Azione 22 del 27 maggio 2024

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edizione 22

MONDO MIGROS

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È in corso il progetto cantonale dei «buoni di formazione» per migliorare le competenze di base

SOCIETÀ Pagina 5

Nella

Ha detto addio alle competizioni, ma Marco Tadé non volta le spalle al mondo dello sci freestyle

TEMPO LIBERO Pagina 19

friend zone tra maschi e femmine

L’amicizia tra uomini e donne? Sì, è possibile, ma solo dopo una certa età, quando l’ormone ha smesso di comandare. Me lo dice senza tentennare, ironico (o realista?), lo scrittore italiano Andrea Vitali, di cui trovate l’intervista a pag. 9. Il tema è teoricamente irrisolvibile e ognuno ha una risposta valida soltanto per sé, ma – al di là dell’apparenza – è molto meno frivolo di quanto possa sembrare. Ci si sono rotte la testa le migliori menti della storia. «Le donne possono stringere benissimo amicizia con un uomo, scriveva caustico Nietzsche in Umano, troppo umano, ma per poterla conservare, a tal fine deve ben aiutare una piccola antipatia fisica». Come dire che gli amici dell’altro sesso, per essere davvero tali, o sono brutti, o comunque vanno percepiti come poco desiderabili.

Sempre Nietzsche osserva poi che «le medesime passioni hanno nell’uomo e nella donna un ritmo diverso: perciò uomo e donna continuano a fraintendersi». È quello che i moderni studiosi di psicologia evolutiva hanno tradotto con una formulazione semplice e brutale: «She thinks friends, he thinks sex» (lei pensa amici, lui pensa sesso). Non so se questo modo di concepire la faccenda sia ancora attuale, certo è che anche la scienza sembra propensa da avallarla.

Vorremmo dissentire e in parte possiamo farlo chiedendoci se, nell’epoca della società fluida, la presunta impossibilità dell’amicizia tra poli che si attraggono non andrebbe declinata per orientamento sessuale, invece che per genere. Può una persona a cui piacciono gli uomini, nel senso di esserne fisicamente attratta, donna o uomo che sia, essere solo amica di un uomo? Può una persona a cui piacciono le donne, uomo o donna che sia, essere solo amica di una donna? Lo stesso vale per ogni realtà rappresentata dalla sigla LGBTQ+. Insomma: si può ancor far valere la presunta differenza d’intenti più o meno consci tra maschi e femmine in una so-

cietà dalle molteplici relazioni non solo binarie? Ma l’obiezione più seria, tornando a maschi e femmine, è un’altra. Dire che l’amicizia tra i sessi è una condizione che dipende dalla pace dei sensi in età avanzata o dalla scarsa avvenenza della controparte, significa in un certo senso ammettere che non esistono altre possibilità di relazionarsi profondamente con persone del sesso opposto che non siano un’esperienza fisica gratificante. Significa anche rassegnarsi all’idea di «usare» l’immensa parte dell’umanità alla quale non si appartiene unicamente per soddisfare le proprie pulsioni primarie. Peggio ancora, e qui il pericolo è velenoso per le nuove generazioni, ritenere che un rapporto riuscito con una persona dell’altro sesso sia basato sulla sua «conquista» fisica, con tutto il corollario di frustrazioni, e ahimè di delitti, quasi sempre femminicidi, annesso a un eventuale rifiuto delle avances. È infatti purtroppo assai diffusa tra i giovani l’idea che se hai una ragazza, rispettivamente un ragazzo, sei un vincente. Se non ce l’hai sei uno «sfigato». L’amicizia con l’altro sesso appare quasi una trappola, un tonfo nella temutissima «friend zone», invece che un’esperienza di scambio e arricchimento reciproco senza secondi fini che costituisce la sua stessa essenza. Nascono così rapporti mutilati e immaturi, la convinzione di non essere in grado di gestire un’amicizia in presenza di attrazione fisica o di un rifiuto a darle un seguito.

Vitali, Nietzsche e gli psicologi evolutivi hanno molte ragioni quando osservano che tra maschi e femmine s’insinua spesso il fantasma del sesso, ma ciò non significa che queste relazioni d’amicizia con un grado maggiore di complessità non siano desiderabili e non generino relazioni preziose. In fondo, come scrive Dacia Maraini andando al nocciolo della questione, «un rapporto d’amicizia che sia fra uomini o donne, è sempre un rapporto d’amore».

