SOCIETÀ
L’ipertensione nei bambini è piuttosto rara, ma ci sono dei fattori di rischio come l’obesità
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Tariq il bello va alla sbarra
Tariq, il più famoso dei fratelli Ramadan, teologo per eccellenza del dialogo tra mondo islamico ed europeo, finisce a processo per violenza carnale e coazione sessuale. Una donna convertita all’Islam l’accusa di avere brutalmente approfittato di lei in un albergo ginevrino nel 2008. Una storiaccia rafforzata da testimonianze analoghe giunte in passato da altre quattro ragazze in Francia. Ferma restando la presunzione di innocenza – lui nega ogni addebito – a meno di una sentenza di segno opposto (il verdetto è previsto tra due giorni), Ramadan rischia dai due ai dieci anni di carcere. Sappiamo poco della vicenda criminale e ci auguriamo che alla fine trionfino la verità e la giustizia.
Tariq è sempre stato al centro di furibonde controversie. Ma avvenivano a un livello completamente diverso; più alto, prezioso e perfino necessario. Ramadan ci obbligava a riflettere su una delle questioni più roventi della modernità: il rapporto dell’Occidente europeo e svizzero con la galassia sfuggente dell’Islam.
Dei pensatori musulmani inseriti nel nostro contesto, Tariq era non solo il più presentabile, ma anche il più acuto. Niente a che vedere con la predicazione sanguigna di suo fratello maggiore, Hani, che dal Centro islamico di Ginevra sosteneva che la lapidazione degli adulteri non è poi così crudele (ma davvero? Com’è che non riusciamo a capirlo?). Poco da dividere, almeno in apparenza, anche con le dottrine di suo nonno Hassan al-Banna, storico fondatore in Egitto dei Fratelli Musulmani, movimento politico-religioso che numerosi osservatori considerano – a torto o a ragione – ispiratore di vari gruppi terroristici di matrice islamica. Prima del crollo d’immagine dovuto alle citate accuse, si presentava come un dotto charmeur, idolatrato dagli allievi e coccolato dai media per quel suo atteggiamento quasi messianico di «costruttore di ponti» tra universi apparentemente inconciliabili. Una vedette internazionale, il profes-
TEMPO LIBERO
La fatica non è da intendersi solo in modo negativo: allenarla può aiutarci negli ambiti più disparati
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sore di scienze islamiche contemporanee prima all’Università di Ginevra e poi a Oxford più richiesto della piazza. Aveva l’eloquio dei retori di razza, a suo modo era un guru. Qualche anno fa lo osservavo con sospetto. Poi l’ho intervistato e ho capito la chiave del suo successo. Diceva cose giuste che volevamo sentirci dire: «Sono fra quelli – mi aveva spiegato nel 2007 – che dicono che si può essere musulmani e occidentali senza essere meno musulmani per essere più occidentali e meno occidentali per essere più musulmani. Le due cose sono del tutto compatibili e milioni di musulmane e di musulmani lo dimostrano tutti i giorni». O anche: «Come cittadino sono svizzero e la mia lealtà va completamente alla Svizzera e non c’è nulla nei miei riferimenti musulmani che potrebbe giustificare il fatto di andare contro alla mia appartenenza alla Svizzera». E ancora: «La mia posizione sul velo che copre i capelli? Non si può imporre a una donna di metterselo, ma non si può neppure imporle di toglierlo. Ho preso posizione contro l’Iran e contro l’Arabia Saudita quando hanno imposto alle donne di indossarlo». Tesi sostenute pure da altri pensatori islamici «moderati», seguite con entusiasmo da parecchi giovani della comunità musulmana europea e certamente utili a disinnescare in partenza tensioni sociali e culturali con l’Occidente.
Alcuni osservatori ritengono che predicasse bene e razzolasse male e che le sue idee «aperte» fossero solo di facciata. Ma, per quanto ha scritto e predicato negli anni, Ramadan rappresentava la corrente dei musulmani rispettosi che vorremmo alla porta accanto, l’antidoto mentale ai veleni dello scontro di civiltà. Non sappiamo come finirà la sua vertenza giudiziaria. Se era un abusatore applaudiremo alla sua condanna. Ma speriamo anche che le idee più ragionevoli e sensate che ha contribuito a diffondere con altre persone di buona volontà non vengano seppellite nell’oblio insieme a lui.
VOTAZIONE GENERALE 2023
MONDO MIGROS
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ATTUALITÀ Pagina 21
Il Grande Sud globale scivola verso Cina e Russia, con le quali ha molte affinità ideologiche
Un ricordo di Carlo Emilio Gadda a cinquant’anni dalla morte attraverso le sue lettere e i suoi diari
CULTURA Pagina 31
Genova, tra Polanski e l’estro dei ticinesi
Settimanale di informazione e cultura Anno LXXXVI 22 maggio 2023 Cooperativa Migros Ticino
◆ ● G.A.A. 6592 San t’Antonino
edizione 21
Romano Venziani – Pagine 14-15
Carlo Silini
2023
Rinnoviamo a tutti i soci l’invito a partecipare alla votazione generale. Ultimo termine per la spedizione o consegna della scheda
SABATO 3 GIUGNO
Il vascello Neptune, costruito nel 1986 per il film Pirati di Roman Polanski, è ormeggiato al Porto antico di Genova.
Grazie, vicina/o di casa
Nel corso dell’estate del 2022 avevamo parlato di vicinato per illustrare la ricerca compiuta dal think tank Gottlieb Duttweiler Institut di Rüschlikon (GDI): un tema spinoso, a tratti, ma anche comune a chiunque non abiti in totale isolamento dal mondo circostante. Tra i dati emersi dalla ricerca del 2022 Gentile vicino/a, il grande studio sul vicinato in Svizzera, commissionata dal Percento culturale Migros e guidata dal ricercatore Jakub Samochowiec in collaborazione con Karin Frick e Marta Kwiatkowski, era emerso ad esempio che il 30% della popolazione si fida dei propri vicini, il 47% apprezza la discrezione e l’indipendenza, il 66% presta volentieri qualcosa, il 30% ama invitare sporadicamente i vicini per un caffè (anche se ciò accade più spesso in Romandia e nelle regioni di campagna) e l’80% è soddisfatto dello status quo, anche se in città la gente auspicherebbe un incremento dei contatti (v. «Azione» 1. agosto 2023).
Credendo nell’importanza del tema, Migros Impegno ha dato vita a una serie di iniziative per promuovere le buone relazioni di vicinato. Tra
queste vi era anche un concorso di idee di progetti cui hanno partecipato molte associazioni da tutta la Svizzera. Tra i dieci progetti vincitori anche tre Associazioni ticinesi: Amélie di Pregassona, Il Circolo di Bedigliora e COSCOL di Beride.
I progetti premiati da Migros Impegno nell’ambito dell’iniziativa di vicinato si contraddistinguono per la loro forte impronta aggregativa, e questo in un momento storico in cui, reduci dalla pandemia, ne abbiamo più bisogno che mai. Solo lo scambio, infatti, e il reciproco sostegno, possono permettere la realizzazione di una società più coesa, e questa, notoriamente, nasce proprio da nuclei piccoli ma fondamentali, come quelli della famiglia o del vicinato.
Ecco allora che con il progetto del Circolo di Bedigliora si vuole creare un luogo aggregativo capace di superare le distanze generazionali, poiché, come afferma Maria Sole Martini Giovannoli, «una volta chiusa la porta di casa, molte persone si ritrovano a tu per tu con sé stesse e i propri pensieri, ma noi vogliamo farle uscire».
Anche il Bar Saraoo di Beride, si-
Ditelo con l’apposito sacchetto
Il 26 maggio sarà la Giornata del vicinato. Quale migliore occasione per ringraziare quella vicina di casa che ci ha annaffiato le piante mentre eravamo in vacanza, oppure quel vicino che si è occupato di dare il cibo al gatto durante il nostro soggiorno all’estero o mentre eravamo all’ospedale, o ancora, quella signora del terzo piano che ci presta sempre cipolle o aglio quando li abbiamo finiti?
Per celebrare quest’occasione speciale, che purtroppo spesso tendiamo a dare per scontata (poiché i vicini ci sono e basta: non si scelgono), dal 22 al 26 maggio alle casse della vostra Migros troverete i sacchetti di carta «delle eroine e degli eroi
Donne ieri e oggi
Movimento AvaEva ◆ Il gruppo
Valori Intergenerazionali il 3 giugno presenterà la propria seconda pubblicazione
della nostra quotidianità» (vedi foto, con il sacchetto nella versione in italiano). Potrete riempire i vostri sacchetti di carta con un mazzo di fiori o una leccornia, un piccolo presente insomma, che esprima la vostra riconoscenza. Negli appositi spazi potrete poi scrivere il vostro pensiero personalizzato.
tuato in un rudere salvato dalla demolizione grazie a cittadine e cittadini, e che da vent’anni fa da trait d’union tra gli abitanti del paese (anche perché lì si trova la fermata del pullmino che porta i bambini alle scuole dell’infanzia ed elementare), necessita di un ammodernamento.
Grazie al progetto di ammodernamento di COSCOL, come spiegato da Lorenzo Custer, si vuole creare un vero luogo di incontro per il paese, finalmente al coperto e capace di proporre anche attività nuove e finora inedite, come ad esempio le proiezioni cinematografiche.
Marco Imperadori dell’Associazione Amélie (frutto di una intensa e ormai rodata collaborazione), racconta con entusiasmo: «Il premio di Migros Impegno ci dà serenità, permettendoci di lavorare bene su molti fronti. Ad esempio su Il mondo di Amélie, spazio per bimbi da 1 a 3 anni, sul nostro Cult Amélie Festival, che avrà luogo in estate, sulle Olimpiadi di Amélie di fine anno e sul Centro giovani».
Il gruppo Valori intergenerazionali/ Educazione (uno tra i diversi gruppi autogestiti che nell’ambito delle attività del Movimento AvaEva si occupano e approfondiscono temi diversi intorno al ruolo e all’identità della donna anziana) ha dato da poco alle stampe il Quaderno Percorsi di donne, educazione e valori. Confronti e dialoghi intergenerazionali. La pubblicazione verrà presentata alla Cascina di Sorengo. Il nuovo progetto si è sviluppato principalmente intorno alla domanda: «Quale significato hanno oggi per noi e quanto alcuni valori acquisiti da noi donne cresciute negli anni del femminismo – anche se non necessariamente con un coinvolgimento diretto – hanno influenzato i percorsi delle generazioni delle nostre figlie e nipoti?».
La pubblicazione è la sintesi di un’attività che intreccia riflessioni e confronti sui percorsi personali delle donne di AvaEva con situazioni e percorsi di donne appartenenti alle generazioni che le hanno precedute e a quelle nate dopo. Alla base del lungo e approfondito lavoro delle curatrici, che hanno svolto una ricerca di tipo qualitativo, vi è una domanda fondamentale: quanto è cambiato il movimento femminista dalle prime generazioni a oggi, e in che misura ha inciso sui percorsi individuali femminili, soprattutto in un’ottica di passaggio generazionale?
Per dare una risposta a queste domande, e così in qualche modo tracciare anche un ritratto della storia delle donne nel nostro Paese e nella società – con quelle che sono le libertà, gli ostacoli e le scelte personali –sono sono stati presi in considerazione
13 testi scritti da donne della generazione di AvaEva sul femminismo, 17 trascrizioni di interviste qualitative a donne della generazione 30-50 anni e 10 testi scritti da donne della generazione di AvaEva sui propri percorsi ed esperienze educative.
Dopo una prima sezione storica, in cui si ripercorre per sommi capi la storia del movimento femminista, passando attraverso la lotta per il suffragio universale, avvenuto dopo strenue lotte e resistenze, si giunge fino ai giorni nostri, ossia alla generazione attuale, nipote di quella «delle nonne» che rappresentano il fulcro del movimento AvaEva: lo scopo è quello di capire cosa sia rimasto dell’ideologia iniziale, e come questa si riverberi nella quotidianità di ogni donna. E così scopriamo che se da una parte il patriarcato dell’era «delle nonne» è fortunatamente scomparso, dall’al-
tra manca però la consapevolezza di quanta fatica sia costato questo traguardo. L’autonomia delle donne è aumentata, e – grande cambiamento –la Chiesa non detta più usi e costumi. Per contro la ripartizione dei compiti domestici, laddove vi è una coppia o una famiglia con bambini, necessita ancora di un processo evolutivo.
Bibliografia Percorsi di donne, educazione e valori. Confronti e dialoghi intergenerazionali. A cura di Sonja Crivelli, Margherita TavariniPedretti, Anita-Testa Mader.
Dove e quando Presentazione del Quaderno, con Sara Rossi Guidicelli e Mirella De Paris, sabato 3 giugno 2023 (ore 10.00-13.00), Sorengo, La Cascina (Via Cremignone 4G). Info: avaeva.ch
Settimanale di informazione e cultura Anno LXXXVI 22 maggio 2023 azione – Cooperativa Migros Ticino MONDO MIGROS 2
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Redazione Carlo Silini (redattore responsabile)
Info Migros ◆ Il 26 maggio sarà la giornata del vicinato Il progetto di COSCOL.
Una vignetta tratta dal Quaderno.
Momento aggregativo dell’Associazione Amélie.
La città disegnata dai ragazzi
Più di 400 allievi dei licei di Lugano coinvolti in un progetto sul Piano direttore comunale
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Al Parco delle Cinque Terre È uno dei più piccoli parchi nazionali italiani e punta a valorizzare il patrimonio geologico
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Come allenare alla lettura Intervista ad Alice Bigli che nel suo ultimo libro offre consigli su come avvicinare i bambini ai libri
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Il bambino: l’iperteso che non ti aspetti
Salute ◆ Rarissima nel neonato, l’ipertensione infantile sotto la lente del pediatra
Sì: anche i bambini possono avere la pressione alta. E il problema è che un bambino davvero iperteso potrebbe molto probabilmente diventare un adulto iperteso, quindi con un rischio maggiore di avere una malattia cardiovascolare, prima causa di morte e di spesa sanitaria nei Paesi occidentali. Secondo la Società Europea dell’Ipertensione (ESH) il 5-6 per cento dei bambini e degli adolescenti in apparente buona salute del Vecchio Continente in realtà risulta iperteso, percentuale che sale fino al 22 per cento nei bambini obesi. L’ESH considera questa patologia in continua crescita e perciò ha emanato delle Linee guida rivolte all’età pediatrica. Su questo tema, il pediatra Giacomo Simonetti, direttore medico e scientifico dell’Istituto Pediatrico della Svizzera Italiana, illustra la situazione della Svizzera e del Canton Ticino, partendo dall’importante premessa che vede l’ipertensione neonatale come «rarissima e praticamente inesistente»: «Se un neonato è iperteso, la causa è da ricercare nelle malattie congenite (ndr: malattie e malformazioni già presenti nel feto al momento del parto), ad esempio a reni o cuore, oppure si tratta di un neonato o un prematuro malato sottoposto a determinate terapie che ne hanno provocato uno stato ipertensivo definito come secondario». Di fatto, per ipertensione secondaria si intende uno stato ipertensivo che insorge come conseguenza di una specifica malattia o circostanza, dunque imputabile a una causa ben definita e riconoscibile, al contrario dell’ipertensione primaria che non è scatenata da fattori secondari (come patologie a carico di alcuni organi), ma è dovuta a cause non ancora identificate. A questo proposito, lo specialista sottolinea come l’ipertensione arteriosa nell’adulto sia per il 90 per cento delle volte di tipo «primario o essenziale», mentre quando si manifesta nel neonato è sempre ipertensione «secondaria». Inoltre: «Più il bambino cresce e più diminuiscono le cause secondarie che però rimangono sempre prevalenti; nell’adolescente siamo a un 50 per cento fra primarie e secondarie, mentre nell’adulto prevale quella di tipo primario. Ciò significa che più il bambino è piccolo, maggiore è la probabilità di trovare una causa specifica all’ipertensione che dovesse manifestarsi, seppur raramente». Ad ogni modo, Simonetti rimane rassicurante sull’ipertensione arteriosa nell’infanzia in Svizzera: «Gli elementi più recenti di cui disponiamo riguardano la misurazione di dati epidemiologici di bambini in età scolastica effettuati a Losanna (ndr: basati sulla misurazione della pressione nella popola-
zione pediatrica) che indicano solo il 2 per cento dei bambini con un’ipertensione arteriosa». Un dato che non dovrebbe riservare sorprese future e che secondo lui dipende da nazione a nazione. Ciò permette di relativizzare l’aumento paventato dalla Società Europea dell’ipertensione: «Non dobbiamo dimenticare che l’aumento dell’ipertensione è relativa pure all’incremento dei controlli di oggi rispetto a 30-40 anni fa. È pure certo che se l’obesità aumenta, anche l’ipertensione subisce un incremento».
In Svizzera dati recenti indicano che circa il 2 per cento dei bambini soffre di ipertensione arteriosa, tra i fattori di rischio vi è l’obesità
Ora bisogna capire cosa si intende per ipertensione in età pediatrica: «In pediatria i valori di pressione arteriosa sono legati ai dati statistici epidemiologici, dunque si basano sulla misurazione della pressione nella popolazione. I valori di riferimento sono completamente diversi da quelli che abbiamo nell’adulto per il quale vale il 140 su 90». Una
differenza sostanzialmente dovuta al fatto che «a differenza di quanto accade nell’adulto, dove la condizione viene rilevata oltre un valore limite, nei bambini non è possibile stabilire oltre quale soglia l’aumento pressorio determini un incremento del rischio cardiovascolare». Perciò, oltre a valutare il peso e l’altezza, si ragiona in termini di percentili: «Con l’ausilio di tabelle, si valuta se i valori di pressione sanguigna sono più alti rispetto a quelli rilevati in una quota di coetanei (ndr: in questo caso il 95 per cento)». La pressione arteriosa nei bambini va misurata con l’uso di un bracciale di adeguate dimensioni ed è per questo motivo che va sempre fatto dal medico: «Le indicazioni pediatriche consigliano la misurazione della pressione arteriosa a partire dai 6 anni, durante le visite di controllo dal pediatra». Nell’adolescenza i parametri di riferimento cambiano, avvicinandosi ai valori dell’adulto di 140 su 90: «A questo punto, è importante assicurare la raccolta del testimone dal pediatra al medico di medicina generale per l’assistenza dell’adolescente – giovane adulto». Il nostro interlocutore, pure specialista in nefrologia pediatrica, ci mostra una tabella di screening veloce
Istantanee sui trasporti
Il grande vantaggio dei trasporti pubblici? Più capacità con meno consumo di spazio
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da lui stesso adattata e basata solo sui dati dell’altezza: «Un riferimento semplice a disposizione del medico che misura la pressione al suo piccolo paziente, che gli permette di individuare i bambini normotesi (che non necessitano di approfondimenti), riservando quindi un follow up solo a quelli probabilmente ipertesi».
Sono noti i fattori di rischio che possono portare all’ipertensione infantile, fra i quali spiccano l’obesità, la sedentarietà e una scorretta
alimentazione: «Elementi sui quali si può reagire con l’aiuto di nuove abitudini e uno stile di vita sano che il pediatra saprà pure suggerire e discutere durante le visite di routine del bambino». Generalmente, l’ipertensione nei bambini non si manifesta con sintomi riconoscibili: «Tuttavia, possono presentarsi segni generici come astenia, cefalea, epistassi (sangue da naso), nausea, tinnito, per portare qualche esempio». Di norma, raramente bisogna fare capo immediatamente a farmaci antiipertensivi : «L’aspetto positivo è che nei bambini con un’ipertensione primaria e senza danni agli organi bersaglio si inizia quasi sempre con un intervento sugli stili di vita per far regredire l’ipertensione». Per quanto
attiene alle terapie farmacologiche, «sono state riprese dagli adulti, ma oggi FDA e EMEA hanno emanato una direttiva secondo cui ogni medicamento potenzialmente utile anche in età pediatrica deve essere comunque testato dalle ditte farmaceutiche anche per i bambini, e qui rientrano pure quelli per ipertensione arteriosa». Ma per l’infanzia Simonetti rimanda una presa a carico farmacologica solo al momento in cui dovesse comparire un danno d’organo provocato dall’ipertensione o con una causa secondaria come malattie renali. Resta il fatto che «mai come nel bambino bisogna ricordarsi l’importanza della valutazione nel complesso e nel tempo; i genitori non devono farsi carico di misurarne la pressione a casa e, in presenza di sintomi specifici, sarà il pediatra a visitare il paziente con i controlli del caso. Un bambino sano che si sottopone ai regolari controlli di crescita è comunque già monitorato dai 6 anni di età anche nell’ambito della pressione arteriosa, e dovrà essere preso a carico con ulteriori indagini se presenta sintomi come ad esempio un mal di testa persistente (sintomo però generico anche di altre patologie che andranno indagate)».
● ◆ Settimanale di informazione e cultura Anno LXXXVI 22 maggio 2023 azione – Cooperativa Migros Ticino 3
SOCIETÀ
Il pediatra Giacomo Simonetti, direttore medico e scientifico dell’Istituto Pediatrico della Svizzera italiana. (V. Cammarata)
Maria Grazia Buletti
Quando sono di stagione
Il periodo di raccolta degli asparagi verdi nostrani si estende più o meno dalla metà/fine di aprile fino a fine giugno. Tradizionalmente la stagione termina il 24 giugno, pochi giorni dopo il solstizio d’estate, per dare modo alla pianta di riposare e rigenerarsi almeno cento giorni prima delle prime gelate. In questo modo l’asparago potrà svilupparsi al meglio l’anno seguente. La durata della coltura è di circa 10 anni.
Quando gli asparagi sono ticinesi
Attualità ◆ Fino alla metà di giugno sugli scaffali di Migros Ticino sono disponibili gli asparagi verdi coltivati sul Piano di Magadino da alcuni produttori locali. Uno di questi è il giovane Alessio De Oliveira di Cugnasco
Vieni a scoprire le genuine specialità della nostra regione! Fino al 5 giugno ti aspettano numerose promozioni e degustazioni sui prodotti firmati Nostrani del Ticino. Come sceglierli e conservarli
Gli asparagi freschi posseggono delle punte chiuse e le estremità sono umide. Strofinando i gambi tra di loro, deve sentirsi un suono simile a un cigolio. Gli asparagi mantengono bene la loro croccantezza se conservati alcuni giorni in frigorifero, avvolti in un panno umido.
Buoni e sani
Gli asparagi sono ricchi d’acqua e pertanto poverissimi di calorie. Privi di colesterolo, contengono importanti sostanze quali le vitamine B e C, fosforo, potassio, calcio, oligoelementi e fibre alimentari.
Chi li produce
Anche in Ticino da qualche anno alcuni orticoltori si sono lanciati nella coltivazione di asparagi verdi. Uno di questi è il ventenne Alessio De Oliveira di Cugnasco, che li coltiva sul Piano di Magadino su una superficie di ca. 5000 metri quadri. «La nostra azienda – afferma il giovane orticoltore – è stata fondata oltre vent’anni fa
Quanto crescono gli asparagi
Gli asparagi crescono un centimetro al giorno all’inizio della stagione, dopodiché verso metà maggio la loro crescita si accelera fino ad arrivare a cinque centimetri al giorno. A questo punto inizia la raccolta a mano, che deve essere fatta quotidianamente per evitare che gli ortaggi crescano eccessivamente e diventino troppo legnosi perdendo la loro tenerezza.
Verdi o bianchi
Forse non tutti sanno che il colore degli asparagi non dipende da varietà differenti del tubero. Gli asparagi bianchi si caratterizzano per il fatto che si sviluppano sottoterra, al riparo dal sole e dalla luce, mentre quelli verdi crescono al di fuori del terreno, dove grazie alla clorofilla diventano di colore verde.
da mio padre Antonio. Da quest’anno, dopo aver conseguito l’attestato federale di orticoltore, sono entrato pure io nell’azienda familiare. Produciamo stagionalmente dai 40 ai 45 quintali di asparagi, a dipendenza delle temperature. Le principali difficoltà che si possono riscontrare in tale coltura
Sapori di alta montagna
sono le malerbe e la siccità perché non sempre abbiamo a disposizione acqua per irrigare. La raccolta viene fatta interamente a mano e gli ortaggi non necessitano di trattamenti particolari. Personalmente amo gustare gli asparagi appena bolliti e saltati in padella con un paio di uova. Oltre agli aspa-
ragi, produciamo anche una vasta lista di altri ortaggi tradizionali, tra cui ad esempio insalate, pomodori, cetrioli, melanzane, zucchine, coste, formentino, verze e broccoli. Di questo mestiere amo il fatto di essere a stretto contatto con la natura e di poter lavorare all’aria aperta».
Attualità ◆ Il Caseificio Canaria è un formaggio prodotto ad Airolo che vanta un sapore intenso di erbe alpine grazie all’utilizzo di pregiato latte crudo vaccino della regione del San Gottardo
Il «regno» dei formaggi disponibili alla Migros è incredibilmente ricco e include anche molte specialità provenienti dalla nostra regione, da quelli freschi alle varianti a crosta fiorita fino alle prelibatezze a pasta semidura e dura. Una di queste chicche è il Caseificio Canaria, prodotto ad Airolo dalla Agroval SA, azienda nota da oltre dieci anni anche per la produzione dei cremosi iogurt di montagna. Questo formaggio prende il nome dall’omonima valle che si snoda sopra il comune di Airolo e si caratterizza per essere prodotto solo con latte crudo vaccino della regione, privo di foraggi insilati. Realizzato secon-
do un’antica ricetta segreta tramandata da generazioni, dal punto di vista organolettico si distingue per l’aspetto dal colore giallo paglierino, la consistenza semidura e il sapore prelibato di erbe con sfumature leggermente acidule e salate-dolci. L’affinamento dura almeno 2 mesi e avviene in cantine naturali situate ai piedi del San Gottardo. Il Canaria è apprezzato come formaggio da tavola accompagnato da un buon pane casereccio, ma si accosta bene anche un’insalata croccante oppure a un tipico tagliere di salumi misti ticinesi. A Migros Ticino è venduto sia confezionato sia al banco dei formaggi con servizio.
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Settimanale di informazione e cultura Anno LXXXVI 22 maggio 2023 azione – Cooperativa Migros Ticino MONDO MIGROS 4
nostranidelticino.ch
Alessio De Oliveira coltiva asparagi sul Piano di Magadino.
Asparagi Nostrani 500 g prezzo del giorno
Giovanni Barberis
Un abbinamento perfetto
Attualità ◆ Fragole e gelato sono un dessert ideale per la stagione calda. E quando gli ingredienti sono al 100% di origine locale il piacere è garantito!
Tutti i gusti regalano piacere al palato.
Il gelato nostrano Zabaione, cacao, amaretto, farina bona, fior di latte, uva americana e lampone/yogurt: sono ben sette i gusti di gelato nostrano disponibili nei negozi di Migros Ticino. Realizzati con ingredienti naturali locali, queste specialità vengono prodotte nel laboratorio artigianale Mastrolucibello di Contone. Non contengono conservanti, coloranti né tantomeno semilavorati o concentrati di frutta industriali. I gusti fior di latte e farina bona si accostano particolarmente bene alla frutta di stagione.
Le fragole ticinesi
La giovane frutticoltrice Sevenja Krauss coltiva le proprie fragole in modo sostenibile a S. Antonino in pieno campo e sotto tunnel. Dalla delicata raccolta a mano all’arrivo nei supermercati Migros di tutto il Ticino non passano nemmeno 24 ore. Massima freschezza, matu-
razione ottimale e aroma pieno sono i punti forti delle fragole nostrane. I rossi frutti sono disponibili da inizio maggio fino a settembre nella vaschetta da 250 g prima e 500 g successivamente.
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Lunedì
maggio Apertura straordinaria Tutti i punti vendita Migros in Ticino saranno aperti dalle ore 10.00 alle 18.00 Festa di Pentecoste
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I giovani reinventano la città
Territorio
◆ L’Istituto internazionale di Architettura i2a in collaborazione con i due licei di Lugano e la Città ha coinvolto più di 400 studenti in un progetto di mediazione incentrato sul Piano direttore comunale
Stefania Hubmann
I giovani protagonisti alla pari di professionisti e politici nel progettare la città del futuro, quella in cui oggi studiano e domani magari vivranno e lavoreranno. Ciò è possibile grazie all’innovativa iniziativa di mediazione elaborata dall’Istituto Internazionale di Architettura in collaborazione con due licei, il progetto d’istituto Sale in zucca e la Città di Lugano. È infatti il Piano direttore comunale (PDcom) di quest’ultima, in fase di elaborazione, l’occasione per coinvolgere su larga scala gli studenti dei licei cantonali Lugano 1 e Lugano 2. Coinvolgerli per permettere loro di comprendere cosa sia la pianificazione, ma soprattutto per stimolarli a osservare il territorio, a immaginarlo diverso, a proporre soluzioni concrete e realizzabili. Un atout del progetto di mediazione, inserito nel piano orario di geografia e biologia, è proprio quello di lavorare con professionisti del settore in modo da giungere a proposte che progettisti e autorità comunali possano tenere in considerazione. La presentazione del lavoro dei liceali si concluderà questa settimana con però un risvolto pubblico previsto a settembre. L’Istituto intende infatti mostrare le loro proposte, riassunte in una serie di manifesti, in un’esposizione allestita nella sua sede di Villa Saroli a Lugano.
