SOCIETÀ
Una mostra a Berna pensata per e con i giovani indaga l’ebbrezza e l’estasi da diversi punti di vista
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TEMPO LIBERO
Alla Dakar Classic, la prima «spedizione» ticinese percorre 2200 km tra le dune del deserto
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Largo agli anziani Anzi, ai vecchi
Carlo Silini
Largo ai vecchi. Lo penso davvero, senza angustiarmi per il dogma del politicamente corretto che imporrebbe di scrivere «largo agli anziani», perché «vecchio» suona eccessivamente diretto, sfrontato, addirittura maleducato. Ma è davvero così offensivo chiamare le cose – e le condizioni esistenziali – col loro esatto nome?
Usare parole edulcorate è molto ammodo, tranquillizza le orecchie e soddisfa le forme, ma non significa ancora trattare automaticamente i vecchi con rispetto.
A cosa serve accarezzarli col linguaggio se poi li si bistratta nei fatti della vita, considerandoli persone che non hanno più nulla da dire e da dare al mondo e alle generazioni successive?
Non trattiamoli con ipocrita e benevola commiserazione: consideriamoli per il loro valore reale, che resta intatto anche con lo scorrere del tempo. Non ci credete?
Un mio amico (in pensione) mi ha inviato un articolo del «New England Journal of Medicine» secondo il quale, in estrema sintesi, dopo i sessant’anni le persone diventano più creative.
I casi illustri non mancano. Andrea Camilleri è esploso, narrativamente parlando, dopo i 67 anni. E, senza nulla togliere ai suoi formidabili ruoli attoriali giovanili (un po’ spacconi), Clint Eastwood si è imposto come regista di culto in vecchiaia. Va da sé che non mancano esempi di segno opposto.
La ragione, spiegata nel menzionato articolo dal direttore della George Washington University School of Medicine, sta nel fatto che dopo i sessant’anni «l’interazione degli emisferi sinistro e destro del cervello diventa armoniosa, il che espande le nostre possibilità creative», appunto. Certo, ammette lo studioso, il cervello è più lento rispetto ai tempi verdi della gioventù, «tuttavia, guadagna in flessibilità. Pertanto, con l’età, siamo più propensi a prendere le decisioni giuste e meno esposte al-
le emozioni negative. Il picco dell’attività intellettuale umana», aggiunge, «si verifica intorno ai 70 anni, quando il cervello inizia a funzionare a pieno regime».
Più delle spiegazioni chimiche (l’aumento di mielina nel cervello, una sostanza che facilita il passaggio dei segnali tra i neuroni) intriga l’interpretazione meccanica del dottor Monchi Uri, dell’Università di Montreal, secondo il quale il cervello dei vecchi «sceglie la strada che consuma meno energia, elimina il superfluo e lascia solo le opzioni giuste per risolvere il problema». Pare una lettura che va molto al di là della pura scienza. Con l’età non c’è più né il tempo né la forza, ergo neppure la voglia di cincischiare. Si punta dritti all’osso.
È la stessa ragione per cui gli anziani tendono a diventare più sinceri e a dire senza circonlocuzioni quello che pensano. «Sono vecchia – mi confidava tempo fa una novantenne molto religiosa – se devo dire a qualcuno che sbaglia non ci giro intorno, anche se è il mio parroco».
A dirla tutta, per ragionare meglio non ci sarebbe bisogno di invecchiare. A intasare i cervelli, oggi, è soprattutto la sovrabbondanza di stimoli e di informazioni. Se riuscissimo a disfarci dell’incredibile quantità di nozioni inutili, ridondanti o futili da cui siamo sommersi, penseremmo in modo assai più lineare ed efficiente. Beati i vecchi, quindi, che economizzando sulle risorse cerebrali sono portati a farlo dalla natura. Beati, se sono ancora sorretti dalla salute, naturalmente. Perché le buone notizie vanno pur sempre lette con un minimo di realismo e molti anziani hanno alle spalle esistenze logoranti e decorsi degenerativi che non possiamo banalizzare. Resta che ora la scienza ci dice qualcosa che la tradizione aveva già capito da un pezzo. I vecchi sono un patrimonio non solo di esperienza, ma anche di intelligenza che sarebbe imperdonabilmente stupido trascurare.
RICHIAMO – VOTAZIONE GENERALE 2023
la votazione generale giunge al termine – Le schede di voto devono essere deposte nelle apposite urne delle filiali o spedite entro
SABATO 3 GIUGNO 2023
ATTUALITÀ
Dove va la Svizzera? Pascal Couchepin, ex consigliere federale, lo racconta ad «Azione»
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MONDO MIGROS
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CULTURA
I talenti di Italo Calvino spiegati da Domenico Scarpa nel suo libro mosaico a un secolo dalla nascita
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Grintosa, solare indimenticabile Tina
Natascha Fioretti – Pagina 33
Settimanale di informazione e cultura Anno LXXXVI 30 maggio 2023 Cooperativa Migros Ticino
◆ ● G.A.A. 6592 San t’Antonino
edizione 22
Sul palco dell’Hallenstadion di Zurigo il 14 ottobre 1990. (Keystone)
La continua perdita di impollinatori
Le api, e non solo, sono soggette a forti diminuzioni di numero, sia in termini di specie sia di individui, in particolare a causa del continuo uso di pesticidi
Storia delle migrazioni
Il saggio degli storici André Holenstein, Patrick Kury e Kristina Schulz propone una sintesi delle emigrazioni e delle immigrazioni che hanno coinvolto la Svizzera
Abbandonarsi all’ebbrezza
Mostra ◆ Da sempre l’uomo è affascinato dalle esperienze di estasi e cerca gli stati di eccitazione anche attraverso sostanze psicoattive: un fenomeno esplorato in un’esposizione dedicata ai giovani e pensata con i giovani
L’estasi è presente in tutto il mondo e dagli albori della storia nutre l’uomo, lo fa sopravvivere da neonato e poi anche crescere, procreare, rinascere. Scoprire nuovi orizzonti. Il mondo animale non ne è esente: la natura è ricca di bacche magiche, bruchi velenosi, funghi allucinogeni. L’ebbrezza è negativa? No. Certo è che ne siamo tutti irrimediabilmente attratti sin da bambini. È un istinto primario, è uno stato che cercheremo attraverso prove di coraggio, sport, musica e danza, amore, spiritualità, videogiochi o consumo di sostanze psicoattive. Nell’età dell’adolescenza, non ne possiamo fare a meno. Vuoi per il bisogno di scoperta, la necessità di evasione, vuoi anche per la scarica di adrenalina e ossitocina che deriva dalle esperienze estatiche. Ormoni di cui ci nutriamo appassionatamente. L’ebbrezza può però avere effetti collaterali, intossicare e creare dipendenza, diventano così temi importati la gestione dei rischi e la pubblicità (esplicita o implicita) di sostanze come alcol e tabacco. Nasce da queste riflessioni l’idea dell’esposizione Rausch Extase Rush allestita al Museo Storico di Berna. Come definire l’estasi? Perché ci affascina? Perché la nostra società ha posizioni così contraddittorie di fronte a questo fenomeno?
La mostra si interroga su tutti questi aspetti. Abbiamo incontrato Simon Haller, ideatore e curatore di questa curiosa esposizione.
Rausch – Extase – Rush: un titolo intrigante. Cosa racconta?
L’idea era quella di mostrare una tematica molto vasta come quella dell’estasi, presentare al pubblico gli aspetti naturalmente positivi per l’uomo e al contempo accennare anche alle sostanze psicoattive, che possono essere più rischiose. Fin’ora il tema dell’estasi, dell’ebbrezza non era mai stato trattato in questo modo in un’esposizione. È sempre stata fatta della prevenzione sottolineando l’aspetto negativo e «demoralizzante» per i giovani. Noi proponiamo un altro tipo di sguardo.
Come e quando le è venuta questa idea?
È iniziato tutto durante l’adolescenza dei miei figli. L’ebbrezza, l’estasi, erano argomenti al centro di discussioni ricorrenti nella nostra cucina durante i pasti… Ma era difficile discuterne liberamente, il tema era molto complesso per me e i ragazzi si chiudevano. Allora mi sono detto: sarebbe interessante avere questa discussione in maniera pubblica. Ma dove si potrebbe fare una cosa del genere? Mi sono ritrovato al museo, uno degli
unici luoghi oggi dove la gente ha ancora voglia di prendersi del tempo per riflettere.
Anche i giovani vengono al museo a riflettere?
Ho avuto questa discussione proprio con dei ragazzi e abbiamo deciso di concentrarci su un pubblico nella fascia dai 13 ai 25 anni e immaginare l’esposizione per loro. Di conseguenza abbiamo scelto di avere un consiglio di ricerca formato dai ragazzi stessi. Una piccola équipe ha discusso tutte le tappe del processo con noi. Sono loro che hanno deciso in quale maniera sarebbe stato affrontato il tema. I giovani sono molto coinvolti in tutte le parti dell’esposizione, estremamente visibili. Anche per la comunicazione, abbiamo usato altri formati e altri canali come film, soundtrack, composizioni.
Un esempio di quello che i giovani hanno portato? Noi avevamo pensato di far visitare la mostra con l’ausilio di uno smartphone. I ragazzi ci hanno fermato immediatamente: «Non vogliamo che la gente stia attaccata al telefono! È un’idea degli adulti, questa di pensare che noi lo vogliamo sempre usare. Ma se c’è un’esposizione così gran-
de, complessa, studiata, non abbiamo nessun bisogno di QRcode, di stare a cercare informazioni… Quindi no!».
Come affrontate la tematica dell’estasi?
Il tema è molto vasto, e ovviamente abbiamo dovuto limitarci. C’è un film che esplora l’evoluzione della domanda e del bisogno dell’uomo di ebbrezza, per esempio. Poi un vero e proprio «tempio» dell’estasi. Reperti archeologici, religiosi, etnografici. In tutte le culture c’è sempre stata una parte legata alla trance, all’estasi. C’è poi un luogo della mostra che si chiama «cervello», dove vengono affrontate tutte le questioni neurologiche, cosa succede dentro di noi, cosa è naturale, cosa no. Si tratta, sempre su indicazione dei ragazzi, di fornire informazioni accurate e approfondite, ma senza morale. I giovani sapranno poi scegliere da soli. Abbiamo lavorato con 40 professionisti in diversi ambiti, soprattutto nel campo della ricerca scientifica, per la creazione dei contenuti.
Chi altro ha contribuito alla creazione della mostra?
Il Fondo per la prevenzione del tabagismo, l’Ufficio federale della sanità pubblica e il dipartimento Giova-
ni e media dell’Ufficio federale delle assicurazioni sociali. Tutti ci hanno fornito informazioni ma senza dare indicazioni su come presentarle al pubblico. Noi abbiamo semplicemente accettato questa esperienza. Seguiamo la strategia del Consiglio federale: non fare più campagne contro, ma informare in generale perché i giovani possano avere le competenze per decidere. Oggi è così facile trovare l’estasi sul mercato, la competenza è fondamentale.
Quindi si tematizza anche il commercio delle droghe?
Sì, c’è anche una sezione che parla di droghe legali, come l’alcool, il fumo, con un occhio critico rispetto al commercio e alla comunicazione. Di conseguenza si parla anche della pubblicità implicita sui social media. Ma non solo. Nella mostra viene approfondita per esempio anche la questione dei videogiochi, chi li costruisce, come si fa a renderli così speciali da non poterne fare a meno e da non voler smettere mai.
Di che tipo di affluenza ha goduto la mostra fino ad oggi ?
Abbiamo ricevuto molto pubblico, più di quello che il museo si aspettava, e sta aumentando. Significa che
c’era un grande bisogno di parlarne. Abbiamo scelto un pubblico, i giovanissimi, che solitamente non va al museo, larga parte viene addirittura al di fuori della scuola. Ha giocato molto il fatto che sia stata creata dai ragazzi. Durante la mostra non si danno giudizi morali, le discussioni attorno a questi temi vengono fatte a posteriori nel gruppo, nelle classi scolastiche.
A Berna fino al mese di agosto, poi la mostra si trasferirà a Basilea e forse anche nella Svizzera romanda. Possiamo prevedere anche un passaggio nella Svizzera italiana ? Ci vogliono musei molto grandi per accogliere questo tipo di esposizione e c’è la difficoltà linguistica… vedremo, per ora sono confermate le due città, il resto è ancora del tutto aperto.
Dove e quando Rausch-Extase-Rush, Bernisches Historisches Museum, Helvetiaplatz 5, Berna. Orari: ma-do, 10-17, lu chiuso. Fino al 13 agosto 2023.
● ◆ 2 Settimanale di informazione e cultura Anno LXXXVI 30 maggio 2023 azione – Cooperativa Migros Ticino
SOCIETÀ
Informazioni www.bhm.ch, www.rausch -extase.ch
Nella mostra sono affrontate anche tutte le questioni neurologiche. (© Bernisches Historisches Museum, Bern. Foto: Stefan Wermuth)
Valentina Grignoli
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Un patto tra famiglie per superare un momento di difficoltà
Socialità ◆ L’Associazione L’Ora promuove un innovativo progetto di aiuto basato sul concetto di affiancamento familiare
Alessandra Ostini Sutto
Può capitare a chiunque, nel corso della vita, di attraversare un momento di fragilità e avere, di conseguenza, difficoltà nella gestione degli aspetti quotidiani, come l’educazione dei figli, i loro impegni e quelli relativi alla casa e all’attività professionale.
Ci riferiamo a situazioni di difficoltà sociale, relazionale o economica, come può essere quella di un genitore che ha lasciato la sua terra d’origine, perso il lavoro o affrontato una separazione. Alcuni possono in tali frangenti appoggiarsi a una propria rete sociale, ma non tutti. Ed è a questi ultimi che si rivolge il progetto «Una famiglia per una famiglia», una forma innovativa di intervento sociale, promossa dall’Associazione L’Ora di Bellinzona.
Il progetto prevede che interi gruppi familiari si sostengano tra loro con una modalità peer to peer : un’idea nata e attuata in collaborazione con la Fondaziona Paideia attiva in Italia
Il progetto si basa sul concetto di «affiancamento familiare», il quale, concretamente, prevede che una famiglia ne affianchi un’altra in situazione di criticità temporanea e, attraverso la definizione di obiettivi concreti, entrambe s’impegnino a camminare insieme per un periodo di tempo definito. Questo percorso permette l’instaurarsi di relazioni significative e di un legame di fiducia che getta le basi per la scoperta delle rispettive potenzialità e risorse, la creazione di un clima familiare più sereno, oltre a favorire l’autonomia e una maggiore inclusione sociale.
Fondata nel 2019, l’Associazione L’Ora vuole valorizzare la comunità ed è attiva nella promozione e nello sviluppo di nuovi modelli d’intervento a favore di giovani e famiglie. I progetti dell’Associazione – «Una famiglia per una famiglia», «Spazio Esplorativo» e «Casa di Lù» – nascono a seguito di un lavoro di ricerca realizzato tra il 2018 e il 2019 da Ramona Sinigaglia (direttrice strategica dei progetti) e Lorenza Grassi (direttrice pedagogica), co-fondatrici dell’Associazione. «Uno studio del territorio che aveva lo scopo di individuare i bisogni ancora scoperti a livello di sistema di aiuti sociali, il quale ci ha portato a fare delle mappature di progetti esistenti, svizzeri ed esteri, tra cui “Una famiglia per una famiglia” della Fondazione Paideia, di cui ci siamo innamorate e che abbiamo deciso di approfondire e riadatta-
re alla nostra realtà», spiega Ramona Sinigaglia.
In Ticino, il progetto a sostegno di genitori e famiglie è partito ad inizio 2022, promosso dall’Associazione L’Ora, in partnership con l’italiana Fondazione Paideia. Se nella vicina Penisola la metodologia dell’affiancamento familiare è diffusa su tutto il territorio, nel nostro Paese non esiste niente di analogo. «La Confederazione ha infatti riconosciuto l’alto valore innovativo del progetto, che ha deciso di sostenere finanziariamente, anche nell’ottica di valutarne l’impatto e, se del caso, la possibilità di trasferirlo in altri Cantoni», commenta la co-fondatrice dell’associazione, «possibilità – come dimostra la diffusione in Italia – facilitata dall’estrema flessibilità di un modello che nasce dalla comunità stessa, dalle famiglie che se ne appropriano nei loro percorsi».
Ma quali sono gli elementi di innovazione riconosciuti anche dalla Confederazione? «Si tratta di un progetto peer to peer tra interi nuclei familiari, in modo che tutti i membri possano beneficiarne in base alle loro specifiche esigenze – continua – oltre a ciò, partendo dalla consapevolezza che come sistema sociale difficilmente agiamo a livello preventivo, il pro-
Redazione Carlo Silini (redattore responsabile)
glia. Trovare le famiglie è infatti una delle grandi sfide del progetto. Alcune di quelle che vi partecipano hanno a loro volta vissuto una difficoltà e sanno quindi cosa voglia dire sentirsi soli a doverla gestire. Tutte, più in generale, sono accomunate dal credere in un aiuto solidale e dal sentire che quando ci si apre all’altro non si perde mai nulla, ma si guadagna. «Con questo progetto di sostegno alla genitorialità vogliamo contribuire a un cambiamento culturale e cioè al rendersi conto che la nostra società, per quanto evoluta in termini economici e lavorativi, sta soffrendo di una povertà relazionale che alla lunga avrà delle ripercussioni a vari livelli, come dimostrano studi condotti in vari Paesi. In questo senso, il riappropriarsi di un tempo e di uno spazio delle relazioni non può che far bene», continua la direttrice strategica.
getto vuole dimostrare che affiancando in modo informale una famiglia in un momento di fragilità a una in maggior equilibrio si riesce a lavorare nel rinforzo di ciò che c’è, piuttosto che nell’individuazione delle difficoltà, che possono comunque essere individuate precocemente».
«Una famiglia per una famiglia» –che gode del sostegno anche di Cantone e Comuni – è così un modello che, partendo dal basso, si inserisce in modo complementare tra le iniziative presenti sul territorio. «Nel contesto, i nostri progetti rientrano in un cambio di paradigma che vuole dare forza e fiducia alla comunità e far rinascere dei valori di aiuto dal suo interno, consapevoli che anche in maniera autogestita si possono portare avanti dei processi di sostegno, guarigione e solidarietà – afferma Ramona Sinigaglia – l’esperienza del Covid ha infatti mostrato come una persona senza una rete sociale di supporto sia particolarmente esposta agli eventi negativi e, allo stesso tempo, che spesso, laddove non arrivano le istituzioni, arriva l’aiuto informale tra le persone».
Il progetto è partito con le regioni del Locarnese e Biasca e valli, cui da quest’anno si sono aggiunte quel-
le del Bellinzonese e del Mendrisiotto. «I primi affiancamenti sono partiti a novembre dell’anno scorso – dice Ramona Sinigaglia – per arrivare ad abbinare le famiglie serve un processo di conoscenza, che richiede tempo, cura ed attenzione. Con la famiglia da affiancare ci sono degli incontri per capire quali sono le difficoltà, ma pure le risorse e gli interessi. Allo stesso modo, coinvolgiamo tutti i membri delle famiglie che si mettono a disposizione per capire quali sono le loro peculiarità, le passioni e le disponibilità in termini di tempo. Ciò ci permette di fare un abbinamento mirato, per esempio su una passione in comune, in modo che ci siano le basi operative per far partire il progetto». Un elemento importante in una società in cui il tempo è una risorsa sempre più preziosa è l’idea che la «famiglia solidale» possa integrare l’altra famiglia nella propria routine. «Una famiglia è abituata il sabato a fare un giro in bicicletta? L’abbinamento potrebbe allora essere fatto con una famiglia che abbia piacere nell’attività fisica così che la passeggiata in bici del weekend possa diventare un momento di scambio e confronto, il tutto senza “aggiungere” tempo alla famiglia che affianca», spiega Siniga-
Alle famiglie che si mettono a disposizione viene chiesto un aiuto semplice e informale – per esempio andare assieme a fare la spesa o portare i bambini al parco – che però, come visto, ha un grande valore in termini di rinforzo sociale ed aumento delle competenze. «Accordi e disponibilità, in tempi e risorse, vengono messi per iscritto su quello che chiamiamo “patto”, un documento, privo ovviamente di valenza giuridica, ma che funge da promemoria e permette di tutelare l’impegno preso», aggiunge Sinigaglia.
Ogni affiancamento viene accompagnato oltre che dagli operatori dell’Associazione dalla figura del tutor, cioè da una persona con competenze in ambito sociale, educativo o formativo che si mette a disposizione per sostenere il percorso delle due famiglie, mantenendo i contatti con il sistema di supporto istituzionale e fungendo da anello di congiunzione tra le famiglie e i servizi territoriali esistenti. «La forza del progetto passa dal far vivere in maniera leggera e spontanea i nuclei familiari, costruendo tutto intorno, in maniera quasi invisibile, un sistema strutturato di professionisti che vigila sul fatto che il tutto avvenga in modo positivo», conclude la direttrice strategica. Un sistema di cui fanno parte anche una serie di incontri di sostegno e accompagnamento, scambio e confronto rivolti alle figure volontarie coinvolte, con lo scopo di offrire gli strumenti per gestire in modo efficace l’affiancamento, rendendolo una piacevole esperienza di condivisione e un viaggio alla scoperta di sé e degli altri.
Informazioni www.associazionelora.ch
● Settimanale di informazione e cultura Anno LXXXVI 30 maggio 2023 azione – Cooperativa Migros Ticino 3 azione Settimanale edito da Migros Ticino Fondato nel 1938 Abbonamenti e cambio indirizzi tel +41 91 850 82 31 lu–ve 9.00 –11.00 / 14.00 –16.00 registro.soci@migrosticino.ch Costi di abbonamento annuo Svizzera Fr. 48.– / Estero a partire da Fr. 70.–
Barbara Manzoni Manuela Mazzi Romina Borla Natascha Fioretti Ivan Leoni Sede Via Pretorio 11 CH-6900 Lugano (TI) Telefono tel + 41 91 922 77 40 fax + 41 91 923 18 89 Indirizzo postale Redazione Azione CP 1055 CH-6901 Lugano Posta elettronica info@azione.ch societa@azione.ch tempolibero@azione.ch attualita@azione.ch cultura@azione.ch Pubblicità Migros Ticino Reparto pubblicità CH-6592 S. Antonino tel +41 91 850 82 91 fax +41 91 850 84 00 pubblicita@migrosticino.ch Editore e amministrazione Cooperativa Migros Ticino CP, 6592 S. Antonino tel +41 91 850 81 11 Stampa Centro Stampa Ticino SA Via Industria – 6933 Muzzano Tiratura 101’177 copie ●
Simona Sala
Il progetto «Una famiglia per una famiglia» vuole creare legami, relazioni e senso di comunità per promuovere l’autonomia e la resilienza delle famiglie oltre che della comunità stessa. (www.associazionelora.ch)
Davide
Qualità, passione e tradizione famigliare
Attualità ◆ Il pastificio L’Oste di Quartino produce per Migros Ticino un variegato assortimento di paste fresche, tra cui gli gnocchi di patate
Vieni a scoprire le genuine specialità della nostra regione! Fino al 5 giugno ti aspettano numerose promozioni e degustazioni sui prodotti firmati Nostrani del Ticino.
finale eccellente è la lavorazione, che avviene in modo artigianale seguendo ricette tradizionali autentiche e genuine. «Tutto ciò viene “condito” dalla passione e dall’amore che la famiglia Mitolo e i suoi collaboratori nutrono per il mondo del cibo. Siamo convinti che questi siano gli ingredienti segreti che rendono i nostri prodotti unici», conclude Mitolo.
La ricetta Gnocchi ai sapori primaverili
Ingredienti per 2 persone
• 1 confezione da 500 g di gnocchi di patate nostrani
• 100 g di pomodorini
• 8 0 g di rucola
• 1 robiolina al naturale
• sale, pepe, olio
Preparazione
Lo sapevate che, oltre all’ampia offerta di ravioli nostrani dalle farciture più disparate, il pastificio L’Oste di Quartino produce per Migros Ticino anche uno dei piatti più tipici della tradizione gastronomica italiana e ticinese: gli gnocchi di patate? Realizzati con ingredienti al 100% ticinesi, queste specialità si caratterizzano per il loro sapore genuino e la consistenza perfetta, ideali per essere accostati a condimen-
ti sfiziosi e sempre diversi. «La filiera produttiva di tutti i nostri prodotti viene controllata in ogni suo passaggio. A cominciare dalle materie prime, che andiamo a selezionare personalmente per poter garantire ai nostri clienti il meglio in fatto di qualità e sostenibilità», afferma Davide Mitolo, titolare insieme alla moglie e al figlio del pastificio locarnese. Altro punto fondamentale per poter ottenere un risultato
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Gnocchi di patate 500 g
Un pomodoro pieno di gusto
Portate ad ebollizione abbondante acqua salata e nel mentre tagliate a metà i pomodorini. In una padella versate un filo d’olio e quando sarà caldo saltate per un minuto i pomodorini insieme a un pizzico di sale allungando con mezzo mestolo d’acqua di cottura. Quando l’acqua bolle versate gli gnocchi, aspettate che salgano a galla e controllatene la cottura. Scolate gli gnocchi e saltateli in padella con i pomodorini a fiamma vivace, dopodiché spegnete il fornello, mettete metà della robiolina e la rucola e saltate ancora per un minuto il tutto. Terminate il piatto con un filo d’olio, la restante robiolina a fiocchi e una punta di pepe.
Attualità ◆ Il Kumato è un pomodoro che sorprende per il suo aroma esclusivo. In Ticino questo ortaggio è coltivato dall’Orticola
Bassi di S. Antonino
Tra le molte varietà di pomodori coltivati in Ticino – cherry, ramato, cuore di bue, tondo, carnoso e peretto, tanto per citare i più diffusi – ne spicca una che in pochi anni è riuscita a ritagliarsi un suo spazio tra gli amanti della buona cucina. Stiamo parlando del Kumato, un pomodoro molto aromatico che nel nostro Cantone è coltivato da un’unica azienda agricola, l’Orticola Bassi di S. Antonino. Abbiamo posto qualche domanda al titolare, Christian Bassi.
Signor Bassi, da quanti anni coltivate il pomodoro Kumato nella vostra azienda?
Abbiamo iniziato con questa coltura una quindicina d’anni fa. Oggi lo coltiviamo sotto serra, su una superficie di ca. 2000 metri quadri. Lo produciamo da metà aprile a fine novembre.
Come mai la scelta di produrre questo pomodoro?
Volevamo diversificare la nostra offerta di ortaggi, proponendo ai con-
sumatori qualcosa di nuovo e particolare, dal momento che produciamo già diverse verdure tradizionali, come insalate, zucchine, melanzane, patate, carote… e altre tipologie di pomodoro.
Quali sono le caratteristiche del Kumato?
