SOCIETÀ
Alessandro Facchini spiega l’importanza della trasparenza nel funzionamento dei sistemi di IA
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TEMPO LIBERO
Il creatore della scuola White Pillow, Michel Buvoli, e la passione per lo snowboard freestyle
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SOCIETÀ
Alessandro Facchini spiega l’importanza della trasparenza nel funzionamento dei sistemi di IA
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TEMPO LIBERO
Il creatore della scuola White Pillow, Michel Buvoli, e la passione per lo snowboard freestyle
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Simona Sala
Vi è una Risoluzione del Consiglio di sicurezza delle Nazioni Unite, la 1325, che si chiama «Donne, pace e sicurezza» e dagli Stati esige l’elaborazione di un piano d’azione nazionale. La Svizzera, nel suo ultimo piano d’azione (valido per il periodo 2018-2024), ha fissato cinque priorità: coinvolgimento più efficace delle donne nella prevenzione dei conflitti, partecipazione delle donne e impatto del loro coinvolgimento sulla risoluzione dei conflitti e i processi di pace, protezione contro la violenza sessuale e di genere durante i conflitti, la fuga e la migrazione, partecipazione delle donne a impieghi di promozione della pace e alla politica di sicurezza e infine impegno della Svizzera sul piano multilaterale e bilaterale per la risoluzione 1325 «Donne, pace e sicurezza». A pochi giorni da un 8 marzo che ci vorrebbe protagoniste e festeggiate (di solito con l’inconfondibile fiore giallo che fa capolino al massimo quella volta all’anno) sarebbe forse più opportuno un bilancio, in luogo di una risoluzione destinata a restare lettera morta, anche se i risultati sarebbero assai poco edificanti. Qual è stato infatti, in tempi recenti, il ruolo di molte donne, sia in guerra sia nella vita di tutti i giorni? Semplicemente quello delle vittime. Vittime russe, ucraine e palestinesi, con la loro perdita di figli e mariti, vittime israeliane, con una serie di stupri che qualcuno ancora fatica a riconoscere nella loro portata, vittime svizzere e italiane accoltellate, bastonate, «sparate», strangolate o avvelenate nelle proprie case o per strada dai propri «uomini».
Eppure, se solo l’altra metà del cielo ci lasciasse fare, o perlomeno ci lasciasse provare a fare qualcosa, o anche solo, ci lasciasse la nostra metà del cielo, le cose potrebbero anche andare in un
altro modo. Avrebbero potuto andare ad esempio diversamente se, più di un secolo fa, in pieno primo conflitto mondiale, governi e opinione pubblica avessero dato maggiore fiducia alla delegazione internazionale di donne riunitasi in congresso all’Aja, in barba a mariti, figli e fratelli, per discutere della guerra. Da quegli incontri, uscirono risoluzioni/richieste di importanza vitale, nonché un commento al vetriolo da parte di un uomo: le donne chiesero la parità tra i generi nelle trattative di pace (che nessun uomo si affrettò a mettere in pratica), l’istituzione di una Società delle Nazioni (idea che agli uomini piacque tanto da creare l’ONU) e di un tribunale penale internazionale (spinta su cui nacque quello dell’Aja). L’uomo, in questo caso un giornalista del «Figaro», a quelle donne coraggiose rispose: «Lasciate la pace a coloro che la guerra la fanno». Per dovere di cronaca, lo United Nations Security Council in uno studio ha dimostrato come gli accordi di pace cui partecipano delle donne abbiano nettamente più possibilità di durare nel tempo. Come ha dichiarato la già Consigliera nazionale e ideatrice della campagna 1000 Women for the Nobel Prize 2005 Ruth-Gaby Vermot-Mangold, «le donne non sono esseri umani migliori, sarebbe terribile! (…) Facciamo tanti errori quanto gli uomini, ma il fatto che ogni giorno ci ritroviamo a dovere gestire la quotidianità e a organizzarla, e a fare funzionare le cose, ci porta a essere persone capaci di guardare alla guerra e alla pace sotto punti di vista molteplici». Del discorso di Vermot-Mangold, persone capaci è forse l’espressione che ci piace di più. E forse, quando la donna sarà riconosciuta come capace, sarà bello ricevere anche la gialla mimosa.
Gentili cooperatrici, egregi cooperatori, nel corso della dodicesima settimana che segue questo avviso, la vostra Cooperativa procederà alle elezioni di rinnovo dei suoi organi statutari.
Sono da eleggere per un mandato di quattro anni (dal 1° luglio 2024 al 30 giugno 2028):
• 32 membri del Consiglio di cooperativa, la maggioranza donne
• 7 membri dell’Assemblea dei delegati della Federazione delle cooperative Migros
Occorre inoltre eleggere per un periodo di mandato di due anni:
• 5-7 membri del Consiglio di amministrazione, fra cui il/la presidente (dal 1° luglio 2024 al 30 giugno 2026)
ATTUALITÀ
La storia tormentata dell’elezione delle prime donne in Consiglio federale; dal 1971 sono state dieci
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edizione
MONDO MIGROS
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CULTURA
Una mostra al m.a.x. museo di Chiasso racconta il sodalizio creativo tra Depero e Clavel
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• l Ufficio di revisione (esercizi 2024 e 2025).
I soci della Cooperativa possono presentare proposte elettorali, conformemente alle disposizioni previste dallo Statuto (art. 35) e del Regolamento per votazioni, elezioni e iniziative (art. 27), che possono essere consultati in tutte le nostre filiali nonché presso la sede della Cooperativa a Sant’An-
tonino, presentando la quota sociale o la tessera di socio.
Le proposte elettorali devono essere inoltrate entro il 23 marzo 2024 all’Ufficio elettorale della Cooperativa, che è così composto:
• av v. Filippo Gianoni, Bellinzona, presidente
• Myrto Fedeli, Cadenazzo, vicepresidente
• Edy Barri, S. Antonino, membro
• Roberto Bozzini, Giubiasco, membro
• Pasquale Branca, Giubiasco, membro
Sant’Antonino, 4 marzo 2024
Il Consiglio di amministrazione
Cooperativa Migros Ticino
Sostenibilità ◆ Entro il 2025 Migros Ticino sarà a impatto
gas a effetto serra degli impianti frigoriferi
Un fattore chiave della filosofia aziendale di Migros Ticino è rappresentato dalla sostenibilità: la Cooperativa punta fortemente sulle nuove tecnologie per aumentare l’efficienza delle proprie filiali. L’azienda lavora quotidianamente per ridurre l’impatto ambientale grazie all’ottimizzazione dell’impiantistica, all’installazione di impianti fotovoltaici sulle proprie infrastrutture, al trasporto di merci su rotaia e all’acquisto di veicoli elettrici per ridurre le emissioni di CO2
In questo ambito Migros, e di conseguenza anche la Cooperativa Migros Ticino, si è posta degli obiettivi concreti, suddivisi tra punti vendita e la Centrale Logistica situata a S. Antonino. Gli obiettivi sono stati quantificati inizialmente nel 2004 e successivamente aggiornati nel 2019. Gli stessi sono verificati annualmente con l’Agenzia dell’energia per l’economia (AEnEc) e si riassumono nella riduzione delle emissioni di gas a effetto serra di almeno il 42% rispetto al 2020 (grazie alle misure previste, la percentuale dovrebbe attestarsi intorno al 76,7% per Migros Ticino) e la riduzione dell’acquisto di energia del 10% rispetto al 2020 (per Migros Ticino la riduzione si attesterà intorno al 15,6%, grazie alle misure previste) entro il 2030.
Il 19 e il 20 settembre a Bruxelles si è svolta la 13esima edizione dell’Atmosphere Europe Summit 2023 (la conferenza europea sulla transizione nell’ambito dei gas refrigeranti a impatto zero sull’atmosfera) allo scopo di porre il focus sui trend più recenti e sui traguardi nel campo delle tecnologie di refrigerazione naturali. Nel corso dell’evento di due giorni, come riportato dal sito, si sono esplorate le opportunità di business
e le prospettive future nell’industria HVAC&R. Ne abbiamo parlato con Andrea Skory, consulente tecnico di Migros Ticino per le questioni legate alla transizione energetica.
Andrea Skory, ci contestualizza l’evento cui ha partecipato?
Era la terza volta che vi partecipavo, dopo l’edizione sul Lago di Garda, e quella via Skype durante il Covid. Siamo stati invitati dal nostro fornitore, Biaggini, e insieme a lui abbiamo potuto presentare i nostri progetti.
Cosa ne è emerso?
Ci siamo accorti di come Migros, e Migros Ticino nello specifico, siamo all’assoluta avanguardia nell’ambito della transizione energetica: nel 2025 saremo a impatto zero sulle emissioni di gas a effetto serra prodotti dagli impianti frigoriferi.
Il consulente tecnico di Migros Ticino Andrea Skory insieme a Luca Rossi (Biaggini SA) durante la conferenza di Bruxelles.
Vi sono stati dei feedback positivi? Ci sono state molte domande, ed è stato un momento sicuramente positivo, poiché ci siamo resi conto di essere davvero all’avanguardia. Questo ci ha spinti a partecipare anche al concorso che avrà luogo a novembre a Praga, organizzato ogni anno in questo ambito per attestare chi sia più al passo con i tempi (come produttore, fornitore e cliente finale), anche perché abbiamo constatato come i partecipanti dell’anno scorso fossero a un livello inferiore rispetto al nostro. L’anno scorso ha vinto una catena di supermercati belga, che comunque ha una transizione meno sviluppata della nostra.
Quale progetto presenterete?
Probabilmente presenteremo il progetto di Bellinzona Nord che, grazie ai pannelli fotovoltaici, sarà a impatto zero come consumo di energie
e come emissioni di CO2. Aggiungeremo anche il camion elettrico, che entrerà in funzione nei prossimi giorni, in modo da avere una catena completa.
Esistono ancora dei margini di miglioramento? Il primo ovviamente è quello di terminare la transizione entro il 2025. Nelle ristrutturazioni delle filiali possiamo contare su un riscaldamento abbinato con l’impianto del freddo, ciò ci permette di rinunciare al gasolio. Restano da sistemare i veicoli della flotta, il primo veicolo elettrico è in dirittura di arrivo, poi, forti della nostra esperienza, potremo continuare con il resto.
Avete dei modelli a livello svizzero? Non possiamo contare su grandi confronti, ma sappiamo che questa è la direzione giusta, perché la stanno prendendo in molti.
Da sapere
Nel 1933 è stata fondata la prima Cooperativa, Migros Ticino, un’azienda locale da sempre interessata allo sviluppo economico, sociale e culturale della regione nella quale opera. Migros Ticino è una Cooperativa che opera in diversi ambiti, tra cui quello del commercio alimentare e non, con i suoi 33 supermercati, 3 outlet e 8 negozi specializzati, le 7 strutture di ristorazione composte da ristoranti e take away, le 9 enoteche di Vinarte, i 6 centri Activ Fitness Ticino e non da ultimo la pubblicazione del settimanale «Azione».
Formazione ◆ Al via la terza edizione di Generando con una serie di appuntamenti per tutti i gusti
Una società in costante mutazione come la nostra necessita senza dubbio anche di momenti di scambio e di «aggiustamento», poiché non è sempre facile per tutti prendere atto di quelle che potremmo definire delle nuove impostazioni esistenziali. Oggi più che mai c’è bisogno di capire, ma anche di ritrovare una dimensione umana che permetta uno scambio a quattro, o più, occhi, dal vero, lontano dalla realtà spesso artefatta del mondo digitale. Non può quindi che essere accolta con entusiasmo la terza edizione della rassegna di eventi Generando – visioni di genere: attraverso i numerosi incontri pubblici, le mostre, le tavole rotonde e la costante riflessione condivisa in forma di dialogo, il dibattito e di conseguenza la comprensione all’interno della società non possono infatti che crescere e consolidarsi.
Eventi, incontri e riflessioni: Generando si rivolge a tutti i tipi di pubblico. (Generando.ch)
Il programma in cartellone da inizio marzo a fine giugno e realizzato grazie alla collaborazione con una
quarantina di partner, presenta una serie di diversi punti di vista sull’argomento, così da permettere il coinvolgimento di un pubblico diversificato. L’edizione alle porte mostra un’attenzione particolare al pubblico più giovane, con alcuni eventi che si rivolgono direttamente a loro e altri che coinvolgono invece docenti e genitori.
I primi eventi in programma:
• Esposizione – USI senza stereotipi Mendrisio, Palazzo comunale. Dal 4 al 15 marzo.
• Workshop – Transfemminismo e storia culturale dei movimenti LGBTQIA+ Sorengo, La Cascina. 8 marzo, dalle 18.00.
• Workshop – Giochiamo senza stereotipi
Sorengo, La Cascina. 10 marzo, dalle 15.30.
• Tavola rotonda – Specchio delle mie brame Mendrisio, Centro giovani. 14 marzo, dalle 18.00.
• Workshop – Cattolici e gender in dialogo Balerna, Sala della Nunziatura. 16 marzo, dalle 9.15. Durante tutto il mese di marzo, inoltre, è possibile visitare l’esposizione Noi Gender presso il Liceo di Lugano 2.
Info
Generando. Visioni di genere. Approfondimenti e date degli eventi si trovano su generando.ch
Concorso ◆ Vincete i due ticket in omaggio per la serata del 16 marzo 2024, protagonista sarà la raclette
Nel corso di tutto l’inverno il Buffet Bellavista, situato a 1200 metri lungo la linea che porta in vetta al Monte Generoso, offrirà una serie di serate all’insegna della buona cucina regionale.
Il ristorante, da poco ristrutturato, grazie a un’atmosfera intima e curata, incanterà gli ospiti. «Azione» estrarrà a sorte settimanalmente due ticket per scoprire la bellezza del Monte Generoso.
Il prossimo 16 marzo ritorna l’apprezzato appuntamento con la raclette. Il menù comprende salumi, raclette a buffet con cetriolini, patate e cipolle, TiraminVetta.
Dove e quando
Serata raclette sabato 16 marzo 2024, Buffet Bellavista.
Orari: partenza da Capolago ore 19.00, discesa da Bellavista ore 21.30.
Prezzi:
Trenino e menù a 3 portate, bevande escluse: adulti CHF 60.–; ragazzi 6-15 anni CHF 40.–; bambini 0-5 anni treno gratuito. Info e prenotazioni www.montegeneroso.ch
Concorso
«Azione» mette in palio due ticket per il 16 marzo 2024 che includono ciascuno un biglietto andata e ritorno a bordo del trenino a cremagliera e la cena di tre portate. Per partecipare al concorso mandare una e-mail a giochi@azione.ch (oggetto «raclette»), indicando i propri dati, entro domenica sera 10 marzo 2024 (estrazione 11 marzo). Buona fortuna!
Addio alla nota citycar
Dal mese di marzo, l’iconica Smart Fortwo, la prima del suo genere, uscirà per sempre dalla produzione
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Amare Ronco sopra Ascona Ritratto dell’architetto Sabrina Németh che invita alla scoperta di luoghi, ville e giardini
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Vivere la biodiversità Da dieci anni i Centri natura della Svizzera lavorano in rete per avvicinare le persone al territorio
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Conciliabilità famiglia-lavoro La FaftPlus invita a investire in asili nido e mense. Le mamme ci raccontano le loro difficoltà
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Ricerca ◆ Intervista ad Alessandro Facchini che presso l’Istituto Dalle Molle si occupa di studiare buone pratiche e strategie per ridurre l’opacità del funzionamento dei sistemi di Intelligenze artificiali Mattia Pelli
Guardare dentro la scatola nera delle Intelligenze artificiali. È uno degli obiettivi del lavoro di Alessandro Facchini, docente-ricercatore senior SUPSI, dal 2015 attivo presso l’Istituto Dalle Molle di studi sull’intelligenza artificiale (IDSIA USISUPSI). O meglio: quello di mettere a punto e fornire gli strumenti e i metodi che possano ridurre l’opacità del funzionamento dei sistemi di IA.
Quello dell’Explainable AI (abbreviato in XAI) è un settore nuovo della conoscenza che si sviluppa in parallelo ai sistemi di machine learning (di cui anche ChatGPT fa parte) per rispondere a un’esigenza umana: il diritto alla spiegazione.
Lo sviluppo responsabile delle Intelligenze artificiali è legato alla trasparenza, cioè all’accesso alla logica delle decisioni prese da un’IA e ai dati usati per istruirla
«Una delle questioni chiave legate allo sviluppo responsabile delle IA –spiega Alessandro Facchini – è la trasparenza. Ciò significa non solo il diritto ad avere accesso alla logica delle decisioni prese da una IA per arrivare a un certo risultato, ma anche quello di sapere su che dati è stata istruita. Se sai che un algoritmo è stato alimentato con dati relativi all’agricoltura del Nord Europa, saprai anche che se lo applichi nel Sud Italia rischierà di funzionare male».
Ma che cosa sono le intelligenze artificiali e perché si parla di «scatole nere» riferendosi ad esse? Il grande successo di questa tecnologia è dovuto alla sua straordinaria capacità di analizzare enormi quantità di dati e di identificare degli schemi, delle ricorrenze, che la mente umana da sola non potrebbe mai individuare. In questo modo, esse riescono a elaborare «predizioni», per esempio in campo medico, descrivendo con accuratezza il probabile decorso di una certa malattia. «In questo campo – spiega Alessandro Facchini – il diritto alla spiegazione significa poter rendere conto delle decisioni prese: un medico che utilizza una IA deve poter spiegare su che basi è arrivato a una diagnosi e il paziente deve avere la possibilità di saperlo».
Attualmente Alessandro Facchini sta dirigendo un progetto dal titolo «Strategie e buone pratiche per lo sviluppo e l’adozione di un’IA etica e affidabile in medicina» (B4EAI), che ha proprio lo scopo di supportare l’adozione e l’uso eticamente consapevole di sistemi di Intelligenza Ar-
tificiale nel settore clinico sanitario ticinese. Ed è proprio in contesti delicati come quello sanitario che l’opacità nel funzionamento dell’IA pone seri problemi di fiducia, anche perché questi agenti possono «barare». Noto è il caso di una IA che, piuttosto che imparare a capire se un cavallo fosse effettivamente raffigurato in un’immagine, ha imparato a cercare un’etichetta di copyright associata a immagini di cavalli. Stesso risultato, certo, ma ottenuto con un procedimento scorretto e alla lunga inaffidabile. Si pensi ad esempio a un’IA utilizzata per analizzare radiografie e altri dati di un paziente per proporre una diagnosi medica: non è solo importante il risultato ottenuto, ma anche la trasparenza sulle modalità con le quali vi si è arrivati.
Ma che cosa distingue un programma vecchia maniera da una moderna intelligenza artificiale basata sul machine learning? «Nel primo caso – spiega Alessandro Facchini – l’intelligenza ce la metti tu. Se si tratta di un software per il gio-
co degli scacchi, lo programmi come giocherebbe un buon giocatore. Con l’IA, invece, lasci alla macchina programmare la strategia attraverso i dati. Siamo quindi di fronte a un cambio di paradigma. Tu non sai cosa la macchina sta facendo, che strategia ha scelto: la logica dietro il modo di agire dell’IA non è più direttamente accessibile. Se si parla degli scacchi, magari la si può dedurre. Ma quando si è di fronte a un’enorme quantità di dati molto complessi, non è più umanamente possibile rendere intelligibile la logica che porta da un problema alla sua soluzione semplicemente osservando il comportamento della macchina». E allora cosa si può fare? «Ci sono tecniche matematiche e algoritmiche che permettono di studiare e formulare spiegazioni relative alle decisioni prese dalle IA, ma ciò non significa che queste siano necessariamente quelle giuste. In un certo senso, si possono soltanto fare delle ipotesi, però delle ipotesi che almeno sono a noi comprensibili».
La questione della trasparenza è così importante da essersi fatta spazio nella legislazione dell’Unione europea che, con l’AI Act approvato in via preliminare lo scorso dicembre, ambisce ad essere la prima legge al mondo in questo ambito. La trasparenza diviene dunque un requisito fondamentale, in particolare, per i sistemi di IA ad alto rischio (quelli che potrebbero mettere in pericolo diritti fondamentali), che devono fornire informazioni chiare e comprensibili sulle loro capacità e limitazioni e rendere tracciabile il loro processo decisionale.
La trasparenza è una questione così importante da aver portato l’Unione europea ad approvare lo scorso dicembre l’AI Act
Siamo oggi di fronte a macchine predittive molto potenti, che possono essere di grande utilità ma che possono pure imparare a «barare». Una ten-
denza molto umana, quella ad aggirare i problemi invece che risolverli. Ma le IA non sono come noi: danno risultati utili, senza però spiegare il perché dei fenomeni analizzati. Le loro, al momento, sono «solo» inferenze statistiche, mentre la scienza è anche basata su teorie ed esperimenti. Per questo l’uso attuale delle intelligenze artificiali – secondo Alessandro Facchini – potrebbe andare ad intaccare alcuni aspetti del metodo scientifico, ostacolando per esempio l’obiettivo di comprendere e spiegare il fenomeno studiato che sta al centro della scienza moderna.
Insomma, usando le IA anche noi potremmo imparare a «barare», rischiando però di dimenticare il lavoro complesso e a volte frustrante connesso alla formulazione di teorie che spieghino il perché e il come di ciò che osserviamo attorno a noi. Ma l’essere umano ha anche un’altra caratteristica: la curiosità, che davanti a una scatola nera lo spinge a chiedersi che cosa c’è dentro e a indagare, fino a che il mistero non sia stato chiarito.
Novità ◆ L’azienda a conduzione familiare Agrotomato SA di Giubiasco produce per Migros Ticino uno dei legumi più amati Intervista al titolare Mattia Cattori
Storie di vita ◆ Con i suoi novantanove anni, è lei la donna più anziana della Val Bedretto, luogo in cui è nata, cresciuta e dove ha
Manuela Mazzi testo, Ti-Press / Alessandro Crinari foto
Prima di essere cucinati, i fagioli secchi vanno sciacquati accuratamente e lasciati a bagno in abbondante acqua per tutta la notte.
Signor Cattori, qual è la storia della vostra azienda e cosa producete?
L’Agrotomato SA è nata nel 2007 da papà Claudio e mamma Emma, quando la vecchia azienda di famiglia si trasferì da Camorino a Giubiasco. Da allora l’azienda ha avuto una crescita costante: partendo con qualche ettaro di superficie e una decina di operai, oggi contiamo una quarantina di dipendenti e 60 ettari di campi aperti, come pure 3,5 ettari di serre. Nel 2018 io e mio fratello Davide abbiamo rilevato l’azienda e siamo coproprietari. Produciamo un’ampia gamma di articoli, dai pomodori di qualsiasi tipo a molteplici varietà di insalata, dalle zucchine alle patate da consumo e da chips, passando per carote, cipolle, porri, finocchi, melanzane, formentino, asparagi, verze, cabis bianchi e rossi fino a broccoli, cavolfiori, fagioli e… chi più ne ha più ne metta.
Come mai avete deciso di coltivare anche fagioli borlotti?
Cercavamo una coltura alternativa da inserire nella nostra rotazione. Solitamente seminavamo dei sovesci a base di leguminose per non far crescere le erbacce. Tuttavia, malgrado portino dei benefici al terreno, a livello economico non sono vantaggiosi. Per questo motivo abbiamo pensato ai fagioli borlotti che, oltre a essere utili alla terra, siamo anche riusciti a valorizzare come prodotto finale.
Benefici e versatilità
La famiglia dei legumi include tra gli altri fagioli, ceci, lenticchie, piselli, soia, lupini e fagiolini verdi. Sono un’importante fonte di proteine e altre benefiche sostanze per il nostro organismo, tra cui fibre, vitamine del gruppo B, acido folico, ferro, magnesio, tiamina e zinco. In cucina i legumi sono particolarmente versatili e permettono di approntare molte ricette nutrienti e appetitose. Ricette a base di legumi si trovano in ogni parte del mondo. I legumi sono inoltre un alimento base in molti regimi vegani e vegetariani.
Quali sono le fasi della coltivazione e la superficie dedicata?
Coltiviamo i fagioli su una superficie di circa 2 ettari. Seminiamo a metàfine maggio e li raccogliamo nel corso del mese di settembre. Dopo la raccolta, i legumi vengono fatti essiccare, puliti e infine impacchettati per la vendita.
Sono facili da coltivare? Richiedono particolari accorgimenti o trattamenti?
malattie fungine, in quanto sono ortaggi sensibili all’umidità o ai ristagni di acqua nel caso di forti piogge. Purtroppo, negli ultimi due anni abbiamo avuto alcuni problemi legati prima alla grandine, successivamente alle abbondanti piogge. Interveniamo con dei trattamenti contro le malattie fungine solo in caso di bisogno, seguendo le severe linee guida della Confederazione.
Come li consuma personalmente?
sforzarci, anche se ci sentiamo sin da subito in difetto, quasi balbuzienti. E anche un po’ in colpa per la perdita di dimestichezza con la nostra lingua. Forestieri di casa.
Non è una coltura particolarmente impegnativa, bisogna solamente riuscire a tenere a bada le malerbe mediante sarchiature, come pure le
La ricetta che preferisco, anche se non comprende solamente i fagioli, è quella del minestrone ticinese, a base di ortaggi di nostra produzione.
Fagioli borlotti nostrani secchi
500 g Fr. 5.90
Novità ◆ Tre genuini salametti prodotti in Ticino entrano a far parte dell’assortimento regionale Migros
I tre nuovi salametti ticinesi – d’asino, nostrani e di cinghiale – nascono nella piccola località bleniese di Malvaglia, dove è attiva la macelleria famigliare Cavargna, fondata da Diego nel 1971 e oggi gestita dal figlio Claudio. «Per la produzione di queste tre specialità usiamo solo carne scelta di prima qualità. Per i salametti nostrani viene utilizzata in parte anche materia prima locale quando a disposizione», ci spiega il titolare Claudio Cavargna. I salumi firmati Cavargna vengono prodotti senza l’aggiunta di conservanti e antiossidanti artificiali, ma solo conservanti da estratti vegetali. «Questa particolarità dona ai nostri salumi un gusto meno aggressivo, ma più delicato e piacevole al palato». La produzione avviene ancora in maniera artigianale: «Una volta selezionate, le carni vengono tagliate, macinate e aromatizzate con una miscela di spezie della casa, sale e aromi naturali. Dopo l’insacco e la legatura a mano in budello naturale, i salametti sono posti a stagionare in apposite celle a temperatura e umidità controllate per almeno due settimane», conclude Claudio Carvargna.
Ancora oggi si contenta di poco, un poco che a suo dire sarebbe il segreto della longevità. Tranne che per alcune necessarie trasferte stagionali, non ha mai lasciato Villa Bedretto dove è cresciuta, si è sposata e tuttora risiede. Qui, a 1358 m di altitudine, Caterina Leonardi, nata Forni, il 7 febbraio ha compiuto il suo novantanovesimo anno di età. A un passo dalla cifra tonda, ci ha accolti nell’antico salottino rivestito di legno massiccio della casa costruita nel 1896, in cui vive da tempi remoti, quando ancora era lei a strattonare le corde delle campane. Per raggiungerlo, attraversiamo tre porte chiuse, com’è d’uso nelle case più a nord, dove è buona regola avere un’anticamera che isoli dal freddo l’abitazione. Fuori, cumuli di neve a bordo carreggiata e la strada ghiacciata confermano i gradi sottozero; per essere più precisi siamo a meno uno, mentre sul piano, a tarda sera, quando rientreremo, se ne registreranno più tredici. Il salottino, che vanta un campanaccio del 1890 appeso a una parete, è reso ancora più accogliente, se possibile, dai vivaci colori dei fiori ricevuti in dono durante un caloroso viavai di affezionati, non solo del villaggio; tra questi anche il consigliere agli Stati, Fabio Regazzi. Per raggiungere Villa Bedretto, si sa, occorre oltrepassare Airolo e dirigersi verso il Passo della Novena. Non siamo puntuali, il traffico non perdona sulle lunghe distanze. Nemmeno Caterina lo fa: «Siete in ritardo!» ci rimprovera, in dialetto, dopo aver guardato l’orologio di rame appeso alla parete, un regalo di anniversario del matrimonio. Non parliamo correntemente il dialetto da un bel po’, e ci parrebbe sconveniente non
La Caterina, durante l’incontro, ci interrogherà anche su alcuni termini della variante locale: indoviniamo – memori di altri tempi – ü destrü (il gabinetto); la liscta (la finestra); e la piraca (la tasca). Non sappiamo cosa sia la giova: «È il coltellino svizzero!», ci spiega.