Molti i temi affrontati nel lavoro pratico, dalla mobilità all’energia, dalle risorse alla rigenerazione urbana fino alla governance
La pianificazione, pur riguardando tutti i cittadini poiché influenza la loro qualità di vita, sovente appare ancora difficile da decifrare. Da diversi anni però l’Istituto Internazionale di Architettura avvicina adulti e bambini alle tematiche legate alla cultura del territorio. Per il lungo e articolato processo di adozione del Piano direttore comunale di Lugano – iniziato nel 2017 e che quest’anno vedrà la consegna del documento da parte del gruppo Studio Paola Viganò – l’Istituto ha promosso diverse iniziative di informazione e partecipazione della popolazione. Il PDcom è lo strumento pianificatorio strategico che definisce gli obiettivi di sviluppo della Città sull’arco dei prossimi 20-30 anni. Una visione del territorio che proietta nel 2050, quando gli studenti di oggi saranno forze attive della società, ma senza finora coinvolgere questa fascia della popolazione nel processo.
Ecco allora prendere corpo l’idea della direttrice dell’Istituto Ludovica Molo di un progetto di mediazione per gli allievi dei due licei cittadini. Curato per conto dell’Istituto dall’architetto paesaggista Marta Buoro, il percorso è stato elaborato e realizzato in collaborazione con alcuni insegnanti dei due licei. «È un progetto che coinvolge oltre 400 studenti, circa 280 di Lugano 1 e 160 di Lugano 2», spiega la coordinatrice. «Il percorso è stato suddiviso in ogni sede in quattro momenti: una sessione plenaria introduttiva, un laboratorio di geografia per 19 classi, uno di biologia per tre classi e una discussione finale. Per la parte introduttiva, oltre agli interventi di rappresentanti della Città e del gruppo incaricato di elabora-
re il PDcom, abbiamo sfruttato video e pannelli utilizzati l’anno scorso per gli incontri pubblici dell’Istituto, proponendo quindi anche due mostre negli spazi comuni dei rispettivi istituti scolastici. Il lavoro centrale è stato però quello compiuto nelle classi in qualità di tutor da cinque giovani architetti, compresa la sottoscritta. A questo stadio gli allievi sono stati chiamati a essere parte attiva dopo aver preso conoscenza di esempi virtuosi di trasformazione del territorio avvenuti nel resto della Svizzera e in altre parti del mondo. Il primo compito assegnato è stato quello di individuare e scattare fotografie dei possibili luoghi d’intervento. Sulle immagini stampate si è poi lavorato con la tecnica multilayer, sovrapponendo fogli lucidi sui quali disegnare le trasformazioni auspicate. Il lavoro svolto a
piccoli gruppi è infine confluito in un manifesto comune per ogni classe». Quali i temi affrontati nel lavoro pratico? Risponde Marta Buoro: «Nei laboratori di geografia abbiamo spaziato dalla mobilità a risorse+energia, dalla rigenerazione urbana alla governance che rappresenta l’insieme delle relazioni. Si sono quindi osservate le strade e i parcheggi come spazi pubblici dove l’utilizzo evolve privilegiando la mobilità lenta, dove si possono creare zone ombreggiate o ancora trasformare le strade e le aree di parcheggio in luoghi di svago nei momenti in cui viene meno il loro impiego primario. Sul piano energetico e delle risorse, fra i diversi aspetti analizzati figura il riutilizzo del legno visto che il 60% del territorio della Città è costituito da boschi. Il recupero di edifici dismessi o dei terrazzamen-
Lavori pratici per sentirsi parte attiva della società
Il progetto di mediazione dell’Istituto è inserito in una novità della griglia oraria liceale che dall’anno scolastico in corso prevede nel terzo anno la modalità didattica del Laboratorio di geografia, per favorire lavori pratici su questioni che toccano direttamente gli allievi. In questo contesto gli studenti di Lugano 1 hanno puntato, per esempio, su nuovi spazi di aggregazione e su una maggiore accessibilità al lago. Proposte non necessariamente uguali a quelle scaturite nelle otto classi del Laboratorio di geografia del Liceo Lugano 2, situato nel Comune di Savosa e dove si mescolano giovani provenienti dalla cintura luganese e da zone più periferiche e naturali come il Malcantone. Per Saul Gabaglio, coordinatore dei docenti di geografia di Lugano
2, si tratta di un confronto interessante «per capire come osservano la Città i giovani che partono da esperienze di vita diverse. Inoltre, un pregio del PDcom è quello di dialogare con un contesto territoriale più ampio rispet-
to ai confini comunali di sua competenza». Il geografo si associa poi alle colleghe per quanto riguarda i benefici per gli studenti di questa esperienza scolastica, «aperta sul mondo esterno, frutto del lavoro di gruppo e con la
ti per la creazione di nuove tipologie di parchi urbani produttivi ha evidenziato, nell’ambito della rigenerazione urbana, come il ruolo del paesaggio e delle costruzioni evolva in base ai cambiamenti legati alla società. Le relazioni visibili e invisibili che vanno a costituire la Città (governance) sono state oggetto di un unico manifesto per i due licei, un poster realizzato in tessuto e fili di lana che riprende le nove costellazioni del PDcom, ossia l’insieme dei quartieri raggruppati in base alle loro caratteristiche territoriali per creare nuove sinergie all’interno della Città. Fra le proposte avanzate dagli studenti in questo ambito figura lo sviluppo di una App per informare sui momenti di incontro a livello locale».
Le quattro aree tematiche citate sono in realtà interconnesse, come ri-
leva la nostra interlocutrice, offrendo punti comuni anche con quanto approfondito nei laboratori di biologia. Con Manuela Varini, docente di questa materia al Liceo Lugano 1, Marta Buoro ha selezionato gli argomenti più aderenti al programma scolastico e nel contempo più urgenti da affrontare: spazi residui e biodiversità urbana. Sono così emerse idee di pavimentazioni permeabili e di spazi oggi in disuso da trasformare in luoghi vivibili dove la natura possa prosperare. Va sottolineato che Manuela Varini è attiva su questo fronte già dal 2017 quando promosse il progetto Sale in zucca citato in apertura. Attraverso la realizzazione di un orto didattico negli spazi esterni della scuola, gli studenti avevano già potuto promuovere la biodiversità nel contesto cittadino. Sale in zucca è poi diventato un progetto d’istituto con una visione più ampia sulla sostenibilità. Sempre a Manuela Varini si deve la supervisione del progetto che nel biennio scolastico 2021-2023 ha coinvolto una classe dell’Opzione complementare di biologia, in collaborazione con geografia, nel programma di riqualifica del fiume Cassarate. Per il progetto legato al PDcom la collaborazione fra insegnanti di biologia e geografia è dimostrata anche dal nostro incontro comune con Manuela Varini e Paola Manghera Caprari, coordinatrice dei docenti di geografia del Liceo Lugano 1 e già attiva anche in Sale in zucca.
Per le due insegnanti «uno dei punti forti della mediazione è l’aver fatto sentire gli studenti protagonisti. Nuovi stimoli sono giunti anche dal confronto con figure esterne quali architetti e urbanisti, sia per comprenderne l’attività, sia per scoprire nuove professioni. Inoltre, le modalità di lavoro introdotte con questo progetto costituiscono un arricchimento anche per i docenti, perché procedere con la forma multilayer offre un approccio visivo che amplia la prospettiva. Si tratta pertanto di uno strumento sicuramente molto utile per iniziative future». Manuela Varini e Paola Manghera Caprari evidenziano infine come il coinvolgimento degli allievi sui temi della sostenibilità passi idealmente in modo parallelo dai grandi processi (come il PDcom), con la partecipazione di molte classi, e da iniziative mirate (vedi fiume Cassarate) che permettono a un gruppo più ristretto di chinarsi in modo approfondito su casi concreti. Da rilevare che la sostenibilità, unita proprio alla progettualità, è un aspetto cardine del nuovo piano degli studi liceali in consultazione a livello federale, aspetto da affrontare a livello interdisciplinare.
prospettiva di veder preso in considerazione quanto proposto. Per i liceali è ancora difficile proiettarsi nel futuro, ma il nostro obiettivo deve essere quello di farli sentire e di considerarli parte attiva della società».
Promossa dall’Istituto Internazionale di Architettura quale progetto innovativo a livello nazionale, la partecipazione degli studenti liceali a un processo di pianificazione così ampio ha riscosso consensi su tutti i fronti, tutor compresi. L’intenzione è quindi di estenderla alle altre città ticinesi, coinvolgendo i rispettivi licei. L’esperienza sta dimostrando che puntando sulla vita quotidiana dei giovani, si riesce a risvegliare la loro attenzione per ciò che li circonda, stimolando la creatività applicata alla realtà.
Instagram: i2a.architettura.
Settimanale di informazione e cultura Anno LXXXVI 22 maggio 2023 azione – Cooperativa Migros Ticino 7 SOCIETÀ
Informazioni www.i2a.ch
Mostra relativa al progetto del PDCom di Lugano allestita nelle sedi dei Licei 1 e 2 di Lugano. In basso, i ragazzi della 3E del Liceo 2 lavorano alle loro proposte durante il laboratorio di «Rigenerazione urbana».
UH, ANCA UNA LETTERA. L’IPORTANTE È CHE SIA BUONA.
0.70
Per fare un fiore ci vuole geodiversità
Ambiente ◆ Il Parco Nazionale delle Cinque Terre punta sulla protezione e la valorizzazione del patrimonio geologico
«Per fare tutto ci vuole un fiore»: così dice una vecchia, ma sempre cara, filastrocca di Gianni Rodari, musicata da Sergio Endrigo, intitolata Ci vuole un fiore. Ha fatto riflettere intere generazioni di bambine e bambini (ma anche di adulti) che l’hanno recitata, cantata e amata, raccontando la consequenzialità che esiste in natura, tangibile nella vita di tutti i giorni. Una canzone che, in definitiva, parla di ambiente e di responsabilità.
In tal senso, se guardassimo oltre l’orizzonte spaziale proposto a un certo punto della canzone, cioè «il monte», se prendessimo in considerazione realtà estese come parchi nazionali, e se ancora volessimo forzare un po’ la catena proposta da Rodari, potremmo parafrasarne così il testo: per fare biodiversità, parola quanto mai attuale e nota anche ai profani, ci vuole geodiversità, parola nuova per i più, ma quanto mai nota a chi nei parchi si preoccupa, non solo della salvaguardia di quella che si chiama biosfera come fanno botanici, zoologi ed etologi, ma anche della litosfera, cioè del suolo, come fanno i geologi, che studiano, controllano e valorizzano tutti quegli aspetti che riguardano la geomorfologia, l’orografia e ancora prima, la storia (misurata in ere) che esprime il territorio.
Cento anni fa nascevano in Italia i primi parchi nazionali
In principio fu Yellowstone (1872): gli Stati Uniti furono, infatti, i primi a capire che per preservare l’integrità naturale di un luogo, e ciò che questo naturalmente ospita, occorre proteggerlo e regolamentare la sua antropizzazione.
Il primo parco europeo risale a qualche decennio dopo, 1909, Parco Nazionale Sarek nella Lapponia Svedese, poi fu il turno della Francia nel 1913 (Parc National des Écrins) e l’anno seguente, 1914, toccò al nostro
Parc Naziunal Svizzer: 170 kmq che si estendono in Engadina.
Il primo parco nazionale italiano è del dicembre del 1922, quando 710,4 kmq di riserve reali dei Savoia in Val d’Aosta e in Piemonte, diedero origine al Parco Nazionale del Gran Paradiso.
Già dall’articolo 1 del regio decreto con cui Vittorio Emanuele III Re d’Italia istituisce il primo Parco Nazionale d’Italia, si identifica come obiettivo del Parco quello di «conservare la fauna e la flora e di preservare le speciali formazioni geologiche, nonché la bellezza del paesaggio». Si percepisce l’importanza che da sempre è stata data alla geodiversità, affiancandola alla biodiversità e al paesaggio.
Un mese dopo, nel gennaio 1923, al Gran Paradiso segue il Parco Nazionale D’Abruzzo (496,8 kmq), dal 1991 denominato Parco Nazionale d’Abruzzo, Lazio e Molise.
Per celebrare il loro centenario, i due Parchi Nazionali Italiani hanno deciso di unirsi nei festeggiamenti e dare il via a un calendario di incontri e vere e proprie visite di delegazioni rappresentative, ma anche tecniche, dei due enti presso gli altri Parchi Nazionali Italiani. L’iniziativa promossa da Federparchi col nome Park to Park in primavera ha fatto tappa anche al Parco Nazionale delle Cinque Terre, ed è stata l’occasione per un proficuo scambio di reciproche buone pratiche ed esperienze.
Park to Park in Liguria
Il Parco Nazionale delle Cinque Terre con i suoi 38,68 kmq è uno dei più piccoli parchi nazionali Italiani, ma, sicuramente, uno dei più densamente abitati e frequentati. Si affaccia a picco su un’Area Marina Protetta insieme alla quale fa parte del famoso
Santuario dei Cetacei. Per caratteristiche territoriali, economiche e sociali è già di per sé una vera e propria
sfida di concertazione, che originariamente, nel 1999 (anno di fondazione) vedeva scontrarsi prima e collaborare poi, i vari soggetti istituzionali e civili coinvolti, oggi consapevoli che essere riconosciuti Patrimonio Mondiale dell’Umanità dall’Unesco significa impegnarsi per garantire elevati standard di tutela e valorizzazione del territorio del parco, percependo tali vincoli non come un limite ma come un’opportunità di crescita.
La tappa ligure di Park to Park si è celebrata con un’escursione sul Mesco, promontorio a ovest di Monterosso al Mare, dove presidenti, direttori, guardiaparco, manutentori e guide naturalistiche hanno potuto condividere vecchi e nuovi temi che riguardano anche i visitatori.
«Gestire un Parco, è un continuo equilibrio fra diversi aspetti che spesso il pubblico non prende in considerazione: tutelare e salvaguardare il territorio, la natura, è solo una parte…» così inizia a raccontare Patrizio Scarpellini, direttore del Parco Nazionale delle Cinque Terre, che continua: «… occorre anche valorizzare il Parco, proponendo ad esempio eventi sportivi, enogastronomici, culturali: esperienze che però rispettino l’ecosistema del Parco. Bisogna poi gestire i flussi dei visitatori, monitorandoli per evitare sovraffollamenti e per garantire la loro sicurezza: la manutenzione dei sentieri, dei muretti a secco, è fondamentale, tanto che abbiamo formato e riconosciuto professionalmente una squadra di una ventina di manutentori».
Geositi da valorizzare
A parlare della prossima sfida a cui ultimamente aspirano vari geositi in Italia (e anche nella nostra Regione Insubrica) è Emanuele Raso, il geologo del Parco: «Valorizzare il patrimonio geologico nelle sue diverse accezioni, significa studiare, salvaguardare e raccontare le differenze
di suolo che troviamo nel territorio.
Il Parco, infatti, si prepara a ricevere il riconoscimento che l’Unesco riserva ai Geoparchi». Lo stesso riconoscimento di cui si fregia da qualche anno il Geoparco della Breggia in Ticino.
Così può capitare che ripercorrendo gli stessi sentieri su cui il premio Nobel Eugenio Montale osservava e descriveva le sue Cinque Terre, si incontrino gabbri, serpentiniti, rocce
magmatiche, argilliti, arenarie… Un viaggio nel tempo, che dal Giurassico, 200 milioni di anni fa, ci riporta sul fondo di Tetide, il grande oceano primordiale, i cui fondali oggi sono riconoscibili in cima a un promontorio, il Mesco, che separa Monterosso da Levanto.
Rodari ed Endrigo, probabilmente chiuderebbero così: per fare un geoparco ci vuole geodiversità
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Vincenzo Cammarata, testo e foto
Insegnare la passione per i libri
Intervista ◆ Alice Bigli è un’«allenatrice di lettura». In un testo appena pubblicato, offre consigli e spunti per avvicinare i più piccoli alle pagine scritte
Stefania Prandi
«Ma perché leggi così tanto?» si sente spesso chiedere Alice Bigli durante i suoi incontri con i ragazzi e le ragazze. Alice è un’«allenatrice di lettura». Fin da bambina si perdeva, per ore, nelle pagine dei romanzi. Diventata adulta ha deciso di trasformare la sua passione in un lavoro. Da vent’anni si occupa di formazione e aggiornamento di insegnanti, librai, bibliotecari e genitori sui temi dell’educazione alla lettura e della letteratura per bambini e adolescenti. Ha appena pubblicato un libro intitolato Leggere piano, forte, fortissimo. Come allenare alla lettura (Mondadori). Una guida per grandi e piccoli, con riflessioni, suggerimenti pratici, consigli e spunti per coinvolgere anche i più restii.
Alice Bigli, lei inizia il suo libro dichiarando che leggere è faticoso. Perché è importante ricordarlo? Anni fa è entrata in voga l’idea che leggere sia soprattutto un piacere. Un modo di pensare che viene, forse, da un’enfasi eccessiva data alle parole del romanziere Daniel Pennac contenute in Come un romanzo
Secondo me, il piacere di leggere è un obiettivo, e non sempre può essere il punto di partenza. Se abbiamo di fronte un ragazzino a cui non piacciono i libri, non possiamo credere che ci sia qualcosa di sbagliato in lui e che non ci sia speranza. E non possiamo nemmeno sperare che basti raccontargli tutta la nostra passione per i libri per permettergli di diventare un amante della lettura. La fatica che si fa per imparare a leggere da piccoli resta presente nel corso della vita. Come spiegano i neuroscienziati, leggere è un processo molto impegnativo per il nostro cervello e richiede allenamento. Penso alla scienziata Maryanne Wolf che tutti i giorni dedica un’ora alla lettura di testi difficili, proprio per tenersi in esercizio.
Quindi l’amore per la lettura non si attiva con un «clic»?
Non credo all’idea del «clic» perché alimenta una visione estemporanea.
Può succedere che un bambino o una bambina si appassionino a un libro, ma una volta finito non sentano alcuna esigenza di cercarne un altro. Diventare lettori è un percorso. Ci sono momenti in cui leggiamo con fatica, anche lo stesso libro, dipende magari dalle pagine o dai capitoli. Io credo che una metafora utile sia quella del fiammifero. Se non incendiamo un legnetto e poi la legna nel camino, il fiammifero si spegne.
Basta avere molti libri in casa per stimolare nei propri figli l’interesse alla lettura?
Sicuramente è una condizione che facilita lo stimolo alla lettura, eppure non è sufficiente. Serve, infatti, comunque un percorso, soprattutto al giorno d’oggi. Gli esseri umani hanno bisogno di storie, è una necessità connaturata. Ricordiamoci, però, che leggere è solo uno dei tanti modi in cui trovarle. Ce ne sono molti altri, dalle serie tv, ai film, ai racconti orali. Siamo nati per le storie, non per leggere.
Rispetto alla lettura, qual è il futuro dei bambini e delle bambine che vivono in case senza libri? Per loro, ma anche per gli altri, la
Democrazia
suggerire libri appena usciti deve rientrare tra i compiti degli educatori. Come si educa alla lettura?
Non è possibile rispondere a questa domanda in poche righe, in modo esauriente. Educare alla lettura è un processo lento e sistematico, nel quale sono coinvolti diversi attori, come la scuola, la famiglia, le biblioteche e le librerie. Soprattutto, secondo me, i tre elementi fondamentali sono: intenzionalità; progettualità; lungo termine. Sono gli stessi fondamenti insiti nel concetto di educazione. Non possiamo prescindere da un percorso a lungo termine e imporre ai ragazzi e alle ragazze di leggere. L’imperativo «leggi» si può usare, ma quando si è creata una quotidianità che dovrebbe riguardare la famiglia e anche la scuola, nella quale ci dovrebbero essere dei momenti per le letture libere.
Letture per tutti
24 maggio ◆ Torna la Giornata svizzera della lettura ad alta voce
scuola ha un ruolo fondamentale. La scuola permette un accesso democratico alla lettura, ha una grandissima responsabilità in questo senso. E per educare alla lettura serve uno sguardo sistematico, come racconto nel mio libro: non esistono ricette veloci, non si può banalizzare. Occorrono diversi passaggi, fin dall’infanzia. La lettura ad alta voce, ad esempio, è uno di questi. Poi c’è la routine di lettura, che si può instaurare in casa e in classe. La scuola deve fare sia proposte di qualità, in grado di incoraggiare l’interesse dei più giovani, sia proposte individualizzate. Infatti, gli studenti hanno gusti, competenze e capacità di lettura diverse gli uni dagli altri. I classici sono un patrimonio da non perdere, non dobbiamo toglierli, ma va tenuto in conto che necessitano di un allenamento preliminare anche perché non sono tutti uguali e in certi casi hanno strutture particolarmente complesse. La scuola deve anche essere aperta al contemporaneo: le studentesse e gli studenti hanno il diritto di godere da subito della produzione letteraria di qualità del loro tempo. Purtroppo, però, a volte, non viene proposta a sufficienza perché non è abbastanza conosciuta dagli adulti. E invece
Esiste un talento per la lettura?
Sì, questo è un aspetto da tenere sempre presente. Ci dobbiamo prendere cura di tutti e quindi anche degli studenti con un talento per la lettura, quelli con una particolare predisposizione, con una capacità di attenzione e abilità a entrare nei testi, estraendone i significati. Educare significa sostenere chi fa fatica, ma anche valorizzare chi è competente. Bisogna sapere dire: «Sei bravo a leggere».
Secondo lei, in futuro, ci sarà ancora posto per la lettura dei libri?
Posso soltanto augurarmi di sì, anche se non ho la sfera di cristallo. Sicuramente dobbiamo fare in modo che la lettura resti importante perché il contrario sarebbe una perdita incolmabile. Non ho mai creduto agli scenari catastrofici, ma certamente non possiamo dare nulla per scontato. I neuroscienziati ci hanno spiegato che leggere è un’attività complessa. Pur non essendo nato per farlo, il nostro cervello si è adattato incredibilmente bene a decifrare i testi scritti, con performance che possono farci sentire dei veri e propri campioni. La lettura è una sorta di miracolo.
Leggere ad alta voce è uno dei modi più semplici ed efficaci per educare alla lettura e avvicinare i più giovani a quel mondo di storie delle quali, come dice nell’intervista qui a fianco Alice Bigli, noi esseri umani abbiamo un connaturato bisogno. Inoltre, molti studi confermano che la lettura ad alta voce rappresenta un fattore sostanziale per lo sviluppo cognitivo dei bambini e ha molteplici effetti positivi. Per questi motivi da alcuni anni l’Istituto svizzero media e ragazzi ISMR propone su tutto il territorio nazionale la Giornata svizzera della lettura ad alta voce durante la quale si svolgono eventi di lettura ad alta voce organizzati da biblioteche, musei, editori o librerie, ma anche da privati, scuole, asili, associazioni, singole famiglie. Quest’anno gli organizzatori puntano a coinvolgere maggiormente il pubblico maschile. Per i bambini è infatti importante poter sperimentare varie forme di lettura proposte da differenti figure di riferimento. L’invito è dunque rivolto a zii, padri, fratelli e nonni perché «leggendo storie si contribuisce in prima persona a diffondere il piacere per questa attività ». Come ogni anno, inoltre, anche per questa edizione molte personalità pubbliche si impegnano al fianco dell’ISMR mettendosi a disposizione per letture ad alta voce. Una mappa generale degli eventi pubblici di lettura può essere consultata sul sito www. giornatadellalettura.ch / Red.
Parole verdi 3 ◆ Con questo articolo continua la serie dedicata al nostro rapporto con l’ecologia e la crisi climatica
Democrazia parola verde, certo. Sarà una democrazia ecologica capace di tenere insieme cambiamento economico, giustizia sociale e sostenibilità ambientale, controllo del clima e libertà individuale. Una democrazia verde che incorpori nelle proprie istituzioni e nel proprio funzionamento il senso dell’ambiente e della sua protezione. Non dovrebbe essere così difficile per un sistema politico che è sempre andato nel senso dell’estensione e dell’inclusione.
Parecchie voci sembrano invece ritenere il procedimento liberaldemocratico inefficace contro la crisi ecologica. Scrive James Lovelock, l’ideatore della ipotesi di Gaia (la teoria che la Terra funzioni come un super-organismo in grado di autoregolarsi), che «anche le migliori demo-
crazie concordano sul fatto che quando si avvicina una grande guerra, la democrazia dev’essere momentaneamente sospesa. Ho la sensazione che il cambiamento climatico possa essere un problema simile a una guerra. Potrebbe essere necessario sospendere la democrazia per un po’». Con parole simili si esprime un altro rino-
mato scienziato, Martin Rees: «Non esiste… nessuna autorità per salvaguardare il futuro del pianeta… Solo un despota illuminato potrebbe far passare le misure necessarie per navigare in sicurezza nel XXI secolo». Sospendere le garanzie democratiche e i diritti civili, dichiarare uno stato d’emergenza, ancor peggio di eccezione, invocare una dittatura illuminata, è questo che ci salverà? Stiamo slittando verso l’accettazione di modelli autoritari? Tendiamo a preferire governi centrali capaci di fare scelte drastiche e persino crudeli per imporre la sostenibilità? A invocare un sovrano planetario che gestisca con pugno di ferro la problematica climatica e ambientale? Non ne abbiamo abbastanza di autocrati e tiranni oggi nel mondo?
Io penso che il cambiamento climatico, la crisi ecologica non vadano affrontati con la logica dello stato d’eccezione e del totalitarismo ecologico: bisogna invece impegnare tutta la nostra intelligenza, tutto il nostro entusiasmo per rafforzare la democrazia e renderla adatta ad affrontare la sfida ecologica. Questo anche se sappiamo che le democrazie liberali hanno fatto la loro parte nel promuovere l’espansione e la moltiplicazione dei bisogni/desideri e la loro soddisfazione attraverso i consumi all’interno del mercato capitalistico. Attenzione anche a pensare che «la scienza» da sola abbia l’intelligenza e la forza morale di guidare le azioni umane e le scelte politiche. La scienza deve fare la sua parte ma la decisione ultima spetta ai cittadini, spetta al processo democra-
tico che per definizione gestisce le crisi senza far ricorso a violenza e brutalità ma attraverso regole di mutuo rispetto, libertà di pensiero, confronto di idee. Ma non c’è tempo, si afferma, questi procedimenti sono troppo lenti, abbiamo fretta, la terra non può aspettare! E allora? Non servono soluzioni emergenzialiste e autoritarie, occorrono prassi democratiche e di libertà. Se vogliamo salvarci dobbiamo cercare uno stato democratico che risponda pubblicamente di come usa i suoi poteri regolatori. Un governo del quale i cittadini abbiano fiducia, che gestisca la transizione verso un’economia alimentata dal sole e dal vento e dall’acqua anziché dal carbone e dal petrolio, ma senza brutale coercizione, democraticamente. E magari, sì, anche un po’ più velocemente.
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Utilizzare al meglio il territorio
Istantanee sui trasporti ◆ I mezzi pubblici garantiscono più capacità con meno consumo di spazio
Quanto spazio ha bisogno la mobilità? Cioè quanto territorio si deve dedicare a strade, ferrovie, ciclopiste?
La domanda non è oziosa, anche da noi gestire su un territorio circoscritto, soprattutto nelle città e negli agglomerati, i bisogni della residenza, degli impianti produttivi, delle infrastrutture di servizio, delle aree agricole, degli spazi ricreativi di prossimità e delle superfici per mantenere la biodiversità è divenuto un rompicapo. Emblematica è, ad esempio, la discussione sulle velocità: 20, 30 oppure 50 km/h da assegnare ai vari tratti della rete stradale. Essa in realtà riflette lo scontro tra i diversi utenti (abitanti, pedoni, ciclisti, automobilisti, utenti dei trasporti pubblici) per disporre di un proprio spazio vitale.
Ogni attività, mobilità compresa, e ogni funzione reclama un proprio spazio di pertinenza. A partire dal secondo dopoguerra la mobilità è cresciuta costantemente e accanto ai suoi indiscussi vantaggi sono emersi con il tempo gli effetti indesiderati. L’equazione «più mobilità uguale a più benessere», un tempo considerata una sacrosanta verità, non ha più dato risultati univoci. Per riconfermarne la validità si sono dedicate nuove risorse all’ampliamento delle infrastrutture e si è rinnovata la fiducia alla scienza,
affidandosi a nuove tecnologie ritenute in grado di offrire soluzioni per soddisfare i nuovi bisogni ed eliminare gli inconvenienti. La maggiore efficienza e l’incremento demografico hanno tuttavia alimentato a loro volta nuovi bisogni. Oggi ci si interroga sul futuro della mobilità. Le merci viaggeranno sottoterra come ipotizza il progetto «Cargo sous terrain»? Le forniture saranno prese a carico da droni «tuttofare»? La guida automatica dei veicoli migliorerà la sicurezza del traffico e la capacità delle infrastrutture? I motori elettrici ci libereranno dalla minaccia climatica? Questi interrogativi non hanno ancora una risposta certa. L’economista francese Daniel Cohen nel suo libro Le monde est clos et le désir infini mostra che conciliare desiderio e limiti diventa sempre più difficile.