ATTUALITÀ Pagina 29

Limitare i premi malattia e frenare i costi sanitari: lo chiedono due iniziative al voto il 9 giugno

La scrittrice Chiara Valerio racconta Chi dice e chi tace, il suo nuovo romanzo uscito per Sellerio

CULTURA Pagina 41

Di panchine e amicizie, ne parla Andrea Vitali

Settimanale di informazione e cultura Anno LXXXVII 27 maggio 2024 Cooperativa Migros Ticino
◆ ● G.A.A. 6592 San t’Antonino
Carlo Silini – Pagina 9 Carlo Silini
RICHIAMO – VOTAZIONE GENERALE 2024 La votazione generale giunge al termine. Le schede di voto devono essere deposte nelle apposite urne delle filiali o spedite entro SABATO 1° GIUGNO 2024 Freepik

Apertura straordinaria

Giovedì 30 maggio

(Festa di Corpus Domini)

saranno aperti dalle ore 10.00 alle 18.00 i seguenti punti vendita Migros:

Biasca Arbedo-Castione Giubiasco

Bellinzona Centro S. Antonino Riazzino

Locarno Taverne Pregassona

Centro Lugano Centro Agno

Mendrisio Campagna Adorna

Centro Shopping Serfontana

VOI Viganello

VOI Sementina

Do it + Garden Balerna

Centro Grancia* (*chiusura ore 19.00)

migrosticino.ch

«Salite in Vetta, non ve ne pentirete!»

Percento culturale Migros ◆ Michelle Hunziker, per Svizzera Turismo, ha celebrato il conferimento del label Swisstainable III alla Ferrovia del Monte Generoso

Michelle Hunziker, brand ambassador di Svizzera Turismo dal 2021, è protagonista di una nuova avventura in terra elvetica. Obiettivo: raccontare agli ospiti quanto sia semplice catapultarsi su una cima a 1700 metri per godersi aria pulita, quiete, buon cibo e un po’ di attività fisica.

La destinazione questa volta è proprio dietro l’angolo. Il Monte Generoso si staglia maestoso sul confine italo-svizzero tra la Val d’Intelvi e la Valle di Muggio. «Questo monte rappresenta un po’ la mia identità, sempre in bilico fra i due Paesi» scherza Michelle Hunziker, che ama definirsi svizzera nel DNA e italiana nel cuore. Ma è anche un esempio lungimirante di turismo sostenibile, altro tema caro a Michelle che ci tiene a sottolineare «quanto la cura del territorio e l’autenticità contraddistinguano la Svizzera».

Il Monte Generoso si raggiunge facilmente dal paesino di Capolago, a una manciata di chilometri da Mendrisio, con la storica cremagliera che da più di 130 anni fa la spola fra Lago di Lugano e montagna. Il tracciato di 9 km attraversa dapprima un bosco fitto che man mano si dirada per lasciare spazio al crinale roccioso che si apre su uno dei panorami più belli del Canton Ticino. «40 minuti di pura magia» racconta Michelle «e si vede pure la Madonnina di Milano!». Non è uno scherzo! Quando il cielo

è limpido, infatti, si può ammirare un vasto territorio che si estende dalla regione dei laghi – Lugano, Como, Varese, Maggiore – alla pianura padana, dal Gran Paradiso al Monte Rosa, dal Cervino alla Jungfrau. Non è un caso che sul tragitto per la vetta del Monte Generoso sia stato installato il photo spot del Grand Tour of Switzerland, l’itinerario circolare che unisce le più belle attrazioni della Svizzera.

Tisane, formaggi e passeggiate

Non solo lo sguardo ma anche il gusto è pienamente ripagato. Al Fiore di pietra, edificio di cinque piani progettato da Mario Botta, si possono gustare i sapori locali al ristorante à la carte o al self-service come lo Zincarlin della Valle di Muggio (presidio slow food), i salumi nostrani e una selezione di vini completamente ticinesi premiata dallo Swiss Wine List Award. La scelta degli ingredienti locali è in linea con Swisstainable, il manifesto di Svizzera Turismo per preservare l’ambiente e valorizzare le specificità di un territorio. In quest’ottica nasce, ad esempio, la Tisana Monte Generoso. Al buffet Bellavista, situato presso l’omonima fermata intermedia della Ferrovia, si servono birre artigianali e il gin Bisbino, prodotto a Sagno. I meno sedentari possono praticare tantissime attività: mountainbike, pa-