Si tratta di un pomodoro tondo e liscio dal colore bruno-verde scuro-rossastro. Il suo sapore è molto
intenso, con un equilibrio di zuccheri e acidità ideale. Possiede una consistenza compatta, una polpa succosa e matura dall’interno verso l’esterno. Rispetto ad altre varietà di pomodoro, la pianta del Kumato ha una produttività inferiore.
Qual è il modo migliore per gustarlo?
Per apprezzare il suo gusto unico, si consuma preferibilmente crudo, da solo, con un filo d’olio o per arricchire di sapore e colore una croccante insalata mista di stagione. Si abbina bene ad erbette quali basilico e origano, oppure serve da contorno fresco e leggero per formaggi freschi e affettati del nostro territorio o pietanze alla griglia.
Come si conserva a casa?
Tutti i pomodori, come anche il Kumato, non vanno mai conservati in frigorifero, altrimenti perdono velocemente l’aroma. Mantenerli a temperatura ambiente e lontano da altre verdure e frutti è la soluzione giusta.
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Pomodoro Kumato
Settimanale di informazione e cultura Anno LXXXVI 30 maggio 2023 azione – Cooperativa Migros Ticino MONDO MIGROS 4
Mitolo, titolare del pastificio L’Oste di Quartino, per Migros Ticino produce gnocchi e ravioli nostrani.
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L’Orticoltore Christian Bassi. (Giovanni Barberis)
È una lunga storia di successo quella della Tisana dei Nostrani del Ticino. L’apprezzato prodotto nasce nel 2007 con l’idea di creare una bevanda pronta al consumo a base di erbe naturali, che fosse al contempo non solo buona, ma anche sana e sostenibile. Le erbe officinali utilizzate – lippia citriodora, melissa officinalis, mentha citrata, mentha piperita e salvia officinalis - sono coltivate in modo biologico presso la Fondazione S. Gottardo di Melano. Dopo la raccolta, le erbe vengono essiccate, miscelate e sottoposte ad una speciale lavorazione al fine di ottenere il prezioso estratto. Quest’ultimo viene successivamente fornito alla Sicas SA di Chiasso che si occuperà della produzione della bevanda, che prevede la miscelazione dell’estratto con pochi altri ingredienti naturali, nella fattispecie acqua, fruttosio e acido citrico, senza l’utilizzo di alcun conservante e colorante. Grazie al sapiente mix di erbe utilizzate, la tisana è in grado di esercitare un effetto rinfrescante, antitraspirante e digestivo sul nostro organismo.
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Settimanale di informazione e cultura Anno LXXXVI 30 maggio 2023 azione – Cooperativa Migros Ticino MONDO MIGROS 5
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Quella Spagna un po’ irlandese
Reportage Laddove le evanescenti tracce dei celti si mescolano con quelle dei pellegrini che a tappe seguono il Cammino di Santiago
Le settimane dei Nostrani del Ticino.
Un sentiero che taglia un bosco di pi ni, un cavallo solitario che guarda cu rioso chi passa. Poi le linee dritte de gli alberi si spalancano su un arco di sabbia chiuso da un muro di grandi pietre. Uno stretto passaggio porta a un piccolo promontorio dove la luce radente del tramonto scolpisce gran di cerchi di pietre, gli antichi basa menti delle grandi capanne di Ca stro da Barona, il più spettacolare e meno conosciuto villaggio fortifica to celtico dell’intera Galizia, qua si dimenticato fino a pochi anni fa e ancora oggi meta di anime solita rie in cerca di un silenzio spezzato so lo dal vento e dall’andirivieni di onde dell’Atlantico.
Una Disneyland di blogger
Un flash di fulminante bellezza mini malista che evoca una Galizia remo ta, diversa dal Cammino di Santia go che sempre più spesso evoca una Disneyland di blogger e consumatori di spiritualità in marcia lungo i trat turi della momento in cui vedranno emergere da un orizzonte d’erba le grandi tor ri della cattedrale di Compostela, ma spesso rischiano di perdersi altre trac ce che impregnano di storie una terra dove pioggia e nebbie improvvise fan no parte della vita.
Dolmen e forti di pietra, solitarie cattedrali più grandi dei villaggi ac cucciati ai loro piedi, porti pesche recci che non sfigurerebbero in Bre tagna, ruvidi rodei di paesi, luoghi e atmosfere più atlantiche che spagno le, uniti in un improbabile ma riuscito abbraccio da un’anima celtica, appa rentemente sottotraccia ma irresisti bile quando il vento gonfia le fiordi che tagliano la costa come fette di torta liquida, e l’Atlantico ritrova la sua faccia spesso trucida.
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L’origine del sangue celtico
Secondo il bro delle Conquiste irlandesi cesimo secolo (perché un antico ma noscritto non manca mai in queste storie), tutto sarebbe iniziato quan
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Gnocchi di patate 500 g
è il titolo di un thriller marinaro scritto dallo svedese Björn Larsson. Un libro cult per appassionati del mondo celtico, ma anche una definizione della «nazione europea che non c’è» come hanno definito in molti, i frammenti di un poliedrico mondo celtico di cui fanno parte Scozia, Irlanda, Galles, Cornovaglia, Isola di Man, Bretagna, paesi affacciati sull’Oceano Atlantico, uniti da una lingua comune, anche se
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un inutile stress, e per gli aloitadores è l’identità stessa di Sabucedo. «I cavalli ci uniscono, anche come comu-
Per molti studiosi anche la Galizia spagnola è parte di questo universo culturale grazie a un ricco patrimonio di tradizioni e toponimi geografici legati ai miti del periodo celtico, e a un’impressionante quantità di dolmen e castro, villaggi fortificati disseminati sul territorio. Anche il nome Galizia, dal latino Callaecia, deriverebbe da quello dell’antico popolo celtico dei Callaeci, il «popolo delle pietre», anche se nel nord della Spagna nessuna lingua di origine celtica è stata parlata dall’inizio Altri mettono in dubbio le origini puramente celtiche di questo patrimonio immateriale di credenze e tradizioni, che dopo essere sopravvissuto sotto traccia per secoli è sempre più popolare tra le nuove generazioni.
Settimanale di informazione e cultura Anno LXXXVI 30 maggio 2023 azione – Cooperativa Migros Ticino 14
Enrico Martino, testo e fotografie
Meno api, più scarsità di frutta e verdura
Biosostenibilità ◆ La diminuzione degli insetti impollinatori ha effetti anche sulla salute umana, lo dimostra un recente studio
Che gli insetti impollinatori siano utili (e in diversi casi anche indispensabili) alla produzione di molte colture è ormai ben noto. Si stima che quasi l’80% delle piante di interesse agricolo dipendano, in qualche misura, dall’impollinazione animale, per un corrispondente valore di circa un terzo della produzione mondiale – il divario dipende dal fatto che alcune piante di larghissimo uso, in particolare grano, riso e mais, sono impollinate quasi esclusivamente tramite il vento.
Il valore monetario del contributo di questi insetti può essere calcolato: uno studio del 2011 lo valuta in 192 miliardi di dollari a livello mondiale, mentre per la Svizzera per il 2014 si stimano 342 milioni di franchi (ne abbiamo parlato in due articoli per «Azione», il 7 aprile 2014 e 16 ottobre 2017 rispettivamente).
L’analisi dello studio è multidisciplinare, poiché tiene in considerazione fattori agronomici, biologici, economici e medici, prendendo come base di partenza ricerche svolte in precedenza
Gli impollinatori (come del resto molte altre specie di insetti autoctoni) sono tuttavia soggetti a forti diminuzioni di numero, sia in termini di specie sia di individui, a causa del continuo uso di pesticidi, tanto in agricoltura come nei giardini, pesticidi che non colpiscono solo le specie dannose ma tutti gli insetti; delle coltivazioni intensive e delle monocolture, che privano di cibo gran parte delle specie di insetti che hanno bisogno di varietà di risorse; della diminuzione di biodiversità e di luoghi adatti alla nidificazione in seguito all’uso sempre più intensivo della terra per l’agricoltura e per l’edilizia. Infine a causa della crisi climatica, con i conseguenti cambiamenti nelle risorse idriche e nettarifere e lo sfasamento temporale tra fioriture e presenza degli impollinatori specialisti.
Alcune specie di impollinatori sono, almeno parzialmente, sostituibili tramite la movimentazione di api mellifere; ma queste ultime non sono sempre altrettanto efficienti e non sono adatte a tutti i tipi di fiori, e del resto sono a loro volta soggette a morìe ricorrenti. In Svizzera, per esempio, dal 2013 al 2021 (ultimi dati disponibili), le perdite annuali di colonie d’api sono passate dal 25 al 37% del patrimonio apistico nazionale, principalmente a causa di irrisolti problemi nelle indicazioni sulla gestione dei parassiti (v. grafico; i dati sono pubblicati annualmente nel numero di giugno dello Schweizerisce Bienenzeitung). Anche se ogni anno vengono prodotte nuove colonie è evidente che anche qui ci sono difficoltà considerevoli.
È chiaro che la diminuzione di insetti impollinatori comporta delle perdite economiche per il settore agricolo, in particolare per i prodotti più pregiati, quelli che assicurano un maggiore valore aggiunto: ovviamente la frutta e la verdura, ma anche la flora spontanea che costituisce il foraggio del bestiame da latte e dalla cui qualità e varietà dipende il pregio dei formaggi. Più sorprendente, invece, un altro risvolto del problema evidenziato da uno studio recente, che met-
te in relazione le perdite di impollinatori con la diminuita disponibilità di frutta e verdura che, in seguito all’aumento di prezzo dei prodotti agricoli più vitaminici, ne riduce il consumo per certe fasce di popolazione, comportando un corrispondente degrado della loro salute che può persino arrivare ad essere fatale.
Il complesso nesso tra impollinatori e salute umana
La procedura di calcolo è piuttosto complicata, ma conviene riassumerne i passaggi essenziali per dare un’idea della complessità dei nessi di causa e di effetto presi in considerazione nello studio. L’analisi è multidisciplinare, poiché tiene in considerazione fattori agronomici, biologici, economici e medici. Il primo passo riguarda i rendimenti agricoli: poggiandosi sui risultati di studi precedenti, gli autori hanno confrontato il rendimento effettivamente ottenuto con il potenziale agronomico di ciascun raccolto potenzialmente ottenibile data la zona climatica. Questo ha permesso di elaborare una mappa geografica del divario produttivo rispetto al potenziale.
Il secondo passaggio mette in relazione questa perdita con la parte attribuibile alla scarsità di impollinatori, dato il modo di produzione agricolo prevalente in ciascun luogo (dalla produzione agricola intensiva convenzionale alle pratiche della tradizione locale, passando dalle coltu-
re biologiche). Anche per i dati sulla scarsità di impollinatori gli studiosi si sono basati su studi pubblicati in precedenza, e hanno fatto riferimento a parametri quali il numero di specie di insetti che visita ciascun fiore, il grado di intensità della coltura, l’uso di fertilizzanti ed erbicidi, la vicinanza con altre colture o con habitat naturali, e il grado di dipendenza di ciascun raccolto dagli impollinatori animali. La parte economica del modello serve a tener conto del fatto che il luogo in cui il cibo viene consumato non dipende da quanto prodotto localmente, ma dal prezzo di ciascun prodotto, che a sua volta dipende dalla domanda e dall’offerta globale di quel bene. Non solo i consumatori adattano le proprie scelte al prezzo, ma anche i produttori, che partiranno dal prezzo spuntato quest’anno per decidere cosa coltivare l’anno prossimo, e in questo modo le quantità che produrranno andranno a influenzare ancora il prezzo dell’anno successivo. Le interazioni sono dunque complesse, poiché le decisioni sia dei consumatori sia dei produttori dipendono, e a loro volta influenzano le quantità prodotte e consumate, ma anche il modo di produzione (per esempio, il grado di intensità agricolo). Qui il fattore che ci interessa per lo scopo che gli autori perseguono è come il prezzo dei prodotti contribuisce a determinare la dieta dei consumatori.
427mila morti evitabili all’anno (tra 86mila e 691mila) dovuti alla scarsità di impollinatori, soprattutto in seguito a malattie croniche. Questa mortalità in eccesso non è ripartita uniformemente nel mondo. Il divario produttivo è maggiore nei Paesi a basso e medio-basso reddito (in questi ultimi si parla di riduzione del 10% della produzione di frutta e del 13% di quella di verdura). A causa del commercio internazionale, però, le variazioni di prezzo fanno sì che l’effetto si veda altrove: più modesto nei Paesi molto poveri (Africa sub-Sahariana: 0,3 % della mortalità totale), più marcato in Nord America e in Europa (dell’ordine dell’1,1 e 1,2%, rispettivamente), nei Paesi a reddito alto e medio-alto. In termini di anni di vita persi pro capite a causa di una cattiva dieta, i valori più alti si verificano nell’Asia centrale e nell’Europa orientale.
Gli autori ritengono che la loro stima sia tutto sommato piuttosto prudente: da una parte il modello, focalizzando sulle malattie vascolari, diabete e cancri non considera infatti gli effetti di deficienze alimentari basate sulla carenza di micronutrienti, in particolare la vitamina A e l’acido folico, che si trovano in gran parte dei prodotti impollinati dagli insetti, carenze che sono ancora responsabili di diverse malattie. D’altro canto va anche considerato l’effetto sul reddito dei Paesi produttori: i mancati raccolti portano a una riduzione di reddito in Paesi nei quali il reddito agricolo è spesso una componente importante del reddito complessivo, così che ci si può aspettare che ci siano ripercussioni sulla dieta (e dunque sull’incidenza delle patologie) di queste popolazioni. Infine, altri benefici sulla salute dei Paesi molto poveri derivano dall’uso di prodotti dell’alveare e dall’impollinazione di piante medicinali, anch’essa influenzata dalla carenza di impollinatori.
Questo ci porta alla parte medica del modello, che considera diversi fattori di rischio legati alla dieta in diverse regioni del mondo e per diverse fasce di reddito. Questi fattori di rischio includono l’alto livello di consumo di carni rosse, il basso consumo di frutta, verdura, noci e legumi, e il peso dei pazienti. La presenza di qualcuno di questi fattori può portare a esiti quali malattie della circolazione e infarti, cancri (in particolare al colon e al retto) e diabete di tipo
2. Anche queste relazioni tra rischio ed esito sono ricavate da ricerche precedenti. Naturalmente il modello include qualche grado di incertezza, per esempio tra l’insufficiente impollinazione e il rendimento del raccolto, di cui si tiene conto con metodi statistici che permettono di stabilire degli intervalli per i quali le conclusioni sono valide.
I risultati: oltre 400mila morti all’anno attribuibili alla mancanza di impollinatori
Gli autori stimano che globalmente nel mondo nel 2020 si è perso il 4,7% della produzione agricola di frutta (min 0,8%, max 7,1%, con livello di confidenza al 95%), il 3,2 % dei raccolti di verdure (0,4-5,3%), e il 4,3% della produzione di noci (0,5-6,9%).
Ciò permette di stimare un eccesso di
Non solo soldi
Le implicazioni di questo lavoro sono chiare. La prima è che le relazioni tra gli insetti e il nostro sistema alimentare sono ben più complesse di quanto potrebbe apparire. E, come in ogni sistema complesso, le conseguenze di un intervento su una sua parte possono avere conseguenze di portata ben maggiore e non sempre prevedibile. La seconda implicazione è che gli insetti impollinatori non contribuiscono solamente in modo significativo alla produzione di frutta, verdura e noci e alla corrispondente generazione di reddito, ma indirettamente determinano anche la qualità della dieta e quindi la salute umana, con conseguenze quantificabili in termini di perdita di anni di vita e di mortalità in eccesso. Questo dovrebbe costituire un ulteriore richiamo alla necessità di rendere sostenibile la produzione agricola e di edificare in modo responsabile. All’orizzonte, però, non si vedono molti segni di una reale volontà di cambiamento in questa direzione.
Riferimento bibliografico
M. R. Smith e altri, Pollinator deficits, food consumption, and consequences for human health: a modeling study, Environmental Health Perspectives vol. 130:2, dicembre 2022.
Settimanale di informazione e cultura Anno LXXXVI 30 maggio 2023 azione – Cooperativa Migros Ticino 7 SOCIETÀ
Moria di api. (Daniele Besomi)
Un ape sul fiore di un melo. (Pixabay.com)
Daniele Besomi
Perdite di colonie di api dal 2013-14
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Siamo tutti nomadi da sempre
Pubblicazioni ◆ Un ambizioso volume tradotto ora dall’editore Dadò ripercorre la storia delle migrazioni in Svizzera
Orazio Martinetti
Che il fenomeno migratorio sollevi subito una serie di questioni è un fatto, e questo fin dai tempi più remoti, in conseguenza delle necessità della vita, delle campagne militari, delle invasioni e delle scorribande. L’«homo migrans» è una figura che incontriamo in tutti i secoli, sotto le più svariate spoglie, dal mercante al mercenario, dai vetrai agli spazzacamini, dalle domestiche ai mungitori. Ne sono testimonianza gli album fotografici e le lettere che molte famiglie conservano come una reliquia, documenti di imprese non sempre coronate da successo. Dai numerosi studi che Giorgio Cheda ha dedicato all’emigrazione dei nostri antenati contadini, prima in Australia e poi in California, sappiamo quanto sia stata sofferta la decisione di lasciare la propria terra, sia per i migranti, perlopiù giovani maschi, sia per i congiunti, perlopiù donne, minori, anziani. I primi dovevano superare il dolore del distacco e affrontare l’ignoto, in una parola cavarsela in un mondo che non concedeva sconti; sui secondi gravava invece l’onere di mandare avanti aziende in zone impervie e senza l’ausilio di braccia robuste.
Ma prima di questa massiccia fuga dalle valli dell’alto Ticino, soprattutto dalla Valmaggia e dalla Verzasca, le terre cisalpine avevano conosciuto l’emigrazione temporanea o stagionale: piccole comitive che lasciavano il villaggio natio in vari momenti dell’anno per svolgere i mestieri più diversi nelle maggiori città d’Europa, spingendosi fin nella lontana Russia. Anche questo capitolo è stato oggetto di numerose indagini, con risvolti da autentica epopea per i risultati raggiunti da pittori, stuccatori e architetti. Ma allora –dal Medioevo all’età moderna – i confini erano porosi, mal definiti e quindi scarsamente sorvegliati, salvo quando scoppiavano conflitti che innescavano rappresaglie, come l’espulsione delle famiglie ticinesi dalla Lombardia a metà dell’Ottocento.
Fino all’ascesa e al consolidamento
Viale dei ciliegi
Robert Louis Stevenson
«Se le storie di marinai, di pirati e di tesori sepolti possono piacere, come un tempo piacquero a me, anche ai giovani d’oggi, più smaliziati, allora vai avanti senza esitare…», così Stevenson si rivolge, prima di cominciare la narrazione, al lettore esitante. Fin dal 1883 ci si interrogava sui gusti dei giovani lettori, moderni e «smaliziati». E invece da allora L’isola del tesoro continua ad essere un libro che attraversa le generazioni «non avendo ancora finito di dire quello che ha da dire», per usare la definizione di «classico» di Italo Calvino. Compie 150 anni, questo grande classico, e colgo quindi l’occasione per celebrarlo, invitando a leggerlo e a riproporne la lettura, perché questa storia di mare e di pirati continua ad affascinare e inquietare. Ho indicato l’edizione Einaudi (tradotta da Massimo Bocchiola e con un saggio di Pietro Citati), ma le edizioni italiane sono tante, l’importante è che siano integrali.
Continua ad affascinare e inquietare i lettori, L’isola del tesoro, perché sotto la scintillante superficie di giocoso racconto d’avventura, si cela l’ombra
degli Stati nazionali (moto che prende avvio al termine dell’antico regime), partire e tornare faceva parte di un movimento naturale. Mario Rigoni Stern, nella sua Storia di Tönle (1979), ha ricostruito il frenetico andirivieni nell’Impero austro-ungarico dei montanari veneti, prima che la grande guerra del 14-18 alzasse barriere sempre più ermetiche. Anche lo storico
Eric J. Hobsbawm ha ricordato nella sua autobiografia la vita nomade delle generazioni nate alla fine del XIX secolo prima che l’ondata nazionalistica chiudesse le frontiere. Questo per dire che la curva degli itinerari migratori appare determinata da un gran numero di fattori, interni ed esterni, in cui la demografia s’intreccia con le politiche disposte sia dai comuni di partenza che dai luoghi di destinazione (leggi, permessi, regolamenti, incoraggiamenti o restrizioni).
Di questa concatenazione tra destini individuali e reazioni pubbliche si occupa un saggio pubblicato dalla casa editrice Hier und Jezt di Baden nel 2018 e ora tradotto in italiano per iniziativa dell’editore Dadò. S’intitola Storia svizzera delle migrazioni ed è opera di tre storici: André Holenstein, Patrick Kury e Kristina Schulz. È un volume ambizioso, che copre un arco temporale estesissimo, «dagli albori ai giorni nostri», e che mira ad offrire un primo quadro di sintesi. Impresa non facile dato che sul plesso emigrazione/ immigrazione la bibliografia è in continua crescita, dalle peripezie familiari più minute alle espulsioni collettive decretate per motivi religiosi e politici, o semplicemente per liberarsi di povera gente che gravava sui magri bilanci dei comuni.
Il movimento è dunque multiforme, civile, religioso e militare ad un tempo, e che si fa febbrile nel corso dell’età moderna in conseguenza della Riforma protestante (espulsione degli ugonotti dalla Francia) e della Guerra dei Trent’anni. Fortune e sfortune scandiscono l’esperienza di mercenari,
mercanti in marcia da una città all’altra, «dotti» e scienziati desiderosi di allargare le proprie conoscenze, artigiani che – come i pasticceri e caffettieri grigionesi – riescono a ritagliarsi una lucrosa nicchia nella città di Venezia. Le rotte di questi percorsi sono numerose, alcune portano nella Sierra Morena, in Andalusia, contadini svizzero-tedeschi chiamati per sviluppare la produzione agricola. Sono invece romandi gli emigrati che nel 1819 fondano in
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Brasile la colonia di «Nova Friburgo», iniziativa destinata ad incontrare non poche difficoltà.
L’Ottocento è un secolo in cui i flussi s’incrociano: villaggi alpini che si svuotano a beneficio delle ubertose contee d’oltre Atlantico, manodopera operaia che affluisce nei cantieri della Confederazione per costruire strade, linee ferrate, gallerie, quartieri e vie delle principali città. Nel corso della «belle époque», il numero degli
stranieri inizia a preoccupare le autorità, nella stampa compare la parola Überfremdung, una soglia di presenze giudicata perturbatrice degli equilibri demografici del Paese. La Grande Guerra, con il rientro degli emigrati chiamati sotto le armi, mette fine alla libera circolazione della forza-lavoro. Prende avvio una nuova era, costellata di controlli (nasce la polizia degli stranieri) e di regimi legislativi relativi alla dimora e all’esercizio di attività lavorative. Nel 1931 vede la luce lo «statuto dello stagionale», che rimarrà in vigore fino al 2002. Seguiranno altre fasi critiche, legate a discriminazioni palesi e alla crudele selezione degli ebrei in fuga dal nazifascismo attuata fin quasi agli ultimi mesi del secondo conflitto mondiale.
Una lunga storia dunque, con molte pagine sconosciute o cadute nell’oblio. Se l’imponente afflusso degli anni postbellici, alimentato principalmente da Gastarbeiter italiani, ha ricevuto da parte della ricerca l’interesse che merita sotto forma di testimonianze, biografie e monografie, opere teatrali e cinematografiche, non lo stesso si può dire per le tante micro-storie che hanno segnato il destino delle comunità alpine nei secoli precedenti. Persone singole, famiglie, compaesani che hanno fatto le valigie per i più svariati motivi: chi per avventura, chi per sfuggire alla miseria, chi per sottrarsi a vincoli politici o religiosi, chi per evitare la galera o le persecuzioni. Un’umanità in cammino che in questo volume ritrova la dignità che le spetta, assieme alle tante iniziative promosse negli ultimi decenni, sia dall’accademia, sia dalle istituzioni museali.
Bibliografia
André Holenstein, Patrick Kury, Kristina Schulz, Storia svizzera delle migrazioni. Dagli albori ai giorni nostri. Prefazione di Luigi Lorenzetti, traduzione di Anna Allenbach, Dadò editore, Locarno, 2023.
dell’incubo. «Nemmeno se mi legassero e mi facessero trascinare da buoi, riuscirebbero a riportarmi in quella maledetta isola; e i peggiori incubi che mi opprimono sono quelli in cui mi sembra di udire la risacca che romba sulle sue coste…» scrive Jim Hawkins, il ragazzo protagonista e narratore, nell’ultima pagina. Perché incubo? Forse perché L’isola del tesoro è un romanzo straordinariamente moderno: un romanzo in cui la linea di confine tra bene e male non sempre è visibile, un romanzo in cui la stessa identità dei personaggi è cangiante, declinabile in molti modi.
Anche dal punto di vista strutturale
accade così: il narratore è quasi sempre Jim, il punto di vista è quasi sempre il suo. Ma quasi sempre, appunto. Per un breve tratto il punto di vista è quello del dottore, ossia del mondo adulto, contrapposto a quello del ragazzo. Come a dire che i punti di vista possono essere tanti.
Il personaggio in cui questa inquietante confusione di bene e male più si concretizza è senz’altro Long John Silver, il capitano degli ammutinati, già quartiermastro del feroce pirata Flint ed ora mellifluo cuoco di bordo ed assassino efferato. Silver cambia bandiera più e più volte, tradisce i suoi amici, poi i suoi nemici, poi ancora i suoi amici e forse anche se stesso. Ma in fin dei conti chi sono i suoi amici?
I pirati che non vedono l’ora di destituirlo, gli uomini dabbene che lo disprezzano, gli ex-compagni che lo temono, il lettore che prova sentimenti così contrastanti per quest’eroe negativo, che dice «quando un uomo va controvento come me, giocandosi la vita a fossetta, credo che possa meritare una parola d’incoraggiamento»?
La storia è costruita magistralmente, dal primo atto nella taverna del padre di Jim, al secondo di navigazione a bordo dell’Hispaniola, al potentissimo e serrato scenario dell’isola, fino
all’ultima pagina, in cui, come in ogni grande racconto d’inquietudine e di avventura i cattivi hanno la peggio, sì, ma non lui, il genio tra i cattivi, l’ambiguo e mitico Silver, che scompare nel nulla, con la sua gamba di legno e la sua stampella, a fare i conti con le monete d’oro e con la sua coscienza.
