca un salto quantico rispetto al passato e ancora una volta ci divide tra «neoluddisti» ed entusiasti. I «neoluddisti» sono i nipotini del movimento creato da Ned Ludd all’inizio dell’Ottocento per protestare contro la diffusione dei telai meccanici e la conseguente disoccupazione da essi generata. Oggi si esprimono i medesimi timori riguardo all’IA. I posti di lavoro legati ai mestieri ripetitivi che verranno spazzati via dal vento dell’innovazione saranno 75 milioni, sostengono gli autori di uno studio Wef basato sui dati forniti dai responsabili delle risorse umane e i top strategy executive di 12 industrie e 20 economie sviluppate ed emergenti.
Gli entusiasti ritengono che sì, è vero, si perderanno milioni di posti di lavoro, ma se ne creeranno molti di più. Come in ogni precedente
rivoluzione industriale, sostengono, la tecnologia sgraverà l’essere umano dalle funzioni più materiali e ripetitive, liberando spazio per nuove professioni più creative e interessanti. Basta con mestieri come quello degli addetti all’inserimento manuale di dati in sistemi informatici, o a compiti amministrativi come la gestione delle buste paga e dei libri contabili. Ci penseranno le macchine, e lo faranno meglio degli umani, così imperfetti. In compenso, serviranno nuove professioni, in particolare nell’ambito dell’information technology. Andranno a ruba – secondo il già citato studio del Wef (World Economic Forum) – gli esperti di analisi dei dati e gli scienziati, gli studiosi di intelligenza artificiale e i manager gestionali. Poi, ma questa è musica corrente già da diversi anni, gli sviluppatori di software e i professionisti dei settori vendite e marketing.
Insomma, se i guru dell’economia hanno ragio-
ne, nel giro di un anno il rapporto uomo-macchina si rovescerà. Oggi è di 71 a 29. Significa che il 29% del lavoro già lo fanno i robot, mentre il 71% viene ancora svolto da esseri umani. Le previsioni del Wef dicono che entro il 2025 questa proporzione si sovvertirà e il 52% delle ore di lavoro saranno appannaggio dei sistemi automatizzati. Non so se essere più entusiasta o «neoluddista». Una parte di me pensa alle ragazzine che si bruciavano le mani nelle filande di fine Ottocento e inizio Novecento anche qui in Ticino e sa che i telai meccanici hanno liberato le nostre bisnonne da una cinica forma di schiavitù lavorativa. Così come i trattori hanno generato contadini con la schiena dritta e non ingobbita sui campi, le lavastoviglie hanno emancipato le donne, e via via l’utilitaria, i computer, internet e gli smartphone hanno reso più vivibili infiniti aspetti della nostra esistenza. In altre parole:
tecnologia, se ci liberi da fardelli e schiavitù sei la benvenuta.
Un’altra parte di me si ribella al passaggio sistematico del lavoro dalle mani dell’uomo alle macchine e ai loro algoritmi. Non è che piano piano i robot e le varie forme di IA che sbocciano azzereranno gli spazi veramente umani? A volte mi sento già orfano di quell’intelligente fallibilità delle donne e degli uomini che rende «calda» la nostra esistenza, dei margini di errore che generano scoperte nuove, adattamenti astuti, strategie esistenziali e lavorative più aderenti alla realtà ed efficaci. In un universo professionale dominato dalle macchine, il caos sulla scrivania, la risata improvvisa, la tazzina sporca di caffè, le valutazioni di pancia e l’intuizione inaspettata che emerge dai nostri scarabocchi mentali sono un lusso che nessuna mente artificiale potrà mai concedersi e concederci. Non ditelo alle macchine, ma siamo meglio noi.
Settimanale di informazione e cultura Anno LXXXVII 26 febbraio 2024 Cooperativa Migros Ticino
◆ ● G.A.A. 6592 San t’Antonino
◆
Famiglia Meazzini
Carlo Silini
Support Culture: Migros e la clientela sostengono le associazioni culturali
Società ◆ Al via la seconda edizione di Support Culture, una promozione Migros grazie alla quale la clientela può sostenere le associazioni culturali svizzere facendo acquisti
Che si tratti di un’orchestra d’archi a pizzico, di una compagnia teatrale per bambini e ragazzi o di un’organizzazione di festival, il panorama culturale svizzero con le sue associazioni è vario e rappresenta una parte importante della società. Migros sostiene le associazioni culturali in Svizzera per la seconda volta dal 2023 e mette a disposizione la somma di 6 milioni di franchi. Dal 6 febbraio le clienti e i clienti di Migros possono sostenere le associazioni culturali.
Quest’anno, alcune di esse avranno in particolare l’opportunità di presentare il lavoro svolto a un pubblico più vasto presso una rinomata istituzione culturale. Ad esempio, alla Fondation Beyeler di Basilea o al Festival dei fumetti di Lucerna. «Sarà molto emozionante per le associazioni interessate. Sono davvero contento del fatto che, insieme alle istituzioni culturali, possiamo offrire un’occasione simile alle associazioni», spiega Conradin Schaad, responsabile Sales Promotions di Migros , e aggiunge: «Grazie all’iniziativa, quest’anno Support Culture acquisirà un’importanza ancora maggiore per il panorama culturale svizzero».
Funziona così
Dal 6 febbraio 2024 chi farà acquisti nei supermercati Migros e su Migros Online riceverà, ogni 20 franchi spesi, un buono cultura che potrà asse-
gnare sul sito web «Support Culture» a una delle associazioni culturali aderenti. Inoltre sarà possibile sostenere le proprie associazioni preferite anche con una donazione diretta tramite Support Culture. La somma raccolta a sostegno di ciascuna associazione consentirà a quest’ultima di realizzare il desiderio precedentemente indicato. Ad esempio, le associazioni partecipanti alla prima edizione hanno potuto acquistare nuovi strumenti, organizzare un evento per l’anniversario o sostituire i vecchi costumi tradizionali.
L’anno scorso sono state ben 5600
le associazioni che hanno partecipato alla prima edizione della promozione «Support Culture» e cui sono stati distribuiti 6 milioni di franchi dal fondo di contributi Migros, nonché più di 194’000 franchi tramite donazioni dirette. Quest’anno le associazioni aderenti sono già quasi 6000. Nonostante l’avvenuto lancio della promozione, le associazioni culturali svizzere possono ancora iscriversi a Support Culture: su migros.ch/culture sono disponibili tutte le informazioni utili.
Migros è lieta di sostenere nuovamente le associazioni culturali sviz-
zere insieme alla sua clientela, per la prima volta in collaborazione con le principali istituzioni culturali.
In breve
1. Raccogli i buoni cultura
Dal 6 febbraio al 15 aprile 2024 nei supermercati Migros e su Migros. ch ricevi un buono cultura* ogni 20.–franchi spesi
2. Assegna i buoni cultura e vinci dei buoni acquisto Scansiona il codice QR che trovi sul buono cultura o inseriscilo su migros. ch/culture e assegnalo alla tua associazione culturale. Ogni settimana hai così la possibilità di vincere un buono acquisto Migros del valore di 100.– franchi.
3. Fai una donazione diretta Puoi sostenere la tua associazione culturale anche con una donazione diretta su migros.ch/culture.
Le tue possibilità di vincita dal 6.2 al 22.4.2024: ogni settimana 100 buoni acquisto Migros da 100.– franchi l’uno; un premio principale di 10’000 franchi.
* Dal 6.2 al 15.4.2024 un buono cultura per ogni 20.– franchi spesi (al massimo 15 buoni cultura per acquisto). In tutte le filiali Migros (M, MM, MMM, VOI) e su Migros.ch. Fino a esaurimento dello stock. Altre informazioni su migros.ch/culture
Schnellmann, nuovo CEO di Miduca SA
Info Migros ◆ Il Consiglio di Amministrazione di Miduca SA ha nominato Reto Schnellmann (56) nuovo CEO. Assumerà la carica il 1° settembre 2024
Andrea Krapf, presidente del Consiglio di Amministrazione, dichiara viva soddisfazione per la nomina di Reto Schnellmann (nella foto): «Reto Schnellmann si distingue, tra l’altro, per la straordinaria competenza nei processi di trasformazione e per il suo profondo impegno nel settore della formazione.
Schnellmann dal 2007 è direttore amministrativo dell’Università di scienze applicate di Zurigo (ZHAW)
Questa combinazione ne fa la persona ideale alla guida di Miduca SA per raggiungere i nostri ambiziosi obiettivi. Siamo certi che abbia le capacità, la visione e la determinazione per traghettare Miduca SA verso scenari futuri».
Reto Schnellmann è un conoscitore esperto del settore svizzero del-
la formazione. Dal 2007 è direttore amministrativo dell’Università di scienze applicate di zurigo (ZHAW). Vanta esperienze precedenti come docente di finanza e contabilità e come responsabile dei servizi, rispetti-
vamente Finance & Services, presso la Scuola universitaria professionale di Lucerna.
Reto Schnellmann attende con entusiasmo di assumere la nuova carica: «La nomina a CEO di Miduca
Una chinoise al Bellavista
Concorso ◆ Vincete i due ticket in omaggio per la serata del 9 marzo 2024, protagonista sarà la fondue chinoise
Nel corso di tutto l’inverno il Buffet Bellavista, situato a 1200 metri lungo la linea che porta in vetta al Monte Generoso, offrirà una serie di serate all’insegna della buona cucina regionale.
Il ristorante, da poco ristrutturato, grazie a un’atmosfera intima e curata, incanterà gli ospiti. «Azione» estrarrà a sorte settimanalmente due ticket per scoprire la bellezza del Monte Generoso.
Il prossimo 9 marzo ritorna l’apprezzato appuntamento con la fondue chinoise. Il menù comprende insalata mista, fondue chinoise, salse e contorni, sorbetto al limone.
Dove e quando
Serata chinoise sabato 9 marzo 2024, Buffet Bellavista.
Orari: partenza da Capolago ore 19.00, discesa da Bellavista ore 21.30.
SA è per me un grande onore e fonte di gioia. Sarà senz’altro un piacere lavorare con il team impegnato di Miduca SA per renderla un’istituzione formativa e ricreativa stabile e a prova di futuro».
Miduca SA è un’azienda del Gruppo Migros che entusiasma la propria clientela con offerte di formazione e attività ricreative stimolanti, formati didattici innovativi e un ambiente di apprendimento motivante.
In qualità di organizzazione ombrello, gestisce i marchi indipendenti Scuola Club Migros (ad eccezione delle Scuole Club della Cooperativa Migros Svizzera orientale), IBAW (Istituto di formazione professionale e continua), Tanzwerk101, Eventlocation eins0eins, Welle7 Workspace e il ristorante the flow.
Informazioni www.miduca.ch
Prezzi: Trenino e menù a 3 portate, bevande escluse: adulti CHF 60.–; ragazzi 6-15 anni CHF 40.–; bambini 0-5 anni treno gratuito. Info e prenotazioni
www.montegeneroso.ch
Concorso
«Azione» mette in palio due ticket per il 9 marzo 2024 che includono ciascuno un biglietto andata e ritorno a bordo del trenino a cremagliera e la cena di tre portate. Per partecipare al concorso mandare una e-mail a giochi@azione.ch (oggetto «chinoise»), indicando i propri dati, entro domenica sera 3 marzo 2024 (estrazione 4 marzo). Buona fortuna!
Settimanale di informazione e cultura Anno LXXXVII 26 febbraio 2024 azione – Cooperativa Migros Ticino MONDO MIGROS 2 azione Settimanale edito da Migros Ticino Fondato nel 1938 Abbonamenti e cambio indirizzi tel +41 91 850 82 31 lu–ve 9.00 –11.00 / 14.00 –16.00 registro.soci@migrosticino.ch Redazione Carlo Silini (redattore responsabile) Simona Sala Barbara Manzoni Manuela Mazzi Romina Borla Natascha Fioretti Ivan Leoni Sede Via Pretorio 11 CH-6900 Lugano (TI) Telefono tel + 41 91 922 77 40 fax + 41 91 923 18 89 Indirizzo postale Redazione Azione CP 1055 CH-6901 Lugano Posta elettronica info@azione.ch societa@azione.ch tempolibero@azione.ch attualita@azione.ch cultura@azione.ch Pubblicità Migros Ticino Reparto pubblicità CH-6592 S. Antonino tel +41 91 850 82 91 fax +41 91 850 84 00 pubblicita@migrosticino.ch Editore e amministrazione Cooperativa Migros Ticino CP, 6592 S. Antonino tel +41 91 850 81 11 Stampa Centro Stampa Ticino SA Via Industria – 6933 Muzzano Tiratura 97’925 copie ●
La doccia a scuola
Lavarsi dopo la lezione di educazione fisica può diventare motivo di ansia per alcuni bambini
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Separarsi collaborando Il nuovo progetto di AGNA accompagna i genitori nel processo di separazione
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Movimento e qualità di vita
Pro Senectute Ticino e Moesano promuove degli incontri con un esperto di attività fisica adattata
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Gli apprendisti salgono sul palco
Per il bene delle articolazioni Il nuovo opuscolo della Lega svizzera contro il reumatismo illustra come prevenire i dolori
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Formazione ◆ Per la prima volta un piccolo guppo di allievi del CPT di Locarno ha presentato il Lavoro di Approfondimento di fine tirocinio di Cultura generale in forma di pièce teatrale recitandola durante l’esame
La scena è questa, e dovreste immaginarvela: una classe formata da quattro apprendisti frigoristi sul palcoscenico, chiamata a una duplice prova: intanto recitare una pièce teatrale scritta da loro in classe – con tutto quello che comporta in termini di espressione verbale e corporea, preparazione e di parti imparate a memoria – e poi convincere non già un pubblico, bensì un docente ed esaminatore della bontà dell’esibizione. Sì, perché quell’esperienza unica è valsa loro l’agognato voto d’esame orale di Cultura generale.
Lo avrete capito, l’arte di Shakespeare ha valicato mondi, approdando di diritto nel campo della formazione. Così il Lavoro di Approfondimento (LA), la «tesi» di fine tirocinio che le persone in formazione delle Scuole professionali all’ultimo anno sono chiamate a elaborare, ha conosciuto per la prima volta la forma teatrale, ammessa ufficialmente quale valida modalità d’esame dalla Divisione della formazione professionale. Promotore del progetto pilota – un unicum in Ticino – è Roberto Zerbola, docente di lungo corso di Cultura generale, 25 anni d’insegnamento nelle diverse SPAI del Cantone, al Centro professionale tecnico di Locarno (dove la creazione scenica ha avuto luogo), di Biasca e attivo nel sostegno scolastico individuale, nonché un’innata passione per il teatro. Roberto Zerbola, come è nata l’iniziativa?
Sono le stesse direttive cantonali a prevedere che il Lavoro di Approfondimento richiesto alle persone in formazione possa essere presentato in forme diverse, vie che a ogni modo, per quanto io ne sappia, nessuno ha mai utilizzato. In passato veniva chiamato LIA, ossia Lavoro Individuale di Approfondimento. La differenza è che il suo svolgimento può avvenire in gruppo o in coppia. E questo è un aspetto che ha reso possibile la realizzazione di questo progetto, nato dal mio interesse per il teatro, la mimica, che ho respirato sin da bambino dal momento che mia zia era regista di una compagnia amatoriale, alla quale si era associata anche mia madre, e io suonavo in una piccola orchestrina nelle pause degli spettacoli. Ho poi svolto corsi di teatro e mimo, una passione che desideravo esprimere anche in questi miei anni di lavoro.
Detto, fatto?
Sì, mi sono chiesto «ma perché non proporre ai ragazzi di creare una piccola pièce teatrale che comprendesse dunque una parte scritta – un copione – in sostituzione del LA e una parte orale che non fosse più la
classica presentazione power point, bensì una rappresentazione scenica vera e propria?». Ho sottoposto l’idea, chiedendo che potesse diventare un progetto pilota, dunque con uno sgravio di qualche ora dal mio tempo pieno di lavoro e il Cantone l’ha approvata con mia grande soddisfazione e gratitudine. Questo grazie anche al favore dell’ex direttore della CPT di Locarno, Claudio Zaninetti, che recitava in una compagnia e all’entusiasmo del vice-direttore Michel Candolfi, nonché dell’ex esperta di Cultura generale, Regula Gnosca e dell’attuale, Rosa Butti.
Quali sono state le tappe del percorso?
Il progetto è iniziato nell’anno scolastico 2020/21 e si è concluso lo scorso maggio. Il primo anno, dal momento che eravamo in piena restrizione per la pandemia, abbiamo semplicemente letto delle pièce teatrali, studiandone la struttura, le caratteristiche principali del testo, visionato e analizzato su Youtube alcune rappresentazioni, cosicché gli allievi potessero familiarizzarsi con queste forme espressive. Il secondo anno, con il Covid alle spalle, abbiamo finalmente potuto passare a parti più pratiche in palestra: attività sulla consapevolezza del proprio corpo, mimica, attività espressive, improvvisazioni.
Gli «apprendisti-attori» hanno immediatamente aderito al progetto?
Ho avuto intanto la fortuna – per nulla evidente – di ottenere la stessa classe per tre anni consecutivi. Si è trattato di una classe quadriennale (li ho presi in seconda) formata da quattro frigoristi (installatori di sistemi di refrigerazione). Mi sono trovato con quattro «ghiaccioli» (sorride, ndr.) per cui non è stato semplice. Ma tant’è, alla fine la sfida è stata superata bene. Chiaramente questa attività teatrale ha potuto sostituire una sola parte dell’intero programma di Cultura generale, ossia unicamente quella detta di Lingua e Comunicazione; mentre l’altra metà chiamata Società ha seguito l’iter normale e l’esame si è svolto nella forma canonica.
E come è avvenuto il passaggio dal testo al palcoscenico?
Forse la sorpresa più negativa per me, vorrei evidenziare, è stato riscontrare l’assenza di fantasia di questi ragazzi, l’incapacità di staccarsi dal quotidiano, dalla realtà concreta che vivono, di liberarsi dai cliché proposti dalla società di oggi. Mi immaginavo che concedendo loro la libertà quasi totale di esprimersi potessero lasciarsi andare e approfittare maggiormente di questa opportunità. Infatti il tema che hanno scelto è confinato nella loro professione: in estrema sintesi è la
storia di un frigorista che, demotivato sul lavoro, ritrova la passione grazie agli stimoli e agli influssi della chitarra che riscopre attraverso un incontro fortuito dopo averla abbandonata alle scuole medie. Hanno faticato – d’altra parte il teatro è un lavoro duro, perché ti obbliga a metterti in gioco, a lavorare su te stesso, a scoprire emozioni nuove, tratti del tuo carattere che non avevi mai considerato – ma alla fine sono riusciti a scrivere il copione e si sono anche divertiti. L’aspetto più valorizzante e arricchente è stato il percorso che hanno compiuto, la conoscenza di sé e del gruppo, il coordinamento del lavoro.
Quanto è durata la pièce?
Ventidue minuti. La rappresentazione teatrale all’esame si è svolta sul palcoscenico dell’aula magna del Liceo di Locarno, abbiamo avuto anche un tecnico delle luci e una scenografia minima. Al termine ogni allievo ha dovuto inoltre sostenere la parte rimanente dell’esame orale in forma individuale, consistita in un quarto d’ora di domande a ognuno sul ruolo del personaggio ricoperto nella storia, sulla scelta della trama, eccetera.
Tutti promossi?
Sì. C’è stato inoltre un grande entusiasmo da parte di tutti. Alla rappresentazione hanno assistito anche l’esperta di materia, Rosa Butti e diversi
docenti. È stata un’ottima esperienza, che vorrei ripetere, magari nella sede di Biasca. Intanto, fino al prossimo 6 marzo sono impegnato con un Corso di aggiornamento dedicato proprio al «Lavoro d’approfondimento in forma teatrale» alla Scuola universitaria federale per la formazione professionale, tenuto con alcuni attori che in questi anni hanno seguito il mio progetto fornendomi preziosi suggerimenti: Antonello Cecchinato, Prisca Mornaghini dei Giullari di Gulliver ed Enrico Ferretti della Compagnia Teatrodanza. Sono undici i docenti iscritti e da parte mia mi sono messo a disposizione come coach per chi vorrà realizzare l’esperienza. Intanto, durante quest’anno, il vicedirettore della Cpt di Locarno Michel Candolfi sta ripetendo con una classe il progetto con la mia assistenza. E per me è davvero incoraggiante… Se ho voluto avventurarmi in questo progetto non è stato solo per la mia passione per il teatro (che è seconda a quella per la musica), ma anche perché ero stufo di dover sempre leggere anno dopo anno lavori scritti con la tecnica del «copia – incolla – modifica», spessissimo riformulazioni di testi wikipediani… e, più recentemente, per evitare di vedermi consegnare prodotti creati con ChatGPT. Quello che ho così ottenuto è un vero e proprio lavoro originale e personale, come richiesto dalle direttive cantonali.
SOCIETÀ ● ◆ Settimanale di informazione e cultura Anno LXXXVII 26 febbraio 2024 azione – Cooperativa Migros Ticino 3
Due degli allievi del progetto pilota recitano il copione scritto da loro, la rappresentazione teatrale all’esame si è svolta sul palcoscenico dell’aula magna del Liceo di Locarno.
Guido Grilli
Prelibatezze ittiche per occhi e palato
Il lungo volo del Conte di Taliedo
Itinerari ◆ L’incredibile parabola di Giovanni Battista «Gianni» Caproni, fra i grandi protagonisti dell’aeronautica internazionale e
Attualità ◆ L’ampio assortimento Migros di pesce fresco include anche diverse varietà vendute intere Approfittate questa settimana dell’offerta speciale su oltre dieci prodotti
Simona Sala
ti per loro natura invalicabili, poiché appannaggio del Celeste, di ciò che sta più in alto.
Il pesce cucinato e servito intero non solo è particolarmente gradito dagli amanti delle specialità ittiche, ma cattura l’attenzione dei commensali anche dal punto di vista estetico.
Azione 20%
Tutto il pesce fresco intero al banco e in self-service
La ricetta Trota al forno con patate e carote
Ingredienti per 4 persone
• 4 trote
• 2 cipolle rosse
• 500 g di patate resistenti alla cottura, piccole
• 300 g di carote, ad es. a mazzetto
• 6 foglie di alloro
• ½ cucchiaino di paprica
• 1 cucchiaio d’olio di colza
• sale
• pepe
Preparazione
Per la paura di sbagliare e magari fare brutta figura con gli ospiti, a volte si è piuttosto restii a cucinare del pesce intero, ma in realtà spesso la preparazione è piuttosto semplice e consente di ottenere un piatto gustoso e incredibilmente invitante. Per aiutarvi nella scelta della specialità, come pure nella preparazione del pesce intero per la cottura, potete rivolgervi agli specialisti
Giovanni Battista Caproni, «Gianni» per la famiglia, quel confine lo sentiva però sin dall’infanzia non come un limite, bensì come uno sprone a raggiungere e superare quelle vette che, in una visione più ampia, avrebbero permesso un giorno di «collegare tutti i Paesi del mondo, trasportando le persone da una parte all’altra e creando così una rete internazionale, cui sarebbero seguite una vera conoscenza e una vera unione di ogni Paese con l’altro; dunque l’aeronautica come strumento per collegare le civiltà». A parlare di un nonno che ha contribuito alla storia dell’Italia recente, per il suo ruolo di precursore, è il nipote Pierfrancesco Meazzini, che gli onori di casa li fa proprio all’ingresso del sontuoso Palazzo Durini, a pochi passi da San Babila a Milano, a suo modo comprimario di una vicenda famigliare strettamente intrecciata con quella di un’intera Nazione.
dei reparti pesce Migros, che sono a vostra disposizione per rispondere a qualsiasi richiesta o desiderio, consigliandovi ricette di sicuro successo. Possono per esempio pulire il pesce per voi, squamare le varietà che lo richiedono, condirlo con una sfiziosa marinata in modo da doverlo solo cuocere in forno, padella o sulla griglia.
e questo «sebbene il volo fosse ancora considerato un’azione da singolo avventuroso, da cavaliere, e non se ne prevedeva alcuno sviluppo industriale, né tantomeno si considerava l’aeroplano un veicolo per il trasporto commerciale. All’epoca esistevano il trasporto via mare, quello via terra con il treno, e da qualche tempo anche con le automobili, grazie ai primi motori Benz. Parliamo dunque della conquista di una nuova dimensione», sottolinea Meazzini.
I primi coraggiosi voli dall’esito incerto
Il pesce e i frutti di mare venduti alla Migros provengono in gran parte da fonti sostenibili. Ciò significa che essi sono pescati o prodotti nel rispetto degli stock ittici e riducendo il più possibile gli influssi negativi sugli ecosistemi. Garanti
Aria di Pasqua
Novità ◆ Due nuovi dolci stagionali della tradizione italiana entrano a far parte dell’assortimento Migros Ticino
Gianni Caproni era nato ad Arco, allora Trentino, nel 1886, quando la località era ancora sotto la domina-
Nonostante i pericoli notoriamente legati ai primi voli (come dimostrò quello del pilota peruviano Georges Antoine Chavez, che nel tentativo di un primo attraversamento delle Alpi nel 1910, durante il viaggio di ritorno precipitò sopra Domodossola) il fra tello Federico non mancò mai di esal tare le ambizioni di Gianni Caproni, intravvedendovi sviluppi interessanti. Fu sempre nel 1910, il 27 mag gio, identificato in Malpensa il terre no adatto e grazie al sostegno – mo
Uovo Dessert Balocco – Un’irresistibile bontà capace di mettere d’accordo sia gli amanti delle uova sia della colomba. Questo soffice dolce dalla forma a uovo racchiude maxi chunky di cioccolato fondente e golosa crema di cioccolato al latte. Con una ricopertura di cioccolato al latte e fondente con croccanti fave di cacao in scaglie, è ideale da condividere con la famiglia e gli amici durante le festività, oppure è perfetto come originale e golosa sorpresa pasquale. Con la sua combinazione unica di ingredienti di alta qualità e la sua presentazione accattivante, l’Uovo Dessert è un must-ha-
ve della tavola pasquale. La Colom ba Pistacchio & Nocciola Balocco regala un’esperienza gustativa unica durante le festività pasquali: farcita con irresistibili creme al pistacchio e alla nocciola, la colomba è ricoperta da uno strato di cioccolato al latte e fondente che conferisce una delicata nota di dolcezza e arricchisce la consistenza con una croccantezza a tutto tondo. Per renderla ancora più invitante, la colomba è decorata con finissima granella di pistacchio caramellato che aggiunge un ulteriore tocco di croccantezza e un irresistibile aroma di frutta secca.
rale e fisico – del fratello, di amici e parenti (cui l’anno dopo si aggiunse l’ingegnere De Agostini), che Gianni Caproni poté fare volare il suo primo velivolo a motore, il Ca.1. A differenza di molti suoi sodali con la stessa passione per il volo, l’ingegnere però non pilotava, e così il compito del primo volo fu affidato all’autista Ugo Sandri Tabacchi, che davanti alla Cascina Malpensa di Somma Lombarda si librò in volo per qualche centinaio di metri, finendo per schiantarsi al suolo, per fortuna senza conseguenze rilevanti.
di queste condizioni sono per esempio i marchi di qualità MSC, ASC o Migros Bio. MSC è sinonimo di una pesca selvatica responsabile volta a tutelare a lungo termine le popolazioni ittiche e il loro ambiente. Il marchio ASC sta per allevamento sostenibile di pesce e frutti di mare. Esso prescrive che i sistemi di itticoltura non debbano pregiudicare la biodiversità regionale. Infine, con il label Migros Bio, vengono certificaquei pesci che crescono in allevamenti biologici simili all’habitat naturale, dove ricevono mangimi bio e vivono in vasche di dimensioni adeguate alla specie.
«In realtà quella di mio nonno, più che un’azienda di aeronautica era una sorta di baracca dove lavoravano due
L’assortimento di pesce intero alla Migros:
• Branzino
• Orata reale
• Sogliola
• Rana pescatrice
• Pagello pezzogna
• Pagro
brevetto la prima donna, Rosina Ferrario. Gli aerei successivi, Ca.2, Ca.3 fino al Ca.7, furono realizzati partendo dal modello dei fratelli Wright, usi a progettare biplani con due ali sovrapposte. Fu solo a partire dal 1911, con il Ca.8 che Caproni cominciò a sviluppare dei monoplani.