Ci risolviamo così in una chiacchierata, tra ricordi e curiosità.
dal 5.3
Salametti d’asino prodotti in Ticino, in self-service per 100 g Fr. 4.30 invece di 5.40
Salametti nostrani della Valle di Blenio prodotti in Ticino, in self-service per 100 g Fr. 3.90 invece di 4.90
Salametti di cinghiale prodotti in Ticino, in self-service per 100 g Fr. 3.90 invece di 4.90
Incontro
Attualità ◆ Sabato 9 marzo, dalle 14.00 alle 16.00, l’autore Jonas Marti sarà ospite del reparto libri di Migros Agno Due per firmare copie del suo libro Lugano la bella sconosciuta
Lo scrittore e presentatore Jonas Marti.
Giornalista, autore e presentatore di trasmissioni di successo della RSI dedicate alla storia, alla cultura e all’arte, Jonas Marti ha anche scritto l’avvincente libro Lugano la bella sconosciuta, un autentico bestseller tutto nostrano. Nella nuova edizione arricchita di oltre 50 pagine in più, lo scrittore ci porta a scoprire molte altre curiosità legate alla città sul Ceresio. Lo sapevate per esempio che a Lugano un tempo si sono combattute delle battaglie navali? Che il Ponte dei Sospiri di Venezia è stato costruito da un luganese? Oppure che in Argentina c’è una città con lo stesso nome o che esi-
ste un antico «alfabeto di Lugano»? Insomma, in questo coinvolgente libro ognuno potrà scoprire e conoscere tanti aneddoti originali e sconosciuti sulla più grande città del nostro Cantone, di cui anche i cittadini doc ignoravano del tutto l’esistenza. Il libro è ulteriormente arricchito da numerose fotografie, dipinti e immagini particolarmente suggestive. Jonas Marti sarà presente sabato prossimo presso la filiale Migros di Agno Due non solo per presentare il suo libro, ma si metterà a disposizione per autografi, foto e per rispondere a domande da parte della clientela.
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Tutte le attività, gli ordini, l‘assistenza e i servizi di garanzia continueranno a funzionare in modo affidabile e degno di fiducia come di consueto. Migros si impegna a garantire tutto ciò. Il nostro personale continuerà ad essere al tuo fianco con grande impegno, sia online, che al telefono o nei nostri punti vendita. Maggiori informazioni sur sportx.ch/news
Motori ◆ La mitica due posti della Smart esce dalla produzione a partire da questo mese
Mario Alberto CucchiLa Smartina è morta, viva la Smart. Ebbene sì, dal mese di marzo l’iconica Smart Fortwo, la prima del suo genere, non viene più prodotta. Chi desidera un esemplare deve sperare in quanto resta, ancora per poco, disponibile nelle concessionarie. Ripercorriamo la Smart-storia.
L’idea della minicar fu dell’inventore di Swatch Nicolas Hayek, imprenditore svizzero di origini libanesi, motivo per cui la vettura fu inizialmente chiamata «Swatch Car». L’obiettivo di Hayek era quello di costruire un’auto elettrica di alta qualità, a basso costo ed ecologica. Dopo un tentativo fallito con VW, Hayek diede vita all’idea della piccola auto ecologica in collaborazione con Mercedes-Benz. Oggi lo possiamo dire: la sua intuizione era giusta.
Pur essendo una citycar la Smart è un po’ troppo «energivora» rispetto allo standard attuale delle versioni elettriche
Ma lo svizzero non si sentì soddisfatto neppure della collaborazione con Mercedes. L’auto infatti funzionava con un motore a combustione interna invece che con un più ecologico motore elettrico, come inizialmente previsto. Così il pioniere dell’orologeria vendette tutte le sue azioni poco dopo
l’inizio delle vendite. E lì forse, con il senno di poi, sbagliò. Basti pensare che di Smart sono stati venduti oltre due milioni di esemplari sino ad oggi. Declinati in vari modelli. Dalla Fortwo alla Fourfour passando per la crossblade e la coupé sino alle attuali #1 e #3.
Lanciata nel 1998 da Swatch e Mercedes-Benz, la prima Smart era prodotta da MCC, acronimo di Micro Compact Car. Smart, invece, acronimo di Swatch Mercedes Art, era solo il nome del modello. Un vero e proprio marchio come noi oggi lo conosciamo, lo è diventato nel 2002. Dal 2004, con il debutto della prima generazione di Fourfour a quattro posti la due porte è stata battezzata Fortwo.
Tre le generazioni costruite che hanno sostanzialmente mantenuto le stesse dimensioni. La prima era lunga 2,5 metri mentre la seconda e la terza sono arrivate a 2,7 metri. Solo venti centimetri in più ma quanto basta per non poterla più mettere come in un «tetris» in parcheggi di fortuna in cui a volte ci stava giusto una Smart di prima serie. Quella attuale è la terza generazione ed è stata lanciata nel 2014. Con lei è sparito il motore a gasolio presente sulle due precedenti. Inizialmente è stata proposta con due propulsori a benzina. Entrambi tre cilindri: un 1,0 aspirato da 71 cavalli e un 0,9 litri turbo da 90 cavalli equipaggiati con un cambio a doppia fri-
zione a sei rapporti o in alternativa una trasmissione manuale a cinque marce.
Dal 2020 in poi sono sparite le versioni termiche ed è rimasta in vendita unicamente la Smart elettrica: la EQ. La Smart Fortwo EQ è spinta da un motore elettrico che con 82 cavalli e 160 NewtonMetro di coppia muove le ruote posteriori. La batteria pesa 160 kg ed è alloggiata sotto il pavimento, ha una capacità di 17,6 kWh ed è garantita 8 anni o 100mila km. Per fare «il pieno» è possibile usare la corrente alternata a 4,6 kW o il caricatore di bordo da 22 kW (optional), che consente di ripristinare l’80% in 40 minuti. L’autonomia è di 159 km, sufficienti per gli spostamenti quotidiani.
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Ma perché cessano le vendite di Smart? La risposta è da cercare probabilmente proprio nell’elettrificazione di una vettura che non era nativa elettrica. Smart EQ ha un peso di poco superiore ai mille chilogrammi con un pacco batterie da 17,6 kWh. Questi due dati sono quelli analizzati da chi se ne intende di elettriche per capire se le prestazioni in termini soprattutto di autonomia sono buone. Basti pensare che la grande Mercedes EQS, l’ammiraglia della Casa di Stoccarda, se da una parte ha un peso di oltre 2600 chilogrammi dall’altra ha una batteria da oltre 100 kWh. Oltre 600 i chilometri di autonomia.
Vero è che Smart è una citycar ma è un po’ troppo «energivora» rispetto allo standard attuale delle versioni elettriche. Il progetto resta vincente e per questo c’è da aspettarsi che nel giro di un paio d’anni possa ritornare la Fortwo godendo di nuove tecnologie che a parità di dimensioni permetteranno di abbassare i pesi e aumentare l’autonomia.
Adesso è giunto il momento di fare outing: chi scrive di Smart Fortwo negli anni ne ha comprate ben quattro. E le ha amate tutte. Dalla prima w450 grigio metallizzata con gli interni in pelle nera di inizio anni Duemila, alla successiva nera con gli interni color biscotto su cui era montato anche un portabici al posteriore sino alla w452 di colore verde lime mat che non passava di certo inosservata.
Se non è prevista un’erede di Smart Fortwo a breve va detto che attualmente ci sono in vendita altri due modelli: Smart #1 e Smart #3. Una versione più grande della Smart, costruita unendo le forze con la casa automobilistica cinese Geely nel 2020, con lo scopo di diventare uno dei leader nel segmento dei veicoli elettrici premium. Entrambe elettriche, hanno anche buone prestazioni e grande appeal, ma senz’altro poco a che fare con la Smart Fortwo. La «smartina», così chiamata dai tanti appassionati, è stata amata da molti e soprattutto a Roma che è la città con più Smart al mondo.
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Incontri ◆ Ritratto di Sabrina Németh, esperta in stabili storici, spazi urbani e naturali, che accompagna gratuitamente i visitatori alla scoperta di luoghi, ville e giardini del paese collinare
Mauro Giacometti
Sabrina Németh ama Ronco sopra Ascona. Un amore ricambiato sin da piccola quando da Zurigo giunse in paese con i familiari, abitando poi in collina. E nonostante per lavoro o svago abbia girato la Svizzera, l’Europa e buona parte del mondo, non s’è mai voluta sradicare da questa sponda destra del Verbano. Németh si è laureata in architettura all’Accademia di Mendrisio e in pianificazione territoriale al Politecnico di Zurigo, ha lavorato in diversi studi professionali in Svizzera e all’estero e come assistente di progettazione architettonica e ricercatrice scientifica nel recupero degli stabili storici presso l’Accademia di Mendrisio. Importante per lei è stata inoltre l’esperienza pluriennale alla sede centrale di Patrimonio svizzero, a Zurigo, organizzazione non governativa che dal 1905 si impegna nella promozione della cultura architettonica, degli spazi urbani e naturali.
Patrimonio svizzero che ogni anno, dal 1972, assegna il prestigioso Premio Wakker, di cui Németh è stata responsabile, onorando i comuni che favoriscono lo sviluppo armonioso dell’abitato e degli insediamenti, in linea con orientamenti pianificatori attuali e rispettosi degli spazi e della loro storia. Da oltre dieci anni l’architetto si è comunque distinta e impegnata in particolare, per
far amare la «sua» Ronco a turisti, visitatori, istituzioni e residenti, guidandoli tra le vie del borgo, il nucleo di Fontana Martina e la riva, facendo loro scoprire angoli, case, terrazzamenti e paesaggi che solo chi apprezza e conosce intimamente questo villaggio abbarbicato sulla collina può raccontare.
La prima citazione del borgo risale al 1264 nella forma Ronco de Schona , nome derivato dal verbo latino runcare cioè dissodare In collaborazione con l’Associazione Ronco Cultura e Tradizioni (ARCT) – co-fondata nel 1999 dalla compianta Cornelia Schwarz-Ammann, sodalizio che quest’anno taglia il traguardo dei 25 anni di attività e del quale Németh è presidente dal 2011 –, l’architetto ronchese coordina difatti le visite guidate, le conferenze e mostre, partendo da Casa Ciseri, storica residenza in piazza del Semitori, nel centro di Ronco, che è anche sede dell’associazione. «In questa mia attività di divulgatrice a Ronco, iniziata una decina d’anni fa, ho unito la mia grande passione per l’architettura e i viaggi, la mia curiosità di scoprire la storia e la mutazio-
Le visite guidate e un ricco programma culturale
Quest’anno, insieme al comitato ARCT, Sabrina Németh ha allestito un fitto programma di visite guidate da marzo a ottobre, in italiano e tedesco, rigorosamente gratuite e una serie di eventi speciali per il 25° dell’ARCT e i 100 anni di rivitalizzazione della frazione di Fontana Martina, avviata nel 1924 da Fritz Jordi. Con lei si parte da Casa Ciseri (costruita nel 1830), si percorre il nucleo di Ronco con i barchitt, ossia i «sottopassaggi» e altri elementi medievali tipici. Si visitano pure giardini e case private tra cui una realizzata dall’architetto Luigi
Snozzi e un’altra dall’architetto Carl Weidemeyer. La prima visita guidata si terrà il 31 marzo 2024, ore 14:15. Il programma culturale 2024 si apre invece con la presentazione del catalogo Antonio Ciseri e gli antenati da Ronco a Firenze, in Casa Ciseri a Ronco il 27 marzo 2024. I festeggiamenti per il 25° giubileo dell’Associazione e il 100° di Fontana Martina si terranno in Casa Ciseri e nella frazione di Fontana Martina il 22 e 23 giugno 2024. Maggiori informazioni e iscrizioni: archicultour.com, arct.ch e info@arct.ch.
Ilne dei siti. L’architettura, ambiente costruito e creazione visiva dell’uomo, è in effetti lo specchio più diretto dello Zeitgeist e degli stili di vita di una società e di un’epoca, spesso l’unica testimonianza fisica duratura a caratterizzare, in modo determinante, l’identità di un luogo – sottolinea –. Oltre ai tratti architettonici e paesaggistici, propongo altre visite tematiche come l’impatto della migrazione artistica, oppure l’evoluzione storica delle abitazioni. E oltre a Ronco, questa promozione e conoscenza della cultura del territorio è al centro della mia attività in Ticino e in tutta la Svizzera quale architetto e guida culturale indipendente», ci dice mentre la incontriamo su una panchina del piazzale della chiesa della Madonna delle Grazie, con magnifica vista sul lago.
La prima citazione del paese risale al 1264, nella forma Ronco de Schona, nome derivato dal verbo latino runcare, cioè dissodare. Dalla riva del lago alle prime pareti rocciose sopra il borgo, il territorio era infatti del tutto coltivato fino alla prima metà del Novecento. Ed è verosimile ipotizzare siano stati gli asconesi stessi i primi a colonizzarlo e a coltivarlo, con campi e vigneti, ma anche con colture tipicamente mediterranee, come l’ulivo, che, con la vite, ha sempre prosperato sugli stretti pianori retti da muri a secco, battuti dal sole e rinfrescati dall’Invèrna, il vento da sud. Come per tanti amori contrastati, a volte Sabrina Németh si trova peraltro a considerare con occhi critici il villaggio che l’ha vista fin da piccola aggirarsi nel nucleo, inseguire i compagni di giochi tra i viottoli e i giardini di case secondarie abitate solo per qualche mese l’anno, godersi il panorama ove si staglia la chiesa di San Martino, con quel suo campanile cartolina a dominare il lago Maggiore. «All’inizio del ’900 erano solo le coltivazioni terrazzate, e i ronchesi andavano fieri del loro territorio collinare con vista lago. Poi, dagli anni ’30, s’è avviata l’inesorabile “invasione”, per il clima mite, l’aria limpida, l’orizzonte eccezionale: al posto dei terrazzamenti sono sorte le prime case,
ma è dal secondo dopoguerra che s’è consumato una sorta d’attacco urbanistico e paesaggistico a Ronco, con il boom edilizio delle costruzioni di case per vacanza, con stili e soluzioni architettoniche disordinate e troppo spesso discutibili. Un’invasione che purtroppo non s’è ancora interrotta, tant’è che Ronco ha gli stessi abitanti di quattro secoli fa, ma, nel frattempo, è sorta una miriade di abitazioni, di ville, di residenze secondarie», ci spiega. Varie le attività intese allora dall’Associazione Ronco Cultura e Tradizio-
lusso che dobbiamo permetterci
ni a valorizzarne il volto storico e rilanciare il centro paese. Nel 2021, ad esempio, in occasione del bicentenario della nascita di Antonio Ciseri, pittore ronchese di larga fortuna a Firenze, s’è organizzata un’esposizione, sempre curata da Sabrina Németh e dallo storico Marino Viganò, vicepresidente dell’ARCT, per rammentare la larga migrazione di ronchesi in Toscana (vedi box). Va pure ricordato l’ampio successo dell’esposizione dell’artista Manon, pioniera dell’arte contemporanea svizzera, tenutasi sempre in Casa Ciseri nel 2023.
Parole verdi – 12 ◆ Con questo articolo si conclude la serie dedicata al nostro rapporto con l’ecologia e la crisi climatica
Francesca Rigotti«L’ecologismo è un lusso che non possiamo permetterci». Lo pensano in tanti anche se non osano dirlo ad alta voce. O forse non lo pensano nemmeno in maniera così precisa, certo è che fanno passare davanti al rispetto per l’ambiente mille altre esigenze e attività. Questi tanti, persone comuni o, peggio, politici e amministratori, lo relegano infatti tra i bisogni ultimi, quasi fosse un lusso investire intelligenza e risorse per affrontare il problema del riscaldamento climatico determinato da fattori antropici o per limitare l’inquinamento atmosferico, visivo, acustico. C’è sempre qualcosa che è più importante, più urgente, più necessario o più desiderabile. E così i problemi ecologici passano in secondo piano o vengono tamponati con provvedimenti provvisori. E poi un po’ di
rumore e di luce in più, che cosa c’è di male. Tengono compagnia e garantiscono sicurezza. Insomma, sembra che provvedimenti che limitino la devastazione che facciamo del pianeta siano, ripeto, un lusso, un surplus. Ma basta guardare la parola per capire che non è così. Il termine lusso, come quello di lussuria, deriva dall’aggettivo greco loxòs, obliquo, fuori posto, lussato. Il lusso e la lussuria sono lussazioni del modo di vivere, perché designano comportamenti storti e deviati: il primo per quanto concerne il desiderio di vanità e ambizione; il secondo, l’appetito di godimenti carnali. Assistiamo qui come in molti altri casi a una contraddizione, a un paradosso del nostro modo di vivere e di pensare. Da una parte pensiamo – alcuni, molti pensano – che l’ecologi-
smo sia un lusso nel senso di qualcosa di sovrabbondante, un surplus che non fa parte delle dure necessità: il lavoro, la salute, la sicurezza, quindi mettiamolo in fondo alla lista delle priorità. Dall’altra però l’economia argomenta che produzione e consumo di beni di lusso sono giustificati anzi necessari, soprattutto in tempi di crisi. Per gli economisti le società nelle qua-
li si è verificata una tendenziale sazietà di beni primari devono investire in beni non immediatamente utili quanto desiderabili, per procurare lavoro, domanda e offerta.
Forse questa schizofrenia dipende dal fatto che l’immagine del lusso è cambiata: nei secoli passati il concetto di lusso appariva in diversi contesti in maniera peggiorativa: la filosofia morale e la teologia facevano a gara nel condannare il lusso come «distorsione» dell’anima, lussazione dei sensi, desiderio di vanità e ambizione. Gli antichi conoscevano addirittura leggi particolari che punivano esternazioni eccessive di lusso e ricchezza.
Da quando però l’economia è diventata consumista e mercificata, la rigidità morale verso il lusso (e pure verso la lussuria) è stata pian piano de-
posta e il lusso è diventato una molla della domanda, del progresso tecnico, dell’aumento di esportazioni, insomma dell’intera prosperità sociale. E ha perso la patina negativa per nobilitarsi e rivelarsi qualcosa di ambito, amato e desiderato.
E dunque: se il lusso lo consideriamo negativamente, anteponendogli la necessità e il bisogno, ebbene l’ecologismo non è un lusso, è una necessità; se il lusso lo valutiamo positivamente come soddisfazione del desiderio, cioè qualcosa di più elevato del semplice bisogno, assorbiamone la componente di nobiltà. E che l’impegno per la difesa dell’ambiente e dell’equilibrio naturale diventi non soltanto necessità e bisogno ma anche desiderio e lusso. Un lusso che ci vogliamo e che ci dobbiamo permettere.
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Territorio ◆ I Centri natura della Svizzera lavorano in rete con l’obiettivo comune di sensibilizzare le persone, proponendo escursioni e visite per conoscere il territorio e la biodiversità, come per esempio il Percorso del cemento nel Parco delle Gole della Breggia
Elia StampanoniIn Svizzera esiste una Rete dei centri natura (RSCN), ossia un’associazione in cui 36 enti si sono uniti per promuovere offerte attraenti in luoghi ricchi di biodiversità, quindi ideali per l’apprendimento. Disseminati in tutte le regioni linguistiche, i centri sono immersi in incantevoli paesaggi e, seppur eterogenei e variati, hanno l’obiettivo comune di sensibilizzare il maggior numero possibile di persone alla natura, proponendo osservazioni dirette o escursioni accompagnate sul territorio.
Di questi centri sei si trovano nella Svizzera italiana; uno è in Bregaglia, la Torre Belvedere a Maloja, mentre gli altri sono in Ticino: il Centro Pro Natura Lucomagno, le Bolle di Magadino, l’Aula sull’acqua di Muzzano, il Centro Natura Vallemaggia e il Parco delle Gole della Breggia. Anche loro si sono aggregati alla rete con l’intento di promuovere la natura e di portare le persone a scoprire luoghi naturali e zone protette. Vengono per esempio organizzate visite guidate con le scolaresche, ma anche con un pubblico adulto, come racconta Andrea Stella, direttore del Parco delle Gole della Breggia con sede a Morbio Inferiore: «Ultimamente stiamo intensificando ulteriormente le proposte di attività rivolte anche agli adulti e quindi organizzate al di fuori degli orari scolastici, per esempio il sabato o la domenica». Momenti che stanno riscontrando un ottimo successo, come dimostrano i numeri relativi alle visite al Percorso del cemento, una tra le molte attività didattiche proposte dal Parco, accanto ai Viaggi nel tempo, al Percorso ecologico o alla Macinatura didattica, solo per citarne alcune: «Nel 2023, solo per il Percorso del cemento, abbiamo organizzato una dozzina di escursioni guidate nei fine settimana, a cui si sono aggiunte le visite di una quarantina di classi, per un totale di circa un migliaio di visitatori», evidenzia Stella.
Il Percorso del cemento s’è d’altronde rivelato affascinante, anche
I sei Centri natura nella Svizzera italiana
Torre Belvedere a Maloja: www.pronatura-gr.ch/it/ torre-belvedere
Centro Natura Vallemaggia: www.cnvm.ch
Centro Pro Natura Lucomagno: www.pronatura-lucomagno.ch Bolle di Magadino: www.bolledimagadino.com
L’Aula sull’acqua di Muzzano: www.pronatura-ti.ch/ riserve/Muzzano
Parco delle Gole della Breggia: https://www.parcobreggia.ch
grazie al connubio tra natura ed esperienze inusuali, come possono essere quelle del silenzio e del buio. Il tragitto conduce infatti nelle gallerie di estrazione della roccia calcarea dove, oltre ad apprendere nozioni legate alla geologia, al territorio e all’industria del cemento, si sperimentano delle sensazioni speciali legate all’assenza di luce e di rumori.
Il cemento e la natura, il buio e il silenzio
Anche se all’apparenza natura e cemento sembrano in perfetta contrapposizione, dopo aver mosso i primi passi nel Parco delle Gole della Breggia e ascoltato le indicazioni iniziali delle guide, subito si comprende che il legame è invece molto forte. La ricchezza del territorio, con le sue rocce particolarmente appropriate, attirarono infatti in questo sedime un’industria per la fabbricazione del cemento. Era il 1963, quando Saceba iniziò la sua attività nel comprensorio, assicurandosi la materia prima a chilometro zero. Sono due i tipi principali di roccia che sono stati estratti per quattro decenni dalle pareti accanto al fiume Breggia: la dura Maiolica Lombarda (una roccia calcarea detta anche Biancone) e la più friabile Scaglia, le quali venivano frantumate, tritate, mischiate, cotte ed elaborate, per dar vita al prezioso prodotto finale, il cemento.
Un elaborato molto richiesto che trovò impiego nei cantieri edili del Ticino in un periodo di grande crescita economica. L’attività diminuì gradualmente (sia a seguito di un calo di richiesta, sia per i disagi arrecati
alla popolazione) e proseguì fino alla chiusura definitiva nel 2003, quando sul territorio attorno alla fabbrica era nel frattempo già stato istituito il Parco delle Gole della Breggia (nel 1997).
Del cementificio oggi sono rimasti ben visibili un frantoio e l’edificio centrale, dove si trovavano ulteriori macine e il forno. Gli altri stabilimenti sono stati rimossi, lasciando spazio alla natura, ma anche alle vestigia (fondamenta) della masseria che si trovava sul posto prima dell’arrivo dell’industria.
Ma perché conservare le costruzioni dismesse in un ambiente come quello del Parco e del suo fiume Breggia? «Il progetto di riqualifica – riporta il sito del Parco – è stato preferito alla demolizione per poter raccontare la storia per intero e riflettere one-
stamente sulle impronte che lasciamo dietro di noi, qui o altrove» E per rivivere, riflettere e capire, una visita guidata al Percorso del cemento è l’occasione ideale e offre anche molte emozioni. Infatti, oltre agli edifici rimasti, la proposta didattica porta i visitatori lungo i cunicoli delle cave, da cui l’estrazione iniziò nel 1975 in sostituzione di quella a cielo aperto, invasiva per il territorio e troppo problematica per la popolazione.
La rete di gallerie si estende per cinque chilometri nel cuore della montagna e il percorso permette oggi di ripercorrerne circa 700 metri, accompagnati dalle guide, immersi nell’oscurità e nella calma, solo interrotta dalle spiegazioni fornite. «Il silenzio e il buio – conferma il direttore Andrea Stella – sono infatti due ele-
Nata nel 2014 come associazione, la Rete svizzera dei Centri natura s’appresta a iniziare il suo undicesimo anno d’attività, sempre proponendo occasioni di divulgazione e sensibilizzazione ambientale, spesso concentrate anche durante il Festival della Natura, che nel 2024 si terrà dal 22 al 26 maggio.
La maggior parte dei Centri è gestita da associazioni private per la protezione della natura o da enti locali, con il sostegno della Confederazione e dei Cantoni. Ogni anno sono più di 500’000 le persone che visitano i Centri di natura svizzeri, partecipando individualmente o in gruppo a
escursioni, mostre e altre attività. Oltre 50’000 sono invece i partecipanti stimati per i momenti di formazione con visite guidate, laboratori o incontri di gruppi di lavoro, dove circa la metà è rappresentata dalla visita di classi scolastiche.
I Centri sono sovente anche luoghi in cui sia gli amanti della natura sia gli esperti s’incontrano per osservare specie animali e vegetali nel loro ecosistema, per impegnarsi nella loro tutela, ma pure per studiare altri aspetti legati all’ambiente e al territorio.
Oltre alle citate strutture, altre avrebbero le caratteristiche e le potenzialità per aderire, anche nella Svizzera
Dalla natura al manufatto: al Parco delle Gole della Breggia si riflette anche sulle impronte che l’uomo lascia sul territorio.
(E. Stampanoni)
menti caratteristici di quest’esperienza, che diventa così un’avventura particolare e affascinante per i visitatori». La perlustrazione delle cave, che si sviluppano fin sotto il paese di Castel San Pietro, avviene a una temperatura costante di 13°C, piacevolmente fresca in estate e confortevolmente mite in inverno. Ad illuminare la via (oltre alle torce a disposizione) ci sono solo delle piccole luci rosse, ma in tredici punti sono state allestite delle postazioni scenografiche dove, grazie ad effetti speciali, si risvegliano forti emozioni. Una gita didattica e suggestiva, che passa dal verde del Parco con le sue rocce maestose, alle dismesse strutture del cementificio per poi inoltrarsi nella montagna, dove in passato 450’000 metri cubi di roccia sono stati scavati in soli vent’anni.
italiana, come spiega Nicola Patocchi, direttore responsabile scientifico delle Bolle di Magadino nonché membro di Comitato dell’associazione: «Quelli attualmente associati vi partecipano praticamente sin dall’inizio, avendo anche contribuito alla nascita dell’associazione nel 2014; ma l’adesione è libera e aperta ad altre fondazioni o enti che hanno nell’educazione ambientale uno dei loro obiettivi, contribuendo così a far conoscere la natura e i suoi luoghi a un numero sempre maggiore di persone in tutta la Svizzera».