Nicola Cinquetti-Aurora
Cacciapuoti
Chiedimi scusa
Lapis (Da 3 anni)
In primavera, si sa, è tutto un fiorire di novità, tra Fiera di Bologna e Salone di Torino, ma oggi vorrei fermarmi un attimo a valorizzare, dopo un grande classico, un piccolo libro per piccoli uscito da qualche anno e as-
solutamente delizioso. Il tema è quello, nobilissimo, del chiedere scusa, ma qui viene trattato senza alcuna grevità, anzi con geniale grazia, creando una storia (e non un «libro a tema») che coglie perfettamente le peculiarità del mondo bambino, e che i bambini saranno entusiasti di sentirsi leggere e rileggere. Nicola Cinquetti ha questa capacità di porsi ogni volta all’altezza dei suoi lettori, sia quando si rivolge ai piccolissimi sia ai più grandi, offrendo loro storie argute e tenere, mai banali. Qui c’è una rana che cade addosso a un grillo, ahia mi hai fatto male, chiedimi scusa almeno, dice il grillo. Io non ti chiedo scusa, dice la rana, è tutta colpa tua che non ti sei spostato. Fai la furba perché sei più grande, dice il grillo, voglio vedere cosa fai se chiamo il topo. Topo, topo, vieni a picchiare la rana che mi ha fatto male. Ma la rana chiamerà il gatto a picchiare il topo, e il topo allora chiamerà il lupo a picchiare il gatto, che lo vuole picchiare… e via così, in una di quelle catene narrative che tanto piacciono ai bambini e che si prestano molto bene anche alla lettura ad alta voce, fino al gran finale. Un finale in cui c’è una catena di scuse, come no, ma c’è anche una sorpresa che illumina ulteriormente tutto il libro.
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di Letizia Bolzani
L’isola del tesoro Einaudi (Da 8 anni)
Operaie italiane all’entrata in Svizzera attorno al 1950. La Migros aveva reclutato giovani donne nubili italiane già per la stagione del 1946. Due anni dopo seguì l’accordo con l’Italia per lavoratori stranieri stagionali. (Schweizerisches Sozialarchiv Zürich)
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Da
Approdi e derive
Funzionare o esistere?
Non è mia intenzione proporre l’ennesima riflessione su ChatGpt, né tantomeno un nuovo dialogo-intervista con il simpatico robot. A proposito di questa new entry nelle relazioni virtuali abbiamo già potuto leggere molti commenti. Il nuovo chatbot, l’affascinante programma di conversazione con gli esseri umani che sta facendo tanto scalpore, può diventare tuttavia uno spunto interessante per riflettere, più in generale, sulla percezione della realtà in cui viviamo. Di fronte al futuro, a ciò che di nuovo il futuro annuncia rispetto al passato, assistiamo spesso ad una specie di pendolo dei sentimenti. C’è sempre chi è pronto a prefigurare nubi all’orizzonte, gli apocalittici insomma, quelli che «chissà dove andremo a finire», ma c’è anche chi, al contrario, si mostra sempre assai disponibile alle novità, quelli che «bisogna aprirsi al futuro», pronti ad entusiasmarsi per tutto ciò che sembra annunciarsi come possibile progresso.
Terre Rare
«Chiudere le porte quando i buoi sono già scappati» è il proverbio che si attaglia spesso alle notizie dedicate alla tecnologia (inclusa questa, naturalmente). Si è discusso negli scorsi scorsi, ad esempio, dell’attacco di Elon Musk alla tecnologia del concorrente Mark Zuckerberg: «Attenti, WhatsApp vi ascolta», minacciava il primo. Dal secondo nessuna particolare reazione, tranne un’altra informazione su cui arriviamo dopo.
Allora: il proprietario di Twitter espone al pubblico ludibrio la concorrenza perché un suo ingegnere avrebbe scoperto che di notte l’app di comunicazione col telefonino verde si è collegata varie volte al microfono, attivandolo e captando presumibilmente suoni d’ambiente senza essere richiesta. La denuncia, occorre dire, è stranamente concomitante con l’annuncio dell’apertura da parte di
Nei confronti di ChatGpt i sentimenti sembrano più sfumati. Anche tra i sempre entusiasti pare farsi strada un cauto sospetto, alimentato di recente dalle preoccupazioni del suo stesso ideatore Sam Altman. Di fronte alle evidenti derive di un progresso à tout prix, in molti cominciano a porsi qualche domanda. Ad avvicinare sentimenti e visioni contrastanti sono come sempre soprattutto le paure riguardo al futuro del lavoro. Qualche settimana fa, ad Hollywood, il sindacato degli sceneggiatori ha indetto uno sciopero per rivendicare, tra le altre cose, la regolamentazione dell’uso di questi sistemi di Intelligenza Artificiale: bisogna che siano tenuti sotto controllo, al servizio del nostro lavoro, affinché non diventino concorrenti, ovvero sceneggiatori non umani. Queste paure prefigurano forme di luddismo rinnovato ma per certi versi del tutto inedito. L’esempio della produzione artistica hollywoodiana è assai eloquente perché mostra co-
me i confini tra una tecnologia collaborativa ed una sostitutiva di pratiche umane si facciano sempre più sfumati. L’esempio permette anche di analizzare più in profondità il senso e l’origine delle nostre paure. Il timore che sceneggiatori robot possano entrare davvero in competizione con i professionisti ci costringe a chiederci se l’intuizione, la creatività, l’immaginazione, possano davvero essere codificabili in un programma di Intelligenza Artificiale. La domanda va alla radice della questione perché anche il solo sospetto che questo sia possibile, il fatto cioè di non riconoscere l’esistenza di barriere insormontabili tra comportamenti umani e azioni di macchine, indica due aspetti, tra loro collegati, che sono all’origine delle nostre paure.
Il primo riguarda la mancanza di conoscenza di ciò che si annuncia come nuovo, in questo caso l’ignoranza di «chi» sia il signor o la signora ChatGpt. In una recente intervista Bruno
di Lina Bertola
Giussani, direttore europeo di TED lo ha chiarito bene, premettendo che forse non si dovrebbe nemmeno parlare di intelligenza, perché l’intelligenza è una cosa molto complessa e questi robot sono sistemi informatici, modelli di linguaggi che del linguaggio umano riproducono la logica e la struttura senza comprenderne il significato. Sanno solo «capire» e riprodurre statisticamente, sulla base di innumerevoli documenti umani, la successione logica delle parole.
Il secondo aspetto riguarda una percezione della realtà che alimenta paradossalmente questa ignoranza, ovvero la tendenza assai diffusa a stabilire una relazione alla pari con i robot. La tendenza ad antropomorfizzare macchine sempre più umanizzate ci porta ad accogliere nel nostro vissuto anche il fascino dell’ibridazione, di un meticciato sempre più spinto con la macchina stessa.
L’ammirazione per sempre nuovi mirabilia tecnologici può diventare allo-
ra un freno al desiderio di conoscenza di noi stessi, un freno alla comprensione della singolarità dell’umano. Il nostro dialogare con robot di ogni genere, l’intreccio di relazioni sempre più intime con i loro algoritmi, rischia di farci trascurare il valore del nostro essere corpi viventi con cui facciamo esperienza del reale. Un’esperienza che suscita in noi anche domande di senso a cui le macchine non potranno mai rispondere. Allo specchio di un meticciato in continuo divenire con macchine sempre più umanizzate diventa più che mai necessario prendersi cura dell’umano.
Di questo tema antropologico fondamentale si sta occupando Miguel Benasayag. Il linguaggio dell’informazione, avverte il filosofo e psichiatra, descrive il mondo con i suoi algoritmi e traduce in modelli e codici la presenza fisica del reale. Come ricorda un suo recente titolo, la scelta per il nostro progetto di umanità è allora questa: funzionare o esistere?
Twitter di un analogo e concorrenziale sistema di comunicazione vocale/visuale tra i suoi utenti. E questa precisazione basta a ridimensionare almeno un po’ la portata «etica» dell’allarme.
D’altro canto, la denuncia viene a confermare sospetti e conclusioni a cui molti di noi erano giunti, con rassegnazione, da tempo. Vi è già capitato di ricevere un messaggio di posta elettronica «spam» che vi offre un prodotto o una meta di viaggio di cui avete discusso proprio la sera prima a cena coi vostri amici, oppure a cui avete alluso durante una telefonata?
Certo, i telefoni ci ascoltano. Lo sapevamo da un pezzo. Fa parte ormai della normalità, l’involontario strip-tease a cui ci costringono le nuove tecniche di marketing digitale.
Onore al merito invece per Bruno Ruffilli, redattore di «Italian Tech»,
Le parole dei figli
Aiuto, mi ha friendzonato
«Lui ha una crush per me, ma io l’ho friendzonato. Meglio così che ghostare tra un paio di mesi». Parole dei figli che suonano arabo. Se una frase del genere non vi è già capitata prima o poi succederà. Meglio essere pronti. Alessandro Riggio, il mio giovane collega al «Corriere della Sera», me la traduce immediatamente: «È un po’ l’equivalente del “Patti chiari e amicizia lunga”, ma in salsa teen». Per noi boomer, però, è necessario partire dall’inizio. È arrivata la primavera ed entriamo nel lessico d’amore della Gen Z! Crush tradotto dall’inglese significa letteralmente schiacciare, frantumare, stritolare. Nello slang giovanile diventa un sostantivo e la sua declinazione è al femminile: la crush. I giovanissimi utilizzano il termine in due modi: «Io ho una crush per…» a indicare che si sono presi una sbandata per qualcuno/a; oppure
«La mia crush è …» con riferimento alla persona di cui si sono infatuati o a qualcosa che piace molto (tipo una canzone o un film).
TikTok è pieno di video dove la parola viene utilizzata anche con frasi del tipo: «Pov: hai una crush per lei», mentre sotto scorrono scene da innamorati (il significato dell’acronimo di Point of View, ovvero «Punto di Vista», l’abbiamo visto in questa rubrica il 6 febbraio 2023). E l’hastag #crush rimbalza ovunque sui social. Si tratta della classica cotta adolescenziale. In questo contesto chi s’innamora di un suo/a amico/a e decide di dichiararsi corre il rischio di essere friendzonato: vuol dire che l’altro gli dà il due di picche con la classica frase: «Per me sei solo un/a amico/a!». È la triste dinamica di quando un teen è innamorato e l’altro vuole he si resti solo amici. Il verbo friendzonare è entrato
sito web specializzato di «Repubblica», il quale ci spiega come possiamo, se non evitare lo spiacevole fenomeno, perlomeno renderci conto di quando avviene. Gli smartphone basati su Android e gli iPhone possiedono, tra i comandi nella sezione di impostazione, un monitor che tiene sotto controllo proprio l’attivazione del microfono e, soprattutto, che può dirci qual è l’app che lo ha utilizzato e quando. La funzione di «auto-ascolto» può essere inibita e adattata alle necessità, modificando le «Autorizzazioni» (sotto «Impostazioni») in Android. Niente di analogo nel mondo iPhone: se non che, il sistema possiede un verboso e sofisticato «Resoconto sulla privacy» nell’uso delle app, che ci dà l’idea perlomeno del momento in cui il microfono del nostro telefono si è attivato.
Come già ricordato in questo spazio, spetta a noi gran parte dell’onere di scoprire come funzionano davvero i nostri potentissimi smartphone. In particolare nei loro aspetti più complessi, quelli dove si trovano spesso proprio i loro lati oscuri. Solo con la paziente esplorazione e l’apprendimento continuo potremo diventare utilizzatori responsabili. Non c’è altra possibilità. Detto questo, e per alleggerire un po’ la discussione, torniamo alla diatriba iniziale. Come ha reagito Zuckerberg alle accuse di Musk? La prima risposta è stata molto diplomatica: si tratta di un «bug» di Android (ciò che vuol dire «è colpa di Google»… come sempre). Rimedio alla situazione potrebbe essere «spegnere e riaccendere il telefono». Qui si rasenta la barzelletta (la sapete quella dei quatto amici in un’auto che si ferma improvvi-
samente per un guasto? Uno di loro è informatico… immaginate il finale). Zuckerberg, proprietario di WhatsApp, non si è poi più fatto sentire. Di lui si sa che nelle scorse settimane ha vinto il suo primo torneo di Ju-Jitso. Il giovane Mark dice di essersi appassionato alla disciplina durante il lockdown e di averla praticata con intensità, fino a raggiungere livelli competitivi notevoli. Lo sappiamo capace di imprese sovrumane, come ad esempio imparare il cinese in pochi mesi. Fa parte dei suoi obiettivi personali apprendere ogni anno qualcosa di nuovo, ci spiegano, e il successo nelle arti marziali è una delle conseguenze di questa attitudine. Da parte nostra potremmo fare altrettanto: obiettivo dell’anno, conoscere meglio il nostro smartphone. Chissà come è messo, sull’argomento, il giovane Zuckerberg.
nel dizionario Treccani come neologismo: «È più specifico di dare il due di picche perché riguarda due persone tra loro amiche e descrive la situazione quando una delle due esprime il proprio interesse amoroso verso l’altra ma non è corrisposta, per cui il rapporto rimane fermo all’amicizia».
Così – scrive il Treccani – «in un attimo ci si trova intrappolati nella friendzone, e tutto ciò succede non appena viene fatta la propria dichiarazione d’amore». Pensiamolo tra adolescenti: uno finalmente si decide, fa un respiro profondo, sceglie l’attimo e la risposta finale non è quella desiderata: eccolo friendzonato. Allo «scusami, ma ti considero solo come un amico», c’è la voglia di seppellirsi. È difficile pensare che un momento simile i nostri figli vengano a raccontarcelo: ma conoscendo il vocabolario che usano possiamo raddrizzare le antenne e al-
meno capire cosa dicono quando parlano tra di loro.
A giudicare dal numero di tutorial e video presenti su YouTube dedicati a come non farsi friendzonare si direbbe che il fenomeno tra gli adolescenti sia diffusissimo. Un passo in più. Ghostare è l’unione di ghost, che in inglese vuol dire fantasma, con il suffisso -are: sta ad indicare quando qualcuno interrompe bruscamente una storia d’amore e sparisce. Anche questo neologismo è entrato di diritto nei vocabolari. L’Accademia della Crusca lo spiega così: «Vuol dire porre fine a una relazione con una persona cessando improvvisamente ogni forma di comunicazione con quest’ultima, per esempio ignorandone i messaggi e le chiamate». È un po’ darsela a gambe levate senza nessuna giustificazione. In estrema sintesi per Il Milanese imbruttito, pagina Instagram che ben
descrive in modo ironico vizi e virtù dei milanesi e che ora dedica sempre più video anche al linguaggio della Gen Z, è «una bastardata»! Adesso abbiamo tutti gli strumenti per capire il significato della frase «Lui ha una crush per me, ma io l’ho friendzonato Meglio così che ghostare tra un paio di mesi»: un adolescente si è preso una cotta per qualcuno che l’ha rimbalzato preferendo restare solo amici e giustifica la sua decisione dicendo che è meglio così piuttosto che poi sparire dopo due mesi.
Vabbè, le parole sono diverse, ma i primi batticuori sono sempre uguali. A me viene in mente Claudio Baglioni con Questo piccolo grande amore, ma i Brividi sono gli stessi. Come cantano Mahmood e Blanco, idoli dei teen: «A volte non so esprimermi… E ti vorrei amare, ma sbaglio sempre… E mi vengono i brividi, brividi, brividi».
Settimanale di informazione e cultura Anno LXXXVI 30 maggio 2023 azione – Cooperativa Migros Ticino 11 SOCIETÀ / RUBRICHE ◆ ●
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di Simona Ravizza
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di Alessandro Zanoli
Sì, il telefono ci ascolta
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TEMPO LIBERO
Lo spirito celtico in Spagna Dolmen e forti di pietra, solitarie cattedrali, pescherecci, ruvidi rodei di paese e atmosfere atlantiche
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Un’oasi dove tornare bambini Fa parte dell’arcipelago prealpino, si trova sul lago di Pusiano, ed è nota con il nome di Isola dei Cipressi
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Un antipasto delizioso Fette di susine con timo, pistacchi caramellati e formaggio erborinato per un originale antipasto
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Gli «occhi» fra le dune del deserto
La Storia di fucili e pistole Si può essere collezionisti appassionati di armi senza dover essere per forza guerrafondai
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Adrenalina ◆ I sudati duemiladuecento chilometri di Nunzia Del Gaudio alla Dakar Classic con la Desert Endurance Motorsport
Sabbia, acqua, tanta acqua (come non se ne vedeva da una buona ventina d’anni a quelle latitudini) e massima concentrazione. Con maratone quotidiane di 400 km di media (ma con picchi fino a 900 km) da percorrere con camion su «strade»: sassaie, distese di sabbia e pochissimi chilometri di vie asfaltate ma in condizioni non certo ottimali.
Superata alla grande la prova della prima «spedizione» ticinese iscrittasi alla gara delle gare a bordo dell’Iveco numero 913
È il menu che Nunzia Del Gaudio e compagni d’avventura (accanto a lei, nell’abitacolo dell’Iveco «Musone» c’erano Andrea Cadei e Beppe Simonato) si sono sciroppati tra le dune del deserto. Giorni spossanti, dove l’adrenalina per domare quelle dune ha fatto da carburante al trio dal primo all’ultimo giorno, portandolo al traguardo finale, 2200 km oltre la partenza. Stanchi ma contenti di aver portato a termine una piccola grande impresa. «Se lo rifarei? Sì, senz’ombra di dubbio. Appena rientrati, avevo già voglia di tornarci!». Così Nunzia Del Gaudio torna sulla sua esperienza alla Dakar Classic con la Desert Endurance Motorsport, la prima «spedizione» ticinese alla gara delle gare.
Dopo averne riferito in termini generali nel numero 6/2023 di «Azione», è ora di entrare nell’abitacolo dell’Iveco numero 913 per sentire la voce di chi quell’avventura l’ha vissuta direttamente, raccogliendone le emozioni. Ancora vivide a qualche mese di distanza… «La Dakar è qualcosa che ti entra nel cuore. È come una malattia, di cui non ti liberi facilmente. L’ho provato sulla mia pelle: parteciparvi era il mio grande sogno, e ora che l’ho coronato, non vedo l’ora di rifarlo. Già una manciata di giorni dopo il nostro rientro in Ticino non vedevo l’ora di ripeterla. E così, appena disfatti i bagagli, ci siamo messi al lavoro per preparare la prossima spedizione».
A sentirla raccontare di quell’incredibile quindicina di giorni («anche qualcuno in più considerando che siamo arrivati sul posto qualche giorno prima per completare tutti i preparativi, e per una manifestazione del genere non sono certo pochi!») è come se le immagini scorressero davanti ai nostri occhi. Come se qualcuno di quegli infiniti granelli di sabbia di quel deserto si insinuasse nell’aria. «Cosa che non escluderei dato che di sabbia, volenti o nolenti, ce ne saremo portata a casa parecchia, intrufolatasi nei nostri bagagli. Ancora oggi mi capita di riprendere qualcuno dei vestiti
che avevo con me laggiù e ritrovarmi inaspettatamente (ma fino a un certo punto) per le mani qualche granello di sabbia. E subito la memoria torna a quei giorni…».
Nella Dakar Classic, a bordo del Musone, Nunzia, nei panni di navigatore, ha fatto da… occhio, orientando il pilota su strade che non sono strade, ma unicamente una debole traccia appena percettibile sulla sabbia, un occhio tra le dune, dunque, ma anche metronomo della spedizione. Perché in una competizione co-
me la Dakar Classic sono proprio le medie a determinare la prestazione e dunque la classifica finale: «Anche se a dire il vero il risultato inteso come classifica nuda e cruda non è mai stato la nostra priorità, e nemmeno quella di gran parte degli equipaggi che si sono presentati al via della Classic. In una gara così non è tanto il “come” arrivi e “quanto” ci metti, ma il “se” ci riesci. È una costante battaglia, dal primo all’ultimo chilometro, dal primo all’ultimo giorno. E quando arrivi in fondo, quando nessuno ti può negare l’onore di portare le ruote del tuo veicolo sulla passerella destinata ai “finisher” e ti metti al collo la medaglia con cui vengono premiati quelli che ce l’hanno fatta, beh, tutti gli sforzi sono ripagati».
Ma non è quella l’emozione più grande che Nunzia ha provato sull’arco di quegli indimenticabili quindici giorni nel deserto: «Quando ho stretto la mano a una leggenda del volante come Jacky Ickx, il gran cerimoniere della passerella finale, l’emozione è stata parecchia, ma ne ho provato una ancora più grande il giorno precedente, in quella che a tutti gli effetti era la tappa finale, con gli ultimi chilometri di percorso che corrono paralleli al mare. Una distesa che sembra
non avere fine. Poi ai lati vedi sempre più gente festante e capisci che il traguardo è vicino. Ancora qualche chilometro, un ultimo sforzo e finalmente eccolo lì davanti, il traguardo che hai inseguito da quella che ti sembra un’eternità: la scritta “Finish”. È lì che ho provato l’emozione più forte, il momento in cui tutta l’adrenalina accumulata nei precedenti giorni lascia spazio alla consapevolezza di aver coronato l’impresa. Anche se per realizzare per davvero quanto fatto ci sono voluti ancora diversi giorni».
Torniamo però fra quelle dune: quali sono stati i momenti salienti della gara? «Un giorno con il nostro Musone abbiamo tolto dai pasticci un altro equipaggio, che col suo mezzo, un camion ben più potente del nostro, si era insabbiato e non riusciva più a ripartire. Trovarti nei guai in mezzo al deserto non è evidente: non è che puoi chiamare il carro attrezzi… L’organizzazione vigila sulla sicurezza, ma non interviene attivamente in caso di avarie, a meno che non ci sia reale pericolo per l’incolumità delle persone. Per cui devi arrangiarti… Il bello di una gara come la Dakar Classic è però che tutti siamo sullo stesso piano, e tutti (o quasi) accomunati dal medesimo obiettivo: arrivare fino in fondo.
Così la camerateria la fa da padrona fra le diverse squadre in gara». E non sono mancati momenti delicati: «La vera sfida, per il navigatore, è rappresentata da quei segmenti in cui, per dare un po’ di pepe alla competizione, non viene indicato il percorso da seguire ma vengono forniti unicamente dei punti di passaggio, i cosiddetti waypoint. Allora la responsabilità ricade tutta sulle spalle del navigatore, che deve guidare il pilota attraverso quello che ritiene sia il percorso ideale; il tutto sempre badando di discostarsi il meno possibile dalla media ideale fissata dagli organizzatori. E stiamo parlando di limiti sugli 80 km/h, magari una bazzecola o poco più su strade normali, ma che fra le dune e il pietrisco del deserto sono tutt’altra cosa. E ancora più difficile in assoluto da gestire in quei giorni è stato il freddo. Ha piovuto parecchio, cosa che non capitava da tempo immemore alla Dakar, e di notte, complice l’umidità, le temperature si abbassavano parecchio. Dormire, o, almeno, provare a farlo, in condizioni così non era l’ideale, men che meno lo era mettersi al volante l’indomani per un’altra tappa. Specie per una “Marathon”, con addirittura un totale di 900 km da macinare…».
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Moreno Invernizi
Rielaborazione fotografia di uno scenario plausibile, con la mitica Iveco sullo sfondo. (Redazione)
Quella Spagna un po’ irlandese
Reportage ◆ Laddove le evanescenti tracce dei celti si mescolano con quelle dei pellegrini che a tappe seguono il Cammino di Santiago
Enrico
Martino, testo e fotografie
Un sentiero che taglia un bosco di pini, un cavallo solitario che guarda curioso chi passa. Poi le linee dritte degli alberi si spalancano su un arco di sabbia chiuso da un muro di grandi pietre. Uno stretto passaggio porta a un piccolo promontorio dove la luce radente del tramonto scolpisce grandi cerchi di pietre, gli antichi basamenti delle grandi capanne di Castro da Barona, il più spettacolare e meno conosciuto villaggio fortificato celtico dell’intera Galizia, quasi dimenticato fino a pochi anni fa e ancora oggi meta di anime solitarie in cerca di un silenzio spezzato solo dal vento e dall’andirivieni di onde dell’Atlantico.
Una Disneyland di blogger
Un flash di fulminante bellezza minimalista che evoca una Galizia remota, diversa dal Cammino di Santiago che sempre più spesso evoca una Disneyland di blogger e consumatori di spiritualità in marcia lungo i tratturi della meseta spagnola. Sognano il momento in cui vedranno emergere da un orizzonte d’erba le grandi torri della cattedrale di Compostela, ma spesso rischiano di perdersi altre tracce che impregnano di storie una terra dove pioggia e nebbie improvvise fanno parte della vita.
Dolmen e forti di pietra, solitarie cattedrali più grandi dei villaggi accucciati ai loro piedi, porti pescherecci che non sfigurerebbero in Bretagna, ruvidi rodei di paesi, luoghi e atmosfere più atlantiche che spagnole, uniti in un improbabile ma riuscito abbraccio da un’anima celtica, apparentemente sottotraccia ma irresistibile quando il vento gonfia le rias, i fiordi che tagliano la costa come fette di torta liquida, e l’Atlantico ritrova la sua faccia spesso trucida.
L’origine del sangue celtico
Secondo il Lebor Gabàla Erenn, il Libro delle Conquiste irlandesi dell’undicesimo secolo (perché un antico manoscritto non manca mai in queste storie), tutto sarebbe iniziato quan-
do il mitico re celtico Breogán, «Colui che ha un unico nome» in gaelico – l’antica lingua irlandese – costruì una gigantesca torre da cui i suoi figli Ith e Bile videro una terra verdissima galleggiare sull’orizzonte oltre il mare. Ne furono così stregati da decidere di raggiungerla dando inizio a una di quelle torbide saghe irlandesi costellate di morti, vendette, tradimenti, invasioni e contro-invasioni lungo un mare da sempre più strada che confine, l’Atlantico che unisce i frammenti dispersi di una nazione che non esiste, un’area celtica unita da un’identità comune ed estesa dalla Scozia all’Irlanda, dal Galles alla Bretagna di cui fa parte anche questo lembo di Spagna atlantica.
Tombe preistoriche, forti di pietra e corride di cavalli quali testimoni di un passato ancora vivo
Tale realtà sarebbe confermata a livello scientifico da una ricerca dell’Università di Oxford che ha trovato nel DNA di molti inglesi e irlandesi tracce genetiche simili a quelle della Galizia celtica.
Per altri ricercatori, invece, sarebbe poco più che una romantica invenzione per alimentare negozi stipati di simboli celtici e guide turistiche che magnificano abitanti biondi con gli occhi azzurri invece di valorizzare una realtà ancora più straordinaria, quella composta da quasi quattromila anni di preistoria che hanno lasciato un’eredità unica di castros, dal latino castrum, forti di pietra appollaiati su promontori e colline.