• Pesce San Pietro
• corfano rosso
• Sgombro
• Acciughe
• Sardine
• Ricciola
• Salmone
• Trota
La vita di Gianni Caproni, oltre a distinguersi per la straordinarietà degli incontri e delle invenzioni, dei viaggi e degli esperimenti, fu caratterizzata anche da tutta una serie di sconfitte, come quella del 1913, quando il Ca. 18 non vinse il primo concorso militare tricolore, e l’azienda fu acquistata dallo Stato italiano. Gianni Caproni non si arrese, e per primo al mondo cominciò a lavorare al concetto dei trimotori che avrebbero poi portato allo sviluppo dei bombardieri. Inizialmente il problema principale, infatti, era rappresentato dai motori, nati per motociclette e automobili. Ma laddove quando si ferma una macchina, basta ripartire, l’aereo Caproni aveva compreso che i mo-
Colomba
Pistacchio & Nocciola
Balocco
Scaldate il forno ad aria calda a 180 °C. Dimezzate le cipolle e tagliatele a spicchi. Tagliate a metà le patate più grosse. Spazzolate bene le carote, dimezzatele per il lungo o tagliatele in quattro parti secondo la grandezza. Mescolate le carote con le foglie di alloro, la paprica e la metà dell’olio. Condite con sale e pepe. Tamponate bene il pesce. Spennellate le trote con il resto dell’olio, salate e pepate all’interno e all’esterno. Sistemate le verdure e le trote in una teglia foderata con carta da forno. Cuocete in forno per ca. 30 minuti.
750 g Fr. 10.95
tori normali erano troppo pesanti per il volo, e quindi era necessario progettarne di appositi per gli aeroplani, con materiali diversi che garantissero sicurezza e leggerezza; inserì quindi più motori all’interno di ogni apparecchio, così da permettere, nel caso di arresto di un motore, che l’aereo continuasse a volare. «Nonostante l’innovatività del progetto, lo Stato italiano decise di non investire nello sviluppo di quegli aerei, per cui intorno a mio nonno si creò una cordata di personalità che non lo sostennero solo economicamente, ma che cercarono anche di esercitare influenze politiche e relazionali», spiega Meazzini. L’operazione si rivelò un successo (con tutte le cautele del termine), tanto che durante il Primo conflitto mondiale oltre all’Italia, gli aerei Caproni furono impiegati anche da Inghilterra, Francia e USA. E proprio gli Stati Uniti, i cui primi cadetti furono mandati a formarsi nella scuola di Caproni a Foggia (scuola appartenente all’esercito italiano e nata in seguito a un accordo preso tra quest’ultimo e il governo degli Stati Uniti) sotto l’egida di Fiorello La Guardia (storico sindaco di New York e senatore), gli riconobbero il merito di avere gettato le basi dell’aeronautica: fu per questo che sotto la presidenza Roosevelt la fotografia dell’ingegnere finì appesa nello Studio Ovale della Casa Bianca, accanto a quella dei
L’uovo Dessert Balocco
750 g Fr. 11.95
Oltre alla caparbietà, continua il nipote (che ha fatto dello studio delle gesta del nonno materno quasi una missione, cercando di tenerne viva la fervida memoria), Caproni aveva dalla sua anche una moglie incredibile,
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In vendita nelle maggiori filiali Migros
I marrons glacés con meno zuccheri
Novità ◆ I marrons confits non glacés della Sandro Vanini regalano un’esperienza gustativa unica
Accanto agli storici marrons glacés della Sandro Vanini in scatola e in vasetto, da questa settimana sugli scaffali della Migros i fan delle castagne candite potranno trovare – per un periodo limitato – anche la variante non glacés. Questa specialità si distingue
Marrons Confits
Non Glacés
Sandro Vanini
102 g Fr. 8.60
In vendita fino a esaurimento dello stock
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«Non voglio fare la doccia!»
A scuola ◆ Lavarsi dopo la lezione di educazione fisica può diventare motivo di tensione e ansia per alcuni allievi Le posizioni delle autorità scolastiche e di Giacomo Nobile, presidente dell’Associazione pediatri della Svizzera italiana
Romina
Borla
Il giovedì Liam non vuole andare a scuola. Mai. «È un giorno terribile», dice ai genitori. Spesso il bambino – in terza elementare – lamenta mal di testa o mal di pancia inesistenti. È una lotta convincerlo a mettersi lo zaino in spalla e salire sull’autobus. Il motivo? La lezione «lunga» di ginnastica, dopo la quale è prevista la doccia in comune. Anche Andrea, che ha qualche anno in più, non ama la lezione di educazione fisica. «Non mi piace stare senza vestiti davanti agli altri», racconta. «Non è carino, specie a quegli altri che dicono cose e ridono». Senza contare l'esperienza di Licia: incursioni dei «maschi» negli spogliatoi delle «femmine» (e viceversa) che mettono a disagio.
I docenti di educazione fisica possono dunque consentire, a chi lo desidera, di indossare un costume da bagno o di anticipare/posticipare il momento della doccia
Insomma, un momento che molti vivono in maniera naturale, senza pensieri, può diventare motivo di tensione e ansia per altri. Perché non sempre il confronto con i compagni è facile (specialmente se non è media-
to da social e filtri vari). Perché non siamo tutti uguali. Chi scrive ritiene necessario tenere conto delle diverse sensibilità, rispettarle. Prestare attenzione al disagio di ognuno cercando delle soluzioni ad hoc. Ma cosa succede negli istituti del Cantone? Qual è la posizione delle autorità scolastiche?
«In Ticino leggi e regolamenti scolastici non menzionano né l’obbligo né il divieto della doccia dopo le ore di educazione fisica, tantomeno prescrivono nei dettagli come sia opportuno lavarsi». A dirlo è Alejandro Arigoni, coordinatore del gruppo degli esperti di educazione fisica delle scuole dell’obbligo. «Il Piano di studio in vigore intende comunque favorire un’educazione che porti bambine e bambini a prendersi cura, tra le altre cose, dell’igiene personale. La sana abitudine di lavarsi dopo lo sport va inserita in questo contesto e dovrebbe essere trasmessa anche in famiglia o nell’ambito di attività svolte nel tempo libero». Il rispetto delle sensibilità individuali resta fondamentale, sottolinea il nostro interlocutore: «Le docenti o i docenti di educazione fisica possono dunque consentire, a chi lo desidera, di indossare un costume da bagno o di anticipare/posticipare il momento della doccia per garantire una maggiore intimità. Nessuno può essere obbligato a spogliarsi da-
vanti ad altre persone se questo causa disagio». Per Arigoni questi accorgimenti vanno però considerati come soluzioni temporanee e affiancate a un progetto educativo «che consenta con il passare del tempo di superare queste difficoltà e i possibili commenti insensibili».
Nel corso dello sviluppo – continua il nostro interlocutore – possono insorgere questioni di confronto tra pari e di accettazione di sé, della propria fisicità. «Ma il corpo non è qualcosa di cui vergognarsi. È importante che scuola e famiglia promuovano un’educazione all’igiene, all’affettivi-
tà e all’accettazione di sé. Che siano concordi nell’affrontare gli eventuali problemi trovando soluzioni, piuttosto che cercando di evitarli, come ad esempio ricorrendo alla dispensa dalla doccia dopo la ginnastica».
Dal canto suo il presidente dell’Associazione pediatri della Svizzera italiana, Giacomo Nobile, sottolinea l’importanza di non forzare i tempi: «Nel momento in cui un bambino, o un ragazzo, si trova a dover mostrare il proprio corpo nudo agli altri possono nascere timori e pudori che vanno considerati e accolti, non imponendo nulla e soprattutto rispettando la
tempistica del bambino. C’è chi impiega più tempo a sentirsi bene nella propria pelle…». In ogni caso è necessario interrogarsi sul motivo del disagio, dice l’esperto. A volte l'origine del problema sta nel gruppo (commenti scherzosi, bullismo ecc.), altre nel contesto famigliare. Sono molti gli aspetti da considerare: ad esempio la questione dell’autostima, le motivazioni culturali o religiose.
«Un buon rapporto con il proprio corpo e con l’immagine di sé comincia da subito, dai primi anni di vita», aggiunge Nobile. «Nell’ambito famigliare il bambino impara a conoscersi dapprima coccolato e accudito dai genitori poi giocando, facendo i capricci, copiando atteggiamenti e comportamenti di mamma e papà, sfogandosi al parco giochi, sbucciandosi un ginocchio. Riceve complimenti e osservazioni che (si spera) ne aumentano l’autostima ma anche indicazioni – i limiti – che lo educano. Il bambino impara nel tempo a gestire in modo sano il proprio corpo e ad accettarsi così come è, superando le prime frustrazioni che possono insorgere. È un percorso certo mai banale, ben conosciuto da tutti i genitori. Con una bella e sana immagine di sé sarà poi più facile confrontare la propria fisicità con i coetanei e vivere la doccia dopo l’attività fisica con serenità».
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Genitori che collaborano anche nella separazione
Famiglia ◆ Da gennaio è attivo un nuovo servizio dell’Associazione genitori nell’accudimento pensato per accompagnare la coppia nel processo di separazione, ne abbiamo parlato con i responsabili
Alessandra Ostini Sutto
La separazione e il divorzio comportano dolore e smarrimento, sia per i figli sia per i genitori, i quali spesso faticano a gestire emotivamente la situazione e dunque a mantenersi sereni nel proprio ruolo genitoriale. Dal canto loro, i bambini subiscono le conseguenze negative del conflitto che osservano – o quantomeno avvertono – tra i genitori. Una situazione che è realtà per circa 500 bambini ogni anno in Ticino, mentre, più in generale in Svizzera, a fallire sono mediamente due matrimoni su cinque.
Per provare a essere d’aiuto in tale situazione AGNA (l’Associazione genitori nell’accudimento, nata nel 2005 proprio per offrire sostegno alle famiglie in fase di separazione e divorzio) ha messo a punto un progetto di «accompagnamento alla separazione collaborativa».
In Svizzera falliscono mediamente due matrimoni su cinque, i genitori spesso si sentono impreparati riguardo ai primi passi da intraprendere per affrontare il cambiamento Idea del nuovo servizio – che gode del sostegno del Dipartimento della sanità e della socialità – è quella di «accompagnare», appunto, i genitori nel processo di separazione, facendo in modo che trovino loro stessi una soluzione per la propria situazione, la quale assicuri relazioni regolari tra entrambi i genitori e i figli, una gestione ottimale e condivisa dei tempi di accudimento e una gestione sostenibile dei mezzi finanziari. «All’inizio la maggior parte dei genitori non ha una visione chiara delle responsabilità e dei doveri che gli competono, in particolare per l’accudimento dei figli» afferma Pietro Vanetti, presidente di AGNA. Quello di cui hanno bisogno in questa fase è capire in modo concreto come affrontare il cambiamento e, soprattutto, da dove cominciare: «Si sentono impreparati e “ignoranti” riguardo i passi da intraprendere. I consigli dei conoscenti, quando riescono a parlarne con qualcuno, non sempre sono d’aiuto, creando spesso altri dubbi e paure», aggiunge Rudy Novena, coordinatore e segretario di comitato di AGNA.
Un percorso pensato per gradi
Il progetto di accompagnamento alla separazione collaborativa è un percorso per gradi. Il primo coincide con una serie di serate di informazione e sensibilizzazione, organizzate in modo da coprire le principali regioni del Cantone, che ha preso avvio alla fine di gennaio. Durante i singoli incontri una coppia composta da un avvocato e uno psicologo informa i partecipanti sulle procedure giuridiche e gli aspetti psicologici che è bene conoscere prima di rivolgersi alle autorità competenti, ponendo al centro dell’attenzione gli aspetti emozionali dei vari membri della famiglia. Obiettivo delle sessioni è, infatti, rendere i genitori consapevoli delle esigenze dei figli e dell’importanza di riuscire a procedere con rispetto reciproco per salvaguardare il benessere dei minori
in questa sensibile fase della loro vita. «Quando gli adulti riescono a riconoscere il loro ruolo genitoriale anche durante e dopo la separazione e a tenere distinte le difficoltà emotive di una coppia che si separa dal rapporto di genitori verso i loro figli, questi ultimi hanno modo di affrontare il processo di trasformazione della loro famiglia, senza sentirsi abbandonati a sé stessi», spiega Novena.
Il progetto – per chi lo vorrà – potrà poi proseguire con delle consulenze, individuali o di coppia, nell’ambito delle quali approfondire il proprio caso da un punto di vista legale e psicosociale. In questa fase, grazie al modello MU©K – uno strumento informatico che ha il pregio di favorire la mediazione e il reciproco riconoscimento di bisogni e capacità economiche – sarà anche possibile fare una stima degli oneri di accudimento e capire quindi concretamente cosa significa separarsi.
Dopo queste fasi iniziali, AGNA prevede di offrire un aiuto nella redazione della convenzione per la suddivisione dell’accudimento e degli oneri finanziari da presentare alla Pretura o all’Autorità di protezione, che avranno quindi il vantaggio di dover valutare la plausibilità di un documento condiviso e che tiene conto dei parametri della legge vigente.
Un lavoro di rete
AGNA intende inoltre promuovere, con un lavoro di rete, dei cicli di interventi multidisciplinari a sostegno delle situazioni difficili, in modo da poter raggiungere anche in questi casi l’obiettivo ultimo del percorso di accompagnamento, ovvero la gestione quotidiana della separazione con una condivisione concreta della genitoria-
lità, secondo i tempi di accudimento e i mezzi finanziari predisposti.
«Sul territorio sono presenti molti servizi di consulenza, mentre il nostro è un servizio di accompagnamento: non ci “limitiamo” a consigliare il da farsi, aiutiamo attivamente a concretizzare il concetto», afferma il presidente di AGNA, associazione che, per arrivare a questo risultato, ha studiato metodologie collaudate, in particolare il «modello Cochem», quello australiano e il più recente consensus-parental, attualmente implementato in Vallese, dove gli incontri di orientamento sono un passaggio obbligato per accedere alla procedura di divorzio o separazione presso le istituzioni.
Già prima del servizio di separazione collaborativa, gli operatori di AGNA erano – e sono tuttora – a disposizione delle famiglie per mezzo dello Sportello di consulenza legale-psicosociale. Attivato nel 2007, lo sportello mira ad aiutare – gratuitamente, grazie al contributo del Cantone e alla generosità di soci, aziende e sponsor privati – i genitori in difficoltà di relazione con i propri figli a causa di una separazione o un divorzio. Dato che, in questa attività di supporto alle famiglie, si è constatato come la causa principale di lite sia il calcolo per determinare il contributo di mantenimento, al primo sportello ne è stato aggiunto un secondo, che si serve del già citato MU©K, un metodo per il calcolo di tale onere secondo la modifica del Codice civile svizzero del 20 marzo 2015, in vigore dal 1° gennaio 2017. «I nostri servizi non vogliono sostituirsi agli incontri di mediazione familiare; costituiscono una prima accoglienza il cui scopo è quello di illustrare le procedure dal punto di vista legale e gli aspetti emotivi e psicologici relativi ai
membri della famiglia, in particolare ai figli, senza tuttavia entrare nello specifico ma restando piuttosto sul quotidiano e occupandosi poi di indirizzare verso i più indicati servizi e specialisti presenti sul territorio», aggiunge Novena.
La custodia alternata sempre più diffusa
Nell’ambito della delicata e sensibile tematica della separazione, è in atto una tendenza che vede sempre più genitori desiderosi di esercitare in modo paritario e condiviso la responsabilità verso i propri figli. In realtà è da oltre 40 anni che si fa ricerca a livello internazionale sulla custodia alternata e la positività dei risultati ha contribuito ad accrescere la diffusione di tale modello in un numero sempre maggiore di Paesi. «Con la custodia alternata i genitori sono investiti di pari responsabilità nella cura, nell’educazione e nel mantenimento dei figli. Il modello prevede infatti che i bambini vivano alternativamente con la madre e con il padre, trascorrendo le giornate e il tempo libero con entrambi», spiega il presidente dell’associazione, da sempre a favore della bi-genitorialità. Anche in Ticino, seppur l’affido esclusivo resti ampiamente dominante, la custodia alternata sta diventando per sempre più genitori un’ipotesi da valutare. Ipotesi che peraltro, dopo la riforma legislativa entrata in vigore nel 2017, su richiesta di un genitore, e anche di un figlio, l’autorità competente in caso di divorzio o di separazione ha il dovere di esaminare nell’ottica del benessere del minore. Un ulteriore passo nella direzione della bi-genitorialità è stato compiuto lo scorso 25 settembre dalla Camera del popolo, la quale ha approvato una
Il progetto di AGNA pone al centro dell’attenzione il benessere dei figli e gli aspetti emozionali dei vari membri della famiglia (Freepik.com)
mozione del consigliere nazionale del Centro Marco Romano che chiedeva che, «per favorire il benessere dei figli, questi ultimi dovrebbero poter beneficiare, di principio e in modo paritario, della cura ed educazione da parte di entrambi i genitori nel rispetto del principio di uguaglianza giuridica così come è già la regola per l’autorità parentale congiunta». Si attende ora la decisione degli Stati. Nel frattempo, lo psicologo Simone Banchini, che per AGNA si occupa dello Sportello legale-psicosociale, esprime alcune riflessioni riguardo alla mozione di Marco Romano: «L’autorità parentale congiunta è un diritto dei genitori, mentre la cura e l’educazione sono un dovere che essi devono poter esercitare. Dunque, il significato di “in modo paritario” non deve essere interpretato solo nei tempi a disposizione dei due genitori (50/50), anche perché i loro ruoli, siano essi il padre o la madre, differiscono sostanzialmente. È bene tener presente che nell’educazione le ricette non esistono, avendo a che fare con delle persone: quello che era giusto per mio figlio può essere sbagliato per il tuo, quello che era giusto per il mio primo figlio può essere sbagliato per il secondo, quello che era giusto ieri può essere sbagliato domani. La cosa migliore sarebbe quindi che il padre e la madre – siano essi uniti o separati – riconoscano sempre la centralità delle esigenze del figlio e optino per delle scelte e dei comportamenti nell’ottica del suo futuro, più che del loro presente».
Informazioni
www.agna.ch I prossimi incontri sulla separazione collaborativa si terranno il 5 marzo a Locarno e l’11 marzo a Bellinzona.
Settimanale di informazione e cultura Anno LXXXVII 26 febbraio 2024 azione – Cooperativa Migros Ticino 7 SOCIETÀ
Mantenersi attivi migliora la qualità di vita
Anziani ◆ Pro Senectute Ticino e Moesano propone degli incontri animati da Damiano Zemp, esperto di attività fisica adattata
Stefania Hubmann
Non è mai troppo tardi per incominciare a muoversi e soprattutto non bisogna mai smettere. L’attività fisica regolare è benefica per ogni individuo ma diventa determinante soprattutto per le persone anziane, poiché contribuisce a mantenere l’autonomia grazie ai suoi effetti positivi sul fisico, sulla mente e sulle relazioni sociali. Per spronare questa fascia della popolazione a svolgere un’attività motoria, Pro Senectute Ticino e Moesano ripropone nei prossimi mesi, in collaborazione con diversi Comuni ticinesi, una serie di incontri animati da un esperto di attività fisica adattata. Promosse dal Dipartimento della sanità e della socialità con il sostegno di Promozione Salute Svizzera, le conferenze pomeridiane, oltre a spiegare quali sono gli effetti dell’attività fisica sull’organismo, presentano le offerte in questo ambito disponibili sul territorio. A essere invitati a partecipare agli incontri sono in particolare gli anziani più fragili, con bisogni specifici legati a una disabilità o a malattie croniche, ossia proprio coloro che in generale pensano che l’attività motoria non sia opportuna nelle loro condizioni.
Il volantino di presentazione degli incontri punta a suscitare curiosità e a evidenziare alcune connessioni non sempre scontate. «Ho due dottori, la mia gamba destra e la mia gamba sinistra» è per esempio il titolo del-
la presentazione iniziale di Damiano Zemp, dottore in scienze, esperto di attività fisica adattata che collabora con il Servizio di Geriatria e di Neurologia dell’Ente Ospedaliero Cantonale, dove si occupa in particolare di prevenzione delle cadute. È lui lo specialista che anima gli incontri, accogliendo le domande dei presenti i quali possono così condividere la loro esperienza e ricevere preziosi consigli. Ad attirare l’attenzione dei potenziali interessati sono anche alcuni interrogativi: «Lo sapevi che… Il miglior allenamento per il cervello è il movimento? Chi si muove di più cade di
meno? Il Ticino ha un’ampia offerta di attività fisica adattata?». Rimaniamo su quest’ultimo concetto proprio con Damiano Zemp: «L’attività fisica corrisponde a qualsiasi tipo di attività motoria che richiede un consumo energetico maggiore rispetto allo stare seduti a leggere. Vi sono attività a bassa intensità (l’uscita serale con il cane, le pulizie di casa, il giardinaggio) e altre a intensità medio-alta. Fra queste il salire due o tre rampe di scale, una passeggiata di 30-60 minuti e la ginnastica di gruppo». Quali le specificità dell’attività fisica adattata? Risponde lo speciali-
sta in scienze motorie: «In questo caso i contenuti come pure la metodologia di insegnamento e accompagnamento vengono adattati alle situazioni delle singole persone. Ciò permette a tutti, indipendentemente dall’età e dallo stato di salute, di sfruttare al meglio le proprie risorse». Damiano Zemp si sofferma pure sui tre livelli (fisico, mentale, di stato d’animo) che traggono vantaggio dall’assicurare con regolarità al nostro corpo l’adeguato movimento. Precisa al riguardo: «L’attività fisica regolare permette, come dimostrano diversi studi scientifici, di contrastare in modo efficace la perdita di massa muscolare, la diminuzione delle capacità motorie, la riduzione delle prestazioni cognitive e il calo dell’umore».
no sul territorio il contatto diretto con l’utenza». Le conferenze sono gratuite sia per i partecipanti, sia per i Comuni che le ospitano nell’ambito del progetto «Comuni promotori dell’invecchiamento in salute». Da segnalare, nell’ambito del medesimo progetto, anche i pomeriggi organizzati con l’associazione Pipa per prevenire il rischio delle cadute.
Numerose le possibilità per la popolazione anziana ticinese di «allenarsi» in compagnia sotto la guida di monitori formati nello Sport degli adulti. Pro Senectute Ticino e Moesano propone in diversi Comuni corsi relativi a cinque discipline (acqua-fitness, fitness e ginnastica con prevenzione delle cadute, nordic walking/ walking, danze, varie forme di ginnastica dolce). Tutti sono ben frequentati con un totale complessivo di circa 2500 partecipanti sull’arco di un anno. Si sale inoltre a circa 4000 iscritti considerando anche le lezioni di ginnastica dolce organizzate nei centri diurni assistenziali. «La fascia dei giovani anziani è più attiva e motivata, partecipa alle conferenze e condivide con fierezza il proprio impegno in questo tipo di attività», spiega Sibilla Frigerio Zocchetti, responsabile Corsi Formazione e cultura, Sport e movimento e Vacanze di Pro Senectute Ticino e Moesano. «La sensibilizzazione sul tema del movimento avviene costantemente nei gruppi, incluse le proposte gestite dai centri diurni – precisa la rappresentante di Pro Senectute – mentre gli incontri con l’esperto sono un’azione mirata inserita nel Programma d’azione cantonale, un’iniziativa sostenuta da Promozione Salute Svizzera sull’arco di tre anni (2022-2024) che tocca anche altri aspetti della vita in età avanzata. Si tratta di un importante lavoro in rete che sfrutta al meglio la collaborazione fra le istituzioni e gli enti che come Pro Senectute assicura-
Incontri con l’esperto
Cugnasco-Gerra: martedì 12 marzo, 14.30–16.00 al centro professionale e sociale (via Terricciuole 1).
Tel. 079 354 07 27 (Luisella), email: anzianicg@bluewin.ch
Riva San Vitale: martedì 26 marzo, 14.00-16.00 al Centro diurno di
Pro Senectute. Tel. 091 630 59 30, email: cdsa.rivasanvitale@prosenectute.org. Massagno: mercoledì 17 aprile, 14.00-16.00 al Salone Cosmo sotto il cinema Lux. Tel. 091 960 40 40, info@girasolemassagno.ch
Prevenzione cadute (con associazione PIPA e Atte Telesoccorso)
Castel San Pietro: giovedì 18 aprile, 15.00-16.30 nella sala Bettex.
Tel. 079 616 78 71, email: giovanna. pettenuzzo@acdmendrisiotto.ch
Val Mara-Melano: martedì 30 aprile, 15.00-16.30, nella sala del Consiglio Comunale di Melano. Tel. 091 648 28 56, email: sociale@valmara.ch
I corsi proposti da Pro Senectute rappresentano un’offerta strutturata che completa quanto il singolo compie in privato (passeggiata, giardinaggio), ponendo l’accento sul rinforzo muscolare e l’equilibrio. Sibilla Frigerio Zocchetti: «I corsi dedicati al movimento sono ben frequentati e apprezzati. Ogni proposta favorisce, oltre al benessere fisico, la socializzazione, assicurando anche un accompagnamento per poter proseguire lo svolgimento di alcuni esercizi al domicilio».
Gli anziani di oggi come reagiscono alle sollecitazioni dell’esperto sui benefici dell’attività fisica? Risponde Damiano Zemp: «In genere i partecipanti agli incontri mostrano che sono già attivi e chiedono consigli in caso di dolori e situazioni post traumatiche. A tutti suggerisco in primis di variare le attività e di “sprecare” i passi, ossia aggiungere ad esempio una rampa di scale o prendere il bus alla fermata successiva. Molti anziani non sono consapevoli che l’attività corporea si ripercuote anche su quella cerebrale. Le conseguenze non concernono solo la memoria, ma pure le funzioni decisionali che determinano ad esempio il nostro modo di affrontare un ostacolo, anticipando i rischi. Anche movimenti basilari come quelli necessari per vestirsi necessitano risorse cognitive. Se pensiamo poi alle varie forme di demenza, dobbiamo tenere presente che la metà dei fattori di rischio sono di natura fisica. Poche persone però pensano che per prevenirle devono camminare». A dipendenza del Comune nel quale avviene l’incontro, Damiano Zemp informa sulle proposte presenti nella zona, evidenziando pure i benefici derivanti dalle pratiche condivise durante le quali i monitori non mancano di sfruttare l’aspetto ludico in quanto fattore stimolante. Monitori e volontari sono appositamente formati e accompagnati dagli enti per i quali prestano servizio, assicurando una presa a carico adeguata degli utenti.
Con il messaggio «Ogni passo conta» gli incontri su Movimento e benessere invitano quindi gli anziani a essere volonterosi e a cogliere l’occasione per capire con l’aiuto di uno specialista che si è sempre in tempo a iniziare un’attività motoria e a scoprire nuove modalità di praticarla. Lo scorso gennaio il quarto rapporto parziale del Monitoraggio nazionale sull’anzianità, condotto per conto di Pro Senectute Svizzera, ha confermato che il mantenersi attivi a tutti i livelli è determinante per la qualità di vita in età avanzata, evidenziando la relazione fra attività per il tempo libero e prestazioni cognitive. Un dato significativo dello studio è proprio l’elevato numero di intervistati piuttosto passivi nella prima parte della loro vita che si impegnano a recuperare con costanza queste attività durante la terza età. Un segnale incoraggiante per le persone di ogni età.
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Per il bene delle articolazioni
Medicina ◆ La Lega Reuma svizzera punta sulla prevenzione delle malattie articolari attraverso il movimento
Maria Grazia Buletti
«Per il bene delle Sue articolazioni» è l’opuscolo della Lega svizzera contro il reumatismo, fresco di pubblicazione, che illustra come funzionano le nostre articolazioni, spiega perché hanno bisogno di fare molto movimento e perché è importante avere una muscolatura forte. A complemento di nozioni di anatomia, particolare attenzione è data pure a come bisogna sollecitarle, siano esse sane o ammalate. 32 pagine con consigli, strategie da mettere in atto per avere articolazioni sane sulla base di cinque principi così riassunti nella presentazione del vademecum: «Caricare le articolazioni secondo l’asse, modificare la posizione del corpo, ridurre l’impiego della forza, dosare l’energia, allenare la forza muscolare e la mobilità».