La rivista «GEO» ha dedicato al tema del futuro della mobilità un numero speciale («GEO», Schweizer Ausgabe 11/2020, Die mobile Zukunft) evidenziando come una delle sfide centrali del futuro prossimo sia data proprio dall’utilizzare al meglio lo scarso spazio e territorio disponibili. Come? Tra l’altro, definendo chiare priorità d’uso a favore dei mezzi di trasporto che offrono un miglior rapporto tra prestazione e consumo di spazio. Non tutti i mezzi sono da
questo punto di vista uguali. È evidente che venti persone su un unico bus occupano meno spazio di venti persone su venti auto, ma il problema dello spazio quando si parla di mobilità è più complesso. Si deve tener conto di altre variabili come lo spazio di frenata: ad esempio con un cambiamento di velocità da 30 a 50 Km/h l’auto «consuma» più spazio perché la distanza da mantenere tra un veicolo e l’altro aumenta all’aumentare della velocità. In termini generali la capacità di una sezione stradale (cioè il numero di veicoli che la percorrono in un determinato tempo) aumenta se la velocità viene ridotta. Così la figura che ci accompagna oggi, rielaborata in base ai dati della rivista «GEO», mostra, in maniera semplificata, che l’automobile, sia in sosta sia a velocità di 30 oppure di 50 km/h, richiede molto più spazio in rapporto al numero di persone trasportate rispetto al bus oppure al tram, peraltro considerati con carichi relativamente bassi (dal 20% al 40%). In poche parole maggiore è il carico del bus/tram minore è lo spazio occupato.
Già oggi, e a maggior ragione nel futuro, questo sarà verosimilmente il grande vantaggio e la discriminante che faranno dei trasporti pubblici un elemento imprescindibile nella gestione dello spazio urbano.
12 Settimanale di informazione e cultura Anno LXXXVI 22 maggio 2023 azione – Cooperativa Migros Ticino SOCIETÀ Freschezza estiva Snickers® e Mars® Ice Cream: ora nel reparto surgelati! Da tutte le offerte sono esclusi gli articoli già ridotti. Offerte valide solo dal 23.5 al 29.5.23, fino a esaurimento dello stock Snickers® Ice Cream 603.6 ml (100 ml = Fr. 1.26) 7.55 invece di 10.80 30% Mars® Ice Cream 594 ml (100 ml = Fr. 1.28) 7.55 invece di 10.80 30% Annuncio pubblicitario
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Genova la Superba
Alla scoperta delle perle della città portuale grazie a chi l’ha disegnata, progettata e visitata in passato
Pagine 14-15
Il cuore segreto di Milano
L’Orto Botanico di Brera, oltre a offrire un tuffo nella storia, è un’oasi di pace nel centro della città
Pagina 16
La fatica che ripaga
Lode all’hamburger
Quando è ben fatto, l’hamburger può diventare un cibo per nulla banale che si presta a molte varianti
Pagina 17
Timbri molto personalizzati Con il bricolage si può trasformare il cartone in timbri decorativi che faranno la gioia dei bambini
Pagina 18
Tra il ludico e il dilettevole ◆ Chi lo dice che nel tempo libero non si possa fare fatica? Nello sport e in altri passatempi la fatica può essere un fattore di crescita
Sebastiano Caroni
Ci sono dei momenti in cui ascoltare sé stessi, e assecondare le inclinazioni del momento, non è per forza una buona idea: ci sono momenti in cui bisogna andare contro sé stessi. È una lezione scomoda, ma se riusciamo ad aggirare l’apparente contraddizione, capiamo anche il vero senso della lezione, ne facciamo tesoro, e la applichiamo per quello che vale.
Facciamo un esempio: avete presente quando i buoni propositi di andare a correre con regolarità vengono messi a dura prova dal tempo – fuori piove o fa troppo freddo –, avete avuto una giornata estremamente faticosa, sentite i muscoli pesanti e vi lasciate sedurre dalla prospettiva di una serata tranquilla sul divano davanti alla TV?
I corridori seri, di solito, sanno resistere a queste tentazioni. Hanno imparato a sfidare la forza di attrazione esercitata dalla pigrizia, perché hanno capito che ogni tanto l’adagio secondo cui bisognerebbe sempre ascoltare sé stessi, e assecondare le proprie sensazioni, non è un buon alleato.
L’addestramento alla fatica è ritenuto importante poiché aiuta a superare sfide e difficoltà negli ambiti più disparati
Anche a uno sportivo dilettante come me, tanto per dire, capita continuamente che prima di andare a correre, o a nuotare, il mio corpo si mostri particolarmente restio all’esercizio fisico, e che mi faccia sentire il peso della stanchezza, i muscoli indolenziti, e che una mente vagamente annebbiata reclami la superficie morbida di un materasso su cui si prospetta una siesta rigenerante. A volte, però, la pigrizia è cattiva consigliera, e in quei momenti mi rendo conto che bisogna invertire la logica, sospendere le sensazioni, sfidare l’evidenza. Agire controtendenza, in questi casi, è faticoso, ma è proprio lo sforzo che ci fa capire perché ne vale la pena. Perché fare fatica a volte non solo è utile, ma è la misura di un prezioso benessere e di un equilibrio solido fra il corpo e la mente.
Il popolare scrittore giapponese Murakami Haruki da anni pratica il jogging quotidianamente, in modo assiduo e disciplinato. Come racconta nelle pagine del saggio L’arte di correre (Einaudi: 2009), ogni giorno fortifica il suo corpo e alleggerisce la mente correndo. Chi, come Murakami, ha eletto il jogging a proprio passatempo privilegiato, sa benissimo che correre non è un gioco: per praticare regolarmente bisogna essere costanti e
disciplinati. Ma non solo: chi affronta questo sport con serietà deve fare i conti con la fatica.
Parlando in modo diffuso, nelle pagine de L’arte di correre, della passione per la corsa, Murakami incappa inevitabilmente nel punto nevralgico, di cui dicevamo sopra, in cui le fin troppo comode e rassicuranti verità del senso comune vengono rovesciate. «Per quanto la corsa mi sia consona –afferma Murakami –, ci sono giorni in cui mi sento fiacco, in cui non ho voglia di muovermi. Anzi, mi succede piuttosto spesso. In tali occasioni trovo mille pretesti per concedermi una giornata di riposo». Incuriosi-
to, e forse un po’ allarmato da questa realtà, Murakami si chiede se anche i grandi atleti affrontano piccoli dilemmi quotidiani quando la mente e il corpo, nel momento in cui devono applicarsi, forniscono accattivanti pretesti per concedersi momenti di relax prolungato. Poi, quando gli viene data l’opportunità di intervistare l’ex maratoneta e campione olimpionico Seko Toshihiko – ora diventato allenatore di atletica –, lo scrittore non perde occasione per chiedergli: «Quando si arriva al suo livello, ci sono giorni in cui uno proprio non vorrebbe correre, in cui sente che non ce la fa e preferirebbe restarsene a ca-
sa a dormire?» Al che Seko, senza pensarci su, risponde: «Certo, è ovvio. Mi succede di continuo!»; come a voler dire «ma che razza di idiozie chiede?».
Anche se la società ci abitua a associare il tempo libero con passatempi tutto sommato secondari o accessori rispetto al lavoro, nasce il dubbio che il binomio fra il riposo e il tempo libero non sia poi così scontato. O meglio, che il riposo, il piacere e la rigenerazione che definiscono il tempo libero non siano in opposizione con la fatica: ma che, anzi, la fatica rappresenti un aspetto importante dell’impiego che molte persone
fanno del loro tempo libero. Chi dice che nel tempo libero non si può fare fatica ha dunque sottovalutato gli aspetti positivi di un’esperienza della fatica al servizio dei propri obiettivi e del benessere psicofisico. Un’idea, questa, che fornisce il filo conduttore di Elogio della fatica (Ponte alle Grazie, 2014), un interessante libro che lo psichiatra, psicoterapeuta e formatore Matteo Rampin dedica al tema della fatica nello sport. «L’otium – scrive Rampin nell’introduzione al volume –, il riposo attivo di chi dedica parte della sua giornata ad accrescere i propri talenti fisici, intellettuali, morali, spirituali esige una disciplina faticosa, perché è un riposo regolato, controllato, razionale, che fa parte di un equilibrio che investe tutti i piani dell’esistenza della persona. Esso rigenera e rende migliore la persona e la società». Proprio per questo, l’otium non esclude la fatica, anzi la valorizza, la nobilita. La rende più sopportabile, perché da fardello la trasforma in opportunità.
Ogni capitolo di Elogio della fatica racconta, in modo agile e accessibile, l’esperienza della fatica di uno sportivo famoso (gli appassionati riconosceranno i nomi di Igor Cassina, Luca Dotto, Christof Innerhofer, Alessandra Sensini, e molti altri), la centralità che questa riveste nel quotidiano degli atleti ma anche la potenziale saggezza che dischiude quando si trasforma in autentica maestra di vita. E se, indubbiamente, gli sportivi d’élite protagonisti di questi racconti sono anche dei professionisti dello sforzo, il libro riguarda però tutti: a partire da chi, praticando uno sport o un’altra attività che richiede disciplina e costanza, ha deciso di scommettere sulla fatica.
Come afferma Alessandra Sensini, protagonista di un capitolo di Elogio della fatica dedicato alla vela, disciplina in cui ha vinto l’oro olimpico nel 1996 e i campionati mondiali nel 2000 e nel 2004 nella classe Mistral, «l’addestramento alla fatica sportiva è utile soprattutto perché si trasferisce anche in altri settori della vita. Lo sport educa, ma contemporaneamente rende familiari anche altri aspetti in qualche modo legati alla fatica, come la rinuncia, la sfida, il confronto con gli altri. Tutti valori – conclude Sensini – che aiutano a crescere e maturare nell’ambito sportivo, ma soprattutto nella vita».
Consigli di lettura Murakami Haruki, L’arte di correre (Einaudi 2009) Matteo Rampin, Elogio della fatica (Ponte alle Grazie 2014).
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TEMPO LIBERO
Contrariamente alla figura di Sisifo, condannato a spingere per l’eternità sulla china di una collina un masso che, una volta raggiunta la cima, rotola sempre verso il basso, la fatica nel tempo libero può essere utilissima. Sopra: Sisifo di Tiziano, 1548-49, Museo Prado, Madrid, Spagna (Wikimedia).
Genova, incantevole «signora del
Itinerari ◆ Una passeggiata nel cuore antico della «Superba», tra reminiscenze letterarie, fama di grande avarizia e di donne bellissime
Romano Venziani, testo foto e illustrazione
Chissà perché non ho mai fatto la corte a Genova? Nel senso di frequentarla, riservarle particolari attenzioni, penetrarne i segreti, conoscerla nella sua intima essenza. Per conquistarla. Come faccio solitamente con molte altre città. Non che l’abbia mai veramente snobbata, ma l’ho sempre trattata da luogo di passaggio, da o per la Riviera, di levante e di ponente, o di ritorno dalla luce abbagliante della Provenza. Tutt’al più mi ci sono fermato quel tanto che basta per una visita all’Acquario o al Museo del mare. Tutto lì. E non è per quel suo chiamarsi «Superba», perché troppo tempo è ormai passato da quando il Petrarca l’ha definita così. D’altronde il grande poeta lo usa in senso buono, quell’aggettivo, quando, nel 1358, di passaggio da Genova tesse le lodi di questa «città regale, addossata ad una collina alpestre, superba per uomini e per mura, il cui solo aspetto la indica signora del mare»
Del resto, molti altri ne hanno vantate le meraviglie. Per Dickens c’è sempre qualcosa da scoprirvi, Flaubert rimane estasiato dal suo splendore e dalla dovizia di marmi, che ricoprono strade, chiese e palazzi, che «si toccano tanto sono vicini e, passando dalla strada, si vedono i soffitti patrizi tutti dipinti e dorati».
Mark Twain è letteralmente rapito dalla sua bellezza e da quella delle sue donne, che ammira passeggiando nelle grandi piazze e nei giardini. «Può darsi – scrive – che vi siano in Europa donne più graziose, ma io ne dubito».
Avidità o parsimonia?
A dire il vero, hanno anche fama di grandi avari, i Genovesi, e Montesquieu li trova poco socievoli a causa di questa «loro estrema avarizia» e ne addita l’avidità, espressione forse della loro lunga tradizione mercantile, «Quei bei palazzi sono in realtà, fino al terzo piano, magazzini per le merci. Tutti esercitano il commercio, e il primo mercante è il Doge». Più vicino a noi, Maurizio Maggiani corregge il tiro, «Genova parsimoniosa non è mai stata avara. Infatti è colma di bellezza, e la bellezza non abita nell’avarizia. La natura della sua bellezza consiste nella complessità, e la complessità in Genova si forma nell’accumulo, nella sovrapposizione, nell’accatastamento, nella coabitazione… Può darsi che la parsimonia venga dal mare; di sicuro nel porto non si butta via mai niente e niente è mai passato» 1
Date queste premesse, penso sia tempo e ora di riservare alla Superba maggiore attenzione. E così, decido di passarci qualche giorno girovagando per i suoi caruggi, gli angusti vicoli che ne sezionano il centro storico.
«Sono partito da Sottoripa, punto cardinale di una città che serba intatto il suo mistero» 2
Mi sembra una buona idea, quella di Tabucchi. Per cui parto anch’io di qui. È proprio passando dal vicolo di Sottoripa, che comprendi l’atavico rapporto di Genova con il mare. Quel mare, che un tempo arrivava a lambire i lunghi portici, i più antichi d’Italia, le cui fondamenta sono sotto ripa, ovvero costruiti sotto il livello della banchina portuale. Qui in passato erano ospitati i magazzini debordanti di merci appena sbarcate o pronte a prendere il mare, ora invece c’è un’infilata di negozi, pizzerie, osterie, che sanno evocare fantasie di viaggi, salsedine e terre lontane ormai solo con il loro nome.
Lì di fronte, oltre la (purtroppo)
oscena Sopraelevata intasata di traffico, c’è il Porto Antico, ridisegnato nel suo complesso da Renzo Piano, in occasione delle Celebrazioni colombiane del 1992, e oggi una delle aree più animate della città. Infatti c’è ressa, in questa tiepida domenica mattina. Un brulicare di famiglie in fila davanti all’Acquario, bambini che si rincorrono, turisti che passeggiano, coppie sorridenti per un selfie, venditori di bibite, gelati, gadgets colorati e ricordi vari, vucumprà sul chi vive e drappelli ciondolanti di extracomunitari. C’è un viavai anche sui ponti del Neptune, quello dei Pirati, di Roman Polanski, costruito espressamente per il film, nel 1986, in un cantiere navale tunisino. Non solo sta a galla, ma può navigare per davvero, come un autentico vascello d’altri tempi e, dopo aver fatto tappa al porto di Cannes, per la presentazione al Festival della pellicola di Polanski, è arrivato a Genova e ora eccolo lì, ormeggiato al Ponte Calvi come attrazione turistica. Immobile, che non sembra qua-
si appoggi sull’acqua, con un enorme dio Nettuno armato di tridente a far da polena, i cannoni che si affacciano dai boccaporti e le cariatidi dorate a sostenere il castello di poppa.
Quante ne avrà viste, di navi così, il Porto Antico, nella sua storia? Tante, perfino una dallo scopo oltremodo curioso. Quella che, sul declinare del Seicento, il duca Andrea Doria ormeggia qui trasformandola in un originale postribolo galleggiante. A proposito, eccomi in Via del Campo, dove negli anni Sessanta un giovane De André incontra una graziosa, dagli occhi grandi color di foglia, che tutta la notte sta sulla soglia e vende a tutti la stessa rosa. Si scoprirà poi essere un travestito, di nome Giuseppe, che si faceva chiamare Joséphine.
Faber ci ricava comunque la sua bella canzone.
Stamattina, in Via del Campo, non ci sono né graziose né bambine con le labbra color rugiada, vedo solo una rosa appassita, appiccicata ad un muro sotto una targa omaggio al grande De
André, la quale ricorda che «dai diamanti non nasce niente, dal letame nascono i fior»
Questo è il cuore antico e popolare della Superba, dove un tempo fiorivano i più svariati e bizzarri commerci, alimentati dalla vicinanza del porto. Per favorirne la ripresa economica, dopo l’epidemia di peste del 1656, si permette l’insediamento in città degli Ebrei, che qui avranno il loro ghetto. In questi vicoli, nel Quattrocento, per un privilegio concesso ai monaci devoti a Sant’Antonio Abate, santo ritenuto taumaturgo, potevano vagare liberamente branchi di porci, che facevano da spazzini e tenevano, si pensava, lontani i malanni.
Proseguo per Via di Pré, risalgo la suggestiva piazza dei Truogoli di Santa Brigida, serrata da alti palazzi colorati, su cui sventolano come bandiere panni messi ad asciugare. In mezzo c’è uno dei pochi lavatoi seicenteschi sopravvissuti in città.
Raggiungo Via dei Balbi e quella che, nella stratificazione cittadina, definirei la Genova aristocratica e della borghesia mercantile. Incomincio ad avvertire odore di casa e scopro che, dietro la profusione barocca di palazzi e monumenti, c’è lo zampino di architetti, scultori e altre maestranze provenienti dalle terre ticinesi, che qui hanno lavorato dal XV al XVIII secolo.
I Cantoni, per esempio, della Valle di Muggio, che si son dati da fare e hanno lasciato il segno in decine di opere a Genova e in tutta la Liguria.
Pier Francesco è tra i costruttori, a metà Seicento, dell’imponente dimora patrizia della famiglia Balbi, poi dei Durazzo, divenuta infine Palazzo Reale nel 1824. Ceduto dai Savoia allo Stato italiano a inizio Novecento, oggi è Patrimonio dell’Unesco e conserva intatti gli spazi interni, in cui si possono ammirare pregevoli arredi e
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La costruzione settecentesca dove la tradizione ritiene che si trovasse la casa natale di Cristoforo Colombo, in Vico Diritto di Ponticello.
Le terrazze di Palazzo Reale, inserito nel 2006 nella lista dei 42 «Rolli» di Genova, patrimonio dell'umanità dell'UNESCO.
mare» cantata da Petrarca
Ma anche curiosità e spettacolari tracce dell’ingegno di architetti e maestranze di casa nostra
conversazioni inspiegabilmente multilingue per commensali tutte italiane. Che facciano parte dei «discendenti della dignità dogale della Repubblica. L’aristocrazia borghese» 3, che Maurizio Maggiani non sospettava nemmeno potessero esistere e che si è visto «passare sotto il naso mille volte» senza saperli riconoscere? Le ignoro, ormai catturato da uno squisito piatto di trofie al pesto.
Il simpatico padrone, però, la sa lunga.
Mi racconta che a costruire la Strada Nuova e i palazzi sono stati alcuni architetti lombardi, che arrivavano qui con aiutanti e famiglie al seguito. Ticinesi, anche loro? Un interessante studio di Stefania Bianchi mi toglierà ogni dubbio 4
opere originali.
Mi ributto nell’intrico di caruggi, in cui il sole s’infila a stento, lasciando sul lastricato chiazze d’umidità, residui, spero, di un dubbioso piovasco notturno.
In Vico di Pellicceria ci sono le Gallerie Nazionali di Palazzo Spinola, dove mi attende, tra le altre opere eccezionali, un dolente Ecce Homo di Antonello da Messina. All’entrata, mi salta all’occhio il monumento funebre con il ritratto equestre del padrone di casa, Francesco Spinola, trapassato nel 1442, superbamente ritto sul suo cavallo. È l’opera dello scultore Filippo Solari da Carona, il quale, nel suo laborioso vagabondare tra le città italiane, approda anche a Genova e vi
lascia le sue tracce, qua e là condivise con quelle di un suo conterraneo, Andrea da Ciona.
Prossima tappa, Via Garibaldi, nata come Strada Nuova a metà del Cinquecento, su cui si affacciano il Palazzo Rosso, il Palazzo Bianco e il Palazzo Doria Tursi, tre delle oltre cento sontuose dimore nobiliari della Superba, conosciute come i Rolli Un certo languorino mi distoglie dalla peregrinazione storico-artistica, così adocchio un ristorantino che promette bene. Un ambiente intimo, che profuma di pasta fatta in casa, ma anche della «puzza sotto il naso» di buona parte degli avventori, signore di mezz’età ingioiellate e spocchiose, in casual firmato, immerse in fitte
Tappe consigliate di un itinerario adattabile
È un itinerario «à la carte», quello che vi propongo. Adattabile alla curiosità e agli interessi di tutti coloro che decidono di rendere visita alla Superba. Lasciatevi catturare da una visione nella luce tenue di un caruggio, seguite un’intuizione, rincorrete i dettagli, annusate la vita, un filo sottile vi porterà a scoprire le bellezze di questa città. Anche quelle nascoste.
Partenza: Porto Antico
Il Porto Antico, con la sua abituale animazione è un buon punto di partenza. Seguite per un po’ i portici di Sottoripa, risalite Via del Ponte Calvi, che vi porterà in Via del Campo.
Arrivati a Porta del Vacca, attraversate Via delle Fontane e infilatevi in Via di Pré, più avanti troverete l’indicazione per i Truogoli di Santa Brigida.
Un portico con una scalinata vi immette in Via Balbi. Qui inizia a manifestarsi la presenta dei monumenti più macroscopici e vistosi della Superba, come il Palazzo Reale e i suoi giardini.
Via Balbi sfocia nella piazza dominata dalla mole imponente della Santissima Annunziata del Vastato, l’antica cattedrale.
Prossima destinazione
Palazzo Spinola
Scendendo da Via Lomellini, vi ritrovate nell’intrico dei caruggi e qui sbrogliatevela voi, lasciandovi sorprendere.
Se volete andare sul sicuro, seguite le vie del Fossatello, di San Luca, della Maddalena e del Rosario, vi ritroverete in Vico di Pellicceria e sarete arrivati.
Proseguite per Via della Posta Vecchia, se la risalite incrocerete Via Garibaldi, con alcuni dei Rolli, le sontuose dimore nobiliari, oggi in parte musei. A questo punto, entrate in un’edicola e compratevi una cartina di Genova, se non l’avete già fatto. Meglio di Google Maps nello smartphone.
Salvo pessimo senso dell’orientamento, potrete così raggiungere facilmente la Cattedrale di San Lorenzo, il Palazzo Ducale e l’antistante
Piazza Giacomo Matteotti.
Poco lontano c’è la Piazza Raffaele de Ferrari.
Un selfie con, alle spalle, i fiotti spumosi della sua fontana, un’occhiata ai bei palazzi circostanti, tra cui quello della Borsa Valori, poi proseguite su Via Dante. Seguitela fino al semaforo, svoltate l’angolo e troverete un minuscolo edificio un po’ cadente, con le bandiere sulla facciata. È la casa (ricostruita) di Cristoforo Colombo, con un piccolo museo.
Una leggera salita e vi ritroverete sotto Porta Soprana, da dove potrete poi scendere di nuovo al Porto Antico.
Arrivo: Porto Antico
Dislivello: insignificante.
Lunghezza del percorso: variabile, a seconda del vostro senso dell’orientamento e del tempo consacrato alla visita di palazzi e monumenti. Tempo di percorrenza: idem.
Per poter apprezzare meglio tutto quanto offre Genova e consacrare un po’ più di tempo ai suoi monumenti, potreste «diluire» l’itinerario su due giorni, un fine settimana, ad esempio.
L’artefice della progettazione della Strada Nuova è uno dei capostipiti della famiglia Cantoni, Bernardino, arrivato a Genova, quattordicenne, nel 1519. Anche al Palazzo Rosso, ora museo, lavorano tra il 1671 e il 1677 maestranze della valle di Muggio, come un altro discendente dei Cantoni, Pietro Lorenzo, a cui succede il figlio Gaetano, o i Maggi e i Pozzi. E ancora, Simone Cantoni, a cui si deve la settecentesca facciata neoclassica del Palazzo Ducale, oggi fulcro della città e centro della sua vita culturale.
I nomi si susseguono, saltano fuori da ogni dove, come dire, la nostra gente ha fatto grande anche la Superba, ha contribuito a edificarne l’immenso patrimonio storico e artistico e a perpetuarne la bellezza.
Si sta facendo tardi e il mio alluce destro dà segni di sofferenza, per cui mi limito a una capatina nella cattedrale di San Lorenzo, dove mi stupisce un’enorme bomba, messa lì a mo’ di scultura in un angolo della navata. È la replica dell’ordigno inglese che ha colpito l’edificio religioso nel 1941, sfondandone il tetto, ma rimanendo inesploso.
Attraverso la splendida Piazza Ferrari, con la sua spumeggiante fontana, do un’occhiata all’improbabile Casa di Cristoforo Colombo, ammiro l’antica Porta Soprana con le sue slanciate torri, dove un tempo erano appese le teste dei condannati a morte, a monito dei passanti. Mi affretto verso l’Oratorio di Sant’Antonio Abate della Marina. M’incuriosisce il Cristo Moro, lì conservato, un crocefisso processionale in legno di giuggiolo del 1639, opera di un altro dei «nostri», Domenico da Bissone. Ma lo trovo chiuso.
E così torno al Porto Antico, mentre il sole già imporpora il mare su cui si staglia la sagoma scura della Lanterna, il faro simbolo di Genova, alla cui ricostruzione nel 1543 collaborano il buon Bernardino Cantoni, sempre lui, e Francesco di Gandria, allora architetto del Comune.
Note
1. Maurizio Maggiani, Mi sono perso a Genova. Una guida, Feltrinelli Editore, Milano, 2018, pp. 80-81
2. Antonio Tabucchi, Viaggi e altri viaggi, Feltrinelli 2010, pg. 109
3. Maurizio Maggiani, op. cit., pg. 43
4. Stefania Bianchi, Partir per Genova: il contributo di alcune maestranze della valle di Muggio al settecentesco rinnovamento edilizio della città, in Mélanges de l’école française de Rome , 2007, pp. 285-297
I «Rolli»,
l’albergo diffuso del Cinquecento
A volte li scopri sfogliando un libro, ricordando qualche verso, adocchiando un nome inciso su una lapide o su un frammento di pietra urbana incastonato in un muro. Letterati, poeti, artisti, musicisti, navigatori, papi e santi, è sorprendente quanti personaggi hanno soggiornato a Genova. E tutti hanno lasciato un segno, una traccia seppur minima nella vita e nella storia della Superba.
Vip stranieri in città
Oltre a quelli già ricordati, ne butto lì qualcun altro. Anton Cechov, ad esempio, Alexandre Dumas padre, Friedrich Nietzsche, Lord Byron, o, ancora, Oscar Wilde e colei che sarà sua moglie fino allo scoppio dello scandalo per l’omosessualità dello scrittore, Constance Lloyd, morta in Liguria nel 1898 e sepolta nel cimitero monumentale di Staglieno, sulle colline di Genova, dove Wilde torna l’anno seguente, per depositare un fiore sulla sua tomba.
Ma che ci venivano a fare, tutti questi stranieri, nella città ligure?
Che non ha il fascino lagunare della Serenissima o l’eredità del mondo antico di Roma oppure l’abbondanza artistica di Firenze, tra le mete più gettonate del Grand Tour.
La maggior parte sembra fosse qui solo di passaggio, sulla strada per altri lidi. D’altronde si sa, nel passato il viaggio è un’avventura, un evento con i suoi ritmi e i suoi tempi. Si fa tappa qua e là lungo il percorso e ci si ferma per giorni o settimane.
E così tutti questi illustri viaggia-
tori scoprono lentamente le bellezze della Superba e ne rimangono affascinati «fino al punto di sentirmi attratto fin dalle pietre delle vie» come scriverà Paul Valéry. Soggiornano spesso negli stessi alberghi, come l’Hotel France, il Croce di Malta, il Feder o la Pensione svizzera, oppure ospiti nelle ville di conoscenti e amici. C’è un periodo però nel passato di Genova, in cui si sperimenta una forma particolare di ospitalità, in un certo senso il primo esempio di albergo diffuso, anche se non proprio appannaggio dei comuni mortali: i Rolli.
Ricchezza e bellezza
A metà del 1500, il Secolo d’oro della Repubblica genovese, un vasto progetto urbanistico trasforma una parte della città vecchia in una straordinaria vetrina traboccante di ricchezza e bellezza. Si apre la Strada Nuova, su cui vengono ad affacciarsi le sontuose dimore delle grandi famiglie, con gli interni decorati dai migliori artisti dell’epoca dai fiamminghi Rubens e Van Dick a Tiziano o Paolo Veronese. Li chiamano i Rolli, questi palazzi, nei quali i proprietari, per un curioso decreto del Senato, sono obbligati ad ospitare le importanti personalità in visita di stato alla città. Agli ospiti, teste coronate, diplomatici, esponenti delle alte gerarchie della Chiesa, vengono assegnati i palazzi in base a un sorteggio dalle liste degli alloggiamenti pubblici, detti appunto rolli, o ruoli, ovvero elenchi. Da lì, il nome. Un’usanza che durerà almeno fino all’inizio del Settecento.