Informazioni www.centri-natura.ch
Famiglie ◆ La Federazione delle Associazioni femminili Ticino Plus lancia un appello a tutti i Comuni chiedendo di investire in misure che migliorino la conciliabilità tra famiglia e lavoro. Alcune mamme ci raccontano le loro difficoltà
Romina Borla e Barbara ManzoniLavoro e famiglia: un binomio difficile, per tante donne impossibile. È la cura dei bambini ad assorbire la maggior parte del tempo delle giovani, che spesso rinunciano al lavoro o passano al part-time durante i primi anni di vita dei figli. Secondo l’Ufficio federale di statistica «nel 2022, nelle economie domestiche con almeno un figlio di età inferiore ai 7 anni, il tasso di attività delle donne in equivalenti a tempo pieno ammontava in media al 46,9%». Molteplici le cause di questa rinuncia. Alcune personali, altre un po’ meno, come il costo eccessivo degli asili nido o l’assenza di mense scolastiche. Lo ribadisce la Federazione delle Associazioni Femminili Ticino Plus che – con un appello – si rivolge a tutti i Comuni ticinesi chiedendo di investire in tre misure per contribuire a migliorare la conciliabilità (si può firmare anche online su www.faftplus.ch). Nel dettaglio: asili nido a costi accessibili; pre e doposcuola destinati agli allievi delle scuole primarie (in ogni sede); mense scolastiche a prezzi moderati e senza limiti di accesso (in tutti gli istituti).
«Senza l’aiuto di amici e nonni – che abbiamo la fortuna di avere –per me sarebbe
impossibile lavorare»
Queste richieste giungono nelle settimane che precedono le elezioni comunali, previste il prossimo 14 aprile, e sono motivate – secondo FAFTPlus – dalla volontà di costruire un «Ticino con famiglie più resilienti e più competitivo, che sostiene il lavoro indigeno». Alcuni Comuni, naturalmente, si sono già mossi in questo senso, altri invece offrono ancora pochi servizi per favorire la conciliabilità. Ma in questa realtà a macchia di leopardo, come vivono le madri? Quali sono le difficoltà dei genitori nella gestione quotidiana dei figli? «Azione» ha raccolto delle testimonianze.
Victor D.O. Santos – Anna Forlati
La cosa più preziosa
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In un momento in cui ai bambini si parla praticamente di tutto, con libri su argomenti anche complessi, o delicati (morte, filosofia, sessualità, diritti civili, politica, ecc.), stupisce la scarsità di libri sul linguaggio, o meglio sulla sua concreta manifestazione umana, la lingua che parliamo. La lingua è lo strumento più importante che abbiamo, perché è trasversale a tutte le altre competenze, dà forma a tutte le situazioni della nostra vita, ci caratterizza come esseri umani. Si parla di tante cose ai bambini, ma si parla poco delle parole. La lingua è davvero «la cosa più preziosa», come dice il titolo di questo bell’albo, il quale esce con la collaborazione dell’UNESCO, che intende richiamare l’attenzione sul valore delle lingue, sulla loro «preziosità» appunto, perché quando una lingua muore «con essa può morire anche una cultura». Tant’è che l’Assemblea Generale delle Nazioni Unite ha proclamato per il perio-
«Di salti mortali ne ho fatti tanti e continuo a farli», dice Maira, mamma single di una bambina di 3 anni. Nel 2022 ha ripreso una formazione nel settore sanitario che prevedeva degli stage negli ospedali del Cantone. Fuori casa tutto il giorno quindi, orari variabili. Lontana dalla famiglia di origine. Per fortuna nel quartiere del Bellinzonese dove risiede esiste un asilo nido. «Però la struttura apre alle 7, mentre io esco prima», racconta. «Così lascio la piccola da una vicina di casa: 80 anni ma piena di energia. La porta lei al nido». E per quel che riguarda vacanze e turni serali? «Mando mia figlia in Italia, da mia mamma, oppure viene lei a stare da me. Sono insomma perennemente in cerca di soluzioni e sempre stanca. Mi rendo conto di chiedere dei sacrifici anche alla mia bimba: a volte gira come un pacco postale, i sensi di colpa non mancano. Ma non ho alternative, vado avanti senza pensare troppo al futuro».
Maira ha trovato una strada, sicuramente faticosa, ma percorribile che però comporta anche un impegno finanziario importante. Dando una rapida occhiata alle tariffe in vigore in alcuni asili nido del Bellinzonese, vediamo che la cifra oltrepassa i 1000 franchi mensili, considerando cinque giorni di accudimento alla settimana (meno giorni, in proporzione, costano di più).
«Lavorare per riuscire giusto a pagare il nido e poco più? Anche no». Così pensano tante madri ticinesi che scelgono di abbandonare l’attività (con tra l’altro una serie di conseguenze pesanti a lungo termine: carenze nelle rendite pensionistiche, precarietà in caso di divorzio, ecc.). È l’esperienza di Silvia: «Dopo qualche anno coi bambini avrei voluto rientrare nel mondo del lavoro ma, con i loro orari, era difficile anche solo fissare un colloquio o pensare a una riqualifica. Le difficoltà di organizzazione sono aumentate quando il maggiore ha iniziato le elementari, mentre il più piccolo era alla scuola dell’in-
fanzia». La giornata iniziava con l’accompagnare prima uno poi l’altro alle rispettive sedi. Il grande tornava a casa per pranzo e Silvia lo riportava indietro; alle 15.30 doveva già essere alla scuola dell’infanzia perché il piccolo usciva. «Una gestione così complicata crea inevitabilmente stress: era difficile avere il tempo per andare dal medico, figuriamoci per lavorare fuori casa!». Da notare: la nostra interlocutrice abita in un Comune del Luganese dove il servizio di mensa per le scuole elementari esiste ma accoglie solo i bambini che hanno entrambi i genitori lavoratori, e si deve presentare un certificato del datore di lavoro per avervi accesso.
Anche Luana abita in un Comune del Luganese che però non è dotato di asilo nido, niente pre e dopo scuola e mense «ufficiali» per le elementari (ci sono però degli enti che offrono, a pagamento, attività e servizi extrascolastici ma i posti sono limitati). Lavora quasi a tempo pieno. Inizia alle 7 e finisce tra le 17 e le 18. Una baby sitter è fuori discussio-
ne: costa troppo (una mamma di nostra conoscenza, che lavora al 50%, ci ha confessato di aver speso 20mila franchi in un anno per la tata delle sue figlie). «Mi sono dovuta arrangiare: non ho aiuti», afferma Luana. «Quando tre anni fa la piccola ha cominciato le elementari, e tornava a casa per pranzo, trovava il fratello, che ha 8 anni più di lei. Lasciavo loro cibi pronti, li preparavo la sera o nei week end». Al mattino? «Ha diverse sveglie puntate e si prepara da sola. Il papà quando può la chiama alle 8, giusto per essere sicuri che sia pronta, altrimenti alle 8 ha l’ultima sveglia, quella che le dice: parti altrimenti perdi l’autopostale». Mentre la sera? «Due giorni a settimana pratica sport, la accompagna il papà oppure una signora di fiducia. Il venerdì ci sono io. Per il resto aspetta sola il nostro arrivo. È molto responsabile, come il fratello. Facciamo tutti quello che possiamo, mentre io non mi sento di certo la madre dell’anno...». Un sentimento condiviso da Stefania, del Mendrisiotto, due bimbi che
frequentano la mensa delle elementari: «Mi sento sempre in colpa: devo lavorare, devo lasciare il bimbo in mensa, la maestra mi dice che arriva il pomeriggio agitato e nervoso. È frustrante. La società non mette le donne in condizione di lavorare con serenità. E loro cosa fanno? Si sacrificano per la famiglia, soprattutto se lo stipendio del compagno lo permette. Poi i bambini crescono e tu rimani lì, sola, senza sapere bene qual è il tuo posto nella società e con tanti sogni frustrati». Elizabeth tenta di tenersi aggrappata a quei sogni. «Ma senza l’aiuto di amici e nonni – che abbiamo la fortuna di avere – per me sarebbe impossibile lavorare». Lei infatti vive in un Comune del Luganese che non dispone della mensa (elementari), pochi gli aiuti prima e dopo scuola. «E sono privilegiata per un’altra ragione: gestisco un’attività in proprio, insieme a mio marito, così sono flessibile con gli orari. Posso all’occasione staccare alle 15.45 per recuperare mio figlio, lavorare da casa... Ma il tempo per me è pari allo zero: o lavoro, o sto con mio figlio, o faccio ordine, la contabilità ecc. Spesso faccio queste cose tutte insieme, col rischio di scoppiare. Sempre produttiva, altrimenti mi sento in colpa ma mi manca spazio per me, per leggere un libro o semplicemente per pensare».
Pressione costante anche per Mary, lavoro part-time e famiglia di origine lontana. «Con la mensa (servizio extrascolastico organizzato da un’associazione) funziona, il problema sono le vacanze scolastiche e i mercoledì: non sono coperti. Così bisogna organizzarsi per tempo con le colonie, spesso fuori Comune, e prevedere spese non da poco. Il mercoledì poi ho chiesto il permesso di uscire prima dal lavoro; non tutti i datori di lavoro lo concedono... Se poi il bimbo si ammala è un disastro: ci tocca chiamare la Croce Rossa che offre un servizio di custodia a domicilio per bambini in situazioni di emergenza (Mamy help). Navighiamo sempre a vista insomma, ma non molliamo».
di Letizia Bolzanido 2022-2032 il Decennio Internazionale delle lingue indigene. Victor D.O. Santos è un linguista, e qui sceglie di rivolgersi ai bambini facendo parlare la lingua in prima persona, la quale presenta vari aspetti di sé, ma senza mai nominarsi, se non alla fine, così che il libro ha un andamento a indovinello: «Sono in circolazione da molto, molto tempo […] sono la cosa più preziosa, ma puoi trovarmi dappertutto […] sono sicura che oggi mi hai vista. O mi hai sentita […] posso dimostrarti amore. O anche ferirti…» e solo all’ultima pagina questa
misteriosa protagonista si svelerà: «io sono la lingua». Sarà interessante, allora, rileggere più e più volte il libro, soffermandosi su ogni affermazione che la lingua fa su sé stessa, magari discutendone con gli adulti, a casa o a scuola, e provando ad approfondirle, a estenderle, a farle proprie. Le illustrazioni di Anna Forlati, evocative e simboliche, si prestano bene anch’esse a una lettura a più livelli. La cosa più preziosa è in via di traduzione in 19 lingue, in italiano questo albo è stato tradotto da Vera Gheno, autorevole linguista e saggista, che ne ha firmato anche la postfazione.
Erika Belfanti
Ti proteggerò Bohem Press (Da 2 anni)
Un libro semplicissimo, ma ricco di tenerezza e di calore. Lo immaginiamo sfogliato insieme, da adulti e bambini, con i piccoli tenuti in braccio, proprio come si vede fare da ogni genitore animale, che, pagina dopo pagina, tiene vicino il proprio cucciolo. Gli scoiattoli nella loro ta-
na sull’albero, le linci dentro la cavità di un altro albero, i cigni sulla riva del lago, e poi nella grotta gli orsi, e sul prato le volpi, i ricci, i cerbiatti, gli animali raffigurati sono tanti, ogni coppia genitore-cucciolo è ritratta in un atteggiamento placido ma anche illuminato dall’amore, e intanto il tempo scorre, cambiano le stagioni e cambiano i colori. Il trascorrere e trascolorare dei giorni è reso certamente dalle immagini, ma anche dalle parole, poche e lievi, con cui Erika Belfanti accompagna il ritmo delle sue illustrazioni: «Ti proteggerò in inver-
no, quando la neve cade silenziosa, le notti sono lunghe e limpide / e i laghi hanno lo stesso colore del cielo. / Ti proteggerò in primavera, quando il sole riscalda i tronchi degli alberi, / il vento porta con sé il profumo dei fiori appena sbocciati / e la terra fa nascere dolci frutti…» e così via, lungo il corso dell’anno e del tempo, in modo che i piccoli lettori possano familiarizzarsi con il mutare della natura secondo le stagioni. E gli adulti abbiano parole per esprimere, nel momento così intimo della lettura, il bene che provano per i loro cuccioli. Ma, oltre a questo, il valore del libro sta nella sua funzione rassicurante (per i piccoli, e forse pure per i grandi), ben espressa dal futuro ricorrente «ti proteggerò», che non è solo un «ti proteggo ora che ti tengo in braccio leggendoti il libro», ma è esteso al domani, è «ti proteggerò finché tu vorrai», come leggiamo nell’ultima pagina, l’unica dedicata a una mamma e a un bimbo umani, in cui si prefigura dolcemente che un giorno «diventerai grande», e che sarà amore anche lasciarti andare.
Il
È in corso di presentazione e di discussione un nuovo grandioso progetto del CERN, l’organizzazione europea per la ricerca nucleare. Lo studio prevede di sostituire, tra un paio di decenni, l’attuale acceleratore, il Large Hadron Collider, in funzione da sedici anni nel sottosuolo di Ginevra, tra Francia e Svizzera. Il progetto riguarda una nuova colossale e più potente struttura, denominata Future Circular Collider, il cui scopo sarebbe quello di approfondire ulteriormente la comprensione della fisica delle particelle e con essa la comprensione dell’universo. Ciò è reso possibile da un sistema circolare di tunnel sotterranei in cui due fasci di particelle vengono fatte collidere, a una velocità molto vicina a quella della luce, per generare nuove particelle, e questo perché nell’infinitamente piccolo sono custoditi i «segreti» dell’infinitamente grande. Un grandioso, affascinante abbraccio di infiniti in cui forse si nasconde an-
È molto interessante e per certi versi rincuora venire a sapere che La Posta ha deciso di istituire un servizio di consulenza per fornire informazioni ai suoi «utenti digitali» in difficoltà. Da tempo sosteniamo che le piattaforme web proposte da Postfinance non siano il massimo (per usare un eufemismo) in termini di usabilità e di praticità d’uso. La notizia che a Lugano e a Locarno saranno aperti degli specifici Info point per la clientela risponde a un bisogno che chi scrive ha spesso riscontrato nella semplice cerchia dei propri parenti, in particolare quelli più avanti negli anni, e non solo in loro.
Ma se gli anziani che hanno fra le mani (ormai inevitabilmente) uno smartphone sono spesso protagonisti di una relazione diremmo quasi masochista con l’oggetto, non si può dire nemmeno che i giovani siano degli esperti informatici. L’impressione
che il nostro umano desiderio di infinito. Come dire, questo abbraccio potrebbe evocarne altri che riguardano il nostro modo abitare la vita, sempre sospeso tra il qui adesso e il desiderio di trascendenza, in cui si intrecciano conoscenza e contemplazione. Oggi il volto contemplativo, che nutre di bellezza e gratuità l’esperienza della conoscenza, appare soffocato nel continuo potenziamento di un sapere fortemente orientato allo sviluppo tecnologico. Oggi il valore e il senso di ogni conoscenza sono declinati e riconosciuti perlopiù in un’ottica pragmatica e utilitaristica. Certamente gli effetti positivi della cosiddetta tecnoscienza sono visibili in molti ambiti, a cominciare dalla medicina, ma qualcosa in questa percezione del sapere rimane silenzioso, dimenticato sullo sfondo. Uno specchio di questo oblio lo possiamo cogliere nella scuola, nel suo essere sempre più in ostaggio del mantra delle competenze e sempre meno at-
tenta al suo compito essenziale: quello di far fiorire il vissuto di ogni bambino dentro un’esperienza di bellezza della conoscenza che gli permetta di prendere il volo, di sporgersi al di là di un sapere che ha valore solo perché serve, schiacciato sulla sua utilità immediatamente spendibile. Che la ricerca del sapere mantiene sempre un suo volto in qualche modo contemplativo, di pura bellezza e gratuità, mi è stato invece felicemente confermato da alcune recenti dichiarazioni di Fabiola Gianotti. A proposito del nuovo progetto, la direttrice del CERN ha parlato di uno strumento con il quale rivolgersi alle domande aperte, cioè a quelle domande prive di una chiara guida teorica.
Le sue parole mi hanno fatto pensare a una possibile somiglianza tra questo suo sguardo aperto sull’universo e l’esperienza del «lasciarci toccare» dalla realtà nel suo manifestarsi spontaneo, quando ci apriamo con sguardo
contemplativo su ciò che ci circonda. Forse è anche questo un volto del nostro rapporto con l’infinito, un modo di abitare il mondo con gratitudine e commozione ad alimentare il desiderio di comprenderlo. Ho immaginato così Fabiola Gianotti, con gli occhi aperti sull’universo, mettersi in ascolto di una poesia che contempli l’infinito. L’ho immaginata accanto a Leopardi, a sporgersi con lui oltre la siepe dell’ultimo orizzonte, a condividere con il poeta spazi sterminati, e chissà, anche la commozione di fronte all’immensità e il suo «dolce naufragar in questo mare». L’ho pure immaginata accanto a Galileo, in quella bellissima scena del film di Liliana Cavani che lo mostra con il suo cannocchiale finalmente puntato su una splendida immensa luna. Commosso di una commozione grata, che risuona nel silenzio e nel buio della notte, dice al suo fedele assistente: lo sai che siamo i primi uomini a
veder sorgere il sole sulla luna? Prima la ri-costruzione paziente del cannocchiale poi, alla fine, la contemplazione della bellezza del cielo. Come fu per il cannocchiale di Galileo, anche il desiderio di approfondire la conoscenza dei fondamenti della natura necessiterà di nuovi strumenti tecnologici. Anche qui la tecnologia sembra trovare il suo posto principale, almeno per ora, al di qua della ricerca pura. È importante, credo, richiamare questo rapporto originario tra le finalità conoscitive della ricerca scientifica e la tecnologia che è uno strumento, seppure oggi indispensabile ai suoi scopi. Ciò significa non più valorizzare i mezzi tecnologici come fossero essi stessi dei fini, il che accade spesso nel potenziamento autoreferenziale della tecnologia, ma riconoscere il valore nelle finalità intrinseche alla vita, in tutte le sue espressioni, anche nei mille volti del desiderio di infinito.
che si ha osservandoli è che per loro il telefono sia semplicemente un giocattolo un po’ più sviluppato, usato in prevalenza proprio per videogiochi e affini, oppure limitato alla consultazione dei-tre quattro social di riferimento.
Quello che incuriosisce è notare il gap generazionale. Gli utenti anziani spesso vivono un senso di colpa costante, per non essere in grado di padroneggiare le funzionalità dell’apparecchio. Le immaginano tanto estese quanto inafferrabili. Nei giovani invece spesso è più lampante il totale disinteresse per gli aspetti più complessi e strutturali dell’oggetto: le conoscenze su come funziona. Quando le due modalità d’uso si incontrano (ad esempio nel caso in cui un anziano chieda aiuto a un proprio giovane parente sulla soluzione di qualche piccolo problema di gestione quotidiana) i due tipi di approccio vanno
Il narrowcasting, letteralmente «comunicazione per pochi», non è una Parola dei figli, ma piuttosto un modo di comunicare degli Gen Z attraverso i social: «La scelta è di raccontare la propria vita autentica solo a utenti selezionati, lasciando invariata la propria rappresentazione pubblica di fronte a tutti gli altri che seguono l’account ufficiale». La prima volta che sento parlare del narrowcasting è in un’intervista su Today.it a Maria Cristina Antonucci, sociologa politica, dal 2010 ricercatrice in Scienze sociali al Consiglio nazionale delle ricerche, nonché insegnante di Comunicazione e Politica a La Sapienza di Roma. Immediatamente mi sorge un interrogativo: «La mia convinzione di essere accettata sui social dagli Gen Z di noi #7infamiglia (la nostra chat di famiglia con 4 adolescenti, un 10enne senza cellulare, io e mio ma-
rito Riccardo) è, dunque, solo un’illusione?». Inutile dirvi che la risposta è affermativa. Come credo la maggior parte dei genitori ero convinta di sapere cosa combinano su Instagram i figli in quanto loro follower: alla mia richiesta di seguirli avevano tutti risposto subito e affermativamente! Così – è sempre stato il mio ragionamento – magari ho qualche dettaglio in più anche su cosa fanno. Errore. Dopo qualche indagine tra i #7infamiglia e i loro amici, nonché attraverso le canzoni che ascoltano, scopro che il doppio profilo Instagram tra gli adolescenti è d’uso comune: uno è quello cosiddetto ufficiale che di solito riporta il nome e il cognome esatti (e poco importa se l’account sia pubblico o privato, ossia che per vederlo bisogna essere accettati); l’altro invece è il profilo nascosto, su cui gli Gen Z usano un
in conflitto. Il giovane tende a risolvere il problema a tutta velocità, con rapidi smanettamenti incomprensibili, senza saper spiegare al suo interlocutore la logica di quello che sta facendo. L’adulto vorrebbe «capire» ma non trova un dialogo né un interesse alla didattica, semplicemente perché il giovane in realtà non sa cosa sta facendo.
Il contrasto negli approcci si trova apparentemente proprio lì: l’anziano cerca spiegazioni logiche al funzionamento dell’utensile. Il giovane dà per scontato che l’oggetto in qualche modo debba funzionare e non si preoccupa di comprendere il contesto generale delle procedure. Detto questo, e per tornare all’iniziativa messa in campo dalla Posta, occorre dire che la digitalizzazione della vita quotidiana, avvenuta in modo molto veloce, rispondendo a una logica di risparmio economico e di inevitabile telematiz-
zazione del lavoro, ha quanto meno creato un bisogno di alfabetizzazione ai sistemi informatici. Un ruolo molto interessante in questo campo lo sta svolgendo da tempo l’Associazione ticinese per la terza età, che da qualche settimana ha aperto un suo «Sportello digitale» nelle sedi di Biasca, Bellinzona, Locarno, Lugano e Chiasso. Dopo aver organizzato negli scorsi anni dei corsi di informatica che miravano a introdurre all’uso del computer e dei programmi più conosciuti, oggi ha riorientato la sua offerta. Visto e considerato che ormai la gran parte delle persone anziane usa regolarmente tablet e PC per le proprie necessità quotidiane, l’associazione ha pensato che potesse essere interessante proprio fornire più concretamente informazioni sull’uso delle attrezzature partendo dalla necessità delle singole persone.
di Simona RavizzaGli sportelli offrono la consulenza di un gruppo di volontari che sono a disposizione del pubblico un pomeriggio alla settimana in varie sedi dell’ATTE (si veda per informazioni più precise il sito https://www. atte.ch/sportello-digitale/). In questo caso gli interlocutori sono ex professionisti del settore, appassionati di informatica e persone che hanno acquisito competenze in virtù della loro passione. Nello spazio dello sportello digitale rispondono alle domande più svariate, ma, soprattutto cercano di fornire quelle informazioni di base che possono servire a capire meglio come funziona uno smartphone. L’esperienza si è dimostrata molto positiva. Molte persone, dopo essersi annunciate per curiosità, tornano con sempre nuove domande e con una voglia di capire che merita una risposta, ma che, principalmente, indica un concreto bisogno.
soprannome, ed è riservato agli amici più stretti.
I due rapper americani 21 Savage e Drake nel brano Spin Bout U cantano: «Fuck your main page, what’s your Finsta? I wanna know the real you», che tradotto vuol dire: «Al diavolo la tua pagina principale, qual è il tuo Finsta? Voglio conoscere la vera te». Finsta sta per Finstagram, uno dei nomi con cui viene chiamato l’altro account, quello per intenderci non ufficiale su cui avviene il narrowcasting Quello su cui non c’è il personaggio brandizzato, ma sé stessi. Lo spiega bene lo psicoterapeuta Alberto Rossetti nel libro Viva la libertà (ed. San Paolo, settembre 2023) di cui abbiamo parlato di recente ne Il caffè delle mamme: «Molti ragazzi, me ne hanno parlato davvero in tanti, hanno deciso di aprire un profilo su Instagram in cui far accedere solo un numero ristretto
di amici e da tenere nascosto a tutti gli altri. Pochi follower, ma molto selezionati. Una sorta di gruppo ristretto con cui trovarsi senza badare troppo al trucco, al come ci si veste e al proprio brand. Interessantissimo il nome di questo tipo di account: Finstagram Il solito neologismo inglese che tiene insieme la parola fake, falso, e Instagram. Interessante perché ribalta completamente il punto di osservazione: saremmo portati a pensare che un profilo in cui ci si presenta per come si è sia tutto il contrario di un profilo fake. Il termine Finstagram, invece, sembra indicare che per essere veri, sui social, bisogna essere un po’ falsi, perché se si rispettano tutte le logiche e le grammatiche social si è forzatamente non del tutto veri. Come dire che ciò che si mostra è falso, mentre ciò che è falso è vero». Sinonimo diffuso di Finstagram è
Spam che tecnicamente sta per «invio di messaggi indesiderati», ma qui si riferisce alla quantità elevata di contenuti pubblicati: se sul profilo principale l’obiettivo è postare poche immagini esteticamente curate, sullo Spam puoi inondare i tuoi amici di contenuti più intimi e meno costruiti. L’obiettivo è condividere senza filtri i momenti della giornata all’interno di un cerchio ristretto. Che vuol dire anche pubblicare foto con una canna tra le dita, shottini buttati giù a ritmo di musica, vomitate nel gabinetto durante una festa. Inutile inorridire: gli Spam spesso contengono immagini imbarazzanti. Quello che i nostri figli non ci dicono, ma può succedere. Non c’è l’immagine-brand da salvaguardare, ma la realtà. Una sorta di diario di bordo dei momenti intimi e delle bravate. Può non piacerci, ma è così. Saperlo è già un inizio.
Due chiacchiere con Caterina Leonardi A Villa, passato e presente si mescolano in un tempo sospeso grazie alle considerazioni della donna più anziana della Valle Bedretto
Pagine 16-17
Un raffinato finger food Croccanti fette di pane con formaggio fresco di capra e miele, bresaola, asparagi bianchi, germogli e rucola
Pagina 19
Giochi che trasformano il tempo
A Time Chase conta cogliere il momento giusto per fare la mossa vincente; The Loop richiede invece cooperazione
Pagina 21
Adrenalina ◆ Michel Buvoli, da appassionato praticante a creatore della scuola di snowboard freestyle White Pillow
Moreno Invernizzi
«Se c’è adrenalina nello snowboard? Lo snowboard freestyle “è” adrenalina. Perché scorre nelle tue vene a fiotti e ininterrottamente, e comincia a farlo già quando prendi in mano la tavola. Poi, quando fai le tue evoluzioni, le emozioni che provi toccano il loro apice». Parole, cariche di trasporto, che Michel Buvoli scandisce con occhi luccicanti e l’entusiasmo di chi sulla tavola quasi ci vive. Per coltivare una passione che prima l’ha visto calcare per diverse stagioni la ribalta della Coppa del mondo, e ora lo vede impegnato dall’altra parte, nelle vesti di allenatore delle giovani speranze ticinesi, sotto il «cappello» di TiSki e in particolare nella branca White Pillow, da lui creata nel 2016.
«Ora siamo una bella squadra, con atleti in procinto di fare il grande salto a livello internazionale»
Come in una discesa sulle piste innevate, iniziamo però il nostro viaggio nel mondo dello snowboard freestyle presentandoci in cima alla discesa.
La via che porta alle piste innevate, per Michel e i suoi fratelli, Gianluca e Davide, è praticamente come il vialetto di casa, essendo figli di genitori entrambi sciatori, in particolare di madre campionessa svizzera di gigante. Per non parlare del nonno, ai tempi direttore degli impianti di risalita di Airolo. «Ma a farmi provare per la prima volta lo snowboard è stato mio zio, grande appassionato della tavola. Avevo 14 anni. È stato amore… alla prima discesa: gli sci, poi, non li ho praticamente mai più calzati!».