Ben descritti nelle pagine di chiara lettura adatte a tutti, i cinque aspetti sulla salute delle articolazioni sono trasformati in veri e propri consigli pratici legati alle attività quotidiane, spiega l’ergoterapista autrice del testo Natalie Georgiadis: «Per noi era importante motivare le lettrici e i lettori a integrare la protezione delle articolazioni nella quotidianità. Charlie, il nostro simpatico cartone, invita a riflettere sul proprio comportamento e presenta i cinque principi in modo semplice e divertente».
Dovremmo svolgere
i compiti in diverse tappe, fare pause, adottare posizioni di scarico e fare esercizi di rilassamento
Portiamo ad esempio il primo principio che si basa sul carico delle articolazioni, con la cura di esercitarlo «secondo l’asse»: «Consente di proteggerle da forze di trazione e compressione nocive, anche se nella vita di tutti i giorni non è sempre facile lavorare nella posizione corretta: molti dei tipici movimenti flettono l’asse ideale, sovraccaricando e, quindi, danneggiando l’articolazione in questione». Le illustrazioni mostrano ad esempio come caricare il peso sulle dita per spremere un flacone di miele, o in quale posizione vanno tenuti pollice e indice per estrarre una compressa dal blister, così come indicano la tecnica adeguata per strizzare un panno senza sollecitare troppo polso e dita, segnalano la posizione ideale della nuca mentre guardiamo il cellulare e quella corretta della schiena quando solleviamo oggetti pesanti.
Si raccomanda pure di modificare la posizione del corpo variando spesso la postura e concedendoci brevi pause da trascorrere in posizione di scarico: «Così si evita di sovraccaricare la muscolatura, mentre il movimento mantiene fluido il liquido sinoviale e lo pompa nella cartilagine nutrendola e mantenendola in salute». Ridurre l’impiego della forza con specifiche strategie limita l’impatto sulle articolazioni, senza dimenticarsi di dosare l’energia: «Distribuire razionalmente le sollecitazioni nel corso delle giornate aiuta a proteggere le nostre articolazioni. Allora, nella routine quotidiana svolgiamo i compiti in diverse tappe, inseriamo pause, posizioni di scarico ed esercizi di rilassamento».
Infine, ottimo allenare la forza muscolare e la mobilità, «un principio che affronta il circolo vizioso creato da posizioni antalgiche, dolore e usura delle articolazioni». Dal canto suo, il reumatologo Mauro Lucini,
presidente della Lega ticinese contro il reumatismo, sottolinea l’importanza di raggiungere il maggior numero possibile di persone con questo opuscolo semplice ed esaustivo: «L’intento è di informare tutta la popolazione sul concetto di prevenzione. Vale a dire: permettere di acquisire strumenti e stile di vita consoni che aiutino a non ammalarsi». Egli ribadisce come questo sia essenziale su tutti i fronti e ancor più in reumatologia: «Le malattie reumatiche sono spesso legate a comportamenti inappropriati reiterati nel tempo: alimentazione, postura, mancanza di movimento adeguato».
La divulgazione preventiva sui comportamenti consoni a preservare la salute delle nostre articolazioni il più a lungo possibile, assume quindi un significato ancora più nobile: «Bisogna ricordarsi che fare prevenzione significa ridurre idealmente il più possibile i fattori di rischio, e ciò vale anche nelle problematiche legate alle articolazioni. Inoltre, tecniche, consigli su come muoversi, come prevenire certi dolori, come usare mezzi ausiliari, come restare nella corretta posizione al lavoro, oltre che di prevenzione, rappresentano possibilità di cura quando la malattia reumatica è presente in modo più o meno invalidante».
Per questo, il reumatologo Mauro Lucini reputa «completa sotto tutti i punti di vista» la guida edita dalla Lega svizzera contro il reumatismo, a suffragio di quanto evidenziato dall’ergoterapista Georgiadis: «In caso di infiammazione cronica delle articolazioni è molto importante adottare modelli di movimento e di carico che limitano le sollecitazioni, e chi intende proteggerne salute e mobilità deve conoscere la loro anatomia e il loro funzionamento».
In salute o meno, le nostre articolazioni necessitano di movimento costante, e a questo proposito un’esortazione accorata giunge sempre dal dottor Lucini: «La mancanza di allenamento predispone a certi dolori anche perché la muscolatura non allenata e non sufficientemente forte può rendere le articolazioni più instabili e favorire artrosi e relativi dolori, oltre che essere un fattore di rischio per incappare in qualche infortunio».
D’altra parte, anche il movimento è prevenzione: «Fatto bene e corret-
tamente, con ginnastica idonea e personalizzata come quella proposta anche dalla Lega contro il reumatismo, rappresenta certamente un mezzo per ridurre i dolori e migliorarne la funzionalità articolare, permettendo di sentirsi bene sul medio e lungo termine. Senza dimenticare che preve-
nire i dolori significa anche poter evitare di ricorrere al medico».
Il movimento, però, in netto contrasto con la sedentarietà, deve essere svolto in modo consono «anche e soprattutto se ci sono dolori articolari. L’attività fisica deve essere svolta con regolarità e deve essere adeguata
alle condizioni della persona; spesso diciamo di non spaventarsi se all’inizio, svolgendo attività che non si sono mai fatte, si sente qualche dolore, perché bisogna sapere che sul medio e lungo termine il movimento adeguato e personalizzato comporterà solo vantaggi».
Lo specialista ribadisce che l’attività fisica va sempre favorita: «Chiaramente, soprattutto se la persona non è abituata, va svolta con l’accompagnamento di figure che insegnino come, quanto e in che modo muoversi, perché altrimenti può essere negativa come quando, ad esempio, ci si sottopone a sovraccarichi». Per questo, fisioterapisti ed ergoterapisti accompagnano le persone nei corsi di ginnastica della Lega contro i reumatismi, «insegnando quegli esercizi personalizzati che poi devono essere svolti anche a casa regolarmente».
Un ultimo e utile consiglio: «Seguiti dalle figure professionali, bisogna ricordarsi che muoversi contrastando il dolore non comporta niente di grave, ma permette un’evoluzione favorevole più rapida».
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Disponibile in tedesco, francese e italiano, la guida Per il bene delle Sue articolazioni può essere ordinata gratuitamente su www.rheumaliga-shop.ch, o scaricata in pdf.
Settimanale di informazione e cultura Anno LXXXVII 26 febbraio 2024 azione – Cooperativa Migros Ticino 9 SOCIETÀ
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Tantissima informazione, pochissima attenzione
Intervista ◆ Che cosa crea i malintesi e i cattivi funzionamenti nella comunicazione? Parla il saggista Gabriele Balbi
Carlo Silini
Esiste una comunicazione perfetta? No. La risposta di Gabriele Balbi, professore in media Studies presso l’istituto di Media e Giornalismo (IMeG) all’interno della facoltà di Comunicazione, Cultura e società dell’USI di Lugano, è secca e convinta. Ne fa stato anche il suo ultimo libro, Comunicazione imperfetta, scritto a quattro mani con Peppino Ortoleva. Balbi è autore di parecchi saggi sul mondo dell’informazione contemporanea e sui suoi aspetti più controversi e nascosti. Ad esempio sulle insidie e sulla mitizzazione del mondo digitale. In questo saggio, invece, propone una teoria della comunicazione alternativa a quelle tradizionali. Che parte da una constatazione inquietante: «Gli effetti della troppo o della troppo scarsa comunicazione sono gli stessi: l’invenzione del falso».
Professor Balbi, di cosa parlate nel vostro saggio?
Ci sono teorie che sostengono che se vuoi influire sulla comunicazione devi centrare il bersaglio, e questa è una delle metafore più comuni per chi fa comunicazione. Oppure, all’opposto, altre teorie dicono che un essere umano non può mai comunicare bene perché c’è una incomunicabilità di fondo; quindi, le persone non possono capirsi a prescindere.
Noi ci siamo detti: facciamo un libro che contrasti sia un’idea sia l’altra, cercando di costruire quella che abbiamo chiamata mappa con quattro regioni, identificate da altrettante domande: che cosa crea il malinteso? Che cos’è il malfunzionamento?
Perché sovrabbondanza e scarsità di informazione creano dei problemi?
Perché il silenzio è problematico, o multi-semantico?
La comunicazione è la chiave del successo politico, in particolare quando ricorre a schemi di narrazione molto semplificati ma efficaci, magari perché martellano in continuazione gli stessi slogan. Sarebbe questa la comunicazione perfetta? Direi di no. Noi parliamo di comunicazione politica da vari punti di vista. La domanda ha a che fare con sovrabbondanza e scarsità.
Ovvero?
Una delle tecniche per tentare di limitare il grande sovraccarico informativo di oggi è quello di semplificare la comunicazione. Con il problema che così la si rende anche semplicistica. Anche perché in genere vi è una polarizzazione. Le piattaforme social sono spesso fatte per polarizzare con i loro «like», per esempio. Poi c’è il problema della scarsità dell’attenzione.
A cosa si riferisce?
Mi riferisco al fatto che viviamo in un contesto in cui la merce ormai non è più l’informazione di per sé, visto che ce n’è fin troppa, ma l’attenzione all’informazione. C’è un enorme squilibrio tra la quantità delle notizie e l’attenzione del pubblico. Questo implica una comunicazione sempre più semplice.
Come si fa, allora, in ambito politico a catturare l’attenzione del pubblico?
Una delle prime cose che fanno i regimi durante i colpi di stato è ridurre l’informazione, per esempio oscurando internet. Significa che il politico può volontariamente impedire alla comunicazione di funzionare bene.
Si chiama censura. Senza dubbio. Si censurano alcuni elementi, ma attenzione: sia nel bene sia nel male. Per esempio, chi si opporrebbe alla censura della pedopornografia? Eppure, a rigore, è una tecnica di limitazione dell’informazione libera. Esistono anche dei silenzi, sui segreti di Stato per esempio. Allora ci si trova come davanti a un muro di gomma, e Muro di gomma era il tito-
E se usassimo il timer?
Secondo Balbi «ci sono forme di comunicazione che funzionano perché gli interlocutori si capiscono bene. Ma è vero che in un momento in cui si moltiplicano i soggetti che comunicano – ad esempio coi social – aumenta la quantità di comunicazione che circola anche a livello privato, e questo può creare sempre più malintesi e problemi. Soluzioni non ce ne sono, o meglio, bisogna sapersi adattare a tutte le situazioni elencate. Dobbiamo da un lato adeguarci al mondo comunicativo e dall’altro adeguare a noi la comunicazione. Per esempio: sono stufo di passare ore sui social? Allora li adatto a me e metto un timer perché si spengano dopo un po’. Si tratta, quindi, per ognuno di noi di trovare una propria ricetta personale».
lo del film su Ustica di qualche anno fa. Parlava di un ostinato silenzio politico. In altre parole, per tornare alla domanda, la comunicazione politica utilizza moltissimo l’imperfezione comunicativa, cerca di applicarla volontariamente. E quindi, più che essere perfetta, sfrutta le sue pecche a proprio vantaggio.
Anche nelle fake news che a volte vengono diffuse proprio da ambienti politici?
Una delle cose più interessanti che dice lo studioso Marc Bloch ne La guerra e le false notizie. Ricordi (19141915) e riflessioni (1921) è che uno degli effetti principali di un ambiente con scarsa informazione è la creazione di nuove informazioni. Oggi sembrerebbe vero il contrario. Siamo in un ambiente stracarico di informazioni. Vuol dire che gli effetti della troppo o della troppo scarsa comunicazione sono gli stessi: l’invenzione del falso. Forse però, dal punto di vista pratico, l’effetto più dirompente delle fake news sono i malintesi sociali.
Cioè?
Pensiamo alla notizia uscita nei giorni turbolenti della fine del Governo Trump: nel retro di una pizzeria americana, Hillary Clinton – con una sua setta di pedofili – controlla i destini degli Stati Uniti. È una fake news totale, che però spinge un individuo a introdursi sul retro di questa pizzeria, dove viene uccisa realmente una persona. Individuo che immagina di trovarsi nella pizzeria perché crede sia una notizia vera. Vero che si può parlare di una persona psicologicamente disturbata, ma resta che la creazione di notizie false crea pericolosi malintesi sociali. Che si verificano anche per burla.
Per esempio?
Per esempio, negli anni Sessanta, la BBC ha messo in giro un servizio farlocco che è uscito il primo di aprile. Secondo questa bufala a Lugano, in questa landa assolata al sud della Svizzera, c’erano persone che coltivavano alberi da spaghetti e li mostrano nel servizio. Era uno scherzo, come quello della guerra dei mon-
di di Orson Welles, ma per un certo tempo ha avuto il suo effetto. Dal punto di vista comunicativo questo più che una fake news è un malinteso creato ad arte per divertimento. E i media spesso giocano anche con il proprio pubblico spingendo al limite l’interpretazione che il pubblico può dare. Nel caso dell’arrivo degli alieni annunciato alla fine degli anni Trenta da Orson Welles, gli credettero un milione di persone.
E in tutto questo scenario che ruolo gioca l’intelligenza artificiale? Di solito parlando di intelligenza artificiale pensiamo a ChatGPT, ma ne esistono molte altre forme che vanno dal T9 del telefonino al traduttore Deepl o le app che creano immagini. Il problema dell’IA è che spesso si inventa le cose. Inventa libri che non esistono, articoli scientifici che non ci sono, i quali si basano su dati probabilistici: avrebbe potuto scrivere quel libro o quell’articolo e quindi per ChatGPT è avvenuto. Il focus non è cosa è vero o cosa è falso, ma cosa è probabile. Per questa ragione non sempre l’IA si schiera e prende posizione: è un modello probabilistico e preferisce darti più opzioni senza schierarsi.
Nel libro si parla anche di letteratura. Citiamo Dostoevski che parla dei silenzi; Gadda dei malfunzionamenti. La letteratura è una buona fonte per capire le imperfezioni della comunicazione. Un aspetto che ci pare interessante e che prendiamo da Michel de Montaigne, è che il malinteso in campo comunicativo è per metà dovuto a chi parla, e per metà a chi ascolta.
Il titolo Comunicazione imperfetta vuole essere provocatorio?
Il titolo è stato oggetto di una diatriba infinita con l’editore e con me stesso. Io avrei voluto «La comunicazione è imperfetta», che è il titolo dell’ultimo capitolo. Siamo poi arrivati a questo accordo. Imperfetto è un termine pluri-semantico che però ha un un’origine latina ( perficio) e indica una cosa che è finita e non è finita. L’idea è che non
ci sia una comunicazione giusta o una sbagliata, e nemmeno forniamo la ricetta per quella giusta. L’idea che in realtà vorremmo trasmettere è che, appunto, la comunicazione è imperfetta, perché è sempre aperta e non è mai conclusa. Non a caso nell’ultimo capitolo mettiamo in luce il fatto che noi tentiamo continuamente di rimediare ai nostri errori comunicativi.
Quando?
Mah, per esempio, prima di mandare il messaggio a un nostro capo, facciamo rileggere il testo a un amico. Oppure ricorrendo al correttore automatico prima dell’invio di un documento. O, addirittura, dopo che la comunicazione è partita cerchiamo di rimediare dicendo semplicemente «scusami, non era indirizzato a te». Oppure cercando di smentire quanto abbiamo appena comunicato.
Sì, ma giornalisticamente una smentita è quasi sempre una notizia data due volte Esatto! Il tentativo di smentire può produrre un effetto paradossale opposto. Anche questi temi vengono trattati nel libro: della comunicazione che prende tanti rivoli diversi e che non riusciamo a controllare. Insomma, nell’ambiente comunicativo ci muoviamo tutti con grande difficoltà.
In conclusione, da cosa dipende l’imperfezione comunicativa? A volte dipende dalla materialità. Per esempio, dalla linea telefonica che cade, all’uso di lingue diverse, dai malintesi della comunicazione non verbale che può avere significati diversi a seconda della cultura di appartenenza. Non è nel libro, ma l’anno scorso ho mandato un emoji a un collega cinese con una faccina sorridente e lui ci è rimasto male perché in Cina quel simbolo vuol dire che sei tonto… una delle ragioni principali dei malintesi dipende dal fatto che noi uomini, come animali sociali, tendiamo a sovra interpretare, ad attribuire sempre alle parole e ai comportamenti delle persone una funzione o una ragione. Ma non sempre è così.
Settimanale di informazione e cultura Anno LXXXVI 26 febbraio 2024 azione – Cooperativa Migros Ticino 13 SOCIETÀ
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Voleva accorciare le distanze tra i Paesi Giovanni Caproni, grande protagonista dell’aeronautica internazionale, si distinse per la straordinarietà di incontri, invenzioni e viaggi
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La parte più nobile di qualsiasi animale Di tutte le frattaglie, nessuna ha la valenza anche e soprattutto simbolica che ha avuto nella storia e può ancora avere il cuore
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Disegnare o allenarsi a scrivere le prime lettere: ecco come preparare una lavagnetta sensoriale che i bambini potranno portare ovunque
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Brand e la passione dei giochi collaborativi
Tra il ludico e il dilettevole ◆ Un autentico visionario che ha contribuito alla trasformazione della controcultura americana degli anni 60
Sebastiano Caroni
Stewart Brand è un individuo decisamente fuori dagli schemi, ma è anche una persona che appartiene a coloro che gli schemi, in linea di principio, li creano. Editore, fotografo, organizzatore di eventi, attivista e curatore di idee, l’americano Stewart Brand, classe 1938, ha sempre saputo farsi trovare al posto giusto al momento giusto. Personalità versatile e polimorfa, ha colto con grande tempismo, in diversi momenti della sua carriera, le trasformazioni epocali della nostra società, contribuendo alle tappe decisive che hanno portato la controcultura americana a trasformarsi, nel volgere di qualche decennio, in una cybercultura globale.
Nella seconda metà degli anni Sessanta, Brand fu l’ideatore del Whole Earth Catalog, una sorta di internet ante litteram: un catalogo cartaceo piuttosto voluminoso dove trovavano spazio, senza soluzione di continuità, annunci che presentavano oggetti e strumenti di vario tipo, da quelli per il giardinaggio alle trovate tecnologiche più recenti, così come recensioni di libri, racconti, e articoli più convenzionali. La pubblicazione, il cui primo numero recava, in copertina, una fotografia – oggi diventata iconica – del pianeta terra visto dallo spazio, venne ben presto arricchita da svariati supplementi che ne consolidarono la popolarità celebrando una controcultura intraprendente e autodidatta. In qualità di giornalista e fotografo, all’inizio degli anni Settanta Brand documentò la nascente cultura informatica tanto che, ancora oggi, gli si riconosce la paternità del termine «personal computer» che, in anticipo sui tempi, impiegò nel suo libro Two Cybernetic Frontiers, prefigurando così l’entrata dei dispositivi informatici nelle case degli americani.
Negli anni Ottanta, Brand lanciò, assieme a Larry Brilliant, la comunità virtuale The Whole Earth ’Lectronic Link, meglio nota come WELL Anche in questo caso, il progetto prefigurò lo sviluppo dei network telematici degli anni a venire. La lungimiranza di Brand lo ha poi portato a far parte del gruppo di futurologi che hanno contribuito alla realizzazione del film Minority Report (Steven Spielberg) all’inizio degli anni Duemila.
Personalità di spicco, Brand ha ispirato molti degli artefici dell’attuale società dell’informazione e della comunicazione. Sua è la frase «stay hungry, stay foolish» (un invito a restare affamati e a mantenere la mente aperta) attribuita erroneamente a Steve Jobs ma che, in realtà, Brand scrisse sul retro dell’ultimo numero dell’Whole Earth Catalog quando, a metà degli anni Settanta, decise di porre fine alla pubblicazione per dedicarsi ad altri progetti. Negli anni,
la versatilità di Brand lo portò a collaborare con artisti e operatori culturali di ogni genere, dedicandosi a cause legate all’ecologia, alla valorizzazione delle culture degli indiani d’America e alla promozione della pace. Brand manifestò altresì un interesse per il modo in cui i giochi possono trasformarsi in importanti veicoli estetici ed educativi.
Nella primavera del 1973, su iniziativa della Rhode Island School of Design, fu invitato a parlare della creazione dei NewGames, un’idea che contemplava lo sviluppo di forme di gioco alternative. Faceva caldo quel giorno e, assieme a un gruppo di studenti, un Brand a torso nudo si cimentò in un gioco che poteva includere fino a quaranta giocatori divisi in due squadre che, in ginocchio, facevano rotolare una palla gigante cercando di farla cadere nell’apposito buco scavato dalla squadra rivale.
Sulla scia di questa prima esperienza, nell’ottobre dello stesso anno con alcuni collaboratori Brand organizzò il primo grande torneo dei NewGames in una penisola situata a nord di San Francisco e collegata dal Golden Gate Bridge. Per l’occasione Brand, che aveva letto il saggio Homo Ludens dello storico Johan Huizinga dedicato al gioco, aveva in mente qualcosa di speciale. Per quanto Huizinga avesse messo bene in chiaro che il gioco fosse centrale nella formazione e nel mantenimento di qualsiasi cultura, Brand non mancò di notare come molto spesso i giochi assumono forme antagonistiche che prevedono un vincitore e, di rimando, un perdente.
Lo psicologo Gregory Bateson, che Brand frequentava in quel periodo, lo aveva poi reso attento al fatto che la teoria dei giochi convenzionale non contemplava la possibilità che le regole di un gioco venissero modificate nel corso dello stesso. Fu allora che Brand, ripensando alla propria infanzia, si ricordò che, quando era bambino, cambiava spesso le regole dei giochi al fine di renderli più interessanti. Ma poi, crescendo, si era spesso sentito frustrato se gli adulti lo obbligavano a rispettare le regole. Perché non creare – pensò allora Brand – giochi in cui si potessero cambiare le regole a seconda della necessità del momento? Brand voleva che il torneo dei NewGames creasse le premesse per un nuovo approccio alle pratiche ludiche che non fosse viziato dallo spirito competitivo tipico del capitalismo avanzato.
Il torneo del 1973 riscosse un grande successo. Diverse centinaia di persone accorsero giornalmente e presero parte ai giochi che Brand aveva inventato, come Earth Ball, dove –in modo analogo a quanto già sperimentato in precedenza – due squadre
(Christopher Michel)
spingono una palla gigante a forma di globo avanti e indietro. Nella variante proposta nel torneo, quando il globo si avvicinava alla linea di fondo, alcuni membri della squadra in vantaggio davano mano forte alla squadra in difficoltà, ribaltando così la tendenza e prolungando il divertimento in modo indefinito. In altri casi, si trattava semplicemente di modificare le regole di giochi già in vigore. Chi si cimentava nella pallavolo, per esempio, doveva mantenere la palla in gioco senza farla cadere.
L’evento ottenne anche una buona copertura mediatica, tanto che la nota rivista «Sports Illustrated» pubblicò un approfondimento sugli sport alternativi. Negli anni successivi Brand ripeté l’esperienza con più o meno successo a seconda dei casi, spesso integrandola a eventi dove i NewGames erano affiancati a conferenze, installazioni video, spettacoli stroboscopici o, ancora, concerti rock sperimentali dove si esibivano gruppi quali i Grateful Dead. Nei suoi anni di attività, la fondazione NewGa-
mes ebbe quale compito principale di incoraggiare i valori della creatività, il piacere e la gratificazione, in modo tale che lo spirito dei NewGames si diffuse in stretta connessione con lo sviluppo della controcultura americana. Nel 1985 la fondazione decise di sospendere la propria attività, ma lo spirito dei NewGames lanciati da Brand rimane, a oggi, attivo in un certo numero di organizzazioni che, al paradigma del gioco competitivo, preferiscono l’idea del passatempo educativo e collaborativo.
● ◆ Settimanale di informazione e cultura Anno LXXXVII 26 febbraio 2024 azione – Cooperativa Migros Ticino 15
Stewart Brand era una personalità versatile che si interessava anche ai giochi come esperienza collaborativa.
Il lungo volo del Conte di Taliedo
Itinerari ◆ L’incredibile parabola di Giovanni Battista «Gianni» Caproni, fra i grandi protagonisti dell’aeronautica internazionale e di
Simona Sala
Li miei compagni fec’io sì aguti, / con questa orazion picciola, al cammino, / che a pena poscia li avrei ritenuti; // e volta nostra poppa nel mattino, / de’ remi facemmo ali al folle volo, / sempre acquistando dal lato mancino.
(Dante, Inferno, Canto 26)
Vi fu un tempo (anche piuttosto lungo, a dire il vero) in cui ogni volo che non fosse di uccello o tutt’al più della fantasia, veniva considerato «folle», in un’accezione che però individuava la follia nel desiderio di varcare limiti per loro natura invalicabili, poiché appannaggio del Celeste, di ciò che sta più in alto.
Giovanni Battista Caproni, «Gianni» per la famiglia, quel confine lo sentiva però sin dall’infanzia non come un limite, bensì come uno sprone a raggiungere e superare quelle vette che, in una visione più ampia, avrebbero permesso un giorno di «collegare tutti i Paesi del mondo, trasportando le persone da una parte all’altra e creando così una rete internazionale, cui sarebbero seguite una vera conoscenza e una vera unione di ogni Paese con l’altro; dunque l’aeronautica come strumento per collegare le civiltà». A parlare di un nonno che ha contribuito alla storia dell’Italia recente, per il suo ruolo di precursore, è il nipote Pierfrancesco Meazzini, che gli onori di casa li fa proprio all’ingresso del sontuoso Palazzo Durini, a pochi passi da San Babila a Milano, a suo modo comprimario di una vicenda famigliare strettamente intrecciata con quella di un’intera Nazione.
Gianni Caproni era nato ad Arco, allora Trentino, nel 1886, quando la località era ancora sotto la domina-
zione austroungarica, in una famiglia irredentista per l’epoca già particolarmente cosmopolita: suo padre era una figura a metà tra un agrimensore e un progettista, dunque interessato a progetti e strutture, ma anche esperto di botanica e agricoltura. Il suo spirito appassionato in qualche modo influenzò i figli Federico, che nel 1902 fu uno dei primi a laurearsi alla Bocconi in agronomia per poi specializzarsi a Napoli, e Gianni, che studiò ingegneria civile al Politecnico di Monaco di Baviera e poi prese una seconda laurea in elettrotecnica a Liegi.
Il cosmopolitismo dei due giovani Caproni fu corroborato dal bilinguismo che caratterizza il Trentino, che certamente rappresentò un atout, ma non sarebbe stato sufficiente al netto del senso di disciplina e di sacrificio messi in campo dalla madre Paolina Maini quando, giovanissima, si ritrovò a elaborare il lutto della perdita del marito e di due figlie morte bambine.
Come spiega Meazzini, se Gianni Caproni seguì un percorso formativo ingegneristico fu in primis perché si era appassionato a quella che era la tecnologia, l’innovazione del momento. Ci si trovava infatti in una fase in cui, dopo il primo volo dei fratelli Wright del 1903, in particolare in Francia, attraverso le figure di Louis Blériot e Gabriel Voisin, cominciava a svilupparsi l’industria aeronautica, e questo «sebbene il volo fosse ancora considerato un’azione da singolo avventuroso, da cavaliere, e non se ne prevedeva alcuno sviluppo industriale, né tantomeno si considerava l’aeroplano un veicolo per il trasporto commerciale. All’epoca esistevano il trasporto via mare, quello via terra con il treno, e da qualche tempo anche con le automobili, grazie ai primi motori Benz. Parliamo dunque della conquista di una nuova dimensione», sottolinea Meazzini.