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Una delle quarantadue antiche residenze genovesi, dove dal XVI sec. venivano ospitate le celebrità di passaggio. Ogni anno nei «Rolli Days» vengono riaperte al pubblico.
Le torri di Porta Soprana, anche detta Porta di Sant’Andrea, uno degli accessi medievali alla città.
L’Orto Botanico di Brera
Giardinaggio ◆ Nel cuore di Milano un luogo di silenzio e di storia che invita all’indugio e alla contemplazione
Eliana Bernasconi
Difficile, nel cuore antico di Milano, non conoscere l’entrata dell’Accademia di Belle Arti di Brera che dà il nome al quartiere omonimo, con la Pinacoteca, la Biblioteca Braidense, l’Osservatorio astronomico e molto altro ancora. Entrando nel palazzo dal lato destro, al termine di un buio corridoio dove si intravvedono bianche statue, svoltando di nuovo a destra, improvvisamente ci si trova immersi in un’isola verdissima. Ben nascosto tra i palazzi, tra le vie e gli eleganti negozi, scopriamo uno degli orti botanici più antichi del mondo, che nei suoi 5000 metri quadrati di estensione amorosamente protegge e custodisce 300 specie di erbe rare, di piante medicinali e di alberi di ogni parte del mondo. Varcando il piccolo cancello entriamo anche nella storia, i piedi camminano su un terreno coltivato allo stesso scopo nel lontano 1300, immutato da quando il giardino era luogo di meditazione dei padri Umiliati e in seguito dei Gesuiti che risiedevano nel palazzo: le specie mediche coltivate tra queste mura rifornivano una delle prime farmacie che si è mantenuta nei secoli, la stessa farmacia che ancora oggi trova posto nella vicina Via Fiori Oscuri.
Fu l’imperatrice Maria Teresa d’Austria, sovrana assoluta di tutto il Nord Italia, a volere che il palazzo di Brera si trasformasse in luogo di edu-
cazione per le lettere, le arti e la scienza. I gesuiti vennero allora sostituiti da una scuola di medicina, e nel 177475 il giardino divenne il primo Orto Botanico per la coltivazione e lo studio di ogni specie medica: l’approccio facile a ogni tipo di disturbo che noi conosciamo era di là da venire, i farmaci chimici e industrializzati non esistevano, la materia prima cui si faceva ricorso per guarire ogni malattia era una sola, la pianta. Da allora, attraversando l’epoca napoleonica e vicissitudini varie, l’«Hortus Botanicus Braidensis» è sempre proseguito e a partire dal 1935 è gestito dalla Regione e dall’Università degli Studi di Milano che ne ha totale competenza, e oggi è sotto ogni aspetto un centro di ricerca scientifica e porta anche il nome di Museo delle piante.
Un importante restauro nel 2001 gli ha restituito l’antico aspetto di giardino storico, gli scavi compiuti nel terreno hanno riportato alla luce piccoli mattoni in ceramica che delimitavano le aiuole settecentesche, gli stessi mattoni sono stati riutilizzati per delimitare le lunghissime strette aiuole che formavano la struttura originale antica. È stata ricuperata e mantenuta la divisione in tre settori, separati da due vasche di forma ellittica che un tempo raccoglievano l’acqua dei canali che correvano scoperti per le vie di Mila-
no, una parte di questi corsi d’acqua infatti era utilizzata per le piante. Nei due più grandi settori dell’Orto Botanico troviamo una fitta successione di strette aiuole con collezioni di ogni tipo di piante, alcune aiuole ospitano numerose specie medicinali di varie famiglie, in altre, con particolare attenzione al microclima delle aree dell’Orto, sono collocate piante mediterranee che crescono in ambienti aridi e umidi, mentre altre piante sono suddivise per il loro uso alimentare o tessile, per carta e tintoria.
Le «Piante per la salute» hanno un percorso particolare e recano un cartellino identificativo ricco di informazioni sul loro luogo di origine, sui principi fitoterapici, sulle parti utilizzate e sulle parti del corpo per cui sono indicate. Tutte le piante sono classificate in base alle famiglie e all’ordine di appartenenza, anche se oggi i moderni botanici, per la continua introduzione di piante con proprietà diverse, hanno operato stravolgimenti enormi tra tradizionali generi e famiglie. Nell’Orto Botanico trovano un posto importante le piante rare conservate per la loro biodiversità, tra le piante autoctone della Lombardia ammiriamo ad es. l’esile «Garofano dei certosini» accanto a una lussureggiante «Felce regale» o ad altre piante meno note ai non esperti. All’ingresso, una lunga aiuo-
la ospita la famiglia botanica delle Lamiaceae, di cui fa parte la salvia, e sono infatti oltre una decina le differenti varietà che possiamo osservare e che provengono da ogni parte del mondo: di ognuna notiamo le diverse forme delle foglie, il loro modo di proteggersi dagli insetti, annusiamo i differenti aromi e profumi. Nel terzo e ultimo settore dell’Orto Botanico un’area speciale è chiamata «Alboreto», e vi troviamo due meravigliosi e alti alberi di «Ginko Biloba», vecchi di 250 anni e considerati un poco il simbolo dell’Orto Botanico. Di questa antica pianta, le cui foglie tra l’altro sono uno dei migliori rimedi per combattere la perdita di memoria, troviamo già tracce nei fossili, è composta da alberi maschio e alberi femmina, ma la dif-
ferenza può essere notata solo nei fiori e nei semi.
Al termine della visita ci rendiamo conto di aver fatto esperienza di un luogo di silenzio e di pace. Qui si entra liberamente secondo comodi orari, sedie e tavolini sono collocati per chi desidera sostare nel verde, passeggiare tra i colori dei fiori o scoprire il verde tenero di nuovi germogli, leggendo un libro o semplicemente godendo dell’ambiente sereno.
L’Orto Botanico è un luogo di studio scientifico ma anche di magia, in un piccolo spazio evidenzia le eterne trasformazioni delle piante, la loro nascita, morte, crescita e fioritura, ma ci ricorda che anche noi ubbidiamo alle stesse leggi e siamo parte della natura.
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Giochi di luce nell’Orto Botanico di Brera, un polmone verde, oasi di pace e di natura nel pieno centro della città lombarda. (Bernasconi)
Hamburger, che passione
Gastronomia ◆ Un «cibo-mondo» particolarmente amato e dalle mille varianti, tutte personalizzabili
Allan Bay
L’ultima volta che ho parlato di hamburger come tema principale correva l’anno 2011: poi ho raccontato tante ricette, sia chiaro. Comunque vale la pena di riparlarne.
Resta che non è facile parlare di hamburger. Perché è oramai un «cibo-mondo», ovvero una preparazione dal successo planetario, onnipresente in tutti i Paesi dell’orbe terracqueo.
Non è l’unico, sia chiaro, lo sono anche la pizza, il sushi, il fish&chips, i dim sum, i chop suey cinesi e pochi altri. Lo stanno diventando i poke, che hanno un radioso futuro. Ma questa onnipresenza è tale che dovrebbero essere gli antropologi a parlarne, più che gli appassionati di cucina.
Comunque bisogna mettere qualche punto fermo. Il principale è che gli hamburger sono una polpetta di carne, ma anche di altre infinite proteine, animali ma anche vegetali, inserita in un panino bello grosso con verdure, salse e condimenti vari. Quindi non è un disco di carne da mangiare e basta, ma un cosiddetto piatto unico, ovvero un piatto dove sono presenti proteine e carboidrati, oltre che verdure e salse. Che poi lo si mangi con le mani rischiando di slogarsi la mascella o in un piatto con coltello e forchetta, è una libera scelta.
Le proteine sono il cuore dell’hamburger. Certo, si possono mettere anche solo verdure, un buon piatto, certo, ma non è un hamburger. Ma le proteine ci vanno tutte: la carne di manzo in prima battuta, ma anche tutte le carni che esistono, tutti i pesci e tutti i legumi, inclusi quei mitici derivati della soia che sono il tofu, il tempeh e il seitan; oltre alle le uova.
Detto tutto questo, a me piacciono. Poi mi piace scatenarmi per inventare varianti. E dato che per fare ricette e foto, da chiunque commissionati, devo comprare una immane quantità di materie prime, che per motivi etici
mai (meglio: molto raramente…) butto, mi sono «specializzato» a preparare hamburger con gli «avanzi» degli acquisti.
Ergo, in questo momento, il mio computer mi informa che queste ricette ci sono in varie cartelle: hamburger alla caprese; hamburger con baccalà e patate; hamburger con lenticchie e scarola; hamburger con ossobuco, pomodoro e aglio; hamburger con uova pochè; hamburger di agnello e patate; hamburger di alici e zucchine con pesto di lattuga; hamburger di aringhe affumicate con finocchio; hamburger di carote, patate e yogurt; hamburger di ceci, hamburger di cernia e pomodoro con patate e olive; hamburger di erbe e seitan; hamburger di manzo, uovo e zucchine; hamburger di pesce con maionese alle erbe; hamburger di piselli; hamburger di scorfano; hamburger di soia. E molte altre. Spesso fotografate, magari con il solo telefonino, per ricordarle.
Quindi il consiglio che do a tutti è: inventatevi il vostro hamburger, lo gusterete di più.
I vincoli sono pochissimi. Il meno ovvio è che la carne deve avere una buona percentuale di parti grasse, almeno il 20 percento, perché in cottura l’hamburger resti morbido, poiché se troppo magro diventa stopposo, consiglio quindi di utilizzare biancostato. I pesci vanno bene tutti, con cotture nulle o quasi, ma la presenza di una salsa cremosa è tassativa; i legumi devono essere ben cotti e spezzettati, anche qui con abbondanti salse.
Le salse vanno bene tutte, quella che uso di più è il relish, ovvero una salsa di cetrioli e altro a piacere, acidificata con aceto di mele e addolcita con zucchero, che è veramente universale, oserei dire che è valida come il ketchup, ma più buona… La trovate un po’ a fatica ma farla in casa è facile (vedi accanto).
Vediamo come si fa l’hamburger che piace a me. È un po’ complesso ma… Per 4 persone. Fate il relish: mondate e tritate 2 cetrioli, 1 grossa cipolla e 80 g di cavolo e metteteli in una ciotola, aggiungete 1 manciatina di sale e fate riposare per 6 ore. Scolate, sciacquate, mettete in
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Ballando coi gusti
Hamburger di sgombro e peperoni
un pentolino, unite 80 g di acqua, 80 g di aceto di mela, 80 g di zucchero bianco, poco sale e 1 punta di senape e cuocete fino ad addensare. Poi tenete in frigorifero. Mettete 800 g di polpa di biancostato tritata ma grossolanamente, non fine, in una terrina e conditela con sale e pepe buono. Aiutandovi con uno stampo formate 4 hamburger e lasciateli riposare in frigorifero per 30 minuti. Tagliate a fette una cipolla e 8 pomodorini, sfogliate una manciata di lattuga tenera. Cuocete i burger in una padella di acciaio unendo un nonnulla di burro oppure su una griglia ben calda pennellata di burro fuso
per circa 3 minuti per lato. Trasferite la carne su una graticola con sotto una teglia (per raccogliere i succhi di cottura che colano) e ultimate la cottura in forno a 180°C per altri 3 minuti per una cottura media. Fate riposare la carne 5 minuti fuori dal forno per poi rigenerarla definitivamente a 180°C per 2 minuti. Prendete 4 pani bianchi per hamburger al sesamo, tagliateli a metà e scaldateli nel forno. Spalmate le metà con poco burro morbido, spennellatele con i succhi di cottura della carne, adagiate le verdure, terminate con il burger. Prima di chiudere il panino, arricchite con abbondante salsa relish.
Hamburger di maiale, formaggio e cannellini
E coerentemente al tema di oggi, ecco… due hamburger
Ingredienti per 4 persone: filetti di sgombro sott’olio g 500 – peperoni sott’olio – polpa di patate lessa ben calda g 100 – 1 presa di basilico – 1 tuorlo – pane al sesamo – pecorino (facoltativo) – insalata soncino o altra – olio d’oliva – sale e pepe.
Sgocciolate lo sgombro dal suo olio di governo e mettetelo in una ciotola. Unite la polpa della patata e mescolate cercando di sminuzzare il pesce il più possibile. Salate, pepate, unite il basilico e il tuorlo. Amalgamate e formate gli hamburger. Sciacquate i peperoni sott’olio e scolateli su carta da cucina. Scaldate la piastra e cuocete gli hamburger 4 minuti per lato. Prima di togliere gli hamburger sistemate anche le falde di peperone sulla piastra e grigliatele su entrambi i lati. Servite gli hamburger immediatamente tra due fette di pane al sesamo calde, arricchite con le falde di peperone, l’insalata e scaglie di pecorino, se gradito.
Ingredienti per 4 persone: polpa di maiale tritata o tagliata al coltello g 200 – prosciutto crudo tritato fine g 100 – fagioli cannellini cotti g 200 –pecorino a scagliette g 100 o più – 1 cucchiaio di vino liquoroso – foglie di radicchio o di altra insalata – maionese al pomodoro – pane da hamburger – olio d’oliva – aglio – sale e pepe.
Sciacquate e scolate i cannellini. Passateli nel mixer o nel setaccio a mano. In una padella scaldate 2 cucchiai di olio. Unitevi uno spicchio di aglio pelato e aggiungete la polpa dei cannellini. Fatela ben asciugare e versatela in una ciotola. Unite le foglie di salvia spezzettate e di seguito la carne, il prosciutto, il pecorino e il vino. Salate, pepate, mescolate e formate gli hamburger. Ungete leggermente una padella mettevi gli hamburger e cuoceteli a fuoco dolce per 8/10 minuti, girandoli spesso. Servite gli hamburger nel pane caldo arricchito con foglie di radicchio e abbondante maionese arricchita con salsa di pomodoro.
Settimanale di informazione e cultura Anno LXXXVI 22 maggio 2023 azione – Cooperativa Migros Ticino TEMPO LIBERO 17 Come si fa?
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I timbri fai da te
Crea con noi ◆ Un’idea per trasformare il cartone degli imballaggi in semplici timbri che piaceranno ai bambini
Giovanna Grimaldi Leoni
Materiale
Otterrete così due tipologie di timbri. Quelli con una texture fatti con la colla a caldo che potrete usare per creare degli sfondi, e quelli con delle forme fatte con il panno che, trattenendo meglio il colore, lasceranno un’impronta più evidente durante l’utilizzo.
Oggi vi presentiamo un tutorial per trasformare il cartone degli imballaggi in timbri fai da te con texture e motivi diversi. Potete personalizzarli a piacere e utilizzarli per sperimentare nuove tecniche con inchiostri o pitture. Grazie all’elastico fissato su di ognuno sono perfetti da impiegare anche per i bambini più piccoli che potranno facilmente infilare la mano sotto l’elastico.
Provateli su carte di diverse consistenze, su fondo bagnato o asciutto, e divertitevi a scoprire nuove creative possibilità.
Procedimento
Dal cartone spesso ricavate una decina di rettangoli 10 x 7cm (le misure possono variare, tenete questa come indicazione base) e rivestiteli con l’adesivo trasparente da entrambi i lati. Con la pistola della colla a caldo disegnate delle texture sui singoli rettangoli. Pois, righe, spirali, fiori… Lasciate asciugare. Dai panni multiuso o dalla gomma crepla ritagliate invece delle piccole forme e sempre con la colla a caldo andate ad applicarle sui cartoni restanti.
Giochi e passatempi
Cruciverba
Lo sapevi che il mercurio è l’unico metallo che rimane… Trova il resto della frase risolvendo il cruciverba e leggendo le lettere evidenziate.
(Frase: 7, 1, 11, 8)
ORIZZONTALI
1. Nelle reti fognarie
7. Le iniziali della conduttrice
D’Amico
8. L’attore Sharif
9. Parola... di mademoiselle
11. Una fase del sonno
12. Tasto su apparecchi elettronici
14. Le iniziali dell’attore Accorsi
15. Vi tramonta il sole
17. Pagamento a scadenza fissa
22. Tenda a pacchetto in spagnolo
24. Lo era Pietro il Grande
25. Per… per gli inglesi
27. Fiume della Bulgaria
29. Le iniziali di un noto Bixio
30. Epilogo
32. Giusto, corretto
34. Cani da guardia
35. La cascata più alta del mondo
VERTICALI
1. Zoppicare... in inglese
2. Feticcio
3. Le iniziali dell’attore Orsini
4. Pari nel palmare
5. Imponente
6. Nome femminile
10. Osteria
13. L’affermazione di Jeremy Irons
Ora prendete l’elastico e tagliatelo alla larghezza dei cartoni. Con i pennarelli disegnate la texture o il disegno del timbro sul quale lo fisserete. In questo modo saprete sempre quale timbro andrete a prendere e la direzione in cui dovete utilizzarlo.
Con filo e ago da ricamo cucite l’elastico ai singoli cartoni con qualche punto da ambo i lati. Ora non vi resta che munirvi di carta e provare i vostri timbri. Si può avere un effetto interessante anche dando una base leggera di colore al foglio prima di iniziare a stampare.
• Cartone di riciclo
• Pistola colla a caldo con ricariche
• Nastro adesivo trasparente largo
• Pennarelli colorati
• Elastico largo 3 cm
• Filo e ago da ricamo
• Panni in spugna multiuso (in alternativa gomma crepla)
(I materiali li potete trovare presso la vostra filiale Migros con reparto Bricolage o Migros do-it)
Idea in più: Lavorate su fogli di grandi e medie dimensioni e poi ritagliate le parti che più vi piacciono, in questo modo otterrete tanti biglietti d’auguri pronti all’uso.
Tutorial completo azione.ch/tempo-libero/passatempi
Vinci una delle 2 carte regalo da 50 franchi con il cruciverba e una carta regalo da 50 franchi con il sudoku
16. Si dice a «Sette e mezzo»
18. Poli alfabetici
19. Spesso precede il grazie
20. Albero spagnolo
21. Esprime noia e impazienza
23. Ha lunghe zampe posteriori
26. Antica lingua francese
28. Uomini inglesi
31. La pena nel cuore...
33. Le iniziali dell’attrice Grandi
Regolamento per i concorsi a premi pubblicati su «Azione» e sul sito web www.azione.ch
Soluzione della settimana precedente
LO SAPEVI CHE… – Il fisico Albert Einstein… Resto della frase:…
SUONAVA BENE PIANOFORTE E VIOLINO S UN O NENI
I premi, tre carte regalo Migros del valore di 50 franchi, saranno sorteggiati tra i partecipanti che avranno fatto pervenire la soluzione corretta entro il venerdì seguente la pubblicazione del gioco. Partecipazione online: inserire la soluzione del cruciverba o del sudoku nell ’apposito formulario pubblicato sulla pagina del sito. Partecipazione postale: la lettera o la cartolina postale che riporti la soluzione, corredata da nome, cognome, indirizzo del partecipante deve essere spedita a «Redazione Azione, Concorsi, C.P. 1055, 6901 Lugano». Non si intratterrà corrispondenza sui concorsi. Le vie legali sono escluse. Non è possibile un pagamento in contanti dei premi. I vincitori saranno avvertiti per iscritto. Partecipazione riservata esclusivamente a lettori che risiedono in Svizzera.
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Viaggiatori d’Occidente
Il ritorno dei cinesi
Di cosa dovremmo (pre)occuparci, noi che di viaggi viviamo e scriviamo? Qual è il problema principale in questa nervosa e interminabile fase di transizione verso un futuro incerto? Un possibile ritorno dell’epidemia, direte voi. Per quanto possa sembrare strano, non è lo scenario più temuto. Dopo tutto simili eventi non capitano tutti gli anni (anche se comunque più spesso di quanto crediamo) e, al bisogno, l’esperienza accumulata di recente aiuterà.
La crisi economica allora? Ovviamente fa paura. Veniamo da tempi difficili, ma il turismo è anche flessibile, adattabile, resiliente ; un termine abusato ma efficace. Il turismo si piega ma non si spezza ed è già ripartito, come ha mostrato l’anno scorso e ancor più farà la prossima estate. Nel 2023 infatti si dovrebbe tornare poco sotto ai livelli del 2019, ovvero prima della pandemia, quando si parlava di
iperturismo per sottolineare una congiuntura particolarmente dinamica. E comunque ben trentaquattro Paesi hanno già superato i livelli del 2019. Certo questo nostro è ancora un turismo di prossimità, con viaggi e soggiorni brevi; il turismo d’affari e quello internazionale su lunghe distanze hanno ritmi di recupero più lenti, ma non meno sicuri. Semmai, prima ancora dei mancati guadagni degli ultimi anni – che pure hanno causato qualche fallimento e assottigliato le risorse – pesa la perdita di capitale umano (anche per scarsa lungimiranza) in favore di altre professioni. Solo nel turismo il Covid ha causato la cancellazione di settanta milioni di posti di lavoro (su oltre trecentotrenta) e nuovi addetti non si formano dall’oggi al domani; se ne avverte acutamente la mancanza ora che la domanda è esplosa, dopo anni di forzata immobilità.
Passeggiate svizzere
Il gazebo di Winterthur
Architettura in disparte, malinconica, marginale, quella dei gazebo nei parchi mi è sempre stata affine. Inosservato troppo spesso da molti, mi è rimasto impresso, le due o tre volte che ho avuto l’occasione di conoscerlo, un gazebo in ghisa tra vecchi alberi di un parco, quasi a bordo della strada. Risalente al 1883, lo ritrovo ora con lo sguardo, passeggiando di primo pomeriggio in pieno maggio. Periodo ideale: il gazebo (444 m) di Winterthur, tra il verderame e il verdemare, s’intona così al verde arboreo giunto, in questi giorni, al massimo. Confondendosi quasi, tra le foglioline degli incredibili rami del frassino ultracentenario vicino o le fronde maestose del tiglio alle sue spalle. Senza volerlo, è pure il momento giusto, visto l’aria temporalesca, per questo chioschetto, di seguire la sua vera vocazione: essere riparo fortuito per temporali.
Rapito dai ghirigori floreali in ghisa, trovo anche, tra i fregi sul cornicione di questa graziosa gloriette ottagonale, degli uccellini forgiati, a cavallo di una specie di zucchina Jugendstil e due Tritoni barbuti che tengono lo stemma della Svizzera. Attribuibile all’estroso duo di architetti Alfred Chiodera (1850-1916) e Theophil Tschudi (1847-1911), incontrato già per via di Villa Patumbah, questo padiglione propizio al riposo, poesia, contemplazione, ricapitolazione della propria vita, sguardo rinnovato sul mondo eccetera, è spuntato in occasione della prima esposizione nazionale al Platzspitz di Zurigo. Nel 1885, dopo due anni, parte in direzione del giardino della villa del proprietario del birrificio Haldengut sorto nel 1843 qui a Winterthur, Johann Georg Schoellhorn (1837-1890): occhio spiritato e un po’ da pesce lesso, baffo spiovente alla Pablo Escobar. Il
Sport in Azione
di Claudio Visentin
Infine, molti pensano che il vero problema sia la questione ambientale, anche perché, sino a quando non saranno disponibili nuove tecnologie a basso impatto nei trasporti e nell’ospitalità, nuove e più stringenti regole potrebbero ostacolare la ripresa del turismo.
Riflettevo su tutti questi scenari, e ancor più sulle loro diverse combinazioni, di fronte al flusso di notizie e alle aspettative sulla ripartenza del turismo cinese. Tra il 2010 e il 2020 il turismo internazionale è stato trainato dai cinesi, che da soli hanno rappresentato il 10% degli arrivi e il 18% della spesa. La Cina ha superato la Germania prima e gli Stati Uniti poi, diventando il leader mondiale.
Come dimenticare inoltre che l’epidemia è cominciata proprio lì. Per quasi tre anni il governo ha adottato una politica sanitaria molto rigida, con test continui e restrizioni del-
la mobilità. Per tutto questo tempo le frontiere sono rimaste chiuse e anche nel 2022, quando tutto il mondo si è messo in movimento, i cinesi sono rimasti ancora alla finestra. Ma nonostante le profonde radici della disciplina e del controllo sociale nella loro cultura, all’inizio di quest’anno anche il governo ha dovuto allentare la presa. Da gennaio i cittadini cinesi possono nuovamente viaggiare e naturalmente hanno puntato dapprima verso altre regioni del loro immenso Paese, poi verso l’Asia, Thailandia in testa: a inizio maggio, durante i cinque giorni di vacanza della Festa del lavoro (o Settimana d’oro), oltre settecentomila turisti cinesi affollavano il grande palazzo reale e i centri commerciali di Bangkok o le spiagge di Pattaya. Anche a Parigi (e in Svizzera!) sono attesi con ansia: prima del Covid i turisti cinesi rappresentavano solo il 3% dei soggiorni nella ca-
pitale francese ma acquistavano il 7% dei prodotti, sino a un terzo del totale all’aeroporto di Parigi o nei negozi di lusso, soppiantando in questo ruolo gli americani.
Ma non è facile rimettere in moto la macchina e superare diverse rigidità nella filiera, a cominciare dall’offerta delle compagnie aeree cinesi, colte di sorpresa dalla nuova domanda: anche qui manca personale, licenziato in massa durante la pandemia, il numero di collegamenti internazionali rimane basso a fronte di tariffe elevate e il divieto di sorvolare la Russia complica inutilmente le rotte.
Nonostante il suo retroterra di millenaria saggezza, anche la Cina insomma deve misurarsi con la complessità del tempo presente. «Grande è la confusione sotto il cielo» affermava del resto il «grande timoniere» Mao, per poi concludere: «Quindi la situazione è eccellente!».
tetto, a cupola, coronato da un curioso motivo vegetale tipo fava di cacao gigante, è in similcoppi a coda di castoro, muschiato al punto giusto, in sintonia così con la corteccia del frassino. Salgo due dei tre gradini, sempre in ghisa, bucherellati a losanghe, tra le quali sbuca l’edera. Sul quarto gradino si legge invece qualcosa a proposito dell’acciaieria Von Roll di Solothurn. Dal numero ventisette della Lindenstrasse, dove c’era il giardino della villa del birraiolo originario del Baden-Württemberg, il gazebo, nel 1975, si sposta poi qui, in un angolo del Lindengutpark. Mi siedo su uno dei cinque segmenti di panca in legno e assaporo subito il paesaggio incorniciato tra le otto colonne. Peccato solo che le macchine lungo la General Guisan Strasse impediscano di sentire il fischio del merlo indiano e altri versi esotici, tra i quali quello del
Fino a quando reggerà il sistema?
Secondo un’analisi condotta da GlobeNewswire, l’industria mondiale globale dello sport ha un valore annuo di mercato di 441 miliardi di dollari. Le previsioni annunciano che nel 2025 raggiungerà i 600 miliardi di fatturato.
In un’epoca in cui l’economia si intreccia sempre di più con il concetto di sostenibilità a 360 gradi – finanziaria, sociale, ambientale, etica – mi sorgono spontanee alcune domande. Sarà l’industria del «non strettamente necessario» a ridare respiro a un sistema economico disinvoltamente liberista che mostra le sue crepe ? Che peso attribuire agli appelli, anzi direi alle grida di allarme, che reclamano la decrescita e la circolarità dell’economia? Queste cifre contribuiranno ad alimentare ulteriormente una società a due velocità, con un’esigua minoranza sempre più ricca, e una stragrande maggioranza sempre più
confrontata con i buchi della cintura?
Lo sport, in quanto spettacolo – lo affermo consapevole del fatto che è l’ambito che per decenni mi ha consentito di vivere – non è indispensabile. Provoca piacere ed emozioni, diverte, ma si può sopravvivere serenamente anche senza di esso. Così fanno milioni di persone. Quello praticato, per contro, è un prezioso contributo al nostro benessere, anche dal punto di vista dell’equilibrio mentale. Non lo dico io. Lo sostengono numerosi studi scientifici. Ma per praticarlo basta veramente poco: un paio di «braghette» e delle scarpette per camminare, correre, andare in montagna e giocare a pallone. Una bicicletta, magari di seconda o terza mano, per pedalare. Un costume per nuotare. Con questi presupposti il fatturato del pianeta-sport calerebbe, e non di poco. Ci stiamo addentrando in uno dei
periodi più difficili della storia recente della terra. Divampano ancora delle guerre. Non solo quella tra Russia e Ucraina, che quotidianamente ci viene traghettata in casa. I fronti aperti sono molto più numerosi di quanto possiamo immaginare. Alcune fonti che parlano di una sessantina di conflitti. Altre di più. C’è una maggioranza della popolazione che ha fame e non ha di che saziarsi, a fronte di una minoranza che può permettersi di gettare tonnellate di cibo in esubero. Non sono situazioni che scopriamo oggi, ma è pur vero che il gap tra super ricchi ed extra poveri cresce a velocità supersonica. Inoltre – e questa è una questione che ci viene catapultata addosso in questi ultimi anni – l’allarme clima ci costringe a ripensare molti aspetti della nostra quotidianità. Mobilità lenta, produzione e utilizzo di energie pulite e rinnovabili, consumi responsabili, secondo molti studiosi e
fagiano dorato o il pavone-fagiano di Palawan, nella non lontana voliera. Il traffico però non riesce a contrastare il suono tranquillizzante della pioggia, a dirotto, appena incominciata. La pioggia amplifica anche l’odore degli alberi in fiore, fiori, aglio orsino fiorito. La scelta degli alberi bicentenari, come credo il tiglio e il frassino, è dovuta al botanico ed entomologo Joseph Philippe de Claireville, autore del Manuel d’herborisation en Suisse et en Valais (1811).