Lo imitano anche i fratelli, che però imboccano la strada della specialità Slopestyle, mentre Michel percorre quelle di Half Pipe, in prevalenza, e Big Air. «Tra il 1999 e il 2007, circa, abbiamo calcato la scena della Coppa del mondo, volando da un Continente all’altro. Non avrò raccolto risultati di primissimo piano, ma non ho nemmeno sfigurato. E, poi, cosa ancora più importante, ho collezionato tutta una serie di emozioni sufficiente per riempire diversi album dei ricordi. Di aneddoti da rimarcare vissuti in quei sei anni ne avrei tanti, troppi per poterne preferire uno in particolare. Ma tra quei ricordi, il più vivido è legato alla prima volta che sono volato in Giappone, a Tokyo, in occasione del Nippon Open. Quella gara se non erro la chiusi al sesto posto nell’Half Pipe. ma più del risultato, come detto, ricordo le sensazioni di quella “prima volta”. È stato con tutta probabilità il mio viaggio più bello, solo, a vent’anni…». A quel punto, però, Michel decide di voltare completamente pagina, an-
che se, più che un addio, il suo sarà un arrivederci al mondo del freestyle e a quello delle competizioni a esso legate: ma a questo ci arriveremo passo per passo. «Nel 2007 ho lasciato i pendii innevati per coltivare l’altra mia passione: la cucina. Così quell’anno ho aperto il mio primo grotto: l’America di Ponte Brolla, cedendone la gerenza cinque anni più tardi a mio fratello, a cui si è poi affiancato un secondo ristorante, a Ponte Brolla. Poi, però, ho sentito forte e chiaro il richiamo della tavola, un richiamo a cui non ho potuto (né voluto) resistere. Negli anni di Coppa del mondo, oltre a competere, tra una gara e l’altra impartivo lezioni di snowboard, in particolare a Laax, dove sono poi cresciuto, assieme ai miei fratelli», sottolinea il 46enne bellinzonese. «Il mondo della ristorazione mi piaceva, e mi piace tutt’ora, ma sentivo ancora più forte la necessità di tornare a contatto con la natura e le montagne. A dare la vera svolta è stato l’incontro con Andrea Rinaldi, responsabile del settore freestyle di TiSki, incontrato nel 2015. A quei tempi, mi disse, lo snowboard in Ticino era un movimento in grossa crisi, in calo di popolarità e di risultati, a tal punto che la Federazione ticinese aveva iniziato seriamente a prendere in considerazione l’eventualità di non più portarne avanti la pratica sotto la sua ala. È a quel punto che è nato il progetto White Pillow, la scuola
di snowboard da me creata (nel 2016) e poi integrata sotto il cappello di TiSki, con il chiaro intento di dare un nuovo impulso a questa disciplina». Sette anni e spiccioli dopo, i primi frutti concreti di quanto messo in piedi da Michel (ma per tutti Mitch) Buvoli cominciano a maturare. «A dirla tutta, i risultati sono arrivati praticamente fin dall’inizio, a dimostrazione che l’interesse per la tavola nel nostro cantone era ancora vivo. Già nel primo anno avevamo colto due-tre risultati di rilievo sul circuito nazionale, poi diventati due titoli svizzeri (uno
nell’Half Pipe e uno nello Slopestyle) l’inverno seguente. Diversi di quei ragazzi che avevano costituito il gruppo di White Pillow nel 2016 sono tutt’ora parte del gruppo, altri ancora si sono aggiunti cammin facendo: ora siamo una bella squadra, con atleti in procinto di fare il grande salto a livello internazionale. Penso in particolare a Samuela Mondani, atleta ventenne reduce da un ottimo quinto posto finale nella Coppa Europa 2022/23 e dal secondo sulla ribalta nazionale, che ha le carte in regola per poter ambire alla ribalta olimpica (e non a ca-
so ha già preso parte a una preparazione finalizzata a questo obiettivo): il potenziale per staccare il biglietto per Milano-Cortina 2026 ce l’ha tutto».
L’appuntamento con la presenza regolare di un ticinese in Coppa del mondo, è per contro rimandato. «Questa doveva essere la grande stagione di Giovanni Rizzi, se non fosse incappato in un grave infortunio, la rottura di perone e crociati, a ridosso del debutto stagionale».
Da settembre a giugno White Pillow porta avanti in parallelo due attività collaterali: una di ginnastica
acrobatica, e i cosiddetti Shred Days, sorta di contenitore di varie attività (che vanno dallo skateboard allo stand-up paddle, generalmente al Centro sportivo nazionale di Tenero, passando per tutta una seria di discipline durante la stagione estiva), spalmato sull’arco di tutti i dodici mesi: «Queste attività hanno anche la funzione di talent scout: è qui che si possono individuare i giovani promettenti».
Informazioni: www.tiski.ch/tiski
Storie di vita ◆ Con i suoi novantanove anni, è lei la donna più anziana della Val Bedretto, luogo in cui è nata, cresciuta e dove ha
Manuela Mazzi
Ancora oggi si contenta di poco, un poco che a suo dire sarebbe il segreto della longevità. Tranne che per alcune necessarie trasferte stagionali, non ha mai lasciato Villa Bedretto dove è cresciuta, si è sposata e tuttora risiede. Qui, a 1358 m di altitudine, Caterina Leonardi, nata Forni, il 7 febbraio ha compiuto il suo novantanovesimo anno di età. A un passo dalla cifra tonda, ci ha accolti nell’antico salottino rivestito di legno massiccio della casa costruita nel 1896, in cui vive da tempi remoti, quando ancora era lei a strattonare le corde delle campane. Per raggiungerlo, attraversiamo tre porte chiuse, com’è d’uso nelle case più a nord, dove è buona regola avere un’anticamera che isoli dal freddo l’abitazione. Fuori, cumuli di neve a bordo carreggiata e la strada ghiacciata confermano i gradi sottozero; per essere più precisi siamo a meno uno, mentre sul piano, a tarda sera, quando rientreremo, se ne registreranno più tredici. Il salottino, che vanta un campanaccio del 1890 appeso a una parete, è reso ancora più accogliente, se possibile, dai vivaci colori dei fiori ricevuti in dono durante un caloroso viavai di affezionati, non solo del villaggio; tra questi anche il consigliere agli Stati, Fabio Regazzi. Per raggiungere Villa Bedretto, si sa, occorre oltrepassare Airolo e dirigersi verso il Passo della Novena. Non siamo puntuali, il traffico non perdona sulle lunghe distanze. Nemmeno Caterina lo fa: «Siete in ritardo!» ci rimprovera, in dialetto, dopo aver guardato l’orologio di rame appeso alla parete, un regalo di anniversario del matrimonio. Non parliamo correntemente il dialetto da un bel po’, e ci parrebbe sconveniente non
sforzarci, anche se ci sentiamo sin da subito in difetto, quasi balbuzienti. E anche un po’ in colpa per la perdita di dimestichezza con la nostra lingua. Forestieri di casa.
La Caterina, durante l’incontro, ci interrogherà anche su alcuni termini della variante locale: indoviniamo – memori di altri tempi – ü destrü (il gabinetto); la liscta (la finestra); e la piraca (la tasca). Non sappiamo cosa sia la giova: «È il coltellino svizzero!», ci spiega.
Ci risolviamo così in una chiacchierata, tra ricordi e curiosità.
Nata in una famiglia numerosa, «eravamo in dieci, ma sei vivi e quattro morti (ndr. deceduti da piccini)», Caterina ha frequentato la scuola in paese, che era composta da otto annualità. Sulla parete a est, è appesa una fotografia in bianco e nero che la ritrae nel mezzo di un folto gruppo di scolari. Tra questi, anche una sorella e un fratello. Lei, la Caterina, in un vestito a grembiule, coi capelli lunghi e raccolti. Un po’ più corti quelli della sorella; rasati e chiari, quelli del giovanotto, che indossa un gilet di lana, e posa in piedi ai margini della classe. La scuola chiuderà poco dopo, negli anni Cinquanta, a memoria della centenaria di Villa, che ricorda ancora quando giocava con i compagni a «guardie e ladri» (lo chiamavano il gioco «dal tolin»), e la slitta, quale regalo di Natale più bello tra quelli ricevuti.
A Zurigo per servire
«Dopo le scuole dell’obbligo sono andata alcune stagioni a Zurigo». Oltre
San Gottardo, però, non ci va per imparare il tedesco, come facevano altri, «ancora il tedesco lo parlo poco. Ci andavo per servire; per guadagnare dei soldi. Avevo 18 o 20 anni. Era un ottico, il marito della famiglia tedesca che servivo; vendevano occhiali in Paradeplatz, quasi in centro (ndr. è orgogliosa mentre lo dice), e dietro, in un’altra strada, c’era la casa. Facevo da mangiare e le pulizie. Ma si andava solo d’inverno, perché d’estate avevano bisogno i nostri, mio padre, qui in paese.
«Dopo Zurigo sono andata per famiglie qui in Ticino, a Lugano,
sempre per servire e fare la putzfrau Veniva a prendermi il padrone con l’auto, e mi portava giù». Anche qui si ferma per la stagione fredda, alloggiando nella casa della famiglia che l’assume: «Facevamo tutto a mano, mica come oggi che ci sono le macchine», allude a lavatrice e lavastoviglie, ma probabilmente anche ad altri piccoli elettrodomestici, come l’aspirapolvere, per lasciar capire che le fatiche erano certamente altre; «erano case grandi, con un sacco di scale e le finestre alte da pulire, sa come sono quei casoni…» il pensiero ci porta dritti in una qualsiasi delle tante
residenze signorili della Città, dove non è difficile immaginarci una giovane Caterina, mentre si dà da fare con secchielli e stracci, spolverini e saggine. Scope con cui spazzare cinque centimetri per volta le briciole da un enorme tappeto persiano che, rapportato alle dimensioni del salotto in cui ci troviamo, avrebbe potuto ricoprirne almeno due. Va al servizio di famiglie a Lugano per cinque o sei anni, prendendo – se la memoria non la tradisce – circa «120 franchi al mese: ma di quei tempi!», come a dire che in fondo, non era poi neanche una cattiva paga, e infatti ci tie-
ne a dirlo: «Però stavo bene, ho trovato brava gente». Quei 120 franchi li mette via, e non certo per comperarsi frivolezze, «semmai – dice – per prendermi un rastrello nuovo per fare fieno», sorride.
Al di là di Zurigo e Lugano, ha viaggiato poco e niente, non come tanti altri del paese, tra cui diversi suoi parenti: «Mio papà, partiva tutti gli inverni con i suoi fratelli per la Francia, a Épinal, verso Nancy. Ci trascorrevano i mesi freddi. Là facevano i maronatt, mentre mia mamma andava a governare le vacche, su in alto, dove c’era tanta neve, ché fioccava molto più di oggi, una volta. E poi avevo uno zio in America, ma ormai è morto; non avevano mica sempre da mangiare. Sono rimaste due cugine, là. Ogni tanto lui veniva a trovarci; io non ho mai avuto tempo di andare in America con tutto quello che c’era da fare qui. Anche tre zii di mio marito si trovavano in California». Il mare, Caterina, lo ha visto solo da lontano «e in televisione; non si può andare via dal paese per troppo tempo, se hai delle bestie». La città più grande che ha visitato è Milano: «Quando ero a Lugano, mi è capitato di andare a una fiera che era famosa, con una cugina e un’amica, in treno; siamo salite sul Duomo, a guardare giù. Ho una bella foto di quel momento. Per il resto: siamo andate e tornate. E poi sono stata in pellegrinaggio a Lourdes. Ci siamo andati in bus».
Il periodo della guerra passa quasi inosservato a Villa Bedretto: «Qui non ci siamo accorti quasi di niente; il mangiare non ci è mai mancato, avevamo noi le bestie, forse un po’ il riso e quelle cose lì, ma in quegli anni, mettevamo giù quattro o cinque campi di patate. Oscuravamo giusto le finestre, di notte, con i tendoni». Non ha mai sentito la paura della guerra: «A regola passavano i militari, ma non si sentivano tanto. Tutto sommato a noi è andata bene. Leggevamo qualche notizia nel giornale, sì, ma non avevamo ancora la radio, per fortuna, così siamo stati quieti: oggi con la televisione soprattutto, ma anche con quei telefonini lì, si sentono troppe brutte notizie. Come la guerra dell’Ucraina e la Russia, e i palestinesi con Israele; può essere che sarà ancora lunga… E poi c’è stato il Covid, che però da noi, si è stati bene: qui, non è arrivato». Non sorprende l’associazione della guerra al virus che ha messo in ginocchio il pianeta, come due sciagure lontane dalla realtà di Villa Bedretto. La gente del paese ha infatti continuato ad andare a lavorare, e a fare le passeggiate nei boschi; il privilegio di chi è abituato all’isolamento geografico più che al distanziamento sociale. Ma torniamo alla storia di Caterina, mentre la stufa a legna scoppietta riscaldandoci la schiena.
Matrimonio in paese
Finite le fatiche da impiegata stagionale, iniziano quelle della vita contadina. Il marito Delio è del paese, lo conosce da sempre. Non c’è spazio per il romanticismo, conta metter su famiglia. Lei ha già 41 anni, lui sei di meno quando si sposano. «Sono
un po’ metè » dice ricordando di essere nata Forni e sposata Leonardi; si sente, cioè, un po’ di questa famiglia, un po’ dell’altra. Avranno una figlia nel 1967, e in verità sarà una delle uniche discendenti della stirpe matrilineare, nonostante la numerosa prole avuta dai suoi progenitori. Non sono peraltro l’unica famiglia numerosa del paese: «Ne hanno fatti diciassette, quelli dell’Osteria Bäkar; e quattordici, gli Spizzi. Ne sono ben morti, alcuni, ma sono sempre stati numerosi». In paese gli Orelli avevano anche una panetteria, un ristorante e un negozio. «Qui c’era un sacco di gente, era pieno Ronco, pieno Bedretto, pieno qui, pieno Ossasco; oggi di quella gente sono rimasta io (ndr. la più anziana della valle), due altre qui, e mia sorella; un’altra a Ossasco e una a Bedretto; gli altri se ne sono andati quasi tutti da giovani, o son morti». I domiciliati sono un centinaio, anche se ora arriva qualche villeggiante «forestiero, del Cantone». Vivere in paese è difficile, non ci sono possibilità di lavoro o minimi servizi. Ormai. Anche se, secondo lei, la recente ristrutturazione dell’Osteria – l’unica rimasta delle tre che c’erano, e che ha riaperto i battenti a dicembre – pare essere venuta molto bene: «L’è propri bèla»… Trasformato in abitazione, è invece l’edificio che conteneva il vecchio teatro di Villa, ex stalla dei cavalli. Dell’albergo di lusso (la Pensione Naret), solo le mura di un tempo.
«Da sposata, ho preso a lavorare nei campi, a fare il fieno; avevamo tre vacche, qualche manzetta, qualche maiale e le galline. Mi svegliavo alle cinque del mattino per andare in stalla. Per questo sono giovane. Oggi fanno ginnastica e terapie, e quelle cose lì, io facevo ginnastica tirando il rastrello, facendo müdei (le onde), e facendo su i mucchi di fieno. Era dura la campagna, ma mi piaceva. Finito di fare fieno, andavo poi a raccogliere mirtilli da vendere, durante l’intero mese di agosto, fino a tardi». Le giornate di Caterina finiscono sempre verso le sette e trenta, a volte le otto di sera. Ogni tanto raccoglie anche il ginepro selvatico, «un zichinin perché quando facevamo la mazza ne mettevamo un po’ come condimento: facevamo dei buoni salami e salametti».
Non manca il cibo («la domenica era però un lusso mangiare il risotto, era una novità»), ma di certo mancano le comodità: l’elettricità arriverà molti anni dopo, non c’è acqua corrente e men che meno calda, per la luce si usano le lampade a petrolio, i servizi sono esterni, per lavare si va al lavatoio, e per candeggina utilizzano la cenere, per riscaldare si impiegano le pigne di sasso, costruite con la pietra delle cave locali, per non parlare dei danni della neve, come la grande nevicata del ’51 che si porta via molte anime in altri paesi, ma non a Villa: «Qui neanche un gatto è morto», anche se in primavera fu evacuato per sicurezza: genti e bestie dovettero trovare rifugio da conoscenti e parenti di altre località. È una gallina, quella che invece salva Caterina anni dopo, la salva da una sorta di artrite, portandosela in casa e accudendola giorno dopo giorno: «Mi riconosceva; la chiamavo Pulapula».
A interrompere il lavoro di Caterina, è l’impegno di sacrestana: «Portavo l’acqua in sacrestia, e servivo il prete. E poi suonavo le tre campane: tutte le domeniche e a mezzogiorno tutti i giorni, che mi trovassi in mezzo ai campi, o altrove, qualsiasi cosa stessi facendo dovevo smettere e scendere per suonarle. Ecco perché mi hanno regalato questo quadro con il campanile». Il dono è del Consiglio parrocchiale, il quadretto di legno con dipinto il campanile «è di un artista tedesco che lavora il legno, qui del paese, il Franz». La chiesa dei Santi Martiri Maccabei si trova all’entrata di Villa e risalirebbe a prima del Duecento (se ne trova già notizia nel Liber sanctorum mediolani di Goffredo da Bussero, del 1200), se non fosse stata distrutta da una valanga nel 1594, e poi ancora nel 1634, e di nuovo nel 1695. L’attuale ricostruzione risale al 1897, mentre il campanile data 1697. In paese sono rimaste vive ancora alcune tradizioni, come il giro di augurio di Capodanno: «Si va per le case a dire bòn dì e bòn èn», mentre tante altre ormai sono scomparse.
Resta la fede di Caterina, che dice «tutto passa fuorché l’eternità: che cosa ci sia di là non so; uno del paese mi ha detto che mi avrebbe mandato una cartolina, ma deve ancora arrivare adesso».
Oggi la centenaria di Villa si sveglia la mattina, fa colazione, avvia un pranzo per sé e per la figlia che lavora ad Airolo, e nel pomeriggio, o riposa un po’ gli occhi, seduta su una poltrona imbottita di fronte alla finestra che guarda a est, lato strada e lato chiesa, oppure incrocia le braccia sul tavolo di legno e ci appoggia la fronte per fare una pennichella. La sera è subito qua, e non si perde mai Zerovero sulla RSI e L’eredità: «Il Sanremo ha stancato con quei versi che fanno adesso. E anche il telegiornale: parla solo di guerre e di brutte notizie; ormai salta fuori di tutto, adesso, anche sulla Chiesa, che non è mica bello per i giovani di oggi…», eppure, ricordiamo alla signora Caterina che certe cose accadevano anche un tempo, sebbene non si sapessero: «E infatti le nascondevano; anzi ci rimproverano quando se ne
parlava. Qui era severo anche il prete: era un italiano, e dicevano fosse un fascista. Adesso è un filippino».
In chiesa, la Caterina non può più andarci a causa dell’equilibrio instabile cagionato dalla rottura di una caviglia, pochi anni fa. Un movimento maldestro, che le è costato un ricovero di ben quaranta giorni ad Acquarossa, ma che messo a confronto con la sua ottima salute è un nonnulla: «Prendo solo quattro pastigliette – piccole, eh! – per la pressione, e per il resto sto bene». La messa oggi la guarda in televisione, mentre «non mi interessano i film; semmai faccio un po’ di giochi enigmistici, ma solo quelli che so: non mi interessa poi andare a vedere se ho fatto giusto o sbagliato. Mi serve solo per far passare il tempo». Non ha mai amato leggere, giornale a parte. «Prima avevamo il “Giornale del Popolo”, da un pezzo, ora abbiamo “La Regione”, altri no».
Caterina ci confida che rifarebbe tutto esattamente nello stesso modo: «Non sono stata male, tornerei indietro e rivivrei la mia stessa vita, sì».
Ci stiamo per salutare, è ora di cena: «Stasera mangerò caffelatte complé…», intuisce che non capiamo, «… con pane, burro e marmellata».
Signora Caterina, le ultime tre domande. Che ne pensa della moda di mangiare insetti? «I cagnotti no, ma le cavallette sono carine, e a non sapere quello che sto mangiando, le assaggerei; ma non credo valgano tanto quanto un salametto». Che cosa pensa del lupo che è arrivato nelle nostre valli? «Mah, magari c’era già ai tempi, visto che qui abbiamo una valle che chiamiamo la valle dei lupi». E se arrivasse un africano? Come gli descriverebbe, in due parole, Villa Bedretto? «Certo che se glielo spiego in dialetto sarà un po’ difficile che lui comprenda».
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Ingredienti per 4 persone
200 g d’asparagi bianchi
½ cc di sale
4 c d’olio d’oliva
2 c di Condimento bianco
4 fette di pane, ad esempio pane bianco
100 g di formaggio fresco di capra
1 c di miele
8 fette di bresaola
10 g di germogli
20 g di rucola pepe rosa
1. Pelate gli asparagi a partire dalla cima, e tagliate le estremità inferiori.
2. Tagliate gli asparagi a strisce sottili con il pelapatate.
3. Salate e lasciate riposare per 10 minuti.
4. Unite la metà dell’olio e il condimento bianco, quindi mescolate.
5. Scaldate il resto dell’olio in una padella ampia e dorate le fette di pane.
6. Mescolate il formaggio fresco con il miele e spalmate il composto sulle fette di pane.
7. Distribuite gli asparagi e la bresaola.
8. Servitele con i germogli e la rucola.
9. Infine, condite le tartine con il pepe rosa.
Preparazione: circa 30 minuti.
Per persona: circa 13 g di proteine, 12 g di grassi, 24 g di carboidrati, 270 kcal.
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Viaggiare nel tempo giocando a carte
Colpo critico ◆ Time Chase è una falsa briscola dove sfumano i confini fra presente, futuro e passato, mentre The Loop porta i giocatori attraverso sette grandi epoche
Nella prima adolescenza smisi di raccogliere da terra tubi e altro materiale di costruzione: avevo capito che non avrei mai assemblato un acceleratore di particelle tempo-dimensionali. In compenso, qualche anno dopo mi capitò di leggere la Nuova confutazione del tempo di Jorge Luis Borges (in Altre inquisizioni, 1960, Einaudi 1997). Mi affascinava anche solo il titolo, con quel «nuova» che confuta la confutazione. Ma soprattutto, mi piaceva il punto in cui Borges racconta di una passeggiata serale alla periferia di Buenos Aires: «Sulla terra melmosa e caotica, un muro rosato pareva non albergare luce di luna, ma effondere un’intima luce. Non poteva esser-
vi maniera di dar nome alla tenerezza migliore di quel rosa». Era un istante di «eternità», in cui a Borges parve di essere fuori dal tempo: quel muro, quella luce, quella calma notturna erano sempre uguali, in quell’attimo oppure decenni prima. Ma subito, ecco la consapevolezza: «Il tempo è la sostanza di cui son fatto. Il tempo è un fiume che mi trascina, ma io sono il fiume; è una tigre che mi sbrana, ma io sono la tigre; è un fuoco che mi divora, ma io sono il fuoco. Il mondo, disgraziatamente, è reale; io, disgraziatamente, sono Borges».
Anch’io sono disgraziatamente rimasto me stesso, e non mi sono mai liberato del vizio di viaggiare nel tempo. Qualche giorno fa sono tornato indietro a cambiare uno dei fatti più immutabili della storia: il punteggio di una partita a carte. Il gioco Time Chase di Jonathan Woodard (Renegade 2019) sembra una classica briscola, da tre a cinque giocatori: chi gioca la carta più alta, o una carta del seme più forte, vince una presa e ammucchia le carte davanti a sé. Quello che è fatto è fatto. O forse no?
In Time Chase i giocatori possono ricombinare in ordine sparso materia nera, flussi temporali, tachioni, paradossi e neutrini. Insomma, anche se tu hai vinto una mano io posso tornare nel passato, sostituire una carta
Giochi e passatempi
(Frase: 2, 7, 9 – 1, 7)
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22. Le iniziali del politico Andreotti
24. Piccole insenature
VERTICALI
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6. Ha una pelle famosa
7. Le iniziali dell’attore Orlando
e cambiare il punteggio. Come si fa allora a vincere la partita? Bisogna cogliere il momento giusto per usare la macchina del tempo, perché i viaggi costano. E chi rimane senza cristalli combustibili è condannato a stare nel presente. Proprio come Borges.
Time Chase è un gioco vivace, semplice da imparare ma difficile da controllare. Il regolamento propone anche una modalità che suscita paradossi, dove sfumano i confini fra presente, futuro e passato. Chi ha giocato prima? Chi giocherà dopo? Quali sono i fatti? Borges risponde: «L’univer-
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so, la somma di tutti i fatti, è un’accolita non meno ideale di quella di tutti i cavalli che Shakespeare sognò – uno, molti, nessuno? – tra il 1592 e il 1594». Un altro gioco che trasforma il tempo in un frullato è The Loop, di Maxime Rambourg e Théo Rivière (Catch-up Games 2020; è in francese ma su internet trovate le regole in italiano). Qui c’è un cattivo, il dottor Foo, il quale come tutti i cattivi che si rispettino tenta di scardinare l’universo. The Loop è cooperativo: i giocatori (da uno a quattro) non competo-
no fra di loro, ma si alleano contro il sistema di gioco per fermare il malvagio Foo. La plancia e le carte sono molto colorate e abbondano di riferimenti alla cultura pop. Il gioco sembra ispirarsi a Poul Anderson e al suo romanzo Time Patrol (1955), dove appare un corpo di polizia che protegge il continuum spazio-temporale (P. Anderson, Pattuglia del tempo, Mondadori 2005).
The Loop presenta sette grandi epoche, dall’antichità alla fine del mondo, tutte infestate dai cloni del dottor Foo. Ai giocatori il compito di usare l’energia per amministrare il caos, riparando le faglie temporali. Ci sono delle missioni da compiere, grazie all’aiuto di vari oggetti: Connettori Neuro-temporali, Cerotti Quantici, Occhiali a 5D, ma anche il Sacro Graal o lo Specchio di Amaterasu (la dea del sole nello shintoismo giapponese), fino ad arrivare a cose mirabolanti come una Ciambella alla Fragola, un Orologio Digitale o l’Ultima Compilation di Canzoni sulla Terra (e qui c’è un tocco di nostalgia quasi borgesiana: la carta mostra un CD registrato artigianalmente). Il gioco è di complessità medio-alta. Del resto, si tratta nientemeno che di riassestare l’universo, per poi tornare alla sicurezza precaria del presente. Sempre qui. Sempre ora.
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nelle caselle colorate.