I primi coraggiosi voli dall’esito incerto
Nonostante i pericoli notoriamente legati ai primi voli (come dimostrò quello del pilota peruviano Georges Antoine Chavez, che nel tentativo di un primo attraversamento delle Alpi nel 1910, durante il viaggio di ritorno precipitò sopra Domodossola) il fratello Federico non mancò mai di esaltare le ambizioni di Gianni Caproni, intravvedendovi sviluppi interessanti.
Fu sempre nel 1910, il 27 maggio, identificato in Malpensa il terreno adatto e grazie al sostegno – mo-
Da sinistra, in senso orario, Fortunato Depero, Collage, 1927 (Mus. aeron. Caproni Trento); Daniele Fontana, Il primo volo del Ca. 1 a Malpensa, 1930ca., Volandia; G. Caproni (2. da des.) con Gabriele D’Annunzio, (3. da des.) di fronte a un bombardiere Ca. 33.; G. Caproni ritratto dal pittore Guido Tallone e dallo scultore Emilio Monti a Venegono (VA), 1939-40.
rale e fisico – del fratello, di amici e parenti (cui l’anno dopo si aggiunse l’ingegnere De Agostini), che Gianni Caproni poté fare volare il suo primo velivolo a motore, il Ca.1. A differenza di molti suoi sodali con la stessa passione per il volo, l’ingegnere però non pilotava, e così il compito del primo volo fu affidato all’autista Ugo Sandri Tabacchi, che davanti alla Cascina Malpensa di Somma Lombarda si librò in volo per qualche centinaio di metri, finendo per schiantarsi al suolo, per fortuna senza conseguenze rilevanti.
«In realtà quella di mio nonno, più che un’azienda di aeronautica era una sorta di baracca dove lavoravano due falegnami che si era portato appresso dal Trentino; Ernestone ed Ernestino», continua Meazzini. «Gli aeroplani venivano realizzati in tela e in legno di bagolaro, scelto da Gianni Caproni per le sue qualità di robustezza e flessibilità». Nello stesso periodo Caproni fondò anche l’omonima Scuola di Aviazione a Vizzola Ticino, dove nel 1912 già prendeva il
brevetto la prima donna, Rosina Ferrario. Gli aerei successivi, Ca.2, Ca.3 fino al Ca.7, furono realizzati partendo dal modello dei fratelli Wright, usi a progettare biplani con due ali sovrapposte. Fu solo a partire dal 1911, con il Ca.8 che Caproni cominciò a sviluppare dei monoplani.
La vita di Gianni Caproni, oltre a distinguersi per la straordinarietà degli incontri e delle invenzioni, dei viaggi e degli esperimenti, fu caratterizzata anche da tutta una serie di sconfitte, come quella del 1913, quando il Ca. 18 non vinse il primo concorso militare tricolore, e l’azienda fu acquistata dallo Stato italiano. Gianni Caproni non si arrese, e per primo al mondo cominciò a lavorare al concetto dei trimotori che avrebbero poi portato allo sviluppo dei bombardieri. Inizialmente il problema principale, infatti, era rappresentato dai motori, nati per motociclette e automobili. Ma laddove quando si ferma una macchina, basta ripartire, l’aereo finisce per precipitare.
Caproni aveva compreso che i mo-
tori normali erano troppo pesanti per il volo, e quindi era necessario progettarne di appositi per gli aeroplani, con materiali diversi che garantissero sicurezza e leggerezza; inserì quindi più motori all’interno di ogni apparecchio, così da permettere, nel caso di arresto di un motore, che l’aereo continuasse a volare. «Nonostante l’innovatività del progetto, lo Stato italiano decise di non investire nello sviluppo di quegli aerei, per cui intorno a mio nonno si creò una cordata di personalità che non lo sostennero solo economicamente, ma che cercarono anche di esercitare influenze politiche e relazionali», spiega Meazzini. L’operazione si rivelò un successo (con tutte le cautele del termine), tanto che durante il Primo conflitto mondiale oltre all’Italia, gli aerei Caproni furono impiegati anche da Inghilterra, Francia e USA. E proprio gli Stati Uniti, i cui primi cadetti furono mandati a formarsi nella scuola di Caproni a Foggia (scuola appartenente all’esercito italiano e nata in seguito a un accordo preso tra quest’ultimo e il governo degli Stati Uniti) sotto l’egida di Fiorello La Guardia (storico sindaco di New York e senatore), gli riconobbero il merito di avere gettato le basi dell’aeronautica: fu per questo che sotto la presidenza Roosevelt la fotografia dell’ingegnere finì appesa nello Studio Ovale della Casa Bianca, accanto a quella dei fratelli Wright.
Gianni
e Timina, amici e coniugi
Oltre alla caparbietà, continua il nipote (che ha fatto dello studio delle gesta del nonno materno quasi una missione, cercando di tenerne viva la fervida memoria), Caproni aveva dalla sua anche una moglie incredibile,
Settimanale di informazione e cultura Anno LXXXVII 26 febbraio 2024 azione – Cooperativa Migros Ticino 16
che sognava di avvicinare i Paesi
di una pellicola del regista di culto giapponese Hayao Myiazaki
quella che Meazzini affettuosamente ricorda come «nonna Timina».
Timina Guasti, infatti, figlia di Federico Guasti – notaio prediletto delle banche e dell’industria e organizzatore della cordata di cui sopra – sposata nel 1927 e più giovane di 15 anni, in dote non portò solamente parte del prestigioso milanese Palazzo Durini e della cinquecentesca tenuta a Venegono Superiore (Varese), ma anche un temperamento fuori del comune: «Parlava quattro lingue, giocava a golf, sciava, andava a cavallo all’amazzone, ma soprattutto era stata educata a essere una compagna di vita, prima ancora che una moglie. Da subito accompagnò il nonno in viaggi per le capitali europee al fine di consolidare la posizione interna-
zionale della Caproni nello sviluppo dell’aeronautica».
Caproni continuò, per anni, a lavorare ai suoi progetti, accumulando nel corso di una vita, ben 160 brevetti, 72 record del mondo e 180 modelli di aerei, ed espandendo costantemente la propria sfera di influenza attraverso una serie di collaborazioni e acquisizioni di aziende, come quella dell’azienda automobilistica Isotta Fraschini. Siglò anche un accordo di licenza di costruzione degli automezzi MAN e nel 1929 creò la Caproni Curtiss Corporation, joint venture con la Curtiss Wright americana e fondò aziende in Sudamerica, Europa e Asia. In virtù del suo cosmopolitismo e anche di un buon fiuto per gli affari, i suoi rapporti commerciali con
Due musei omaggiano il genio di Caproni
Per gli amanti dell’aeronautica e della sua storia due sono le sedi museali dedicate alle scoperte e al lavoro di Gianni Caproni.
Volandia , in prossimità di Malpensa, è nata dal recupero delle storiche Officine Aeronautiche Caproni, fondate nel 1910, a cui il nipote di Caproni, Pierre Meazzini collabora in qualità di presidente del comitato scientifico. Il museo permette di ripercorrere la storia dell’aviazione in un itinerario che si snoda attraverso numerose aree tematiche: le forme del volo, l’ala fissa, l’ala rotante, i droni, gli aeromodelli, eccetera.
Oltre all’esposizione di numerosi velivoli, sono previste proiezioni, vi sono anche un planetario didattico e un padiglione dedicato allo spazio.
Info e prenotazioni
Volandia, Parco e Museo del volo, Somma Lombardo (VA); www.volandia.it, Tel. +39/0331-230007.
l’estero erano ottimi, per cui l’idea di un Secondo conflitto mondiale trovava in lui delle resistenze («Nonno era un “fiero oppositore” della Guerra e ha cercato di spingere alla neutralità italiana a tutti i livelli», sottolinea Meazzini), e di questo lo Stato italiano gli presentò il conto: alla fine della guerra si ritrovò sommerso dai debiti, impossibilitato a mettere in cassa integrazione migliaia di operai, oltre che accusato di collaborazionismo, «una macchia ingiusta per uno come lui, se pensiamo che, durante la guerra, nonna Timina tra la casa di Roma (dove c’era un passaggio segreto) e quella di Venegono nascose a lungo tre persone di fede ebraica, il generale Pugliese e due Schwester impiegate come istruttrici».
L’attenzione di Caproni per il territorio e aspetti di natura sociale (ereditata dalla madre Paolina e dal padre, esperto di agraria) lo portò a finanziare scuole materne ed elementari ad Arco, Milano e Vizzola, oltre a scuole di specializzazione per operai e centri colonici per i dipendenti. L’ingegnere impiantò inoltre fabbriche in territori che offrivano poche opportunità di lavoro e si adoperò in opere di rimboschimento in Trentino e in Toscana; con il fratello Federico creò le Bonifiche Caproni a Vizzola, rendendo così coltivabile l’arido territorio di Malpensa.
Il grande amore per famiglia e arte
film straniero. (Tratto da Si alza il vento)
Si alza il vento, viviamo!
Cinema ◆ Il pioniere italiano dell’aeronautica fa capolino anche in un film del Sol Levante
Anche il Museo dell’aeronautica di Trento offre in esposizione una collezione di aeromobili storici originali, qui infatti è confluito gran parte del Museo Aeronautico di Gianni e Timina Caproni fondato nel 1927. È il primo museo aziendale d’Italia e tra i primi a esporre una collezione di aeronautica a livello mondiale. La buona conservazione dei mezzi esposti è da ricondursi alla lungimiranza degli stessi coniugi Caproni, che si erano opposti allo smantellamento degli aerei più importanti. A Trento si trova anche l’importante patrimonio librario e archivistico, comprendente i fondi fotografici e il fondo di pellicole.
Info e prenotazioni
Museo dell’aeronautica Gianni Caproni, Trento; www.museostorico.it Tel. +39/0461-1747045.
In una vita in perpetuo movimento e divenire come quella di Caproni vi erano due costanti, rappresentate da famiglia e arte. La sua solida unione con Timina Guasti diede vita a una numerosa famiglia di otto figli, «di cui mia madre Vittoria era la terzogenita. Nonno amava tutti i suoi figli, ma il prediletto era il più piccolo. Purtroppo, questi morì quando era ancora bambino, e per il nonno fu un colpo dal quale non si riprese mai più: morì poco dopo, nel 1957, a 71 anni». Anche l’arte, in particolare la pittura, gioca un ruolo imprescindibile nella vita di Gianni Caproni. Egli vi si dedicava nel tempo libero dipingendo, ma soprattutto la collezionava e ne discuteva con gli stessi artisti, infatti, è soggetto di migliaia di opere, ancora in attesa di una collocazione definitiva che le valorizzi e sia eventualmente aperta al pubblico. Meazzini scorre le pagine del volume Collezione Caproni di Taliedo, Aeropitture e raccolte aeronautiche, dove sfilano grandi nomi del 900 italiano come Mario Sironi, Bruno Munari, Gauro Ambrosi o Fortunato Depero, «a molti di loro il nonno era legato da un legame di forte amicizia, penso a Depero, ma anche a Gabriele D’Annunzio, che inventò per lui il motto di famiglia Senza cozzar dirocco, perché l’arte lo interessava molto. Anche nei momenti di attività bellica il nonno cercava la dimensione onirica del volo, un’immagine dell’aereo non come mezzo militare, ma come sogno. Per questo si è circondato di artisti come Luigi Bonazza, che aveva lavorato nella secessione Viennese, Aldo Savio o Carlo Contini. Nonno Caproni è diventato anche un film del regista giapponese Miyazaki, ed è come l’ha rappresentato lui, geniale e sognante, che mi piace figurarmelo», conclude Pierfrancesco Meazzini.
«Quando si alza il vento, occorre tentare di vivere» (dal verso «Il vento s’alza!… e tu tenta di vivere!» di Paul Valéry) è il leitmotiv che attraversa con grazia, come un filo di seta, impalpabile e quasi etereo, Si alza il vento, il film di Miyazaki del 2013 in cui il Conte Gianni Caproni è rappresentato come un uomo bonario, ma dalla potente forza ispiratrice. Si alza il vento doveva essere l’ultimo film del Maestro giapponese (tornato però nel 2023 con Il ragazzo e l’airone), che ha sempre affidato alla dimensione onirica l’anima dei suoi film, da Kiki consegne a domicilio (1989), dove non ci sono personaggi negativi, ai misteriosi La città incantata (2001) e Il castello errante di Howl (2004), in quello che è un elenco forzatamente monco, ma comunque rappresentativo di una ricerca di personaggi fuori del comune.
Nel film di Hayao Miyazaki la dimensione onirica permea ogni cosa, ammantando anche le vicende più tragiche
In Porco Rosso (1992) e Si alza il vento, il racconto di Miyazaki si intreccia con più intensità alla storia recente del Giappone, e alla sua vicenda umana personale, lasciando comunque in ultima battuta il posto d’onore alla fantasia.
Pierre Meazzini racconta di come l’idea del film sia nata da un suo cugino, appassionato di manga giapponesi. Un giorno nel film Porco rosso il cugino riconosce degli aerei Caproni, e così decide di mandare a Miyakazi dei materiali riguardanti Gianni Caproni. Il regista giapponese, a sua volta figlio di uno sviluppatore della Mitsubishi e appassionato di volo, era a dire il vero già «incappato» nel pioniere italiano dell’aeronautica, ma attraverso i materiali ricevuti vi riconosce in filigrana anche (al di là dell’utilizzo bellico dell’aviazione) un grande so-
gno, ossia quello di volare per avvicinare la gente.
Nel film, che si ispira vagamente a un’opera di Tatsuo Hori, si ripercorrono le gesta del geniale Jiro Horikoshi, ingegnere impiegato dalla Mistubishi negli Anni Trenta del Novecento, miope e con il desiderio di diventare un grande progettista di aeronautica. Horikoshi nel suo percorso esistenziale fatto di gentilezza e idee geniali, dell’immenso amore per la sorella e la moglie e dell’inesorabile regressione della vista, è ispirato dalla figura dell’elegante Conte Caproni (titolo di cui fu insignito nel 1940 da Vittorio Emanuele III), che lo visita in sogno per accompagnarlo in volo e, guardando quella meraviglia che è il mondo dall’alto, spronarlo a coltivare le proprie visioni.
L’inconfondibile tratto delicato di Hayao Miyazaki (classe 1941) riesce a collocare vicende drammatiche – si ricordano il terremoto del Kanto del 1923, gli aerei partiti e mai ritornati, o lo spettro di una guerra mondiale i cui esiti conosciamo tutti, soprattutto per il Giappone – in un tempo sospeso, dove l’estetica sembra epurare il mondo (per la durata di un lungometraggio) da quanto di orrendo lo contraddistingue. Protagonisti, dunque, oltre ad aerei nati per uccidere, diventano un gesto di timidezza, l’amore puro di due esseri condannati, un’idea che si fa ragione di vita, grandi afflati coniugati a minuzie della quotidianità, raccontati con un tratto di penna magistrale. È un po’ come aveva detto Meazzini, all’inizio dell’intervista: in fondo anche Gianni Caproni avrebbe voluto, così come Horikoshi, che l’aviazione si sviluppasse in primis in ambito civile, per unire i popoli, creare ponti e conoscenza. Come tutti i grandi pionieri, anche loro avevano sentito il richiamo del vento, ché, quando si alza, occorre tentare di vivere, con la stessa struggente intensità espressa da Paul Valéry nel suo Cimitero marino
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Il film di Miyazaki è stato presentato alla Mostra di Venezia e candidato all’Oscar come miglior film d’animazione e al Golden Globe come miglior
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Sélection
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per far festa
L’organo più nobile e simbolico
Gastronomia ◆ Tra le frattaglie che si cucinano c’è anche il cuore: per secoli consumarlo è stato un onore
Allan Bay
Ogni taglio animale è gravido di elementi simbolici, che ci portiamo dietro dalle tradizioni pre-religiose. Tutta la carne, cibo ancestrale dell’ homo sapiens, era sacra, come è ovvio, ma alcuni tagli di più. Soprattutto le frattaglie: io credo che la loro minore conservabilità, quindi il fatto che dovessero essere consumate subito, collettivamente, mentre la parte muscolosa dell’animale poteva essere conservata un poco di più e poi sotto sale – anche se non si sa quando la salagione fu inventata, e fu un’invenzione cardine, «finita» solo ai tempi… del frigorifero in tutte le case (seconda metà del Novecento) – sia una causa di questa forza simbolica. Ma, sia chiaro, è solo una mia opinione.
Di tutte le frattaglie, nessuna ha la valenza del cuore. Che è un organo muscolare che costituisce il centro motore dell’apparato circolatorio e propulsore del sangue e della linfa in diversi organismi, umani compresi. Quindi simbolicamente è il principio della vita, il luogo «più nobile» di qualsiasi animale (anche dell’uomo) e, infatti, la morte avviene, legalmente per l’uomo, quando il cuore non batte più. Per tale ragione, mangiare il cuore dell’animale macellato permetteva di «assorbirne» la forza vitale.
Come frattaglia, invece, il cuore, oggi, non è considerato «nobile», come per esempio il rognone – che tuttavia negli animali ha utilizzi proprio «meno nobili»… Succede.
Ma veniamo a noi, senza divagare ulteriormente. Le dimensioni del cuore possono variare molto da animale ad animale: vanno da pochi etti per gli agnelli a 1 kg per il vitello, quello più consumato, fino ai 3 kg e più nei bovini adulti. Cambia ovviamente la tenerezza e quindi il tempo di cottura, che però non deve mai essere eccessivo, soprattutto per i cuori piccoli,
che vanno sempre gustati al sangue.
È un muscolo magrissimo e ricco di tessuto connettivo insolubile, che rimane duro e fibroso. In cottura, tenete conto che la sua carne è molto compatta e il rischio di farlo diventare gommoso è sempre dietro l’angolo. Dovrete pulire i cuori delle parti nervose esterne (vene, arterie) e del tessuto connettivo di rivestimento. Tagliate la calotta superiore e ripulite l’interno dal tessuto fibrillare in eccesso (le corde tendinee, simili a fili sottili) e da eventuali grumi di sangue. Sciacquatelo abbondantemente in acqua fredda e asciugatelo. Se lo volete tagliare a fette prima della cottura, cosa più che consigliabile soprattutto per i cuori grossi, il taglio deve essere trasversale rispetto alla direzione delle fibre.
Ecco un paio di ricette col cuore di vitello
Cuore fritto, ultra basic. Preparate i cuori come indicato sopra. Sbattete le uova con una macinata di pepe, immergeteci le fette di cuore poi passatele nel pangrattato. Friggete le fettine di cuore in abbondante burro chiarificato per 2 minuti per lato, scolatele e salatele.
Cuore ripieno. Mondate i cuori come indicato sopra, tagliate la calotta superiore e risciacquateli. Frullate polpa di vitello, prosciutto cotto, uova, soffritto di cipolla, mollica di pane, imbevuta nel latte, scolata e strizzata, sale e pepe. Riempite la cavità di ogni cuore con il composto, richiudeteli e legateli. Rosolateli in burro con salvia, poi coprite e cuocete in forno a 180° per circa un’ora bagnando con il fondo di cottura e aggiungendo acqua se asciugasse troppo. Scolate, levate il filo, affettate e servite nappando con il fondo di cottura ridotto.
Come si fa?
Oggi vediamo come si fanno tre facilissimi piatti a base di orzo precotto. Orzo con gamberetti. Cuocete 200 g di orzo precotto in acqua salata bollente per il tempo indicato sulla confezione, scolatelo e lasciatelo riposare. Spezzettate una dozzina
Ballando coi gusti
Polpette di miglio con piselli e tofu
Ingredienti per 4 persone: 150 g di
– 150 g di piselli – 150 g di tofu – 1 cipolla – 20 pomodorini – 4 cucchiai di pane integrale grattugiato – farina bianca – aceto – olio di arachidi
Fate lessare il miglio e i piselli in acqua bollente salata per 20 minuti. Scolateli in una ciotola, unitevi il tofu, il pane, una buona presa di sale e pepe nero. Impastate a piene mani fino a ottenere un composto sodo. Formate delle polpette tonde, passatele nella farina e friggetele in abbondante olio ben caldo. Scolatele su carta per fritti. Servitele con un’insalata di cipolla e pomodorini condita classicamente con olio, aceto e sale.
di code di gamberetti. Tagliate una zucchina a cubetti, una manciata di fagiolini a pezzetti e una falda di peperone giallo a julienne. Soffriggete in un filo di olio 2 cucchiai di verdure da soffritto con le verdure e cuocete coperto per 5’, unendo acqua calda se necessario. Unite l’orzo, i gamberetti e poco olio e mescolate per 2’. Regolate di sale e di pepe e profumate con prezzemolo tritato. Orzo al tonno e curry. Cuocete l’orzo come da ricetta sopra. Soffriggete in un filo di olio 2 cucchiai di cipollotti affettati. Unite 100 g di tonno sott’olio ben scolato e sgranatelo con una forchetta. Sfumate con poco vino bianco. Aggiungete 1 punta
di concentrato di pomodoro stemperata in acqua e cuocete per 3’. Aggiungete l’orzo e se necessario un poco di acqua bollente e insaporite per 2’. Regolate di sale, spolverizzate con curry. Orzo allo scoglio. Cuocete l’orzo come da ricetta sopra. Sciacquate 200 g di misto di frutti di mare scongelato. Rosolate poco aglio e 1 peperoncino tagliato a rondelle con un filo di olio. Unite il misto e saltate per 1 minuto. Aggiungete 4 cucchiai di salsa di pomodoro, l’orzo e se necessario un poco di acqua bollente e insaporite per 2’ minuti. Regolate di sale. Servite spolverizzando con prezzemolo tritato.
Polpette di pesce all’orientale con salsa al limone
Ingredienti per 4 persone: 600 g di filetti di pesce bianco – 1 mazzetto di mentuccia – 1 pezzetto di radice di zenzero – fecola di patate – curry dolce in pasta – sale e pepe. Per la salsa: 1 limone – 1 ciuffo di erba cipollina – 1 spicchio d’aglio – 1 cucchiaino di zucchero di canna – 125 g di yogurt – sale e pepe.
Tritate grossolanamente la mentuccia. Sbucciate e grattugiate lo zenzero. Mettete nel frullatore il pesce, 1 cucchiaio di curry, la mentuccia, lo zenzero e 1 cucchiaio di fecola. Frullate fino ad avere un composto omogeneo e poi regolate di sale e di pepe. Con le mani umide formate delle polpettine della grandezza di una noce, passatele nella fecola e cuocetele a vapore per 8 minuti. Per la salsa. Grattugiate lo zest del limone. Mondate e tritate l’erba cipollina. Mondate e tritate l’aglio. Mescolate lo yogurt con lo zest del limone, l’erba cipollina, lo zucchero, 1 pizzico di sale e 1 di pepe. Aggiungete infine l’aglio e mescolate. Servite le polpettine accompagnate con la salsa.
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miglio
– olio – sale.
Polpette, e ancora polpette che non tradiscono mai.
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Lulun & Kame
La lavagnetta sensoriale
Crea con noi ◆ A forma di valigetta, i bambini la potranno portare ovunque per disegnare o imparare a scrivere lettere e numeri
Giovanna Grimaldi Leoni
In questo tutorial, vedremo come creare una lavagnetta sensoriale per regalare ai bambini una divertente esperienza tattile e visiva. Potranno manipolarla con le mani o, utilizzando un cotton fioc, trasformarla in una tavolozza per disegnare.
La base in cartone, insieme a una miscela di schiuma da barba, colla vinilica e colore acrilico nero, inseriti in una busta di plastica trasparente, sono gli unici materiali che vi serviranno.
Un modo creativo per permettere ai più piccoli di esplorare e imparare. Nota: sorvegliare i bambini durante l’utilizzo.
Procedimento
Stampate e ritagliate il cartamodel-
lo (che trovate su www.azione.ch). Posatelo sul primo cartone e ritagliatene i contorni con un taglierino. Appoggiate ora il cartamodello su un secondo cartone, disegnate come in precedenza i contorni ma senza includere la maniglia e la finestra. Questo secondo cartone sarà la base della valigetta.
Prendete la busta trasparente, apritela e inserite della schiuma da barba (il quantitativo che ci sta sul palmo di una mano), un paio di cucchiai di colla vinilica e 1 cucchiaio di pittura acrilica o tempera nera. Fate un nodo al sacchetto e con le mani amalgamate bene il tutto in modo che il riempimento risulti di un nero uniforme.
Sciogliete il nodo, appianate bene la busta e chiudete l’apertura con del
Giochi e passatempi
Cruciverba
«Dottore ho ottantacinque anni e corro ancora dietro alle donne!» – «Bene, dov’è il problema?» Trova la risposta leggendo a soluzione ultimata le lettere nelle caselle evidenziate.
(Frase: 3, 2, 7, 3, 5, 6)
ORIZZONTALI
1. Soprannomi
7. Pronome personale
9. Nome femminile
10. Prefisso di ripetizione del verbo
11. Strumento a fiato
13. È oggetto di avversione
15. In favore
16. Ministri di culto
17. Avverbio di luogo
18. Arredo del camino
19. Le iniziali di Moravia
20. Iniziali del poeta Saba
21. Infiammazione dell’orecchio
22. Nascosti in alcuni «bocconi»
23. Fascia decorativa sul muro
24. Indica superiorità
25. Un gioco con le matte
27. La cantante Pausini
29. Sigla che indica sterilizzazione del latte
30. Va in questo chi si blocca
31. Nota musicale
32. Famosa quella da Tiffany
VERTICALI
1. Né in latino
2. Usata in farmacia e profumeria
3. Lo esegue la fanfara
4. Prefisso che vuol dire terra
5. Abbreviazione di nostro
6. Danneggiare
7. Con, per i tedeschi
8. Colossali
10. I raggi del poeta
12. Lavoro, opera in latino
13. Pesce dalle carni pregiate
nastro adesivo. Attenzione: affinché l’adesivo aderisca bene non devono esserci residui, pulite bene il sacchetto prima di procedere.
Dal blocco di cartoncini colorati, scegliete 6 colori e di ognuno tagliate una striscia in verticale da 5 cm. Per questo progetto ho scelto rosa, blu, celeste, verde, giallo, arancio. Incollate le strisce con la colla o con del biadesivo su un foglio A4, facendole sormontare di qualche millimetro.
Fissate il foglio così preparato sopra la base di cartone e tagliate le eventuali eccedenze dovute agli angoli arrotondati. Posizionate la busta sensoriale e fissatela lungo tutto il perimetro con dell’adesivo trasparente. Tagliate quattro rettangoli di cartone da 2x10 cm ciascuno, per utilizzarli come spessori. Fissateli ai quattro lati del sacchetto trasparente, posizionandoli centralmente come mostrato in fotografia.
Dipingete la valigetta nel colore che preferite e personalizzatela a piacere, ad esempio, incollando lettere ritagliate dai giornali. Anche il retro, sebbene non sia visibile, va dipinto per evitare che il cartone si pieghi. Incollate la parte decorata sopra il cartone preparato in precedenza. Infine rivestite il manico con un filato per rendere la presa più comoda. Praticate un foro sull’angolo superio-
Materiale
• 2pz cartone di riciclo 32x26cm
• Sacchetto trasparente 20x25cm
• Schiuma da barba
• Colla vinilica
• Tempera o acrilico nero
• Nastro adesivo trasparente e biadesivo
• Righello e taglierino
• Pittura acrilica colore a scelta e pennello
(I materiali li potete trovare presso la vostra filiale Migros con reparto Bricolage o Migros do-it)
re destro della lavagnetta e fateci passare una catenella creata con lo stesso filato a cui fisserete il cotton fioc. La vostra valigetta sensoriale è pronta.
Tutorial completo azione.ch/tempo-libero/passatempi
Vinci una delle 2 carte regalo da 50 franchi con il cruciverba e una carta regalo da 50 franchi con il sudoku
Sudoku Scoprite i 3 numeri corretti da inserire nelle caselle colorate.