Simile a un chioschetto della musica ma troppo piccolo per esserlo davvero, se non per un suonatore di sax e un pugno di spettatori, questo gazebo erratico è il posto perfetto per mangiare torte, di pomeriggio, verso metà maggio. Come per esempio una tartelletta ai lamponi presa prima da Vollenweider, pasticceria citata tempo fa per la torta-giraffa provata durante il minireportage sulla fontana di
Judd. Sopra una base di biscotto sablé bretone, una collinetta di crema ganache al cioccolato bianco, accoglie i lamponi. Su di giri, dopo aver divorato a morsi la sognante tartelletta, balzo in piedi per perlustrare di nuovo, in cerca di altri dettagli, il centotrentenne gazebo. Tralasciando le scritte giovanili a carattere sessuale sulla panchina, trovo scritto su una targhetta discreta, fuori in un angolo, tra le motivazioni dell’Emch Preis (un premio cittadino il cui nome è legato a una fabbrica storica di lift) 1975, la parola Verschönerung, abbellimento. In netto contrasto con l’abbruttimento odierno di molte città.
Da non sottovalutare l’importanza degli scalini: imprimono ai passi la sensazione come di salire in una specie di tempietto. In controluce, ora, l’ortaggio ornamentale sul quale sono a bordo gli uccellini decorativi, potrebbe anche essere un cetriolo.
scienziati, sono orizzonti da raggiungere in tempi brevissimi, se vogliamo garantire continuità al pianeta. Da ultimo, non possiamo dimenticare un aspetto che tocca da vicino la stragrande maggioranza degli utenti dello sport: la costante riduzione del potere d’acquisto. È un fenomeno che sta intaccando anche la «ricca» Svizzera. Immaginiamo come possa incidere là dove la soglia della povertà è molto più preoccupante. L’approccio alla gestione corrente della vita di un individuo o di una famiglia, dovrà essere ecologico ed economico al tempo stesso. Ciò significherà anche ripensare il sistema sport nella sua globalità. Nel quotidiano, se un individuo del cosiddetto ceto medio impoverito, dovrà scegliere tra l’acquisto di una maglia di Ronaldo e due bistecche da dividere a pranzo in famiglia, non avrà dubbi. Idem se l’opzione è tra un biglietto da 30-40 franchi (co-
sto minimo) per l’entrata allo stadio, e la sostituzione delle scarpette lacerate di un figlio o di un nipotino. Che dire dell’abbonamento per seguire la squadra del cuore sul posto, o su una piattaforma a pagamento? Forse si potrà permettere di godersi lo spettacolo in occasione di una finale imperdibile. Altrimenti meglio un film gratuito su una TV «in chiaro». Se i due protagonisti alla fine non si sposano, la spettatrice o lo spettatore mangerebbero meno rabbia rispetto a quella che scatenerebbe la sconfitta, magari immeritata, dei propri ragazzi. Lunga vita allo sport, ben inteso, ma che gli addetti ai lavori siano pronti ad affrontare cambiamenti radicali. Ovviamente non sarà il solo ambito a dover passare alla cassa. Ad esempio, anche il turismo – culturale, artistico o wellness che sia – che implica ancora più spostamenti e consumi dello sport, dovrà giocoforza reinventarsi.
Settimanale di informazione e cultura Anno LXXXVI 22 maggio 2023 azione – Cooperativa Migros Ticino 19 TEMPO LIBERO / RUBRICHE ◆ ●
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ATTUALITÀ
«Erdogan la spunterà»
Il secondo turno delle elezioni in Turchia è previsto il 28 maggio. L’analisi dell'esperta Valeria Talbot
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Iran, studentesse avvelenate
Gli attacchi contro migliaia di ragazze hanno generato una nuova ondata di proteste antigovernative
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L’addio di Fabio Fazio alla Rai
Il trasferimento a Discovery è un affare per il noto conduttore e un clamoroso autogol per la Rai
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Cresce l’impronta statale
Avenir Suisse valuta l'attivismo dello Stato elvetico e suggerisce come «correggere il tiro»
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Verso un nuovo ordine globale anti-occidentale?
L’analisi ◆ Il Grande Sud globale si ispira a Cina e Russia, con le quali ha molte affinità ideologiche. Il caso del Sudafrica
L’Africa irrompe sulla scena della grande diplomazia? Ha fatto scalpore l’annuncio dato dal presidente del Sudafrica, Cyril Ramaphosa, su una missione di alcuni leader del suo Continente che dovrebbero recarsi in Russia e in Ucraina per una mediazione di pace. Insieme con il Sudafrica sarebbero coinvolti Congo, Egitto, Senegal, Zambia, più un Paese non africano, l’Arabia Saudita. Se si toglie Riad, che grazie al petrolio e alla leadership dell’OPEC può avere un’influenza su Mosca, gli altri non sembrano poter esercitare pressioni efficaci. L’iniziativa sembra dettata dai disagi economici che la guerra continua a provocare, in particolare attraverso l’inflazione dei prezzi alimentari. È lecito lo scetticismo per varie ragioni. L’Ucraina può dubitare che questi mediatori siano davvero neutrali, visti i legami che hanno con la Russia.
Il Grande Sud globale scivola verso la Cina e la Russia. Molti Paesi che si dicono «non allineati» – riecheggiando la posizione del Terzo mondo nella prima guerra fredda – nei fatti si comportano come degli amici del blocco anti-occidentale, con il quale hanno molte affinità ideologiche. Una prova è evidente nella mappa dei Governi che non aderiscono alle sanzioni contro la Russia, alcuni dei quali rifiutano perfino di condannare l’invasione dell’Ucraina. Un altro segnale significativo è la tensione diplomatica fra gli Stati Uniti e il Sudafrica, dopo che Washington ha accusato il Governo di Pretoria di aver venduto armi a Mosca. Sullo sfondo c’è la lenta metamorfosi dei BRICS, il club delle potenze emergenti che nacque come un’associazione economica ma tende ad acquisire un ruolo politico, e attira un bel po’ di nuove candidature. I BRICS – acronimo che per adesso unisce Brasile, Russia, India, Cina e Sudafrica – si presentano implicitamente come l’anti-G7, l’architrave di un nuovo ordine globale anti-occidentale.
Putin invitato d’onore
Il caso del Sudafrica è importante perché ha una valenza generale: racchiude alcune delle ragioni per cui l’Africa intera è impermeabile alla visione occidentale: sull’Ucraina e su tante altre cose. Il presidente Cyril Ramaphosa fece scalpore a febbraio lanciando delle manovre militari congiunte tra le sue forze armate e quelle di Russia e Cina: la manifestazione di amicizia con Mosca e Pechino avveniva a ridosso del primo anniversario dell’invasione dell’Ucraina. Ma forse quel gesto sembrerà poca cosa, al confronto del prossimo schiaffo all’Occidente, se si verificherà. Il Sudafrica ha la presidenza di turno dei BRICS e al pros-
simo summit di quella organizzazione nel mese di agosto potrebbe invitare Vladimir Putin in persona. Qualora si presentasse al vertice, Putin sfiderebbe quel mandato di cattura internazionale spiccato dalla Corte Penale Internazionale… a cui il Sudafrica aderisce. Poiché il Sudafrica sarebbe in un dilemma tremendo – arrestare Putin sul proprio territorio o stracciare un trattato che ha firmato – il presidente Ramaphosa ha proposto l’uscita del suo Paese dalla Corte Penale Internazionale. La decisione drastica però non fa l’unanimità a casa sua, e per il momento la pratica è stata abbandonata. Restare formalmente un Paese membro di quella Corte, e disattenderne le decisioni, è un’opzione. Non sarebbe la prima volta che Pretoria calpesta gli obblighi di cui è firmataria rispetto alla Corte Penale dell’Aia: nel 2015 si rifiutò di procedere all’arresto del dittatore sudanese Omar-al Bashir, sul quale pendeva un mandato di cattura, mentre era in visita a Pretoria per un summit dell’Unione africana. La prospettiva che il Sudafrica possa accogliere Putin in agosto con tutti gli onori, ha fatto salire ulteriormente la tensione con Washington. Ramaphosa ha mandato una delegazione di suoi collaboratori negli Stati Uniti per dialogare con l’Amministrazione Biden. La missione dev’essere stata un fiasco, a giudicare dal risultato: si era appena conclusa, quando l’ambasciatore USA a Pretoria, Reuben Brigety, un afroamericano con una lunga esperienza al Dipartimento di Stato, ha denuncia-
to ufficialmente la vendita di armi dal Sudafrica alla Russia. La fornitura era avvenuta nel mese di dicembre 2022. Il Governo Ramaphosa si è giustificato dicendo di aver consegnato armi che erano già state ordinate prima dell’invasione in Ucraina. L’Amministrazione Biden ha manifestato malumore, e tuttavia ha evitato di compiere il gesto che sarebbe stato la naturale conseguenza: mettere sotto sanzioni il Sudafrica.
Perché? L’unica spiegazione ragionevole è che sanzionare il Sudafrica potrebbe avere un effetto a cascata su altri Paesi africani, acutizzando la loro ostilità verso l’America e l’Occidente. Tanto più che accostare la parola «sanzioni» al nome del Sudafrica evoca altre pagine di storia: l’ultima volta che Pretoria era stata messa sotto embargo dal Congresso degli Stati Uniti, fu per castigare il Governo bianco che gestiva il sistema razzista dell’apartheid. Risalire all’epoca pre-Mandela è il riflesso condizionato per molti politici o comuni cittadini del Sudafrica. Gli Stati Uniti avevano appoggiato per decenni l’apartheid, in nome della lotta al comunismo mondiale, visto che il movimento nero dell’African National Congress era appoggiato dall’Unione Sovietica.
Grande senso di colpa
Gli americani sono pieni di complessi di colpa per quel che fecero allora. Arrivano a giustificare l’attrazione fa-
tale verso Mosca, in nome dell’aiuto che Mandela ricevette dall’URSS quando l’Occidente voltava le spalle alla sua lotta per i diritti civili. Ancora di recente il segretario di Stato USA, Antony Blinken, ha dichiarato: «Certamente la storia non si cancella in poco tempo. Durante la guerra fredda l’URSS stava dalla parte giusta in Sudafrica, con le forze di liberazione. L’America purtroppo era dalla parte sbagliata, troppo indulgente o simpatizzante verso il regime dell’apartheid. Questo ricordo pesa ancora oggi». Le parole di Blinken sono un atto dovuto e un gesto di onestà. Ma servono a qualcosa? In realtà l’America non riscuote alcun beneficio dalla sua autocritica. Né riesce a valorizzare l’altra metà della sua storia: cioè l’enorme mobilitazione della società civile statunitense contro l’apartheid, che sfociò nelle sanzioni, nell’isolamento del regime bianco razzista e alla fine contribuì alla vittoria di Mandela.
Le politiche dell’apartheid
Un’esperta dell’Africa, Michelle Gavin del Council on Foreign Relations, ha scritto un’analisi lucida in proposito: «C’è una storia altrettanto innegabile di opposizione americana contro le politiche dell’apartheid, che spinse il Congresso di Washington a varare la legge Anti-Apartheid Act (con tutte le sanzioni), ma è chiaro che non viene ricordata in Sudafrica. Dove invece si preferiscono ricordare altre azioni
americane, come la guerra in Libia nel 2011 e le sue conseguenze. Tutto viene racchiuso dentro una narrazione sudafricana che descrive un Occidente arrogante, militarista, pericoloso. Mentre le brutalità della Russia, in casa propria o all’estero, vengono comprese per giustificare l’immagine di un partner attraente, intento a rifondare l’ordine internazionale». Questa è una descrizione che non si limita al solo Sudafrica: cattura fedelmente lo stato d’animo di gran parte dei Paesi africani e anche di altre Nazioni dell’Asia o dell’America latina che appartengono al Grande Sud globale.
Gavin prosegue così: «Il Sudafrica non è solo un Paese dove molti politici vedono l’America come un nemico, e perseguono azioni mirate a indebolire gli Stati Uniti e rafforzare i loro avversari. È anche un Paese dove il partito politico dominante può vantare una emozionante storia di resistenza all’oppressione, insieme con un terribile record di corruzione ai danni del popolo sudafricano. La sua lotta per la liberazione le ha conquistato il rispetto, la dimensione della sua economia (benché tutt’altro che sana) viene ammirata nel Continente, ma il Sudafrica di oggi non può essere celebrato né come uno Stato di diritto, né come un modello di Governo democratico che opera per il bene della sua popolazione. Ha una magistratura indipendente e una vigorosa società civile, tutte fonti di forza, ma queste qualità brillano perché resistono contro uno Stato sempre più malato».
Anche questa è un’analisi che si può facilmente estendere ad altre parti dell’Africa, e del Grande Sud Globale. Dove il risentimento anti-occidentale è un collante ideologico formidabile, che spesso diventa anche un alibi per zittire le proteste della popolazione contro Governi incapaci e corrotti. Intanto questo Grande Sud sente un’attrazione fatale verso delle istituzioni «alternative». La storia dei BRICS è curiosa perché il termine fu inventato da un economista americano all’inizio del millennio per mettere insieme quelle destinazioni appetibili per gli investitori che lui voleva segnalare ai suoi clienti. Poi i BRICS hanno preso «coscienza di sé». Ora c’è una coda di aspiranti nuovi membri che sperano di essere ammessi: solo in Africa vorrebbero entrare a farne parte Algeria, Egitto, Nigeria e Senegal. Da altre parti del mondo si segnalano le candidature di Arabia Saudita, Emirati, Turchia, Kazakistan, Indonesia, Argentina. Se dovessero entrarci tutti, i BRICS diventerebbero un gruppo gigantesco, con al suo interno il 30% del PIL mondiale, il 50% della popolazione del pianeta, nonché una quota smisurata di risorse energetiche e minerarie.
● ◆ Settimanale di informazione e cultura Anno LXXXVI 22 maggio 2023 azione – Cooperativa Migros Ticino 21
Il presidente sudafricano Cyril Ramaphosa. (Keystone)
Federico Rampini
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La Turchia sceglie il suo futuro
Elezioni presidenziali ◆ Erdogan ha buone chances di essere riconfermato al ballottaggio del 28 maggio ma cosa succederebbe se vincesse Kilicdaroglu? Intervista all’esperta
Valeria Talbot
La Turchia è a un bivio. Il 28 maggio, infatti, si terrà il ballottaggio tra il presidente uscente, Recep Tayyip Erdogan (AKP), e il leader del Partito Popolare Repubblicano (CHP), Kemal Kilicdaroglu, scelto come unico candidato da sei partiti dell’opposizione riuniti in quello che è stato definito il «Tavolo dei sei». Al primo turno il «sultano» ha conquistato poco più del 49% dei voti contro il 45% circa del suo principale avversario (per imporsi bisognava superare il 50%).
«Erdogan non ha vinto subito, il 14 maggio: è la prima volta che succede da quando la Turchia è una Repubblica presidenziale (2018), ma ha comunque sfiorato il 50% delle preferenze», commenta Valeria Talbot, responsabile del Centro Medio Oriente e Nord Africa dell’Istituto per gli Studi di Politica Internazionale (ISPI) con sede a Milano. «Il presidente gode ancora di molta popolarità nel Paese, soprattutto nelle regioni dell’Anatolia centrale. Meno nelle città e sulla costa, come non è amato nelle regioni curde che hanno sostenuto Kilicdaroglu. Dalla sua parte ci sono quelle larghe fette della popolazione conservatrice e religiosa, cui Erdogan ha dato voce negli anni, consentendo loro di occupare spazi pubblici, spazi che erano loro preclusi in una Turchia fondamentalmente laica e kemalista».
Erdogan continua ad essere visto come il punto di riferimento, l’uomo forte e carismatico che ha cambiato il volto del Paese
Dal voto del 14 maggio emerge comunque l’immagine di un Paese diviso in due, continua la nostra interlocutrice. Da una parte chi è a favore di Erdogan, dall’altra i suoi nemici. Ricordiamo che il principale collante del «Tavolo dei sei» è proprio la volontà di sconfiggere il «sultano». Ma che futuro si prospetta all’orizzonte? Se guardiamo ai dati emersi dalle urne – afferma Talbot – lo scenario più probabile è la rielezione del presidente uscente al ballottaggio.
«Anzitutto perché è di quasi 5 punti percentuali in vantaggio rispetto al suo avversario Kilicdaroglu. In secondo luogo poiché i voti conquistati da Sinan Ogan – il terzo classificato al primo turno elettorale, con il 5 per cento delle preferenze – potrebbero confluire su Erdogan». Ogan, infatti, è un politico di destra e molto nazionalista. Ha posizioni rigide sull’immigrazione, è contro le minoranze curde e favorevole al mantenimento dei valori tradizionali e conservatori turchi. Per affinità ideologiche, quindi, sarebbe più vicino a Erdogan, piuttosto che a Kilicdaroglu, un leader di centrosinistra. «In terzo luogo – osserva la nostra interlocutrice – l’alleanza del partito di Erdogan (Partito per la Giustizia e lo Sviluppo o AKP) e il Partito del Movimento Nazionalista (MHP), insieme ad altre due formazioni religiose di destra, ha già raggiunto la maggioranza in Parlamento. Detiene 321 seggi sui 600 che compongono la Grande assemblea nazionale». Tutti segnali che vanno nella stessa direzione… Intanto la Turchia sta attraversando un periodo di grosse difficoltà economiche. Pensiamo all’inflazione galoppante e al deprezzamento della valuta nazionale. I dati ufficiali dell’Istituto
Fra i Libri
Erik J. Zücher, Porta d’oriente. Storia della Turchia dal Settecento a oggi, Donzelli Editore
Erdogan in campagna elettorale e, sotto, il suo principale avversario Kilicdaroglu. (Keystone)
«Il fez, il rosso cappello di feltro che era stato il tradizionale copricapo dei gentiluomini ottomani fin dall’epoca del sultano Mahmud II, fu proibito e sostituito con cappelli in stile occidentale». Accadde per decreto nel 1925 – racconta Erik J. Zürcher – nella Turchia di Mustafa Kemal Atatürk, dittatore modernizzatore e laicista: il fez e il turbante vengono proibiti, e ci sono misure fortemente restrittive per il velo. Questi copricapi assumono un valore altamente simbolico, incarnando la lotta tra due diverse concezioni della Turchia (Kemal Kiliçdaroglu, che sfida oggi elettoralmente il «sultano» Recep Tayyip Erdogan, è l’erede del laicista Atatürk).
di statistica turco riportano un’inflazione al 43,6% ad aprile, ma che ha superato l’85% lo scorso ottobre. Di fatto l’aumento reale dei prezzi sarebbe molto più alto.
Ma questo non ha pesato sul voto? «Il difficile andamento dell’economia ha sicuramente eroso il consenso di Erdogan – dice l’intervistata – ma non ha scalfito quello che è lo zoccolo duro che lo sostiene. Anche nelle pro-
vincie devastate dal terremoto (inizio febbraio 2023) il presidente e l’AKP hanno ottenuto buoni risultati. Erdogan continua ad essere visto come il punto di riferimento, l’uomo forte che ha cambiato il volto del Paese sul piano interno. Ma anche il leader assertivo che gioca un ruolo importante su diversi tavoli in politica internazionale.
L’unico che riesce a dialogare allo stesso tempo con Vladimir Putin e Volo-
Sempre più potere al «sultano»
Nel 2011 la Turchia di Erdogan, in quel momento premier, è stata la prima Nazione a firmare la Convenzione di Istanbul, il trattato internazionale contro la violenza nei confronti delle donne e la violenza domestica (da cui si è ritirata nel marzo 2021). Il panorama politico turco era diverso da quello attuale, spiega l’Osservatorio Turchia del Centro studi di politica internazionale (www.cespi.it). L’AKP non aveva ancora assunto una posizione predominante e in Parlamento resistevano elementi di forte impronta laicista e kemalista (da Kemal Atatürk, il fondatore della Turchia moderna).
Allora il Paese stava implementando una serie di riforme d’impronta liberale, anche nell’intento di avvicinarsi all’Europa. Nel 2005 si erano avviate le trattative per l’adesione della Turchia all’UE, ma si sono arenate in fretta. Nell’ultima decina d’anni l’AKP si è trasformato. Nato nel 2001 come «partito pigliatutto», riuniva componenti più o meno tradizionaliste e si poneva come movimento di centro-destra al servizio del popolo, con un programma di
democrazia conservatrice. Dal 2011 ha accentuato la sua tensione nazionalistica e la logica autoreferenziale di Erdogan che già all’epoca mirava a un programma presidenziale.
Col passare del tempo quest’ultimo e il suo partito hanno assunto posizioni sempre più dominanti nel panorama politico turco. Si sono poi susseguite diverse crisi: dalle grandi proteste del 2013 contro l’autoritarismo, duramente represse dal Governo, al tentato golpe del 2016. Tutti avvenimenti che hanno reso sempre più evidente il piano accentratore di Erdogan che nel 2014 era diventato presidente. Nel 2017, con un referendum, la Turchia ha accettato l’allargamento dei poteri presidenziali. Ora tutto passa da Erdogan mentre il legame che prima aveva con la base della società turca si è sfaldato. In occasione delle elezioni del 2018, per ottenere la maggioranza dei voti in Parlamento, il presidente ha dovuto stringere alleanze con le componenti più conservatrici della società, portatrici di visioni tradizionali della donna e della famiglia.
dymyr Zelensky e ha svolto un ruolo di mediazione nella crisi tra Mosca e Kiev». Grazie ad Ankara, ad esempio, nel luglio 2022 si è arrivati alla firma di un accordo, sotto l’egida delle Nazioni Unite, per sbloccare l’export di grano ucraino attraverso il Mar Nero.
Figura carismatica, dicevamo, che si presenta agli elettori come pragmatico e fautore di quella grandeur turca che si esprime anche nell’industria bellica, vedi fabbricazione nei droni Bayraktar (protagonisti in Ucraina), delle navi da guerra, ecc.
Ma se lo sfidante Kilicdaroglu vincesse? La Turchia potrebbe sperare in un futuro diverso, più democratico?
«L’eterogeneità del fronte rappresenta una fragilità per Kilicdaroglu – afferma Talbot – che si ritroverebbe costantemente a mediare tra interessi e agende politiche diverse. Il punto dolente è che lui sarebbe presidente con un’Assemblea nazionale in cui il partito di Erdogan e il suo alleato nazionalista hanno la maggioranza. Una situazione anomala e difficile da gestire, sebbene nel sistema turco il presidente goda di “super-poteri” e potrebbe anche governare scavalcando il Parlamento. Ma si creerebbe una situazione complicata. Detto ciò, Kilicdaroglu e il “Tavolo dei sei” in campagna elettorale hanno messo nero su bianco la volontà di tornare al sistema parlamentare. È tra le loro priorità. Insieme a quella di riportare il Paese nel processo verso la democrazia. Perché, attenzione, non è che prima di Erdogan ci fosse la democrazia: la Turchia era “sotto tutela” dei militari che avevano un ruolo fondamentale nella vita politica del Paese. Questi sono intervenuti tutte le volte che hanno ritenuto che i principi del kemalismo – soprattutto quello della laicità dello Stato – venissero messi in discussione».
Per tornare a Kilicdaroglu, potrebbe favorire – secondo l’esperta – la ripresa di un processo democratico che pure Erdogan nei primi anni del suo Governo aveva portato avanti con lo scopo di avviare i negoziati per l’adesione all’Unione europea (i quali si erano subito arenati). Questo significa anche: ripristino dei diritti e delle libertà fondamentali che negli ultimi anni sono stati notevolmente ridotti, soprattutto dopo il tentativo di golpe del 2016 ai danni di Erdogan. «Si tratterebbe comunque di un processo lungo e complesso, anche perché per modificare la Costituzione ci vuole la maggioranza in Parlamento che Kilicdaroglu non avrebbe».
I primi vaghi segni di questa lotta si rintracciano alla fine del XVIII secolo, non tanto con l’illuminismo, bensì col suo lato violento: la Rivoluzione francese. All’epoca, afferma l’autore, la Turchia non esiste: c’è invece l’impero ottomano, esteso dai Balcani all’Anatolia e alla maggior parte del mondo arabo. In questo vasto comprensorio il sultano comanda più di nome che di fatto e lo Stato è «patrimoniale», basato sull’estensione della famiglia del sovrano. L’economia è «precapitalista», avendo come scopo la sussistenza della popolazione. Nel 1792 il sultano Selim tenta di lanciare un nuovo corso riformista, anche se c’è ancora l’obbligo di indossare gli abiti tradizionali, ma sei anni dopo è travolto dalle guerre che seguono la Rivoluzione francese (lo sbarco di Napoleone in Egitto, che ha lo scopo di indebolire la Gran Bretagna). L’impatto delle idee rivoluzionarie francesi sull’impero ottomano è tuttavia ben più limitato di quel che si pensi (anche se l’efficienza delle burocrazie europee è un modello osservato con interesse). L’influsso di certe concezioni occidentali (costituzionalismo, nazionalismo-patriottismo ecc.) comincia a farsi sentire solo nel XIX secolo. Ed è proprio Parigi che ospita un gruppo di esuli ottomani, i Giovani turchi, guidato da Ahmed Riza. Quest’ultimo è di orientamento positivista, contro la religione, nazionalista e centralista (è convinto della necessità di uno Stato forte). I Giovani turchi danno vita al comitato Unione e Progresso, che con l’insurrezione del 1908 impone al sultano la Costituzione. Membro dell’Unione è Mustafa Kemal Atatürk che dopo la prima guerra mondiale fonda lo Stato a partito unico – il quale ha alcune analogie col fascismo italiano – imponendo il suo regime radicalmente riformista e occidentalizzante (come già detto il fez viene proibito per decreto).
Tornando al presente, il kemalismo regna fino alla fine del secolo scorso, quando partiti di ispirazione islamica rialzano la cresta. Quindi oggi, conclude l’autore, la Turchia è ininterrottamente presente nei notiziari, «e tutte le vecchie, talvolta vecchissime, questioni sembrano esplodere in un violento conflitto». Pensiamo al problema curdo, a quello islamico, al conflitto tra gli eredi di Atatürk (nazionalisti, statalisti e laicisti del CHP) e l’AKP, il partito di Erdogan, sostenitore di un’identità turco-musulmano-sunnita, conservatrice, islamista. Per capire tutto questo, un manuale – di questo si tratta – accessibile e informato come quello di Erik J. Zürcher è una fonte imprescindibile (si ferma però al golpe fallito del luglio 2016).
Settimanale di informazione e cultura Anno LXXXVI 22 maggio 2023 azione – Cooperativa Migros Ticino ATTUALITÀ 23
di Paolo A. Dossena
Romina Borla
Dove le studentesse vengono avvelenate
Iran ◆ Gli attacchi contro migliaia di ragazze hanno generato indignazione e una nuova ondata di proteste antigovernative
Francesca Marino
«Il leader supremo Khamenei e i suoi agenti criminali continuano ad avvelenare gli studenti per contrastare la sommossa e vendicarsi delle ragazze e delle donne che sono state in prima linea nella rivolta del 2022 e del 2023. Lunedì 24 e martedì 25 aprile le scuole di Teheran e di alcune città, tra cui Kermanshah, Sanandaj, Hamedan e Karaj, hanno registrato l’avvelenamento di un gran numero di studentesse». Il segretariato del Consiglio nazionale della resistenza iraniana, in una dichiarazione rilasciata a fine aprile, ha denunciato ancora una volta il regime iraniano: «Negli ultimi 5 mesi, nonostante i continui avvelenamenti, il regime dei mullah e le sue agenzie di sicurezza, politiche e di propaganda hanno cercato di impedire che la verità venisse alla luce. Anzi, coloro che hanno cercato di diffondere le notizie su questi crimini organizzati sono stati perseguiti e imprigionati… La Resistenza iraniana chiede ancora una volta un’indagine completa e indipendente da parte di una commissione d’inchiesta internazionale su questo crimine sistematico e su larga scala».
Secondo i rapporti, più di 7000 studentesse iraniane sono state avvelenate tra il novembre 2022 e il marzo 2023. Nessuna di loro è morta ma centinaia sono state ricoverate in ospedale con sintomi che includevano difficoltà respiratorie, intorpidimento
degli arti, palpitazioni cardiache, mal di testa, nausea e vomito. Gli attacchi sono iniziati poche settimane dopo l’ondata di proteste a livello nazionale seguita alla morte di Mahsa Amini, picchiata dalla polizia perché alcune ciocche di capelli erano sfuggite al suo hijab. La morte di Mahsa ha innescato la miccia del malcontento che si è riversato nelle strade: per un’economia al collasso, per la palese corruzione, per la repressione soffocante e per le restrizioni sociali imposte da un manipolo di anziani religiosi. Sono state le donne a cominciare. Si sono tolte l’hijab e l’hanno gettato nei fuochi, accesi un po’ ovunque nel Pa-
Protesta a favore delle iraniane davanti all’ambasciata di Teheran a Bruxelles nel marzo scorso. (Keystone)
ese, davanti a poliziotti attoniti. Tagliandosi i capelli in piazza e postando i video sui social media, togliendo i turbanti dalle teste dei mullah mentre camminavano.