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13. Forma di buddismo giapponese
15. Accorto, sollecito
16. Fino in fondo…
17. Si scava la tana
21. Sinonimo di Internet
23. Canale organico
25. Particella negativa
26. Avverbio di tempo
28. Le iniziali del cantautore Ligabue
libero
della settimana precedente DAL DOTTORE – «Dottore ho ottantacinque anni e corro ancora dietro alle donne!» – «Bene, dov’è il problema?» Risposta risultante: «NON MI RICORDO PER QUALE MOTIVO»
Sudoku 41 82 5 469 7 2 5 7 8 8 71 2 9 4 3 9 81 7 3265 817 94 4796 321 85 8157 496 23 1 8 3 2 9 5 4 6 7 6548 179 32 2974 635 18 5 3 1 9 7 8 2 4 6 9623 548 71 7481 263 59
5.80 Uova per picnic, da allevamento all'aperto, Migros Bio 6 x 50 g+
4.50 Uova di Pasqua svizzere con adesivi, da allevamento all'aperto, IP-SUISSE 6 x 50 g+
4.10 Uova per picnic, da allevamento all'aperto, Migros Bio 4 x 50 g+
3.50 Uova svizzere arcobaleno, da allevamento all'aperto, IP-SUISSE 6 x 50 g+
3.80
Uova di Pasqua svizzere con macchie, da allevamento all'aperto, IP-SUISSE 6 x 50 g+
La donna e il denaro
La discriminazione di genere nel mondo economico e finanziario si è attenuata ma tanto rimane da fare
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Ucraina: deve vincere la pace Per uscire dall'impasse bisogna ripartire da un cessate-il-fuoco illimitato lungo la linea del fronte
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Quel rifiuto che salva l’anima Aumentano gli obiettori di coscienza israeliani che non intendono arruolarsi
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Pregiudicati al Governo
Dopo le elezioni il Pakistan resta una bomba a orologeria sullo scacchiere mondiale
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Berna ◆ La storia tormentata dell’elezione delle prime donne in Consiglio federale. Dal 1971 le ministre sono state solo dieci Roberto Porta
La presenza delle donne in Consiglio federale è di certo una cartina di tornasole significativa per parlare di rivendicazioni femminili in Svizzera, alla vigilia della Festa della donna il prossimo 8 di marzo. Il pallottoliere ci dice che finora le donne in Consiglio federale sono state soltanto dieci, a partire ovviamente dal 1971, anno in cui venne finalmente introdotto il diritto di voto e di eleggibilità anche per la metà femminile nel nostro Paese. Nell’autunno di quell’anno si svolsero anche delle elezioni federali, e tra le prime donne elette in Consiglio nazionale vi fu la zurighese Liliane Uchtenhagen.
Dodici anni più tardi questa consigliera nazionale socialista stava per passare alla storia, visto che tutto lasciava pensare che sarebbe toccato proprio a lei diventare la prima donna in Consiglio federale. La maggioranza maschile e borghese del Parlamento decise in favore di un altro socialista ma uomo, Otto Stich. Si trattava di sostituire uno dei consiglieri federali più popolari di quegli anni, il solettese Willi Ritschard, il ministro operaio che morì in carica nell’ottobre di quell’anno.
«Votate Stich»
La mattina dell’elezione, era il 7 dicembre del 1983, andò in porto il piano orchestrato dai partiti borghesi nella notte precedente, che divenne la prima «notte dei lunghi coltelli». Inizialmente la maggioranza di centro-destra aveva segretamente puntato sull’allora cancelliere della Confederazione, Walter Buser, anche lui socialista. Buser però gettò la spugna proprio alla vigilia dell’elezione e così la frenetica ricerca di un’alternativa portò a bussare alla porta di Otto Stich, che aveva appena lasciato Berna dopo ben vent’anni in Parlamento. La cronaca di quel giorno ci ricorda che l’allora consigliere nazionale del PLR Felix Auer si era gettato più di altri nella mischia per impedire l’elezione di Uchtenhagen e per spianare la strada a Otto Stich, suo amico fin dai tempi dell’università. Malgrado la segretezza del voto, il sostegno di Auer fu del tutto palese, visto quel suo «Votate Stich» pronunciato prima dell’elezione, passando tra i banchi del Parlamento. E così Liliane Uchtenhagen dovette ingoiare il rospo più amaro della sua carriera politica, pagando soprattutto il fatto di essere considerata troppo di sinistra. La sua bocciatura portò a manifestazioni di protesta in diverse città del nostro Paese e rischiò di aprire una crisi istituzionale, visto che tra i socialisti si alzò, forte ma vana, la voce di chi chiedeva
al proprio partito di lasciare il Consiglio federale. Passò poco meno di un anno e arrivò il giorno dell’elezione della prima donna, era il 2 ottobre 1984. Partito fondatore del nostro Paese, il PLR riuscì a compiere questo passo storico e in Governo entrò la consigliera nazionale Elisabeth Kopp. Quattro anni più tardi la ministra zurighese inciampò però in una telefonata fatta al marito, l’avvocato d’affari Hans W. Kopp, per consigliargli di lasciare la vicepresidenza di una società su cui pesava il sospetto di riciclaggio di denaro.
Lo scandalo Kopp
Messa sotto pressione dalla stampa, lasciata sola dai suoi colleghi di Governo e dai vertici del suo partito, Elisabeth Kopp rassegnò le dimissioni nel gennaio del 1989. Due anni più tardi su questo caso si pronunciò anche il Tribunale federale che scagionò Kopp dall’accusa di aver violato il segreto d’ufficio. Lo scandalo Kopp si sgonfiò, gettando ombre e sospetti soprattutto sull’operato del marito dell’ormai ex ministra. Qualche anno dopo ad Hans Kopp verrà anche ritirata la patente di avvocato.
Le due Ruth
Sta di fatto che per i successivi quattro anni la composizione del Governo tornò ad essere totalmente maschile. E questo fino al mese di marzo del 1993, quando il Parlamento dovette affrontare la sostituzione del socialista René Felber. Il suo partito presentò una sola candidatura, quella della deputata ginevrina Christiane Brunner. In aula però vi fu un clamoroso contrordine, a essere eletto fu sì un membro del partito socialista, ma uomo. Si trattava del deputato neo-castellano Francis Matthey che viste le circostanze decise a malincuore di rinunciare alla carica. Si dovette procedere a una seconda elezione, un posticipo che non si era mai visto nella storia del nostro Paese. Una settimana dopo, mentre su Piazza federale e in tutto il Paese saliva la protesta femminile, il Parlamento elesse la sindacalista ginevrina Ruth Dreifuss, proposta in un «ticket» a fianco della stessa Brunner, su cui pesò anche il fatto di esser stata una delle figure di spicco del grande sciopero delle donne del 1991. Seconda rappresentante femminile in Governo, Dreifuss ebbe anche l’onore di diventare
la prima donna presidente della Confederazione, era il 1999. Non un anno qualsiasi, visto che nel 1999 per le donne vi fu il raddoppio in Governo. In Consiglio federale entrò l’appenzellese Ruth Metzler, in rappresentanza del partito che oggi porta il nome di Centro. La seconda Ruth in Governo sarà però costretta a lasciare la carica soltanto quattro anni più tardi. La forza crescente dell’UDC portò questo partito a rivendicare un secondo seggio in Governo, a scapito proprio dei democratici-cristiani, scesi a quarta forza politica del Paese. Nel dicembre del 2003, in occasione dell’elezione dell’intero Consiglio federale, Christoph Blocher si presentò proprio contro il seggio di Metzler, che fu così costretta ad abbandonare l’esecutivo. L’ex ministra scrisse poi un libro, in cui non mancò di criticare alcuni membri del suo partito, rei di non averla sostenuta e di averle preferito l’altro ministro del Centro, Joseph Deiss, che in quell’elezione venne riconfermato in Consiglio federale. Arriviamo così a un’altra «notte dei lunghi coltelli», quella che porta al 12 dicembre 2007, quando si cristallizza il piano per la destituzione di Christoph Blocher e per l’elezione
in Governo della grigionese Evelyne Widmer Schlumpf. Ed è un po’ una rivincita. La prima «notte dei lunghi coltelli» aveva portato un uomo in Consiglio federale, quest’ultima invece apre le porte dell’Esecutivo ad una donna.
Una bella rivincita
Widmer Schlumpf fu la quinta donna ad accedere al Consiglio federale. Il Governo è stato a maggioranza femminile – quattro donne e tre uomini – soltanto in un’occasione, tra il 2010 e il 2012 per quattordici mesi consecutivi. A livello partitico va detto che dal 1993 i socialisti hanno ininterrottamente almeno una loro rappresentante femminile in Governo. Il Centro dal 2006, mentre il PLR, dopo il caso Kopp, ha portato una sua seconda esponente in Governo soltanto nel 2019. L’UDC rimane l’unico partito di Governo a non aver mai avuto una donna in Consiglio federale. Ma al di là dei numeri, ciò che conta è anche il modo in cui le donne sono state elette. Per le prime tra loro è stata senza dubbio una corsa a ostacoli, destinata a rimanere per sempre nei libri di storia.
Con
Svizzera ◆ La discriminazione di genere nel mondo economico e finanziario si è attenuata nel tempo ma tanto rimane da fare Angelo Rossi
Fino a qualche decennio fa prevaleva in Svizzera un modello di convivenza di coppia nel quale l’uomo e la donna si ripartivano compiti e competenze. In questa situazione tutto quello che concerneva il denaro era, di solito, competenza del marito. Non si tratta solo di tradizioni e usi. Ancora a ventesimo secolo ben avanzato in molti Cantoni della Confederazione la moglie poteva aprire un conto corrente o farsi un libretto di risparmio solo con il consenso scritto del marito. Non parliamo poi dell’acquisto di una casa o del metter su un’azienda... Del resto ancora oggi, nelle dichiarazioni fiscali, se la moglie esercita un’attività lucrativa il suo reddito viene sommato a quello del marito. Quelli che ho elencato sono ostacoli giuridici che hanno, per decenni, se non per secoli, allontanato le donne da tutto ciò che poteva avere a che fare con il denaro.
In Ticino dal 1990 al 2020 nel gruppo «dirigenti» la quota delle donne è più che raddoppiata, passando dal 14,7% al 29,7%.
Da quando anche nel nostro Paese è insorto l’uso del denaro negli scambi, ossia dalla metà del XIX secolo circa, la donna è stata discriminata. Il grado di discriminazione è venuto attenuandosi nel corso delle ultime due generazioni. Dapprima perché le donne, in seguito al cosiddetto processo di «democratizzazione degli studi», hanno potuto accedere in numero sempre maggiore a formazioni che interessano direttamente il mondo bancario e finanziario. Oggi negli atenei svizzeri le donne rappresentano la maggioranza degli studenti. Inoltre l’aumento delle studentesse si è manifestato in tutti i programmi di formazione accademica. Quindi anche in quelli vicini all’economia e al mondo della finanza. Ciononostante la quota delle donne continua a essere inferiore alla metà in tutti i curricoli nei quali la matematica è importante. Così è anche nel bachelor in scienze economiche e nelle specializzazioni finanziarie a livello di master. Ad
esempio all’università di Zurigo nei programmi di bachelor le studentesse rappresentano oggi il 59,3% del totale degli studenti. Nei bachelor di scienze economiche però la loro quota è solo del 33%. Anche all’università di San Gallo, specializzata in economia e management, la quota delle studentesse nei programmi di bachelor è solo pari al 35%.
Il grado di discriminazione delle donne nel mondo della finanza si è comunque affievolito anche per le modificazioni di legge che oggi consentono alle donne di effettuare transazioni economiche, anche importanti, senza dove chiedere il consenso preliminare dell’uomo. Questo ha fatto aumentare la partecipazione femminile all’attività economica e quindi, di riflesso, anche alle attività di natura finanziaria. Tuttavia, come dimostrano i risultati di una inchiesta condotta lo scorso anno dagli economisti della SUP di Lucerna, il
comportamento dei due sessi rispetto al mondo della finanza è diverso: le donne sarebbero meno interessate degli uomini ai mercati finanziari. Mentre la quota degli uomini che prestano attenzione a quanto succede in questo mondo è, in Svizzera, superiore al 30%, quella delle donne arriva appena al 10%. All’altro estremo, la quota delle donne che non si cura per nulla dei mercati finanziari è superiore al 40%; quella degli uomini invece è solo del 18%. La spiegazione di queste differenze starebbe, secondo l’inchiesta citata, nella diversa disponibilità dei due sessi ad assumersi il rischio delle operazioni finanziarie. Sembrerebbe dunque che le donne siano meno propense degli uomini ad assumere il rischio legato alle operazioni finanziarie (il motivo?). Così solo il 31% delle intervistate possiedono azioni mentre, tra gli uomini, questa quota sale al 51%. Si potrebbe pensare che il diverso comportamento in ma-
teria di assunzione del rischio sia dovuto al fatto che il reddito femminile sia inferiore a quello maschile. Secondo lo studio riportato però, si trovino negli strati più elevati o in quelli più bassi della distribuzione del reddito, le donne sono sempre meno pronte degli uomini ad assumere i rischi di un investimento in borsa. Rimangono quindi le «formichine» che scelgono opportunità di investimento sicure e, non di rado, preferiscono il risparmio all’investimento. Un altro cambiamento che ha ridotto la discriminazione delle donne nel mondo della finanza è rappresentato dallo sviluppo delle carriere femminili nelle istituzioni finanziarie e bancarie. In Ticino la quota di donne attive nel settore bancario e assicurativo è ora pari al 35% dell’occupazione totale del settore. Non sappiamo quante di queste donne occupino posizioni dirigenti. Una recente revisione del diritto azionario ha introdotto,
anche in Svizzera, quote minime per le donne dirigenti. A partire dal 2026 le donne dovrebbero rappresentare almeno il 30% dei membri dei consiglio di amministrazione e almeno il 20% nel management delle aziende. Nel 2023 queste quote erano pari al 22% per le donne in posizioni di direzione e al 23,4% per quelle nei consigli di amministrazione. Bisognerà quindi fare ancora uno sforzo per soddisfare l’obiettivo della legge.
Positivo è poi che le quote femminili nei posti di alta responsabilità siano dappertutto in crescita. Così in Ticino, dal 1990 al 2020, nel gruppo «dirigenti» la quota delle donne si è più che raddoppiata passando dal 14,7% al 29,7%. Anche in questo caso è da auspicare che i valori relativi all’universo dei dirigenti e delle dirigenti valgano, almeno approssimativamente, anche per il ramo delle banche e delle assicurazioni che è quello nel quale sono censite le aziende del settore finanziario. In conclusione possiamo affermare che ostacoli di natura giuridica, e pratiche di assunzione, promozione favorevoli agli uomini, hanno tenuto per decenni le donne lontane dal mondo della finanza. È anche possibile che la minore inclinazione ad assumere i rischi degli investimenti faccia loro preferire il risparmio, o comunque operazioni bancarie meno rischiose, all’investimento in borsa. Infine, nelle carriere del settore finanziario le quote femminili continuano a essere inferiori al 50% ma non cessano di crescere. Infine crediamo di poter affermare che il denaro, per le donne, non sia più un tabù: con le tendenze che abbiamo ricordato qui sopra, lo viene a confermare anche la creazione, in Svizzera, della prima banca rivolta solo alle donne e di Fea Money, la prima app bancaria pensata specialmente per la donna.
Un passo avanti ◆ Dallo scorso primo marzo negli studi della Confederazione si devono analizzare le differenze in base al sesso
Marialuisa Parodi
Le donne svizzere possono festeggiare l’8 marzo 2024 con un significativo progresso verso la parità. Nella seduta del 31 gennaio il Consiglio federale ha infatti stabilito che, negli studi e nelle statistiche della Confederazione, si devono analizzare gli effetti di genere e le differenze in base al sesso e integrarli nelle pubblicazioni. Contestualmente, ha emanato delle direttive per disciplinare il campo di applicazione, le procedure e le modalità con cui questo obbligo dovrà essere assolto. In particolare ogni attività statistica, nuova o esistente, dovrà condurre un esame di pertinenza e, a tale scopo, l’Ufficio federale per l’uguaglianza fra donna e uomo (UFU) ha già messo a disposizione uno strumento online in forma di domande guida.
La decisione, entrata in vigore il 1° marzo, deriva dai risultati di uno studio indipendente, commissionato dallo stesso UFU, che ha sostanzialmente confermato quanto osservato dalla mozione «Migliorare i dati sugli effetti sui due sessi», presentata dalla consigliera agli Stati Eva Herzog nel 2020 e ora adempiuta con le suddette direttive. La mozione riferiva di im-
portanti lacune nella raccolta, nell’analisi e nella pubblicazione dei dati di statistica pubblica, in quanto non sufficientemente disaggregati per sesso; e di come tale mancanza contribuisse a rallentare i progressi nella chiusura dei divari di genere in ogni ambito (dal mercato del lavoro alla medicina; dalla pianificazione territoriale alle finanze ecc.), oltre che a perpetuare pericolosi stereotipi. Già precedentemente la questione era stata posta anche dal Comitato CEDAW, l’organo internazionale incaricato di monitorare l’osservanza della Convenzione ONU per l’Eliminazione delle discriminazioni contro le donne, emessa nel 1979 e ratificata dalla Svizzera poi nel 1997; ancora nell’ultimo rapporto sul nostro Paese, il sesto, dell’ottobre 2022, sussistevano raccomandazioni in merito ai dati di genere, ritenuti ancora insufficienti. È senz’altro un tema globale, più complesso da gestire negli Stati dove la responsabilità della raccolta dei dati statistici è diffusa tra diversi organismi, distinti per area d’azione, obiettivi e competenza geografica, come nel nostro caso, e dove diverse metodologie si sovrappongono.
Importante, a questo proposito, il lavoro svolto dall’Ufficio federale di statistica (UFS) che ha concorso alla decisione del Consiglio Federale: nell’ambito del Programma di statistica pubblica 2024-2027 è stata infatti elaborata una panoramica di ogni attività svolta dai vari produttori di dati e analisi, con l’obiettivo di cen-
sire se e quando la variabile sesso sia disponibile, sia pubblicata e, nel caso non fosse né disponibile né pubblicata, indagarne i motivi. Va detto che la pandemia ha marcato un’accelerazione dell’impegno internazionale verso l’eliminazione dei gap di genere nella statistica pubblica. Troppo spesso, infatti, l’assenza
di dati affidabili si è tradotta in vera e propria impotenza, con l’impossibilità di raggiungere, con azioni mirate, proprio le donne, il target più colpito dalla crisi economica e sociale, non a caso poi ribattezzata she-cession. Vi è infine un altro elemento che val la pena sottolineare riguardo alla portata, anche culturale e politica, di questo impegno assunto dalla Confederazione: gli obiettivi dichiarati non si limitano all’ottimizzazione del sistema di raccolta e trattamento dei dati, ma richiamano esplicitamente il miglioramento delle conoscenze e della comprensione degli effetti di genere. La misura, che è entrata a far parte della Strategia Parità 2030, va quindi intesa come un auspicio a che i dati servano ad accrescere la consapevolezza e siano tradotti in azione politica ispirata al gender budgeting, capace cioè di tener conto dei diversi effetti su uomini e donne. Un traguardo, quest’ultimo, anche raccomandato dal CEDAW, per cui la disponibilità di dati statistici differenziati per sesso era propedeutica. Auguriamoci allora di raggiungerlo presto, a rallegrare un prossimo 8 marzo delle donne svizzere.
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Washington ◆ Occhi puntati su Nikki Haley, l’alternativa repubblicana a Donald Trump, e la vicepresidente Kamala Harris che cerca il riscatto
Cristina MarconiUcraina ◆ Bisogna ripartire da un cessate-il-fuoco
Come insegnò Shakespeare, ci può essere metodo nella follia. Per follia intendiamo la dichiarazione del presidente francese Emmanuel Macron che ha evocato per la prima volta la possibilità di inviare militari francesi e di altri Paesi Nato in Ucraina, poi precisando che si tratterebbe di sminatori, addestratori e affini, quasi non fossero soldati. E aggiungendo di averne parlato fra gli altri con Biden e Zelensky.
dell’Occidente per mano russa. Onta intollerabile.
Due anziani contendenti con dietro due donne che sanno di avere in mano, nel bene e nel male, un’arma molto potente: il futuro. Una, Nikki Haley, sta inanellando sconfitte come fossero vittorie, perché sa che la posta in gioco è molto più alta delle elezioni americane del 2024 e che consolidare il suo ruolo di alternativa a Donald Trump nel Partito repubblicano prima o poi pagherà. L’altra, Kamala Harris, sta cercando di liberarsi dall’etichetta di «delusione» che le è stata appiccicata dopo quattro anni di una performance davvero opaca come vicepresidente di Joe Biden, che però ha 81 anni, perde colpi e ha recentemente dichiarato di aver parlato con François Mitterrand, morto da decenni. Il ruolo di Harris è destinato a rafforzarsi, tutti sono concordi nel dire che la sua posizione nel ticket sarebbe più importante rispetto a quella di un nomale vicepresidente e che la sua figura va aiutata a trovare risalto. Peccato che negli ultimi tre anni e mezzo non abbia dimostrato di avere né doti politiche, né doti di leadership. Al di là del suo essere la prima afroamericana, la prima asiatica e la prima donna a ricoprire il ruolo, di lei restano solo la copertina di «Vogue» in cui indossava fieramente delle All Stars e una serie di passi falsi.
Anche Nikki Haley ha molti primati: prima governatrice donna e non bianca, eletta in Carolina del Sud dov’è nata nel 1972 e cresciuta in una famiglia di immigrati indiani – un biologo e un’imprenditrice sikh, conservatori, tradizionalisti, benestanti – è riuscita a farsi largo nel Tea Party repubblicano nonostante su alcuni temi, come la bandiera confederata o l’immigrazione, sia poco in linea con i valori del partito. Contabile di formazione, è stata ambasciatrice presso le Nazioni Unite durante i primi due anni dell’amministrazione Trump, uscendone con una reputazione accresciuta e una fama internazionale per la sua retorica efficace, decisa. Con il presidente all’epoca andava d’accordo, anzi, ha rievocato la loro collaborazione in termini molto positivi, ma dopo l’assalto a Capitol Hill per lei le cose sono cambiate e presen-
tarsi come la risposta ragionevole a un politico uscito di senno è diventata la sua missione. È giovane laddove i suoi concorrenti sono anziani, è affidabile laddove uno è un criminale con tanto di condanne. «So che il 40% non è il 50%, ma so anche che il 40% non è un piccolo gruppo», ha detto dopo essere stata battuta anche nel suo Stato.
Effettivamente se la base è ancora tutta per Trump, i finanziatori del partito non sono così sicuri di voler scommettere su un candidato su cui pendono problemi legali di ogni tipo. Il brand «adulto nella stanza» di Haley è incentrato sulla differenza rispetto al suo rivale e sarebbe folle sovrapporsi a lui o cercare di imitarlo, anche perché rendendosi opposta e complementare si garantisce un futuro, anche se ovviamente lo nega. «Non sento il bisogno di baciare l’anello. E non ho paura della vendetta di Trump. Non sto cercando niente da lui. Il mio futuro politico non è una preoccupazione», ha detto. La competenza e il suo profilo da conservatrice vecchio stampo la mettono nella posizione di poter intervenire qualora i problemi di Trump con i giudici lo costringessero a un passo indietro.
Haley è la prima governatrice donna, non bianca, eletta in Carolina del Sud dov’è cresciuta in una famiglia di immigrati
Nata Nimrata Nikki Randhawa, si è convertita al cattolicesimo dopo il matrimonio con Bill Haley, a cui ha addirittura fatto cambiare nome: ora si chiama Michael. Ha deciso di candidarsi dopo aver sentito parlare Hillary Clinton ma non l’ha votata; i detrattori la descrivono come determinata e calcolatrice, ma ha una chiarezza e un’attenzione ai principi che la fanno apparire affidabile, anche se su Trump ha cambiato idea. «Lui è tutto quello che insegniamo ai nostri figli a non fare all’asilo», ha detto, mentre l’esercito di trolls fedelissimi all’ex presidente la attacca con una violenza mai vista e con argomenti tristemente
prevedibili. Lei scrolla le spalle, sorridendo all’idea che alla Casa Bianca debba andare per forza un ottantenne.
Kamala Harris ha un problema molto diverso: lei il ruolo ce l’ha già e potrebbe averlo ancora più grande, essendo la vicepresidente di un ottantunenne che spera di restare in carica per altri quattro anni. Solo che la sua presenza rischia di essere un peso e non un asset per Biden, che dopo una serie di mosse maldestre all’inizio –un’intervista catastrofica nel 2021 e un fallimento assoluto delle sue costose politiche di contenimento «alla radice» dell’immigrazione – l’ha relegata a un ruolo quasi solo cerimoniale, che da una parte le sta stretto ma che dall’altro non riesce a rivestire in maniera convincente. Il suo modo di parlare è particolarmente criticato, i suoi discorsi sono definiti «insalate di parole» senza senso e vacue, sebbene venga da una carriera legale di altissimo livello – era procuratrice generale della California – e venga dal Senato, dove è stata la prima afroamericana. Il fatto che abbia rinunciato ad accostare il suo nome a politiche e misure legate al suo essere donna di una minoranza etnica non ha certo contribuito a scaldare la sua figura, ma il 39% degli americani ha una buona opinione di lei e Biden non può liberarsene senza alienarsi le simpatie delle donne e delle minoranze.
Dal suo staff trapela un senso di frustrazione per quello che viene visto come un tentativo di metterla a tacere, di non lasciarle spazio e anche dalle interviste emerge una certa superbia nello spiegare le ragioni della sua impopolarità. Ha detto di trovare poco avvincente «parlare di banalità» e di preferire l’idea di «decostruire una questione e parlarne in un modo che possa innalzare il discorso pubblico ed educare il pubblico». Sarebbe commendevole, non fosse che Kamala Harris non ha l’istinto politico, non trasforma le cose in politica, in campagne. Però, per come stanno le cose ora, Biden non può fare a meno di lei e in tanti sostengono sia necessario darle più spazio per far rivivere quell’emozione che suscitò la sua elezione da donna delle prime volte.
La conseguenza dello schieramento di contingenti armati francesi o di altri Paesi a combattere contro la Russia significherebbe nient’altro che la guerra atomica. Putin ha avuto modo il 29 febbraio di evocare questo incubo, soggiungendo rivolto agli occidentali: «Anche noi abbiamo i mezzi per colpire obiettivi nei vostri Paesi». Biden e gli altri leader atlantici hanno subito preso le distanze dal presidente francese. Anche il premier britannico Sunak, che però ha ammesso di avere già forze speciali in Ucraina con compiti di addestramento e supporto. Fin qui la follia, a meno che qualcuno non consideri la distruzione del pianeta obiettivo invidiabile. Il metodo sta nella consequenzialità logica di questa proposta rispetto a quanto finora sostenuto dai Paesi atlantici, in varia e diversa misura. Se l’obiettivo rimane la riconquista da parte ucraina di tutte le province prese dai russi, Crimea su tutte, una volta evidente che le forze armate di Kiev non ce la possono fare non resta che rinforzarle – scontato che la guerra non si vince solo inviando armi e munizioni sempre più scarseggianti – con truppe mandate dagli Stati più esposti e disposti a impedire la vittoria russa.
Fuor di metafora, l’uscita di Macron è interessante perché espone il problema dell’Occidente in questa guerra. Il quale consiste nel non avere idea precisa e condivisa degli obiettivi e dei mezzi per raggiungerli.
Quando le truppe russe hanno invaso l’Ucraina, il 24 febbraio 2022, presto dimostrandosi incapaci di prendere il controllo di Kiev e dei principali territori ucraini, i leader atlantici hanno subito fissato due princìpi: non accetteremo mai la sottrazione di territori ucraini al controllo di Kiev; non vogliamo fare la guerra alla Russia. Due concetti strettamente contraddittori. Da tradurre, realisticamente, più o meno così: faremo il possibile per riportare lo status quo, ma senza combattere direttamente i russi. Una volta assodato che senza (com)battere i russi allo status quo non si torna, delle due l’una. O si rinuncia al primo scopo di guerra o si rinuncia al secondo. Facile rinunciare al primo, anche senza dirlo apertamente. Il secondo è molto più difficile da scartare, perché implica l’ammissione della sconfitta
L’Ucraina dipende totalmente dall’estero quanto ad armamenti e finanze.