14. Andate alla latina
16. Busta sigillata contenente documenti
17. Se non si raggiunge, la votazione non vale
18. Università
19. Fiume della Manciuria
21. Danno un punto a scopa
22. Assistente
23. Si alternano nel gomito
24. Sinistre sentinelle
26. Espressione di dolore
27. Soprannome di una Elizabeth attrice
28. Le nonne di una volta
30. Simbolo chimico del tantalio
Regolamento per i concorsi a premi pubblicati su «Azione» e sul sito web www.azione.ch
Soluzione della settimana precedente
CONOSCERE L’ITALIANO – Parola: LAPALISSIANO
Significato: SCONTATO, EVIDENTE
I premi, tre carte regalo Migros del valore di 50 franchi, saranno sorteggiati tra i partecipanti che avranno fatto pervenire la soluzione corretta entro il venerdì seguente la pubblicazione del gioco. Partecipazione online: inserire la soluzione del cruciverba o del sudoku nell ’apposito formulario pubblicato sulla pagina del sito. Partecipazione postale: la lettera o la cartolina postale che riporti la soluzione, corredata da nome, cognome, indirizzo del partecipante deve essere spedita a «Redazione Azione, Concorsi, C.P. 1055, 6901 Lugano». Non si intratterrà corrispondenza sui concorsi. Le vie legali sono escluse. Non è possibile un pagamento in contanti dei premi. I vincitori saranno avvertiti per iscritto. Partecipazione riservata esclusivamente a lettori che risiedono in Svizzera.
Settimanale di informazione e cultura Anno LXXXVII 26 febbraio 2024 azione – Cooperativa Migros Ticino TEMPO LIBERO 20
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Viaggiatori d’Occidente
La forza democratica del turismo
Il turismo ha molti difetti, lo sappiamo bene. È spesso invadente, superficiale, distruttivo. E tuttavia, se riportato al suo impulso originario, è una forza democratica; almeno sulla carta, nessuno è escluso.
Certo ai suoi inizi, negli anni Trenta dell’Ottocento, il turismo era riservato quasi soltanto ai ricchi possidenti e ai professionisti, con molto denaro e altrettanto tempo libero. Anche così, tuttavia, il progresso era evidente rispetto al manipolo di nobili che percorreva le vie d’Italia nel Settecento, al tempo del Grand Tour. Vennero poi i viaggi organizzati e i numeri crebbero a dismisura. In particolare la guida rassicurante e protettiva degli agenti di viaggio consentì a molte donne di conoscere altri Paesi, strappandole all’isolamento domestico. Fino alla Prima guerra mondiale i turisti erano soprattutto borghesi, ma negli an-
ni Trenta, con il riconoscimento per legge delle ferie pagate, anche i comuni lavoratori provarono le gioie della vacanza, persino sotto i regimi dittatoriali (basti pensare ai treni popolari del fascismo).
Dopo la Seconda guerra mondiale, quando anche i contadini del nord Europa scoprirono il Mediterraneo, quel percorso d’apertura sembrò compiuto. Eppure in quegli anni viaggiava poco più della metà della popolazione. Non viaggiavano i vecchi, i malati, i disabili. Nessuno era escluso per principio, semplicemente non si immaginava che anche queste persone potessero viaggiare. Solo in anni più vicini a noi le barriere, psicologiche prima ancora che architettoniche, hanno cominciato a mostrare segni di cedimento. Oggi tutti viaggiano, o quanto meno ne hanno la possibilità teorica, disabili inclusi. E questi ultimi sono as-
Passeggiate svizzere
sai numerosi. Secondo l’Organizzazione Mondiale della Sanità (OMS) una persona su sei nel mondo ha qualche forma di disabilità: mobilità, vista, udito, difficoltà cognitive, malattie mentali eccetera. Ognuno di noi può ritrovarsi in questo gruppo prima o poi, anche soltanto a causa della vecchiaia (e in Europa entro il 2050 una persona su sei avrà un’età pari o superiore a 65 anni). Per questo la nuova attenzione per il turismo accessibile deriva anche dal calcolo economico. Un miliardo e trecento milioni di viaggiatori disabili rappresentano un mercato formidabile, di poco inferiore ai sessanta miliardi di dollari secondo stime recenti (Brooke Hansen, University of South Florida). E sono numeri in rapida crescita, quasi raddoppiati rispetto al 2015. Certo, non tutti possono permetterselo, ma comunque il 70% dei cittadini europei con
Il salotto di Sherlock Holmes a Lucens
Alle quattordici e ventisette di un sabato pomeriggio a metà febbraio che sembra molto marzo, un po’ rintronato, scendo dal treno a Lucens. Località del canton Vaud sulla sponda sinistra della Broye, nota forse a qualcuno per la catastrofe nucleare sfiorata il ventuno gennaio 1969 e non so a quanti per via del salotto sherlockiano ricreato dal figlio di Arthur Conan Doyle (1859-1930) nel 1965, in una delle stanze del castello lassù, dove viveva con la moglie Anna, nipote del celebre favolista danese di otto lettere (Andersen). Quartogenito, Adrian Conan Doyle (1910-1970), oltre all’idea della ricostruzione visitabile del salotto londinese al 221b di Baker Street – spostata un ventennio fa in una casa del 1820 ai piedi del castello risalente al XIII secolo – e rombare in Ferrari nei dintorni, è stato anche un cacciatore di squali tigre.
La prima cosa che mi colpisce, accovacciato davanti a una bacheca di vetro, è la calligrafia minuta, lineare e sottile dell’autore dei cinquantotto racconti e quattro romanzi con protagonista lo straordinario Sherlock Holmes in compagnia del fedele Dottor Watson. Davanti agli occhi ho il manoscritto dell’ultima avventura: The Adventure of Shoscombe Old Place (1927). Accanto, appoggio il palmo della mano sullo scrittoio dove sono nate le sue prime avventure. C’è una sala-museo piena di reliquie, con carta da parati a motivo litchi, come preludio al salotto. Un paio di sci norvegesi di legno, in un angolo, introducono questo sport in Svizzera proprio grazie a Sir Arthur Conan Doyle sulle nevi di Davos. Tra gli altri memorabilia esposti, connessi a tre storie di Sherlock Holmes, potete ammirare un topo dei bambù imbalsamato proveniente da Sumatra, un
Sport in Azione
serpente maculato a mollo nella formaldeide, una pipa usata nelle fumerie d’oppio dell’epoca. Nel 1894, per esempio, come l’anno in cui, al buio, nella stanza in fondo, m’immergo, dietro a un vetro, con una sola lampada sul tavolo che illumina fioca il salotto di Sherlock Holmes a Lucens (511m). A Meiringen – visto che lì alla cascata del Reichenbach avviene la scena in cui Arthur Conan Doyle ha cercato di uccidere il suo personaggio – avevo cercato di raccontarvi, nella prima avventura del mio viaggio in Svizzera partito dieci anni fa, un salotto simile ispirato da questo. Una voce narrante registrata incomincia a raccontare la rava e la fava, togliendo forse un po’ di mistero e libertà a questo peep-show holmesiano. Eppure pensavo peggio, alla fine non è stato neanche male il racconto che dirigeva lo sguardo qua e là con altre lampade che s’illumina-
di Claudio Visentin
disabilità ha le risorse necessarie per viaggiare. Di conseguenza diverse destinazioni stanno investendo parecchio per adeguare edifici, spazi pubblici e attrazioni. Domanda e offerta lavorano di comune accordo. Da qualche tempo i viaggiatori con disabilità sono più consapevoli del loro valore e portano i soldi là dove le esigenze sono soddisfatte. Soprattutto chiedono molto più della semplice accessibilità agli alberghi con rampe e ascensori.
E così la Grecia ha attrezzato trecento spiagge con passerelle alimentate da energia solare (Seatrac): due binari conducono fin dentro l’acqua la persona su sedia a rotelle, in autonomia e senza l’aiuto di nessuno. Anche il lungomare di Rimini è completamente accessibile. In California chiunque può affittare una moto a tre ruote (Ryker), adattata per av-
di Oliver Scharpf
Contabili o imprenditori? Che politici vogliamo?
Negli scorsi giorni, la consigliera federale Viola Amherd, direttrice del Dipartimento federale della difesa, della protezione della popolazione e dello sport, ha annunciato che il Governo avrebbe stanziato un credito di soli 4 milioni di franchi a sostegno dell’organizzazione dei Campionati europei femminili di calcio, in agenda nel 2025 nel nostro Paese. Rabbia e delusione sono stati i sentimenti di coloro che si aspettavano di più. Accordi ufficiosi parlavano di una forchetta tra i 15 e i 30 milioni di franchi. Comunque briciole, se messi in relazione al budget annuale della Confederazione. Sono tempi duri per le casse federali, bisogna fare delle scelte oculate, ha sostenuto la ministra. Ciò comporterà dei tagli dolorosi, soprattutto nella promozione dell’evento in casa e all’estero, hanno ribadito i dirigenti dell’Associazione svizzera di football. È un tema
di grande attualità. Anche nella ricca Svizzera. Se i governanti dovessero agire con lo sguardo di chi deve fare quadrare i conti a fine anno, potrebbero essere a rischio anche i Mondiali di sci alpino affidati a Crans Montana nel 2027. E non si vede come possa avere delle chances di essere accettata la candidatura svizzera ai Giochi olimpici invernali caldeggiata da Swiss Olympic. Ne sappiamo qualcosa in Ticino. Lo scorso anno il Consiglio di Stato ha negato un credito di 5 milioni di franchi per l’organizzazione nel nostro Cantone del Grand Départ del Tour de France. I 5 «saggi» hanno indossato il completo giacca-cravatta del contabile, e hanno focalizzato un orizzonte vicino. Che sia a causa del decreto votato dal popolo, che predica il pareggio dei conti dello Stato entro il 2025, o che sia per altre ragioni, sta di fatto che il pro-
getto è naufragato, anche se la cordata interessata a portare sulle nostre strade il terzo evento sportivo più seguito al mondo, sembra non aver riposto definitivamente le sue ambizioni. Se quel giorno, a Palazzo, avessero indossato il «cashmirino casual» da coraggioso imprenditore, l’orizzonte avrebbe travalicato le pagine contabili dei prossimi due o tre anni, e avrebbe forse consentito di capire come mai, in Francia, regioni e comuni fanno a gara per ospitare sulle loro strade la carovana della Grande Boucle. È un enorme circo itinerante di circa 5mila persone, alle quali si aggiungono parenti, amici, tifosi. Calcolando che il Grand Départ prevede una permanenza di sei giorni, si sarebbero potuti preventivare almeno 50mila pernottamenti da Airolo a Chiasso. E questo con persone disposte a spendere anche 200, 300 e più fran-
venture on the road. E sono solo alcuni esempi.
Tutti questi interventi naturalmente richiedono investimenti anche importanti prima di generare profitti e inevitabilmente aumentano la distanza tra Paesi turistici ricchi e poveri. Ancora più impressionante tuttavia è il divario ideale. Nei Paesi più avanzati si punta ormai a un approccio universale, come spiega Richard Thompson, a capo di un’organizzazione per il turismo sostenibile e inclusivo: «La maggior parte delle persone disabili non si identifica più come tale; chiedono semmai disponibilità all’ascolto e voglia di adattare le strutture di conseguenza». Insomma, dal turismo accessibile si sviluppa una nuova filosofia del turismo che pone al centro l’ascolto di qualunque cliente, non dei disabili soltanto. Un’idea semplice e rivoluzionaria.
vano man mano. Ciò non toglie che vado di nuovo a indagare con i miei occhi, senza distrazioni auditive, a sentimento, per riportarvi qualcosa, ancora, come posso, di questo salotto vittoriano-punto di partenza di tante avventure lette tutte nella mia tarda adolescenza e rilette di tanto di tanto, nel corso di questi anni. Cerco, vicino al fioretto appeso, sulla carta da parati color carminio, il foro di un proiettile: una pallottola di rivoltella a punta dolce sparata da un fucile ad aria compressa di estrema precisione, realizzato da un armaiolo tedesco cieco di nome Von Herder, una sera di aprile del 1894, dal colonnello Sebastian Moran, «ex-ufficiale dell’armata indiana di Sua Maestà e il più famoso cacciatori di leoni di tutto il nostro impero coloniale», accovacciato al buio di una casa vuota di fronte, tratto in inganno da un busto di cera (eseguito da Oscar Meunier di Gre-
noble) in controluce che riproduceva le fattezze del più grande detective di tutti i tempi, mosso una volta ogni quarto d’ora, dalla signora Hudson in ginocchio. La solerte governante che teneva a bada il casino lasciato in giro da Sherlock Holmes e John W. Watson, come per esempio le pallottole estratte da un cadavere e dentro il portaburro, lì sul tavolo. I giornali sparsi in giro, tra le tazze di tè, l’angolo degli esperimenti chimici, le siringhe per la cocaina endovenosa, il violino, il tabacco nella babbuccia persiana, la corrispondenza infilzata con un coltello, sul bordo del camino. Camino vittoriano autentico, portato qui da Adrian Conan Doyle in persona, dove c’è l’attizzatoio stortato in un accesso di collera dal dottor Grimesby Roylott che aveva architettato un delitto diabolico grazie a un mortale serpente maculato e ammaestrato.
chi a notte senza batter ciglio. Aggiungiamo cibo, shopping, serate nei locali, passaparola ad amici e conoscenti una volta rientrati a casa. Non male come indotto. Vogliamo parlare del ritorno d’immagine? Le riprese del Tour de France sono il top di una produzione televisiva. A France Télévision sono dei maestri nel creare un cocktail magico tra la corsa più seguita al mondo e tutte le meraviglie del suo paesaggio. Ai commentatori televisivi di tutto il globo viene consegnato un librone con un’inimmaginabile serie di informazioni relative alle località toccate dalla Grande Boucle. Qualora il Tour giungesse dalle nostre parti, non ci stupiremmo di sentire il commentatore danese, ruandese, australiano o cinese parlare della tal realizzazione di Mario Botta, dei Castelli di Bellinzona, della farina bona o dei Merlot barricati del Mendrisiotto. Insomma non c’è
una vetrina più seducente del Tour de France, al punto che i suoi organizzatori sostengono che per ogni euro investito, si ottiene un ritorno sette volte maggiore.
Purtroppo, noi che abbiamo la fortuna e il privilegio di vivere in un Paese incantevole, non lo abbiamo capito e continuiamo a puntare le telecamere della SRG solo sulla corsa. Peccato. Non voglio nascondere il fatto che i grandi eventi sportivi si portano appresso anche problematiche di ordine etico e ambientale. Ne avevamo accennato pochi mesi fa in questa rubrica e ribadiamo che è fondamentale prenderle in considerazione. Tuttavia, continuare a non capire quanto queste manifestazioni, se organizzate in modo oculato, possano portare benefici enormi, equivale a un’autogol spettacolare all’incrocio dei pali, che neanche il più gatto dei portieri riesce a salvare.
Settimanale di informazione e cultura Anno LXXXVII 26 febbraio 2024 azione – Cooperativa Migros Ticino 21 TEMPO LIBERO / RUBRICHE ◆ ●
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di Giancarlo Dionisio
La nuova T-Cross Nuovo livello di svago
La nuova T-Cross è un SUV di carattere. Lo si nota fin dal primo sguardo. Il design degli esterni è stato reso ancora più grintoso, conferendo al veicolo un look inconfondibile. Soprattutto nel colore «Grape Yellow», una delle tre nuove verniciature. Sono nuovi anche i fari e le luci posteriori a LED di serie. Nell’elegante linea di equipaggiamento «Style», la T-Cross offre per la prima volta di serie i fari a LED Matrix IQ.LIGHT, mentre la «R-Line» sottolinea il carattere sportivo con il suo paraurti nel design «R». Per andare al lavoro, per una gita nel fine settimana o un viaggio più lungo, questo SUV attira l’attenzione con stile.
Più flessibilità Più possibilità
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ATTUALITÀ
Politica italiana, un nuovo corso?
Giorgia Meloni ed Elly Schlein: due donne al potere, con modi e idee agli antipodi, che però sanno cooperare ottenendo risultati
Pagina 25
Una Nato senza l’America Trump e il suo isolazionismo potrebbero imporsi alle prossime elezioni presidenziali. Cosa succederà all’Alleanza atlantica?
Pagina 27
Se il dominio di Putin è totale
Svolta nella gestione dei migranti Il neo-consigliere federale Beat Jans visita il centro richiedenti l’asilo di Chiasso e, a sorpresa, scopre già le prime carte
Pagina 29
Russia ◆ Cosa significa la morte di Alexey Navalny a un mese dalle elezioni presidenziali e la necessità di immaginare un’azione politica in un Paese diventato una dittatura. La guida almeno morale dell’opposizione è Yulia Navalnaya
Anna Zafesova
La fine di Alexey Navalny nel carcere oltre il circolo Polare dove il regime del Cremlino lo aveva rinchiuso era in qualche modo una morte annunciata. I post ironici dell’oppositore sui social – sempre più radi e laconici, dopo che era stato spostato in un carcere di massima sicurezza e i suoi avvocati arrestati come suoi «complici» – nei quali descriveva in toni quasi divertiti i tormenti cui veniva sottoposto, non nascondevano il fatto che Navalny veniva sottoposto a una tortura continua. «È stato torturato con la fame per tre anni», ha detto dopo la sua morte la moglie Yulia, è stato torturato con il freddo, con l’assenza delle cure mediche, con l’isolamento in cella di punizione e l’ora d’aria a meno 20 gradi, in una cella minuscola che si distingueva da quella dov’era rinchiuso soltanto per l’assenza del tetto. Nemmeno la persona più robusta sarebbe riuscita a sopravvivere per altri vent’anni in quelle condizioni, e Navalny – che a 47 anni aveva già alle spalle l’avvelenamento con l’agente nervino Novichok, nell’agosto 2020 –diceva che era un «prigioniero a vita: o mia, o quella di Putin».
Non si tratta di elezioni, bensì di un rituale totalmente organizzato dal Cremlino, che sceglie chi corre e quanti voti riceverà
Una morte annunciata, che però ha provocato uno shock, in Russia e all’estero. Fino al momento dell’annuncio del decesso, il 16 febbraio 2024, era difficile credere che il Cremlino avrebbe osato superare un’altra linea rossa. Navalny era il dissidente russo più famoso nel mondo, premio Sakharov del Parlamento europeo, protagonista di un documentario che aveva vinto l’Oscar, sorvegliato speciale di Governi e organizzazioni internazionali: un personaggio il cui stesso peso mediatico e politico sembrava metterlo al riparo da gesti estremi da parte del regime. Era così per l’Unione Sovietica, con Sakharov e Solzhenitsyn, non è stato così con il Cremlino di Putin che ha voluto mandare un messaggio chiaro a tutti, ai russi, agli ucraini, agli occidentali: non esistono «linee rosse», e nessun danno reputazionale è considerato eccessivo. In molti, in Occidente, si sono chiesti se la morte di Navalny, a un mese dalle elezioni presidenziali, convenisse a Putin, ma la risposta è che non si tratta di elezioni, bensì di un rituale totalmente organizzato dal Cremlino, che sceglie chi corre e quanti voti riceverà.
È una dimostrazione del dominio
totale di Putin sulla Russia, e la morte di Navalny è funzionale allo stesso messaggio: nessun compromesso verrà cercato, nessun dissenso verrà più tollerato. Lo si è visto dalle centinaia di arresti di russi che depositavano fiori agli altarini improvvisati per il dissidente: la polizia ha minacciato e picchiato molti di loro, e agli uomini sono subito arrivate lettere di coscrizione come punizione. Lo si è visto dalla macabra manipolazione con il corpo di Navalny, inizialmente nascosto ai parenti e agli avvocati per non meglio precisati «esami», e dalla «sindrome di morte improvvisa» citata come causa del decesso, in una palese presa in giro che ricorda le diagnosi del Gulag staliniano, nel quale tutti i detenuti morivano di «paralisi cardiaca». Lo si vedrebbe ancora più spietatamente se venisse confermato che il detenuto più famoso della Russia è stato ucciso, non dalle torture e dalle condizioni disumane del carcere, ma da un veleno somministratogli per mostrare a tutto il mondo che dalla vendetta dei servizi russi non c’è scampo.
Una sfida, alla quale ora le diplomazie sono chiamate a trovare la risposta. Le «elezioni» di Putin potrebbero essere proprio uno dei bersagli della reazione dell’Occidente alla morte di Navalny, ora allo studio di diversi Governi. Gli Stati Uniti hanno già annunciato un nuovo pacchetto di sanzioni, minacciato da Joe Biden in caso di decesso dell’oppositore in carcere già tre anni fa, al momento del suo arresto. Doveva essere una misura deterrente contro il Governo russo, quindi possiamo immaginare che le nuove sanzioni colpiranno qualche settore o persona del regime rimasti finora indenni. Al Consiglio dei ministri degli esteri del G7 e all’Europa la vedova di Navalny ha chiesto invece di non riconoscere le elezioni che a metà marzo dovrebbero regalare a Putin il quinto mandato al Cremlino. Una formalità, ma importante: un segnale a tutto il mondo, incluse le autocrazie che trattano con la Russia. Putin rimarrebbe inevitabilmente l’uomo cui riferirsi, ma senza più la legittimità internazionale, equiparato a un dittatore come Alek-
sandr Lukashenko. Proprio in queste settimane le pressioni internazionali sui «partner» di Mosca hanno già spinto diverse grandi banche turche e cinesi a cancellare la cooperazione con i clienti russi: lo hanno fatto per paura delle sanzioni, ma l’indignazione globale per la morte di Navalny può fornire una giustificazione anche morale.
Il problema vero della missione di Yulia Navalnaya non sarà, probabilmente, tanto quello di convincere un Occidente esterrefatto, quanto di immaginare un’azione politica in una Russia diventata una dittatura. L’opposizione russa, solitamente molto divisa, sembra aver accolto all’unanimità la guida, almeno morale, della vedova di Navalny. La sua rabbia, la gelida furia con la quale ha pronunciato «Putin ha ucciso mio marito» e promesso di portare il regime a rispondere dei suoi crimini, hanno ridato orgoglio a milioni di russi che con la morte di Navalny sentivano di avere perso ogni speranza. Sarà molto più difficile però proporre un programma di azione, in un sistema
(Keystone)
dove la libera espressione è limitatissima, scendere in piazza è impossibile, i candidati non allineati vengono espulsi dalle campagne elettorali e i prigionieri politici si contano ormai a migliaia.
Il sogno di Navalny era una Russia europea cui si arrivava da una piazza che chiedeva elezioni libere, una rivoluzione pacifica oggi totalmente utopica. Oggi fare opposizione in Russia significa seguire l’esempio di Navalny, andando incontro a un martirio. La maggior parte dei leader e degli intellettuali che ispirano la protesta si trovano all’estero, e non possono certamente chiedere ai russi di ribellarsi rischiando la vita e la libertà. È evidente che Putin non ha il consenso che vanterà il 17 marzo, perché altrimenti non avrebbe avuto bisogno di arrestare anche le ragazze che portavano due garofani per commemorare il dissidente. Ma è altrettanto evidente che, per il momento, il regime del Cremlino può venire fatto vacillare più dalle sortite dei droni ucraini e dalle pressioni occidentali, che da una esplosione di scontento interno.
● ◆ Settimanale di informazione e cultura Anno LXXXVII 26 febbraio 2024 azione – Cooperativa Migros Ticino 23
Yulia Navalnaya incarna la speranza dei russi contrari a Putin.
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Soldato ucraino nei pressi di Zaporizhzhia. (Keystone)
«Kiev ha perso la guerra»
Ucraina ◆ Il punto sul conflitto con il generale Marco Bertolini
Angela Nocioni
«In Ucraina bisogna arrivare alla pace con una soluzione politica e senza umiliare Putin. Per due ragioni. La prima: la regola numero uno di ogni guerra è che il nemico deve avere margine, non deve essere umiliato. La seconda è che Putin la guerra l’ha già vinta». Sono parole del generale italiano Marco Bertolini, già comandante del Comando operativo di vertice interforze e della Brigata paracadutisti Folgore. «Il conflitto andava chiuso molto prima, senza alimentare infondate illusioni di vittoria di Kiev», sottolinea l’esperto, in pensione dal 2016. Bertolini ha avuto una carriera tutta sul campo, soprattutto è stato a capo dei militari italiani nelle missioni internazionali in Afghanistan, Libano, Somalia, Bosnia e Kosovo. Lo abbiamo intervistato.
Qual è la situazione sul campo in Ucraina?
Dopo la controffensiva mancata da parte dell’Ucraina si sta assistendo a una forte ripresa della pressione russa. Le forze russe dominano nettamente. Gli ucraini a fine estate erano riusciti a rettificare appena le linee di contatto ma non è mai cambiata la sostanza della situazione, il grosso del territorio conquistato è rimasto sempre sotto controllo russo. L’unica timida avanzata ucraina è stata a Kharkiv ma lì è successo che i russi –per ragioni tattiche erano in inferiorità numerica in quella zona – si sono ritirati, in realtà come decidono di riconquistare un territorio ci riescono in poco tempo. Per questa ragione credo, in agosto, il segretario generale della Nato, Stoltenberg, ha lasciato che il suo capo di gabinetto, Jenssen, indicasse la possibilità che l’Ucraina ceda parte dei territori a Mosca in cambio dell’ingresso nella Nato. La Nato sa che la guerra gli ucraini l’hanno persa. La speranza di riconquistare tutto il territorio occupato dai russi non è realistica.
Dove è più forte al momento la minaccia russa?
Ora sono di nuovo i russi a premere sulle linee ucraine, a nord, di ritorno in un’area che avevano già occupato. Dove è più minacciosa per gli ucraini la pressione russa al momento è a nord di Donetsk, in un’area fortificata dal 2014, organizzata a difesa.
Un nuovo corso?
Italia ◆ Giorgia Meloni ed Elly Schlein: duellanti che sanno cooperare ottenendo risultati
Cristina Marconi
Ma altrove, anche dove gli ucraini erano riusciti faticosamente a creare un piccolo saliente in territorio occupato (nel lessico militare il saliente è una proiezione in territorio nemico, quindi un territorio conquistato ma in cui si è circondati ndr.) i russi si stanno riprendendo tutto. Pur non trovandoci in piena controffensiva russa, è la Russia che sta premendo ora e le teste di ponte, quando gli ucraini riescono a crearle, non si trasformano in niente di significativo e vengono riassorbite subito.
Si continua a combattere anche dal cielo?
Le battaglie sono sempre aeroterrestri. Oggi non ci potrebbe essere una pressione russa efficace se non ci fosse il controllo della terza dimensione, lo spazio aereo. La superiorità russa è tale che consente a Mosca di dare supporto aereo ravvicinato sempre in aderenza a operazioni terrestri.
Gli ucraini non sono ora in grado di vincere o non lo sono mai stati? Non lo sono mai stati, dall’inizio della guerra. La sproporzione di forze è notevole, e anche se possiamo dire che adesso hanno rodato l’organizzazione dopo il lungo periodo di conflitto, sono sotto scacco costante, devono reclutare persone a forza. In guerra, in ogni epoca, la massa, cioè il numero di persone che è possibile impiegare sul campo, fa la differenza. Sul piano militare non è ipotizzabile una vittoria ucraina, bisogna prenderne atto e sedersi al tavolo dei negoziati. Gli ucraini non sono in grado di ribaltare i rapporti di forza. Non so come sia stata fabbricata l’idea di una probabile rapida sconfitta dei russi. C’è stata una sopravvalutazione del potenziale tecnologico occidentale. In guerra la tecnologia è importantissima ma non è tutto e non basta da sola. A parte che i russi hanno i missili ipersonici che nemmeno Washington possiede. Poi si finge di non sapere che buona parte dell’opinione pubblica russa è dalla parte di Putin. I russi sono numerosi; l’Ucraina ha perso milioni di cittadini, fuggiti all’estero o in Russia. I russi prevalgono per massa e fuoco. La potenza di fuoco sprigionata dai russi, soprattutto con l’artiglieria, è superiore, e questo fa impressione se
si pensa agli aiuti arrivati in Ucraina da tutto l’Occidente.
Le armi inviate dall’Occidente sono in mano a persone che le sanno usare?
Ci sono i sistemi sofisticati usabili solo da specialisti, quello è un problema. Per esempio la manutenzione degli aerei, quella non può essere improvvisata, è impossibile poi imparare a usare la contraerea e i Patriot (missili). Si impara a utilizzare un carro armato, un fucile, l’artiglieria. E per quelli i militari ucraini, una parte ovviamente, vengono addestrati altrove.