Le numerose proteste guidate da donne e ragazze si erano in gran parte spente dopo una brutale repressione governativa che ha comportato arresti di massa e l’esecuzione di manifestanti. Ma gli avvelenamenti nelle scuole femminili, segnalati per la prima volta nella città di Qom lo scorso novembre, hanno generato una nuova ondata di proteste contro il Governo e molti hanno chiesto ancora una volta la fine del regime della Repubblica
islamica. Secondo l’ultimo rapporto della Commissione per i diritti umani dell’ONU «gli esperti hanno espresso preoccupazione per la sequenza degli attacchi, che sono iniziati solo poche settimane dopo le proteste seguite alla morte di Masha Amini». Fino all’inizio di marzo il ministro degli Interni Ahmad Vahidi negava gli attacchi tossicologici, affermando che il 90% dei casi riportati poteva essere attribuito allo «stress». E i media di Stato liquidavano gli episodi di avvelenamento come un «tentativo da parte degli studenti di saltare gli esami». In seguito, mentre la frequenza degli incidenti aumentava e le proteste diventavano ingestibili, perfino l’ayatollah Ali Khamenei ha dovuto definire l’ondata di avvelenamenti «un crimine enorme e imperdonabile» e ha chiesto che i responsabili, una volta catturati, fossero condannati a morte. Alla fine il Ministero della salute ha dichiarato che un team di 30 tossicologi ha identificato le tossine che hanno avvelenato le ragazze come gas azoto, invisibile, insapore e inodore. Poco dopo il Ministero degli interni ha annunciato l’arresto di oltre 100 persone in 11 province. «Tra gli arrestati ci sono individui con motivazioni ostili che hanno l’obiettivo di creare paura e panico tra la popolazione e gli studenti, e di chiudere le scuole creando una visione negativa nei confronti delle autorità». E però, cu-
riosamente, non sono state formulate accuse ufficiali nei confronti degli arrestati di cui non si sa più nulla. C’è stato invece un giro di vite nei confronti di media e social media. Anche il giornalista che per primo ha riferito degli attacchi a Qom è stato arrestato e la sua sorte è tuttora sconosciuta. Secondo la Commissione per i diritti umani, decine di attivisti, di donne e di ragazze che hanno partecipato alle proteste rimangono in carcere. Alcune giovani donne che si sono filmate mentre ballavano per strada senza coprirsi i capelli sono state rintracciate e costrette a scusarsi alla tv di Stato, mentre le madri delle bambine avvelenate che chiedevano risposte o protestavano davanti alle scuole sono state brutalmente picchiate. «Questo è un atto di terrorismo, e il fatto che la Repubblica islamica non l’abbia preso sul serio per mesi solleva seri interrogativi sulla complicità del Governo con gruppi che hanno la capacità organizzativa di compiere attacchi di tale portata», ha dichiarato Hadi Ghaemi, direttore esecutivo del Centro per i diritti umani in Iran a proposito degli avvelenamenti. Ma, nonostante tutto, dichiarano le attiviste – nonostante la sostanziale indifferenza del mondo che preferisce gli accordi commerciali e le strategie sul nucleare piuttosto che sostenere le iraniane – la protesta non si fermerà: «Donna, vita, libertà!».
Forum elle è un’associazione di incontro e scambio vivace, interessante e indipendente, per donne di tutte le generazioni. È aperta a tutte e anche lei può entrare a farne parte.
Fondata nel 1957 come organizzazione femminile su proposta di Gottlieb Duttweiler, il fondatore di Migros, Forum elle è oggi un’associazione attiva e presente in tutta la Svizzera con 16 sezioni sul territorio e diverse migliaia di socie. Dal 1 maggio 2024 cerchiamo una
Presidente centrale (grado d’occupazione 40-50%)
Quali sono i suoi compiti: gestione indipendente e autonoma dell’associazione collaborazione e relazione con tutti i partner Migros, della società e dell’economia rafforzamento e crescita di Forum elle attraverso misure appropriate (reclutamento di nuove socie) organizzazione di conferenze, giornate di lavoro e sedute
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Settimanale di informazione e cultura Anno LXXXVI 22 maggio 2023 azione – Cooperativa Migros Ticino ATTUALITÀ 24
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Da amante vilipesa a regina
Gran Bretagna ◆ L’ascesa di Camilla, a fianco di Carlo III da mezzo secolo
Barbara Gallino
Da donna più odiata del Regno a trionfante regina. E a pieno titolo, non solo consorte come invece indicato originariamente dalla ormai defunta suocera Elisabetta II. Per Camilla (nella fotografia) la vita ricomincia a 75 anni. Con la corona sul capo e al fianco dell’uomo che ama da oltre 50 anni. Mezzo secolo trascorso con Carlo, del quale decenni come «amica particolare» – come a suo tempo rivelato al mondo intero dalla principessa Diana quando, nella celebre intervista con la BBC del 1995, aveva affermato di essere sempre stati in tre nel suo matrimonio – e 18 anni come moglie.
Un matrimonio d’amore, ma anche riparatore dell’immagine della ex signora Parker Bowles, additata per molto tempo da stampa e opinione pubblica come una fedifraga rovina-famiglie e in qualche maniera anche come responsabile ultima della tragica fine dell’amata Lady D. Un’unione formalizzata nel 2005 con una cerimonia civile, seguita da una formale funzione religiosa nella Cappella di St. George a Windsor, alla quale la Regina Elisabetta non partecipò, salvo poi però ospitare un ricevimento per gli sposi nel castello, attribuendo alla nuora il titolo di duchessa di Cornovaglia, esplicitando così in maniera pubblica, ma non plateale, il suo supporto al controverso sposalizio.
La redenzione di Camilla è stata il frutto di un processo di riabilitazione molto graduale, attuato con l’aiuto di esperti di comunicazione, ma anche con intelligente riservatezza e pazienza da parte della stessa interessata. La marchesa di Lansdowne – amica di lunga data della moglie di re Carlo, tanto da essere stata insieme alla sorella della neo-sovrana, Annabel, sua damigella di onore alla cerimonia d’incoronazione a Westminster lo scorso 6 maggio – ha ricordato di recente quanto fossero stati difficili gli anni Novanta, con i fotografi che la inseguivano dappertutto e si accampavano fuori dalla casa dove viveva con l’allora marito Andrew Parker Bowles.
Doveva cavarsela, senza poter contare su alcun tipo di protezione. Ma Camilla era forte e pragmatica. «È stata cresciuta con uno straordinario senso del dovere che le impone di andare avanti con il sorriso sulle labbra e senza lamentarsi», ha racconta-
Autogol per la Rai
Italia ◆ Fabio Fazio lascia l’emittente per Discovery
Alfio Caruso
Nel 1979 la Democrazia cristiana, allora perno del potere politico, e il Partito socialista decisero di allargare ai comunisti, in grande crescita elettorale, la gestione della Rai. Nacque così la terza rete e con essa i nuovi criteri della lottizzazione: ogni 5 assunti 2 dovevano essere della DC, uno del PSI, uno del PCI e uno bravo. Negli ultimi 20 anni questa suddivisione è entrata in crisi: hanno continuato a trovare posto i giornalisti d’area, se non con la tessera d’appartenenza, si sono perse le tracce di quelli bravi, soprattutto fra chi ha meno di 50 anni. Per esempio, il movimento Cinque Stelle, sorpreso nel 2018 dallo straripante successo e privo di classe dirigente e di apparati, s’accontentò di raccattare in Rai chiunque si offrisse. E non furono i migliori.
to al «Sunday Times Magazine» Lady Lansdowne, sottolineando come anche il senso dell’umorismo e le amiche abbiano molto aiutato la consorte del sovrano a riscattarsi, superando le intemperie degli anni passati. Una strategia confermata dalla stessa Camilla del resto, in un’intervista rilasciata lo scorso anno a «Vogue UK» in occasione del suo 75esimo compleanno. «A nessuno piace essere costantemente scrutinato e magari criticato», aveva dichiarato. «Tuttavia cerco alla fine di essere superiore e proseguire per la mia strada. Nella vita, bisogna andare avanti». Il motto della famiglia reale «never complain, never explain» (mai lagnarsi, mai spiegare) in fin dei conti l’ha sempre guidata da molto prima che entrasse a palazzo.
Carlo aveva fatto presente chiaramente alla famiglia reale che Camilla era una parte «non negoziabile» della sua vita
Anche dopo il divorzio dai rispettivi consorti, Carlo e Camilla avevano dovuto per molto tempo nascondersi, viaggiando o partecipando a impegni ufficiali raramente insieme. Fu il guru delle pubbliche relazioni e allora segretario del principe di Galles, Mark Bolland, a orchestrare un’astuta campagna di comunicazione per riabilitare l’immagine di quella che, agli occhi dei sudditi, era l’amante senza scrupoli dell’erede al trono. Occorreva far cadere nell’oblio le scabrose conversazioni della coppia intercettate dai tabloid e condivise con il mondo intero e soprattutto far dimenticare la sofferenza che quell’ostinato amore proibito aveva causato all’adorata Lady D e di riflesso anche ai piccoli William e Harry.
Pertanto, non c’erano altre soluzioni: visto che Carlo aveva fatto presente chiaramente alla famiglia reale che Camilla era una parte «non negoziabile» della sua vita, bisognava spianare la strada alla loro unione in modo che venisse accettata e sostenuta nonostante tutto dalla regina Elisabetta, da Downing Street, dalla Chiesa anglicana e soprattutto dai sudditi del Regno. Un percorso cominciato con la prima uscita pubblica della coppia nel 1999 al Ritz di Londra, dove i due parteciparono al-
la luce del sole ai festeggiamenti per il compleanno della sorella di Camilla, Annabel, facendosi fotografare indisturbati dai paparazzi di mezzo mondo; proseguito con l’annuncio del fidanzamento e poi le nozze celebrate a Windsor nel 2005, con tanto di elevazione di Camilla a duchessa di Cornovaglia; e concluso con l’incoronazione di entrambi il 6 maggio al grido di «Vivat Regina Camilla, Vivat Rex Carolus!» nell’abbazia di Westminster, dove 26 anni prima era stato celebrato il funerale di Diana. Una parabola incredibile, che pochi –inclusi gli stessi protagonisti – avrebbero immaginato.
Nata a Londra il 17 luglio del 1947, Camilla Rosemary Shand – questo il suo nome di battesimo – è la primogenita dei tre figli del maggiore Bruce Shand e Rosalind Cubitt, figlia quest’ultima del barone Ashcombe. Dopo avere frequentato prestigiose scuole private prima nel Regno Unito, poi in Svizzera e in Francia, bazzica fin da giovane negli stessi altolocati circoli dell’allora principe Carlo. Sarebbe stata la comune amica Lucia Santa Cruz a presentarli nel 1971, mettendoli ironicamente in guardia visti i trascorsi dei loro avi: Alice Keppel, bisnonna di Camilla, era stata infatti l’amante di re Edoardo VII, trisavolo di Carlo. Nonostante l’immediata simpatia per l’erede al trono, Camilla – che comunque non era di rango abbastanza elevato per il giovane Windsor – convola a nozze nel 1973 con il brigadiere Andrew Parker-Bowles, al quale era legata ad intermittenza per alcuni anni. Insieme hanno due figli e un matrimonio segnato da svariate infedeltà reciproche, culminate nel divorzio annunciato nel 1995.
Il resto è storia. Oggi Camilla è a testa alta regina, con l’accortezza di non rubare mai la scena al marito, a differenza di quanto succedeva con la sua prima moglie Diana, la cui maggiore popolarità era fonte di grande frustrazione per Carlo. Lo sostiene con il suo senso dell’umorismo e una leale devozione che lui ricambia.
L’ex amante più odiata del globo ne ha fatta di strada: se nel 2006 solo il 21% dei sudditi era a favore di vederla sul trono, secondo un sondaggio di YouGov condotto subito dopo la scomparsa di Elisabetta, il 53% di loro reputa che sarà una buona regina.
La Rai continua a rappresentare il bottino più agognato di ogni tornata elettorale: non c’è forza politica che non ambisca a impossessarsene, eppure la sua incidenza in termine di voti è leggermente superiore allo zero. Quando la Rai non esisteva, la DC viaggiava tra il 42 e il 48% dei consensi; dominandola per circa 40 anni si è estinta. Berlusconi, padrone assoluto di Mediaset, allorché vi aggiunse il controllo dei tre canali Rai perse le elezioni del 2006 e fu mandato a casa nel 2011. Il PD, dentro le maggioranze da una decina d’anni, è precipitato nel 2022 al 19%. Dopo 4 anni di assoluta supremazia, il M5S è stato dimezzato: dal 33 al 16%.
È bastata la mancata conferma di Fabio Fazio e della sua trasmissione, Che tempo che fa, per far erompere i consueti, altissimi lai sulla rovina della Rai, sull’ingordigia della Destra vincitrice, che non ha annunciato alcuna palingenesi dell’emittente nazionale, bensì la semplice voglia di sostituire gli altri con i propri. Insomma, occupazione bell’e buona di una roccaforte fin qui ritenuta avversa, alla faccia di ogni ipocrito progetto riformista. L’opposizione, i cui dirigenti ancora in carica alla Rai niente hanno fatto nel trattenere Fazio, ha comunque avuto la scusa per accusare il Governo Meloni, e soprattutto Fratelli d’Italia, di coltivare insani rigurgiti fascisti. Di conseguenza il perbene e moderato Fazio è stato trasformato nel santino dei perseguitati. Dimenticando che l’esistenza della Rai è lastricata di vittime illustri. Biagi, uno dei più famosi e apprezzati giornalisti del secolo scorso, perse dopo appena un anno la direzione del Tg1 nel disinteresse generale. Nessuno ebbe da ridire allorché il sulfureo Umberto Eco, celebre autore de Il nome della rosa, lasciò il suo posto da dirigente. A metà degli anni Settanta il più famoso conduttore televisivo, Mike Bongiorno, fu messo nelle condizioni di doversene andare con malcelata soddisfazione di colleghi e di politici. Bongiorno fece la fortuna prima di Telemontecarlo, l’at-
tuale La7, poi delle reti berlusconiane. Il trasferimento a Discovery è un affare per Fazio, guadagnerà il doppio (2,5 milioni l’anno), e un clamoroso autogol per la Rai: per la rinomanza internazionale della trasmissione; per i proventi pubblicitari, che garantiva; per evitare a questa Destra la fama di non fare prigionieri; per l’estrema difficoltà di trovare un sostituto dovendo il prescelto misurarsi con un’audience prevenuta nei suoi confronti. Purtroppo per essa, una Rai già abbastanza screditata è diventata lo strumento di parecchie rivalse. Ci sono gli sconfitti della Storia, per i quali non esiste differenza tra i patrioti che morirono nel combattere i nazisti e quanti invece servirono il Terzo Reich fino all’ultimo giorno. Ci sono i presunti intellettuali persuasi che a causa delle proprie idee non hanno ricevuto l’ossequio del piccolo schermo. Ci sono gli autori di libri, dei quali sono state vendute meno di cento copie, che ne fanno colpa ai mancati inviti in trasmissione. Ci sono i politici alla Salvini che, anziché ricevere il preteso servo encomio, hanno ricevuto ironie, battutacce, punzecchiature e se le sono legate al dito. E poi ci sono i tantissimi, che ancora non hanno fatto carriera in Rai, riscopertisi tutti fratelli italiani e scatenati nel pretendere una poltrona, una sedia, uno strapuntino, financo uno sgabello in condivisione. Sono i cultori della colleganza intesa quale odio vigilante; sostengono di voler vendicare l’emarginazione subita dai soliti noti nonché raccomandati di ferro. Così si perpetua la leggenda di una Destra ignorante e arrembante, priva d’intelligenza e di visione. La colpa principale è degli stessi moderati talmente autolesionisti d’aver cancellato Cavour, il papà dell’Italia moderna, e De Gasperi, il più grande statista della Repubblica, l’autore della straordinaria ricostruzione del dopoguerra. E se vogliamo attenerci a personaggi meno ingombranti, ecco Pirandello, D’Annunzio, Ferrari, Fellini. Insomma, non c’è bisogno di scegliersi Gaspari quale riferimento e ispirazione. Benché avesse saggiamente optato per un blando passaggio di consegne con la precedente gestione, Giorgia Meloni dà l’impressione di esser stata travolta dall’onda soverchiatrice dei suoi. Lei è convinta, forse non a torto, di vincere anche le prossime elezioni, di poter durare più di una legislatura, ma chi le sta intorno si comporta come se il futuro avesse il respiro cortissimo: guai, quindi, a lasciarsi scappare l’occasione nel timore che non si presenterà più. Al Governo ne verranno soltanto grattacapi, rotture e maldicenze. Alle altre emittenti una manciata di spettatori in più: signora mia – avrebbe fatto dire a uno dei suoi personaggi il soave Alberto Arbasino, altro strepitoso talento sempre ignorato – faccia attenzione, a guardare questa Rai si rischia di finire in minoranza.
Settimanale di informazione e cultura Anno LXXXVI 22 maggio 2023 azione – Cooperativa Migros Ticino ATTUALITÀ 25
Keystone
Fazio e Luciana Littizzetto nel 2014. (Keystone)
«Chi cerca stabilità la trova da noi»
La consulenza della Banca Migros ◆ La crisi bancaria negli Stati Uniti e in Svizzera è fonte di grande incertezza. Manuel Kunzelmann, CEO della Banca Migros, analizza gli avvenimenti recenti in prospettiva e rivela quali sono gli aspetti a cui prestare attenzione in questo momento
Jörg Marquardt
La vendita coatta di banche regionali statunitensi e l’acquisizione di Credit Suisse da parte di UBS rievocano la crisi finanziaria del 2007/2008. Ma è proprio così?
Il paragone è lecito, tuttavia all’epoca si trattava di crediti irrecuperabili legati a crediti cartolarizzati e a prodotti finanziari complessi. Per contro, le ingenti perdite contabili delle banche regionali americane sono una conseguenza del forte aumento dei tassi d’interesse, che ha incoraggiato la speculazione.
La conseguente perdita di fiducia ha provocato un deflusso massiccio di fondi della clientela, che singole banche non sono più riuscite a contenere.
Si tratta di un problema generalizzato del mondo bancario?
No, si tratta di casi singoli riconducibili a cause diverse. Spesso ci sono stati errori nella gestione dei rischi che oggi si pagano a caro prezzo.
Ma è anche una conseguenza della debole regolamentazione delle banche regionali statunitensi. Gli istituti europei e svizzeri sono soggetti a una regolamentazione più rigida.
Tuttavia, nel caso di Credit Suisse non è comunque servito…
Credit Suisse è stata investita da una profonda crisi di fiducia. Le ragioni sono complesse, ma fondamentalmente legate a questioni di cultura aziendale. Dubito fortemente che si possa dare una risposta tramite la regolamentazione.
Nel primo trimestre 2023, presso Credit Suisse sono stati ritirati 61 miliardi di fondi da parte della clientela. In che misura la Banca Migros ha potuto beneficiare di questo deflusso?
Stiamo ricevendo più richieste, ma da clienti di diverse banche e non solo da qualche settimana. Lo scorso anno il nostro Centro clienti ha registrato un aumento delle richieste pari all’80%.
A cosa lo attribuite?
Alla nostra politica di rischio conservatrice. Ci concentriamo sul mercato svizzero, non intraprendiamo attività volatili e assumiamo solo rischi che siamo in grado di comprendere. Chi cerca stabilità e affidabilità, le trova da noi.
Questo significa che la Banca Migros non avverte segnali di una crisi di fiducia nel settore bancario?
Ovviamente i recenti avvenimenti sollevano interrogativi in tutto il settore, anche tra la nostra clientela. Tuttavia, disponiamo di una solida base finanziaria. La nostra quota di capitale complessivo ammonta all’incirca al 20%, un requisito più importante che mai nel contesto attuale. Inoltre, non creiamo incentivi sotto forma di bonus che potrebbero condurre ad azzardi nella gestione degli affari e nella politica di rischio.
Sembra probabile che le banche centrali aumentino ulteriormente i tassi di riferimento. Che ripercussioni ci potrebbero essere?
L’aumento dei tassi mira tra l’altro a ridurre l’inflazione, ma va di pari passo con un rallentamento dell’economia. Il picco degli aumenti sembra quasi raggiunto. Tuttavia, è improbabile che i prezzi degli immobili scendano. In Svizzera, infatti, si registra ancora una domanda persistentemente elevata che l’offerta non riesce a soddisfare.
Quanto durerà ancora il periodo di elevata inflazione?
Con il rallentamento della crescita economica, la spirale dei prezzi dovrebbe attenuarsi nel corso dell’anno. Ci aspettiamo che nel medio termine l’inflazione si stabilizzi intorno al 2%.
Da qualche anno, spuntano come funghi nuove banche come Revolut, Neon, Yuh o Zak. Il modello operativo della Banca Migros ne sta risentendo?
No, ma dai nuovi concorrenti possiamo sempre imparare qualcosa. Tuttavia, spesso queste neobanche soddisfano solo un’esigenza limitata della clientela, in genere il traffico dei pagamenti, le operazioni con carta e gli investimenti per privati. In qualità di banca universale, invece, la Banca Migros copre tutte le esigenze finanziarie rilevanti della clientela retail e della clientela aziendale medio-piccola.
A che punto è la Banca Migros nel percorso di digitalizzazione?
Abbiamo investito molto in tale ambito e ora siamo una delle banche retail più digitali della Svizzera. I traguardi conseguiti in questo settore ci hanno permesso di ricevere riconoscimenti dall’Institut für Finanzdienstleistungen nonché da «Finanz und Wirtschaft» e «Bilanz». La nostra offerta di servizi online comprende anche servizi immobiliari, assicurazioni e leasing per auto. Inoltre, la nostra clientela ha la possibilità di richiedere una videoconsulenza a casa.
La digitalizzazione mette in pericolo i posti di lavoro nel contesto
della Banca Migros?
No, pur venendo a mancare le «vecchie» attività, se ne aggiungono di nuove. Con la digitalizzazione cambiano anche i profili professionali. La nostra videoconsulenza ne è un buon esempio. D’ora in poi i nostri consulenti dovranno saper utilizzare anche le apparecchiature video.
La borsa svizzera è tornata a crescere dopo le perdite segnate. Ci si può fidare della situazione?
Ci sono buone ragioni a favore dell’andamento positivo dei corsi: la temuta crisi energetica non si è verificata, i problemi di approvvigionamento sono stati in gran parte risolti, l’economia cinese si sta riprendendo dopo aver abbandonato la politica
Zero Covid e riteniamo che la fine dei rialzi dei tassi di riferimento sia vicina. Siamo pertanto cautamente ottimisti per quanto riguarda il resto dell’anno. Nel breve termine, è probabile che la pressione economica si intensifichi, il che potrebbe generare maggiori livelli di incertezza sui mercati azionari. Nel medio termine, tuttavia, intravediamo buone possibilità di una ripresa duratura dei mercati.
Manuel Kunzelmann (48) è CEO della Banca Migros dal 2020. Economista aziendale dipl., dal 2009 al 2020 ha lavorato per la Basellandschaftliche Kantonalbank, da ultimo come responsabile del settore Strategy & Market. In precedenza ha ricoperto diverse funzioni presso UBS, tra cui quella di responsabile della sezione Liabilities. Kunzelmann è sposato, ha tre figli e vive a Zugo con la sua famiglia.
Come dovrebbero comportarsi gli investitori e le investitrici in questo contesto?
Chi vuole costituire un patrimonio a lungo termine dovrebbe sempre investire una parte dei risparmi e farli lavorare per sé. A prescindere dall’attuale situazione di mercato, è importante non perdere di vista l’evoluzione demografica: la popolazione è sempre più anziana. E gli anni di vita aggiuntivi devono essere finanziati. Questo obiettivo è difficile da raggiungere solo con il risparmio. Ciononostante, la nostra intenzione è di rendere il risparmio tradizionale di nuovo allettante, motivo per cui abbiamo aumentato di nuovo i tassi di interesse. È un buon momento per iniziare a investire o è preferibile attendere?
Con un orizzonte temporale a lungo termine ogni momento è buono per investire. È importante che il portafoglio d’investimento sia strutturato gradualmente, investendo nel modo più diversificato possibile. Ciò riduce sistematicamente il rischio e ammortizza le fluttuazioni di valore. Per adeguare gli investimenti alle esigenze individuali, consigliamo di richiedere una consulenza personale.
Settimanale di informazione e cultura Anno LXXXVI 22 maggio 2023 azione – Cooperativa Migros Ticino ATTUALITÀ 26
«Con un orizzonte temporale a lungo termine ogni momento è buono per investire»
In Svizzera cresce l’impronta statale
Avenir Suisse valuta l'attivismo dello Stato e suggerisce alcune possibilità per limitarne gli aspetti problematici
È fuori di dubbio che, anche in Svizzera come in altri Paesi, le attività dello Stato – e anche la cosiddetta quota fiscale – stanno aumentando. Il recente intervento della Confederazione nell'affare Credit Suisse, del resto preceduto di poco dagli interventi eccezionali per combattere la pandemia da Coronavirus, è solo l’ultimo segnale, invero urgente e necessario, di una tendenza che è in atto da alcuni anni.
Aumenta il numero dei dipendenti pubblici e parapubblici. Intanto, sul mercato del lavoro, si vede una penuria di mano d'opera qualificata
La serie numerosa di nuovi compiti assunti dallo Stato – alcuni dei quali con effetto ridistributivo – ha indotto gli esperti di Avenir Suisse (il think-tank dell'economia svizzera) ad allestire un rapporto sulla situazione nel nostro Paese. Anche la Svizzera, come molte altre realtà europee, non è più un'eccezione nel «neo-statalismo» che vede un aumento costante della quota dello Stato e della quota fiscale. Avenir Suisse definisce questa situazione come un aumento dell'«impronta statale», le cui conseguenze sono rilevabili nel costante aumento del numero dei dipendenti pubblici e parapubblici, tra l'altro con vantaggi sociali evidenti. Il che, a sua volta, mette lo Stato in concorrenza sul mercato del lavoro, dove si vede perfino una penuria di mano d'opera qualificata.
La situazione viene poi aggravata dai deficit di finanziamento, che per la Confederazione dovrebbero superare, già nel 2022, i 4,3 miliardi di franchi e di alcuni Cantoni che si vedono mancare i contributi della Banca Nazionale percepiti negli ultimi anni. Nonostante ciò non si fa strada (salvo qualche eccezione) l'idea di attuare importanti risparmi. Si cercano piuttosto nuove forme di finanziamento (per la Confederazione attraverso l'IVA) invece di contenere il volume delle prestazioni dello Stato. A livello politico è anche circolata l'idea di abbandonare – almeno temporaneamente – lo strumento del freno alla spesa, finora molto efficace.
Nell'analisi della situazione odierna, Avenir Suisse costata dapprima che la quota fiscale dal 2010 è aumen-
tata del 10% ed è perfino raddoppiata rispetto al 1950. Oggi essa non è più inferiore a quella di altri Paesi, se si tiene conto di tutti i prelevamenti obbligatori (primo e secondo pilastro della previdenza sociale, premi di casse malati). Essa salirebbe dall'ufficiale 28% al 40% e sarebbe superiore a quella della Germania e vicino a quella dell'Austria. Un altro testimone importante è quello della crescita dell'impiego pubblico: oltre allo Stato (395'000 dipendenti equivalenti tempo pieno) e alle imprese controllate dallo Stato (225'000 dipendenti), lo studio tiene conto anche delle imprese parzialmente controllate e finanziate dallo Stato (330'000 dipendenti). In totale il settore pubblico occupa 950'000 persone, il che corrisponde al 23% di tutti i salariati in Svizzera (sempre sulla base di impieghi a tempo pieno). Negli ultimi dieci anni l'aumento del personale è stato del 13%, mentre nel settore privato si è limitato all'8%. La parte più forte di aumento è dovuta ai Comuni (14%) e ai Cantoni (9%), mentre la Confederazione ha visto aumentare i propri dipendenti di meno del 5%. Un'eccezione è dovuta alle scuole politecniche federali che hanno registra-
to un aumento superiore alla media. Il rapporto di Avenir Suisse dedica poi un capitolo all'aumento delle regolamentazioni, con conseguenti aumenti di atti legislativi, di oneri amministrativi a carico delle aziende e agli influssi dello Stato sulla formazione dei prezzi. Confrontando questa situazione con quella di altri Paesi, per mezzo di indicatori della regolamentazione e della competitività, si può vedere che, nonostante il buon grado di competitività, la Svizzera presenta un elevato grado di regolamentazione. Inoltre, oltre la metà dei prezzi dei consumi privati non è il risultato del confronto fra offerta e domanda, ma è influenzata o direttamente controllata dallo Stato.