(Keystone)
Pur di non accettare la sconfitta, Macron ha evocato una scalata bellica che porterebbe logicamente, speriamo non fattualmente, all’olocausto nucleare. Basti questo per intendere il senso di disperazione che circola nelle cancellerie di quei Paesi che immaginavano di poter continuare a lungo la guerra per procura senza pagar troppo dazio. Specie in coloro che pensavano alla distruzione totale della Russia, non si sa bene per metterci che cosa o chi al posto del regime e dello Stato attuale. Un modo per uscire da questo drammatico rebus è invertire l’ordine delle priorità. La guerra non si fa per vincere la guerra ma per vincere la pace. La storia è piena di esempi di Paesi che hanno straperso grandi guerre, come Germania, Giappone e Italia, per stravincere i dopoguerra. Svolgiamo questo ragionamento. Posto che una vittoria militare dell’Ucraina potrebbe derivare solo dal suicidio della Russia –non parrebbe disposta a compierlo – la soluzione meno dolorosa sarebbe quella di ripartire da un cessate-il-fuoco illimitato lungo la linea del fronte, con garanzie di ferro occidentali all’Ucraina contro eventuali nuove aggressioni di Mosca. E relativo schieramento di forze di interposizione. Di fatto, molto più di quanto la Nato potrebbe offrire. L’Ucraina ha già perso, fra morti, feriti, rifugiati e sfollati, più di un terzo della popolazione (51 milioni) che vantava al momento dell’indipendenza (1991). Dipende totalmente dall’estero quanto ad armamenti e finanze. Avrà bisogno forse di un trilione di dollari per ricostruirsi. Partendo dalla condizione prebellica di Paese fra i più poveri e corrotti d’Europa. Ogni giorno di guerra in più, il bilancio si appesantisce. Per riconquistare territori che non è in grado di riconquistare l’Ucraina si sta lentamente dissanguando. Consideriamo un altro aspetto, poco visibile per chi misuri le vittorie e le sconfitte solo sul piano dei chilometri quadrati di terra strappati al nemico, o ad esso ceduti. Oggi nei territori occupati del Donbas, e soprattutto in Crimea, la grande maggioranza della popolazione è pro-russa o semplicemente si sente russa (talvolta sovietica). Anche se Kiev dovesse riprendere il maltolto, si troverebbe ad amministrare e ricostruire un territorio zeppo di nemici. Scontata la guerriglia, gli attentati, insomma l’impossibilità di agire in tranquillità. Ragionando in termini di pace vinta, Kiev avrebbe interesse a non doversi accollare anche la ricostruzione di terre di fatto nemiche. Né parrebbe in grado di scatenare una «pulizia etnica», ammesso ci pensasse. Insomma, c’è del metodo nella ragione. Basta usarla.
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Medio Oriente ◆ Un fenomeno va crescendo tra le fila dei giovani israeliani: aumentano i «refùsnikim», gli obiettori di coscienza che non intendono arruolarsi. Ad attenderli ci sono la prigione militare e pesanti conseguenze sulla vita lavorativa e sociale
Sarah ParenzoAlla vigilia del 7 ottobre scorso le tensioni causate dall’entrata in carica dell’ultimo Governo Netanyahu avevano condotto la società ebraica sull’orlo di una guerra civile. A poche ore dai disumani massacri di Hamas, tuttavia, la società si è per lo più ricompattata intorno a uno dei principali pilastri identitari nazionali: l’esercito.
Circa il 4% della popolazione ha risposto affermativamente alla chiamata dell’IDF, le Forze di difesa israeliane
Oltre 360 mila riservisti, circa il 4% della popolazione, hanno infatti risposto affermativamente alla chia-
mata dell’IDF, le Forze di difesa israeliane, in quella che è stata definita la più grande mobilitazione dalla Guerra del Kippur del 1973.
Nello Stato ebraico il servizio militare è obbligatorio per entrambi i sessi. Al termine della scuola superiore gli uomini sono tenuti ad arruolarsi per 32 mesi e le donne per 24, dopodiché possono essere mobilitati rispettivamente fino al compimento del 40° e del 38° anno d’età con alcune eccezioni. Salvo gli arabi israeliani che sono automaticamente esentati e gli ultraortodossi che dimostrano di frequentare una scuola talmudica, ottenere l’esenzione dal servizio militare in Israele non è affatto semplice. In assenza di sofisticati sotterfugi, infatti, si viene dichiarati «non idonei» solo
Con l’approssimarsi del mese del Ramadan, dopo 150 giorni di guerra, si fanno sempre più fitte le trattative per un cessate il fuoco in cambio del rilascio degli ostaggi israeliani e di detenuti palestinesi.
Contemporaneamente proseguono anche i tentativi di delineare una nuova leadership che possa assumere il governo di Gaza e di un futuro Stato palestinese. Ma la fine del tunnel sembra ancora lontana in Israele dove, di recente, l’ex primo ministro Ehud Olmert ha puntato diverse volte il dito contro Netanyhau e il suo Governo, accusandoli di aver operato con eccesso di sicurezza e arroganza, di voler proseguire la guerra a tutti i costi sacrificando gli ostaggi, e
di cercare volutamente di estendere il conflitto all’intera regione per riappropriarsi della Cisgiordania. Ma, nonostante la minaccia di un pericoloso scenario in stile Armageddon, martedì scorso l’affluenza alle urne per le elezioni amministrative (si sceglievano le autorità in 197 comuni e 45 consigli regionali) è stata scarsa e ha visto confermarsi la vittoria schiacciante dei partiti ultraortodossi e della destra estremista che, soprattutto a Gerusalemme, hanno conquistato un numero impressionante di seggi. In questa atmosfera crescono i tentativi di silenziamento, censura e repressione a carico di chiunque esprima critiche alle politiche del Governo israeliano.
dopo accurati controlli medici che evidenziano patologie fisiche o mentali. Raramente vengono accolte richieste per motivi di pacifismo o di etica.
Tuttavia, benché il Governo e l’esercito cerchino di sminuirne l’entità e la portata politica, un altro fenomeno che va crescendo tra le fila dei giovani israeliani è quello degli obiettori di coscienza. I coraggiosi che rifiutano di arruolarsi vengono definiti «refùsnikim», parola originariamente utilizzata per indicare gli ebrei a cui veniva negato il diritto di emigrare in Israele dal blocco sovietico. La maggior parte di di loro esce dalle fila degli attivisti politici, come quelli che alle manifestazioni del sabato sera aspettano la folla all’angolo fra Via Kaplan e via Leonardo da Vinci, per ricordarle che «non c’è democrazia con l’occupazione». Convinti che la soluzione del conflitto in Medio Oriente non debba passare dalle armi, bensì dalla politica, questi ragazzi si oppongono alle violente politiche di oppressione e apartheid che Israele mette in atto nei confronti del popolo palestinese. Ma mettere in discussione l’intero sistema dove sono nati e cresciuti è una scelta sofferta che, nella migliore delle ipotesi, comporta la riprovazione dei familiari e dei compagni di scuola, e conseguenze che si estenderanno anche alla ricerca di lavoro e alla sfera sociale. Ma soprattutto ad attenderli vi è la prigione militare. La prima condanna da scontare è di solito di circa 20 o 30 giorni, ma verrà estesa se, dopo il rilascio, si riconferma la decisione. A sostenere gli obiettori di coscienza dal punto di vista morale e legale ci pensa il gruppo di Mesarvòt, in ebraico «quelle che rifiutano», importante ONG che
conduce campagne informative e di sensibilizzazione sul servizio militare (sulla pagina Instagram dell’organizzazione trovate diverse foto e video).
Nel nuovo clima gli obiettori vengono additati dalla società come traditori della patria, sostenitori di Hamas, nazisti e antisemiti
Fino a poco tempo fa i compagni di cella dei «refùsnikim» erano per lo più prigionieri politici palestinesi, ma dall’inizio dell’ultima guerra in Israele l’intera sfera politica è diventata molto più violenta e aggressiva, si respira aria di regime e anche gli oppositori ebrei vengono perseguitati e arrestati con estrema facilità. Nel nuovo clima gli obiettori vengono additati dalla società come traditori della patria, sostenitori di Hamas, nazisti e antisemiti, ma pochi pensano seriamente di lasciare il Paese, e preferiscono sacrificarsi
nella speranza di interrompere questo ciclo di violenza che genera solo altra violenza. Così, dopo Tal Mitnick, diciottenne condannato dal tribunale militare il 2 gennaio per aver espresso il proprio rifiuto, il 25 febbraio è stata la volta della coetanea Sofia Orr. «Sono qui a rifiutare perché la guerra non ha vincitori», ha detto con fierezza quest’ultima parlando al megafono prima di venire giudicata e detenuta a sua volta. «Voglio promuovere la pace e dimostrare che il cambiamento è possibile. Nella pace tutti saremo vincitori», ha aggiunto. Rifiutare di arruolarsi e prendere parte attiva alla guerra e all’occupazione è un atto che nell’Israele di oggi può comportare grande solitudine, ma, come ha affermato con grande sensibilità Iddo Elam, intervistato da Francesca Mannocchi per «Propaganda Live», «protestare è l’unico modo per impedire alla violenza di cui siamo spettatori di corromperci l’anima facendoci perdere ogni traccia di umanità».
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Pakistan ◆ Triste lo scenario dopo le elezioni parlamentari in un Paese che resta una bomba a orologeria sullo scacchiere mondiale
Francesca Marino
L’unica verità è che si è trattato dell’elezione più truccata della storia del Pakistan. Anzi, dicono a Islamabad e dintorni, più che un’elezione è stata una «selezione». E non è venuta nemmeno tanto bene perché, a sorpresa, il verdetto uscito dalle urne non è stato perfettamente allineato alle direttive dei «selezionatori», cioè dell’esercito. Ricapitolando: lo scorso 8 febbraio si sono svolte le sospirate elezioni nazionali dopo che, quasi due anni fa, era stato sfiduciato il Governo dell’ex premier Imran Khan. Che al momento si trova in galera, con tre condanne di primo grado per corruzione, per aver rivelato segreti di Stato e per aver celebrato le sue terze nozze prima del tempo stabilito dalla Sharia (la legge islamica).
Alcuni membri delle commissioni elettorali hanno denunciato la presenza di «camere di tortura» nei seggi
Imran è stato interdetto per dieci anni dai pubblici uffici, e al suo partito è stato vietato, con una scusa, l’uso del tradizionale simbolo elettorale. Per questo, e perché i membri del partito di Imran sono stati in ogni modo osteggiati e minacciati, molti seguaci dell’ex premier si sono candidati come indipendenti. Intanto ritornava
trionfalmente in patria il tre volte ex premier Nawaz Sharif dopo un lungo esilio a Londra, dove si era recato per «ragioni di salute» sfuggendo a sua volta a un soggiorno nelle patrie galere e all’interdizione dai pubblici uffici che è stata revocata poco prima del suo ritorno.
In Pakistan arrivavano anche più di duecento osservatori internazionali incaricati di monitorare lo svolgimento della tornata elettorale. Che si svolgeva, come sempre accade in Pakistan, in un clima «civile, democratico e disteso»: l’esercito spiegato in forze a ogni angolo di strada, la rete dei telefoni cellulari silenziata, Internet messo a tacere. Ai giornalisti veniva impedito di entrare nei seggi elettorali, alcuni membri delle commissioni elettorali hanno denunciato la presenza di «camere di tortura» all’interno dei seggi. Che però davano, nonostante tutto, un risultato sorprendente: a vincere in modo più o meno clamoroso sono stati, difatti, i candidati indipendenti. Nonostante le schede gettate nella notte dentro i secchi dell’immondizia, nonostante le falsificazioni e nonostante risultati come quello ottenuto da Sharif: Nawaz vinceva difatti a Lahore con una schiacciante maggioranza, ottenendo 240’000 voti in un seggio dove a votare sono stati in 239’000. Qualche ora dopo, e senza che i conteggi fossero terminati, l’ex-premier procla-
Seggi elettorali blindati a Peshawar.
mava la vittoria del suo partito, accettando implicitamente di formare il prossimo Governo. Ora, tecnicamente è vero che il partito di Sharif ha ottenuto il maggior numero di voti, anche se non sono sufficienti a formare un Governo. È vero anche, però, che a vincere di fatto sono stati i candidati indipendenti, la cui maggioranza fa capo al partito di Khan: gli indipendenti, per legge, non possono formare un Governo, ma Imran dalla galera canta vittoria e nomina un suo candidato premier. Intanto, due giorni dopo le elezioni, Sharif si alleava con il Pakistan People’s Party (PPP) di Asif Zardari (ex-presidente del Pakistan) e di Bilawal Bhutto Zardari:
rispettivamente marito e figlio della defunta Benazir, diventata un’eroina popolare dopo essere stata ammazzata da «ignoti» nel 2007 durante il suo trionfale rientro in Pakistan dopo un lungo esilio. Il nuovo Governo dovrebbe essere così composto: la poltrona di primo ministro va non a Nawaz ma a suo fratello Shahbaz, che ha governato il Paese dopo la sfiducia a Imran Khan. Alla figlia di Nawaz, Maryam, andrebbe la poltrona di chief minister dello Stato-chiave del Punjab occupata fino a questo momento da Humza, figlio di Shahbaz. Asif Ali Zardari dovrebbe diventare, per la seconda volta, presidente della Repubblica
islamica mentre suo figlio Bilawal, forse perché è l’unico a non essere mai stato in galera, rimane col cerino in mano e semplicemente a capo del PPP. Il nuovo Governo di coalizione, che dovrebbe nelle dichiarazioni dei suoi componenti salvare il Pakistan dalla bancarotta e dall’isolamento internazionale, è in realtà una grandiosa accozzaglia di pregiudicati. Zardari, meglio noto come Mr. Ten per cent dall’ammontare della tangente che pretendeva per ogni transazione che transitava nei suoi uffici, prima di diventare presidente è stato accusato di omicidio, corruzione, traffico di droga, riciclaggio e ricatto. Nawaz è stato accusato di tradimento, corruzione, concussione e traffico di valuta ma ciò non gli ha impedito di diventare, tra un soggiorno in galera e l’altro, tre volte primo ministro. Shahbaz è stato anche lui in galera e accusato di corruzione e reati finanziari assortiti.
I «giovani» Sharif, Maryam e Humza seguono le orme paterne sia in fatto di prigione che di politica. I giudici hanno appena rigettato tutte le istanze ricevute per schede e risultati elettorali truccati, gli osservatori internazionali timidamente dichiarano che bisognerebbe invece indagare sulle accuse di frode elettorale. E intanto, mentre si attendono dichiarazioni ufficiali, una sola cosa è certa: ancora una volta il Pakistan batte Netflix uno a zero.
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Ratatouille
I sapori delle verdure mediterranee si uniscono in questo piatto tipico della cucina provenzale per creare un contorno o un ottimo piatto principale.
Alla ricetta
Stufato di verdure con aioli al pomodoro
L’aioli di patate al pomodoro e all’aglio regala allo stufato di zucchine, zucca, cipolle e peperoni un delizioso sapore.
Alla ricetta
Tajine di verdure con cuscus
Un gustoso piatto del Maghreb con le sue spezie, le albicocche che si amalgamano alle verdure e al suo cuscus allo zafferano, ricco di mandorle e menta.
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Il ritorno di Elvis Presley Il leggendario re del rock’n’roll scomparso nel 1977 canterà di nuovo live a Londra grazie all’IA
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Berlinale tra fascino e storia
Un racconto della 60esima edizione appena conclusa tra vincitori, partenze e polemiche politiche
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Mostre ◆ Curata da Luigi Sansone e Nicoletta Ossanna Cavadini, la mostra al m.a.x. museo rende omaggio ai due grandi artisti
Alessia Brughera
«Un signore piccolo, gobbo, con naso rettilineo come uno squadretto, con denti d’oro e scarpette femminili, dalle risate vitree e nasali. Un uomo di nervi e di volontà, dotato di una cultura superiore. Professore di storia egizia, indagatore ed osservatore con sensibilità d’artista, scrittore, amante del popolo, del verso e della metafisica […]. Compositore di liriche, era anche un gaudente e un sofferente». È così che Fortunato Depero, uno dei massimi esponenti del Futurismo italiano, descrive l’intellettuale svizzero Gilbert Clavel.
L’uno, Depero, artista rivoluzionario e innovatore, firmatario (con Giacomo Balla) del manifesto Ricostruzione futurista dell’universo in cui proclama l’esigenza di un’arte totale capace di ridefinire il mondo attraverso una sua radicale trasformazione, è pittore, illustratore, scenografo, sceneggiatore e costumista, sempre teso alla più audace sperimentazione dei linguaggi e delle modalità espressive.
L’altro, Clavel, nato in un’agiata famiglia di industriali basilesi, è un uomo colto, istrionico e brillante benché affetto da tubercolosi ossea sin dall’infanzia e da un’evidente malformazione della spina dorsale causata da una grave caduta avuta da bambino. Visionario, eccentrico e dalla cultura cosmopolita, è un personaggio che, nonostante il suo «guscio difettoso», riesce ad affascinare grazie alla sua intraprendenza e al suo spirito libero vicino alle correnti più avanguardistiche, guadagnandosi l’appellativo di «Apollinaire svizzero»
L’incontro tra i due avviene a Roma, nel novembre del 1916. Depero è nel suo studio e sta lavorando agli scenari e ai costumi dello spettacolo Le chant du Rossignol, che gli sono stati commissionati dal celebre creatore dei Balletti Russi Sergej Djagilev. Quando Clavel arriva all’atelier insieme a Michail Semënov, mediatore di Djagilev, è molto colpito dal bozzetto plastico dell’artista roveretano: «Entra nel mio studio e rimane sorpreso. Così ci conosciamo e diventiamo amici. Dopo pochi giorni la nostra comprensione diventa fraterna e profonda, e mi invita suo ospite a Capri», scrive Depero stesso.
Quell’incontro è in realtà un colpo di fulmine per entrambi. Se Clavel è attratto dal lavoro di Depero, Depero, da parte sua, è attratto dalla personalità dirompente di Clavel. E non solo. A interessarlo è proprio la fisicità particolare dell’amico, che per via della deformazione, della struttura esile e della bassa statura richiama alla memoria una marionetta. L’anomalia del corpo di Clavel lo affascina a tal punto che spesso Depero passeggia con lui per le strade con una finta gobba realizzata con un cuscino. E nelle opere dell’artista che riproducono l’intellet-
tuale svizzero (Clavel è la persona più ritratta da Depero) questa malformazione diventa il tratto distintivo, l’aspetto qualificante.
Da quel novembre del 1916 inizia così una complicità fraterna tra Depero e Clavel basata su una consonanza di intenti che porterà a un intenso sodalizio creativo. Sarà una divergenza di natura economica a interrompere bruscamente questa amicizia, nel 1922, ma gli anni della collaborazione tra i due costituiscono un periodo incredibilmente fertile che ha segnato in maniera indelebile l’esperienza futurista.
La mostra allestita negli spazi del m.a.x. museo di Chiasso, curata da Luigi Sansone e Nicoletta Ossanna Cavadini, si concentra proprio sull’intesa artistica tra queste due emblematiche figure del Novecento, un argomento sinora poco indagato che, grazie alla rassegna, viene debitamente approfondito.
Le opere radunate – oltre duecento tra dipinti, disegni, bozzetti, studi, marionette, arazzi, fotografie e documenti – non solo testimoniano una relazione artistica davvero feconda e originale, ma offrono anche nuove prospettive interpretative sulla ricerca pittorica di Depero e sull’apporto di Clavel al Futurismo. Interessanti da questo punto di vista sono i materiali provenienti dall’Archivio di Stato di Basilea-Città e alcuni di quelli prestati dal Mart, Museo di arte moderna e
contemporanea di Trento e Rovereto, questi ultimi oggetto di una storia affascinante: sono infatti tornati alla luce negli anni Novanta dopo essere stati scovati nello scomparto segreto della libreria dello studio di Clavel nella sua celebre Torre di Fornillo.
Il percorso di mostra tocca le tappe più importanti del rapporto tra Depero e Clavel attraverso le esperienze condivise che hanno segnato la loro collaborazione. Artopoli, utopica «città dell’arte» che nel periodo tra le due guerre mondiali ha richiamato letterati, musicisti, artisti e illustri personaggi sulla suggestiva isola di Capri, non poteva che aprire l’itinerario espositivo. Alla colonia artistica caprese Depero e Clavel danno un contributo fondamentale animando con entusiasmo questo avanguardistico cenacolo di cui hanno fatto parte, tra gli altri, Filippo Tommaso Marinetti, Enrico Prampolini, Julius Evola e, per un breve periodo, anche Pablo Picasso e Jean Cocteau. La mostra si sofferma sul fenomeno di Artopoli, esponendo una ventina di opere di artisti che hanno frequentato il territorio partenopeo insieme a libri e documenti che testimoniano l’importanza di questa « parentesi geniale nella storia dell’arte italiana», come la definisce Luigi Sansone del suo saggio in catalogo.
Proprio a Capri, nel 1917, Depero ha il lampo d’intuizione da cui nascono i suoi celebri Balli Plastici, crea-
zioni spettacolari e rivoluzionarie che traggono forza dall’amicizia straordinaria con Clavel. I Balli plastici sono una delle prime sperimentazioni di teatro d’avanguardia basate su un principio semplice quanto dirompente: « Gli attori sono marionette dai movimenti meccanici e rigidi: personaggi che richiamano i valori dell’infanzia, del sogno, del magico». Sostenuto da Clavel, economicamente e intellettualmente, Depero dà quindi vita a questo lavoro radicale che va in scena per la prima volta nel 1918 al Teatro dei Piccoli a Roma. Ai Balli plastici, che non ebbero un grande successo di pubblico, forse proprio perché troppo precoci, la rassegna dedica un’intera sala documentando tutte le fasi di realizzazione del progetto, dagli schizzi in china e matita alle tele a olio fino ad arrivare alle marionette in legno, ricostruite nel 1980, che si presentano ai nostri occhi in tutta la loro vivacità cromatica e carica onirica.
Centrale nel rapporto tra Depero e Clavel è la Torre di Fornillo, luogo di ispirazione che ha custodito la memoria della loro fratellanza. L’andamento labirintico della Torre, con i suoi suggestivi spazi sotterranei, ispira anche le illustrazioni eseguite da Depero per la novella onirica di Clavel Un istituto per suicidi, un testo satirico pubblicato nel 1917 in cui viene trattato, precorrendo ampiamente i tempi, un tema molto caro all’intellettuale basilese: il
Fortunato Depero I creatori dei
Balli Plastici Depero e Clavel, 1918 china su carta, 26 x 37 cm Mart, Museo di arte moderna e contemporanea di Trento e Rovereto
Collezione Esposito. (© Archivio Fotografico e Mediateca Mart, © 2023 ProLitteris, Zürich)
suicidio autorizzato dallo Stato. Viste le sue condizioni di salute, Clavel vede la morte come una preoccupazione costante, una specie di ossessione, e i carboncini di Depero esposti in rassegna, dai forti contrasti chiaroscurali, restituiscono bene l’atmosfera visionaria e surreale dell’opera letteraria.
Accanto al materiale dedicato a questa novella, nell’ultima sala del museo troviamo alcuni lavori di Depero che raffigurano Clavel. Ci colpiscono I creatori dei Balli Plastici Depero e Clavel, del 1918, una serie che comprende un acquarello, una china e la cartolina stampata in cui i due personaggi ci appaiono in tutta la loro intesa intellettuale: l’uno, Depero, tiene in mano una matita in cui convergono le sue doti creative rese sotto forma di fasci, l’altro, Clavel, appare dietro di lui, con la sua gobbetta, con il suo bastone e con il viso sorridente vicino a quello dell’amico, come se gli stesse sussurrando qualcosa all’orecchio. Un’immagine che sintetizza splendidamente il loro rapporto di intensa complicità, di profonda stima e di grande ironia.
Dove e quando
Fortunato Depero e Gilbert Clavel. Futurismo = sperimentazione Artopoli. m.a.x. museo, Chiasso. Fino al 7 aprile 2024. Orari: ma-do 10-12 / 14-18. www.centroculturalechiasso.ch
Proponiamo diversi soggiorni al mare in gruppo, gestiti da volontari che offrono una presenza attiva, ascolto, compagnia, aiuti puntuali, organizzano alcune attività in base agli interessi dei partecipanti e si occupano del coordinamento generale del soggiorno in collaborazione con le aziende preposte al trasporto e ai gestori degli alberghi.
Durante il soggiorno non viene prestata assistenza sanitaria (cura della persona, somministrazione di medicamenti, ecc.). Eventuali necessità di cure o assistenza (sorveglianza, deambulazione, igiene personale, vestirsi, somministrazione di medicamenti, ecc.), devono essere garantite da un’accompagnatrice/accompagnatore personale.
– Alassio, dal 2 al 9.06.2024
Hotel Aida ***
– Laigueglia, dal 2 al 9.06.2024
Hotel del Golfo **
– Gabicce-Mare, dal 9 al 16.06.2024
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– Gabicce-Mare, dal 9 al 16.06.2024
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Il programma è consultabile online sul nostro sito e può essere richiesto anche in cartaceo contattando il segretariato allo 091 912 17 17.
Sono disponibili posti per i seguenti corsi: –Applicazione Mobile FFS (Lugano e Mendrisio) –Corso sulle app del telefonino –Corso Docupass (Bellinzona)
Corsi di movimento:
–Proposte di vario genere anche presso i Centri diurni, accessibili a tutti, grazie al sostegno di Promozione salute Svizzera e del DSS.
Pro Senectute Ticino e Moesano
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Tel. 091 912 17 17 – info@prosenectute.org
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In ricordo ◆ Nato il 25 febbraio 1924 si definiva uno «scrittore per immagini»
Paolo Di StefanoEnzo Sellerio Palermo. «Fucilazione» nel quartiere della Kalsa nel giorno dei Morti, 1960. (© Eredi di Enzo Sellerio)
C’era molta Sicilia, un po’ di America e una madre russa nella vita di Enzo Sellerio, di cui quest’anno la sua Palermo celebra il centenario della nascita con diverse mostre. E c’era anche la Svizzera, perché fu la rivista zurighese «Du» a pubblicare il suo primo reportage fotografico, proiettandone sulla scena internazionale il genio realistico e visionario: era il 1961 e si trattava di un viaggio nei quartieri del capoluogo siculo, ancora feriti dalla guerra oltre che perennemente dilaniati dalle differenze sociali, tra povertà e residui nobiliari. Sellerio era arrivato alla fotografia non precocemente: si era laureato in giurisprudenza appena ventenne e aveva intrapreso una carriera universitaria, quando nel 1952 fu folgorato dalla passione per la Rolleiflex trovando immediata ospitalità, oltre che su fogli locali, sul «Mondo» di Mario Pannunzio, il meglio del giornalismo liberal dell’epoca.
Ferrero, che ne fa un meraviglioso ritratto in Album di famiglia, descrive Enzo come l’Incarnazione dello Stile: e non si può dargli torto se si pensa alle copertine della casa editrice palermitana
Riservato, forse timido, di indomita, ironica fierezza e con un aspetto dadà (così lo descrive l’amico Ernesto Ferrero); classe 1924, quasi coetaneo di un altro maestro concittadino, Nicola Scafidi, Sellerio anticipa di una decina d’anni altri grandi fotoreporter siculi, d’arte e di denuncia: Letizia Battaglia, Ferdinando Scianna, Giuseppe Leone.
Ecco, con le sue parole, il credo artistico di Sellerio, che si voleva «scrittore per immagini»: «Come nell’arte militare la fanteria è definita la regina delle battaglie, nella sub-arte fotografica (lo dico senza falsa umiltà) il primato spetta senza alcun dubbio al reportage, anche a quello minimalista, a cui mi sono dedicato per circa un quarto dí secolo». Non è dunque un caso se nel 1955 accompagna con otto fotografie l’inchiesta del sociologo triestino Danilo Dolci sui «banditi» a Partinico, il centro agricolo siciliano
in cui il maestro della non-violenza aveva creato una comunità chiamandola «Borgo di Dio» e compiendo con i braccianti una incisiva attività civile e politica talmente avversata dal potere democristiano da procurargli l’arresto.