I «lottatori» della Rapa das Bestas
Oggi di Breogán e del suo regno perduto restano solo evanescenti tracce disseminate qua e là per la Galizia, il suo nome sulla fiancata di un camioncino che ansima sui tornanti di una stradina di montagna o i dragoni alati dell’acqua minerale Fontecelta, ma basta arrivare tra le quattro case del villaggio di Sabucedo per venire travolti, in senso quasi letterale,
da un delirio di cavalli e aloitadores, i «lottatori», della Rapa das Bestas. Un rodeo casereccio celebrato ogni estate dal quindicesimo secolo in molti paesi della Galizia in onore di San Lorenzo per avere sconfitto un’epidemia di peste, ma che risale probabilmente proprio al tempo dei celti che con i cavalli avevano un rapporto particolare. Da allora i garranos, i piccoli ca-
valli autoctoni che vivono allo stato brado sulle montagne, vengono sottoposti al taglio del crine di criniera e coda. Un’usanza nata per motivi pratici – verificare lo stato dei branchi dopo l’inverno – ma che a Sabucedo assume dimensioni epiche. «Questi sono gladiatori, quelli degli altri pueblos persone» filosofeggia un videomaker che non manca una rapa, mentre centinaia di cavalli e decine di aloitadores si stringono gli uni agli altri in un silenzio inquieto di uomini e bestie nello spazio ristretto del curro, un’arena circolare che rivive all’inizio di ogni estate.
In un crescendo rapidissimo di criniere, zoccoli, mani, volti contratti, corpi che volano giù dai cavalli e cavalli atterrati dagli uomini il caos apparente di Sabucedo segue in realtà regole precise a differenza di altri villaggi: mai più di tre aloitadores per un cavallo, due afferrano la testa e uno la coda, uno monta il cavallo mentre gli altri cercano di sbilanciarlo in un autentico corpo a corpo. Qualcosa che viene da molto lontano e che non lascia comunque indifferenti perché si può vivere in molti modi la Rapa: per gli antropologi è la sopravvivenza di un rituale ancestrale legato alla celebrazione del dominio dell’uomo sulla natura, candidata a Patrimonio Immateriale UNESCO, per gli animalisti un rito barbaro e crudele in cui centinaia di cavalli vengono sottoposti a un inutile stress, e per gli aloitadores è l’identità stessa di Sabucedo. «I cavalli ci uniscono, anche come comu-
Il cerchio del «Popolo delle pietre»
Il Cerchio Celtico è il titolo di un thriller marinaro scritto dallo svedese Björn Larsson. Un libro cult per appassionati del mondo celtico, ma anche una definizione della «nazione europea che non c’è» come hanno definito in molti, i frammenti di un poliedrico mondo celtico di cui fanno parte Scozia, Irlanda, Galles, Cornovaglia, Isola di Man, Bretagna, paesi affacciati sull’Oceano Atlantico, uniti da una lingua comune, anche se sempre meno parlata.
Per molti studiosi anche la Galizia spagnola è parte di questo universo culturale grazie a un ricco patrimonio di tradizioni e toponimi geografici legati ai miti del periodo celtico, e a un’impressionante quantità di dolmen e castro, villaggi fortificati disseminati sul territorio. Anche il nome Galizia, dal latino Callaecia, deriverebbe da quello dell’antico popolo celtico dei Callaeci, il «popolo delle pietre», anche se nel nord della Spagna nessuna lingua di origine celtica è stata parlata dall’inizio del Medioevo.
Altri mettono in dubbio le origini puramente celtiche di questo patrimonio immateriale di credenze e tradizioni, che dopo essere sopravvissuto sotto traccia per secoli è sempre più popolare tra le nuove generazioni.
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nella Galizia megalitica
per pregare, meditare o anche solo per farsi un selfie
Costa di Porto do Son, Castro de Barona, lo scavo archeologico di un antico insediamento fortificato celtico situato su uno sperone di terra esposto e aspro; Sabucedo, sotto, ogni anno in estate Rapa das Bestas prevede il coinvolgimento dei cavalli selvaggi che vivono nelle montagne di proprietà dei villaggi; in basso al centro, la Coruna, pietre menhir contemporanee erette dall’artista galiziano Manolo Paz per commemorare i massacri del dittatore spagnolo
Francisco Franco e ispirate alle radici celtiche della Galizia; di fianco, sopra, Cabo Fisterra (Capo Finisterre), il faro. Si dice che Capo Finisterre sia il punto più occidentale della penisola iberica; sotto, Combarro (Pontevedra) è stato dichiarato Sito storico per i suoi hórreos, un tipico granaio del nord-ovest della penisola iberica (principalmente Galizia).
nità perché molti compiti collettivi ruotano intorno ai cavalli, parliamo sempre di quando arriverà il giorno della Rapa. È un momento speciale per tutti, i giovani lo aspettano con ansia cercando di viverlo nel miglior modo possibile, come hanno fatto i loro padri e i loro antenati». Miguel Touriño ha iniziato a nove an-
ni, «con la prima comunione, mi sono abituato al rumore, alla tensione, mi sono unito agli aloitadores a quindici anni e continuerò fino a quando ce la farò. Certo, sono passati secoli e la sensibilità ambientale è molto cambiata ma questo è uno dei pochi luoghi in Europa dove vivono ancora cavalli in libertà. C’è un contrasto
con gli animalisti perché qui c’è uno scontro, però a Sabucedo cerchiamo di rispettare i cavalli perché è la lotta tra due spiriti, quello selvaggio dei cavalli della montagna e quello altrettanto selvaggio degli abitanti di questo villaggio».
Intorno a Miguel affollati tendoni di tavole imbandite mettono in scena una surreale catena di montaggio di pulpos alla gallega appena arrivati da vicini porti pescherecci come Combarro con la sua spettacolare infilata di horreos, i tradizionali granai in pietra allineati sulla riva del mare.
I celti si materializzano di nuovo all’estremo confine meridionale della Galizia, a sud della cattedrale gotica di Tui divisa dal Portogallo dal fiume Miño che si allarga in un estuario dominato da uno di quei posti dalla bellezza stregata dove i celti amavano mettere radici. Un labirinto di pietra di basamenti di capanne circolari di un grande castro fortificato, popolato dal primo secolo avanti Cristo fino all’arrivo dei romani un paio di secoli dopo, lungo le pendici della collina di Santa Tecla, Santa Trega per i galiziani.
La valle del Miño
La valle del Miño racconta altre storie più a monte, a Ribadavia dove l’antico ghetto ebraico si riflette nel fiume Avia, o lungo la Ribeira Sacra, il «fiume sacro» dei gallegos dove stradine che emergono con fatica dall’erba alta finiscono improvvisamente davanti a un serpente d’acqua che scivola molto più in basso tra le gole del Canòn do Sil, la grande gola creata dalla confluenza del Sil e del Miño.
Più a nord i celti e Santiago si dividono i paesaggi di O Cebreiro spalancati sui crinali della montagna galiziana, ai primi appartiene l’eredità culturale di un grappolo di pallozas, le capanne circolari con il tetto di paglia abitate dai contadini fino alla fine del secolo scorso, al secondo Santa Maria la Real, la chiesa più antica del Camino de Santiago
Un’architettura romanica quasi intima che contrasta con la vertigino-
sa solennità della cattedrale di Mondoñedo circondata da una piazza vintage di case bianche e grigie scandite da verande che annunciano la Spagna dalle atmosfere più nordiche di A Coruña dove la Torre de Hércules, un faro romano ristrutturato nel 1788, sarebbe l’antica torre di Breogán mentre l’anima celtica riemerge da una sfilata di menhir sul mare; almeno metaforicamente perché i Menhires por la Paz sono stati realizzati nel 2001 da Manolo Paz per ricordare le centinaia di prigionieri repubblicani assassinati davanti a queste scogliere.
Celti e pellegrini
Più a sud lungo le rias della Costa da Muerte, un nome che è tutto un programma con i suoi colori freddi, dal blu al latteo a seconda del giorno e della meteoreologia, le evanescenti tracce dei celti si mescolano con quelle dei pellegrini che si fermano a meditare all’estremo lembo di terra del Cammino di Santiago, davanti all’austera bellezza del solitario faro di Finisterra, il Finis Terrae più occidentale d’Europa per i romani, dove un albero scheletrito dal vento diventa una ragnatela contro il cielo. Alcuni di loro passano sotto le lastre di pietra della Pedra dos Cadris di Muxia che, secondo una leggenda, simboleggerebbe la vela dell’imbarcazione con cui Maria sarebbe approdata su questa costa. Un evento celerato dal vicino Santuario de Santa María
A Barca, e uno dei tanti esempi in cui il cristianesimo si sovrappose a culti precedenti, perché queste grandi pietre a forma di rene od osso iliaco erano in realtà un luogo di culto megalitico dai poteri taumaturgici per molte malattie: scivolare nove volte sotto le pietre, un rituale che per i cacciatori di selfie contemporanei basta ridurre a un solo passaggio, regalerebbe un’effimera salute spirituale. Dalle ombre della sera emerge a stento anche il vicino dolmen di Axeitos, con le sue lastre di pietra dorate, l’ultimo guizzo di minimalismo estetico prima del ridondante barocco di Santiago de Compostela dove le grandi torri della cattedrale sfumano verso le celestiali immensità di un cielo ormai nero come la pece. Più in basso, dove stanno i mortali, l’ultima orchestra estudiantina della giornata ci dà dentro con chitarre e tamburi mentre una pellegrina ispirata rotea bastone e conchiglia zigzagando tra i portici di Praza do Oubradoiro che la sera svuota miracolosamente di turisti, guide e venditori di rassicuranti gadget spirituali, e un parroco in trasferta si cimenta con spericolate citazioni di Coelho, utilizzato come un profeta dell’Antico Testamento per stupire i suoi fedeli.
Una Galizia tra le tante possibili dove Breogán e Santiago hanno trovato un modo per convivere senza troppi problemi.
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A spasso con i canguri della Brianza
Arcipelago prealpino ◆ Sul lago di Pusiano, l’Isola dei Cipressi è una minuscola oasi dove animali, piante e fiori sembrano far parte di un mondo incantato quasi fiabesco
Per chi è cresciuto fra le pagine di Astrid Lindgren, autrice di Pippi Calzelunghe, ma anche delle famose Vacanze all’isola dei gabbiani, approdare all’Isola dei Cipressi è un misto di sorpresa e déjà vu letterario infantile. L’isolino del Lago di Pusiano non si trova al nord della Svezia ma al nord della Brianza, non è popolata da gabbiani, ma da pavoni, fagiani, gru coronate e gru damigella, cicogne, scoiattoli, lepri, tartarughe e canguri, anzi wallaby. Liberi.
È un paradiso terrestre che si riflette negli occhi eccitati dei bambini che sbarcano dal battellino della Pro Loco di Bosisio Parini, comune unico detentore dei diritti di navigazione sul piccolo lago a cavallo tra la provincia di Como e quella di Lecco.
L’occasione è straordinaria, perché l’isola è privata. Il proprietario è Gerolamo Gavazzi, che si rifugia nella sua spartana residenza brianzola nei fine settimana, lasciando gli affari finanziari nella metropoli lombarda. L’isola è il suo pensiero felice fin da ragazzino, quando ci veniva a fare il Robinson Crusoe dell’Alta Brianza.
Un lago che vantò illustri villeggianti reali, palafitte neolitiche, vie d’acqua per Milano e primati della navigazione a vapore
Il selvaggio parco giochi l’aveva scoperto per privilegio familiare da bambino, quando vi trascorreva le vacanze estive ospite della zia Piera, ultima abitante-comproprietaria dell’isola che si tramandava la famiglia Gavazzi-Dell’Orto dal 1877. Ci era tornato con la sua famiglia nel 1991 come inquilino, poi, alla morte della zia nel 1998, aveva ereditato il dieci percento della proprietà. In poco più di un decennio, il finanziere brianzolo è poi riuscito nell’impresa di liquidare l’intero parentado entrando in possesso della sua amata isola del tesoro. Un ambito traguardo sentimentale che Gerolamo Gavazzi ha festeggiato con la pubblicazione di un monumentale volume dedicato all’Isola, a Pusiano e al suo lago, che cela nelle pagine della sua storia non poche sorprese: dalle palafitte del Neolitico agli illustri villeggianti reali, dagli inattuati progetti di acquedotti e vie d’acqua per Milano ai primati della navigazione a vapore.
Sì, perché fu proprio nelle acque del più centrale della manciata di piccoli specchi d’acqua caratterizzanti la geografia pedemontana tra Como e Lecco, che nel 1882 venne varato il primo battello a vapore in Italia dando il via all’iniziativa per la costituzione della prima Società di navigazione sui laghi lombardi.
Oggi sulle medesime acque naviga solo il silenzioso battellino della Pro Loco di Bosisio Parini, a propulsione rigorosamente elettrica. E decine di canoe. Perché il lago di Pusiano, dopo anni di incuria, è rinato come paradiso dei vogatori, tutelato dal Parco regionale della Valle del Lambro e inserito nell’Ecomuseo del Distretto dei Monti e Laghi di Brianza: ospita infatti il Centro nazionale di canottaggio del CONI e due Club di kayak che contano complessivamente quasi un migliaio di iscritti.
I colori più famosi del piccolo lago prealpino li fissò sulla tela Giovanni Segantini, che durante il suo soggiorno in Brianza negli anni Ottanta
dell’800 dipinse il meraviglioso Ave Maria a trasbordo: la barca ad arcioni che trasbordava le pecore da Pusiano a Bosisio, il paese che dal 1929 affianca al suo nome anche quello di Parini, in onore al poeta Giuseppe Parini, che sulle rive del lago nacque nel 1729. Il dipinto, che fa parte della collezione esposta al Museo Segantini di St. Moritz, è riprodotto nelle sue varianti sul lungolago e per le vie del centro di Pusiano, a ricordare i fasti ottocenteschi del privilegiato borgo lacustre.
Pusiano e il suo lago vissero infatti la loro età dell’oro tra fine ‘700
e inizio ‘800, quando si succedettero in villeggiatura le corti di tre viceré d’Italia, due asburgici (Ferdinando Carlo e Ranieri Giuseppe, arciduchi d’Austria) e Eugenio di Beauharnais, figliastro di Napoleone.
L’isola dei cipressi fu allora propaggine discreta del palazzo di Pusiano, riserva di caccia e, si narra, molto cara agli svaghi amorosi del Beauharnais.
L’ex bucolica alcova del Viceré oggi è il bioparco privato del signor Gavazzi, che apre regolarmente il suo regno a eventi culturali e visite guidate,
soprattutto di famiglie e scolaresche. 290 metri di lunghezza per 95 di larghezza, l’isoletta si alza per 13 metri sul livello del lago con un micro altipiano coronato di cipressi. La residenza di campagna dei Gavazzi, un piccolo rustico in pietra e legno, si affaccia sul leggero declivio che volge a meridione. Dal giardino terrazzato avanza il proprietario (stile e cortesia anglosassoni), che si intrattiene con gli ospiti raccontando del centinaio di cipressi censiti da Leonardo Da Vinci sull’isola e accompagnando gli interessati al suo alveare didattico. Dal domestico mondo delle api la curiosità corre però subito all’esotismo dei piccoli canguri della Brianza: «I wallaby li avevo visti nella tenuta di un amico in Scozia. Se si erano ambientati a quelle latitudini avrebbero potuto trovarsi a loro agio anche nel nostro boschetto che scende verso la darsena. Così è stato».
In un’assolata domenica che profuma di mentuccia selvatica, Simone, figlio del proprietario, guida piccoli e grandi visitatori affascinati, che sciamano nei prati fioriti di margherite alla ricerca di animali da avvicinare. Pavoni e gru passeggiano fra le aiuole, mentre Andrea, figlio di Simone e nipote di Gerolamo, mostra ai più piccini dove trovare le tartaru-
ghe e le lepri. I wallaby saltellano nel bosco oscuro della riva settentrionale. Qualcosa si intravede, ma fissarli con l’obiettivo è quasi impossibile. Poi c’è lo stagno coperto di ninfee, con le rane e le libellule. E laggiù in fondo, oltre il canale-peschiera, l’ex pollaio ospita un micro-museo fotografico. Non pare possibile che poche centinaia di metri raccontino una storia così variata… Simone guida il gruppo alla scoperta della casa-osservatorio sull’albero, mentre il giovanissimo Andrea, nella darsena, avvia il motorino elettrico del quatrass (la locale tipica barca da trasporto) per traghettare il nonno sulla vicinissima terraferma. Duecento metri per arrivare alla strada che condurrà il banchiere, in poco più di mezz’ora, ai suoi affari milanesi. La metropoli è incredibilmente vicina alla sua isola incantata.
Informazioni
www.isoladeicipressi.com
www.prolocobosisio.it
Le precedenti puntate della serie dedicata all’«Arcipelago prealpino» sono apparse su «Azione» del 30.5.2022, del 5.9.2022, e dell’8.5.2023. Sul sito www.azione.ch si trova una più ampia galleria fotografica.
Settimanale di informazione e cultura Anno LXXXVI 30 maggio 2023 azione – Cooperativa Migros Ticino TEMPO LIBERO 17
Matilde Fontana, testo e foto
Ricetta della settimana - Carpaccio di prugne ●
Ingredienti
Carpaccio di prugne
Ingredienti per 4 persone
30 g di pistacchi
2 rametti di timo
2 c di zucchero
6 susine non troppo molli, ad esempio rosse e a polpa rossastra
1 limone
3 c di sciroppo di datteri
2 c di senape
6 c d’olio d’oliva
50 g di formaggio erborinato, ad esempio stilton pepe nero macinato fresco sale
Preparazione
1. Tritate grossolanamente i pistacchi. Sfogliate il timo. Fate caramellare lo zucchero in un tegame finché assume una colorazione ambrata. Aggiungete i pistacchi e la metà delle foglioline di timo e mescolate brevemente. Versate tutto su un foglio di carta da forno e lasciate raffreddare.
2. Tagliate le susine a fettine il più sottile possibile da entrambi i lati fino al nocciolo, con il coltello o la mandolina.
3. Per la salsa, spremete il limone e mescolate il succo con lo sciroppo di datteri, la senape e l’olio.
4. Distribuite un po’ di salsa nei piatti. Accomodate le fette di susina sulla salsa. Sbriciolate sulle susine il croccante di pistacchi e il formaggio erborinato. Irrorate con il resto della salsa e condite con timo, pepe e un po’ di sale.
Consigli utili
Con la mandolina tagliate le susine per il lungo, verso la direzione del solco, perché così evitate di tagliare anche il nocciolo. Utilizzate il resto della frutta per la preparazione di smoothie, confettura e insalata oppure per arricchire il muesli. Questa ricetta si può realizzare anche con la varietà regina claudia, le susine gialle o le prugne. I frutti devono essere maturi ma con la polpa bella soda.
Preparazione: circa 30 minuti.
Per persona: circa 5 g di proteine, 22 g di grassi, 26 g di carboidrati, 330 kcal/1350 kJ.
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Settimanale di informazione e cultura Anno LXXXVI 30 maggio 2023 azione – Cooperativa Migros Ticino TEMPO LIBERO 18 Da tutte le offerte sono esclusi gli articoli già ridotti. Offerte valide solo dal 30.5 al 5.6.2023, fino a esaurimento dello stock
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Fucili e pistole testimoni di epoche diverse
Collezionismo ◆ Una raccolta di pezzi originali che raccontano non tanto delle storie, quanto «la» Storia
Maria Grazia Buletti
«Il mio porto d’armi non ha proprio nulla a che vedere con la mia passione e mi serve solo perché lavoro nell’ambito della sicurezza. Da polimeccanico, ho sempre subito il fascino di quella meccanica rude delle armi storiche, quelle che vanno dal 1880 alle prime armi delle due guerre mondiali. È straordinario sapere che sono state realizzate con attrezzi che hanno dell’incredibile! Le prime macchine utensili erano veramente particolari per quei tempi; vi hanno costruito cose pazzesche, comprese queste armi». Daniele Frei è un appassionato collezionista di armi perché è attratto dalla storia che raccontano. Si capisce quando descrive minuziosamente ogni pezzo, attribuendogli un vissuto che esula dall’arma stessa e traccia la storia dell’essere umano.
«L’arma nasce nella preistoria con le lance, quando l’uomo aveva necessità di procacciarsi il cibo per sopravvivere. Nel tempo ha subito uno sviluppo anche per l’offensiva, che non voglio approfondire perché vedo questa collezione come pezzi da difesa o come deterrente, anche se purtroppo tutti siamo coscienti che se uno deve difendersi, è perché qualcuno lo ha attaccato». Egli respinge i pregiudizi e risponde pacatamente alle nostre domande più scomode. Ma che vanno poste, soprattutto in un momento storico che fa delle armi qualcosa di estremamente rumoroso e offensivo
che vorremmo finisse quanto prima. «Io sono un detentore di armi privato e stigmatizzo la situazione bellica che stiamo vivendo in Europa e in tutto il mondo. Per questo, valuto molto bene con chi parlare della mia collezione, o a chi dare spiegazioni, a chi raccontare la storia attraverso le mie armi. Non lo faccio con chi potrebbe fraintendere o classificarmi, a torto, fra le persone “bellicose” o “fanatiche delle armi”».
Frei dimostra che si può essere collezionisti appassionati senza cadere nel luogo comune: «Un esempio di cronaca è quello del giovane americano che ha fatto una strage, subito descritto dai media come “appassionato di armi e razzista”, come fossero due concetti conseguenti». Dice che poi purtroppo la gente li collega erroneamente e fa di tutta l’erba un fascio, «anche quando si parla di collezionisti come me, che nel maneggiare un’arma sono sempre più accorti e prudenti di quanto la legge non imponga: non la do in mano a chiunque, e ricordo la prima regola: bisogna sempre pensare sia carica anche se ovviamente non lo è; in ogni caso, bisogna sempre fare le operazioni di scarica prima». Arriviamo alla sua collezione: «Quella vera e propria è iniziata abbastanza recentemente, nel 2010. Prima, per anni ho avuto i classici vecchi fucili d’ordinanza svizzeri (modello K11 e K31 e tanti altri retrodatati). Poi ho cominciato ad acquistarne qualche
Giochi e passatempi
Cruciverba
San Pietro ha molta gente in fila davanti al Paradiso. Ad un certo punto dice ad un vescovo: «Tu non puoi entrare, quando dicevi la messa dormivano sempre tutti! Vieni avanti tu che sei più meritevole!» E il vescovo: «Ma quello è un semplice autista!» «Certo ma…» Termina la frase a cruciverba ultimato leggendo le lettere evidenziate.
(Frase: 6, 7, 9, 5)
ORIZZONTALI
1. Un nipotino di Paperino
4. Particolare curioso e inedito
11. Osso del corpo umano
13. L’età dei francesi
14. Al quale
15. Corpuscolo di materia
17. Colpisce dritto al naso
19. Genere di poesia
21. Sigla di un’imposta
23. Cime senza inizio
24. Amò la ninfa Smilace e... pianta bulbosa
26. Le separa la «q»
27. Un pronome
28. Isola dell’arcipelago
della Sonda
29. Il «nome» di Macron
30. Voce del poker
31. Uno Scola regista
33. Monete indiane
altro, a scambiarli, e a frequentare le borse delle armi a Lucerna e a Losanna (per due anni si è tenuta anche a Bellinzona)». Il suo primo acquisto: «Me lo ricordo bene, era un Moschetto 31 comprato all’Arsenale di Bellinzona dove ero andato per i soliti acquisti di coperte e attrezzi dell’esercito. Quella volta, vedendo tante persone che uscivano con il moschetto in braccio, ho chiesto informazioni. Li vendevano a 80 franchi l’uno. Ho dato un’occhiata, ho ascoltato cosa si diceva (i calci più belli, le serie migliori…). Me n’era piaciuto uno, così, dopo una verifica in merito alla mia persona, sono rientrato a casa con il mio primo
pezzo da collezione: una bella arma di ordinanza svizzera che ho tenuto come un gioiello». Questi «gioielli» «sono tutti bene al sicuro, in tre casseforti, una delle quali ha una vetrina per poterli vedere senza aprire la piccola esposizione. Poi ci sono alcuni fucili, naturalmente privi dell’otturatore, appesi al muro». I cimeli hanno valore per lo più affettivo: «Quello venale varia dai 400 ai 1000 franchi, ma armi particolari come, ad esempio, quelle impiegate nello sbarco in Normandia possono anche quadruplicare di prezzo». L’arma a cui è più affezionato è la sua prima pistola: «Una SIG P220 acquistata d’occa-
sione tramite il mio portinaio, con un permesso di acquisto della polizia, con la quale ho superato l’esame per il porto d’armi professionale».
Fra i più originali: «Ho un fucile Enfield N°1 Mk3 del 1944: il calcio di fucili come questo è realizzato in legno particolare; è di origine inglese, costruito sotto licenza in India, esportato in servizio in Sudafrica e usato da polizia o militari. Gli inglesi colonizzavano il mondo e davano la licenza di produzione degli Enfield alle nazioni del Commonwealth». Infine, altre chicche: «Una pistola usata dal KGB russo e datata 1987 (due anni prima del crollo del muro di Berlino): altre come questa erano prodotte sotto licenza in Bulgaria e nella DDR (queste ultime più rare da trovare)».
Ha ancora un sogno: «Vorrei avere un SVT Dragunov (fucile russo), sempre per il fascino dell’arma che risale al dopoguerra» E riassume la passione per la sua collezione: «Queste armi raccontano soprattutto la loro storia; quelle nuove mi interessano meno perché solo fra 50 anni potrebbero raccontare la loro, e sarà diverso. Fra il 1891 e il 1920 i russi costruivano i fucili con parti difficilmente intercambiabili: ognuno era leggermente diverso anche di 4 o 5 decimi, se non di più, e i pezzi venivano adattati con la lima uno all’altro. Oggi abbiamo tolleranze a livello centesimale e tutto è omologato a norma, senza storia e senza gloria».
Vinci una delle 2 carte regalo da 50 franchi con il cruciverba e una carta regalo da 50 franchi con il sudoku
35. Attore inglese
36. Tribunale Amministrativo Regionale
37. Esame clinico (sigla)
39. Alleati dei muscoli
40. Una frittata col ripieno
41. Congiunzione
VERTICALI
1. Caratteristica positiva
2. Possono esserlo le volontà
3. Si rende alle bandiere
5. Simbolo chimico del sodio
6. Prima persona latina
7. Riservata a te con affetto
8. Un colore
9. Possessivo
10. In pochi come in molti
12. La tirlindana può averne più di uno
16. Nuca
18. Primo elemento di parole scientifiche che significa uovo
20. Misura catastale
22. Deposito militare
25. Avverbio poetico
26. Non compatti con piccole cavità
28. Giudice per le indagini preliminari
29. Libretto per appunti
30. Terapie
32. Trasmission Control Protocol
33. Memoria del PC
34. Il mangiare degli inglesi
36. È finito... in fondo
38. Le iniziali dell’attrice Theron
Regolamento per i concorsi a premi pubblicati su «Azione» e sul sito web www.azione.ch
Soluzione della settimana precedente
BUONO A SAPERSI – Il mercurio è l’unico metallo che rimane… Resto della frase: …LIQUIDO A TEMPERATURA AMBIENTE
L I Q UAM I
I D OM AR
MO T R E M
PLAY SA
OV EST R A TA
U ESTO R Z AR
FOR OS A M N B
F IN E O NES TO
I premi, tre carte regalo Migros del valore di 50 franchi, saranno sorteggiati tra i partecipanti che avranno fatto pervenire la soluzione corretta entro il venerdì seguente la pubblicazione del gioco. Partecipazione online: inserire la soluzione del cruciverba o del sudoku nell ’apposito formulario pubblicato sulla pagina del sito. Partecipazione postale: la lettera o la cartolina postale che riporti la soluzione, corredata da nome, cognome, indirizzo del partecipante deve essere spedita a «Redazione Azione, Concorsi, C.P. 1055, 6901 Lugano». Non si intratterrà corrispondenza sui concorsi. Le vie legali sono escluse. Non è possibile un pagamento in contanti dei premi. I vincitori saranno avvertiti per iscritto. Partecipazione riservata esclusivamente a lettori che risiedono in Svizzera.