A titolo di esempio si può vedere che i mezzi dedicati al turismo sono più che triplicati negli ultimi trent'anni e che il settore culturale, da tempo sovvenzionato, costa ormai 2,5 miliardi di franchi all'anno all'ente pubblico. Lo stesso settore dei media dipende sempre più dai sussidi statali. In conclusione: anche se la Svizzera è ancora considerata un Paese snello, l'influsso dello Stato è grande e continua a crescere.
Da questa analisi Avenir Suisse trae alcuni suggerimenti per mantenere o ridurre la crescita dell'impronta dello Stato. Per quanto attiene alla quota dello Stato e alla quota fiscale, chiede di conservare il sistema del freno all'indebitamento e di accompagnarlo da un referendum finanziario facoltativo a livello federale che si estenda, oltre ai crediti d'impegno, anche ai limiti massimi di spesa, in modo da comprendere anche le spese per la formazione e l'agricoltura.
La metà dei prezzi dei consumi privati non è il risultato del confronto fra offerta e domanda, ma è influenzata o direttamente controllata dallo Stato
Nel settore dell'impiego pubblico chiede di creare «audit» esterni periodici di controllo, di attenuare i picchi temporanei di nuovi posti di lavoro, dilatandoli nel tempo; di migliorare la mobilità del personale fra l'amministrazione e il settore privato. Chiede inoltre analisi e confronti dei salari, per certi impieghi, nei quali la concor-
renza per la mano d'opera è forte. Per quanto attiene alle regolamentazioni, si dovrebbe migliorare la trasparenza delle analisi degli impatti legislativi e applicarne le conclusioni. Il problema di chi controlla i controllori all'interno dell'amministrazione potrebbe essere risolto mediante una commissione esterna con ampi poteri di verifica e di proposte. Per esempio applicando la regola dell’«one in, one out» (per una legge che entra, una che esce), che finora il Parlamento non ha voluto, ma che è già applicata all'estero. Potrebbe realizzarsi attraverso atti parlamentari già in discussione, come l'iniziativa sul freno alla regolamentazione o quella sull'alleggerimento dei costi della regolamentazione, che potrebbe anche supplire alla mancanza attuale di una valutazione «ex post» efficace delle regolamentazioni e dei loro costi. In questa direzione va anche un'iniziativa parlamentare che chiede la creazione di un organismo indipendente di controllo. Si dovrà però evitare il rischio di creare nuovi organi di controllo esterni per sorvegliare altri organi di controllo esterni, magari creando un solo organo di controllo.
Se la regola dell’«one in, one out» non è gradita dalla politica, la si potrebbe sostituire con una specie di «pulizia primaverile» alla quale il Parlamento potrebbe dedicare un periodo di tempo predefinito. Sistema che avrebbe il vantaggio di sensibilizzare i politici sulla necessità di sopprimere leggi e ordinanze magari vecchie e superate. Avrebbe anche il vantaggio della trasparenza nei confronti dei cittadini, favorirebbe una certa flessibilità e complementarità dei lavori parlamentari.
Criteri di trasparenza e clausole di caducità (fine predeterminata) potrebbero essere applicati alle numerose sovvenzioni. Criterio, quest'ultimo, che però non ha ancora provato la sua efficacia sul controllo delle spese. Anzi, in Svizzera certe decisioni adottate per un tempo determinato vengono spesso e volentieri prolungate.
In sostanza, i suggerimenti di Avenir Suisse hanno lo scopo di favorire un atteggiamento liberale dello Stato, che deve essere forte però sobrio. La sua sfera di competenze dovrebbe rispondere a tre principi: garanzia della sicurezza (giuridica) e protezione della proprietà; correzione dei difetti del mercato; correzione di situazioni non gradite dalla società.
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La Confederazione è intervenuta con misure eccezionali anche durante la pandemia. Nell'immagine: manifestazione a Berna contro i provvedimenti anti-Covid, ottobre 2021. (Keystone)
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Il Mercato e la Piazza
Le debolezze dell’economia elvetica
Sono uscite, qualche settimana fa, le considerazioni della Segreteria di Stato dell’economia (SECO) sull’evoluzione dell’economia svizzera durante i primi mesi del 2023. Contengono in sostanza due notizie: una buona e una un po’ meno buona. Cominciamo dalla prima. Contrariamente a quanto ci si sarebbe potuto aspettare, in seguito al progredire della pandemia e ai disastri provocati dalla guerra in Ucraina, nel 2022 l’economia elvetica si è sviluppata a un buon ritmo. Il tasso annuale di crescita del PIL, pari al 2,1%, è stato inferiore al tasso realizzato nel 2021, ma può essere considerato superiore, anche se non di molto, al valore realizzato durante gli ultimi 15 anni. Tenuto conto degli impedimenti in atto e del rapido lievitare dei prezzi, in particolare di quelli dell’energia, la prestazione del 2022 dell’economia svizzera potrebbe essere ritenuta come eccellente. Perché potrebbe? Perché un
Affari Esteri
Il presidente ucraino, Volodymyr Zelensky, è andato a trovare i suoi alleati europei in Italia, Germania, Francia e Regno Unito, e ha incontrato anche Papa Francesco per aprire una breccia nella diplomazia vaticana finora equidistante nel suo approccio alla guerra scatenata da Vladimir Putin in Ucraina. Zelensky ha deciso di fare questo tour in concomitanza con l’inizio della controffensiva militare contro Mosca, anche per assicurarsi le continue forniture di armi (quelle promesse all’inizio dell’anno sono arrivate, così come sono tornati i soldati addestrati nei Paesi occidentali) perché è così che si regge il patto di fiducia esistente tra Kiev e gli europei, fatto di obiettivi comuni, trasparenza e gratitudine. È questo allineamento che dà un senso a quella che viene chiamata con una certa malizia la «lista della spesa» di Zelensky: l’Ucraina non può difendersi senza il sostegno dell’Europa.
Zig-Zag
di Angelo Rossi
esame dettagliato rivela purtroppo debolezze. Cominciamo dall’evoluzione della produzione. Le attività del secondario, con l’eccezione del ramo della chimica e farmaceutica, hanno registrato lo scorso anno, soprattutto in seguito alla stagnazione intervenuta nelle esportazioni, una diminuzione del loro valore aggiunto.
Anche nel settore delle costruzioni si è registrato un rallentamento dell’attività. Per effetto dello stesso il valore aggiunto di questo settore è disceso, nel 2022, al livello raggiunto nel 2015. In calo pure il valore aggiunto del settore energia. I rami del terziario, con l’eccezione dei servizi finanziari, hanno invece registrato aumenti del valore aggiunto. Se dall’esame dell’evoluzione del valore aggiunto dai rami di produzione passiamo a considerare l’andamento delle componenti della domanda globale costatiamo dapprima che i consumi privati hanno
registrato un aumento anche nell’ultimo trimestre del 2022. Tuttavia il loro tasso di crescita trimestrale ha conosciuto un rallentamento. Anche la spesa dello Stato è aumentata, ma meno che nel 2021, anno ancora segnato dagli interventi per combattere le conseguenze del Covid. Gli investimenti sono diminuiti nel quarto trimestre dello scorso anno prolungando così una tendenza negativa che si sta manifestando dalla fine del 2020. Il saldo del commercio internazionale è restato positivo, grazie all’apporto dei servizi. Ma anche l’evoluzione trimestrale di questa componente ha messo in mostra un certo rallentamento nel corso dell’ultimo trimestre dell’anno. La conclusione degli esperti della SECO è che la congiuntura economica è stata caratterizzata, nel 2022, da un ritorno alla normalità, dopo gli eventi critici che hanno marcato il biennio della pandemia. La notizia meno buona è che,
purtroppo, questa fase di normalizzazione non continuerà nel tempo. Nel corso del 2023 è da prevedere un rallentamento più marcato della congiuntura. Il tasso di crescita del PIL della Svizzera passerà dal 2,1% all’1,1%. Stando alla SECO, quindi, l’economia del nostro Paese si svilupperà più lentamente che nello scorso anno senza però cadere nella recessione. Più avanti l’economia si riprenderà ma il tasso di crescita del PIL, previsto per il 2024, sarà più vicino all’1,5% che al 2%. Il colpo di freno congiunturale si ripercuoterà negativamente anche sul mercato del lavoro, ma solo nel 2024. Il tasso di disoccupazione della SECO aumenterà il prossimo anno dal 2 al 2,3%. La situazione sul mercato del lavoro continuerà quindi a restare tesa per carenza dell’offerta. Le considerazioni relative all’economia nazionale valgono anche, in generale, per l’economia del Cantone Ticino. Per la stes-
sa sono stati riscontrati, nei primi mesi del 2023, segnali positivi e segnali negativi. L’indagine sulle attività manifatturiere ha rilevato una situazione degli affari positiva ma che tende a peggiorare. In Ticino una parte rilevante delle imprese ritiene insufficiente il volume degli ordini attuali. Tuttavia le prospettive per i prossimi mesi potrebbero essere più ottimiste soprattutto per le aziende che esportano. Anche nel settore delle costruzioni segnali positivi e segnali negativi si alternano. Il nostro Ufficio cantonale di statistica giudica la situazione del settore nel complesso ancora come delicata. Come si sa, il 24 marzo scorso la Banca Nazionale Svizzera ha rialzato il tasso di interesse guida di mezzo punto, portandolo all’1,5%. Possibili rialzi dello stesso, nei prossimi trimestri, potrebbero ovviamente scoraggiare gli investimenti nel settore, in misura maggiore di quanto previsto fin qui.
di Paola Peduzzi
Però questa difesa non riguarda soltanto i confini ucraini, riguarda tutti noi, dal momento che Kiev è il fronte avanzato – disumanamente colpito dalla ferocia di Putin – di una linea di difesa che comprende tutto l’Occidente. Se ci si ferma alla «lista della spesa» si finisce nella trappola della retorica anti-Ucraina che accusa Zelensky di essere un guerrafondaio invasato al servizio dell’Occidente, mai sazio di armi, quando è invece ormai appurato che l’Ucraina non può smettere di difendersi, altrimenti non esisterà più, mentre Putin potrebbe smettere di attaccare in questo istante, ma non vuole farlo. Né al momento esiste qualcuno – nemmeno il presidente cinese Xi Jinping o il Papa – che riesca a convincere il presidente russo a fermarsi. L’unica strategia per ora funzionante è il mix di sanzioni e sostegno militare messo a punto dall’Occidente, in continua evoluzione. Certo, la «lista della
Tra geopoetica e geopolitica
Sto leggendo la Trilogia dell’Altipiano, libro che riunisce la Storia di Tönle, L’anno della vittoria e Le stagioni di Giacomo di Mario Rigoni Stern. A riportarmi sui tre romanzi è stato un amico che si diceva contento di aver ritrovato quelle pagine, senza peraltro spiegarmene il motivo. Volendo seguire l’indiretto suggerimento ho ordinato il libro e ho appreso che sopravvive (e bene, è alla terza edizione presso Einaudi) grazie anche al giro scolastico che trova comodo avere uniti tre romanzi pubblicati separatamente. Credo però che questa finalità, oltre a essere legata all’impareggiabile semplicità delle prosa e al forte coinvolgimento delle storie di Rigoni Stern, mirabile al punto di proporsi come strumento didattico, ormai non sia più quella prevalente. Il perché è molto semplice: il messaggio che il lettore oggi ricava dai tre racconti, oltre a rievo-
care mirabilmente epoche e vicende della sua gente dell’altipiano veneto, è una specie di balsamo per mente e cuore. L’autore stesso, in una premessa anteposta alla prima edizione del «trittico», ha spiegato di aver sempre seguito un fil rouge: poter essere d’aiuto in momenti in cui la gente e in particolar modo i giovani faticano a ricordare i grandi drammi passati e gli insegnamenti che da essi derivano. Non sono forse così anche i tempi in cui viviamo?
Non sono un gran recensore di libri. Volendo comunque riferire le impressioni ricavate, ho pensato di «usare» due termini già enunciati nel titolo: geopoetica e geopolitica. Il primo l’ho letteralmente appreso, nel senso che non lo conoscevo, dal web (www. studenti.it), leggendo una breve scheda del libro. «Geopoetica» viene usato per indicare che i libri di Rigoni Stern, in particolare questi della tri-
spesa» c’è, non potrebbe essere altrimenti, e infatti i Paesi europei hanno risposto alle richieste di Zelensky impegnandosi a fornire tutto quel che è necessario in termini di sistemi missilistici, droni, carri armati, munizioni e anche a far crollare qualche tabù. Come spesso è accaduto in questa guerra, è stata Londra a spostare un po’ più in alto la barra del sostegno a Kiev, dicendo che sta valutando l’invio di aerei ma che intanto si impegna ad addestrare i piloti ucraini all’utilizzo dei mezzi della NATO, in particolare degli F-16. Nel Regno Unito si sta valutando da tempo la possibilità di adempiere alla richiesta ucraina di ottenere una protezione nei cieli, che sono i più vulnerabili agli attacchi russi. La contraerea ucraina ha fatto passi da gigante e buona parte dei missili russi viene intercettata, ma la difesa dei cieli ha bisogno di un supporto in più. Anche il presidente francese Em-
manuel Macron, notoriamente parecchio cauto, ha detto di essere pronto a organizzare la formazione dei piloti ucraini. Non è una cosa da poco, per quanto buona parte delle rimostranze sulla poca reattività dell’Occidente siano cadute su Berlino e sul cancelliere Olaf Scholz. Comunque i tanto sospirati carri armati tedeschi Leopard sono sul campo ucraino, mentre i carri armati francesi Leclerc sono stati soltanto promessi. Alcuni analisti affermano che, con il protrarsi della guerra, gli alleati probabilmente si divideranno i compiti per le forniture in modo da non restare tutti con gli arsenali vuoti.
Ma il successo del tour europeo di Zelensky non si misura solo controllando la «lista della spesa», anzi, questa è l’esito di una consapevolezza sempre più radicata degli obiettivi comuni nella difesa dall’attacco russo. Intanto i tempi. Nelle conversazioni e
nelle dichiarazioni ufficiali, il termine «lungo periodo» compare sempre più spesso: la guerra non è destinata a finire in breve tempo ma l’Europa, che pure non nasconde la sua stanchezza, ha deciso di impegnarsi fino a quando sarà necessario. Anche la parola «vittoria», che Zelensky utilizza come un brand da associare all’Ucraina, ha preso una connotazione precisa, e l’ha presa proprio a Berlino, capitale dei riluttanti, quando Scholz ha detto che la sconfitta di Putin deve essere «irreversibile», cioè che Mosca deve essere messa nelle condizioni di non riattaccare ancora l’Ucraina. La sconfitta irreversibile è proprio l’idea di vittoria che ha Kiev. Sulla «pace» c’è da lavorarci, ma anche qui Zelensky ha dato un’altra spintarella ai suoi alleati, definendola nel modo più semplice ed efficace possibile: la pace è la vittoria. Vale anche il contrario: la vittoria è la pace.
logia, sono costruiti con il metodo letteratura geografica dal momento che autore e opera considerano l’uomo «frutto della terra in cui vive» e, di riflesso, negli scritti sono sempre presenti o finiscono per prevalere i riferimenti alle origini e alle radici (ne deduco che tanti scrittori ticinesi, da Giuseppe Zoppi a Giovanni Orelli e Fabio Andina, siano geopoetici). Di fatto anche i tre libri di Rigoni Stern rievocano vicende storiche, da inizio Novecento sino al dopoguerra, e consentono all’autore di valorizzare lo spirito di una regione e di una minoranza per contribuire a mantenere viva la memoria e tramandare le tradizioni delle genti dell’altipiano veneto. Non si fatica però a scoprire che la forza geopoetica della Trilogia dell’Altipiano, oltre a proiettarsi su altre regioni e minoranze alpine, risulta anche un vero balsamo contro la mala-informazione che tutti
siamo costretti a decifrare, sviati da un’informazione mediatica basata su immagini stereotipate e descrizioni didascaliche, continuamente e pericolosamente in bilico fra propaganda ideologica e una deviante neutralità. Il richiamo a una dimensione geopolitica l’ho invece avvertito leggendo, sempre sul sito web consultato, un chiaro accenno al rigore della scrittura di Rigoni Stern: «Nei suoi libri non inserisce mai la parola nemico perché secondo lui le armate avversarie non erano nemiche». Entrando oggi nel suo «trittico» ci si sente mentalmente spinti a rincorrere le tante analogie fra quanto le guerre hanno causato il secolo scorso e i drammi che l’Europa vede purtroppo ritornare. Così, mentre la geopoetica di Rigoni Stern evoca in modo mirabile condizioni e costrizioni di vita, povertà ed emigrazione (prima frontaliera, poi extra-continente) com-
parabili a quelle di inizio Novecento anche nel nostro Cantone, la sua geopolitica richiama le somiglianze fra la guerra promossa a inizio Novecento dall’imperatore austriaco Francesco Giuseppe contro l’Italia e quella scatenata da Vladimir Putin contro l’Ucraina. Inevitabile dunque che leggendo il Trittico (soprattutto le rievocazioni di un’economia di sopravvivenza o i drammi di emigranti, fuggiaschi, profughi e sfollati) si avverta sovente anche la preoccupazione che simili scenari possano oggi arrivare a sconvolgere anche le nostre pacifiche regioni e il nostro egoistico benessere. L’amico che mi ha segnalato il libro è d’accordo; e sgancia un suo missile geopolitico: non dimentichiamo – dice – che a spingere Putin verso assurde guerre, dietro a farneticanti mire imperiali ed etniche, ci sono l’invecchiamento e il graduale impoverimento della popolazione russa.
Settimanale di informazione e cultura Anno LXXXVI 22 maggio 2023 azione – Cooperativa Migros Ticino 29 ATTUALITÀ / RUBRICHE ◆ ●
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La «lista della spesa» di Zelensky e la difesa dell’Occidente
di Ovidio Biffi
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Giovanni Testori
Lo scrittore lombardo che il 12 maggio ha compiuto un secolo racconta la vita di Luchino Visconti
Pagina 33
Arti sceniche e inclusione
Il 25 maggio al Teatro Foce debutta Caos Cosmico Quanto Basta della compagnia Teatro Danzabile
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La bellezza dei depositi d’arte Tra i musei europei si fa strada una nuova tendenza, quella di aprire al pubblico i propri depositi
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Lo svelarsi di una voce turbata
Il diritto di esistere
Le star giocano sulla diversità cavalcando una moda più che incarnare un modo di essere
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Anniversario ◆ Il 20 maggio del 1973 ci lasciava Carlo Emilio Gadda. Il ricordo attraverso lettere e diari
Nel 1988 uscirono presso l’editore Garzanti di Milano le Lettere a Gianfranco Contini a cura del destinatario, una raccolta di 77 missive spedite da Carlo Emilio Gadda (nella foto) al celebre filologo piemontese sull’arco di oltre un trentennio (1934-67), dall’epoca del Castello di Udine a quella della Cognizione del dolore. Dato che il «destinatario», nonché curatore del libro, era naturalmente Contini, che di edizioni un po’ se ne intendeva, quell’importante capitolo di epistolografia novecentesca sembrava essere stato chiuso ancora prima di cominciare. E invece no: nel 1998, scomparso oramai Contini, uscì una nuova versione del carteggio a cura di Giulio Ungarelli con importanti ritrovamenti (62 inediti), e una terza fu approntata da Dante Isella negli ultimi anni di vita e gli venne pubblicata postuma nel 2009.
Gadda continua a sfuggire anche agli esegeti migliori. Come una pantera dantesca di cui si senta soltanto l’odore, ma che non sia mai possibile vedere né catturare per davvero
Se dalle lettere passiamo alle opere, il discorso paradossalmente non cambia: i cinque volumi in sei tomi pubblicati nei Libri della Spiga Garzanti dal 1988 al 1993, e che avrebbero voluto essere l’opera omnia di riferimento per anni a venire, sono stati ampiamente superati dai fatti e contano oggi quasi soltanto come oggetti di antiquariato. Nonostante l’armamentario filologico sfoderato in quell’occasione, e i grandi nomi che erano scesi in campo sin dagli anni Trenta per celebrarne l’originalità e la profondità di indagine esistenziale, l’essenza più profonda di Carlo Emilio Gadda continua insomma a sfuggire anche agli esegeti migliori. Come una pantera dantesca di cui si senta soltanto l’odore, ma che non sia mai possibile vedere né catturare per davvero. Si prenda quale esempio estremo il commento monstre terminato nel 2016 da Maria Antonietta Terzoli e dai suoi allievi dell’Università di Basilea, un’imprescindibile guida di lettura del Pasticciaccio. Pur se passati ai raggi X, i fatti di via Merulana non hanno perso un grammo del loro più intimo mistero.
Che quello gaddiano sia oramai diventato il maggiore cantiere filologico del Novecento italiano è fuori di dubbio, e si deve credo a due fattori che si alimentano a vicenda: da un lato la vita tormentata del nostro, le sue paranoie, la famiglia, i traslochi, le vicende professionali, tutti elementi che
hanno prodotto una grande quantità di carte, nascoste, perdute, ritrovate, prima e dopo la morte di Gadda (e oggi gestite per lo più dall’erede Arnaldo Liberati); dall’altra una squadra di agguerriti e caparbi studiosi capitanati dallo stesso Isella – finché fu in vita – che non hanno mai abbandonato l’osso dell’esegesi, arrivando a produrre negli ultimi anni, dopo il passaggio dei diritti da Garzanti ad Adelphi, una serie di gustosi aggiornamenti sempre sostenuti da ricerche esemplari. Dal 2007 in poi, e specie dopo il 2016, non è praticamente passato anno senza una versione rivista e arricchita dei principali testi gad-
diani. E poiché il merito del lavoro va sempre riconosciuto, è giusto ricordare i nomi dei principali protagonisti di questa impresa, da Paola Italia a Giorgio Pinotti, da Claudio Vela a Liliana Orlando, degni eredi della loro scuola pavese. L’ultimo titolo in ordine di tempo, legato in corda doppia a La guerra di Gadda. Lettere e immagini (191519) curato due anni or sono da Giulia Fanfani, Arnaldo Liberati e Alessia Vezzoni, è la riedizione ampliata del Diario di guerra e di prigionia, steso dall’autore quando ancora non si era manifestata in lui un’inequivocabile vocazione letteraria, in più qua-
derni e in momenti diversi della sua esperienza di combattente nell’esercito italiano durante il primo conflitto mondiale. Il cronotopo è naturalmente il medesimo del giovane Ungaretti, che si scoprì poeta nel fango di quelle stesse trincee, e qualche armonica risuona simile (ma sarà un caso): «Preghiera. Umanità. Gli italiani hanno capito, hanno funzionato; speranze e trepidazioni. […] Cerco di raccogliere i miei pensieri e fo voti di venir presto restituito alla vita, al lavoro» (Celle-Lager, Hannover, 7-9 novembre 1918, pp. 410-418).
Uscito una prima volta nel 1955, non senza i soliti patemi d’animo cui
Gadda aveva oramai abituato editori ed amici, il diario era stato ristampato con varianti già nel 1965 e fu riproposto di nuovo nel 1991 da Isella a seguito del ritrovamento di ulteriori pagine inedite. Altre, e ben più sostanziose, sono quelle che possiamo leggere oggi, e sui cui contenuti gli apparati del libro sorvolano forse con un po’ troppa fretta (impeccabile invece, come sempre, la resa filologica). Si prendano i meravigliosi paragrafi in cui l’autore prova a descrivere l’essenza dello spirito tedesco – cioè il nemico – con accenti che stanno a metà tra un’indagine antropologico-naturalistica alla Lucrezio e una sottilissima presa per i fondelli: «I vagoni ferroviari scricchiolavano rugginosi, andando senz’olio nelle pianure deserte, pei campi arati dagli schiavi Russi. Ma davanti alla fame e all’ultimo sacrificio s’aprivano le fertili pianure del mondo, le profumate riviere e il mare apportatore di benessere. A ogni nato in terra tedesca il sole e la terra avrebbero generosamente sorriso, mentre l’operaio straniero si curverebbe sotto il giogo tedesco credendolo […] un giogo patrio».
Altre pagine inedite, soprattutto quelle dei primi mesi di guerra, sono decisamente più aride, quasi notazionistiche, e proprio per questo diventano degli importanti documenti storici, comprensivi di disegni della linea del fronte e delle baracche in cui era assiepato l’esercito italiano. E non possono non far sorridere i tentativi del giovane tenente, a un passo dalla laurea in ingegneria elettronica, di risolvere complessi problemi matematici nei tempi morti. È in questo contesto, assai poco favorevole agli stimoli culturali, che tra una pagina e l’altra di diario vediamo nascere il futuro scrittore: una tensione stilistica che si esplicita per mezzo di scarti dalla norma, impennate ironiche, una sintassi mai banale e piccoli ma crescenti pastiche linguistici (qui soprattutto in dialetto lombardo, latino e tedesco, più tardi anche in romanesco e spagnolo), insomma tutti quei tratti che sarebbero passati poi a caratterizzare le opere maggiori. Una voce, la sua, che è sempre in qualche modo turbata , come si intorbidano le acque di uno specchio lacustre o le onde di un campo magnetico. Se lo leggiamo ancora con gusto a tanti anni di distanza, nonostante le innegabili difficoltà che impone da sempre ai lettori, è perché quel turbamento (linguistico, umano, morale) non ha ancora smesso di svolgere la propria funzione.
Bibliografia
● ◆ Settimanale di informazione e cultura Anno LXXXVI 22 maggio 2023 azione – Cooperativa Migros Ticino 31
CULTURA
Carlo Emilio Gadda, Giornale di guerra e di prigionia, Adelphi, Milano, 2023.
Keystone
Pietro Montorfani
Giovanni Testori racconta Luchino Visconti
Saggio ◆ Lo scrittore lombardo tratteggia uno straordinario ritratto del conte che amava cani e cavalli
«Sull’acqua, fremono, qua e là, come ultimi rimbalzi del giorno, le reti dei pescatori. Quand’eri bambino li vedevi partire tutte le sere e principiare la quotidiana fatica per procurarsi il pezzo di pane […] nel tuo infantile corruccio, nella tua incomprensibile malinconia, cominciava ad aprirsi come una crepa, a formularsi come una dissonanza, quella crepa che poi s’è allargata, ha diviso e squartato, come una mannaia, tutta la tua esistenza. La mannaia del dolore, proprio e altrui».
Le ombre del gran lago, il Lario in cui Visconti crebbe nella materna fastosa villa Erba di Cernobbio, sono l’alfa e l’omega di questo ritratto speciale
A comprendere la vita del conte dimezzato Luchino Visconti, si dedicò nel 1972 Giovanni Testori, drammaturgo e scrittore molto apprezzato dal regista di Rocco e i suoi fratelli. Ne scrisse 54 cartelle dattiloscritte spatolate con la sua prosa di materia viva. Un testo a lungo dato per perduto, che vede ora la luce presso Feltrinelli (Giovanni Testori, Luchino. A cura di Giovanni Agosti), nell’anno in cui si ricorda il centenario della nascita dello scrittore di Novate Milanese.
Le ombre del gran lago, il Lario in cui Visconti crebbe nella materna fastosa villa Erba di Cernobbio, sono l’alfa e l’omega di questo ritratto speciale; formano un «pedale» lombardo che collega le radici di Testori a quelle di Visconti nella comune attesa della «smisurata sera che vi scende da anni e anni e che vi scenderà anche dopo, quando di noi, Luchino, non resterà che qualche memoria, e poi, neppure quella… la vita è crudele; e così la morte».
Testori cerca le ragioni della «chiamata d’un destino diverso», che «quanto più saprà gridare l’amore per la vita, tanto più si mostrerà protetto e patrocinato da lei, “nostra sorella
morte corporale”», analizzando le fatiche d’una vita («della fatica s’è fatto un metodo di vita, quasi un gusto, una vendetta»): teatro, opera, balletto, cinema e le interminabili collezioni.
Dai passatempi teatrali sotto l’egida della madre, Donna Carla Erba, alla gestione della scuderia a Trenno, passione equina «che prelude il galoppo estremo del cavallo che giunge alle soglie del precipizio»; dalla masnada di cani che gli sta sempre attorno (il pasto quotidiano è una cerimonia feroce degna di un «principe del passato che avesse sbagliato tempo, costume e basamento»), all’ horror vacui della villa sulla via Salaria a Roma e della Colombaia a Ischia, riempite di obelischi, uova, «vetri dipinti che coprono la tappezzeria rosso sangue della camera, fotografie che mangiano ogni millimetro della stanza-guardaroba, vasi e opaline che se ne stanno in file lungo tutto il bordo della vasca da bagno». «È la poetica di far il pieno in modo che lo spazio risulti così stipato da trasformarsi in immagine ribaltata del vuoto».