Dove?
In Germania all’uso dei Leopard, i tedeschi insegnano come usare i carri armati tedeschi. Poi in Polonia, in Gran Bretagna. Ma resta il problema che non si può addestrare tutti e poi mancano i pezzi di ricambio, il personale specializzato che sa fare manutenzione. Questa è una guerra particolarmente cruenta che all’inizio ha impegnato un lunghissimo tratto di fronte, dalla Bielorussia, a nord di Kiev, fino alla Crimea e a Kherson. I russi hanno conseguito gli obiettivi che si ponevano dopo poco più di tre mesi. Il loro impegno principale è stato all’inizio tra il Donbass e la Crimea, il Mar d’Azov è un lago sotto il controllo russo, si sono presi presto Mariupol con la sua acciaieria. Per capire questa guerra bisogna avere chiaro che il Mar Nero è per il Cremlino l’unico collegamento con il Mediterraneo e con l’Europa. Due delle cinque flotte russe lì stanno. La guerra vera che Putin sta combattendo è per il controllo del Mar Nero. Ora, la Georgia e la Crimea sono sempre state per qualsiasi Governo russo, non solo per il regime di Putin, delle linee invalicabili. Mosca mai acconsentirebbe all’ingresso della Georgia nella Nato, e lo stesso niet vale per la Crimea. Credo che l’incriminazione di Putin presso la Corte penale internazionale sia un ostacolo sulla via del negoziato. Putin non vuol fare la fine di Saddam o Milošević e per lui è impensabile rinunciare al Donbass e alla Crimea. Bisognerebbe prenderne atto, spiegare a Zelensky che non vincerà mai ed evitare di lasciar massacrare persone invano.
Che duri o meno, è una stagione felice per la politica italiana, quella in cui due donne sono alla guida di Governo e opposizione e, al di là della divergenza di opinioni di cui sono portatrici, trovano una maniera intelligente di cooperare. Giorgia Meloni ed Elly Schlein stanno facendo questo: per calcolo, perché questo fanno le politiche, hanno agito in sincrono in un’occasione importante e hanno ottenuto risultati di rilievo. Il primo è stato gestire in maniera astuta una questione delicata per entrambe: il Medioriente. Il secondo è stato mandare un messaggio di autonomia e decisionismo ai rispettivi alleati politici, che hanno reagito con una stizza tale da far pensare che il colpo sia andato a segno. Il terzo è un risultato culturale in un Paese che sta facendo un po’ fatica, per usare un eufemismo, ad accettare il cambio di passo in corso nel rapporto tra i sessi. Pubblicizzare i loro contatti ha avuto l’effetto di elevarle entrambe e migliorare almeno di poco l’atmosfera in un dibattito politico molto deteriorato. La fascinazione che la stampa prova per questo presunto «inciucio in rosa» dimostra l’assoluta rarità dello scenario. Se «Memole il folletto contro il manga Occhi di gatto» è il tono scelto dalla grande stampa («Corriere della sera»), è facile immaginare cosa hanno fatto testate dai toni meno istituzionali per raccontare l’evento, ossia la decisione di Fratelli d’Italia di astenersi sulla mozione del PD sul cessate il fuoco immediato a Gaza a metà febbraio dopo aver aperto un canale di telefonate con Schlein. Quest’ultima ha messo a segno un colpo politico, mostrando un po’ di quella scaltrezza che finora le è mancata, mentre Meloni ha potuto allinearsi discretamente alla sensibilità della Casa Bianca, dove Joe Biden sta manifestando una crescente insofferenza verso la portata disumana assunta dalla reazione di Netanyahu agli attacchi del 7 ottobre. Si sono salvate la faccia a vicenda, come da sempre fanno i politici maschi. Solo che, essendo due donne, è una notizia. Per Matteo Salvini e Giuseppe Conte, le seconde file involontarie di questo asse, l’orizzonte di attesa è la possibile rielezione di Donald Trump, che farebbe tornare di moda un certo brand di polemica e populismo. A loro la polarizzazione serve, se ne nutrono, mentre a Meloni e Schlein no: entrambe devono crescere, una deve migliorare la sua caratura istituzionale e la sua immagine internazionale, in cui l’accusa di fascismo risuona più che in Italia, mentre l’altra, che ha acceso un certo entusiasmo all’estero, non può accontentarsi di gridare al fascismo in eterno. Alcuni parlano di «sincronia
di rogne» da gestire insieme, come ad esempio il nodo del terzo mandato per i governatori delle Regioni, a cui entrambe sono fermamente contrarie. Meloni vuole vedere liberare il Veneto, sia perché immettere Luca Zaia nel circuito nazionale crea enormi nervosismi nella Lega, sia perché ha bisogno che il suo partito governi una delle regioni del Nord. Schlein perché ha tre oppositori interni ingombranti in De Luca, Emiliano e Bonaccini e preferirebbe mettere gente più leale alla sua segreteria. Quando il governatore della Campania ha usato epiteti inaccettabili nei confronti della premier, Schlein non l’ha difesa: sarebbe stato troppo, e poi anche da Fratelli d’Italia il linguaggio non è sempre aulico.
Le due donne non potrebbero essere più diverse, e su questo sono stati già spesi fiumi d’inchiostro. Sicuramente su quelle diversità dovranno tornare a insistere, ma per molti sarebbe bene che la sintonia andasse al di là delle questioni demagogiche su cui è saggio trovare una linea accettabile: magari parlassero di riforme vere, di famiglie e di natalità, di ambiente e di tutto quello che fa la realtà quotidiana di un Paese, di una società. Uno dei punti di forza di questo possibile asse è che le due non hanno nessuna speranza di attirare a sé l’elettorato dell’altra, mentre possono invece pescare sia nella Lega sia nei Cinque Stelle se emergono come la persona forte al comando. Donne di potere, che agiscono come tali e che, all’occasione, si preparano a duellare. Dovrebbe infatti tenersi a fine marzo il faccia a faccia televisivo – potrebbero essere due appuntamenti – tra le due in vista delle europee. Meloni è più centrata sul suo messaggio, la sua è una leadership matura, mentre Schlein ancora non ha trovato una sua voce e non ha quasi nessun appeal nazionalpopolare, tanto che Lilli Gruber le disse: «Ma chi la capisce se parla così?». Però si prepara, basta guardare i suoi vecchi video a Strasburgo in cui attaccava la Lega per capire che quando vuole ha una sua efficacia. Mentre in Sardegna campeggiano i poster con il profilo di Meloni e lo slogan «Forte e fiera», la leader del PD è costantemente in bilico, non ha conquistato il partito e il futuro di questo timido dialogo è tutto nelle sue mani. Una candidatura di entrambe come capolista in tutte le circoscrizioni potrebbe aumentare l’affluenza, secondo i sondaggisti. Interessante. La narrativa delle due donne, delle due duellanti che però sanno trovare un modo di lavorare insieme quando serve, è più accattivante del previsto e potrebbe inaugurare una nuova stagione, un nuovo modo di fare le cose.
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Elly Schlein, all’opposizione, e la presidente del Consiglio Giorgia Meloni. (Keystone)
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Una Nato orfana degli Stati Uniti
L’analisi ◆ Donald Trump e le sue posizioni isolazioniste potrebbero tornare in sella con le prossime elezioni presidenziali Cosa succederà all’Alleanza atlantica e quale futuro è realistico immaginare per la sicurezza europea?
Federico Rampini
Tra un anno l’America sarà governata da Donald Trump (nella foto a destra) e annuncerà la sua uscita dalla Nato? Che lo faccia o meno, quale futuro è realistico immaginare per la sicurezza europea? Gli ottimisti a oltranza si aggrappano al fatto che per uscire dal Trattato Atlantico non basta una decisione del presidente, occorre un voto del Congresso di Washington con una maggioranza qualificata dei due terzi. Vero. Ma la credibilità della difesa Nato contro un’aggressione russa non è legata solo al testo di quel trattato. Se un presidente degli Stati Uniti solleva dei dubbi sulla volontà di rischiare le vite dei propri soldati in una terza guerra mondiale per difendere la Lituania o l’Estonia o la Polonia, l’articolo 5 della Nato perde credibilità e agli occhi di Vladimir Putin quel deterrente diventa carta straccia. Inoltre Trump non è l’unico problema: dietro di lui bisogna osservare l’evoluzione dell’opinione pubblica americana. Anche a sinistra cresce l’isolazionismo, ribattezzato pacifismo.
Trump – che nei sondaggi è in leggero vantaggio su Joe Biden – non è l’unico problema. Anche a sinistra cresce l’isolazionismo, ribattezzato pacifismo
Nei sondaggi Trump è in leggero vantaggio su Joe Biden, nella sfida diretta tra i due che al momento rimane lo scenario più probabile. Trump di recente ha «regalato» a Putin, per così dire, quei Paesi europei che pur appartenendo alla Nato non mantengono gli impegni presi sulle spese per la difesa. In sostanza ha detto che questi Paesi – tra i quali figura l’Italia, sempre inadempiente rispetto alla promessa di dedicare almeno il 2% del PIL alle forze armate – non potranno contare che sia l’America a difenderli; la Russia se li prenda pure. Può succedere di tutto nei prossimi mesi, ovviamente anche sul piano giudiziario, però anche chi continua a considerare improbabile un Trump 2 è costretto a esaminarlo come una ipotesi.
La Nato ha garantito la pace e la sicurezza degli europei per tre quarti di secolo. Non esisterebbe senza gli Stati Uniti, o diventerebbe una pallida caricatura. Può sopravvivere a una loro uscita; o con un’America defilata e riluttante? L’uscita dalla Nato segnerebbe una rottura clamorosa con gli ultimi 75 anni di storia. Chiuderebbe anche con tutta la politica globalista inaugurata da Franklin Delano Roosevelt quando portò l’America a intervenire nel secondo conflitto mondiale per sradicare i nazifascismi dall’Europa. Sarebbe un ritorno a un’altra politica, che pure ebbe lunga tradizione e antenati nobili: l’isolazionismo fu dominante per lungo tempo dalla fondazione degli Stati Uniti in poi, con eccezioni come la presidenza del primo Roosevelt (Theodore) e di Woodrow Wilson nella Prima guerra mondiale. Però le radici dell’isolazionismo americano sono profonde.
L’uscita degli Stati Uniti dalla Nato viene evocata diplomaticamente con uno slittamento linguistico. Da tempo immemorabile i presidenti e i Congressi Usa invocano un «burden-sharing» più equilibrato: una ripartizione degli oneri di finanziamento della Nato più bilanciata con
gli alleati europei, molti dei quali si comportano come dei parassiti della difesa, felici di vivere al sicuro sotto l’ombrello protettivo americano, ma riluttanti a finanziare delle forze armate adeguate. Fu ai tempi di Barack Obama che il tema del «burden-sharing» venne adottato come un impegno formale e ufficiale: tutti gli Stati membri dell’Alleanza Atlantica promisero solennemente di dedicare alla sicurezza almeno il 2% del PIL nazionale. L’Italia e altri non l’hanno mantenuta neppure dopo l’invasione della Russia in Ucraina; la Germania ci sta riuscendo da poco. Molti americani, non solo nelle alte sfere ma anche nell’opinione pubblica, si sentono presi per i fondelli. A maggior ragione se alcuni di quei Paesi che vivono al sicuro da parassiti sono pronti a criticare «l’imperialismo Usa». Trump è solo uno dei tanti presidenti Usa che hanno giudicato deplorevole questo stato di cose.
Ormai Trump non si limita a rilan-
ciare il tema del «burden-sharing». Fa un passo più. La nuova parola-chiave è «burden-shifting»: dalla suddivisione o condivisione degli oneri si passa allo spostamento o trasferimento di questi oneri. L’America se ne andrebbe dal Vecchio Continente e il conto delle spese per difendersi lo passerebbe agli europei. Trump è convinto che gli Stati Uniti non abbiano dei veri interessi vitali da difendere con una presenza militare costosa e ingombrante in Europa. Questa visione è contestabile ed esistono robusti argomenti di segno opposto. L’accumulo di interessi materiali investiti nella relazione transatlantica è notevole e ci sarà un forte vento contrario rispetto alla scelta di abbandonare l’Europa al suo destino.
Un’alternativa all’uscita secca dalla Nato, di cui discutono alcuni think tank repubblicani, è lo scenario della «dormant Nato», una Nato dormiente. Questo significa che gli Stati Uniti riporterebbero a casa gran parte o
la totalità dei propri militari di stanza in Europa, e trasferirebbero sugli alleati europei buona parte degli oneri e responsabilità per la loro difesa (con un’operazione di «burden-shifting»).
L’Alleanza atlantica resterebbe in vigore, sì, ma come un patto scritto sulla carta, non concretizzato dalla presenza di basi militari e decine di migliaia di soldati Usa sul suolo europeo. Sarebbe l’America a diventare così un alleato dormiente, con la promessa di intervenire solo in caso di attacco… Quanto credibile?
Un’alternativa all’uscita secca dalla Nato, di cui discutono alcuni think tank repubblicani, è lo scenario della «dormant Nato», una Nato dormiente
Lo scenario è meno traumatico dell’uscita dalla Nato. Tuttavia lo shock per gli europei sarebbe spaventoso: per 75 anni non hanno mai dovuto attrezzarsi a difendersi da soli da un attacco russo e a combattere per primi contro l’invasore «nell’attesa» che arrivino rinforzi da oltreatlantico. Altro che 2% del PIL per le spese militari! Questa ipotesi ricorda la terribile posizione in cui si trovò la Gran Bretagna di Winston Churchill nei primi due anni della Seconda guerra mondiale, quando fronteggiava praticamente da sola l’offensiva della Germania nazista, sperando che l’America sarebbe venuta in suo soccorso. L’intervento americano tra l’altro arrivò solo perché il Giappone commise il fatale errore di attaccare gli americani sul loro territorio, a Pearl Harbor nel dicembre 1941. Nell’atmosfera di presunto «paci-
fismo» che domina oggi in Europa, il trauma di un semi-abbandono dagli Stati Uniti spingerebbe verso l’eroismo inglese del 1940, oppure sarebbe l’inizio di un «liberi tutti», e una corsa di vari leader a ri-accreditarsi come volenterosi vassalli al servizio di Putin e Xi Jinping? Riguardo alla dimensione bipartisan del neo-isolazionismo Usa, è interessante la fotografia sullo stato d’animo dell’America che traspare da un’indagine autorevole, divulgata in occasione di un appuntamento tradizionale del partito repubblicano (ma non trumpiano): il Reagan National Defense Forum. L’indagine va ben oltre il tema atlantico, si estende a Israele e Taiwan. Sotto i trent’anni di età, solo il 29% degli americani ritiene che l’America «debba essere più impegnata negli affari internazionali e assumere un ruolo guida nel mondo», mentre lo pensa il 60% degli ultrasessantacinquenni.
I giovani sono anche due volte più numerosi degli anziani a dirsi contrari a qualsiasi aumento delle spese per la difesa. Questo si riflette – all’ennesima potenza – nella loro scarsa propensione a indossare una divisa e intraprendere una carriera militare. A novembre 41 milioni degli aventi diritto a votare saranno giovani della Generazione Z. La loro partecipazione elettorale di solito è inferiore a quella degli anziani, ma comunque rappresentano un elettorato molto importante. L’atteggiamento antiamericano e antioccidentale di tanti giovani di sinistra, paradossalmente viene «captato» meglio dall’isolazionismo di Trump che non dalla politica atlantista di Biden. È uno di quei casi in cui le due ali estreme dell’arco politico si ricongiungono.
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Svolta nella gestione dei migranti
Confederazione ◆ Beat Jans non perde tempo, visita il centro richiedenti l’asilo di Chiasso e scopre le prime carte Il neo-consigliere intende contrastare i reati dentro e fuori i Centri federali di accoglienza e accelerare le procedure
Roberto Porta
Sembra andar di corsa il neo-consigliere federale Beat Jans (nella foto). Solitamente a un ministro fresco di elezione vengono concessi cento giorni per abituarsi al suo lavoro e anche alla sua nuova vita. Al termine di questi tre mesi viene poi organizzata una prima conferenza stampa, in cui il consigliere federale in questione parla del suo programma e fa capire quale sarà la nuova impostazione alla guida del Dipartimento federale che gli è stato assegnato. Questa la consuetudine, figlia di regole non scritte, una prassi più che consolidata nella storia del nostro Paese. Il neo-ministro di giustizia e polizia ha invece pigiato sull’acceleratore e in una cinquantina di giorni soltanto ha scoperto le sue prime carte.
Un tema delicato è quello dei profughi ucraini che vivono nel nostro Paese e che beneficiano dello Statuto di protezione S
A sorpresa, la settimana scorsa, Jans ha fatto leva su una visita già prevista da tempo a Chiasso per presentare alcune riforme della politica d’asilo nel nostro Paese, aggiungendo anche un pacchetto pensato in modo specifico per Chiasso e più in generale per il Basso Mendrisiotto. Va detto che questa trasferta in Ticino era prevista da tempo, era stata annunciata da Elisabeth Baume-Schneider in autunno, prima che decidesse di lasciare la guida del Dipartimento federale di giustizia e polizia. Jans non si è però limitato a mantenere questo appuntamento, il neo-consigliere federale ha voluto fare di questa sua visita a Chiasso una sorta di punto di partenza per una svolta nella gestione dei migranti in Svizzera.
Diverse le misure che ha presentato, lungo due direttive principali. Con la prima si mira ad accelerare maggiormente le procedure d’asilo, facendo leva su un progetto pilota già collaudato a Zurigo e con il quale in
sole 24 ore si evadono le richieste di persone che – visto il loro Paese d’origine: Algeria, Marocco e Tunisia –hanno meno dell’1% di possibilità di ottenere lo statuto di rifugiato e di rimanere in Svizzera. Il secondo capitolo di misure presentato da Jans mira invece a contrastare il più possibile chi commette reati dentro e fuori i Centri federali di accoglienza. Tra i richiedenti l’asilo sono pochi quelli che non rispettano le regole, ha sottolineato il neo-ministro, intenzionato comunque a intervenire con maggiore decisione in questo ambito, anche attraverso un maggiore ricorso alla carcerazione preventiva o al rinvio coatto, migliorando anche la collaborazione con i Cantoni. «Capisco che la popolazione si senta costretta ad accettare la situazione e non al sicuro», ha fatto notare Jans. Toni che hanno sorpreso, soprattutto perché espressi da un politico di sinistra. Per Jans però l’ideologia conta poco, come ha tenuto lui stesso ad affermare, ci sono dei problemi e vanno affrontati.
Quanto presentato a Chiasso non è però piaciuto all’Organizzazione svizzera di aiuto ai rifugiati, secondo cui queste misure violano il diritto d’asilo. In ogni caso dopo il difficile anno di Elisabeth Baume-Schneider alla guida di questo delicato settore, ora il vento sembra essere cambiato, come sottolineato anche dalla reazione positiva dei sindaci dei comuni del Mendrisiotto e dai rappresentanti del Consiglio di Stato ticinese che martedì scorso hanno incontrato il neo-ministro. Al momento si tratta comunque soltanto di buoni propositi che andranno ora implementati, sfruttando i margini di manovra concessi dalle norme in materia. Per quanto riguarda Chiasso e il Basso Mendrisiotto i provvedimenti riguarderanno soprattutto la questione della sicurezza, abbinata a una maggiore integrazione dei richiedenti nella vita sociale della regione, migliorando ad esempio il loro coinvolgimento in lavori di pubblica utilità. Va detto che proprio questa settimana a Berna inizia la ses-
sione primaverile delle Camere federali, un appuntamento che potrebbe in parte spiegare il colpo di acceleratore di Beat Jans. Il ministro basilese dovrà affrontare in aula alcuni nodi irrisolti della politica d’asilo svizzera, e la tappa di Chiasso gli permette di presentarsi davanti al Parlamento con toni propositivi e con qualche misura pronta a essere varata. Nelle tre settimane di sessione il tema dei migranti emergerà più volte durante i dibattiti parlamentari.
Tra gli argomenti da affrontare ve n’è uno decisamente delicato dal punto di vista politico, ed è quello che riguarda i profughi ucraini che vivono nel nostro Paese e che beneficiano dello Statuto di protezione S. Un tema che Beat Jans non ha affrontato durante la sua visita a Chiasso ma che non potrà evitare nelle prossime settimane. Ma andiamo con ordine. L’invasione russa dell’Ucraina è iniziata ormai due anni fa e quasi da subito il nostro Paese ha messo a disposizione questo statuto di protezione alle migliaia di cittadini ucraini che per una ragione o per l’altra hanno scelto la
Svizzera come luogo di rifugio, a fine 2023 erano oltre 66mila i profughi a cui è stata accordata questa protezione speciale. Lo Statuto S era stato pensato negli anni 90 del secolo scorso, dopo la guerra nell’ex Jugoslavia, ma non era mai stato applicato concretamente. Si tratta dunque di una prima storica. Questo regime permette una maggiore libertà di movimento rispetto allo statuto di rifugiato, i cittadini ucraini possono ad esempio ottenere il ricongiungimento famigliare, lavorare anche in modo indipendente e viaggiare all’estero, senza autorizzazioni particolari. Lo Statuto S ha un anno di validità, che però può essere prolungata fino a cinque anni. Nel novembre scorso il Consiglio federale ha deciso di estenderne la validità fino al mese di marzo del 2025, poi si vedrà. Ma già in precedenza da più parti erano emerse critiche per questo statuto speciale, pensato per far fronte a una situazione di emergenza e non per una crisi che rischia di prolungarsi a tempo indeterminato, creando di fatto due categorie di profughi, quelli che devono affrontare la procedura d’asilo
canonica e quelli che invece possono avvalersi dello Statuto S. Al netto dei casi di abusi, va detto che questo statuto interpella direttamente i Cantoni e i Comuni, chiamati a coprire le spese di sostentamento e di alloggio di questi cittadini ucraini. Più il tempo passa e più cresce il sospetto che la Confederazione voglia mantenere questo statuto anche per poter continuare a riversarne una buona parte dell’onere ai Cantoni e ai Comuni. Per il Consiglio federale ogni tipo di adattamento di questo statuto va coordinato con l’Unione europea, visto che ogni Paese del Vecchio Continente ha dovuto fare i conti con questa improvvisa ondata migratoria. Il tema verrà discusso dal Consiglio degli Stati nel corso di questa sessione primaverile delle Camere federali. In aula ci sarà anche Beat Jans, per la prima volta in veste di consigliere federale. E così, ancor prima dei canonici cento giorni, scopriremo la visione del neo-ministro anche per quanto riguarda la gestione dei profughi ucraini. Il basilese sembra proprio andare di corsa.
Per proteggere il mio patrimonio dall’inflazione a lungo termine quali misure devo adottare?
La consulenza della Banca Migros ◆ Per compensare la perdita di potere d’acquisto e preservare il capitale bisogna ricorrere a uno o più investimenti che producano un solido rendimento
In Svizzera si registra attualmente un’inflazione dell’1,3%, con tendenza al ribasso. Di conseguenza la situazione sul fronte dei prezzi si è un po’ alleggerita. Eppure il suo patrimonio perde costantemente valore. Per compensare la perdita di potere d’acquisto dovrebbe ricorrere a uno o più investimenti che producano un solido rendimento.
È consigliabile conservare una parte del patrimonio sul conto di risparmio come riserva per coprire spese impreviste come riparazioni o fatture mediche. Inoltre di recente i tassi d’interesse sui fondi di risparmio sono nettamente aumentati: alla Banca Migros chi vuole risparmiare beneficia di un tasso d’interesse dell’1,4% sul conto di risparmio bo-
nus. Ciò significa che la perdita di potere d’acquisto può attualmente essere interamente compensata e, per la prima volta da molto tempo, il conto di risparmio bonus della Banca Migros consente di ottenere un tasso d’interesse reale positivo. Ma questo rappresenta solo un’istantanea. Per garantire la conservazione del valore patrimoniale è necessario effettuare un’analisi più a lungo termine.
Sfruttare l’effetto degli interessi composti
Se vuole proteggere efficacemente il patrimonio dall’inflazione, oltre a mettere da parte denaro sul conto di risparmio dovrebbe investire in borsa. Nel lungo periodo le azioni hanno il potenziale di rendimento
più elevato. Quanto più lungo è l’orizzonte temporale, tanto maggiore sarà l’effetto degli interessi composti. Per esperienza sappiamo che le oscillazioni dei corsi e le relative perdite di corso vengono ampiamente compensate su un periodo di tempo più lungo. Inoltre il valore delle azioni può aumentare in seguito all’inflazione, ovvero quando un’azienda si adegua alle pressioni inflazionistiche trasferendo il rincaro ai clienti. Se l’azienda mantiene i margini di profitto continua a generare utili elevati. E di questi beneficiano anche le quotazioni azionarie delle relative imprese.
Per ridurre al minimo i rischi di perdita nel suo portafoglio può inserire anche investimenti alternativi, co-
me l’oro o gli immobili. Queste classi di asset non sono però adatte come unica protezione contro l’inflazione.