Settimanale di informazione e cultura Anno LXXXVI 30 maggio 2023 azione – Cooperativa Migros Ticino TEMPO LIBERO 19
Daniele Frei, collezionista d’armi.
9563 724 81 7241 589 36 8134 965 27 1 3 8 5 2 4 7 6 9 4729 638 15 5697 812 43 2 8 7 6 3 9 1 5 4 3458 176 92 6912 453 78
ALANI ANG EL
1 23 4 567 8910 11 12 13 14 15 16 17 18 19 20 21 22 23 24 25 26 27 28 29 30 31 32 33 34 35 36 37 38 39 40 41 Sudoku Scoprite i 3 numeri corretti da inserire nelle caselle colorate. 1 96 41 8 28 7 9 5 8 9 3 17 45 46 7 32 5 16
Gelati di produzione propria
Gelati fatti in casa
6.95
9.95 Porzionatore per gelato disponibile in rosa, color argento o nero, il pezzo
6.95 Stampo in silicone per ghiacciolo Kitchen & Co.
4 pezzi
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4.95 Stecco per gelato cavalluccio marino Kitchen & Co. 6 stecchi, il set
Stampi per gelati su stecco Kitchen & Co. 75 ml, 4 pezzi
ATTUALITÀ
Intervista a Pascal Couchepin
Quali sono le sfide che attendono la Svizzera? Ce lo dice l’ex consigliere federale
Al voto la Legge sul clima Il 18 giugno il popolo svizzero è chiamato alle urne. Gli argomenti dei favorevoli e dei contrari
Ucraina, nessuna tregua
Per Putin e Zelensky non è in gioco la carriera ma la vita, non si arrenderanno. Cosa succederà?
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Il telelavoro non favorisce le donne
La sfida all’Occidente L’importanza geopolitica dei BRICS, sigla che sta per Brasile, Russia, India, Cina e Sudafrica
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Economia ◆ Secondo gli ultimi studi, gli uomini hanno il 50% di probabilità in più di optare con successo per lo smart working
La crisi sanitaria è ufficialmente conclusa, ma ci vorrà tempo per comprendere fino a che punto ci abbia cambiato. Può darsi che gli effetti virtuosi che auspicavamo stiano lavorando nel profondo, nonostante un generale senso di frustrazione per la velocità con cui siamo tornati al business as usual. Interessante opinione è quella della scrittrice Michela Murgia: sarà la letteratura degli anni a venire, più della memoria individuale, a riconciliarci con il trauma che abbiamo vissuto e la sua eredità, nelle diverse sfumature generazionali. Quello con cui già dobbiamo misurarci, invece, è la rivoluzione del modo di lavorare: il tempo che trascorriamo in remoto è stabilmente aumentato, il telelavoro piace ed è qui per restare. La richiesta di lavoro da remoto e ibrido è in crescita esponenziale e i datori di lavoro – volenti o nolenti – si stanno adeguando, se non altro per rispondere ai bisogni dettati dalla contingenza demografica: si sa, la concezione di qualità di vita dei nativi digitali non prevede la presenza in ufficio otto ore al giorno.
Si stima che l’accelerazione indotta dall’emergenza sanitaria abbia concentrato in 3 anni un’evoluzione, che, in tempi normali, ne avrebbe richiesto 40. Senza la pandemia non sarebbe stato possibile condurre ciò che è stato definito un grande esperimento globale sulla flessibilità, di spazio e tempo, dei modelli lavorativi; né avremmo potuto gettare uno sguardo così lontano, illuminando un futuro non ancora arrivato: un’occasione decisamente fortunata e inconsueta per l’umanità. Ora, finita l’emergenza, è come se ci trovassimo sul set capovolto di «Ritorno al futuro». Infatti, adeguare l’organizzazione del lavoro sulla base di un’innovazione tecnologica così repentina non garantisce che sia avvenuta, nel contempo, un corrispondente avanzamento della cultura aziendale e sociale; né che siano stati pensati e introdotti i necessari correttivi per evitare che si traduca in flessibilità per pochi e fragilizzazione per molti.
Un caso eclatante riguarda la questione di genere. Le indagini svolte durante la pandemia rilevano che uomini e donne non hanno beneficiato allo stesso modo del telelavoro e pensarlo come soluzione ai problemi di conciliabilità potrebbe rivelarsi un’arma a doppio taglio per le lavoratrici. Intanto proprio perché massicciamente impiegate in ambiti e mansioni che prevedono il contatto con il pubblico e la presenza fisica, le donne usufruiscono meno del lavoro a distanza. Oltretutto, commercio, accoglienza turistica e cura personale sono i settori che hanno subito le chiusure più drastiche, con ovvie ripercussioni sui posti di lavoro femminili, ciò che ha portato a ribattezzare she-ces-
sion (she in inglese significa lei) la recessione da Covid. Ma anche quando le coppie hanno avuto accesso al telelavoro in modo paritario, l’accresciuto carico derivante da scuole chiuse, attività extrascolastiche sospese, preparazione dei pasti, cura degli anziani e cosi via si è più frequentemente concentrato sulle donne.
La donna rimane la prima responsabile della cura di casa e famiglia, questo ostacola la sua realizzazione in altri ambiti
Nei casi in cui entrambi i genitori hanno aumentato le ore dedicate al lavoro domestico e di cura, le madri hanno lavorato in presenza di un figlio più spesso dei padri. Di converso, la probabilità di optare con successo per il lavoro da remoto è stata del 50% superiore per i percettori di salari elevati, più frequentemente uomini, colletti bianchi dei settori più avanzati e remunerativi, che godono anche di situazioni private particolarmente favorevoli: sono di razza bianca, hanno un buon livello di istruzione, non giovani, in buona salute, accedono con più facilità a strumenti e infrastruttura tecnologica, vivono in buoni spazi residenziali e in area urbana. Sono solo alcune delle evidenze raccolte dai molteplici studi condotti a varie ripre-
se e su vari campioni, anche geografici, durante il lockdown, rilevamenti che possiamo molto facilmente riportare alla nostra esperienza anedottica.
La professoressa Tammy Katsabian ne ha ricavato un’interessante riflessione: la commistione tra sfera privata e sfera pubblica del tempo e dello spazio, tipica del lavoro da casa, beneficia maggiormente chi può contare su condizioni private migliori; non si tratta delle donne, per due ordini di motivi (The Work Life Virus: working from home and its implications for the gender gap and questions of intersectionality, 2022). Intanto, nella nostra cultura, la donna è la prima responsabile della cura della casa e della famiglia, ciò che produce una serie di ostacoli strutturali alla sua realizzazione in qualsiasi altro ambito che non sia quello privato. Quando i contorni dello spazio pubblico così faticosamente conquistato si fanno meno nitidi, come nel lavoro da casa, ecco che tutte le aspettative e le pressioni sociali su chi debba occuparsi di cosa nel privato si impongono, come testimoniano le esperienze Covid, costringendo le donne ad un ulteriore e del tutto iniquo sforzo per non compromettere le performance professionali.
C’è poi il tema dell’intersezionalità, intesa come sovrapposizione di diverse identità sociali che causano una moltiplicazione di discriminazioni. Se il genere determina uno svantaggio di
partenza nel caso del telelavoro, come si è visto, per le donne appartenenti ai gruppi sociodemografici più fragili lo svantaggio di genere si cumula agli altri. Senza scomodare etnia o disabilità, nel caso della Svizzera possiamo riferirci alla fatica delle madri single o alle cause che determinano una così marcata concentrazione di lavoratrici nei settori scarsamente remunerati.
Katsabian descrive il peso della conciliabilità che grava sulle donne come una sorta di virus che potrebbe diventare mortale lavorando da casa. Eppure alle lavoratrici il telelavoro piace. Da una parte perché la flessibilità spazio-tempo semplifica la gestione del doppio carico che, del resto, pre-esiste e resiste, indipendentemente dalla decisione di optare per questo modello lavorativo.
Dall’altra, tristemente, perché per molte rappresenta un riparo dalle cosiddette microaggressioni del luogo di lavoro, quei bias che minano la sicurezza psicologica e influenzano la produttività. Una circostanza che McKinsey, in un’indagine del 2022 (Women in the worplace 2022, McKinsey &Company – Lean In), ha censito come scelta alternativa alle dimissioni femminili, mai così numerose come nel periodo Covid: un modo di sfuggire alla cultura aziendale tossica, ma con inevitabile effetto boomerang sulla carriera, una vera e propria rinuncia alle proprie ambi-
zioni. Ma sarebbe davvero assurdo rinunciare ad uno strumento così promettente e in grado di migliorare la qualità di vita dell’umanità solo perché le condizioni culturali non sono mature. Al contrario, bisogna accelerare su questo fronte, anche in previsione del fatto che la tecnologia continuerà la sua corsa, senza aspettare. Si tratta allora di affrettarsi a correggere «l’errore di Aristotele», inteso come dicotomia tra uomo animale politico e donna animale domestico, ben illustrato nel libro della filosofa Giulia Sissa. Dobbiamo, cioè, ripensare a come affrontare la fatica della flessibilità indotta dall’innovazione tecnologica in modo da non inasprire le diseguaglianze di genere.
Che di fatica si tratti, lo sostiene anche Travaille Suisse, che propone di allungare a sei settimane le vacanze per tutti i dipendenti. Ma occorre prendere atto che la tradizionale ripartizione dei ruoli domestici e di cura produce una diversa fatica per lavoratori e lavoratrici, a svantaggio di queste ultime; e che le iniquità professionali che ne conseguono sono acuite, non ridotte, dalla digitalizzazione, telelavoro compreso.
La responsabilità di attenuare queste iniquità va condivisa in modo organico tra lo Stato e i datori di lavoro, attraverso politiche familiari e aziendali mirate. Vedremo in una seconda puntata quali potrebbero essere.
● ◆ Settimanale di informazione e cultura Anno LXXXVI 30 maggio 2023 azione – Cooperativa Migros Ticino 21
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Keystone
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«La neutralità svizzera non è un dogma»
L’intervista ◆ Pascal Couchepin parla del caso Credit Suisse-UBS, di diritto d’urgenza e dell’impasse dei rapporti con l’UE
«Penso che il presidente della Confederazione Alain Berset sia, tra i membri del nostro Governo, l’unico che potrebbe decidere di non più candidarsi per una nuova legislatura». Siamo in un anno elettorale, in autunno ci sarà il rinnovo del Parlamento e poi l’elezione del Consiglio federale, e l’ex ministro Pascal Couchepin si lancia in questo pronostico, aggiungendo che «en tous cas, c’est son affaire». In carica dal 1998 al 2009, Couchepin la settimana scorsa ha lasciato il suo Vallese per partecipare a Massagno alla presentazione del libro di Moreno Bernasconi Come cambia la Svizzera. Occasione per noi per intervistarlo sui temi caldi della politica svizzera.
«Nel caso Credit Suisse, sostengo la creazione di una commissione parlamentare d’inchiesta»
Signor Couchepin, iniziamo da una questione che a prima vista potrebbe sembrare marginale: il diritto d’urgenza. Il Consiglio federale lo ha utilizzato più volte nel corso della pandemia e di recente anche per evitare il tracollo di Credit Suisse. Il Governo decide in autonomia e il Parlamento ha poco o nulla da dire. La democrazia svizzera ha un problema?
Sì e no. Negli anni della pandemia ci siamo accorti che le nostre leggi in materia non erano del tutto adatte a rispondere a questa emergenza. C’è stato bisogno di apportare dei correttivi e per questo il Consiglio federale ha fatto ricorso al diritto d’urgenza. Oggi, se facciamo un bilancio, possiamo dire che forse questo strumento è stato utilizzato troppo frequentemente. Ma dirlo adesso è fin troppo facile; sul momento, nel bel mezzo della crisi, il nostro Governo si è mosso bene e devo fare i miei complimenti al Consiglio federale per come ha saputo gestire questa emergenza. In linea generale il diritto d’urgenza deve essere visto come una misura eccezionale. Per questo motivo, e qui passo al caso del Credit Suisse, sostengo la creazione di una commissione parlamentare d’inchiesta. È importante avere una risposta a questa domanda: il Consiglio federale si è mosso correttamente nell’evitare il tracollo di questa banca? Nel 2008 ero presidente della Confederazione e ho dovuto gestire il salvataggio di UBS. In quelle settimane avevo vietato ai miei collaboratori di replicare alle critiche. L’ho fatto perché penso che, stando al Governo, dobbiamo sempre chiederci se le critiche che riceviamo siano o meno pertinenti. Molto spesso non lo sono. Ma dobbiamo essere contenti del fatto che il popolo, attraverso il Parlamento, possa criticare il Governo, anche quando utilizza il diritto d’urgenza. È fondamentale per la democrazia.
Lei, come detto, era in prima linea nel 2008, quando il Governo ha dovuto salvare UBS, che era ormai giunta sull’orlo del precipizio. Cosa significa dover salvare in poche ore una banca di quella grandezza e con essa l’intero sistema finanziario del nostro Paese?
Se penso a quell’emergenza non posso dimenticare il lavoro svolto dalla Banca Nazionale e dal Dipartimen-
to federale delle finanze. Sono stati loro a preparare il piano di salvataggio e non smetterò mai di ringraziarli. E provo lo stesso sentimento di riconoscenza anche nei confronti dei miei colleghi di Governo, che hanno saputo decidere con serenità. In particolare ricordo il grande lavoro fatto da Eveline Widmer Schlumpf, che in quel momento aveva assunto temporaneamente la carica di ministra delle Finanze, visto che il titolare di quel
«Uno per tutti, tutti per uno»
Pascal Couchepin ha scritto la prefazione di Come cambia la Svizzera di Moreno Bernasconi (Edizioni San Giorgio), una raccolta delle riflessioni che il giornalista ha proposto sul «Corriere del Ticino», nella rubrica «26 Cantoni». «Questo libro – osserva l’ex consigliere federale – permette di scoprire le sottigliezze della vita politica dei diversi Cantoni svizzeri e i c ambiamenti in atto, ma in ogni articolo che illustra circostanze particolari si intravede una domanda di fondo: come – a partire dalla costatazione delle diversità – costruire una Svizzera viva, prospera e solidale, rispettosa di personalità collettive e individui?».
«Pur non avendo un motto ufficiale,
Dipartimento, Hans-Rudolf Merz, era stato colpito da un arresto cardiaco. Fu un momento davvero concitato. Successivamente il Parlamento ci aveva criticato per come era stata salvata la banca, ed è un bene che lo abbia fatto, visto che anche in quel caso avevamo fatto ricorso al diritto di urgenza. E poi provo anche un po’ di fierezza personale per come sono riuscito a coordinare le operazioni, con un Governo che all’unanimità aveva
il nostro Paese ne ha adottato uno ufficioso: “Uno per tutti, tutti per uno”. Nel 1860 le regioni alpine del nostro Paese furono devastate da grandi sconvolgimenti climatici. Per alleviare le difficoltà degli abitanti, il Governo svizzero lanciò un vasto progetto di solidarietà. Fu allora che quell’espressione si impose pragmaticamente rieccheggiando (si dice) il motto che legava i tre moschettieri (…) La Svizzera del 1860 era ancora segnata dal trauma della guerra civile del Sonderbund. La scelta del suo motto ufficioso può sembrare forse modesta. Ma esprime lo spirito di riconciliazione che animava la maggior parte dei responsabili politici dei due campi (…)». / Red.
varato il piano di salvataggio di UBS. Il mio merito si limita a questo.
Una quindicina d’anni più tardi la storia si è ripetuta, con il collasso di Credit Suisse. A suo modo di vedere la Svizzera ha subito un danno d’immagine per quanto capitato?
Quelli che pensavano alla Svizzera come a un Paese perfetto si sbagliavano. È un’immagine irreale. Ciò detto, sono stato sorpreso da quanto capitato, ma anche impressionato dalla rapidità di reazione del Governo. Non credo che ci sia stato un danno di immagine per il nostro Paese, anzi per me la Svizzera ne sta uscendo bene. Certo dobbiamo tutti sperare che questa operazione possa ora andare a buon fine.
E qui è inevitabile porle questa domanda: UBS oggi è troppo grande?
E per questo rappresenta un pericolo per il nostro Paese?
Mi rifaccio a quanto dice il CEO di UBS. Per Sergio Ermotti la banca è molto grande a livello a svizzero, ma non lo è su scala internazionale. Occorre trovare un compromesso tra queste due varianti, senza intaccare il dinamismo di UBS e senza prendere rischi inutili. In ogni caso la storia ci insegna che anche in futuro ci saranno altre crisi bancarie. I rischi fanno parte della vita e ancor più del mondo della finanza. Come mi diceva un amico psichiatra: il solo posto in cui non ci sono pericoli è in una tomba. Meglio dunque accettare di correre qualche rischio.
Passiamo ad un altro tema caldo del momento, quello della neutralità, uno dei pilastri della nostra politica estera, che però da quando la Russia ha invaso l’Ucraina, non viene più capito dai Paesi che ci circondano. Un bel guaio?
Ciò che questi Paesi non capiscono è la nostra rigidità su questo tema. La neutralità non è un dogma. Le faccio un esempio, e ci metto un pizzico di ironia. Se applicassimo la neutralità in modo rigido non potremmo neppure entrare in una chiesa e prega-
re per il popolo che è stato attaccato. La neutralità assoluta ci porterebbe anche a queste conseguenze. Ed è quanto vorrebbe chi nel nostro Paese pensa al futuro guardando al passato. Altro tema legato alle nostre relazioni con l’estero: l’Unione europea. Qui il nostro Paese marcia da anni sul posto, siamo davvero in un vicolo cieco?
La Svizzera su questo tema è bloccata. È giunto il momento di fare uno sforzo per rilanciare i negoziati. Ma bisogna anche dimostrare di voler effettivamente raggiungere dei risultati concreti. Non dobbiamo dimenticarci che la popolazione dell’Unione europea è quaranta volte superiore a quella della Svizzera e che il nostro prodotto interno lordo corrisponde ad appena un ventesimo di quello europeo. Certo, dobbiamo difendere i nostri interessi, non siamo un Paese vassallo dell’Unione. Dobbiamo però trovare degli accordi con questo nostro vicino che è molto più forte di noi e di cui abbiamo bisogno, non solo sul piano economico, ma anche per difendere insieme i valori democratici in cui crediamo».
Lei dice che la Svizzera non deve diventare un Paese vassallo dell’UE, ma Bruxelles insiste sul ruolo che della Corte europea di giustizia, chiamata ad avere l’ultima parola in caso di contenziosi con Berna. È il problema dei giudici stranieri, non per nulla c’è chi definisce «coloniale» un possibile accordo di questo tipo con l’UE… Sa, non dobbiamo esagerare. Il numero di casi in cui si dovrà ricorrere a questa Corte sarà molto limitato. E poi come si fa a pensare che la stessa norma, stabilita dall’UE, venga giudicata in due modi diversi? Si tratta di diritto europeo e la Corte non può che essere quella europea. Non dobbiamo quindi ingigantire le controversie che ruotano attorno a questo tribunale. Le nostre relazioni con l’UE vanno ben al di là di questo problema, che resta comunque un nodo politico da sciogliere.
Settimanale di informazione e cultura Anno LXXXVI 30 maggio 2023 azione – Cooperativa Migros Ticino ATTUALITÀ 23
Roberto Porta
Pascal Couchepin e, sotto, l’ex ministro (a sinistra) con Hans-Rudolf Merz e Eveline WidmerSchlumpf nel 2008, l’anno del salvataggio di UBS. (Keystone)
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Per contrastare il cambiamento climatico
Svizzera ◆ Il 18 giugno si voterà la Legge federale sul clima e sull'innovazione. Gli argomenti dei favorevoli e dei contrari
Alessandro Carli
La Svizzera vuole ottenere la neutralità climatica entro il 2050, riducendo il consumo di petrolio e gas naturale. Per raggiungere questo obiettivo, sicuramente ambizioso, il Parlamento ha adottato lo scorso autunno la Legge federale sugli obiettivi in materia di protezione del clima, sull’innovazione e sul rafforzamento della sicurezza energetica, contro la quale l’UDC ha lanciato il referendum, sostenuto da più del doppio delle 50 mila firme necessarie. Per questo partito, è una legge «assurda, inutile e costosa», oltre che «divoratrice di elettricità». Per i sostenitori, la legge è invece moderata perché «mira a decarbonizzare il nostro sistema energetico senza divieti e tasse». L’ultima parola spetta dunque al popolo: il 18 giugno dovrà decidere se è disposto a rinunciare progressivamente alle importazioni di combustibili e carburanti fossili, con una Svizzera più indipendente dal profilo energetico (ora circa il 75% dell’energia è importata), accettando inevitabili sacrifici, soprattutto finanziari. Secondo i sondaggi, il progetto ha il vento in poppa.
La legge in votazione, che dovrebbe entrare in vigore il 1° gennaio 2025, funge da controprogetto indiretto all’iniziativa popolare «Per un clima sano (Iniziativa per i ghiacciai)», depositata nel 2019, che mira a vietare l’impiego di nafta, benzina, diesel e gas naturale a partire dal 2050, iniziativa di cui è stato deciso il ritiro condizionato. Ciò significa che se la legge fosse respinta, l’Iniziativa per i ghiacciai verrebbe sottoposta al voto popolare, probabilmente già nel 2024, sempre che non venga ritirata definitivamente. Governo e Parlamento non vogliono ancorare nella Costituzione – come vorrebbe l’iniziativa – il divieto esplicito dei vettori energetici fossili. Sarebbe un provvedimento estremo. La legge riprende comunque l’obiettivo principale dell’iniziativa di raggiungere un bilancio netto delle emissioni di gas serra pari a zero entro il 2050. Nel 2021 le emissioni di gas serra, rispetto al 1990, erano diminuite del 18%. Per raggiungere la neutralità climatica auspicata tra meno di 30 anni occorrono sforzi maggiori. Dato che non ovunque sarà possibile ridurre a zero l’emissione di gas serra (vedi impianti di incenerimento dei rifiuti, cementifici e agricoltura), le emissioni di CO2 rimanenti, note anche come «emissioni negative», dovranno essere catturate dai serbatoi naturali (fo-
reste) o assorbite da impianti tecnici e immagazzinate nel sottosuolo. In ogni caso, la Svizzera non dovrà emettere più quantitativi di CO2 di quelli che potranno essere assorbiti.
Una strategia difficile da interpretare e attuare. È comunque il solo modo per lottare contro il riscaldamento climatico. Più si aspetta per intervenire – affermano i fautori della legge – e più costosa sarà la fattura. Intanto anche la Svizzera – ricorda il Consiglio federale – avverte gli effetti del cambiamento climatico. Siccità, canicola, forti piogge, penuria di neve, scioglimento dei ghiacciai sono fenomeni sotto gli occhi di tutti. Sul nostro territorio, dall’inizio delle misurazioni, la temperatura media è aumentata di 2,5 gradi, contro +1,2 gradi a livello mondiale. Visto che la Svizzera produce soltanto lo 0,1% delle emissioni mondiali di CO2, i sostenitori del referendum si chiedono quale potrà essere l’impatto ambientale di questa legge. Ma la protezione del clima va affrontata globalmente, sottolineano i fautori del progetto. Per questo motivo, 193 Paesi e l’UE hanno sottoscritto nel 2017 l’Accordo di Parigi, ratificato anche dalla Svizzera, che si è impegnata a ridurre le emissioni di gas a effetto serra. Entro il 2040 le emissioni dovranno diminuire del 75% rispetto al 1990 per raggiungere appunto la neutralità climatica nel 2050.
Ma come superare questi traguardi?
Per ridurre il consumo d’energia fossile, il testo in votazione vede un grande potenziale nel settore della ristrutturazione, con programmi d’incentivazione finanziaria. La Confederazione stanzierà un contributo massimo di due miliardi di franchi, spalmato su 10 anni, per il risanamento degli edifici e la sostituzione degli impianti di riscaldamento a gas o a nafta con sistemi più rispettosi del clima. Attualmente in Svizzera sono ancora in funzione circa 900mila impianti di riscaldamento a nafta o gas. Essi sono responsabili di circa un quarto delle emissioni nazionali di gas a effetto serra. Andranno rimpiazzati anche i sistemi di riscaldamento elettrici, poco efficienti e che richiedono molta energia. In inverno essi consumano circa il 10% dell’elettricità della rete svizzera. Inoltre si prevede di destinare 1,2 miliardi di franchi su sei anni alle imprese che investono nelle tecnologie rispettose del clima. Si dovrebbe così giungere a una riduzione delle emissioni pari al 90% entro il 2050.
Tutti i principali partiti del Paese, a eccezione dell’UDC, sostengono la nuova legge sul clima. Essa permetterà di proteggerlo efficacemente, consentendo al contempo alla Svizzera di liberarsi dai combustibili, dai carburanti fossili e di diventare più indipendente dal punto di vista energetico. Un’eccessiva dipendenza dall’estero (l’aggressione russa all’Ucraina ne è una prova) è un cattivo affare. Inoltre gli investimenti nelle tecnologie e nei processi innovativi offriranno nuove opportunità all’economia svizzera e favoriranno la creazione di posti di lavoro, come sottolinea la consigliera nazionale Jacqueline de Quattro (PLR/VD). A differenza del voto sul
Migros: non è troppo tardi!
«Migros è pioniere in materia di protezione del clima da oltre quarant’anni», afferma Ursula Nold, presidente dell’amministrazione della Federazione delle Cooperative Migros. «In qualità di maggiore datore di lavoro privato della Svizzera abbiamo una responsabilità particolare in questo senso. Anche noi ci impegniamo a raggiungere la neutralità climatica entro il 2050 al più tardi, questo non solo nelle nostre aziende e nei nostri uffici, ma pure nell’insieme della catena di approvvigionamento».
Si tratta di un progetto ambizioso ma «siamo sulla strada giusta: stiamo riducendo costantemente la quota di
CO2, nel 2021, stavolta a difendere la legge vi è anche la maggior parte degli ambienti economici, come Economiesuisse, l’Unione svizzera dei contadini, la Federazione svizzera del turismo o l’Unione svizzera degli imprenditori.