Le immagini di Sellerio (una madre che tiene tra le braccia un bambino rachitico, una schiera di ragazzini per strada durante il Carnevale, un calzolaio all’aperto sotto un grande manifesto del Partito Monarchico, un circolo di lavoratori comunisti…) rimasero escluse, per motivi tipografico-economici, dalla prima edizione del libro. Vennero poi recuperate dal critico Guido Aristarco in uno dei Fotodocumentari della rivista «Cinema nuovo». La «poetica» del racconto sociale di Sellerio è inconfondibile, e la troviamo ben rappresentata in Inventario siciliano, un volume del 1969 che testimonia le sue due passioni affini e convergenti: la gente (il popolo) e la scena teatrale. Ciò che colpisce però sono gli scorci straordinari di vita quotidiana, tra cui spicca, memorabile, un cortile di pietra, nel quartiere della Kalsa, in cui un gruppo di bambini maschi, schierato a mo’ di plotoncino d’esecuzione con tanto di pistole puntate, finge di sparare a un compagno che, contro un muro, aspetta il colpo di grazia: a distanza alcune ragazzine osservano la scena sedute sui gradini di una chiesa. C’è tutto: la finzione giocosa, l’immaginario dell’infanzia figlia dei ciechi tempi, la separatezza dei sessi, il teatro degli slarghi palermitani, il mondo diruto del dopoguerra e soprattutto il tempo sospeso che diventa eterno nella memoria. «Avrei mai fotografato una fucilazione vera? – si chiese Sellerio – Non credo proprio. Registrai quella scena perché era soltanto un gioco. E il gioco è quella forma in cui, più di ogni altra, la vita dovrebbe essere vissuta: per questo avevo scelto la fotografia». Solo osservando capolavori del genere si può capire il ragionamento insieme tecnico e filosofico di Sellerio: «In quel brevissimo tempo, premendo un pulsante, il fotografo lega il passato al presente e fa coincidere in un telemetro interiore quello che sa con quello che vede».
Intanto, nel 1963 Sellerio ha spo-
sato Elvira Giorgianni, figlia di un prefetto e funzionaria all’Ente regionale della Riforma Agraria. Qualcuno ancora oggi dice che erano la coppia più bella di Palermo, e probabilmente è vero. L’esperienza da freelance negli Stati Uniti, collaboratore di «Vogue» e di «Fortune», aumenta l’alone cosmopolita di Enzo. Ma si avvicina la svolta, ovvero il passaggio dalla fotografia (mai abbandonata in realtà) all’editoria e alla grafica. Nel 1969, donna Elvira decide di investire la sua liquidazione nei libri, chiama in aiuto l’antropologo Antonino Buttitta e soprattutto Leonardo Sciascia, e nasce la casa editrice Sellerio. Ferrero, che ne fa un meraviglioso ritratto in Album di famiglia, descrive Enzo come l’Incarnazione dello Stile: e non si può dargli torto se si pensa alle copertine della casa editrice palermitana. La bellezza sublime della collana «La civiltà perfezionata», l’incisione impressa sulla copertina avorio, la carta velina e le pagine intonse sembravano inadatte a un titolo come L’affaire Moro, il pamphlet politico di Sciascia: ma il successo fu immediato e sconvolgente. «La memoria» è la collana pensata da Sciascia, disegnata da Enzo e costruita mattone su mattone da donna Elvira: sono il formato tascabile (12x17) e il colore blu delle copertine a colpire gli editori stranieri quando quei libretti approdano per la prima volta alla Buchmesse di Francoforte. Il raffinatissimo editore tedesco Klaus Wagenbach stravedeva per quel blu notte che incornicia un’opera pittorica, per la carta vergata che piace ai bibliofili. Eleganza in trentaduesimo.
Nel 1983 la casa editrice, ormai consacrata anche dal successo inatteso di Gesualdo Bufalino, si sdoppia: da una parte la produzione di libri d’arte in edizione limitata, curata da Enzo Sellerio; dall’altra la narrativa e la saggistica guidate da donna Elvira e da Sciascia. La coppia più bella di Palermo si avvia al divorzio, ma lo studio di Enzo rimane nell’appartamento di fronte alla casa editrice in via Siracusa 50, che diventerà via Elvira e Enzo Sellerio dopo la loro morte, avvenuta a due anni di distanza, nel 2010 e nel 2012. Non avevano mai smesso di parlarsi e, probabilmente, si parlano ancora.
Audio ◆ Nelle scorse settimane due incontri importanti hanno acceso i riflettori sul mondo dell’audio e dell’ascolto
Olmo CerriSono trascorsi vent’anni dalla nascita dei podcast, o almeno dall’invenzione del loro nome, coniato dal giornalista Ben Hammersley sul «Guardian» nel febbraio 2004, ispirandosi ai termini «iPod», il dispositivo che a inizio 2000 usavamo per ascoltare i file audio, e «broadcasting» ovvero «trasmissione», in inglese. Da allora, il podcasting è diventato una modalità di fruizione sempre più importante e conosciuta. A questa modalità narrativa sono stati dedicati due importanti eventi che si sono tenuti, nelle scorse settimane, a Berna e a Milano.
A Milano ha avuto luogo fra il 16 e il 18 febbraio Volume 1, il festival dell’ascolto, delle voci e delle storie, organizzato negli spazi – ideali per una proposta di questo tipo – del conservatorio musicale Giuseppe Verdi. L’incontro è stato promosso e organizzato da Chora Media, una delle più dinamiche e innovative aziende italiane nel campo dei podcast, diretta da Mario Calabresi, ex direttore dei quotidiani «La Stampa» e «Repubblica».
Il festival, che si definisce «una celebrazione dell’audio nelle sue diversità», si è focalizzato su di una serie di incontri con gli autori dei principali podcast proposti: per esempio la giornalista Cecilia Sala, autrice del podcast quotidiano Stories dedicato alle notizie internazionali, ha condiviso il processo creativo dietro le sue puntate, spesso registrate in condizioni precarie direttamente dai Paesi in cui avvengono i conflitti, e poi inviate e post-prodotte in Italia (memorabile la serie di episodi registrati in Ucraina nei primi giorni dell’invasione russa). L’inviata di guerra Francesca Mannocchi ha invece presentato il nuovo, toccante podcast Per esempio la guerra in cui dialo-
ga con bambini e bambine delle classi di scuola elementari e medie, rispondendo con parole semplici ai loro quesiti sui conflitti globali. Nella tre giorni di festival sono anche stati registrati dei podcast live, diffusi in questi giorni sulle principali piattaforme. Tra questi, segnalo l’interessante dialogo tra Simone Pieranni, esperto di Cina e autore del podcast Altri orienti e Francesco Costa, vicedirettore de «Il Post», appassionato di Stati Uniti e autore del podcast Morning, sui rapporti fra queste due grandi potenze mondiali. La scelta del festival di concentrarsi soprattutto sui grandi nomi del podcast italiano ha richiamato, nei tre giorni di eventi, quasi diecimila persone, dando luogo a situazioni inaspettate, come la fila chilometrica per assistere all’in-
contro con lo storico Alessandro Barbero, una vera star del podcast che ha fatto il tutto esaurito per un incontro di oltre un’ora in cui ha risposto alle domande del pubblico sui più disparati temi storici. Sabato sera, in una sala gremita, è stato annunciato l’atteso nuovo progetto di Pablo Trincia, autore di podcast di enorme successo come Veleno e Il dito di Dio. Trincia ha presentato Sangue loro – il ragazzo mandato ad uccidere, ambientato nella Roma degli anni ’80. La narrazione della stagione terroristica vissuta in quegli anni nella capitale italiana prende avvio dall’attentato all’aeroporto di Roma-Fiumicino nel 1985 per mano di un commando di militanti palestinesi. Il podcast ritrova e intervista i protagonisti di questa vicenda, raccontando
Media Walk, Sonohr (Annette Boutellier)le loro storie che si intrecciano in sei avvincenti episodi.
Di taglio diverso invece Sonohr, dal 23 al 25 febbraio, giunto alla sua quattordicesima edizione (nella foto uno dei momenti di incontro) che anche quest’anno si è tenuto nelle storiche sale del Kino Rex a Berna, a due passi dalla stazione e da Palazzo Federale. Il concorso nazionale ha presentato tredici opere audio indipendenti: documentari, podcast e radiodrammi scelti fra gli oltre cinquanta progetti ricevuti. Da segnalare che, per questa edizione, nessuna delle opere in concorso proveniva dall’area italofona. A Berna, come negli anni precedenti, ci si concentra soprattutto sugli ascolti collettivi che avvengono nella penombra delle sale cinematografiche. Sul-
lo schermo scorrono i sottotitoli, che aiutano a seguire il podcast anche in lingue non conosciute. Brevi presentazioni e incontri con le autrici e gli autori accompagnano gli ascolti. Sonohr mira a esplorare tutte le potenzialità dell’audio: durante l’evento è stato possibile assistere a performance dal vivo e interattive, partecipare a passeggiate audio notturne per le strade della capitale (dove i partecipanti, dotati di cuffie wireless, potevano condividere le esperienze sonore), e prendere parte alle Ear Lesson, incontri con gli artisti invitati, conferenze, talk, masterclass e a un incontro domenicale promosso da eCHo, il network dei professionisti dell’audio in Svizzera. Nei giorni del festival, in diretta dagli angusti spazi della biglietteria della sala cinematografica, viene prodotta anche una trasmissione radiofonica multilingue che viene diffusa live da un network di radio complementari e alternative in tutta la Svizzera: dalla ticinese Radio Gwendalyn a Radio Vostok, Rasa, RaBe, 3fach, Stadtfilter e Kanal K.
Le opere in concorso sono state valutate da una giuria di professionisti composta quest’anno da Christina Caprez, Jonathan Frigeri e Laurent Schmids che ha deciso di premiare Geburt, Kindheit, Label di Ronja Fankhauser e Mischael Escher, una serie radiofonica che racconta l’identità queer. Premiato anche Les seins des hommes della performer e coreografa ginevrina Simona Ferrar che vuole indagare il ruolo che i seni ricoprono nella nostra società.
Due incontri, quello di Milano e di Berna, che dimostrano quanto la narrazione audio e il podcast si stiano rivelando ottimi strumenti per raccontare e riflettere sulla complessità della nostra contemporaneità.
«Mi interessa raccontare i luoghi nella loro verità»
Interviste ◆ La scrittrice Donatella di Pietrantonio sul suo romanzo L’età fragile, tratto da un fatto di cronaca nera
Laura Marzi«È stato doloroso crescere Amanda. Io non la capivo, non capivo cosa volesse da me. Avevo paura di restare sola con lei»: Donatella Di Pietrantonio (nella foto), vincitrice del premio Campiello con il romanzo L’Arminuta (Einaudi, 2017) e finalista al premio Strega con Borgo Sud (Einaudi, 2020) torna con un romanzo sul materno, ma non solo. In L’età fragile racconta anche un terribile delitto avvenuto nel 1997, l’uccisione di due ragazze e il tentato omicidio di una terza che si salvò e testimoniò per dare giustizia alle altre, il cosiddetto delitto del Morrone nel parco della Majella in Abruzzo.
In L’età fragile che è il suo quinto romanzo decide di trarre per la prima volta spunto da un fatto di cronaca nera. Come mai? Come definirebbe tale richiamo?
Quello che mi ha spinto è stato un ricordo affiorato all’improvviso, dopo tanti anni dall’episodio reale. Mi sono chiesta come mai non avessi più pensato a un duplice femminicidio avvenuto su una montagna che posso vedere dalle finestre di casa mia. Eppure conservo abitualmente nella memoria i grandi fatti di cronaca accaduti in Italia. Evidentemente ero entrata anch’io nello
spazio di un rimosso collettivo, che aveva riguardato tutta la nostra comunità. Avevamo dimenticato presto un delitto che confliggeva con la narrazione che sempre ci facciamo del nostro luogo di nascita e di restanza: un posto reso meraviglioso dai boschi, dai prati, e soprattutto un posto sicuro. Una volta che ho ricordato, quell’episodio non mi ha più lasciata in pace. Ho voluto rinominarlo con le parole dell’oggi. All’epoca non esistevano nemmeno le parole per dirlo, il termine femminicidio era di là da venire.
Lei scrive sempre della sua terra e lo fa, è evidente, dopo aver percorso i luoghi in cui si svolgono i suoi romanzi. In L’età fragile la magistrata Manfredi, il pubblico ministero che rappresenta l’accusa al processo, dice: «La natura è bella per i ricchi, non se devi lavorarci come schiavo». Che cosa ne pensa di un certo approccio utilitaristico, superficiale alla natura?
A me interessa raccontare i luoghi nella loro verità, almeno quella che io vedo da dentro, da abitante. Da fuori l’immagine di certi posti è sempre stereotipata, schiacciata in una sola prospettiva, quella del turista che arriva e vede la superficie: l’a-
ria pura, gli arrosticini, un paesaggio montano a poca distanza da Roma, buono per andarci il fine settimana. Ma io non scriverò mai cartoline dall’Abruzzo e se continuo a portarlo nei miei libri è solo perché mi interessa come rappresentante di tutte le terre interne, innervate dalla dorsale appenninica. Mi interessa la loro discendenza da un mondo arcaico, pastorale, chiuso e patriarcale.
Come altri suoi romanzi, Mia madre è un fiume o L’arminuta, questo è un testo anche sul materno: che cosa la ossessiona del materno, la complicatezza inesauribile di dare vita all’estraneità?
Personalmente ho avuto un rapporto difficile con il materno, da bambina e da ragazza. Mi ossessionano le cicatrici che di una madre non riuscita ci portiamo nella vita, sempre, per quanto vogliamo conoscere e curarci le ferite di quella relazione rimasta storta o incompiuta. Come sia facile ricadere nel malessere se è mancato quel primo nutrimento. Come siamo dipendenti da quello sguardo così necessario nella fase che precede il nostro diventare altro da chi ci ha partoriti.
In L’età fragile, però, c’è un passaggio fondamentale, c’è un rapporto
padre-figlia al centro della storia, anch’esso connotato da incomunicabilità. Che cosa accomuna e che cosa distingue per lei queste due relazioni?
Per la prima volta in un mio libro c’è una larga presenza maschile e il personaggio più forte è proprio il padre di Lucia. È stato un patriarca, duro, roccioso, ma anche molto presente nella vita di lei. Non è stato facile combatterlo, emanciparsi, liberarsi dai lacci che le stringeva intorno. Non è stato facile proprio per questa sua presenza che sapeva essere anche amorevole, nel silenzio. Ciò che
sempre trovo interessanti sono proprio le ambivalenze dei rapporti familiari che cerco sempre di raccontare nelle loro complessità.
Lei ha aderito alla campagna Unite, una chiamata rivolta alle scrittrici italiane perché si esprimessero sul tema della violenza contro le donne o con una riflessione o raccontando un’esperienza personale. Le va di parlarcene?
Ho dato volentieri il mio contributo all’azione letteraria Unite, d’altra parte è questo che so fare, non poteva essere diversa la forma della mia partecipazione. Poi, sul potere trasformativo della letteratura nella società, non saprei dire, intanto bisogna vedere quanti leggeranno i nostri contributi, quanti ne resteranno colpiti. Ma io credo che in questa battaglia universale l’importante sia dare, ognuna e ognuno per quello che può, senza calcolare la portata della propria efficacia. I risultati, spero, arriveranno, come somma di innumerevoli interventi individuali, compresi quelli volti a un rinnovamento di un linguaggio che si è strutturato nei secoli intorno a una matrice maschilista.
Bibliografia
Donatella Di Pietrantonio, L’età fragile, Einaudi, Torino, 2023.
Musica – 1 ◆ Se Taylor Swift e le altre dettano l’agenda e fanno girare il mercato
Virginia AntoniucciIcona pop, imprenditrice miliardaria, e, secondo alcuni (soprattutto i Repubblicani), l’asso nella manica di Biden per vincere le prossime elezioni presidenziali statunitensi: non c’è giorno che passi senza imbattersi nel nome di Taylor Swift (nella foto). Prima cantante nominata Persona dell’Anno dal «Times», la superstar americana ha conquistato quattro Grammy per il miglior album superando persino il record di Elvis Presley come artista solista con il maggior numero di settimane in cima alla classifica di Billboard. A soli 34 anni. Ma, in mezzo a tanta gloria, è pure stata eletta la celebrità più inquinante dell’anno. D’altra parte, nello star system, poche figure incantano e irritano simultaneamente come l’ex regina del country e sovrana del pop, diventata il fenomeno musicale mainstream per eccellenza.
La sua ascesa incarna il sogno americano: l’autorealizzazione attraverso il successo e il denaro, plasmata dall’animo contraddittorio dell’America, dove la fama si costruisce con la stessa facilità con cui si distrugge. Mentre negli Stati Uniti si ergono altari alla sua gloria, in Europa, ancora lontani dal culto religioso che gli americani riservano alle loro celebrità, Taylor Swift appare come un’illusione collettiva, una divinità astratta che fa chiedere a tutti perché piaccia così tanto, ma soprattutto perché sia odiata altrettanto intensamente.
Oltreoceano, l’effetto Taylor non è un virus che ha invaso solo le pagine patinate dei settimanali: con la recente relazione con Travis Kelce dei Kansas City Chiefs, ha contagiato anche il giornalismo sportivo. Tutti vogliono conoscere ogni dettaglio della sua vita e tutti vogliono dire la propria. Le sue decisioni politiche, le sue amicizie e le sue relazioni amorose sono esaminate con attenzione dalla lente d’ingrandimento di chi sembra non stancarsi mai di mettere sotto esame le donne famose.
Lo scotto da pagare per essere la «persona più influente dell’anno» è che Taylor Swift ogni giorno si sveglia e sa che dovrà correre più veloce di chiunque altro uomo per meritarsi ciò che a loro viene concesso per diritto di nascita. Deve essere irrealmente perfetta e moralmente integra,
Musica – 2 ◆ Il re del rock sul palco grazie all’IA
Barbara GallinoIl mito ritorna a vivere: Elvis Presley, l’indimenticabile re del rock’n’roll scomparso nel 1977 all’età di appena 42 anni, canterà di nuovo live su un palcoscenico, facendo provare la leggendaria ebbrezza delle sue esibizioni grazie all’intelligenza artificiale. Un Elvis digitale a grandezza naturale realizzato con proiezioni olografiche utilizzando migliaia di fotografie e filmati, sarà infatti il protagonista a Londra di un «concerto immersivo» intitolato Elvis Evolution
un nuovo modo immersivo per sperimentare la vita ed il lascito di Elvis», ha puntualizzato anche Marc Rosen, presidente del gruppo Authentic Brands.
la fidanzata d’America, bionda, snella, bianca, con i suoi look zuccherini da personaggio di Polly Pocket. Ma non è mai abbastanza.
Malgrado il suo enorme successo, Taylor Swift è costantemente sotto i riflettori, scrutata e giudicata. Se è fidanzata, ecco il famigerato articolo del «The New York Times» firmato da Anna Marks che l’addita come lesbica in incognito; se vince un Grammy, Kanye West le dice in mondovisione che non se lo merita; se parla delle sue delusioni d’amore, la sua musica viene etichettata come «pop vittimista»; se rifiuta di rispondere a domande sessiste, interviene l’accusa di femminismo «performativo», utilizzando l’attivismo come una mossa di marketing per difendersi dalle critiche e promuovere la sua musica.
Non bisogna militare negli Swiftie, i suoi fan accaniti, per capire che le truppe anti-Taylor hanno abbracciato con troppo zelo la frase di Gustav Le Bon: «Le folle non hanno mai avuto sete di verità. Dinanzi alle evidenze che a loro dispiacciono, si voltano da un’altra parte, preferendo deificare l’errore, se questo le seduce».
Sembrerebbe che aggettivi come ambizioso e determinato non calzino bene al femminile, non quanto opportunista e calcolatrice.
Non importa se l’Eras Tour di Taylor Swift, il suo show mondiale, abbia rimpolpato il PIL americano generando un giro d’affari di oltre 5 miliardi di dollari; per i media tradizionali, una donna che non nasconde il suo successo è la principale sospettata per qualsiasi crimine della buon costume.
Più la star mondiale accumula potere e denaro, più diventa il «punchball» di chiunque voglia sfogare un po’ di frustrazione.
Da un lato, è un’icona sacra d’indipendenza, che da sola ha costruito un impero infrangendo ogni record nell’industria musicale. Dall’altro, una celebrity che inquina con il suo jet privato per puro capriccio, accusata di sfruttare il suo status sociale per arricchirsi a spese dei propri
fan, vendendo edizioni limitate di album a prezzi esorbitanti e promuovendo una cultura del consumismo esasperato.
Sull’onda di Taylor Swift, Beyoncé con il suo Renaissance Tour, la nazionale femminile di calcio spagnola vincitrice dell’ultimo mondiale e la carica cinematografica femminista capitanata da Barbie hanno dato vita a nuovo concetto: la girl economy, un’economia femminile generata da donne e alimentata, principalmente, dalle stesse che spaventa anche i manipolatori finanziari in imbarazzo di fronte alle donne armate di carte di credito e dotate di conoscenza socio-economica.
Come sostiene l’economista Azzurra Rinaldi, autrice di Le donne non parlano di soldi (Rizzoli 2023), non è un caso che il primo passo dell’abusante, per tenere la donna sottomessa, sia privarla di una fonte di guadagno. Di riflesso non sorprende una società che si irrigidisce e si oppone all’emergente potere finanziario femminile sminuendolo.
Mentre si applaude all’empowerment che promuove, molti ci vedono una forma di femminismo addomesticato, pronto a capitalizzare i movimenti sociali in nome dell’emancipazione.
Esaminando gli Swiftie, ci rendiamo conto che la girl economy non ruota solo attorno al consumismo sfrenato tinto di rosa ( pinkwashing), ma fa leva anche sul supporto reciproco, la solidarietà e la condivisione di esperienze femminili. I fan non si limitano ad acquistare la musica e il merchandising di Taylor Swift; sono loro il motore che la spinge costantemente al vertice delle classifiche con streaming incessanti.
I media ci hanno sempre servito delle ottime ragioni per cui indignarci, ma dei capri espiatori sbagliati. Il rischio è di essere manipolati da una narrazione patriarcale che vuole vedere donne contro donne.
Taylor Swift non è una persona perfetta e il femminismo non la esonera dall’essere messa in discussione, ma ogni tanto isognerebbe chiedersi perché molti desiderino così tanto la caduta di una donna senza lasciarle vivere quella gloria che un giorno potrebbe essere accessibile a molte di più.
Lo show debutterà il prossimo novembre – ovvero un paio di mesi prima di quello che sarebbe stato il 90mo compleanno della star – in una location per il momento ancora imprecisata, nel centro della capitale britannica, che includerà anche un bar e ristorante a tema dove gli spettatori saranno invitati ad un party dopo lo spettacolo, con tanto di DJ e musica dal vivo. The King varcherà così per la prima volta i confini del Nord America, per portare la sua carismatica presenza in Europa e anche in Asia. Elvis, infatti, nonostante lo straordinario ed imperituro successo globale, nella sua breve vita suonò solamente negli Stati Uniti ed in Canada. Le sue performance tuttavia erano talmente elettrizzanti da causare nel pubblico manifestazioni di isteria collettiva mai registrate prima, che certamente contribuirono a diffondere il mito e rendere il cantante un’icona mondiale della musica. «Attraverso l’I.A. ed una tecnologia rivoluzionaria, sarà possibile assistere ad emblematiche esibizioni di Elvis come se si fosse davvero lì, celebrando così momenti decisivi della straordinaria vita e carriera dell’artista», ha annunciato la società britannica Layered Reality, che realizzerà lo spettacolo a seguito di un accordo con il gruppo statunitense Authentic Brands, detentore dei diritti sulla produzione di Presley. Realtà aumentata ed effetti multi-sensoriali trasporteranno i fan come una macchina del tempo indietro di decenni, facendo sperimentare loro la meteorica ascesa al successo della rockstar ed il movimento culturale da lui catalizzato negli anni Cinquanta e Sessanta.
«Farete un viaggio provando davvero le esperienze che Elvis ha attraversato nel corso della sua vita», ha spiegato in un messaggio promozionale Andrew McGuinness, fondatore e amministratore delegato di Layered Reality. «Lo spettacolo sarà un vero crescendo, culminante con il cantante a grandezza naturale generato dall’intelligenza artificiale, che si esibisce in alcune delle sue maggiori hit», ha anticipato McGuinness. «Siamo entusiasti di collaborare con Layered Reality per offrire ai fan
Nonostante siano trascorsi 47 anni dalla sua scomparsa, Presley continua a rimanere vivo nell’immaginario collettivo, tanto da essere stato oggetto solamente nell’ultimo paio d’anni di due importanti pellicole: Elvis di Baz Luhrmann, che è valsa all’attore Austin Butler un Golden Globe per la magistrale impersonificazione del rocker; e Priscilla, il film di Sofia Coppola con Jacob Elordi, che racconta il rapporto del cantante con la moglie Priscilla Beaulieu.
Elvis Evolution segue lo straordinario successo di Abba Voyage, il concerto che dal maggio del 2022 vede ogni sera gli avatar dei membri del leggendario quartetto pop svedese cantare in un’arena per 3000 spettatori costruita ad hoc nella periferia est di Londra, come se il tempo si fosse fermato agli anni Settanta. Lo spettacolo digitale degli Abba, per la cui realizzazione sono stati impiegati 7 anni di lavoro e 140 milioni di sterline di investimento, frutta circa 2 milioni di sterline alla settimana ed è diventato una delle attrazioni della capitale, aprendo le porte ad un nuovo tipo di intrattenimento.
Per creare gli ABBA-tar, i componenti del quartetto si erano incontrati per oltre un mese tutti i giorni dalle 10 alle 17, esibendosi davanti a 200 obiettivi ed una troupe di 40 persone che li riprendeva mentre indossavano tute speciali per registrare le loro movenze. Tali movimenti sono stati poi replicati con esattezza da controfigure più giovani per invigorire la performance, e utilizzati per animare le versioni digitali dei cantanti.
Poiché a differenza della band scandinava, The King non potrà dare alcun input al suo ritorno sulle scene, il suo alter ego virtuale sarà integralmente prodotto sulla base di immagini e filmati di repertorio.
Generata da un arresto cardiaco favorita da un notorio regime alimentare malsano e da un prolungato abuso di farmaci, la morte prematura della rockstar ha sicuramente contribuito ad accrescerne il mito, tanto che Graceland – la tenuta dove abitava a Memphis – è stata dichiarata dal governo degli Stati Uniti monumento nazionale ed è tuttora la seconda casa più visitata d’America dopo la Casa Bianca. Presley resta ancora oggi l’unico artista inserito in ben quattro Hall Of Fame (rock, gospel, country e rockabilly). Con 61 album all’attivo, si stima che abbia venduto oltre 1 miliardo di dischi in tutto il mondo.
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Cinema ◆ Un racconto dell’edizione appena conclusa tra vincitori, partenze e polemiche politiche
Nicola FalcinellaNel febbraio 2000 il Theater am Potsdamer Platz, progettato da Renzo Piano e inaugurato nei mesi precedenti, divenne la sede del Berlino Film Festival. La piazza divisa dal Muro, location indimenticabile de Il cielo sopra Berlino (1987) che aveva ospitato l’enorme concerto di Roger Waters del ’90, da più grande cantiere d’Europa stava diventando il simbolo della metropoli riunita che riprendeva un nuovo ruolo a tutti i livelli.
Nel passaggio tra i direttori Moritz de Halden e Dieter Kosslick, entrambi in carica per circa due decenni, il festival visse un’epoca d’oro. Da una parte la tradizionale attenzione ai temi politici e sociali, l’apertura all’est (che dal blocco ex sovietico e il Medio Oriente s’allungava al Pacifico), dall’altra le anteprime di grandi film americani quali La sottile linea rossa, Magnolia o Il petroliere. In parallelo la crescita dell’European Film Market, capace di avvicinarsi a quelli di Cannes e Los Angeles.