Consiglio
Per far fronte all’inflazione, oltre agli investimenti finanziari dovrebbe considerare anche i potenziali risparmi nella vita di tutti i giorni, ad esempio sui costi abitativi o sui premi della cassa malati. Dal momento che i salari non sono aumentati nella stessa misura negli ultimi tempi, si è verificata una notevole perdita dei salari reali in questi ambiti. Fissi un appuntamento per ricevere una videoconsulenza personalizzata. bancamigros.ch/videoconsulenza
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Il Mercato e la Piazza
Banche: un ramo in ristrutturazione
Dagli ultimi anni 50 alla fine del secolo scorso l’economia ticinese ha vissuto uno sviluppo senza precedenti grazie soprattutto alla straordinaria crescita della sua piazza finanziaria. Questo sviluppo è stato guidato dalle banche il cui numero è rapidamente cresciuto. Dalla decina di istituti che il Cantone contava all’uscita della Seconda guerra mondiale, questo effettivo doveva raggiungere nel 2005, al momento della sua massima estensione, le 78 unità. Ovviamente non si trattava solo di banche al servizio dell’economia locale. Gli istituti ticinesi raccoglievano la maggior parte dei loro capitali all’estero e all’estero indirizzavano i loro investimenti. Come noto, questo sviluppo dell’effettivo delle banche in Ticino era legato all’esistenza del segreto bancario che consentiva ai clienti stranieri di sfuggire ai rigori del fisco delle loro Nazioni. Poi, con il nuovo secolo, a met-
In&Outlet
ter in forse questo sviluppo vennero gli scudi fiscali del Governo italiano, la crisi internazionale del settore finanziario e le minacce di includere la Svizzera nella lista nera dell’OCSE se persisteva a mantenere il segreto bancario per i clienti stranieri. Così, verso la fine del primo decennio del secolo, il Governo elvetico si decise ad accettare il principio dello scambio automatico di informazioni con Governi stranieri sui depositi dei loro cittadini e le nostre banche adottarono, d’un colpo, la strategia del denaro bianco. Questo per evitare di essere incluse nelle liste nere. Con il primo gennaio 2017 entrò in vigore l’ordinanza sullo scambio automatico di informazioni che mise fine al periodo in cui la Svizzera era un’oasi fiscale. Questi miglioramenti nella trasparenza con cui le banche gestiscono i flussi di denaro esteri hanno avuto un’influenza negativa sul loro sviluppo durante il se-
condo decennio del nuovo secolo. Dal 2008 al 2022 l’effettivo delle banche in Svizzera si è ridotto del 28,1%. Ancora maggiore è stata la ristrutturazione sulla piazza finanziaria ticinese. Come provano le cifre pubblicate di recente dall’Ufficio cantonale di statistica, in Ticino nello stesso periodo è scomparsa circa la metà delle banche. La ristrutturazione del settore bancario, che continua, ha avuto una serie di conseguenze negative per lo sviluppo dell’economia cantonale. Oltre ai problemi dell’occupazione nel settore, si sono oscurate anche le prospettive delle aziende che lavoravano per questo settore (informatica ed elettronica). Il Ticino continua a essere una piazza finanziaria importante: mentre in Svizzera, nel 2022, si contava una banca ogni 37’500 abitanti da noi il rapporto è sempre ancora di una banca ogni 9000 abitanti. Comunque il potenziale di questa piazza si è ridot-
Navalny come un eroe risorgimentale
Come ha reagito l’Europa alla morte di Navalny? Con freddezza. Qualcuno ha scritto: «E allora Assange?». Assange non c’entra nulla. Altri dicono: «Condannare è prematuro, aspettiamo che i giudici russi facciano chiarezza». Anche Matteo Salvini, vicepremier italiano e leader della Lega, ha preso questa posizione. Ma cosa volete che chiariscano i giudici di un Paese totalitario, in cui – come ha scritto Michele Serra – la condizione di dissidente molto spesso coincide con quella di morto? È dovuto intervenire il presidente Mattarella a ricordare che, quando un dissidente muore in carcere, la responsabilità è del dittatore che l’ha imprigionato e detenuto in condizioni disumane. Resta una domanda: perché la Lega fa così? Perché ha tanto a cuore Putin? E che senso ha appoggiare il Governo Draghi e rivendicare l’eredità di Berlusconi, per poi fare opposizione a
Zig-Zag
Meloni non dal centro ma da destra? Questo è solo un aspetto di una questione molto più grande. La morte di Navalny apre molti interrogativi, ed è spia di altrettanti pericoli. Vladimir Putin ha dimostrato di essere pronto a tutto. In tanti tengono gli oppositori in galera, al mondo ci sono più dittature che democrazie. Ma pochi dittatori combattono guerre d’aggressione come quelle scatenate da Putin in Georgia e in Crimea, pochi hanno massacrato interi popoli come ha fatto Putin con i ceceni. Ma i ceceni sono musulmani, e la Georgia è lontana. Poi Putin ha aggredito l’Ucraina, ai confini dell’Europa, imprimendo un’escalation a un confitto che esisteva già. Di Navalny diceva: «Se l’avessi fatto avvelenare io, sarebbe morto». Ora è stato accontentato. Intendiamoci: Navalny era un nazionalista russo. Non era un liberale e neppure un uomo di sinistra. Era un patrio-
ta che, a differenza di Putin, voleva il bene del suo Paese, per cui ha messo in gioco il suo patrimonio, i suoi cari, la sua stessa vita. Era un eroe. Come i patrioti risorgimentali che hanno passato i migliori anni della loro vita nel carcere dello Spielberg. Come Giacomo Matteotti assassinato dai fascisti, proprio cent’anni fa. Navalny aveva passato oltre un anno agli arresti domiciliari. È stato avvelenato, è finito in coma, ha rischiato di morire. La Germania l’ha accolto. Ma Navalny non voleva vivere in esilio. Navalny voleva combattere e, se necessario, morire in patria. Così è tornato a Mosca, dimostrando un coraggio anche fisico d’altre epoche, degno di un eroe risorgimentale. Garibaldi però era al suo tempo l’uomo più famoso del mondo. Purtroppo non possiamo dire lo stesso di Navalny. Il suo arresto, la persecuzione dei suoi collaboratori, la brutale repressione
È necessario trovare degli snebbiatori
Come titolo pensavo di proporre quello di un articolo di Sandro Viola, inviato speciale de «la Repubblica» e anche nostro collaboratore: «Qualcuno mi faccia il riassunto» implorava alcuni anni fa (e pensare che doveva ancora iniziare la caotica rivoluzione massmediatica che dura ormai da un ventennio), mettendosi nei panni del lettore sopraffatto dalle informazioni, cioè dalla frana di notizie che gli rovesciavano addosso durante l’intera giornata e da ogni parte del mondo giornali, radio e televisione. Ma un riassunto cartaceo oggi finirebbe subito sommerso nel flusso mediatico che i nuovi media e l’ambaradan dei social ci impongono con accanimento ormai disumano e in continuo crescendo. Ecco allora l’immagine degli snebbiatori, balzatami nella mente dopo aver letto questa diagnosi, di Francesco Gerardi («Rivista Studio»), relativa al conflitto fra Russia
e Ucraina: «Siamo prigionieri di una nebbia di guerra digitalmente generata, una sovrapproduzione di contenuti incontrollabile e incontrollata che si frappone come un muro tra la narrazione dei fatti e la comprensione degli stessi. Un muro fatto soprattutto di immagini, di foto e video, perché nell’era del complottismo siamo ormai tutti troppo paranoici (o stanchi di resistere e di controllare) sino a concederci la libertà di credere a immagini false e fuorvianti, manipolate e manipolatorie». A dirla tutta la prima scintilla mi era giunta da mons. Gianfranco Ravasi che suggeriva di affrontare «il brusio permanente e inconsistente» dei social creando un’oasi di silenzio, in modo da avviare e curare una sorta di dieta dell’anima e della mente. Un metodo relativamente semplice ed efficace («far risuonare un poderoso “zitti!”, così da bloccare ogni sproloquio») per
ritrovare la capacità di riflettere. Ma poi, appena fuori dall’oasi, ritroveremmo la nebbia mediatica. E così cado nella trappola della congettura balzana: eccomi a ipotizzare che, se fossi ricco e della generazione giusta –cioè una di quelle venute dopo i «boomers», come spiegano anagrafe e sociologi – una soluzione la cercherei in casa degli gnomi di Microsoft, Meta o Apple. Chiederei loro un’app basata su algoritmi personalizzati in grado di fornirmi una quadra nei vari campi esistenziali tenendo conto di potenziali punti fermi, di situazioni in evoluzione, capace di elaborare quel che è capitato e che può interessarmi, ovviamente rispettando convinzioni e preferenze esistenziali o politiche. Insomma, un’app che si attivi appena si pronuncia «Siri, fammi il riassunto» e, come già capita, il perfetto avatar digitale incomincerebbe a rispondere parlando o scrivendo su display o
di Angelo Rossi
to molto più rapidamente in Ticino che a livello nazionale. Mentre per la Svizzera ci vogliono oggi 1,6 volte più abitanti che nel 2008 per una banca, in Ticino ce ne vogliono addirittura 2,1 volte di più.
Quindi la ristrutturazione del settore finanziario che ha accompagnato la sparizione del segreto bancario è stata più severa in Ticino che nel resto del Paese. Tuttavia, nonostante questa evoluzione negativa, la densità degli istituti bancari continua a essere in Ticino 5 volte più elevata che nella media nazionale. Il ridimensionamento del settore bancario ha avuto ripercussioni negative sulla marcia dell’economia regionale. A livello aggregato gli effetti negativi hanno toccato soprattutto lo sviluppo della produttività (e quindi del grado di competitività) dell’economia cantonale. Anche il tasso di crescita del PIL ne ha risentito cadendo, in me-
dia, sotto l’1%. Inoltre i risultati economici delle nostre aziende sono stati modesti. E così anche il gettito delle imposte sulle persone giuridiche ha conosciuto, nel decennio succeduto alla grande crisi finanziaria mondiale, una tendenza al ribasso. Dopo aver toccato un massimo di 341 milioni di franchi nel 2007, il gettito si è continuamente ridotto fino ad approdare a una soglia inferiore ai 200 milioni nel 2020. Nel corso degli ultimi tre anni, in concomitanza con la riduzione del tasso di imposizione, il gettito fiscale delle persone giuridiche sembra aver conosciuto una ripresa, riavvicinandosi ai 300 milioni degli anni migliori. Nonostante l’inflazione, ancora però non si vede una vera tendenza all’aumento. È dunque da temere che la perdita di imponibile dovuta al dimezzamento dell’effettivo delle banche non potrà essere facilmente recuperata.
dei manifestanti scesi in piazza a sua difesa non hanno suscitato nell’opinione pubblica globale l’emozione che meriterebbero. Poi, certo, molte idee di Navalny erano discutibili. Ma Navalny non è del tutto isolato. L’ultima volta che poté presentarsi alle elezioni, quando nel 2013 si candidò sindaco di Mosca, raccolse il 27%. Le sue denunce sulla corruzione del regime sono state confermate dai fatti. Di solito le dittature cadono quando perdono le guerre. Sconfiggere la Russia è molto difficile, probabilmente impossibile. Un negoziato andrà aperto, un compromesso andrà trovato. Ma non si può chiudere questa guerra senza trovare una soluzione duratura che garantisca la sicurezza delle frontiere orientali dell’Europa. È un errore fatale non capire che se Putin vince tutti noi perdiamo. Se capiremo questo, il sacrificio di Navalny non sarà stato vano; per il suo popolo e per il mon-
do. Ora restano due donne. La moglie del dissidente, Yulia Navalnaya, è una donna importante: economista, attivista politica, dopo la scomparsa del marito è di fatto la leader dell’opposizione russa. Il primo partito che la candiderà al Parlamento europeo farà qualcosa di opportuno. La madre, Lyudmila Navalnaya, ha diffuso un video con un appello a Putin perché le sia restituito il corpo del figlio. Una forma di civiltà antica come l’uomo. Achille restituì a Priamo il corpo straziato del figlio Ettore, dopo un duello spietato. Putin avrà il coraggio di fare altrettanto? Consentirà a Navalny di avere almeno una sepoltura, una memoria, un culto, che sarà una delle tante manifestazioni dell’inestirpabile culto per la libertà? Di sicuro non stupisce che la fiaccola della battaglia per la dignità dell’uomo passi di mano in mano, di generazione in generazione, grazie alle donne.
di
schermi: «A livello professionale stamane ci sono alcune importanti decisioni che elenco di seguito… Info: sul “Corriere” online c’è un articolo che riprende e commenta un’intervista del “Nyt” a Putin, ospite di Trump in Florida… A livello cantonale ieri sera circolavano voci non smentite su dimissioni del presidente del tuo partito… Passo in rassegna le principali notizie della notte in Asia e negli Stati Uniti, iniziando dai mercati finanziari… La diretta della discesa femminile di stamane è stata rinviata per mancanza di sale… In alternativa puoi seguire lo streaming sui lavori delle Camere federali dove si discuterà di perequazioni… A livello famigliare torno a ricordarti che oggi è San Valentino… Al tuo “Sì” ti informo anche sui decessi registrati ieri in Ticino…». Ecco: è lo snebbiatore che intendo. Ovviamente un prototipo, certamente da migliorare fintanto
che non avrà la stessa forza e lo stesso valore che in passato hanno saputo trasmetterci giornalisti, politologi e intellettuali, senza dimenticare l’autorevolezza dei vari statisti, degli editorialisti, dei sociologi e degli economisti che un tempo ci spronavano a difendere principi, valori morali, libertà individuali. Purtroppo ormai è tutta «roba d’archivio», avvolta anche quella dalle nebbie. Per questo ci troviamo senza punti cardinali, obbligati a cercare rotte che ci consentano di decifrare una mala-informazione sempre meno preoccupata della confusione e dei danni che genera. È da qui che farei partire i «miei» snebbiatori, inflessibili nell’esigere dalla classe politica un duplice impegno: garantire soluzioni di continuità ai media; vegliare affinché il servizio pubblico dell’informazione torni a essere una bussola affidabile nell’indicare falsità e dietrologie.
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CULTURA
Rombo di tuono
Un ricordo di Gigi Riva, scomparso lo scorso 22 gennaio, immortalato dalla penna di Gianni Brera
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La fotografia di Sabine Hess Intervista alla giovane fotografa che vive tra la Svizzera e l’Inghilterra e ha pubblicato un libro
Pagina 37
Peter Stamm sullo schermo Gioco di specchi è il titolo del documentario su Play Suisse che racconta la scrittura dell’autore
Pagina 39
Scatti sulla vita di Paul Celan Ottocento fotografie raccolte in un volume raccontano scritti, amori e ossessioni del poeta della Todesfuge
Pagina 43
Una stagione fortunata per il Teatro Sociale
Incontri ◆ Il direttore Gianfranco Helbling e l’attrice Margherita Saltamacchia ci portano dietro le quinte Giorgio Thoeni
Al Teatro Sociale di Bellinzona sabato scorso è andato in scena in prima assoluta Microwalser di e con Daniele Bernardi e Ledwina Costantini. Qualche settimana fa ha registrato il tutto esaurito la serata omaggio a Édith Piaf con il pubblico in visibilio che applaudiva e cantava senza fine Milord, La vie en rose e Non, je ne regrette rien proposte in chiave jazz da Beatrice Zanolini (voce), Danilo Boggini (fisarmonica, voce narrante, arrangiamenti), e tutto lo splendido gruppo dei Môme. Una serata emozionante che ha fatto vibrare le balconate del Teatro. A gennaio un sold out per cinque serate lo ha registrato anche Minotauro, una ballata per la regia di Margherita Saltamacchia. Sembra dunque essere un’ottima stagione per il Teatro Sociale che oggi è un punto di riferimento importante per la scena culturale del nostro Cantone con una ricca programmazione volta a valorizzare le risorse e i talenti della regione. Eppure c’è stato un momento in cui la politica sembrava divisa sul suo futuro mettendo in discussione la gestione e le scelte artistiche del suo direttore Gianfranco Helbling, in carica dal 2011.
Una schermaglia superata, Gianfranco Helbling?
Che la politica si interessi del Teatro pubblico della Città di Bellinzona è certamente positivo. C’era stata una forte preoccupazione, per certi versi condivisibile, per i risultati della stagione 2021-22, la prima che avevamo riprogrammato dopo la pandemia ma nella quale erano ancora in vigore le misure preventive nei teatri come il divieto d’accesso a chi non era vaccinato e l’obbligo di indossare la mascherina, e larghe fasce di pubblico avevano ancora timore a frequentare le sale, come tutti i teatri svizzeri ed europei. Il Sociale aveva avuto un calo di spettatori del 25% rispetto alle stagioni prepandemiche. Eppure avevamo chiuso quella stagione in pareggio grazie a una prudente programmazione. Il risultato aveva però preoccupato la Commissione della gestione. È stata l’occasione per spiegare alcune scelte di fondo, come il forte coinvolgimento di artisti del territorio o il fatto che abbiamo una sala di dimensioni tutto sommato ridotte che non permette di ingaggiare grossi nomi perché il potenziale di incasso sarebbe troppo esiguo. Così è stata costituita una commissione consultiva di esperti che potrà dare indicazioni all’Ente autonomo sulle questioni di portata strategica. I conti sono comunque stati approvati e il mandato di prestazione rinnovato per altri due anni con la possibilità di assumere un nuovo tecnico di scena, un rinforzo fondamentale soprattut-
to per garantire la sicurezza in teatro. E i risultati della stagione 2022-23 sono stati da record, ai livelli degli anni precedenti la pandemia.
La particolarità delle stagioni del Sociale consiste nella sua attenzione per il territorio… Mi è sempre stato chiaro che ciò che può dare identità a un teatro potevano e dovevano essere anche produzioni con artisti del territorio. È lì dove il pubblico si riconosce. Del resto anche l’allora Fondazione desiderava un rapporto più stretto con il territorio. Come primo tentativo avevamo scelto L’anno della valanga di Giovanni Orelli. Dalle reazioni di stupore ed emozione nel vederlo rappresentato su una scena istituzionale e prestigiosa con la stessa dignità di spettacoli acquistati in Italia abbiamo capito di essere sulla strada giusta. Negli anni seguenti abbiamo messo in scena altri spettacoli dalla forte attinenza tematica con il territorio coma Prossima fermata Bellinzona, Kubi e Il fondo del sacco senza però limitare i confini ma allestendo spettacoli di autori svizzeri che in italiano nessun altro avrebbe portato in scena come L’epidemia di Agota Kristof, Olocene di Max Frisch o Minotauro di Friedrich Dürrenmatt.
Dunque produzioni svizzere e coinvolgimento di personale tecnico locale, una linea di condotta a cui si è aggiunto nel 2013 il Festival Territori che tornerà quest’anno dal 5 al 9 giugno con proposte in teatro e negli spazi urbani. Nelle prime sei edizioni era un festival molto internazionale con alcune nicchie di programmazione dedicate alla scena locale. A partire dalla scorsa stagione è diventato un Festival che pone un accento particolare sulla giovane scena della Svizzera italiana.
Com’è costruita la stagione?
Il Sociale è l’unico teatro pubblico della nostra regione, deve dunque soddisfare le richieste di spettacolo di tutti i suoi potenziali spettatori. Le due rassegne in abbonamento sono le colonne portanti della stagione: Chi è di scena è quella dedicata al teatro di prosa, che però sempre più si apre a contaminazioni con altri generi. L’altra è Com.x, unico cartellone in Ticino dedicato alla comicità teatrale che ha un po’ ripreso il testimone di Homo Ridens. Ma abbiamo altri filoni aperti alla narrazione, a altri percorsi insoliti e innovativi, senza dimenticare la scena svizzera (a marzo arriva Thom Luz con Das irdische Leben) e spettacoli per i più piccoli con anche una ricca offerta musicale. In tutto circa 50 titoli a cui si aggiungono quelli del Festival Territori.
Margherita Saltamacchia e un Minotauro salvifico Attrice ligure trapiantata a Bellinzona dal 2010, in questi ultimi anni Margherita Saltamacchia si è ritagliata un ruolo di riferimento per il pubblico del Teatro Sociale, sia come interprete sia come artista attiva nella realizzazione e regia di spettacoli di successo, come il recente Minotauro coprodotto dal Sociale e LaTâche21. Un sodalizio molto significativo e costruttivo iniziato nel 2017 con il Festival Territori e l’incontro con Gianfranco Helbling. Poi c’è stato Il fondo del sacco di Plinio Martini che con le sue 27 repliche è diventato una sorta di biglietto da visita del Sociale. Ma, tornado al presente, lo scorso gennaio, per la regia di Margherita Saltamacchia e la direzione artistica di Marzio Picchetti è andato in scena un Mintotauro al femminile che ha visto in scena le attrici Margherita Saltamacchia e Anahì Traversi e la danzatrice Jess Gardolin. Partiamo da qui.
Margherita Saltamacchia, avete registrato un sold out per cinque serate. Com’è nata la scintilla per il testo breve di Dürrenmatt?
Sono tre i momenti importanti. Il primo è certamente la lettura fatta al Sociale con Anahì Traversi nel 2021 in piena pandemia e in occasione del centenario dalla nascita dell’autore. Quell’anno Sonja Riva, giornalista culturale, mi aveva inoltre proposto di creare uno spettacolo sulla sua figura e così, in collaborazione col Sociale, è nato Mein Fritz, il mio Leo basato su materiali
di e su Dürrenmatt e Sciascia, uno spettacolo che ha fatto diverse date, anche a Roma, Milano e Neuchâtel al Centre Dürrenmatt. È stata l’occasione per approfondire una conoscenza che mi aveva affascinato moltissimo.
Poi la sua vita è stata segnata da un episodio drammatico e inaspettato. Cosa è successo?
Sulle prime il dolore mi ha bruscamente fermato. Poi, a distanza di qualche anno, ho iniziato a intravvedere la bellezza che c’è anche nel dolore e mi è servita a confrontarmi con me stessa. Mi sentivo molto incompresa e sfortunata. Non avevo voglia di far nulla, non avevo nessuna idea. Vedevo tutto grigio. Finché ho capito che la corazza che mi ero costruita non serviva a nulla e che non ero sola in quella condizione. Allora è rispuntato il Minotauro e ho capito che aveva molto da insegnarmi. Anche lui è chiuso nel suo labirinto e pensa di essere l’unico. Poi piano piano si sfalda tutto: la sua corazza, il labirinto, le certezze e attraverso l’incontro con gli altri comincia a capire sé stesso. Insomma c’erano tematiche che mi risuonavano. E la morte del Minotauro con la sua dualità è stato un punto su cui ho lavorato parecchio. Ho anche avuto la fortuna di discuterne a lungo con Donata Berra, la traduttrice del racconto per Adelphi. Tutto ciò mi ha obbligato a dare un giudizio alla mia vicenda in relazione a quella morte che ho iniziato a vedere come una liberazione, come un passaggio. Gli fanno eco le parole conclusive del testo di Dürrenmatt, «prima
che venisse il sole, vennero gli uccelli», l’unico modo con cui il corpo del Minotauro può uscire dalla prigionìa e andare verso il sole.
Come è stato pensare al progetto, com’è stato trasporre sulla scena gli elementi teatrali del racconto? Immaginavo un labirinto di luce con al centro una danzatrice. Ho subito chiamato Marzio Picchetti (Light designer e produttore, NdR) con cui già collaboravo, e Marzio ha concretizzato la mia visione: a un iniziale gioco di specchi e luci si è aggiunto il labirinto risolto con una scenografia ispirata a un quadro di Escher (quelle scale che salgono e scendono senza fine), con una dozzina di specchi e decine di fari che giocano a riflettere fasci di luce rincorrendosi e creando così uno spazio a volte chiuso, a volte magico…
Talvolta il testo sembra essere d’accompagnamento, quasi secondario rispetto all’impatto scenografico. La complessità è stata quella di restituire quel gioco di specchi anche nelle due narratrici dando un senso non puramente estetico ma anche di senso, dimostrando che in tutte le cose ci possono essere più punti di vista. Le parti mancanti del testo le ho affidate a Jess Gardolin e a Ali Salvioni (Sound Design) come spunto per la coreografia e la musica. In sostanza ho diviso il testo usando linguaggi differenti in equilibrio tra loro: quello coreografico, un voice over narrante in tedesco e in italiano e il gioco di specchi tra le due narratrici.
● ◆ Settimanale di informazione e cultura Anno LXXXVII 26 febbraio 2024 azione – Cooperativa Migros Ticino 33
Sociale
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Settimanale di informazione e cultura Anno LXXXVII 26 febbraio 2024 azione – Cooperativa Migros Ticino MONDO MIGROS 34
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L’eroe e il suo cantore uniti per sempre
In ricordo ◆ Non si può ricordare Gigi Riva, scomparso lo scorso 22 gennaio, senza l’epica della penna di Gianni Brera
Paolo Di Stefano
Ogni eroe degno di questo nome ha bisogno del suo cantore, altrimenti che eroe è? E se Gigi Riva (nella foto) è stato un eroe, il suo cantore è stato Gianni Brera, che l’ha battezzato «Rombo di Tuono», così come Omero (per tramite di Vincenzo Monti, suo traduttore magno) battezzò Achille «Piè Veloce». È curioso che, nel giorno della morte di Gigi Riva, il 22 gennaio scorso, tutti abbiano evocato Brera per l’arte onomaturgica, cioè per la capacità di inventare parole e soprannomi (dall’Abatino-Rivera a Bonimba-Boninsegna a Deltaplano-Zenga), dimenticando l’epica. Quella che il giornalista pavese, da par suo, riuscì a costruire intorno al «campeòn» di Leggiuno, «Gigirriva», come dicevano e dicono i sardi. Il fatto è che, per cogliere l’epica creata da Brera bisogna scomodarsi a leggere le sue cronache con pazienza, come fossero poemi antichi. Si può eccepire sull’eccesso di orgoglio padano, ma il gioanbrerafucarlo merita un’attenzione supplementare. Perché meglio di lui nessuno ha scritto di Riva, che per una settimana è stato sommerso di retorica, lui che in campo (e fuori) fu il contrario della retorica: essenzialità pura, potenza, scatto, tante sigarette e pochissime parole.
Dunque, non resta che aprire la Storia del calcio italiano di Brera per capire le «prodezze» (da «prode», cioè guerriero valoroso) di Gigi (e del Gioàn). Il quale Gioàn fu uno dei pochi, nell’estate 1969, a pronosticare lo scudetto al Cagliari (che sarebbe arrivato l’anno dopo), allenato da Manlio Scopigno, il «filosofo» e con un solo meridionale in squadra, Martiradonna. Quella squadra aveva ottenuto in regalo, quasi, dall’Inter nientemeno che Domenghini e Gori, il centravanti che avrebbe affiancato il «belluino», cioè Riva. Ed è qui che Brera comincia il suo poema omerico: «Riva – scrive – è nel
fiore della sua prestanza atletica (…) nessuno riesce a battere a volo come lui, nessuno a rovesciarsi come lui em bycicleta, a staffilare da terra su calcio franco, a scattare, entrare, svellere». Svellere: sfido chiunque, nel giornalismo sportivo d’oggi, a usare quel verbo per Ronaldo o per Haaland. «Riva è il condottiero effettivo del Cagliari: il match-winner sicuro, talvolta il mattatore». Mattatore sa di teatro, ma sfido chiunque oggi a parlare di «mattatore» non dico in una cronaca di calcio, ma persino in una recensione teatrale. Parole desuete: svellere e mattatore. E parole nuove, come match-winner. E anche il raffinato «em bycicleta»
è un gran bell’esotismo (lusitano), che non ti aspetti, ma non c’è di meglio per descrivere plasticamente lo spericolato gesto atletico dell’attaccante che si rovescia per aria all’indietro dando un repentino colpo da ciclista per imprimere il massimo di forza alla palla presa al volo. Da notare che in quell’espressione c’era la consapevolezza che colui il quale aveva provato con successo la cosiddetta «rovesciata em bycicleta» era stato, nel 1932, un attaccante di Rio de Janeiro, Leônidas da Silva. Le laudi breriane per Rombo di Tuono non sono soltanto tecniche. Intorno al campione c’è un paese, anzi un’isola, la Sardegna, che impazzisce
per lui: «I pastori vegliano sul gregge tenendo la radiolina all’orecchio durante le trasmissioni della domenica». Il vecchio stadio, in cui affluivano i tifosi dalle città e dai paesi più lontani dell’isola, era dedicato ad Amsicora, che Brera chiama «il Vercingetorige locale»: era un militare e latifondista sardo-punico che nel 215 a.C. guidò una rivolta antiromana. Con lo scudetto quello stadio primonovecentesco fu sostituito da un altro stadio, più moderno, il Sant’Elia, che cadde presto in disuso: «L’opinione pubblica preme perché un nuovo stadio venga costruito per ospitare degnamente i campioni», scrive Brera in veste di sociologo
e profeta, «la situazione economica è già avviata a modificarsi in peggio ma nessuno è disposto a tenerne conto». Aveva ragione. Anche il Sant’Elia sarebbe caduto troppo presto in disuso. Facendo di tutto per trattenere il suo gioiello, aggiungeva il Gioàn, il Cagliari «pretende di tenersi una Rolls Royce senza avere gli spiccioli per la benzina». In realtà, si sa che sarebbe stato lo stesso «Gigirriva» a resistere alle sirene del continente (soldi a palate dalla Juventus dell’Avvocato), per restare fedele alla Sardegna, che anche per questo ne fece più che un simbolo: un monumento vivente. La Sardegna l’aveva adottato da quasi sconosciuto figlio di un parrucchiere, poi sarto, poi operaio morto sul lavoro in una fonderia quando Luigi aveva nove anni, costringendo il ragazzo a crescere in tre successivi collegi religiosi per poveri. Anche sua madre, che lavorava in una filanda, lo lasciò presto, e Gigi fu tirato su dalla sorella Fausta. Da quelle tragedie precoci si portò dietro un coraggio e una forza fisica da mettere paura e una malinconia depressiva che sarebbe esplosa a trent’anni. I compagni lo chiamavano «Hud il selvaggio», perché faceva sempre di testa sua, era solitario e indomabile come il personaggio di Paul Newman, ma in campo era indiscutibilmente Rombo di Tuono: se la partita non ingrana, scrive Brera, «aspetta fremendo l’intervallo per spronare e talora minacciare i compagni meno disposti a lottare». Quasi sempre è lui a spuntarla. Ecco come fece a spuntarla in una partita decisiva nell’anno dello scudetto: «Si scaglia contro tre avversari… parte in fulmineo slalom verso il gol… esplode una randellata omicida da fuori… e completa la sua folgorante giornata tuffandosi a incornare con irresistibile impatto…». Un eroe irresistibile irresistibilmente cantato.