L’UDC ritiene invece che la nuova legge provocherà un forte aumento del consumo di elettricità, proprio quando autorità ed esperti parlano di penuria di corrente e agitano lo spauracchio dei blackout. Secondo il più grande partito del Paese, raggiungere la neutralità climatica entro il 2050 significa di fatto bandire la benzina, il diesel, il gasolio e il gas, ossia il 60% del nostro consumo energetico. Tutto ciò senza una valida alternativa. Di
combustibili fossili nella nostra logistica e nella nostra industria. Gli impianti fotovoltaici sulle nostre proprietà immobiliari stanno generando sempre più elettricità ogni anno. Dal 2019 abbiamo ridotto le nostre emissioni di CO2 di oltre il 50 per cento. Inoltre incoraggiamo e sosteniamo i nostri fornitori nel loro percorso verso la neutralità climatica». Neutralità climatica che si può raggiungere solamente con il sostegno della società nel suo complesso, continua Ursula Nold. «Invito dunque tutti a votare a favore della Legge sul clima e sull’innovazione il 18 giugno». / Red.
conseguenza il fabbisogno di elettricità crescerà e le bollette delle famiglie aumenteranno di diverse migliaia di franchi all’anno. Secondo uno studio del Politecnico federale di Zurigo – citato dal comitato referendario – i costi dell’energia triplicheranno, salendo da 3000 a 9600 franchi pro capite. Per l’UDC, dimezzare il consumo di benzina, diesel¸ petrolio e gas entro il 2031, ossia già fra otto anni, è una proposta irrealistica.
Anche per i suoi sostenitori la legge aumenterà inevitabilmente la domanda di elettricità. L’Associazione svizzera per la protezione del clima parla di una maggiore richiesta di elettricità che oscilla tra il 25% e il 40%, che la Svizzera sarà chiamata a coprire. «È innegabile che, in caso di accettazione della legge, i bisogni di elettricità aumenteranno a causa della sostituzione delle energie fossili», ha ammesso il consigliere federale Albert Rösti, che affronta la sua prima votazione popolare come neo ministro UDC dei trasporti e dell’energia e che è chiamato a sostenere un progetto contro il suo partito e al quale si opponeva quando era deputato.
Lo stesso Rösti, pur difendendo la legge, nutre qualche dubbio sulla capacità di raggiungere gli obiettivi fissati, ricordando che abbiamo a che fare non solo con severi parametri da rispettare entro il 2050, ma anche con un bisogno di elettricità in Svizzera che raddoppierà entro la stessa data. A suo modo di vedere, «si dovrà incrementare la produzione indigena di elettricità e procedere a massicci tagli dei consumi. La costruzione di nuove centrali idroelettriche, solari ed eoliche avrà anche un impatto sull’ambiente, soggetto a inevitabili ricorsi». I sostenitori del referendum ammettono pure la necessità di lottare contro le conseguenze del riscaldamento climatico. Occorre però agire con coerenza, senza farsi travolgere dalla psicosi ecologica e credere che con questa strategia i nostri ghiacciai domani non si ritireranno più. Poi, perché osannare la mobilità elettrica, sebbene pulita, quando si diffondono allarmismi sulla mancanza di corrente? Nella sua azione politica, Albert Rösti dà la priorità all’energia, che prevale sul clima, e sottolinea: «Soltanto quando ci sarà abbastanza elettricità, la gente sarà disposta a compiere il passo verso la mobilità elettrica e gli impianti di riscaldamento ecologici».
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La legge in votazione funge da controprogetto indiretto all’Iniziativa per i ghiacciai. Nella foto un ghiacciaio che si ritira. (Pixabay)
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In Ucraina nessuna tregua è possibile
L’analisi ◆ Per Putin e Zelensky non è in gioco la carriera ma la vita, non si arrenderanno. Cosa succederà? Le ipotesi sul tavolo
Lucio Caracciolo
Se un marziano osservasse il campo di battaglia in Ucraina potrebbe stabilire che la tregua, se non proprio la pace, è a portata di mano. Avrebbe infatti annotato i seguenti punti chiave. Primo. Il colpo di Stato a Kiev che avrebbe dovuto assegnare l’Ucraina alla Russia è clamorosamente fallito. Secondo. La più che deficitaria prestazione delle Forze armate russe, formali e informali, ne ha compromesso la credibilità. Terzo. I russi hanno però conquistato buona parte del Donbass, ancor più ne hanno annesso per decreto. Oggi stanno finendo di fortificare le linee in vista della controffensiva ucraina, se e quando sarà. Operazione che delimita un confine all’interno dei territori annessi, il che vuol dire che quanto è esterno alle linee difensive è trattabile.
La lotta per la sopravvivenza della Nazione aggredita si fa però più complicata e più costosa
Quarto. Gli ucraini hanno resistito valorosamente all’invasione, guadagnandosi il rispetto del mondo, anche di qualche russo. D’ora in avanti, causa la totale dipendenza dall’Occidente che non ha più molto da fornire in termini di armi e munizioni, la lotta per la sopravvivenza della Nazione aggredita si fa però più complicata e più costosa. Quinto: nei territori occupati non ci sono quasi più ucraini filo-Kiev, uccisi dai russi o fuggiti. Nell’ipotesi improbabile di riuscire a recuperare quelle terre armi in pugno, come ne gestirebbero la popolazione? Sesto. Ne consegue che in un eventuale negoziato Kiev potrebbe rinunciare al rimpatrio della Crimea e di una parte del Donbass in cambio dell’ingresso nella NATO o qualcosa di molto simile a questo. Oltre che accelerare l’integrazione nello spazio UE. I russi potrebbero rinunciare a parte dei territori annessi, specie le aree in cui c’è ancora una presenza filo-Kiev di peso (Kherson e pezzi dell’oblast di Zaporijja).
E accettare la presenza atlantica in Ucraina, ormai dato di fatto, senza che questo significhi formalizzare l’ingresso dei fratelli/nemici nell’Alleanza atlantica.
A questo punto il fronte sarebbe
congelato, una forza di interposizione internazionale si schiererebbe fra i due rivali. I quali potrebbero continuare a rivendicare ciascuno ciò che crede proprio, rinunciando però a contendersi quegli spazi con la guerra. Tutto questo se non sapessimo che nelle relazioni umane c’è sempre un grado prevalente di irrazionalità e di sentimento. Il marziano, a quanto pare piuttosto insensibile – o sarà l’intelligenza artificiale? – non ne tiene conto. Nelle relazioni umane c’è sempre un grado prevalente di irrazionalità e di sentimento, il marziano non lo sa
Noi dobbiamo. Sempre per punti. Primo. Siamo in una guerra di famiglia, fra cugini slavi che si detestano e hanno un forte senso dell’onore e una decisa propensione alla violenza. Non si arrenderanno che per sfinimento. Secondo. Per Putin e Zelensky è in gioco non la carriera, la vita. Un passo indietro e finiscono liquidati, in un modo o nell’altro. Per loro è importante, se non la vittoria piena, almeno
Curiosità: il portale che controlla i russi
Il portale elettronico «Gosuslugi», letteralmente «servizi pubblici», è stato un fiore all’occhiello dello Stato russo ma si è di recente trasformato in una specie di «Grande Fratello» che controlla i movimenti dei cittadini. Ne parla Rosalba Castelletti in un articolo pubblicato su «la Repubblica» la settimana scorsa. «Creato nel 2009 sotto la presidenza di Dmitrij Medvedev (…) aveva liberato il cittadino russo dalle pastoie della farraginosa burocrazia post-sovietica. Nel 2017 contava 65 milioni di utenti e alla fine del 2019 aveva superato i 100 milioni, più di due terzi della popolazione del Paese». In cambio dei dati individuali, permetteva di ottenere un documento, pagare le tasse o fissare una visita medica. «Lo scorso aprile quello che sembrava un paradiso digitale si è trasformato in una prigione di staliniana
memoria». Il Parlamento ha infatti approvato una legge che introduce le «convocazioni elettroniche». D’ora in poi la chiamata alle armi – spiega Castelletti – verrà inviata attraverso il portale governativo «Gosuslugi» e sarà considerata automaticamente come consegnata. «Non aiuta neppure non avere mai creato un profilo sul portale o averlo cancellato: la cartolina, in questo caso, verrà inviata a un registro digitale governativo di tutti i russi idonei al servizio militare e, dopo sette giorni, verrà considerata come recapitata». Da quel momento chi non si presenta all’ufficio di reclutamento entro venti giorni, verrà considerato un disertore. «Non potrà lasciare il Paese, ottenere o rinnovare la patente, acquistare o vendere immobili, contrarre prestiti o registrare una piccola impresa». / Red.
qualcosa che le assomigli e permetta di salvare la faccia.
Terzo. Non è solo questione di capi, ma di Nazione e impero. La Nazione Ucraina sta conquistandosi la
Intanto sul campo di battaglia si continua a morire. Nella foto: soldato ucraino ferito nei pressi di Bakhmut. (Keystone)
legittimazione internazionale e soprattutto sta consolidando un tessuto culturale tutt’altro che omogeneo. Da periferia di altrui imperi – russo, polacco, asburgico – a centro di sé stessa.
L’impero russo, se sconfitto, minaccia di collassare. È questa l’aspirazione soprattutto di polacchi, baltici, scandinavi e romeni, non troppo propensi a lasciare i conti in sospeso. Letto questo, immaginiamo che il marziano ci ripensi. E valuti l’improbabilità di un cessate-il-fuoco ravvicinato. Alla fine, due ipotesi. Saranno russi e americani a stipulare un accordo; gli ucraini dovranno decidere se accettarlo o respingerlo. Oppure saranno i russi a cedere, per destrutturazione del fronte interno. Con relativo cambio di leadership o di regime, oltre alla possibile disgregazione della Federazione.
Quanto a noi europei, comunque finisca la guerra in Ucraina saremo più insicuri, più deboli e meno benestanti
Quanto a noi europei, comunque finisca saremo più insicuri, più deboli e meno benestanti. Ogni cambio di paradigma geopolitico di un tale spessore provoca riflessi che vanno molto al di là del campo di battaglia. E noi questo campo ce l’abbiamo in casa, anche se ci illudiamo di esserne lontani. Ma il marziano, che ha un altro senso dello spazio, sa bene dove siamo e dove resteremo.
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La sfida all’Occidente
Il punto ◆ Il conflitto ucraino ha reso i BRICS – Brasile, Russia, India, Cina e Sudafrica – un elemento capace di modificare l’assetto geopolitico mondiale
Alfredo Venturi
Se la coca è vita
Colombia ◆ Il crollo del prezzo della droga equivale a una crisi economica drammatica
Angela Nocioni
Quando nel 2001 Jim O’Neill, l’economista britannico che fu a lungo ai vertici della Goldman Sachs, pose sotto la lente dell’analisi il fenomeno delle grandi economie emergenti, prese in considerazione quattro Paesi: Brasile, Russia, India e Cina. Dunque per identificarli lanciò l’acronimo BRIC. Ma nove anni più tardi una quinta potenza, il Sudafrica, entrò a far parte del gruppo, da allora il nuovo soggetto delle relazioni mondiali si è chiamato BRICS. Con questo nome si è gradualmente imposto un ambizioso protagonista della finanza internazionale, capace di metterne in discussione i fondamenti tratteggiando un’alternativa all’attuale sistema. Che cosa hanno in comune questi Paesi? Prima di tutto la sovrabbondanza di popolazione, territorio e risorse naturali, quindi uno sviluppo tuttora in corso con indici di crescita tendenzialmente alti.
La New Development Bank
Il gruppo, che rappresenta circa un terzo della popolazione mondiale, celebrò nel 2009 il suo primo vertice. Ma non ne uscì che un semplice impegno a una più stretta cooperazione in materia finanziaria. Il passo decisivo, il primo affacciarsi fra i grandi attori della scena mondiale, risale al 2014 quando durante il Vertice di Fortaleza i Cinque fondarono la New Development Bank con un capitale iniziale di cinquanta miliardi di dollari successivamente portati a cento. Cominciò così a delinearsi la sfida dei BRICS all’attuale assetto a guida occidentale, fondato sul ruolo determinante del Fondo Monetario Internazionale (FMI) e della Banca Mondiale.
È stato un fattore esterno, il conflitto ucraino e le sue conseguenze sugli equilibri planetari, a rendere i BRICS un elemento capace di modificare l’assetto geopolitico. I cinque Paesi registrano già da qualche tempo un Prodotto Interno Lordo superiore a quello dell’Unione Europea e sempre più vicino a quello americano. Ovviamente del tutto diversa è la situazione quando si parla di PIL pro capite, perché fra gli emergenti il prodotto va spartito su un’amplissima base demografica.
Per esempio la Cina, pur avvicinandosi al livello degli USA in termini globali, ne è lontanissima nelle statistiche individuali. In ogni caso le prospettive di crescita fanno sì che numerosi Paesi guardino con interesse al gruppo aspirando a farne parte.
Meno dipendenza dal dollaro
I BRICS si propongono di offrire ai Paesi in crisi un sostegno finanziario non più legato alle condizioni fin qui imposte dal FMI e dalla Banca Mondiale, spesso criticate per la loro durezza e accusate di mirare al controllo se non all’asservimento delle economie. Si propongono di ridurre la dipendenza dal dollaro americano. Per questo promuovono il pagamento delle transazioni internazionali con le monete locali e prefigurano la sostituzione del dollaro come valuta di riferimento con una nuova moneta, che potrebbe essere lanciata in agosto al vertice di Città del Capo, o con una delle valute BRICS, presumibilmente lo yuan cinese, cioè la moneta del Paese economicamente più forte.
Il sistema BRICS cerca dunque di contrastare il predominio finanziario occidentale, in particolare prendendo di mira la posizione egemonica degli USA e consacrando il ruolo internazionale della Cina, la sua assertività economica, la sua penetrazione commerciale in vaste aree economiche, per esempio in Africa dove gli investimenti di Pechino sono in costante aumento. Lo scorso marzo il presidente del Ghana Nana Akufo-Addo, ricevendo ad Accra la vicepresidente degli Stati Uniti Kamala Harris, le ha fatto polemicamente notare che Washington è ossessionata dalle attività cinesi nel Continente, ma che in realtà «qui non esiste alcuna ossessione».
L’ambizione dei BRICS si fonda sul fatto che gli indici di sviluppo dei Paesi che ne fanno parte sono e con ogni probabilità continueranno a essere mediamente superiori a quelli dell’Occidente, e dunque il loro peso economico è destinato a crescere più rapidamente. D’altra parte lo stesso O’Neill che tenne a battesimo il gruppo sottolinea che questa crescita non è armonica, per esempio mentre la Cina sta realizzan-
do il suo potenziale di sviluppo crescono più lentamente il Brasile, la Russia e l’India, che hanno bisogno di potenziare le attività industriali e non basarsi soltanto sulla fornitura di materie prime. Secondo molti analisti, in ogni caso, difficilmente questa evoluzione potrà intaccare più di tanto la forza del dollaro, che si fonda sul suo persistente ruolo di valuta di riserva e sulla potente economia degli Stati Uniti.
Questi Paesi ansiosi di rielaborare il sistema delle relazioni internazionali ne mettono in discussione l’impronta occidentale. È una sfida politica e culturale prima ancora che finanziaria, che attinge dal crogiolo della guerra ucraina una forte motivazione anti-americana. Intanto si allunga la lista dei Paesi che vorrebbero entrare a far parte dei BRICS: l’Arabia Saudita, l’Algeria, l’Argentina, il Messico, l’Egitto, l’Iran, il Vietnam, la Nigeria, l’Indonesia… Non senza qualche contraddizione nella definizione del fenomeno: qualcuno parla per esempio di resurrezione del Terzo Mondo, dimenticando che questa categoria si contrapponeva anche a un blocco a guida sovietica, mentre oggi l’elemento principale di ciò che resta dell’URSS, la Russia, è parte dei BRICS.
Verso un futuro bipolare
Si fanno anche paragoni con il Movimento dei non allineati, che come il Terzo Mondo si confrontava con due modelli alternativi respingendoli entrambi. Inoltre se ne parla come di un’espressione del «Sud del mondo», un’etichetta che difficilmente potrebbe adattarsi alla Federazione Russa. Infine questo gruppo arrembante non corrisponde affatto alla visione, alimentata soprattutto dalla Russia impantanata nel conflitto ucraino, del sistema multipolare che dovrebbe prendere il posto dell’attuale modello globalizzato. In realtà la valenza sempre più chiaramente politica dei BRICS sembra preludere, se sarà confermata la tendenza a un massiccio allargamento del gruppo, a un futuro sostanzialmente bipolare. Da una parte l’Occidente gravitante attorno agli USA e all’UE, dall’altra il blocco degli emergenti a guida russo-cinese.
È crollato il prezzo della coca. Le leggi dell’economia vigono anche nel mondo dell’economia illegale, narcotraffico incluso. Se ci sono Paesi o grandi aree interne che di cocaina vivono, se l’export della coca è per loro la principale risorsa, non è difficile immaginare che il crollo del suo prezzo equivalga ad una crisi economica drammatica. Oggi in alcune aree della Colombia sta avvenendo quel che in Venezuela avvenne quando crollò il prezzo del petrolio alla fine del Governo di Hugo Chavez (2013-2017). Per immaginare le dimensioni del disastro basta fare due conti. Diversi analisti considerano che il volume del denaro legato al narcotraffico equivalga al 4,5% del PIL della Colombia. Consideriamo che si sbaglino per eccesso e immaginiamo una percentuale che è meno della metà: il 2% del PIL, quindi intorno ai 7 miliardi di dollari. Cosa succede se i prezzi della coca crollano fino a valere meno di un quarto del prezzo di partenza? Come prima cosa la quantità di soldi da ripartire lungo la filiera produttiva si riduce grosso modo in uguale proporzione. Un simile sprofondamento dei prezzi distrugge il volume d’affari. Dopo aver passato decenni a combattersi con argomentazioni affilate tra chi è favorevole a una politica di cancellazione delle coltivazioni di coca e chi invece consiglia di mutarle lentamente, oggi gli esperti colombiani dicono: «I prezzi bassi sono la più efficace politica possibile di cancellazione delle coltivazioni».
Una giornalista della rivista «Cambio» riporta: «Una volta un chilogrammo di cocaina e di pasta di coca costava 2,5 milioni di pesos colombiani, oggi nessuno è disposto a pagarlo più di 400 mila pesos. E non è detto che lo comprino». Il «Washington Post» ha segnalato già durante la pandemia che il prezzo della foglia di coca era calato del 70% nelle zone di produzione latinoamericane, principalmente Colombia, Perù, Bolivia. Le frontiere chiuse hanno avuto conseguenze sul trasporto della merce. Dalla Cina e dall’India le forniture di materie chimiche per i laboratori clandestini sono calate. Diminuite anche le quantità di carburante di contrabbando che attraverso le frontiere dello Stato Zulia (il Venezuela ha una struttura federale) passano dal Venezuela alla Colombia. Ma perché il prezzo della foglia di coca (e quindi della cocaina) è crollato? Innanzitutto è aumentata la produttività per metro quadro coltivato. I 200mila ettari di territorio coltivato a coca – secondo le ultime stime – hanno visto crescere enormemente la loro quantità di prodotto. Gli esperti assicurano che è in corso un fenomeno di sovrapproduzione di coca sia in Colombia che in Perù che in Bolivia. In Perù le coltivazioni di coca avrebbero
addirittura aumentato del 90% la loro produzione. A ciò va aggiunto un quantitativo variabile, ma ingente, di coca in arrivo da Venezuela, Ecuador e Honduras. La sovrapproduzione per un trafficante (e anche per un produttore) è un problema serissimo perché la cocaina, in quanto prodotto illegale, non si può tenere in magazzino senza moltiplicare i rischi di finire arrestati. Quindi l’unica via d’uscita per i narcos è vendere tutto il prodotto accumulato e solo dopo aver svuotato i depositi tornare a comprare materia prima. Per questo in molte regioni di produzione di foglie di coca i contadini sono costretti quasi a regalarla.
Questo succede nelle aree di Nariño, Cauca e del dipartimento di Catatumbo. Lì, con il crac dell’industria della coca, sta riprendendo quota il vecchio gruppo paramilitare delle Autodefensas Unidas de Colombia (AUC). Squadracce feroci, con rapporti complessi e mai del tutto svelati con settori potenti delle istituzioni colombiane, le AUC sono state l’esercito irregolare d’estrema destra con teschi e mimetica, in guerra per il controllo della coltivazione della coca con altri gruppi fotocopia e con i guerriglieri delle FARC e delle ELN, a loro volta in guerra con lo Stato colombiano, a loro volta di una violenza bestiale. L’ideologia, nella contesa, è ormai ferraglia dismessa. Negli ultimi decenni la guerra nella selva colombiana è servita ad aggiudicarsi fette di mercato nel narcotraffico. Ora i vecchi delle AUC hanno di nuovo la possibilità di riprendere il controllo di un territorio che rischia la fame.
A far arrivare nel Mediterraneo i carichi ci pensa da qualche anno la ’ndrangheta. Lei fornisce i nuovi broker. E si ipotizza stia inventando un nuovo modo di gestire i flussi di un materiale sempre illegale ma che costa meno e dà minore profitto. La mafia siciliana resiste e fa i suoi affari, ma non è più la regina del mercato come quando Cosa Nostra imperava e il grande business andava dai laboratori chimici che raffinavano eroina in Sicilia fino alle grandi piazze USA. La ’ndrangheta si è infilata nelle pieghe del giro vorticoso d’affari e si è fatta spazio, in silenzio, nel senso inverso: dall’America del sud all’Europa. Ha intuito negli anni Ottanta che il futuro era la cocaina, non l’eroina. Dispone di molti mezzi, ha uomini ovunque dove si produce coca. Stringe alleanze con i nuovi cartelli, si muove come un pesce nell’acqua tra i narcos locali che la trovano affidabile perché chiusa, impenetrabile, arcaica. Pare si attenda proprio dai broker della ’ndrangheta la decisione di strategia economica da adottare in Colombia per non lasciar inabissare il mercato illegale dopo il crollo dei prezzi.
Foglie di coca. (Wikipedia)
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I BRICS prefigurano la sostituzione del dollaro come valuta di riferimento con una nuova moneta, oppure con una delle valute BRICS, presumibilmente lo yuan cinese. (Keystone)
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Tina, Simply the Best Intervista al critico musicale Ezio Guaitamacchi, con lui ripercorriamo la musica e i momenti importanti della vita della cantante
L’eclettica Rickie Lee Jones
Vi raccontiamo Pieces of Treasure il nuovo album della cantante americana - erede artistica di Janis Joplin - dedicato all'American Songbook
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Uno scrittore e intellettuale plurale
Sul senso di fare musica oggi
Il nuovo programma dell’OSI non è solo un’idea artistica ma una riflessione sull’arte e sul valore dell’incontro con la musica e i suoi protagonisti
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In ricordo ◆ Domenico Scarpa, nel suo saggio e nell’anno del centenario dalla nascita, ci racconta i tanti talenti di Italo Calvino
C’è una domanda inevitabile quando si parla di Italo Calvino (nella foto). La domanda è: di quale Calvino vogliamo parlare? È la questione che affronta Domenico Scarpa in apertura del suo libro-monstre o libro-sfera o libro-mosaico, Calvino fa la conchiglia. Sottotitolo: La costruzione di uno scrittore (editore Hoepli). Un saggio di oltre 800 pagine, che nel centenario della nascita di Calvino ci invita a percorrere tutta quanta la storia di questo scrittore e intellettuale plurale. L’immagine della conchiglia richiama un racconto dello stesso Calvino, l’ultimo delle Cosmicomiche, intitolato La spirale, una sorta di autobiografia mascherata che cade esattamente a metà del suo cammino di scrittore, tra il 1945 dell’esordio e il 1985 della morte.
Quel racconto è la storia di una costruzione di sé: ma a leggere il libro di Scarpa è come se Calvino avesse ricominciato di continuo a costruire sé stesso in modo nuovo.
Allo scrittore-scoiattolo (in fuga da sé) si aggiunge un’altra auto-edificazione non meno importante.
Quella dell’editore e del critico
Nel famoso saggio Scrittori e popolo del 1965, Alberto Asor Rosa attaccava, da sinistra, il neorealismo come estrema propaggine della letteratura populista ottocentesca. E definiva Il sentiero dei nidi di ragno, il romanzo in cui Calvino raccontava la guerra partigiana, «una summula del resistenzialismo di sinistra, e al contempo un repertorio di luoghi comuni…». Ma era appunto, quel 1965, l’anno in cui Calvino aveva virato verso l’immaginazione sfrenata della narrazione galattica, quella delle Cosmicomiche. Tant’è vero che nel 1983, Calvino disse che ai rimproveri di Asor Rosa sull’«impegno» avrebbe potuto rispondere irridente: «Be’, io che ne so? Io mi occupo di astronomia». Ma non c’era solo l’astronomia, Calvino nel frattempo aveva già costruito altri numerosi Calvino: per esempio, l’autore della trilogia araldica dei Nostri antenati e il curatore e traduttore delle Fiabe italiane. Senza dimenticare che nel 1963 aveva ottenuto un gran successo con i racconti di Marcovaldo, avviandosi a cambiare ancora negli anni 70 ricostruendo sé stesso sul modello della letteratura combinatoria francese. Calvino non è un solo Calvino, ma più scrittori in uno, come avverte Scarpa. Al punto che risulta difficile a lui stesso, in un’intervista del 1978, definirsi una volta per tutte: «Forse per capire chi sono devo osservare un punto nel quale potrei essere e non sto».
C’è di più. Allo scrittore-scoiattolo (in fuga da sé) si aggiunge un’altra auto-edificazione non meno importante. Quella dell’editore e del critico. Mai dimenticare un bilancio che Calvino fece nel 1979: «Il massimo tempo della mia vita – diceva – l’ho dedicato ai libri degli altri, non ai miei». Su tale versante, Il libro dei risvolti (appena uscito da Mondadori, a cura di Luca Baranelli e Chiara Ferrero) offre punti di vista interessanti. Come ci informa Tommaso Munari nell’introduzione, Calvino è stato un grande autore di risvolti editoriali, schedine, fascette, quarte di copertina da quando, nel 1947, dalla redazione torinese dell’«Unità» approdò alla casa editrice di Giulio Einaudi e di Cesare Pavese. Ventiquattrenne, entrato nel servizio stampa e impiegato alla stesura di un «Bollettino» destinato a giornalisti e librai, Calvino adempie al suo lavoro con abnegazione quasi ossessiva. Si chiamano «paratesti» le parti accessorie di un libro: copertine, introduzioni, prefazioni, indici, risvolti eccetera. Per Calvino quelle parti non sono per nulla accessorie, anche se per lo più appaiono rigorosamente anonime, tant’è vero che è sempre stato lui a scrivere i paratesti dei propri libri.