Testori non si dilunga sulle contraddizioni di Visconti (la dialettica della sua vita): «Luchino conte e Luchino vicinissimo ai comunisti; Luchino alle feste dei nobili (e nobilazzi!) e Luchino davanti alla salma di Togliatti» – per chiarimenti su ogni aspetto del suo collezionismo, sui riflessi di questo sulla sua opera, fino alle più minute congetture biografiche ci pensano le note del curatore, Giovanni Agosti: le 85 pagine del testo sono seguite da 234 pagine di erudizione bio-bibliografica nelle quali spesso si perde il punto di partenza, assorbiti dalla dottrina dello scoliasta che vi ha atteso con tanto scrupolo.
Non mancano aspetti meno gradevoli: le celebri rabbie, («il suo bisogno di violenza dimostrata e dimostrante stanno, non dalla parte della sicurezza, bensì da quella dell’abisso»), lo sperpero pecuniario («pur di disfarsene, pur di arrivare a non averne, li getta e li sperpera con una sorta di trionfante
volontà d’arrivare allo zero»); il turpiloquio quando «con la sua voce rabbiosa e roca urla, getta e vomita oscenità e bestemmie per le strade […] di Roma». «Cosa ci sia di oscuramente inaccettabile nel suo blasone di conte», si domanda Testori rispondendo: «qualcosa di fangoso, qualcosa di ruttante e di maialesco si sprigiona allora in lui come se, sotto la ludica corazza rinascimentale, emergesse di colpo lo stomaco, il ventre e il sottoventre d’un cavernicolo o d’uno scalpellino dei tempi in cui i Maestri, appunto, comacini scalpellavano pro domo altrui».
Decisiva è la lettura di Testori della poetica del grande regista del Gattopardo, della Caduta degli Dei, di Ludwig : «Trovo impropria la collocazione in esclusiva della poetica di Luchino dentro i termini del decadentismo. Che, in lui, ci sia anche la compartecipazione morale, fisica, psichica e perfino psicofisicomusicale a qualcosa che sta finendo, ai bagliori crepuscolari, alle crepuscolari dorature, alla ricchissima e perfida erosione d’una classe arrivata alla fine dei propri giorni, nessuno lo vuole negare; e neppure che questa compartecipazio-
ne formi uno dei fascini più profondi e, come dire, più lacustramente affondati (e capovolti, come […] le già citate striature delle luci comasche e cernobbiane) […] fascino che acquista la sua grandezza, il suo valore, le sue timbrature e il suo strazio proprio dalla coscienza storica e morale con cui quel tramonto si dilata, celebra il proprio requiem e la propria notte».
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Settimanale di informazione e cultura Anno LXXXVI 22 maggio 2023 azione – Cooperativa Migros Ticino CULTURA 33
Bibliografia Giovanni Testori, Luchino
A cura di Giovanni Agosti, Feltrinelli, Milano, 2023.
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Spettacoli ◆ Arti sceniche e inclusione, un binomio vincente promosso dal Percento culturale Migros e il Festival ORME
Natascha Fioretti
Fedro, Viviana, Kevin, Camilla, Emanuel, li raggiungo tutti insieme per una telefonata collettiva in vivavoce. Li sento entusiasti, sono nel pieno delle prove dello spettacolo Caos Cosmico Quanto Basta che debutterà al Foce giovedi 25 maggio. Una coproduzione della compagnia Teatro Danzabile e IntegrART del Percento culturale Migros che intende esplorare la vastità dell’universo, le stelle, i pianeti. Quello che fin dalla notte dei tempi ci ha affascinato come esseri umani: guardare il cielo, guardare in alto e specchiarsi, riconoscendo la volontà che ognuno di noi ha di ricercare il proprio valore nel caos dell’universo. Un lavoro di sperimentazione inclusivo che mette in relazione performer con diversi bagagli di esperienza e pone al centro l’accessibilità alla fruizione da parte delle persone sorde, cieche e ipovedenti. Fondata a Lugano nel 2005, la compagnia Teatro Danzabile con la sua filosofia inclusiva intende rispondere ai quesiti umani universali: Chi sono? Perchè esisto? Dove vado?
«Abbiamo esplorato possibilità di movimento, scenografie, visioni e immagini»
Nella realizzazione di Caos Cosmico Quanto Basta Viviana si occupa della regia, «per una volta sono al di fuori della scena mentre Fedro, Camilla e Kevin sono gli interpreti e i creatori di tutto quello che si vedrà nello spettacolo. Emanuel Rosenberg è il direttore artistico». «Ci sono anche le maestranze – ricorda Fedro – abbiamo lavorato con scenografe, costumiste, un in-
gegnere del suono, un musicista e un light designer». Si percepisce un forte affiatamento e il piacere di lavorare insieme a un progetto nato dal loro incontro nell’ambito della prima edizione 2021/2022 del CAS DIP-
PA – Diversity and Inclusive Practice in Performing Arts, la formazione continua inclusiva e accessibile promossa e coordinata dall’Accademia Dimitri (SUPSI), in collaborazione con Teatro Danzabile (CH). Il punto di par-
tenza per un tema vasto come quello dell’universo è stata la condivisione di un’esperienza: «Abbiamo esplorato possibilità di movimento, scenografie, visioni e immagini», racconta Fedro. Ma cosa vedrà il pubblico sul pal-
«L’inclusione non è un peso, è un’espansione delle possibilità»
Per capire meglio con quale spirito e in quale contesto nascono spettacoli come Caos Cosmico Quanto Basta e festival come quello di ORME (sopra, l’immagine della locandina) che lo promuovono, abbiamo fatto qualche domanda a Inga Laas che da quest’anno è la nuova direttrice di IntergrART, il progetto del Percento culturale Migros che si impegna a sostenere l'inclusione artistica e sociale delle persone con disabilità.
Quanta apertura a modalità nuove e inclusive mostra oggi il settore culturale svizzero? Ci sono degli esempi virtuosi a cui guardare?
I progetti pionieristici ai quali guardo sono la Compagnia e l’associazione BewegGrund di Berna. Gestiscono attivamente e insegnano danza inclusiva da 25 anni. L’Associazione Teatro Danzabile, in collaborazione con l’Accademia Dimitri, ha istituito un CAS che le persone con disabilità possono completare nell’ambito della danza. Il festival look&roll di Basilea mostra solo cortometraggi di e con persone con disabilità e rende sia i film sia il festival stesso completamente inclusivi. Il Museo Tinguely di Basilea e il Zentrum Paul Klee sono pionieri per quanto riguarda l’accessibilità al museo. Un progetto importante per promuovere la cultura inclusiva è sicuramente il marchio Pro Infirmis Kultur Inclusive. Personalmente, sono una fan del gruppo di artisti Criptonite: ridefiniscono l’arte performativa in un modo divertente e nuovo, adattato ai loro corpi. Quando penso ai modelli ai quali ispirar-
mi penso a tutte le compagnie indipendenti, le associazioni o gruppi di artisti – a parte i musei. Finora le grandi case della cultura svizzere –sia nei programmi sia nell’accessibilità del pubblico (che corrisponde al 15% della popolazione) – non hanno promosso l’inclusione e la diversità. Nel complesso però, rispetto a dieci anni fa, il settore culturale svizzero è più aperto.
Dove si dovrebbe intervenire e fare di più?
Il cantiere più grande sono le strutture di formazione. Queste si basano su un approccio abilistico. Il sistema attuale sembra aver completamente ignorato il fatto che i corpi sono diversi e funzionano in modo diverso. In Svizzera è quasi impossibile per una persona disabile completare un’istruzione nel campo della danza. Il nocciolo della questione è l’orientamento verso uno standard fisico che bisogna dimostrare di avere per essere ammessi, anche attraverso un certificato medico. L’espressione e il talento non giocano più un ruolo. Come contrappunto, è stato creato un CAS presso l’Accademia Dimitri in collaborazione con il nostro partner Accademia Dimitri di Verscio: Diversity and Inclusive Practice in Performing Arts. (DIPPA). A livello educativo è necessaria una nuova comprensione di ciò che è possibile e di ciò che i corpi possono e devono mostrare. A livello di istituzioni culturali occorre allargare gli orizzonti. Mi piace dire: «L’inclusione non è un peso, è un’espansione di possibilità». A
livello di occupazione, le persone con disabilità hanno bisogno di un maggiore accesso a posizioni dirigenziali, non solo dietro le quinte e nel settore culturale, ma in tutti i settori.
Da marzo lei è la nuova responsabile di IntegrART: che ruolo gioca IntegrART nel contesto che abbiamo appena disegnato?
Noi del Percento culturale Migros diamo sicuramente un contributo importante con il nostro progetto di rete IntegrART - insieme ai nostri festival partner BewegGrund a Berna, Out of the Box a Ginevra, Wildwuchs a Basilea e Orme Festival a Lugano. Con la Biennale, non solo siamo riusciti a portare in Svizzera gli ospiti internazionali delle arti della disabilità e a far loro visitare tutte le aree linguistiche della Svizzera con la più ampia portata possibile, ma abbiamo avviato anche una collaborazione con la ZHdK (Zurich University of Applied Sciences) presso IntegrART arts. Gli studenti completano un modulo con danzatori con disabilità presso il Dipartimento di Danza. Ne è nato il CAS DIPPA: Diversity and Inclusive Practice in Performing Arts che per la prima volta dà accesso a una formazione nelle arti dello spettacolo che non esclude le persone con disabilità.
Anche lei ha una disabilità: che ruolo gioca nel suo lavoro e, più in generale, pensa che per promuovere una scena culturale inclusiva si dovrebbero coinvolgere più persone con disabilità?
co? «Degli esploratori che vanno alla ricerca di pezzi di stelle, di storie, di parole che – man mano – raccogliendo tutto questo ripartono per altri mondi, universi, sensazioni». «L’immaginario – aggiunge Emanuel – è quello di tre figure con i costumi e gli oggetti inseriti in un’ambientazione confusa, un luogo astratto, esploso. Ci sono pezzi in giro dappertutto, le tre figure all’inizio non sono riconoscibili, poi si incontrano e fanno una sorta di viaggio di scoperta».
L’inclusione è l’incontro tra mondi fragili per arrivare a uno scambio in modo paritario
L’idea alla base dello spettacolo – mi spiegano tutti insieme – è quella di trasformare la fragilità in qualcosa di forte, in una risorsa creativa. Nato dalla formazione del CAS incentrato sulla diversità e le arti performative inclusive per persone con o senza disabilità, voglio capire in che senso Caos Cosmico Quanto Basta sia inclusivo. «Considerare la diversità significa considerare i diversi punti di vista e renderli tattili attraverso uno spettacolo teatrale nel quale si lavora sia con il corpo sia con la parola. L’inclusione è l’incontro tra mondi fragili per arrivare in modo paritario a uno scambio – in questo caso – artistico, creativo, umano e anche sociale volto a capire le necessità di ognuno e ad andarsi incontro» dice Viviana, e Fedro aggiunge «Il nostro spettacolo è inclusivo a partire dal cast di attori».
Viviana entra nel merito del lavoro di audiodescrizione fatto da Camilla che «creerà un testo per le persone cieche e ipovedenti che avranno la possibilità di ascoltare cosa accade in scena perché gli viene descritto. Ma non sarà una descrizione didascalica o schematica, sarà una descrizione poetica. Per le persone sorde ci sarà la proiezione delle parole che verranno dette in scena. Abbiamo provato a fare un lavoro anche a livello musicale affinché si potesse percepire la musica – non soltanto sentirla con le orecchie – ma questo è il punto più difficile che stiamo affrontando e la tecnologia non è ancora così sviluppata da venirci in aiuto».
La mia disabilità mi dà una prospettiva e una sensibilità che una «persona abile» non porta con sé. Ma la mia disabilità non è ciò che mi definisce, non è l’unica qualifica per questa posizione. Questo è importante per me: mi occupo di IntegrART perché mi piace e perché posso farlo. Non perché sono disabile. Ecco un’altra frase che mi piace citare per sottolineare l’importanza dell’inclusione: «Nothing about us without us ». Ricordiamoci che l’arte spesso scaturisce da una crisi: chi conosce le crisi meglio delle persone con disabilità? Non possiamo più sfruttare le loro crisi ignorandole.
Come immagina il futuro di IntegrART? IntegrART si impegna a portare e a promuovere l’inclusione nell’industria culturale. A lungo termine, mi piacerebbe vedere le arti della disabilità come una parte naturale della programmazione svizzera.
Emanuel sottolinea come il lavoro dell’inclusione e dell’accessibilità si muova su un doppio binario: «Nel processo creativo consideriamo attivamente il pensiero e l’immaginario delle persone con diversità. Vuol dire essere sensibili all’accessibilità di chi è in scena ma anche di chi viene a vedere lo spettacolo».
Teatro Danzabile – la compagnia di cui fanno parte Fedro Mattei, Kevin Parisi, Camilla Stanga e Viviana Gysin – ci dice Emanuel «crea posti di lavoro al di fuori dalle strutture appositamente create per persone con diversità. Ci sono tante associazioni che lavorano in modo inclusivo ma noi agiamo sulla professionalizzazione e offriamo posti di lavoro con un compenso alla pari di una persona normodotata. Ognuno con le sue possibilità contribuisce al tutto e lo fa al pari degli altri senza la necessità, ogni volta, di creare delle categorie o delle sottocategorie».
Dove e quando Caos Cosmico Quanto Basta, Teatro Foce, giovedì 25 maggio alle 20.00. www.ormefestival.ch
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Sembra un museo, in realtà è un deposito
Nuove frontiere ◆ Nel nuovo «magazzino» del patrimonio artistico di Rotterdam c’è lo zampino dell’artista
Tommaso Stiano
I musei sono i luoghi d’arte per eccellenza e, specialmente i più famosi, sono frequentati da una moltitudine di persone indigene e straniere sia per motivi di diletto sia di studio. Ma, come si sa, le opere esposte sono solo una minima, anzi una piccola percentuale rispetto a quelle custodite nei depositi e negli archivi chiusi al pubblico. E allora – perché no, avrà detto qualcuno – cerchiamo di portare la gente anche nei depositi. Detto fatto, a un quarto d’ora a piedi dalla stazione centrale di Rotterdam, ha aperto le porte ai visitatori il Depot Boijmans Van Beuningen. È una prima mondiale e sin dal nome Depot si capisce che non si tratta affatto di un museo, ma di un luogo di stoccaggio di oggetti d’arte. Costato 85 milioni di euro e inaugurato il 5 novembre 2021 dal re Willem-Alexander d’Orange-Nassau, si trova accanto al vero e vetusto Museum Boijmans Van Beuningen chiuso dal 2019 per un completo rifacimento che durerà dieci anni. Una grande città senza la sua sede artistica principale per un decennio? Davvero inammissibile!
Ecco allora l’idea innovativa di costruire un deposito del patrimonio artistico cittadino accessibile a tutti e dall’architettura sorprendente. A forma di gigantesco invaso privo di spigoli, è rivestito con pannelli a specchio che riflettono i quartieri circostanti quasi a volerli inglobare nell’edificio che, d’ora in avanti, sarà un’icona identificativa della città portuale olandese. Alto 39,5 metri, dal diametro di 40 m alla base e di 60 m alla sommità, il manufatto si sviluppa su sette livelli fuori terra; all’ultimo piano un giardino pensile con vista panoramica ad angolo gira sulla città con un ristorante di 120 posti, aperto anche oltre gli orari di visita.
Tra i tanti attori che hanno lavorato alla sua realizzazione, troviamo una zurighese assai nota nei nostri teatri e nella videoarte, Elisabeth Charlotte in arte Pipilotti Rist. L’artista ha progettato un’installazione video che con il calar delle tenebre illumina il piazzale antistante l’edificio; i colori e i giochi di luce sono appositamente studiati per coinvolgere i passanti che vengono catturati dagli specchi creando una sorta di «falò elettronico urbano» attorno al quale animare l’oscurità.
La collezione del Boijmans, al momento, conta qualcosa come 152mila oggetti rappresentativi della storia dell’arte di tutti i tempi; di questi all’incirca 89mila sono stampe e disegni, ci sono poi quadri, statue, libri, fotografie a colori e in bianco e nero, film, oggetti di design e arte applicata, installazioni. Tutto questo materiale è conservato al Depot e, tanto per aver un’idea numerica, meno dell’8% viene solitamente esposto nel museo ora chiuso.
Oltre allo stoccaggio degli oggetti d’arte, il Depot si occupa anche della loro cura con reparti di classificazione e restauro, uffici che trattano i prestiti e altri che allestiscono esposizioni. Per ovvi motivi di sicurezza e di conservazione non si può accedere ai magazzini; ci sono però ampie vetrine ritagliate nei muri grigi che permettono ai visitatori di rendersi conto della grande quantità, della diversità e della qualità degli oggetti custoditi; l’applicazione gratuita da scaricare sul cellulare consente di leggere i QR-code onnipresenti e quindi di avere le necessarie spiegazioni (non ci sono didascalie scritte). Al secondo piano, le vetrine si aprono anche sui laboratori di restauro con il perso-
nale in bella vista nei giorni lavorativi. In una sala al terzo piano vengono allestite mostre temporanee assai originali perché si può vedere anche il dorso dei quadri. Ci sono poi spazi per attività didattiche, sale di proiezione e la possibilità di una visita guidata di mezz’ora, da prenotare sul posto, che conduce all’interno di uno dei magazzini con tanto di camice bianco come un impiegato della struttura. Su tutta l’altezza della tromba delle scale e degli ascensori ammiriamo un campionario d’arte del Boijmans. La passeggiata nei corridoi del deposito e nelle tre sale di esposizione dura al-
meno un paio d’ore con la possibilità di guardare la città dalle finestre e di sedersi per un momento di ristoro al sesto piano.
In sintesi, il Depot è uno straordinario ambiente vivo che ti permette di apprezzare il grande lavoro dietro le quinte di un museo o di una mostra d’arte, che ti fa capire l’importanza del collezionismo, del restauro e della conservazione, in una parola, l’importanza dell’arte per la comunità umana.
Approfittando della chiusura, il Museo di Rotterdam ha prestato alcune sue opere per esposizioni tem-
svizzera
Pipilotti Rist
poranee un po’ in tutto il mondo, anche nelle nostre vicinanze. A Milano al Museo delle Culture fino al 30 luglio nell’esposizione Dalì, Magritte, Man Ray e il Surrealismo. Capolavori dal Museo Boijmans Van Beuningen sono presenti 180 tra quadri, sculture e disegni.
Dove e quando Depot Boijmans Van Beuningen, Museumpark 24, Rotterdam (NL). Orari: ma-do, 11.00-17.00. Solo prenotazioni online con fascia oraria d’ingresso: www.boijmans.nl.
Musei trasparenti sempre più accessibili al pubblico
Nuove frontiere/2 ◆ I lati che normalmente non sono accessibili diventano sempre più visibili e aperti al pubblico
Emanuela Burgazzoli
Nel novembre del 2021 The Depot del Museo Boijmans di Rotterdam ha lanciato una sfida a tutti i musei del mondo, aprendo il suo edificio adibito esclusivamente a deposito di opere d’arte e interamente accessibile al pubblico, il primo al mondo nel suo genere. Il progetto del Depot del Boijmans Museum è considerato un vero spartiacque nella museologia perché si è spinto fin quasi a confondere i ruoli tra lo «stage» del museo e il suo «backstage»; anche se il concetto di «visible storage» va detto che era già nato negli anni Settanta in Canada, con il Museo di antropologia dell’Università di British Columbia, seguito a ruota dai grandi musei newyorchesi.
L’idea di aprire al pubblico i depositi o di includere le opere in deposito nei percorsi museali è divenuta una questione urgente per molte istituzioni alle prese con i costi di manutenzione e con problemi di spazio, e oggi, in epoca di crisi energetica e cambiamento climatico, anche con il fattore «sostenibilità ambientale». Se si pensa che, secondo le stime ufficiali, il patrimonio visibile nei musei costituisce soltanto il 10-20 percento del patrimonio custodito – secondo un rapporto che è a volte solo fisiologico (perché molte opere non sono esposte perché «di seconda scelta», di
importanza minore o perché troppo fragili), ma in molti casi patologico e sproporzionato – la semplice rotazione di opere non può bastare a far vivere un bene, come le opere d’arte e i reperti archeologici, che deve molto del suo valore al rapporto vivo con il pubblico.
Un pubblico che ormai al museo chiede visioni, sapere e soprattutto nuove esperienze. L’esempio del Boijman Depot (a lato un’immagine dei suoi interni) non è isolato e, a breve, anche il Victoria and Albert Museum di Londra si doterà di un proprio open storage; in Italia il primo a percorrere questa strada è stata la Galleria Borghese di Roma che ha allestito al terzo piano le opere in deposito come una vera e propria quadreria di 260 dipinti disposti su due livelli; una seconda pinacoteca – ordinata per scuole e temi – visitabile che svela al pubblico alcuni «capolavori» nascosti, come una Madonna con bambino di Scipione Pulzone o la Madonna con bambino di Perin del Vaga, copia della celebre Madonna di Casa d’Alba della National Gallery di Washington. Il museo come officina è al centro del progetto «Giorno dopo giorno» lanciato dalla Galleria Estense di Modena, che ha coniugato anche in questo caso esigenze pratiche
e obiettivi didattici e di ricerca: per Martina Bagnoli, direttrice del polo museale delle Gallerie Estensi «il museo non è soltanto un palazzo fatto di cose, ma è fatto anche del lavoro che tutte le persone hanno accumulato e compiuto sugli oggetti nel corso di più di cento anni, come nel nostro caso». Il museo, come mediatore tra un oggetto del passato e il nostro presente, è il luogo in cui si costruiscono nessi di senso anche grazie al rapporto quotidiano con il pubblico che con questo progetto ha la possibilità
di vedere e parlare con i professionisti che in questi mesi stanno rimuovendo 427 dipinti dalle pareti e sculture dalle vetrine per poterle studiare, schedare o per poter eseguire interventi di pulizia e manutenzione. Al Mudec, il museo delle culture di Milano, un edificio progettato appositamente per ospitare la collezione di oltre 8mila pezzi, «i depositi sono stati concepiti fin da subito come spazi visitabili; una modalità ricorrente per gli ex musei etnografici», come ci conferma la direttrice Marina Pugliese.
I depositi sono ormai da considerarsi un’autentica risorsa, e per questo si preferisce parlare di «riserva» a cui attingere per promuovere attività con il pubblico, prestiti e mostre di museo che valorizzino le opere delle collezioni. Del resto le collezioni sono destinate a crescere – e con esse anche la necessità di ampliare gli spazi espositivi, che dovranno essere sempre più multifunzionali, adibiti a esposizioni, ma anche a deposito e luogo di studio perché tutto comincia da lì, dall’analisi storico-artistica delle opere e degli oggetti, ma anche dalla ricerca sulla provenienza, tema ormai imprescindibile per i musei che hanno nei confronti dei loro pubblici e delle varie comunità una grande responsabilità. Una trasformazione che riguarda anche i musei archeologici; pioniere in questo ambito è stato il parco archeologico di Paestum che dopo il periodo di chiusura forzata per il Covid ha rilanciato il progetto «Oltre il museo» che porta i visitatori a scoprire gli immensi depositi, che contano un milione di reperti, nella loro bellezza «non immacolata, ma verace», laddove avvengono le cose prima della musealizzazione. Non il lato oscuro del museo dunque, ma memoria visiva e tattile, dove comincia il racconto di ciò che siamo stati, e di ciò che siamo oggi.
Settimanale di informazione e cultura Anno LXXXVI 22 maggio 2023 azione – Cooperativa Migros Ticino CULTURA 37
Ossip van Duivenbode
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Settimanale di informazione e cultura Anno LXXXVI 22 maggio 2023 azione – Cooperativa Migros Ticino MONDO MIGROS 38 PUBBLIREDAZIONALE Foto: www.fredericducoutphotography.com
La diversità non è in prestito
Tendenze ◆ Le star si divertono a rompere le regole in occasioni di grandi eventi, ma la diversità non è un vestito che si può mettere e togliere
Muriel Del Don
Che lo si voglia o no, che lo si accetti con rassegnazione o lo si rivendichi, la nostra società tende fatalmente a valorizzare i vincenti, coloro che vivono seguendo ciecamente il motto «volere è potere». Ieri come oggi bisogna essere produttivi e riproduttivi se si vuole ambire al pantheon dei winners
«Ho il diritto di esistere. Ho il diritto di indossare quello che voglio.
Ho il diritto di esistere nello spazio pubblico»
Malgrado il successo e il riconoscimento pubblico continuino a fare gola a molti, la società, quella dello spettacolo in primis, sembra però gradatamente aprirsi a una «diversità» controllata e addomesticata, al riconoscimento di personaggi apparentemente meno politicamente corretti. Che si tratti di serie TV diventate oggetti di culto quali le eccellenti Transparent e Pose che affrontano il tema della transidentità, o di star quali Brad Pitt che ha scelto di indossare una gonna in occasione della Berlinale, Harry Styles che con i suoi baroccheggianti look gender fluid sembra voler sfidare le convenzioni di genere (per lo meno quelle vestimentarie) o i Maneskin che con i loro abbigliamenti sapientemente creati da Gucci si presentano come il nuovo fenomeno rock alternativo, questa rivolta è comunque limitata al mondo artificiale dei red carpets, dei palcoscenici e degli schermi, piccoli o grandi che siano. Le star si divertono a rompere le regole in occasione di eventi puntuali nei quali giocare la carta della «trasgressione», ma cosa significa incarnare la «differenza» nel quotidiano?
Come affermato dal performer e teorico dei generi Alok Vaid-Menon (alias Alok, nella foto) in un’intervista rilasciata al «Guardian»: «Ho il diritto di esistere. Ho il diritto di indossare quello che voglio. Ho il di-
ritto di esistere nello spazio pubblico». Le parole di Alok sono un grido di rivolta nei confronti di una società che accetta la trasgressione solo tra le rassicuranti mura dello showbusiness, in un mondo di paillettes che si nutre di effimero. Sempre Alok, che si espone pubblicamente in quanto queer, esibendo con fierezza i suoi capelli multicolore e indossando vestiti sgargianti, scarpe con il tacco e un tocco di rossetto, precisa a proposito di questo fenomeno di starificazione del «diverso»: «La gente pensa che vada bene anche se è effimero, la diversità è per loro un vestito che si può togliere. A volte mi chiedo: pensi che per me questo sia un costume da indossare e togliere a piacimento? Per certi versi, il palcoscenico ha cominciato a sembrare una gabbia». La diversità va bene ma solo se controllata, igienizzata e infine integrata. Cosa succederebbe però se questi personaggi «anomali» cominciassero, come nel caso di Alok, a impossessarsi dello spazio pubblico? E se la diversità smettesse di accontentarsi dell’effimero rivendicando una perennità freak che le spetta di diritto? Cosa accadrebbe se i perdenti diventassero improvvisamente vincenti?
Nella corrente di rivendicazioni anti identitarie troviamo l’artista e DJ afroamericana
Juliana Huxtable
Con il suo saggio L’arte queer del fallimento, l’accademico e teorico dei generi statunitense Jack Halberstam ha deciso di teorizzare questo stravolgimento di paradigmi incoraggiando i «falliti» della società eteronormativa a rivendicare la propria splendente differenza. Numerosi sono gli artisti e teorici che hanno accolto la sfida incarnando anomalie che invadono con fierezza lo spazio pubblico. Oltre ai più conosciuti Stromae e Lewis Capaldi che hanno parlato
con coraggio dei loro problemi psicologici o Elliot Page che, esponendo con coraggio la sua transizione, da anni lotta per i diritti delle persone transgenere, si stanno facendo sentire anche altre voci più discrete ma non per questo meno dirompenti. Tra queste, l’artista trans italiana Agnes Questionmark che ha trasformato il suo cammino di transizione in opera d’arte totale.
Con Transgenesis, una performance di ventitré giorni svoltasi in un parco dei divertimenti abbandonato al nord di Londra, Agnes si trasforma in creatura tentacolare che abbatte le frontiere tra i generi ma anche tra le specie. La giovane artista rivendica con coraggio una mostruosità non più vista come stigma ma come forza rivoluzionaria. Con la sua arte, Agnes ci ricorda quanto il corpo sia ricettacolo di cambiamenti, di mutazioni, un involucro che esprime l’effimero e la vulnerabilità di un’esistenza nella quale essere sé stessi può costare caro. Nella stessa corrente di rivendicazioni anti identitarie ritroviamo l’artista, scrittrice e DJ afroamericana Juliana Huxtable che ci propone di riscrivere la storia dal punto di vista delle minoranze, di chi è stato da sempre escluso dal winners team o ancora la filosofa, giornalista e scrittrice francese Ovidie che con il suo saggio La chair est triste hélas ci fa riflettere su uno dei grandi tabù della nostra società: il rifiuto della sessualità brandito come arma contro il patriarcato. Che si tratti di discriminazioni legate al genere, alla sessualità, alla razza o alla salute mentale, questi eroi e eroine freak ci fanno capire che è ancora possibile scrivere delle narrazioni alternative, che «riuscire» non significa integrarsi ma piuttosto imporre con coraggio la propria diversità, la propria toccante fragilità. Sta a noi scegliere da quale parte stare.
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Jack Halberstam, L’arte queer del fallimento, Minimum Fax, Roma, 2022.
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