Ginevra centro di voci e performance artistiche
Festival ◆ Das 1 al 24 febbraio una nuova edizione di Antigel ha animato la città romanda con il suo programma controcorrente
Giorgia e Muriel Del Don
Con la sua quattordicesima edizione
Antigel ancora una volta ha trasformato la città di Calvino in un’incubatrice di spettacoli, concerti e performance. Che si tratti di passeggiate sonore tra i palazzoni di quartieri periferici, di concerti hip hop che risuonano nei depositi di grandi magazzini convertiti in sala da concerto undergroud o di performance folk intimiste in chiese che profumano di incenso, le proposte di Antigel sono decisamente fuori dagli schemi. Determinati a valorizzare il territorio dei comuni ginevrini grazie alla cultura e all’arte, Eric Linder e Thuy-San Dinh, codirettori e cofondatori del festival, da sempre puntano a regalare spettacoli di grande intensità emotiva e quest’anno hanno osato più del solito. Un osare provocatorio ma mai violento, come un amuleto grazie al quale affrontare e combattere, con dolcezza, l’intolleranza che sempre di più sembra impossessarsi del nostro quotidiano.
Tra le proposte più intense c’è stato il concerto di José González al Victoria Hall. La maestosa sala vestita di stucchi barocchi ha accolto con gioia gli ipnotici ed irrequieti sussurri del cantante svedese di origini argentine che ha deliziato il pubblico spin-
gendolo a viaggiare con la mente in territori sconosciuti. La potenza delle sue composizioni, al contempo incantatrici e misteriose, invitano a chiudere gli occhi lasciandosi cullare da un mare di minimalismo tipicamente scandinavo. Accompagnato solo dalla sua chitarra classica e dalla sua voce, José González ha proposto al pubblico un viaggio totale alle radici del folk. Struggente e catartica invece l’interpretazione delle cover del capolavoro di Samuel and Garfunkel Kathy’s Song e di Love Will Tear Us Apart dei maestosi Joy Division.
In un registro decisamente più oscuro ma altrettanto potente abbiamo visto gli Swans, una delle band più importanti della scena rock sperimentale dei primi anni Ottanta che con la loro musica potente e inebriante hanno affrontato il tema della violenza umana.
Decisamente sorprendenti e coinvolgenti sono stati anche i concerti dei pionieri dello shoegaze Slowdive e del menestrello hipster francese (ma belga d’adozione) Flavien Berger. I primi, risorti dalle ceneri come una fenice, davanti ad un pubblico in delirio hanno confermato il loro statuto di icone dreampop, pionieri di sonorità
al contempo rugose e sognanti che ridanno potere e dignità alla fragilità. Onirici, malinconici e volutamente nerd, gli Slowdive non hanno perso nulla della loro carica sovversiva, paladini di una diversità e di una timidezza che indossano con fierezza. A portare avanti le loro rivendicazioni ci pensano oggi artisti come Salvia Palth, Alex G o la meraviglio-
sa Ethel Cain, segno di un bisogno sempre più urgente di narrazioni alternative, anche attraverso la musica. Flavien Berger un po’ hipster, ma non troppo, si è imposto sul palco con una inconsueta ma voluta lentezza. E da questo caos calibrato sono nate giocose e seducenti orchestrazioni pop che ci hanno fatto sognare, come se ci trovassimo sotto le coperte, protetti
tra i muri della stanza nella quale abbiamo passato la nostra adolescenza. Per le arti sceniche, impossibile non citare la maestosa e misteriosa Gisèle Vienne, papessa di catartici cerimoniali dark. Con Extra Life, coprodotto dalla Comédie di Ginevra, l’artista franco austriaca (nella foto) immagina un rituale scenico durante il quale i protagonisti possono esorcizzare la propria dolorosa e traumatica storia personale. Quello di Gisèle Vienne è un teatro che tocca corde sensibili, un’esperienza umana iper intensa che travalica il palcoscenico. Brutale e liberatorio è anche lo spettacolo Kit de survie en territoire masculiniste di Pintozor Prod. e Marion Thomas che propone al pubblico una passeggiata sonora per riflettere sulle violenze di genere. Un viaggio disturbante ma necessario nel quotidiano di uomini che odiano le donne. Spettacolo che ha fatto sensazione al festival di Avignone e al Fringe di Edimburgo, Kit de survie en territoire masculiniste affronta senza tabu un tema estremamente (e terribilmente) attuale mostrando, attraverso il mezzo teatrale, quanto sia necessario liberare la parola di chi, la violenza, l’ha subita in prima persona.
Settimanale di informazione e cultura Anno LXXXVII 26 febbraio 2024 azione – Cooperativa Migros Ticino CULTURA 35
Wikipedia
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L’elegia e il grido di Sabine Hess
Fotografia ◆ La giovane fotografa che vive tra Svizzera e Inghilterra parla del suo libro ispirato dalla malattia del padre
Luca Fiore
«Anche se non ti vedo più, e il tuo corpo è ora cenere, sei ancora lì, da qualche parte?». Classe 1994, di casa tra Biel e Londra, Sabine Hess si è laureata al London College of Communication nel 2022, specializzandosi in fotogiornalismo e fotografia documentaria. Al padre Wolfgang, che ha perso pochi anni fa, ha dedicato il suo lavoro di diploma, ora diventato un libro, You Felt The Roots Grow (Tu senti le radici crescere, come suggerisce anche la foto del campo di fiori contenuta nel volume), copubblicato lo scorso anno dall’editore italiano Witty Book e dalla svizzera Ciao Press. Nonostante la giovane età dell’autrice, si tratta di un lavoro di grande spessore artistico e umano. Un’elegia e un grido. Le raffinate fotografie in bianco e nero si alternano a brevi testi asciutti ed essenziali (in inglese) che trattano il grande tema della vita e delle sue domande, inquadrandolo dal punto di vista di chi, la vita, la vede andare via. Non aspettatevi però un reportage tra ospedali e case di cura. Nessuna ostentazione del dolore. Niente sociologia. L’approccio è personale e poetico. «A volte ho cercato di buttarti via come una coperta pesante», scrive Sabine: «Ero stanca delle tue opinioni, delle cose che dicevi, del modo in cui ti comportavi. Ora mi manca il calore della tua protezione». Vediamo Wolfgang con una coppola di lana che gli copre il cranio pelato, che rivediamo poi medicato da una garze e cerotti. Ma vediamo anche un bosco fitto di rami spogli. Una ragnatela. Uno stormo di uccelli neri nel cielo grigio. La mano di una donna con una fede nuziale che stringe il braccio di un uomo. «Io continuo a sperare. Penso che tu lo faccia ancora». Fiori di campo. La testa di un neonato. I nodi delle radici di un grande albero. «Mio padre era ammalato dal 2014. Aveva un tumore al cervello, ed è stato operato più volte», ci spiega la fotografa: «Ma la prima volta che ho scattato delle foto di lui e mia madre, in relazione alla sua malattia, è stato nel 2019. Lui è morto due anni dopo».
Che esperienza è stata?
È stato un periodo lungo, in cui la mia famiglia ha cercato di continuare la vita di tutti i giorni, senza che la cosa prendesse il sopravvento. Abbiamo imparato a pensare che c’era sempre la possibilità che mio padre dovesse tornare in ospedale. Se ne parlava, certo. Anche se qualche volta preferivamo far finta che andasse tutto bene. Ma dopo il sesto o il settimo intervento chirurgico, ho preso un rullino e ho realizzato alcune immagini.
Aveva già in mente che cosa sarebbe diventato?
No, all’inizio era soltanto la volontà di riconoscere che c’era qualcosa che si ripresentava: prendere coscienza che la malattia di mio padre stava avendo un impatto sulla mia famiglia. Poi, quando ho guardato quelle fotografie, mi sono accorta che c’era qualcosa di profondo. Qualcosa di importante. È stata anche l’occasione perché si aprisse, tra me e lui, un dialogo sulla sua malattia e, forse, anche sulla relazione tra noi due.
Ha cominciato anche a fotografare sua nipote, a un certo punto. Era la fine del 2020. Ellie è la prima figlia di mia sorella. Martina è torna-
ta a casa dopo il parto lo stesso giorno che mio padre rientrava dall’ennesima operazione. Era il periodo della pandemia e non eravamo potuti andare a trovare nessuno dei due. Era stato un travaglio difficile. E anche l’intervento per il tumore aveva avuto dei problemi. Così rivedere entrambi lo stesso giorno è stato un momento davvero intenso. I due estremi della vita, la nascita e la morte, si sono incontrati. È stata un’esperienza bellissima. Un istante dolce, che aveva in sé la consapevolezza che non sarebbe durato per sempre. Io e le mie sorelle ci siamo accorte, all’improvviso, di essere diventate grandi. È lì che è nato il progetto? Ero ancora all’università e si trattava di scegliere un lavoro a lungo termine. Ho pensato che ciò che stava accadendo alla mia famiglia potesse funzionare. Mia nipote Ellie aveva un mese, era la sua prima estate. Per mio padre sarebbe stata l’ultima. Nel libro le immagini sono alternate con testi brevi. Li ho scritti cercando di dar conto delle emozioni complesse e contrastanti che mi attraversavano in quel periodo così triste e, a tratti, disperato. Il rapporto tra nonno e nipote, padre e figlia e anche tra marito e moglie. I miei sono stati insieme quasi quarant’anni, dopo così tanto tempo si è quasi un unico organismo. Come si fa a pensare che questo non durerà per sempre? Come si definisce se stessi e come cambia la propria vita in una situazione del genere?
Eppure le immagini non mostrano il dolore in modo esplicito. Ho scelto di non fotografare in mo do diretto ciò che effettivamente ac cadeva in casa nostra. È tutto molto evocativo e simbolico. Ho preferito rivolgermi più all’esterno, alla natura: gli alberi e gli animali. Lì ho come ritrovato ciò che accade al no stro corpo con la malattia. Spesso le descrizioni mediche sono astratte e, in fondo, incomprensibili. Io ho provato a parlare di queste cose in modo più emotivo e simbolico. Si è creato quindi questo doppio registro: l’interno e l’esterno, le persone e la natura. In quel periodo, per me, è stato molto utile stare in mezzo alla natura, era un posto sicuro e mi ha permesso di trovare un mio equilibrio interiore.
Che cosa attirava la sua attenzione?
in realtà, penso che il libro sia su me stessa. Sulla mia esperienza di figlia, su che cosa significhi perdere un genitore per la prima volta, sull’esperienza della fragilità delle nostre vite, sulla precarietà del corpo umano. La fragilità si vede, contemporaneamente, nel corpo di mio padre che diventa sempre più debole, e in quello di mia nipote neonata. La situazione di mio padre ha dato inizio a tutto. Ma il tema del libro è anche quel sentimento agrodolce dello stare insieme alle persone che ami, senza
sapere se certi momenti belli si potranno rivivere.
Perché questo titolo, You Feel The Roots Grow? «Senti le radici crescere». I testi che ho scritto si rivolgono sempre a un tu, e quel tu è mio padre. Per me la radice è il simbolo di qualcosa che cresce senza che noi lo vediamo. C’è qualcosa di visibile e qualcosa di invisibile che, come nel caso di mio padre, cresceva di nascosto generando in lui e in noi la sensazione che qual-
Attraverso le immagini e le parole era come se volessi registrare il più possibile ciò che mi stava accadendo in quel periodo. Il nostro cervello è fatto in modo che dimentichiamo facilmente i gesti più normali, anche quelli che abbiamo fatto con qualcuno con cui abbiamo vissuto venti o trent’anni.
Che rapporto c’è tra testo e immagini?
La fotografia tocca gli aspetti più emotivi. Il testo, mai lungo, suggerisce piccoli aspetti normali della vita quotidiana che permettono al lettore, mentre sfoglia il libro, di seguire la storia. Il lavoro di sintonizzare bene le fotografia e i miei scritti è stato molto lungo.
I due proroganti, diceva, sono suo padre e sua nipote. Sì, anche se in realtà il libro è più incentrato su di lui che su di lei. Poi,
cosa potesse arrivare e mostrarsi da un momento all’altro. Mio padre ha sempre sentito che c’era qualcosa che in lui cresceva senza che lo vedesse.
Pensa che si intraveda, nel modo in cui ha affrontato il tema, il suo essere svizzera?
Non credo. Non so neanche bene come gli svizzeri affrontino di solito certe situazioni. Penso però che occorra parlare di più di questi temi. Guardare la propria vulnerabilità, condividere esperienze profonde e personali. È qualcosa che farebbe bene fare di più, anche a livello pubblico.
Perché è importante?
Sono esperienze che toccano tutti, in un modo o nell’altro. Parlarne, capire che ci sono diversi modi per affrontare il tema del lutto, potrebbe aiutare tutti. Condividere certe situazioni fa sentire meno soli. La fotografia e la scrittura mi hanno accompagnato nell’affrontare il dolore della perdita. Ho avuto anche la fortuna di avere il sostegno della mia famiglia e del mio partner, senza i quali questo libro non sarebbe mai esistito. Mi auguro che ciò che ho mostrato possa essere di una qualche utilità anche per altri. Mi è capitato che qualcuno, dopo aver sfogliato il libro, abbia voluto raccontarmi la sua esperienza. È stata una cosa molto bella.
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Il gioco di specchi di Peter Stamm
SmartTV ◆ Su Play Suisse c’è il singolare documentario girato attorno allo scrittore turgoviese, già vincitore dello Schweizer Buchpreis
Daniele Bernardi
Da fuori, la quotidianità di uno scrittore al lavoro risulta inevitabilmente piatta. Lo ha sostenuto anche Yu Hua, il grande romanziere cinese ospite a Babel Festival nel 2017: il tutto si consuma tra letto, cucina e scrivania. Nei casi migliori ci scappa una corsa o una passeggiata, per dare una rinfrescata alle idee.
Ciò che accade è la compenetrazione tra il libro di Stamm, in cui si narra di un’equipe che realizza un documentario su uno scrittore, e il film, riflesso e origine di quest’idea
Vite alla Jack London sono piuttosto rare, anche se non impossibili: una volta vi erano i modelli tipo de Sade, per i quali prima della reclusione scritturale (nel suo caso effettiva) si consumava un’esistenza attiva e di studio. Poi è venuto il turno dei Rimbaud (che però, ricordiamolo, ha scritto poco e in poesia) e dei Conrad, nel cui destino risuona il motto «prima si vive, poi si scrive».
La vera avventura, ammettiamolo, ha luogo dentro, nell’immaginario, dove non è possibile accedere se non in un secondo tempo, quando quel «resto» che è la parola finisce su carta una volta per tutte. Qualcuno, però, questa avventura segreta ha
provato a documentarla, a seguirne le tracce e gli sviluppi come chi studi i movimenti sotterranei della lava vulcanica prima dell’eruzione.
Disponibile fino al 7 aprile su Play Suisse (la piattaforma streaming della SRG SSR), Gioco di specchi – Quando Peter Stamm scrive (2023) è un insolito, «falso» documentario di Aenne Schwarz e Max Simonischek che, se da un lato apparentemente ricorda Libellula gentile. Fabio Pusterla, il lavoro del poeta (il film di Francesco Ferri dedicato all’autore delle Concessioni all’inverno), dall’altro si presenta come un’opera astuta, in cui sfugge il limite tra realtà e finzione, fra interno ed esterno.
Infatti Gioco di specchi dichiara la presenza stessa dei suoi creatori attraverso due interpreti, gli attori Arne Kohlweyer e Georg Isenmann, che calzano, rispettivamente, i panni di una regista e di un cameraman alle prese con un progetto sul noto autore di Agnes (Neri Pozza, 2001) e del più recente Andarsene (Casagrande, 2022). Questi, però, in verità non rappresentano altri che Andrea e Thomas, i protagonisti ideati da Stamm per il suo ultimo libro. Da spettatori, come si suol dire, cadiamo con tutte le scarpe nel tranello e se, in un secondo tempo, non approfondiamo un poco, pensiamo sia stata davvero la coppia di interpreti a girare il film.
Ci si potrebbe chiedere il perché di
questa scelta, che, personalmente trovo efficace, affascinante e azzeccatissima. La risposta si trova all’inizio, quando lo scrittore, interrogato dai due a riprese concluse, alla domanda «come può un film (…) rappresentare qualcuno?» risponde «Non credo sia possibile (…). Il film tratta di come lui (Stamm si riferisce a sé) scrive e non di sé stesso. Non si tratta di mostrare ciò che lo caratterizza, sarebbe senza speranza. Si tratta di osservare ciò che accade».
E ciò che accade è la compenetrazione tra il libro di Stamm, in cui si narra di un’equipe che realizza un do-
cumentario su uno scrittore, e il film, il quale è, al contempo, riflesso e origine di quest’idea. In parole povere, per parlare dei movimenti dell’arte è necessaria l’arte stessa, poiché ogni tentativo di oggettivazione della creatività (e non solo) è destinato a fallire. Come affermava Freud «i poeti (…) sanno in genere una quantità di cose (…) che il sapere accademico neppure sospetta». Ecco che, allora, nelle mani gli uni degli altri, scrittore e registi diventano parte di una doppia rifrangenza, dove tutti sono personaggi di tutto.
Ma con Gioco di specchi – Quando
Peter Stamm scrive l’autore di In einer dunkelblauen Stunde (S. Fischer Verlag, 2023) – ecco finalmente il titolo del romanzo al centro della vicenda – sembra volerci suggerire altro, oltre a qualcosa sul suo modo di vivere la letteratura. E questo altro indica l’impossibilità di afferrare la realtà, oltre che nelle sue molteplici sfaccettature, nel suo essere fantasmatica perché, come direbbe ancora Freud, carica di pesi inconsci e, quindi, perturbante.
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Martha e Giuliano, ovvero Argerich e Sommerhalder si sono collaudati come duo di solisti nel Concerto per pianoforte, tromba e orchestra d’archi N.1 in do maggiore op.35 di Dimitri Chostakovitch, essendosi esibiti in questo brano già anni fa con l’Orchestra Nazionale di Santa Cecilia, a Roma.
Saper dialogare con una pianista come Martha Argerich dimostra tutto il valore di Giuliano Sommerhalder
La splendida carriera del trombettista ticinese, attraverso le collaborazioni con le più importanti orchestre di vari continenti, è stata portata recentemente a stabilirsi, raggiungendo il suo fratello oboista, Simone, nella famosa Orchestra della Suisse romande di Ginevra fondata nel 1912 dal grande direttore d’orchestra Ernest Ansermet. Un’orchestra che si è fatta notare non solo per le sue qualità, ma anche per la scelta del repertorio e soprattutto per le esecuzioni in prima assoluta di lavori orchestrali appositamente commissionati a importanti compositori che stavano svolgendo un’attività creativa per la modernità del Novecento, come Stravinski, Schönberg o gli svizzeri Arthur Honegger e Frank Martin, continuando ampiamente anche fino ai nostri giorni.
Dobbiamo riconoscere che numerose sono le attività di musicisti ticinesi nel mondo musicale fuori dal Ticino, sia in Svizzera che all’estero e per di più di grande valore e importanza.Ne citiamo solo alcuni, attirandoci senza dubbio qualche osservazione, come Francesco Piemontesi, pianista, sorelle e fratelli, violinisti e violoncellisti Melina e Orfeo Mandozzi, o Daria e Mattia Zappa, l’oboista Silvia Zabarella , il clarinettista Fabio Di Casola, la direttrice d’orchestra Elenna Schwarz.
Saper dialogare con valore con una pianista come Martha Argerich che sa tuttora coniugare la forza e un temperamento giovanile all’interno della notevole esperienza della sua carriera mondiale, dimostra tutto il valore di Giuliano Sommerhalder (i due sono ritratti nella foto dopo il concerto, lui con la tromba , lei con la partitura di Schostakovitsch, davanti al suo camerino). La sua tecnica, la precisione di suono all’interno di una musicalità sicura permettono sia di seguire le improvvise idee della pianista che di trascinare il discorso musicale sulle sue proposte.
Sappiamo che Martha Argerich si trova a suo agio anche nel repertorio del primo Novecento, ma che ha potuto e voluto sviluppare – e ci riferiamo soprattutto alla più che decennale attività svolta nel suo Festival di Lugano – anche ruoli secondari o
a Ginevra riscuotendo un bel successo
modesti come accompagnatrice di coro di bambini o di parti di semplice accompagnamento.
Prima del brano di Chostakovitch, talvolta scherzoso, pieno di umore, ma anche di invenzioni critiche all’allora produzione musicale del suo Paese, la serata era iniziata con una breve composizione di Igor Stravinski, il Tango, nella versione per orchestra elaborata da una pagina per pianoforte solo, che era dovuta a necessità finanziare, una musica che oggi chiamiamo di «consumo». La musica di Tango non era però risultata suffi-
cientemente semplice per alleviare i problemi finanziari del compositore, perché è una musica elegante sì, ma concepita con la sua tipica spigolosità geometrica proveniente dal periodo «neoclassico». È vero che Stravinski non amava questa definizione, ma la sua attività ne era profondamente intrisa anche se in maniera del tutto personale.L’uso di danze di periodi precedenti era tipico, non solo riferendosi al repertorio aristocratico del barocco, ma anche a quello popolare e più tardi al folclore etnico come il tango o altre forme, spesso prove-
nienti dall’America centrale o del sud.
Il direttore d’orchestra, Jonathan Nott, che è anche direttore artistico dell’Orchestra della Suisse romande, ha potuto però sviluppare tutte le sue capacità soprattutto nel brano conclusivo di questo concerto del 14 febbraio, l’ultima Sinfonia, la numero 41, chiamata Jupiter che non possedeva quasi nulla di quell’aspetto «leggero» che il padre di Wolfgang Amadeus Mozart, Leopold, gli proponeva talvolta per ottenere «maggior successo». Se qualche tocco del passato «stile galante» viene proposto durante vari momenti della Sinfonia, la soluzione è comunque sempre di forza costruttiva e di insistenza dell’elaborazione fino a toccare persino vertigini armoniche accanto a esaltazioni di idee ben scolpite. Jonathan Nott ha favorito, con il suo gesto agile e la sua presenza volutamente suadente, una visione armonicamente melodiosa dagli intrecci tendenti alla leggerezza, anche quando la musica si fa più invasiva e massiccia o persino in quei passaggi che per allora dovevano rasentare aspetti di follia nell’elaborazione del costrutto tonale.
Il pubblico che ha esaurito tutti i posti della magnifica sala, ha apprezzato con entusiasmo sia la splendida versione della Sinfonia di Mozart che la precisa e brillante interpretazione dei due solisti nel Concerto di Chostakovitch, come anche la trasparenza nel Tango di Stravinski.
Settimanale di informazione e cultura Anno LXXXVII 26 febbraio 2024 azione – Cooperativa Migros Ticino CULTURA 41
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La vita di Paul Celan in un libro fotografico
Pubblicazioni ◆ Gli scritti, gli amori, le ossessioni del poeta della Todesfuge raccontati attraverso le immagini
Stefano Vastano
Un poeta così raffinato, come Paul Celan, non si sarebbe trovato a suo agio nel nostro mondo digitale, in cui sono i social con le loro fotine e chiassosi video a farla da padroni. La voce della poesia, ribadiva Celan, non ha nulla a che spartire con i vizi personali. Famoso il suo verdetto: «La poesia autentica è anti-biografica». In effetti, non sono molte le foto che immortalano Paul Celan. E in quelle poche, scattate per le edizioni dei suoi testi, il poeta della Todesfuge, della «Fuga di morte» appare con il volto reclinato in basso, sguardo assorto, timido sorriso sulle labbra.
Basta d’altronde pensare al fatto che l’unica foto che si portò dietro nelle stanze in cui ha vissuto, a Bucarest, a Vienna o nei vari hotel a Parigi, era quella di sua madre. È precisamente con questa piccola foto della madre, di Friedericke Schrager, in cornice marrone in pelle, che si apre Paul Celan. Bildbiografie (Paul Celan. Una biografia per immagini), pubblicata da Bertrand Badiou per le edizioni Suhrkamp. Una immensa enciclopedia illustrata in cui, sulla scorta di 800 documenti fotografici, ripercorriamo anno dopo anno la vita di Paul Celan, tutti i suoi scritti e i suoi amori, i suoi successi e le sue ossessioni.
A sua madre ad esempio – la cui data di nascita, primo dicembre, il poeta segna ogni anno in agenda – Paul Antschel, questo il suo nome originario, era legatissimo. Come legatis-
simo era all’ambiente multi-culturale di Cernauti/ Czernowitz, il capoluogo della Bucovina in cui nasce il 23 novembre 1920. Quella «piccola Vienna» dell’ex impero asburgico in cui si stampavano giornali in sei lingue, e oltre un terzo della popolazione era formata da ebrei che coltivavano le tradizioni dello chassidismo e parlavano jiddisch. Certo, a casa di Celan si parla tedesco, ma è l’ebraico la prima lingua in cui scrive. Dal 1919 la Bucovina è parte della Romania, a scuola lui scrive e parla in rumeno.
Nel libro rileggiamo la prima trascrizione a mano di In Aegypten , una delle rare poesie che Celan dedica a una persona, in questo caso a Ingeborg Bachmann
Nel libro di Badiou scopriamo i documenti del suo iter scolastico, come il diploma di maturità a Cernauti nel 1938, l’anno in cui il nazismo con l’Anschluß fagocita l’Austria. Dall’11 ottobre 1941 a Cernauti i nazisti aprono un ghetto, e 45 mila ebrei sono costretti a cucirsi una stella gialla sul petto. Per due anni il ventenne Antschel è costretto ai lavori forzati negli « Arbeitslager » («schaufeln», scavare e spalare sarà uno dei Leitmotiv nei suoi versi), mentre i genitori muoiono
nei campi di concentramento. «Negro latte dell’alba noi lo beviamo la sera»: è l’incipit della Todesfuge, uno dei canti fondamentali in cui Celan evoca l’olocausto, l’abominevole ferita della Shoah nella storia e cultura europea. E le difficoltà per la poesia, da allora, di dire le cose più semplici: il nome di un fiore, di un’alba, il bianco del latte. Ancora a Parigi, nell’ottobre del 1959, Celan proverà a ricordare il nome del villaggio – Michailowka – dove i genitori persero la vita: «Cosa fiorisce lì? Quale fiore, madre, ti fece lì male con il suo nome?». È la tragedia di dover esprimere con le parole dei carnefici, in tedesco dunque, l’assassinio di milioni di innocenti il fulcro intorno a cui ruota la sua poesia. A fronte di tanta dolorosa ineffabilità ed astrazione della lingua poetica – Grata di parole, Luce coatta, come si intitolano i suoi testi – è importante scoprire nel libro di Badieu quelle date e situazioni concrete che, nella vita del poeta, possono averne ispirato il canto. A Vienna ad esempio, dove è di passaggio dal dicembre 47 al giugno 48, Celan acquista quelle edizioni rilegate di Jean Paul, uno dei romantici tedeschi che rileggerà spesso. Ed è a Vienna, prima di arrivare a Parigi con un provvisorio Certificate of Identity, che esploderà l’amore per Ingeborg Bachmann. Nel libro rileggiamo la prima trascrizione a mano di In Aegypten, una delle rare poesie che Celan dedica a
una persona, Per Ingeborg, e di cui appunta data e luogo: «Wien, am 23. Mai 1948». Quasi dieci anni dopo, a Parigi, il 28 ottobre del 57, sul balcone dell’appartamento in Rue de Lonchamp, lo vediamo in foto sorridere con il piccolo Eric fra le braccia. Accanto alla foto leggiamo la lettera in cui il poeta chiede alla Bachmann: «Ho detto tutto a Giséle, tutto. Ora lei piange (…). Mi ami veramente, Ingeborg?». Oltre al drammatico amore per Ingeborg, sono tante le donne che costellano la vita di questo grande poeta, i cui versi a volte nascono anche dagli aspetti più contingenti. Come quella poesia, Topazio
Fumè, ispirata all’anello della giovane olandese Diet Kloos, conosciuta a Parigi nell’ottobre 49. Le ultime foto del libro sono le più dure: l’orologio Doxa, di marca svizzera, regalo di sua madre, che Celan portò al polso sino alla notte del 20 aprile 1970. Quando decise di gettarsi nella Senna, lasciando nell’appartamento sull’Avenue Zola, poche cose sul tavolo: il portafoglio, le foto di Gisele ed Eric, l’orologio, ma non un rigo a parenti e amici. Un libro, questo di Bodieau, rilevante per capire vita, opere e destino di una delle voci liriche più dense del XX secolo.
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