Fatto sta che anche il Calvino editore è tanti editori diversi. Il curatore di collane comincia la sua carriera nel 1949 con i tascabili della Piccola Biblioteca Scientifico-letteraria, per cui appronta prefazioni ai singoli libri, con notizie dell’autore, trama e chiave di lettura di opere d’ogni tempo.
Si sarà capito che il tratto tipico di Calvino è che le sue presentazioni sono anche eccezionali chiavi di lettura critica: in qualche caso autentici «microsaggi»
La sfida è usare le parole giuste per farsi capire dall’«uomo della strada» senza essere banale. Romeo e Giulietta di Shakespeare è un «poema della gioventù e dell’amore; un amore che ha il trepido stupore della prima rivelazione e la pienezza d’una stagione di vita assoluta». L’Eugenio Oneghin di Puškin è un «romanzo d’anime romantiche», di un «romanticismo che nega e uccide se stesso». Capitani coraggiosi di Kipling è «la storia d’un’educazione». Impressionante capacità di sintesi e di chiarezza. Nell’introdu-
zione dell’Agnese va a morire, il romanzo resistenziale di Renata Viganò, si avverte addirittura la partecipazione dell’ex partigiano che elogia il popolo quando «assume la responsabilità del suo avvenire».
Grazie al talento mostrato nel mestiere editoriale, l’azione di Calvino si estende in breve ad altre collane: d’ora in poi i paratesti di tutte le opere narrative spettano a lui, con la sola eccezione della collana dei Gettoni, sorta di palestra per giovani scrittori, diretta con Vittorini. Centopagine sarà una sua invenzione del 1971, in cui proporrà per più di un decennio opere minori (e brevi) di grandi classici. Giustamente Munari sottolinea la differenza tra recensione e risvolto: la prima ha necessariamente carattere critico, il secondo si propone di attrarre acquirenti (e lettori) potenziali mettendo in luce solo i pregi del libro. Altra cosa ancora è il parere di lettura, da cui dipende la pubblicazione di un manoscritto. E anche questa è stata una specialità di Calvino, che spesso consegnava i suoi giudizi, oltre che alle schede editoriali ad uso interno, anche alle lettere inviate agli autori (gli epistolari editoriali calviniani sono quanto di più avvincente si possa leggere).
Calvino «risvoltista» rimase fedele a Natalia Ginzburg e a Pavese che era stato il suo maestro in editoria e del quale avrebbe poi curato le raccolte epistolari postume e il diario intitolato Il mestiere di vivere. Si sarà capito che il tratto tipico di Calvino è che le sue presentazioni sono anche eccezionali chiavi di lettura critica: in qualche caso autentici «microsaggi». Il risultato è che molti dei maggiori scrittori italiani vengono promossi e presentati al pubblico dalle sue parole: Bassani, Cassola, Quarantotti Gambini, Carlo e Primo Levi, Mastronardi, Sciascia, Manganelli, Fenoglio, fino a Biamonti, De Carlo, Del Giudice. E l’elenco si estende agli stranieri: Malamud, Pardy, Tournier, Queneau, Bellow… Nella fase di maggior prestigio l’editore-promotore Calvino firma i «suoi» risvolti per dare ai libri scelti un marchio d’autorevolezza supplementare. Ma in definitiva lo stile-Calvino, anche nei paratesti, è talmente inconfondibile da non richiedere nessuna sottoscrizione.
Bibliografia
Domenico Scarpa, Calvino fa la conchiglia La costruzione di uno scrittore, Hoepli, Milano, 2023.
● ◆ Settimanale di informazione e cultura Anno LXXXVI 30 maggio 2023 azione – Cooperativa Migros Ticino 31
CULTURA
Keystone
Paolo Di Stefano
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La regina del rock che domava il palcoscenico
In memoria ◆ Con il critico musicale Ezio Guaitamacchi raccontiamo Tina Turner e quel rock che aveva una funzione identitaria
Natascha Fioretti
«Sono così rattristato dalla scomparsa della mia meravigliosa amica Tina Turner. Era davvero un’artista e cantante di enorme talento. Era stimolante, calorosa, divertente e generosa. Mi ha aiutato così tanto quando ero giovane e non la dimenticherò mai» . Anche noi come Mick Jagger che ha scritto questo messaggio su Twitter ricorderemo per sempre Tina Turner, la sua voce graffiante, la criniera leonina, quelle labbra rosso fuoco sempre aperte in un sorriso, e poi quelle gambe indomabili, agili e leggere che scattavano ad ogni accordo. Un po’ come Elvis Presley che – ancora giovanissimo e ai suoi primi successi - in un’intervista disse che non sapeva cosa gli succedesse ma quando attaccava la musica le sue gambe iniziavano a tremare e a seguire il ritmo. Sono fatti così i veri talenti, i veri geni, sono fatti di una consistenza unica e irripetibile. Tornando a Mick Jagger e agli esordi di Tina Turner Ezio Guaitamacchi – giornalista e critico musicale, autore radiotelevisivo e autore tra gli altri de La storia del rock – ricorda di come gli Stones per l’apertura dei loro concerti volessero sempre loro: Ike & Tina Turner, il duo più famoso del rock e soul statunitense. «Già nel ’69 quando gli Stones vanno in America con il tour che si conclude al festival di Altamont in California, Ike e Tina avevano aperto diverse volte i loro concerti. Gli Stones volevano loro. In quel momento la musica nera, il soul erano ricchissimi di talenti: Aretha Franklin, James Brown, Otis Redding, Stevie Wonder…era una fucina di musica fenomenale alla quale i rocker bianchi che si stavano affacciando guardavano con ammirazione totale. I Rolling Stones hanno tratto moltissima ispirazione dalla musica nera».
C’era però una sorta di percezione – pensiamo soltanto alla musica di Bob Dylan – che ci proiettava in una sorta di mondo ideale, un mondo che si pensava dovesse essere migliore
Senza Tina la musica non sarà più la stessa ma, soprattutto, guardando alle star di oggi – penso a Beyoncé, Rihanna, Mary Jane Blige, per citarne alcune - con la scomparsa della regina del rock si chiude davvero un’epoca, un certo modo di fare e interpretare la musica. «Per dirtela tutta siamo lontani anni luce. Siamo lontani da quella che è stata la funzione della musica in quegli anni fino all’avvento di internet. A quei tempi la musica in generale, non solo il rock, aveva una funzione identitaria e te lo dice un ex ragazzo degli anni Settanta che quando vedeva un altro con la maglietta dei Led Zeppelin già gli era simpatico anche se non lo conosceva. La musica ti mandava un messaggio – che poi noi magari con il nostro inglese incerto e senza le fonti che ci sono oggi – non capiva-
mo sempre al meglio. C’era però una sorta di percezione – pensiamo soltanto alla musica di Bob Dylan – che ci proiettava in una sorta di mondo ideale, un mondo che si pensava dovesse essere migliore e quindi la musica ha avuto innanzitutto questa incredibile funzione identitaria». E poi stiamo parlando di un periodo ricchissimo di talenti, un periodo quello tra gli anni Sessanta e gli anni Ottanta, che per certi aspetti è stata una fortuna poter vivere. «A questo proposito vorrei sottolineare – perché spesso lo si dimentica e anche nel caso di Tina Turner è evidente – che noi abbiamo vissuto da contemporanei l’arte assoluta di geni dell’umanità, nel senso che questi grandi artisti nell’anno Tremila – se ci saremo ancora – verranno ricordati come oggi ricordiamo Shakespeare per il teatro o Picasso per l’arte».
Ike & Tina
Anna Mae Bullock in arte Tina Turner nasce a Browsnville il 26 novembre del 1939. Da ragazzina raccoglie il cotone nella cittadina di Nutbush, nel Tennessee. «In un’intervista raccontò di quanto odiasse fare quel lavoro faticoso sotto il sole e la via di fuga le si presentò abbastanza casualmente frequentando il locale dove sua sorella faceva la barista e dove quel musicista fantastico che si chiamava Ike Turner (qualcuno lo dimentica, ma è stato l’autore del primo brano che gli autori considerano il brano prototipo del rock n’ roll, Rocket 88, pubblicato nel 1951 dalla Chess Records di Chicago) con la sua band – i Kings of Rhythm - suonava dal vivo. Una sera, grazie al flirt della sorella con il batterista, Tina Turner viene invitata sul palco a cantare e quello è l’inizio della sua carriera». Il sodalizio con Ike Turner durerà diciassette anni (dal 1960 al 1976); insieme conquistano un Grammy Award e un posto nella Rock & Roll Hall of Fame. Il loro è stato un successo strepitoso «per noi cultori un po’ raffinati quello è stato un periodo irripetibile, erano fenomenali da tutti i punti di vista non a caso – dicevamo prima – aprivano i concerti dei Rolling Stones, era uno di quei gruppi neri invidiati dai musicisti bianchi». Sappiamo – anche grazie alla sua autobiografia pubblicata nel 1986 I, Tina. My Life Story (nel 1993 diventa il film What's Love Got To Do With It con Angela Bassett vincitore di tre Oscar) – che il rapporto con Ike Turner fu strepitoso sul palco e infernale nella vita. «La sua vita con Ike Turner era fatta di casini di ogni tipo. Lei aveva un talento incredibile e l’incontro con lui è stato fortunato da un lato – le ha aperto la strada per la sua carriera aiutandola a diventare Tina – e sfortunato nella vita privata fatta di violenze e abusi». Tra i loro grandi successi ricordiamo il primo, la cover del brano A Fool in Love (1960) e poi l’indimenticabile Proud
Mary, River deep-Mountain High e Nutbush City Limits. Ma come scrive la cantante nel suo secondo memoir uscito nel 2018 My Love Story acclamato t ra i bestseller del «New York Times»: «La mia relazione con Ike è stata dannata il giorno in cui ha capito che sarei diventata la sua fonte di denaro».
Solista e icona pop
Come sappiamo, la regina del rock troverà la forza e il coraggio di lasciarlo e sarà la carriera da solista a consacrarla tra i più grandi artisti di sempre. «Tina Turner diventa comunque una diva pop senza mai rinunciare a questa sua verve eccezionale, a questa sua carica esplosiva. Insomma, io l’ho vista dal vivo ed era veramente strepitosa, trascinante». Una donna che in tempi in cui non c’erano i movimenti #MeToo e #BlackLivesMatter ha fatto le battaglie per sè e per gli altri. «Anche dal punto di vista dell’icona è stata un personaggio straordinario. È diventata una sorta di sex symbol della donna di colore sul palcoscenico, ha rappresentato l’indipendenza femminile, la donna che riesce a liberarsi del marito padre-padrone, a riscattare una carriera, anzi… Dal punto di vista commerciale il brand Tina Turner è sicuramente più luminoso, ottiene successi e riconoscimenti da tutti i
punti di vista. Ha messo insieme tante sfaccettature vivendo costantemente tra paradiso e inferno. Il successo, la popolarità, le gratificazioni artistiche e una vita invece privata molto più complicata e turbolenta».
Nessuno o pochi riuscivano a tenere il palco come lei: Tina Turner aveva una presenza, emanava una carica e si muoveva come pochi altri. Tra le sue performance memorabili dal vivo c’è sicuramente quella al Live Aid nel 1985 al Kennedy Stadium di Philadelphia. A quel tempo Tina era in tour per promuovere il suo album Private Dancer. Un Mick Jagger esplosivo la chiama sul palco (i due nella foto) con quel suo modo irriverente «Where is Tina?». Lei entra ballando sulle note di State of Shock e i due conquistano il pubblico che ancora oggi ricorda quando durante il secondo brano It’s only Rock n’ Roll - in un’atmosfera surriscaldata alle stelle che oggi secondo me ci sogniamo – Mick Jagger le sfila la gonna. E lei, Tina, con quella sua risata spavalda fa una smorfia e continua a ballare e a cantare come se nulla fosse, con quella classe che o ce l’hai o non c’è niente da fare. Ci devi nascere con quella classe e quella disinvoltura, quel piacere di darti senza limiti perché ci credi, stare sul palco è la tua strada, è la tua vita. E senza gli effetti speciali di oggi.
A proposito di duetti sono memo-
rabili anche quelli con Cher che ha vissuto situazioni analoghe a quelle di Tina Turner ad iniziare dalla sua carriera con Sonny che pure era un compagno violento che lei poi lascerà per intraprendere una carriera da solista di grande successo. E a proposito di emancipazione e indipendenza femminile, in una sua intervista del 1996 sulla NBC’s con Jane Pauley ricordava che sua madre una volta le disse che prima o poi avrebbe dovuto sistemarsi e sposare un uomo ricco. Cher le rispose: «Mamma io sono un uomo ricco e famoso».
Un Mick Jagger esplosivo la chiama sul palco con quel suo modo irriverente «Where is Tina?». Lei entra ballando sulle note di State of Shock e i due conquistano il pubblico
«È vero – dice Guaitamacchi – Cher e Tina sono due personaggi analoghi. Anche Cher spezza il sodalizio che l’ha portata al successo. Così come Ike & Tina anche Sonny & Cher erano un duo veramente top, un brand, un’etichetta che vendeva bene. Una volta Jon Baez mi disse “quando sei sul palcoscenico, in quel momento, sei una stella e una stella non ha sesso. Ma giù dal palco comandano gli uomini”. Cosa che sess’antanni dopo purtroppo non è molto diversa».
Senza Tina
Ci mancherà la regina del rock n’ roll spentasi a 83 anni dopo una lunga malattia nella sua casa di Küsnacht vicino a Zurigo. Tra le più grandi artiste del secondo dopoguerra con oltre duecento milioni di copie di album vendute, dodici Grammy Award, continueremo a ricordarla ascoltando i suoi brani più celebri da Let’s Stay Together, Private Dancer, What’s Love Got To Do With It e The Best. Chi può raccogliere la sua eredità? Probabilmente nessuno perché i tempi sono cambiati e ogni star è figlia della sua epoca. «Citavamo artiste di colore come Beyoncé che cantano tutte benissimo (basta vederla Beyoncé nel ruolo di Etta James nel film Cadillac Records per rendersi conto!). Il problema è la musica che fanno. Sono cambiati gli standard. Oggi ci si indirizza verso un mondo pop che privilegia la scelta commerciale rispetto a quella artistica. La musica rispecchia il mondo che viviamo, tutto deve essere molto veloce, molto facile, molto fruibile. Però è una scelta. Rimane anche chi cerca altre strade, ad ogni modo si chiama musica popolare non a caso, riflette il periodo, il luogo, la situazione socio-culturale e politica che stiamo vivendo, una fase non bellissima. Dall’undici settembre del 2001 il mondo è sotto una cappa buia».
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Il ritorno dell’eclettica Rickie Lee Jones
Musica ◆ Figlia della Beat Generation ed erede artistica di Janis Joplin, la cantante americana è tornata con un nuovo album
Guido Mariani
Prima che la sua carriera musicale diventasse una carriera, Rickie Lee Jones sbarcava il lunario lavorando come segretaria in un ufficio che serviva a coprire le attività malavitose di un gangster di Los Angeles chiamato Rocky. Era il 1977. Il suo ruolo era dare un’idea di rispettabilità a un giro d’affari che di rispettabile non aveva nulla. Essendo un lavoro di facciata, le ore inoperose erano molte e Rickie Lee ne approfittò per scrivere alcune canzoni che sarebbero diventate parte del suo album d’esordio. Un giorno arrivò lo sceriffo e fece chiudere.
Rickie Lee Jones ci racconta questo nuovo capitolo musicale da New Orleans, una città che vive di musica e che oggi è la sua casa
La Jones non ricevette lo stipendio, ma ricevette qualcosa di più prezioso, un consiglio della madre che, saputo del suo licenziamento, le disse: «Hai sempre voluto fare la cantante. Non rinunciare al tuo sogno. Non mollare ora». Due anni dopo Rickie Lee Jones, allora 24enne, aveva un disco ai primi posti delle classifiche, era fidanzata di Tom Waits ed era sulla copertina di «Rolling Stone». Era la più interessante artista femminile del mondo musicale.
Oggi Rickie Lee Jones ha attraversato quattro decenni di musica, vivendo anche fasi di vita complicate e momenti di oblio. La sua recente autobiografia che porta il titolo di una delle sue canzoni più belle, Last Chance Texaco (non ancora edita in italiano), racconta sia la vita della sua famiglia, sopravvissuta alla povertà estrema, sia le sue sfide personali. Il suo ultimo album è Pieces of Treasure (BMG) e si ricollega al suo passato in molti modi. Il disco infatti la vede ri-
arrangiare classici del repertorio della tradizione americana di inizio Novecento e tornare al lavoro con Russ Titelman che produsse i suoi primi due album, oggi giudicati capolavori.
Rickie Lee Jones ci racconta questo nuovo capitolo musicale da New Orleans, una città che vive di musica e che oggi è la sua casa: «Il disco è nato quando Russ ha preso il controllo diventando il produttore. Abbiamo deciso che ci saremmo attenuti a un determinato repertorio, quello del Great American Songbook. Abbiamo scelto una band di musicisti e provato le canzoni al piano, decidendo ritmi e arrangiamenti». Ne è uscito un disco di jazz tradizionale con composizioni senza tempo come There Will
Never Be Another You, September Song, Here’s That Rainy Day e On the Sunny Side of the Street. «La presenza di Russ – prosegue Rickie Lee – mi ha dato molta più disciplina del solito, aiutandomi a stare sui binari. Ero così contenta del lavoro che stavamo facendo che non ho mai sentito il bisogno di cercare di cambiare le regole a metà dell’opera». Il jazz e gli standard della canzone americana hanno sempre fatto parte della cultura musicale della cantante anche perché era la musica che ascoltava in famiglia. In passato suoi album come The Magazine (1984) e Pop Pop (1991) sono finiti ai primi posti delle classifiche jazz americane. «Avere accanto una persona molto competente – dice – ha fatto sì che il
lavoro andasse in una direzione precisa. Tendo ad avere sempre troppe idee creative e ho bisogno di qualcuno che aiuti queste idee ad emergere ma che sappia anche dire “basta!”. Perché a volte non so quando fermarmi». È proprio questo eclettismo che ha spesso disorientato il grande pubblico di fronte ai dischi della Jones che non si è mai sentita in dovere di seguire dei cliché. «Quando una performance è usata per qualcosa d’altro rispetto alla purezza della performance stessa, accadono solo cose brutte», ha scritto nelle sue memorie. E anche qui non manca comunque una lettura sempre unica e originale. Ne è un esempio particolare Nature Boy, vecchio brano interpretato da Nat King Cole e rie-
laborato in chiave mediterranea. Il disco sarà accompagnato da un tour che partirà dallo storico club newyorkese Birdland e che approderà anche in Europa: «Mi piacerebbe partecipare a qualche festival jazz – confessa la Jones –, potrei confrontarmi anche con spettatori che non mi conoscono. Ai miei concerti infatti vengono soprattutto i miei fan, un pubblico devoto che vedo ormai in compagnia dei loro figli e dei figli dei loro figli». Ma questo accade un po’ per tutte le icone della musica.
Le facciamo i nomi di alcune artiste che hanno seguito le sue tracce: Suzanne Vega, Tori Amos, Sheryl Crow, Norah Jones, Fiona Apple, Cat Power, Diana Krall e anche Alanis Morissette. Da quante di loro ha ricevuto attestati di gratitudine? Rickie Lee risponde con un sorriso: «Non molte. Non è facile, soprattutto per le artiste donne, riconoscere le proprie fonti di ispirazione. Ci vuole molta fiducia per ammetterlo e ci sono anche buone ragioni per non dire certe cose, perché si rischia che qualche giornalista le etichetti come non originali e derivative e le sminuisca. C’è inoltre molta competizione tra di noi. Tori Amos è un’eccezione e nei suoi concerti interpreta sempre il mio brano On saturday afternoons 1963. Ma non accade spesso. Una cantante che hai nominato ha detto di non aver mai neppure ascoltato un mio disco. In verità ci influenziamo tutte l’una con l’altra, anche le più giovani sono ispirazione per chi le ha precedute».
Nella sua autobiografia Rickie Lee Jones racconta molto bene come sia difficile, e a volte pericoloso, per una donna intraprendere una propria strada personale, originale, lontana da stereotipi. Ma il consiglio che le diede la madre tanti anni fa si è rivelato giusto e ci ha regalato un’artista unica, spesso imitata, ma forse inimitabile.
A Cannes quest’anno avvengono miracoli
Festival ◆ Da Kaurismaki a Wes Anderson i film in concorso quest’anno ci fanno sognare più del solito
Nicola Falcinella
Al Festival di Cannes avvengono anche i miracoli. Non solo le vite e le carriere delle persone, gli attori e i registi ma pure gli addetti ai lavori che si notano meno, svoltano a volte improvvisamente dopo un passaggio sulla Croisette (in altri casi precipitano), ma avvengono fatti che solo la magia di grandi cineasti sa innescare.
Specializzato in miracoli è il finlandese Aki Kaurismaki, che a inizio carriera si era fatto conoscere e amare per i quadri iperrealistici e violenti, per quanto surreali e ironici, quasi senza speranza. Con gli ultimi film si è deciso ad abbandonare il pessimismo per iniziare a remare contro la direzione del mondo e offrire vie d’uscita allo spettatore, riuscendoci come in Le Havre (2011). Anche in Fallen Leaves, il cui titolo si ispira alla stagione autunnale in cui si conclude la vicenda, conferma un’ispirazione limpida. Un film di una semplicità disarmante, profondamente chapliniano, una favola intrisa di realtà, ma non del realismo che Kaurismaki tende a rifuggire.
Il suo mondo esiste solo nei film, un po’ come quello di Wes Anderson che al festival ha portato The Asteroid City
zeppo di star, da Scarlett Johansson a Tom Hanks. La differenza sta nel fatto che il finnico sogna ancora che dallo schermo diventi reale, mentre l’americano lo richiude (letteralmente, visto l’insistere con cornici visive e parentesi narrative) dentro la finzione. Il lavoro di Anderson sembra tendere all’astrusità, per quanto affascinante, con tante trovate sul piano figurativo o lessicale, quanto Kaurismaki tende a un’essenzialità spoglia di tutto tranne che di cuore e ironia.
Mentre scriviamo il festival è ancora in corso, ma Fallen Leaves (nella foto i due protagonisti Alma Poysti e Jussi Vatanen) è uno dei grandi favoriti per la Palma d’oro che ancora manca alla bacheca del regista scandinavo cui Locarno consegnò il Pardo d’onore nel 2006. Una delle rivali più accreditate è Alice Rohwacher con La chimera, coproduzione italo-ticinese passata nell’ultima giornata di proiezioni.
La pellicola segue le esistenze della commessa Ansa e dell’operaio Holappa, che si sfiorano più volte prima di conoscersi. Il loro amore genuino, che nasce andando al cinema a vedere I morti non muoiono di Jim Jarmusch,
è messo a dura a prova da un fato mai favorevole a loro. Kaurismaki parla di esistenze precarie, di difficoltà di lavoro, di solitudine, di depressione (Holappa non sa dire se beva perché è depresso o viceversa) con ironia e il tono da favola amara.
Tra gli elementi che lo distinguono dentro la selezione di Cannes c’è anche l’essere uno dei pochi calati nella contemporaneità, con le notizie dalla
guerra e l’aumento delle bollette dell’energia elettrica. Molti degli altri film, anche collocati nel presente e dal taglio realistico, sembrano invece stare in un tempo sospeso e hanno pochi appigli con ciò che ci succede intorno. Dalle vecchio radio dei protagonisti (non a caso mezzi démodé, Kaurismaki non ama mostrare la tecnologia: i due posseggono cellulari che quasi non usano) escono in continuazione notizie
dei bombardamenti russi in Ucraina: «Maledetta guerra» commenta Ansa. Curiosamente il Pardo alla carriera lo accomuna all’altro autore di miracoli del 76° Festival di Cannes, lo spagnolo Victor Erice con Cerrar los ojos inserito nella sezione non competitiva Cannes Première con polemica: il regista classe 1940 non si è presentato sulla Croisette, inviando una lettera aperta lamentandosi per la collocazione fuori gara. Il cineasta iberico, autore di pochi e fondamentali film come Lo spirito dell’alveare o Il sole della mela cotogna, ritirò il riconoscimento in Piazza Grande nell’edizione del 2014. Stavolta mette in scena un regista fallito, che non era riuscito a terminare un lungometraggio a causa dell’improvvisa sparizione dell’attore protagonista. Anni dopo, sollecitato da una trasmissione televisiva che si occupa di misteri irrisolti, si mette alla ricerca dell’amico, avendo come unici elementi le bobine delle riprese e alcuni oggetti di scena. Se un regista fallito è l’unico ad avere ancora fiducia nel cinema, Erice omaggia a modo suo gli spaghetti western, come Kaurismaki lo fa con Bresson, Godard, Huston e Visconti.
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Ora in azione
«L’arte è la nostra connessione spirituale»
Musica ◆ In tempi di incertezza ci restano punti di riferimento come il nuovo programma dell’OSI. Parla Poschner
Più che un’idea artistica, la stagione 2023-24 dell’Orchestra della Svizzera Italiana sembra voler sviluppare una riflessione sull’arte e sul senso del far musica oggi.
Emblematiche sono state le parole del direttore principale Markus Poschner (nella foto), qualche giorno fa alla presentazione del nuovo cartellone: «In questo momento storico sembriamo letteralmente intrappolati in un labirinto di insicurezze, incertezze e paure. Ogni giorno minacce visibili come la guerra, l’inflazione, le malattie e i cambiamenti climatici ci tengono saldamente in pugno, anche se pensiamo di essere sopravvissuti – almeno – alla pandemia. Vecchie certezze e orientamenti svaniscono ogni giorno alla velocità delle nuvole nel cielo, le nostre fondamenta di sicurezza e protezione qui in Europa sembrano vacillare sempre più violentemente, e così la nostra fiducia nel mondo e il senso della vita con cui siamo cresciuti sembrano scivolare via come sabbia tra le dita, improvvisamente perduta».
Concetti che possono sembrare centrifughi rispetto a questioni squisitamente musicali, ma prima di illustrare i tre programmi che dirigerà nel corso della prossima stagione, Poschner ha voluto sottolineare l’intima connessione tra la situazione attuale e il valore, il significato di una stagione concertistica, così come di ogni altra manifestazione artistica: «In un mondo intorno a noi che sembra girare sempre più velocemente e diventare sempre più difficile da capire, è però importante realizzare che oggi siamo ancora le stesse persone di ieri, non siamo cambiati affatto: percepiamo intuitivamente una possibilità residua nel misterioso potere dell’unione, dello stare assieme, un’esperienza quasi arcaica e spirituale. E in nessun altro luogo questo misterioso potere può essere sperimentato con maggior intensità ed evidenza che nell’arte. L’arte è la connessione spirituale tra noi esseri umani, è il nostro collante emotivo, indipendentemente dalla nostra provenienza e dalla lingua che parliamo. Oggi più che mai noi umani abbiamo bisogno di questa speciale forma di ispirazione, anche solo per la breve durata di un concerto, di una rappresentazione teatrale o di una visita a un museo».