Il mondo del cinema è più in fermento di quanto sembri, così il cambiamento di strategie degli Studios americani in vista degli Oscar, l’aumento dei costi per ospitare le grandi star, la crescente concorrenza tra le manifestazioni internazionali e il procedere della globalizzazione nelle sue infinite ripercussioni hanno prodotto molti cambiamenti negli anni seguenti.
La Berlinale ha resistito alle scosse sempre più forti accumulatesi nell’ultimo quindicennio grazie al prestigio, alla storia e alla forza politica ed economica della Germania (non è secondario che sia tra i Paesi più impegnati nelle coproduzioni e proprio le coproduzioni tedesche costituiscono una parte sostanziosa del programma del festival), facendo di necessità virtù, rinunciando a qualche nome di primo piano per dedicarsi alle scoperte.
La globalizzazione ha fatto sì che la Berlinale perdesse alcune connessioni con la città che lo ospita, fenomeno comune alle grandi kermesse, ma non privo di pericoli
Se il fenomeno dell’internazionalizzazione ha ovunque stravolto manifestazioni e città, Berlino è diventata uno dei fulcri del cambiamento e uno degli esempi più vistosi dell’omologazione forzata. Capitale ufficiale e capitale della cultura underground, la metropoli del Brandeburgo teneva insieme tante anime che vi trovavano i loro spazi. L’esplosione dalla Gig economy, i grandi gruppi che gestiscono ricettività e appartamenti in affitto, gli acquisti di immobili da parte dei grandi fondi di investimento e la gentrificazione dilagante hanno portato a un aumento sconsiderato del costo della vita berlinese e a nuovi assetti cittadini. La stessa Potsdamer ha perso importanza e centralità, con la chiusura dell’iconico Sony Center e della sottostante multisala, i tanti lavori che hanno interessato centri commerciali e strade limitandone l’utilizzo. Così il festival ha dovuto cercare sale più distanti, anche per le proiezioni stampa, costringendo gli addetti ai lavori a corse in città o a ritrovarsi i pomeriggi quasi senza proiezioni. Queste difficoltà logistiche rischiano di aumentare con l’annunciato trasferimento del Kino Arsenal, gestito dal Museo del cinema, in altre zone di Berlino.
La globalizzazione ha fatto sì che la Berlinale perdesse alcune connessioni con la città che lo ospita, fenomeno comune alle grandi kermesse, ma non privo di pericoli: i festival sono corpi vivi, non sono interscambiabili e si innestano nello spirito delle città che li generano.
Berlino è una città di tante minoranze molto attive e molto radicali e il festival in questi anni ha mostrato molta attenzione alle questioni di genere e ambientali (anche con iniziative più di apparenza che di sostanza) e, soprattutto quest’anno, al post-colonialismo.
Le contraddizioni che a volte covano soltanto sotto la cenere, sono esplose stavolta con le polemiche della serata di premiazione. La consegna dei premi si è trasformata quasi in una protesta filo-palestinese e anti-Israele per la quale qualcuno premeva dall’esterno fin da inizio festival. È si è riaperta la ferita che in Germania brucia sempre. Il regista americano Ben Russell, che con Guillaume Cailleau aveva vinto il premio della sezione parallela Encounters Direct Action, è salito sul palco indossando la kefiah e parlando di un genocidio in atto a Gaza. A questo sono seguiti i gesti e le parole delle giurate Véréna Paravel e Jasmine Trinca e dei registi Basel Adra e Yuval Abraham, uno arabo l’altro israeliano autori di No Other Land. Messaggi che hanno indotto il sindaco di Berlino Kai Wegner, presente alla cerimonia, a ribadire che «Berlino è saldamente dalla parte di Israele».
Questi contrasti, che danno voce a divisioni purtroppo molto profonde e radicate nell’opinione pubblica, hanno un po’ rovinato la festa per l’addio del direttore artistico Carlo Chatrian, che, con il direttore esecutivo Mariette Rissenbeek, ha gestito cinque edizioni difficili, cominciando dal trovarsi ad affrontare la pandemia. L’edizione di fine febbraio 2020 si tenne in un clima di preoccupazione crescente e fu l’ultima prima della lunga chiusura generale; nel 2021 Berlino è stata, con Rotterdam, l’unica grande rassegna a tenere un’edizione online; nel 2022 il lento ritorno con i vaccini e i tamponi quotidiani; il 2023 e 2024 con la riapertura totale.
Se si guardano i film premiati e i registi lanciati, i bilancio del valdostano ex direttore di Locarno è positivo. Sul fronte più generale e politico, è stato criticato per non aver dato abbastanza spazio al cinema di casa e non aver portato molte star.
A volte i direttori si prendono le
responsabilità di scelte non loro, dovendo mediare e adeguarsi alle circostanze. Il piazzamento dei film nei festival, soprattutto quelli più attesi e richiesti, è spesso fatto dai grandi venditori internazionali, dalle distribuzioni o dai produttori, a seconda delle strategie distributive o della corsa ai premi. I direttori e i selezionatori lavorano soprattutto sui rapporti personali: non è un caso che Carlo
Chatrian abbia portato a Berlino i registi lanciati o ospitati a Locarno, da Radu Jude a Hong Sangsoo, da Tom Wilkerson a Matias Piňeiro.
La sostituta già annunciata Tricia Tuttle avrà un compito difficile: arriva da Londra, che è un altro grande festival cittadino, ma con caratteristiche completamente differenti, non si fonda sulle anteprime mondiali e corre meno rischi, scegliendo tra film già passati
tra Cannes, Venezia, Toronto, Telluride, San Sebastian o la stessa Locarno. Tuttle prenderà in mano un festival che festeggerà le 75 edizioni dovendo abituarsi al ricollocarsi di anno in anno: l’augurio è che tenga conto di storia e novità, senza inseguire troppo le mode del momento.
La selezione 2024 è stata abbastanza buona, con un bel gruppo di film riusciti (quasi tutti i premiati del concorso). Logico, tirando le somme, l’Orso d’oro a Dahomey della franco senegalese Mati Diop (nella foto) che era stata premiata a Cannes nel 2019 con l’esordio Atlantique. Un documentario politico sulla restituzione di 26 statue antiche dalla Francia al Benin, che parla di decolonizzazione in modo molto simile a Pepe del dominicano Nelson Carlos De Los Santos Arias, la rivelazione del concorso e vincitore dell’Orso d’argento di miglior regista.
Si deve consolare con i premi della giuria ecumenica e della stampa l’iraniano My Favourite Cake, insolita commedia sociale e sentimentale su un amore della terza età. In Hors du temps Olivier Assayas riflette in maniera autoironica sul periodo del covid e del confinamento, sul tempo sospeso, sulla riscoperta delle origini e le convivenze forzate. Tra le sorprese l’italo-svizzero Gloria! dell’esordiente Margherita Vicario, una curiosa e liberatoria favola musicale nella Venezia del 1800.
Carissima, ti ricordi? Mi avevi chiesto il favore di accompagnare tua zia all’ospedale per una visita oculistica. Al centralino l’avevano prenotata per il dicembre del 2006, l’unico modo per passare subito era andare al pronto soccorso. Bene, l’ho persa. Mi hanno assicurato che non è per sempre, che le zie prima o poi le ritrovano. L’ho persa quando mi sono messo in fila davanti al Totem giallo che genera i ticket. Avevo con me tutti i dati di tua zia per essere pronto a rispondere alle domande della macchina. Se hai qualche esitazione il totem giallo ti comunica «Tempo scaduto!» e tu devi ricominciare tutto da capo. La macchina mi ha chiesto il segno zodiacale di tua zia. Sapendo che è nata il 22 maggio ho risposto: «Gemelli», ma poi, quando mi ha domandato l’ascendente, non ho saputo rispondere. Tua zia, che legge sempre il suo oroscopo, di sicuro lo sapeva ma
quando sono tornato da lei era scomparsa. Non c’era più. Al suo posto un tale con un martello pneumatico stava scavando un tunnel per mettere dei cavi. «Stiamo lavorando per voi», ha risposto quando gli ho chiesto dov’era finita l’anziana signora che prima sostava in quel punto. A forza di vagare dentro quella gabbia di matti ho poi trovato tua zia in ortopedia: le stavano ingessando il braccio sinistro. «Ma come?», le ho domandato, «non gli hai spiegato che sei qui per una visita oculistica?» «Certo che ho protestato, ma mi hanno risposto: se dessimo retta a tutto quello che dicono i pazienti staremmo freschi. Vanno su Google e diventano tutti medici». Pagando un altro ticket ho ottenuto che le togliessero il gesso e, dopo aver rifatto la fila al Totem, ci siamo messi in attesa del nostro turno davanti al reparto giusto. Dopo un po’ che eravamo lì in attesa, ho incominciato a notare che chiamava-
Per quanto possa apparire come storia recente, il dibattito sociologico sul voyeurismo televisivo non rappresenta certo una novità: d’altra parte, se già ai tempi di una trasmissione chiacchierata quale Il Grande Fratello ci si interrogava sul significato recondito delle tendenze «da guardoni» del pubblico, la morbosa curiosità verso i fatti altrui (meglio se tragici, drammatici o anche disgustosi) è oggi divenuto il medesimo principio su cui si basa l’immensa industria dei social network.
Tuttavia, quando si tratta dei recenti programmi di maggiore successo della televisione di lingua inglese –tutti importati con notevoli riscontri alle nostre latitudini – non si può che rimanere disorientati davanti alla natura stessa dei concept, intrisa di fattori quantomeno inquietanti. Soprattutto nel caso della TV americana, ci troviamo infatti ad assistere
a incursioni nella più pura patologia psichiatrica: basti pensare a serie come Hoarders e Sepolti in casa – in cui accumulatori seriali sull’orlo dello sfratto si ritrovano costretti a ripulire le proprie case – o a Vite al limite, finestra sulle storie disperate di persone esageratamente obese e dipendenti dal cibo che, ormai in pericolo di morte, si rivolgono al Dr. Nowzaradan, esperto in cure bariatriche. E ce n’è per tutti i gusti, con trasmissioni che toccano ogni gamma dello spettro patologico: da Malati di pulito, i cui protagonisti trascorrono le giornate pulendo in modo ripetitivo e delirante ogni angolo di casa, a The Nightmare Neighbour Next Door, che vede i famigerati vicini di casa dipinti come il nemico pubblico nr. 1, soddisfacendo un classico luogo comune dell’immaginario collettivo.
Naturalmente, di primo acchito, si-
no dei pazienti arrivati dopo di noi. Ho domandato a un’impiegata come mai ci scavalcavano e lei mi ha fatto una confidenza: quei pazienti erano affetti da malattie rare. I medici sono avidi di quel tipo di malattie perché possono farci degli studi e fare bella figura ai congressi. Così mi sono inventato una malattia rara. Quando l’infermiere ha chiamato un tale arrivato dopo di noi, facendo la vocetta implorante e gli ho chiesto: «Scusi, perché la signora non l’avete ancora chiamata?»
Ha replicato brusco: « Quando sarà il suo turno la chiameremo» «Strano. Il dottore, quando ha sentito il nome della sua malattia, ha detto che voleva visitarla subito».
L’infermiere ha abboccato: «Come si chiama la malattia della signora?»
Ho sospirato: «La signora è affetta dalla sindrome di Wilamowits Moellendorff».
Sono andato sul sicuro, Ulrich von
Wilamowits Moellendorff è stato un filologo classico, avevo controllato su Google, non esiste un malattia con quel nome.
Dopo tre minuti sono usciti cinque camici bianchi, hanno afferrato tua zia, l’hanno portata di là e mi hanno chiuso la porta in faccia. È stata quella l’ultima volta che l’ho vista. Non mi sono arreso, sono andato in amministrazione a informarmi. Sono stati molto gentili: «Abbiamo controllato su Internet, quella malattia non esiste».
«Certo che non esiste», ho replicato. «L’ho inventata io».
«Vede che abbiamo ragione? È impossibile che quella signora sia stata ricoverata qui da noi perché non avremmo mai potuto registrarla come affetta dal morbo di Wilamowits Moellendorff».
«Non è un morbo», ho insistito. «Caso mai è una sindrome» Ho chiesto umilmente cosa potevo
fare per riavere tua zia anche se la sua presenza non era registrata nella memoria del loro data base. «Bisogna aspettare che facciano tutte le analisi necessarie per definire i parametri di questo nuovo morbo. Solo quando saremo in possesso del quadro clinico completo potremo introdurre i dati nel nostro archivio digitale e, se saremo stati esaurienti, il sistema l’accetterà. Solo a quel punto sarà disposto a riconoscere la presenza nel nostro ospedale della signora e autorizzare la sua dimissione». Carissima, secondo il mio parere spassionato, tua zia sta meglio lì che a casa sua. È guardata da un esercito di medici, le fanno tutte le analisi possibili e immaginabili. Il suo nome finirà sui trattati di medicina come il primo essere umano trovato affetto dalla sindrome (o, se preferisci, dal morbo) di Ulrich von Wilamowits Moellendorff.
Il tuo affezionatissimo Bruno.
mili seguitissimi programmi potrebbero suscitare la stessa domanda che sorge spontanea dopo ogni incursione tra i «vlogs» più popolari di YouTube – ovvero, per quale motivo l’atto di spiare in casa d’altri dovrebbe essere considerato come intrattenimento? Tuttavia, in questo caso un fattore ben più inquietante entra a far parte dell’equazione: il desiderio morboso del pubblico di assistere da vicino alle manifestazioni più avvilenti del disagio psichico di individui e intere famiglie, osservandone con malcelata soddisfazione il calvario.
A tal proposito, in molti hanno stigmatizzato il cinismo della trasmissione Hoarders in confronto alla sua controparte britannica (Britain’s Biggest Hoarders), la cui presentatrice mostra un approccio più delicato e comprensivo nei riguardi di personaggi spesso esasperanti, senza mai
Alle tre e quaranta del mattino, il buio è un tappeto nero in una fitta umidità nebbiosa. All’estrema periferia della metropoli – edilizia selvaggia e abusiva – non esiste marciapiede e rade automobili la schivano sfrecciando a velocità suicida mentre lei si destreggia tra asfalto screpolato, buche in cui ristagna l’acqua piovana, cespugli di vegetazione infestante, sbrindellate recinzioni metalliche. Alle quattro i fari globulari del bus notturno squarciano l’oscurità, il parallelepipedo illuminato caracolla fino alla fermata. A bordo poche sagome confuse, sempre le stesse. Quasi tutte straniere arruolate da qualche impresa di pulizie. La testa sul finestrino, Yulija rosicchia una ventina di minuti di sonno, poi scende e aspetta l’autobus delle cinque. D’inverno il freddo punge le ossa, ma in Ucraina, a gennaio, potevano esser-
ci venti gradi sottozero. L’ultimo bus lo prende alle cinque e quarantacinque. Se avesse un’automobile, impiegherebbe poco più di quaranta minuti ad attraversare la città. Ma non può permettersela. Yulija è arrivata in Italia ventitré anni fa. La cugina le aveva proposto di sostituirla qualche mese per far le pulizie in casa di un farmacista. Ha imparato in quell’appartamento a lucidare parquet, fornelli, sanitari. Benché non si fosse mai occupata di lavori domestici, si è fatta subito una reputazione. Onesta, puntuale, riservata. È passata di famiglia in famiglia. All’inizio pensava che, una volta imparato l’italiano, avrebbe potuto chiedere l’equipollenza della laurea in ingegneria mineraria e trovare un lavoro migliore. Ma poi la burocrazia, la lingua, i costi l’hanno dissuasa. E doveva mandare soldi a
casa: per far studiare la figlia. Così ha firmato con una cooperativa e da allora pulisce gli uffici di una multinazionale, in uno scintillante palazzo di vetro. Nonostante la sveglia di notte, e i ritmi della vita invertiti (rientra a casa nel pomeriggio, e va a dormire che è ancora giorno), a Yulija il suo lavoro piace. La rassicura il silenzio che la circonda, mentre spinge il carrello ricolmo di secchi, stracci e flaconi di disinfettante nei corridoi vuoti che solo da metà turno si animano di impiegati e dirigenti. Conosce i loro nomi dai cartellini sulle porte; ha imparato a distinguere le loro mansioni. Nella stanza in fondo lavora una donna che potrebbe essere lei. Ha la sua stessa età, la stessa laurea. Quando svuota il cestino della carta straccia, riconosce tabulati, disegni, calcoli familiari. Ma l’altra donna è nata
lasciarsi andare a facili giudizi o moralismi. Ciononostante, è chiaro che, al di là delle (forse) nobili intenzioni di qualche produttore, convinto dell’utilità di mostrare al mondo come sia possibile risollevarsi da situazioni apparentemente disperate, l’elemento più importante, in termini di audience televisiva, resta quello della più sfacciata morbosità. Lo dimostra l’enfasi sulle storie personali dei protagonisti, evidente nel già citato Hoarders come in tutti gli altri show: infatti, se da un lato è legittimo affrontare il problema del comportamento accumulatorio tramite una terapia che vada a ricercarne la causa nel passato, l’insistenza dei produttori a voler ricercare la «tragedia a tutti i costi» risulta sospetta, specialmente quando il fattore spettacolo viene ulteriormente enfatizzato dalla scelta di costringere il malcapitato di turno a svuota-
re la propria casa nello spazio di soli tre giorni – il che, naturalmente, lo conduce spesso sull’orlo del collasso nervoso, facendo affiorare conflitti famigliari e tensioni di ogni tipo a beneficio degli spettatori avidi di psicodrammi.
Stabilito quindi che la solidarietà ha ben poco a che fare con il successo di questi programmi, resta solo, a giustificarne l’esistenza, la medesima fascinazione malata che portava il pubblico ad affollare i «freak show» di epoca vittoriana; e se ciò sembra suggerire come, nonostante le speranze, la nostra società non sia poi troppo diversa da allora, ecco che forse occorre cominciare a porsi alcune domande su come i media odierni dovrebbero dipingere i membri più fragili della comunità: se come fenomeni da baraccone, o piuttosto come individui da proteggere.
qui, lei in una cittadina industriale sovietica, e le loro vite non si assomigliano. L’altra non si accorge di lei. Yulija è alta e massiccia, ha i capelli tinti di un biondo canarino – eppure è invisibile.
Una mattina, mentre aspetta il terzo autobus, l’abborda un ubriaco. Straniero pure lui. Farfuglia, pretende soldi, la abbranca. Yulija non porta mai contanti con sé, ma in borsa ha i documenti, e resiste. L’altro le affonda più volte il coltello nel braccio. L’ennesima aggressione nella zona degradata della stazione suscita scalpore. La notizia finisce in cronaca, una consigliera del Comune la visita in ospedale promettendo assistenza, la ditta le recapita un mazzo di fiori. La prognosi è di quaranta giorni. Ma il tendine è stato reciso e Yulija non recupera la funzionalità del braccio. Non può più spingere il carrello né
sollevare il secchio. L’aggressore – un fantasma pure lui – è riuscito a dileguarsi e non vi sarà risarcimento. Ma le riconoscono un’invalidità del 75%. A cinquant’anni, Yulija chiede all’università il riconoscimento del titolo di studio e supera gli esami necessari. Non si chiede se un’ingegnera ucraina in età quasi da pensione vincerà un concorso o sarà assunta. Ma il giorno della laurea, con una corona d’alloro sui capelli, festeggia con le ex colleghe della ditta, fiere di lei, e la figlia venuta da Dresda. Ha progetti, non rimpianti. Il suo minerale preferito è sempre stato il titanio. Leggero, duro, duttile, resiste alla corrosione. Lo usano per fabbricare orologi e protesi per riparare corpi umani. Anche nella terra più desolata può nascondersi un tesoro. La disgrazia dovrà diventare la sua miniera.
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5. 3 – 11. 3. 2024
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Il clima all'interno delle grotte e l'attenta cura del casaro assicurano un aroma forte e armonioso, la tipica consistenza friabile e un gusto finale che si protrae alla consumazione.
2.40
15%
1.70
15%
1.90
15%
1.90
Formaggini
–.95
6.75
Il
7.90
Cornatur scaloppine al pepe e al limone o cordon vert, per es. scaloppine, 2 x 220 g, (100 g = 1.80)
conf.
20%
Tutti gli yogurt Elsa, IP-SUISSE per es. stracciatella, 180 g, –.75 invece di –.95, (100 g = 0.42)
Mozzarelline
Alfredo Classico o Migros Bio, per es. Alfredo Classico, 2 x 160 g, 4.– invece di 5.–, (100 g = 1.25)
4.50 invece di 5.30
Mezza panna UHT Valflora, IP-SUISSE 2 x 500 ml, (100 ml = 0.45)
20x
3.95
Cathedral City Plant Based a fette prodotto vegano, 150 g, in vendita nelle maggiori filiali, (100 g = 2.63)
15%
3.80
invece di 4.50
Uova di Pasqua svizzere con macchie, da allevamento all'aperto, IP-SUISSE 6 x 50 g+
20x
1.70 Drink all'avena V-Love Barista bio 500 ml, in vendita nelle maggiori filiali
Bontà
LO SAPEVI?
I legumi vantano un elevato tenore di fibre e vengono quindi digeriti in modo lento e omogeneo, saziano a lungo e prevengono gli attacchi di fame. Inoltre non vi è nessun altro alimento così ricco di proteine vegetali, motivo per cui sono particolarmente importanti nella dieta di vegani e vegetariani.
20%
30%
20%
Consiglio: arrostire e servire su un letto di insalata
30%
Approvvigionamento e coltivazione sostenibili
30%
20%
Tutte le olive non refrigerate (prodotti Alnatura e Demeter esclusi), per es. olive spagnole nere snocciolate M-Classic, 150 g, 2.20 invece di 2.70, (100 g = 1.47)
34%
2.90 invece di 4.40
Pasta Garofalo spaghetti, farfalle o penne, in confezione speciale, 750 g, (100 g = 0.39)
23%
8.95 invece di 11.70
Tonno M-Classic, MSC in olio o in salamoia, 6 x 155 g, (100 g = 0.96)
Una
20%
Tutti i sughi per pasta e le conserve di pomodoro, Migros Bio per es. passata di pomodoro, 360 g, 1.45 invece di 1.80, (100 g = 0.40)
Nel reparto frigo
20%
Joujoux o snack, Zweifel
in conf. speciali o in conf. multiple, per es. Joujoux alla paprica, 3 x 42 g, 3.70 invece di 4.65, (100 g = 2.94)
5.95
di 7.90
Snack Vaya Zweifel
Bean o Protein, 2 x 80 g, (100 g = 3.72)
22%
Flûtes al sale o mini al formaggio, per es. al sale, 2 x 130 g, 4.95 invece di 6.40, (100 g = 1.90)
20%
Tutto l'assortimento di pasta fresca Garofalo per es. trofie, 400 g, 3.95 invece di 4.95, (100 g = 0.99)
8.90
Asia Snacks
Mini Springrolls Vegi o Banana Shaped Shrimps, ASC, per es. Mini Springrolls Vegi, 20 pezzi, 500 g, (100 g = 1.78)
20x
Novità
3.10 Triangoli Party 180 g, (100 g = 1.72)
Dolci e cioccolato
30%
Tavolette di cioccolato Frey al latte con nocciole, al latte finissimo o Giandor, per es. Giandor, 6 x 100 g, 9.20 invece di 13.20, (100 g = 1.53)
33%
9.95
invece di 14.95
Di Ovomaltine in azione ci sono anche il müesli, la polvere e le barrette
17%
6.50
invece di 7.90
30%
20%
20%
Maltesers in conf. speciale, 400 g, (100 g = 1.63)
13.25
invece di 18.95
Ovetti Lindt Lindor al latte in conf. speciale, 450 g, (100 g = 2.21)
Prodotti per la colazione Ovomaltine müesli, prodotti in polvere, barrette o Crunchy Cream, per es. Crunchy Cream, 2 x 400 g, 7.90 invece di 9.90, (100 g = 0.99)
Miscela pasquale Frey 1 kg
10.50
invece di 13.20
Ovetti Ovomaltine in conf. speciale, 300 g, (100 g = 3.50)
In offerta c'è anche il gelato su stecco gusto moca
33%
Gelato da passeggio alla panna con la foca prodotto surgelato, disponibile in diverse varietà, (escl. articoli spacchettati), per es. vaniglia, 12 pezzi, 684 ml, 4.90 invece di 7.30, (100 ml = 0.72)
22%
20%
a
–.60
5.95
Succhi freschi Andros
75 cl e 1 l, disponibili in diverse varietà, per es. succo d'arancia, 1 litro, 4.40 invece di 5.50
conf. da 6
30%
Succhi di frutta Sun Queen disponibili in diverse varietà, 1 l e 6 x 1 l, per es. arancia, 6 x 1 l, 11.55 invece di 16.50, (1 l = 1.93)
25%
Tutte le birre analcoliche per es. Non Lager, 330 ml, –.90 invece di 1.20, (100 ml = 0.27)
Bibite per aperitivo della marca Apéritiv in confezioni multiple, per es. acqua tonica, 6 x 500 ml, 5.25 invece di 7.50, (100 ml = 0.18)
33%
invece
di 6.40
20x
17.95 Sieri per il viso Zoé Expert per es. alla ceramide, 30 ml, (10 ml = 5.98)
20x
CUMULUS Novità
19.95 Crema viso Naked Barrier Repair Hej Organic 30 ml, (10 ml = 6.65)
CUMULUS Novità l'elasticità
20x
CUMULUS Novità
20x
CUMULUS Novità
CUMULUS Novità
4.60 Salviettine disinfettanti Sterillium 2 in 1 15 pezzi
a
Prodotto testato da organi indipendenti
3.95 Crema da notte per pelle normale I am Face 50 ml, (10 ml = 0.79)
25%
Tutto l'assortimento Lavera (prodotti Alnatura e solari esclusi), per es. gel doccia
Deodoranti Rexona per es. roll-on Cobalt Dry 48h, 2 x 50 ml, 3.60 invece di 4.80, (10 ml = 0.36)
Qualità come nel commercio specializzato
7.40
Deodoranti Axe per es. spray Africa, 2 x 150 ml, (100 ml = 2.47)
Tutto l'assortimento M-Plast (confezioni da viaggio escluse), per es. cerotti Comfort, 10 pezzi, 2.25
Detersivi
Il gel è composto da ingredienti puramente naturali che facilitano la dentizione del bebè. La sostanza Citroganix, estratta dalle arance, protegge dai batteri che causano la carie. Va applicata regolarmente sulle setole di silicone del succhietto da dentizione. Succhiando il bambino massaggia delicatamente le gengive.
20x
Novità
10.95 Gel da dentizione Nuby con succhietto dentaruolo 4
20%
12 matite acquerellabilicolorate
Hit
9.95
30%
Pennarelli fini Paper & Co. 50 pezzi
30%
4.85 invece di 6.95
Matite colorate
Maxi Bellcolor, FSC®
12 pezzi
20%
Tutto
7.95
30%
Tutto
15%
16.95
Rose
50%
Branches Frey
Milk o Dark, in conf. speciale, 50 x 27 g, per es. Milk, 12.– invece di 24.75, (100 g = 0.89), offerta valida dal 7.3 al 10.3.2024
40%
2.90 invece di 4.90
Pomodori Aromatico
Paesi Bassi, vaschetta da 500 g, (100 g = 0.58), offerta valida dal 7.3 al 10.3.2024
a partire da 2 pezzi
50%
Tutto l'assortimento Nivea (confezioni da viaggio, confezioni multiple e set regalo esclusi), per es. siero antimacchie Luminous 630 Nivea, 30 ml, 15.– invece di 29.95, (10 ml = 5.00), offerta valida dal 7.3 al 10.3.2024