Percepiamo intuitivamente una possibilità residua nel misterioso potere dell’unione, dello stare assieme, un’esperienza quasi arcaica e spirituale
Sono parole utili a leggere il cartellone 2023.24, che Poschner inaugurerà a fine settembre con i Vier letzte Lieder di Richard Strauss intonati dal soprano Erica Eloff e la prima sinfonia Titano di Mahler: i dieci appuntamenti al LAC e i quattro all’Auditorio Stelio Molo seguono la via maestra del grande sinfonismo romantico e tardo romantico, hanno come pietre miliari gli autori e i capolavori dell’Ottocento e del Novecento storico; vi si può forse leggere la mancanza di un direttore artistico (dovrebbe essere annunciato entro giugno, la commissione interna alla Fondazione dell’OSI sta completando il vaglio delle candidature), ma le scelte compiute e coordinate da Barbara Widmer, che sta gestendo ad interim la direzione artistica, vogliono «semplicemente» proporre al pub-
blico musica bella; una scelta che incontra il favore del pubblico, sempre numeroso, come conferma anche il trend degli abbonamenti, in costante aumento e arrivati ormai a settecento: un dato considerevole, anche in rapporto ai mille posti di capienza della sala grande del LAC. Perché, parafrasando il pensiero di Poschner, oggi più che mai la gente ha bisogno di bellezza, di fare esperienze artistiche in grado di emozionare e comunicare un senso positivo della realtà; a questo rispondono iniziative come Chi ha paura dell’OSI? Per i più piccoli e i tre Launch with OSI, con la possibilità di seguire la prova e mangiare in teatro.
Concetti ideali che però si intrecciano, anzi si declinano molto concretamente con una realtà finanziaria non certo ideale: «Siamo stati chiamati a gestire un significativo deficit nel finanziamento strutturale, che abbiamo affrontato innanzitutto con un contenimento dei costi che alla lunga non sarebbe sostenibile senza intaccare il livello qualitativo dell’orchestra e della stagione, pensando ai solisti e ai direttori presenti» ha rimarcato il direttore amministrativo ad interim Samuel Flury, sottolineando i 74 concerti con 47 diversi programmi e le 43mila presenze del pubblico dello scorso anno, che hanno fatto segnare un riempimento del 90%, percentuale altissima rispetto alle medie fatte registrare post pandemia dalla maggior parte delle istituzioni musicali.
«I maggiori introiti vengono non solo dal pubblico: sono tante le istituzioni private che riconoscono e sostengono la bontà del nostro progetto, con la RSI stiamo definendo il rinnovo della partnership, e ci aspettiamo anche un supporto dalle istituzioni pubbliche».
Tornando alla nuova stagione, sarà Poschner a offrire due delle poche rarità presenti in cartellone: nel secondo programma che affronterà, a novembre, accosterà alla seconda sinfonia di Bruckner Anahit di Giacinto Scelsi, che in Svizzera studiò le teorie compositive di Skrjabin con un allievo del russo, e la Fantasia scozzese per viola e orchestra di Walter Braunfels, tedesco di Colonia attivo nella prima metà del Novecento. Poschner tornerà in aprile con la quarta sinfonia di Brahms, l’ouverture Egmont di Beethoven e il secondo concerto per pianoforte di Rachmaninov, interpretato dalla giovane e talentuosa Anna Vinnit-
skaya. Due saranno gli appuntamenti col direttore ospite principale, Krzysztof Urbański. A ottobre accosterà il Concerto per violoncello di Elgar (solista Daniel Müller-Schott) alle fantasmagorie timbriche di Sheherazade con cui Rimskij-Korsakov mise in note Le mille e una notte. Anche il maestro polacco regalerà un titolo a
sorpresa accanto alla settima sinfonia di Dvorak, Aconcagua per bandoneon (imbracciato da Ksenija Sedorova) e orchestra di Piazzolla, che portò il Tango dai fumosi bourdel di Buenos Aires imponendolo come genere musicale di valenza internazionale.
Altro brano non popolare è la quinta sinfonia di Vaughan Wil-
liams, diretta da Robert Trevino, mentre classicissimi sono tutti gli altri programmi, ad iniziare da quello impaginato dalla trentaquattrenne lituana Giedre Slekyte: quarta sinfonia di Schumann e Concerto per violino di Lalo, solista Alexandra Soumm, virtuosa che aveva già conquistato il pubblico nel 2014, appena venticinquenne, con un intenso Sibelius, per poi schierarsi dopo l’intervallo nelle file dei violini e suonare Ciajkovskij assieme all’orchestra (sul podio c’era Poschner).
Due tra le più amate sinfonie di Beethoven verranno dirette da Jurai Valchua (Eroica) e David Zinman (Pastorale, preceduta dal Concerto per violoncello di Schumann interpretato da Truls Mork). Con la sinfonia K 550 di Mozart completa il cartellone dei concerti al LAC Julian Rachlin, violinista ormai sempre più lanciato nella carriera direttoriale. Tutti solisti-direttori sono gli ospiti dei quattro concerti all’Auditorio Stelio Molo, con l’oboista Alexei Ogrintchouk impegnato tra Mozart e Beethoven (Ottetto a seconda sinfonia), il violoncellista Maximilian Hornung con Mendelssohn (Le Ebridi) e Haydn (secondo concerto e sinfonia n. 104), il flautista Maurice Steger nel barocco di Telemann e Vivaldi, il violinista Sergej Krylov nella suite dalla Carmen di Bizet orchestrata da Scedrin e nel Concerto di Bruch.
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Il marchio «NON» è presente sugli scaffali Migros dal 2022. La prima ad arrivare è stata la birra lager analcolica, che abbiamo introdotto lo scorso anno a seguito del referendum che ha ribadito il no alla vendita di alcolici nelle filiali Migros. Nel frattempo la gamma si è arricchita di altre tre fresche proposte: la panaché al gusto di agrumi, la IPA dal pronunciato aroma di luppolo e l'esotica Tropical, con note di mango e frutto della passione. Come la prima birra NON, anche i nuovi spegnisete sono prodotti in Svizzera e arrivano giusto in tempo per dissetare con gusto e leggerezza la tua voglia d’estate.
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Nelle birre «NON» il lievito, che durante la fermentazione converte il maltosio in alcol e anidride carbonica, entra in gioco solo per breve tempo. In questo modo la gradazione alcolica rimane inferiore allo 0,5% in volume, conformemente ai requisiti di legge in materia di bevande analcoliche.
Settimanale di informazione e cultura Anno LXXXVI 30 maggio 2023 azione – Cooperativa Migros Ticino MONDO MIGROS 38 Foto: Yves Roth Styling: Mirjam Käser
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In fin della fiera
Vi racconto l’aldilà
Ho sognato l’aldilà. Se vi fa piacere ve lo racconto, un giorno potrebbe tornarvi utile.
Lo so anch’io che a cena bisogna tenersi leggeri, ma a casa mia siamo contrari allo spreco, non buttiamo via il fritto misto preparato per una coppia di amici che all’ultimo momento hanno declinato l’invito. Ieri sera, dopo aver cenato, ho visto un affascinante documentario trasmesso dalla benemerita Rai 5 sull’arte funeraria presente nel cimitero monumentale di Staglieno, a Genova, in val Bisagno. Belle immagini dai colori caldi e interviste catturate al volo. Una gentile signora: «I miei morti non sono qui. Io vado a portare un fiore sulle altre tombe sperando che qualcuno faccia altrettanto al cimitero del mio paese». Si potrebbe installare sui social un «flowers on the grave crossing ». Sul rullo di coda del documentario mi sono addormentato. E ho sognato l’aldilà.
Pop Cult
Dovete credermi sulla parola, l’aldilà è un treno che viaggia nella notte. Ma un treno molto ma molto più largo dei nostri. La gentile hostess che mi introduceva in questo mondo ha aperto la porta di uno scompartimento. Conteneva una fila di almeno trenta letti uno attaccato all’altro, in una sorta di camerata. I letti erano tutti occupati dai dormienti, disposti con la testa a sinistra e i piedi a destra.
Una luce fioca, diffusa e uniforme, illuminava l’ambiente; aguzzando la vista, ho potuto notare che il penultimo letto in fondo era libero. «È quello il mio posto?», ho domandato alla hostess. «No, è occupato. Per lei non c’è posto, non ha prenotato».
«Bisognava prenotare? Come si fa? Mica sapevo quando sarei partito per questo viaggio…».
«Mi fa specie. Lei non è di Torino? Il vero torinese non si affida al caso, prenota sempre».
Ho guardato l’ora, erano le due. Mi ha consolato il pensiero che dopo poche ore sarebbe sorta l’alba, i miei compagni di viaggio si sarebbero svegliati e avrei potuto con il loro aiuto organizzare la mia sistemazione: se fra trapassati non ci si dà una mano… Così ho scavalcato 28 letti senza svegliare gli occupanti e sono approdato al ventinovesimo. Faccio appena in tempo a sdraiarmi e a chiudere gli occhi che arriva il titolare del letto; è un signore che sembra più giovane di me con la tuta tesa da una bella pancetta prominente. «Sa», ci tiene a informarmi, «io sono un rotariano». Non avrei mai creduto che il Rotary e il Lyons arrivassero fin qui. Per mostrami all’altezza della situazione gli rivelo che io sono Sbandieratore onorario del Palio di Asti e Premio Simpatia del comune di Frabosa Soprana. Il suo sguardo assente prova che non ha capito.
Cedo il posto, torno a scavalcare i letti
La pop culture non viene più dal basso
Da sempre esistono, nell’ambito della fruizione della musica popolare, talune problematiche ormai annose, spesso fatte passare sotto silenzio nonostante gli effetti tutt’altro che positivi; e a parer di chi scrive, uno degli elementi di cui da tempo si tace riguarda, oggi più che mai, i prezzi dei biglietti dei concerti rock.
Ricordo bene come, nonostante lo status di squattrinata studentessa, nei miei anni giovanili io sia stata in grado di assistere a innumerevoli show – questo perché all’epoca era possibile acquistare un posto unico per un concerto di alto profilo spendendo l’equivalente di trentacinque o quaranta franchi. Oggigiorno, invece, una simile aspettativa risulta quantomeno irrealistica, grazie a una sorta di sopruso che va facendosi sempre più pervasivo, seppur nella più generale indifferenza; un’indifferenza forse dovuta proprio alla
Xenia
di Bruno Gambarotta
ed esco dallo scompartimento. Guardo l’ora, l’orologio segna l’una. Prima erano le due. «Com’è possibile?», domando alla hostess che ritrovo in corridoio, «il tempo va all’indietro?».
«Qui da noi il tempo va come gli pare, avanti, indietro, sopra, sotto, sta fermo. Cosa ve ne fate del tempo ormai?
«E voi cosa ne fate degli orologi che vi fate consegnare?».
«C’è una fabbrica dismessa, pensiamo di farci un museo del Tempo, con i proventi della nostra lotteria».
«Anche da questa parte musei e lotterie? Se non le dispiace il mio orologio per il momento vorrei tenermelo, me l’hanno dato quando, dopo 25 anni di servizio, sono diventato Anziano Rai.
A quelli che ci arrivano adesso danno una stretta di mano. Vigorosa, però»
Dei trapassati non mancava nessuno. Abbiamo rievocato i vecchi tempi, quando la televisione era una cosa seria, non come quella di adesso…. Con la scomparsa del tempo non ab-
biamo potuto riprendere quelle discussioni sugli orari, sulle trasferte, sugli straordinari. Una domanda mi stava a cuore: «Com’è qui la mensa?». «Non c’è, non abbiamo più bisogno di mangiare. C’è solo uno spaccio, ma non è granché».
In effetti… c’erano pacchi di biscotti di marche scomparse da decenni, bottiglie di Spuma bianca e Spuma nera, tra i liquori il Millefiori Cucchi con il rametto dentro la bottiglia, il liquore Galliano, il Latte di suocera. Ho finito per ordinare una grappa, un bicchierino di Fiamma Verde. Lo stavo gustando quando sono venuti a chiamarmi, dovevo posare per il poeta che doveva farmi il ritratto di parole da incidere sulla lapide. Si è arrabbiato perché non stavo fermo, ma non sei un pittore, pensavo tra me… Fra tante proposte ho finito per scegliere «poliedrico cantore della piccola borghesia» e a quel punto è suonata la sveglia.
gradualità del fenomeno – un po’come quando, per inerzia, lentamente ci si abitua a qualsiasi cosa. Certo si è trattato di un processo graduale quanto subdolo, che nell’arco degli ultimi venticinque anni ha risparmiato soltanto i nomi meno conosciuti della scena underground; tanto che l’ultimo esempio risale ad appena pochi giorni fa, per la precisione al concerto di Bruce Springsteen svoltosi a Ferrara.
Infatti, sebbene mille polemiche abbiano salutato la scelta di ignorare il prolungato stato di emergenza causato dal maltempo, nessuno ha mostrato la minima indignazione davanti al fatto che un posto in piedi in uno show all’aperto, in cui gli spettatori si trovano notoriamente schiacciati nella ressa con i piedi nel fango, potesse arrivare a costare fino a centotrenta euro.
Così, sull’onda della constatazione
Chuni, resa libera dalla sfortuna
Dopo sedici ore di travaglio e un cesareo d’emergenza, Jauna, sposa fantasma di Ranbir, bracciante in Terra di Lavoro, mette al mondo una bimba di due chili e seicento grammi: Chuni. Il dottore convoca il giovane padre, e gli spiega che la piccola deve essere trasferita d’urgenza in un ospedale pediatrico specializzato. Ranbir lavora in Italia da quasi dieci anni. Partì ragazzo, con lo zio. Da allora, ha sempre vissuto fra le serre, spostandosi di pochi chilometri. È forte, silenzioso, affidabile, quindi lo hanno messo in regola, sebbene la sua busta paga non corrisponda a quanto realmente riceve. Non si è mai lamentato. Per questo l’anno scorso è potuto tornare nel Punjab, a prendere la sposa scelta dai suoi genitori. Jauna – timida, occhi di giovenca, pelle di bronzo – gli è sembrata bellissima, e da allora anche la sua
vita in Italia è diventata meravigliosa. Ha venticinque anni, e il futuro gli sorride. Però non capisce bene l’italiano. Abbastanza per sopravvivere, fare compere in paese. Non per comprendere ciò che gli dice il dottore. Sale sull’eliambulanza inebetito, pensando che Chuni morirà, e Jauna si risveglierà dall’anestesia sola, in un letto d’ospedale, e penserà che l’ha abbandonata perché non ha saputo fargli una figlia sana. Chuni ha la labiopalatoschisi. È una deformità cui si rimedia, gli assicurano. Ma per ora non può alimentarsi naturalmente, deve essere ricoverata all’ospedale dei bambini. E un genitore deve restare con lei. Ranbir protesta di non potersi assentare dal lavoro. È il periodo del raccolto. La mediatrice culturale – una signora dell’India del Sud, laureata in psicologia – gli spiega che è la leg-
di come questo 2023 veda tale fenomeno manifestarsi in modo ancor più spiccato, al punto da essere ormai dato per scontato (forse con la scusa di rimpinguare i guadagni dopo la pandemia?), ecco che tornano in mente gli avvertimenti di chi, un tempo, tentò di mettere in guardia il pubblico su questo scempio: come Tom Petty, uno dei pochi artisti di richiamo a mettersi in rotta con il monopolio dei box office statunitensi in protesta al rincaro dei biglietti. Lo stesso che nel 2002 incise
The Last DJ, concept album all’epoca snobbato dalla maggior parte dei critici musicali proprio a causa del suo atteggiamento di aperta critica nei riguardi dell’intero establishment discografico. Uno dei brani più eloquenti del disco poneva infatti all’ascoltatore l’ironica domanda, «quanto sarai disposto a pagare per ciò che una volta ottenevi gratuitamente?»,
in riferimento proprio al vertiginoso aumento del costo dei biglietti – nello specifico, all’impressionante differenza di prezzo tra il biglietto per un concerto «di grido» e lo stesso biglietto acquistato prima che l’artista in questione divenisse una celebrità mondiale grazie all’appoggio delle lobby discografiche.
Perché se, da un certo punto di vista, è possibile accettare che il costo dei preziosissimi ticket aumenti in proporzione alla fama, riesce tuttavia difficile credere che cantanti miliardari, da decenni assurti allo status di leggende, possano essere tanto affamati di guadagni da spolpare il pubblico fino all’ultimo centesimo.
E invece, ecco che quest’anno perfino Bob Dylan non si accontenta di vietare l’uso dei telefoni cellulari all’interno dei propri concerti, ma addirittura obbliga gli spettatori a spendere cinque euro a testa
per il privilegio di sigillare ermeticamente i propri smartphone per l’intera durata dello show; e sorge spontanea la domanda se, fino a pochi anni fa, una simile prevaricazione sarebbe stata accettata con tanta benevolenza.
Anche perché quest’ormai inarrestabile avidità rivela, in realtà, un problema ben più grave: infatti, se è vero che i generi pop e rock sono da sempre giustamente definiti come «musica popolare» (ovvero, appartenente al popolo), l’impressione è che, andando avanti di questo passo, tale carattere finirà per essere spazzato via, cementando così l’idea che anche la pop culture sia ormai cosa elitaria, destinata solo a quelle scarne fette della popolazione definibili come «ricche», o quantomeno benestanti – in pieno sprezzo delle origini «dal basso» della musica di consumo.
ge: se si allontana, partirà la segnalazione ai servizi sociali, e rischia di perderla, la bambina. Ranbir si mette a piangere. Non vuole perdere la figlia, ma nemmeno il lavoro. Non può fare una scelta così. Nella culletta, Chuni soffia il suo dolore disperata, come un gattino. Allora Ranbir si siede sulla poltrona prevista per l’accompagnatore – di solito la mamma – e ci resta per quaranta giorni, alzandosi solo per andare in bagno, comprare un panino al bar, telefonare a Jauna per dirle che Chuni ce la farà, prende peso, appena possibile torneranno.
Il giovane padre col turbante, che si aggira smarrito nel reparto con la neonata minuscola in braccio, diventa popolare. La mediatrice culturale si rende conto che è analfabeta, che non può leggere neanche le indicazioni nei corridoi, è un marzia-
no nel pianeta pediatrico, e ha bisogno di aiuto. Più di Chuni, che come i cuccioli di tutte le specie si limita ad avere bisogni primari, presto soddisfatti.
Nella stessa stanza sono in quattro bambini, con relativi genitori. Vengono da quattro continenti diversi. Bambini e genitori piangono nello stesso modo, e nello stesso modo sperano. Imparano l’italiano per la necessità di aiutarsi a vicenda. È una strana scuola, ma è l’unica cui Ranbir sia mai andato. Si può diventare italiani anche così. Dimettono Chuni dandogli appuntamento fra sei mesi, per la prima delle operazioni di ricostruzione del palato e del labbro. Non deve aver paura, sarà bellissima, col tempo le resterà solo una piccola cicatrice… La disgrazia lo salva: il boss lo riprende nella squadra, in tempo per raccogliere i
meloni. Però all’ospedale Ranbir ha visto le maestre che facevano lezione ai bambini malati, le lettere sui cubi di legno, la lavagna e i pennarelli. E ha sognato che Chuni vedrà cosa c’è al di là della plastica che copre le serre, del muro che limita i campi di cocomeri, dell’autostrada che li separa da tutto. Uscendo, al chiosco davanti all’ospedale compra un palloncino a forma di liocorno. Un animale di cui ignorava l’esistenza. Il palloncino resta nella baracca e poi nel casale in cui si trasferiscono quando la famiglia cresce. Il primo giorno di scuola di Chuni, Ranbir lo scioglie dal palo: poiché nella campagna brulla non ci sono ostacoli dove possa impigliarsi, sale verso il cielo e scompare. Così anche tu Chuni, promette Ranbir. Ha già altri tre figli. Ma Chuni è speciale. La sua sfortuna l’ha liberata.
Settimanale di informazione e cultura Anno LXXXVI 30 maggio 2023 azione – Cooperativa Migros Ticino 39 CULTURA / RUBRICHE ◆ ●
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Migros Ticino Offerte valide dal 30.5 al 5.6.2023, fino a esaurimento dello stock. Da tutte le offerte sono esclusi gli articoli M-Budget e quelli già ridotti. Il nostro consigliosettimana:della Tutti i tipi di olive non refrigerate M-Classic (prodotti Demeter e Alnatura esclusi), per es. olive nere spagnole, snocciolate, 150 g, 1.80 invece di 2.60 30% Tutto l'assortimento di müesli Farmer per es. Croc alle bacche di bosco, 500 g, 2.80 invece di 3.95 a partire da 2 pezzi 30% 6.70 invece di 9.60 Mozzarella Galbani 4 x 150 g conf. da 4 30% 15.50 invece di 25.85 Carta per uso domestico Plenty, FSC® Original o Fun, in confezioni speciali, per es. Original 1/2 strappo, 16 rotoli 40% 1.80 invece di 2.80 Bistecche di scamone di maiale
Grill mi, IP-SUISSE in conf. speciale, 4 pezzi, per 100 g 35% Meloni Charentais, Galia e retati (prodotti bio e Demeter esclusi), per es. melone retato, Spagna/Italia, il pezzo, 2.75 invece di 3.95 30% 30. 5 – 5. 6. 2023
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Golosità per aperitivi e grigliate Carne e salumi 4 Migros Ticino grigliata 1.80 invece di 2.75 Spiedini Grill mi, IP-SUISSE per 100 g, in self-service 34% 2.20 invece di 2.80 Pancetta da arrostire affettata, IP-SUISSE in conf. speciale, per 100 g 21% Tutti i salami Rapelli affettati Svizzera, per es. classico mini, per 100 g, 2.95 invece di 4.60, in self-service 35% 2.45 invece di 3.55 Prosciutto cotto Puccini prodotto in Ticino, per 100 g, in self-service 30% 4.20 invece di 5.30 Bistecche di manzo, IP-SUISSE per 100 g, in self-service 20% 2.20 invece di 2.80 Luganighetta nostrana Ticino, per 100 g, in self-service 20% 5.60 invece di 7.05 Prosciutto crudo nostrano Ticino, per 100 g, in self-service 20%
5 Offerte valide dal 30.5 al 5.6.2023, fino a esaurimento dello stock. Migros Ticino Fanne hamburger e via sul grill 1.35 invece di 2.10 Carne di manzo macinata M-Classic Germania/Austria, per 100 g, in self-service 35% 15.90 invece di 24.15 Sminuzzato di pollo Optigal Svizzera, 2 x 350 g conf. da 2 34% Cosce superiori e inferiori di pollo Optigal Svizzera, al naturale e speziate, per es. cosce superiori al naturale, 4 pezzi, al kg, 8.80 invece di 14.50, in self-service 39% In vendita ora al bancone 6.45 invece di 8.10 Entrecôte di manzo al bancone, IP-SUISSE per 100 g 20% 2.20 invece di 2.80 Costine carré di maiale Svizzera, per 100 g, in self-service 21%
Dal saporito al dolce: il gusto in tutte le variazioni
e latticini 6 Migros Ticino Cosparso sui gratin crea una saporita crosticina croccante 5.–invece di 7.15 Caprice des Dieux in conf. speciale, 330 g 30% Yogurt LC1 Immunity Nestlé disponibili in diverse varietà, per es. arancia sanguigna e zenzero, 4 x 150 g, 3.65 invece di 4.60 conf. da 4 20% Tutti i formaggi Da Emilio per es. Grana Padano grattugiato, 120 g, 2.45 invece di 2.90 15% 3.85 invece di 4.55 Tomino del boscaiolo con speck 2 pezzi, 195 g 15% 1.80 invece di 2.15 Formaggini freschi per 100 g 16% 2.25 invece di 2.70 Sole del Ticino per 100 g, confezionato 15% 2.35 invece di 2.95 Le Gruyère piccante Migros Bio, AOP per 100 g, prodotto confezionato 20%
Formaggi
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Una pesca buona
Da pesca sostenibile e rispettosa dell'ambiente
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con rosmarino-sale marino Grill mi, ASC in vaschetta per grill, d'allevamento, Grecia, per 100 g
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Spiedini di gamberi, ASC lemon pepper e Greek style, d'allevamento, Vietnam, per es. lemon pepper, per 100 g, in self-service
4.50 Spiedini di gamberi Exotic Curry Grill mi, ASC d'allevamento, Vietnam, per 100 g, in self-service
Pesce e frutti di mare 7 Offerte valide dal 30.5 al 5.6.2023, fino a esaurimento dello stock. Migros Ticino Base vegetale, cremosità totale
8.85 invece di 14.80 Filetti Gourmet
surgelati, 2 x 400 g conf. da 2 40% 5.60 invece di 7.–Panna intera UHT Valflora, IP-SUISSE 2 x 500 ml conf. da 2 20% Drink Ovomaltine 250 ml, 500 ml o High Protein, per es. drink Ovomaltine, 3 x 250 ml, 4.65 invece di 5.85 conf. da 3 20%
à la Provençale Pelican, MSC
Muesli
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g 20x CUMULUS Novità 2.45 Drink alla soia al naturale bio plant-based V-Love 1 l 20x CUMULUS Novità 13.75 invece di 19.80 Filetto dorsale di merluzzo M-Classic, MSC pesca, Atlantico nordorientale, in conf. speciale, 360 g 30%
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Pasta ripiena Anna's Best tortellini Tricolore al basilico o tortelloni Ricotta & spinaci, per es. tortellini, 2 x 500 g, 7.50 invece di 13.20
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Tutti i tipi di pasta Agnesi per es. lasagne all'uovo, 500 g, 3.65 invece di 3.95
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La «carne» vegetale di Planted viene prodotta partendo dai piselli gialli ed è quindi totalmente priva di additivi. La Planted
Nature è ricca di proteine e perfetta per chiunque voglia sperimentare con i
e liberare la propria creatività in cucina. Si può preparare e abbinare nei modi più diversi.
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Esaltatore di grigliate 6.95 Salsa Original plan based Chipeño 300 ml 20x CUMULUS Novità 3.15 Salsa Hot Chili Heinz 220 ml 20x CUMULUS Novità Tutti i tipi di zucchero fino cristallizzato 1 kg , per es. Cristal, 1 kg, –.95 invece di 1.40 30% Tutto l'assortimento Chop Stick per es. olio di sesamo, 190 ml, 4.60 invece di 5.80 20% 6.95 Spicy Habanero plant based Chipeño 300 ml 20x CUMULUS Novità
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Spiedini BBQ o al naturale planted. per es. al naturale, 2 x 175 g, 9.50 invece di 11.90 conf. da 2 20% 4.50 MayoMix Heinz 415 ml 20x CUMULUS Novità
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