A colazione al LAC con il Triangolo

Appuntamenti ◆ Musica e buffet alla Colazione benefica dell’Associazione Triangolo

L’8 giugno, ritorna l’apprezzata iniziativa Colazione in Piazza dell’Associazione Triangolo. Volontariato e assistenza per il paziente oncologico. Se nel 2022 ci si era dati appuntamento in Piazzetta San Carlo a Lugano, quest’anno organizzatrici e organizzatori vi aspettano nel suggestivo scenario di Piazza Luini, di fronte al LAC. Per l’occasione (e con l’aiuto di Migros Ticino), all’esterno sarà alle-

stito un ricco buffet con trecce, varietà di pane, marmellate, formaggi, gipfel, tè, caffè e succhi, e si potrà consumare la colazione ai tavoli disposti in Piazza. Nel corso della colazione si alterneranno diversi momenti musicali dal vivo, compresa un’esibizione dei suonatori di corno delle alpi, e vi sarà spazio anche per l’intrattenimento dei più piccoli. L’intento è di conoscere le attività dell’Associazione Triangolo, i suoi obiettivi e il suo messaggio. Portare in piazza amiche e amici, parenti e famigliari, colleghe e colleghi permetterà a persone nuove di scoprire i campi di intervento del Triangolo e di trascorrere una mattinata primaverile in compagnia.

Dove e quando

Colazione in piazza, 8 giugno 2024, Lugano, Piazza Luini.

Orario: 9.00-13.00

Ingresso: 20 CHF; gratuito per bambini sotto i 12 anni

Info: www.triangolo.ch

rapendio, birdwatching. Si può visitare la Grotta dell’Orso, percorrere il sentiero dei pianeti o quello delle Nevère.

Sempre più sostenibile

La madrina della sostenibilità annuncia orgogliosa il recente traguardo raggiunto dalla Ferrovia Monte Generoso, sostenuta dal Percento culturale Migros. «Un record e un riconoscimento davvero prestigioso» afferma Michelle Hunziker mentre taglia il nastro. È il primo impianto di risalita, in Ticino, ad aver ottenuto il Swisstainable Level III che indica l’impegno concreto e certificato da un ente ter-

è brand ambassador di Svizzera Turismo. (Svizzera Turismo)

zo per tutelare la biodiversità, evitare gli sprechi e offrire ai visitatori un’esperienza nella natura incontaminata. Le azioni messe in atto sono molteplici e coinvolgono tutta l’offerta del Monte Generoso, comprendente i suoi quattro prodotti: la ferrovia a cremagliera, il Camping Monte Generoso a Melano, il grotto Buffet Bellavista e la struttura Fiore di pietra. La Ferrovia è alimentata da energia proveniente da fonti al 100% rinnovabili, vengono organizzate delle giornate «Clean up» per ripulire i sentieri con l’aiuto del pubblico. Una particolare attenzione viene data alla tutela della flora e della fauna alpina per favorire la biodiversità. E così si possono os-

servare ricci, picchi rossi e altre piccole creature nei dintorni del Bellavista, dove, per scelta, non vengono rimossi mucchi di sassi e vecchi tronchi, habitat naturale per diverse specie. Fra queste anche la Rosalia alpina, un insetto minacciato dall’estinzione.

Promo 2x1: un motivo in più per salire in vetta Generoso di nome e di fatto… In occasione della visita di Michelle Hunziker, viene presentata un’altra novità per la stagione primaverile che piacerà soprattutto alle famiglie. Fino al 30 giugno 2024 è attiva la speciale tariffa per viaggiare in 2 pagando 1 solo biglietto sul trenino a cremagliera. Per ottenere lo sconto basta compilare il formulario disponibile su www.montegeneroso.ch/2x1, scaricare il voucher e mostrarlo in cassa a Capolago. Nessun pagamento in anticipo, nessuna prenotazione! Non resta che partire e vivere la natura sul Monte Generoso. «Non ve ne pentirete» parola di Michelle Hunziker.

Informazioni www.montegeneroso.ch www.svizzera.it

Migros si riorganizza Prime misure a Zurigo

Migros ◆ L’azienda intende rafforzare il proprio core business –i supermercati – a livello nazionale. Ecco una panoramica delle misure

Una nuova strategia è stata adottata la scorsa settimana per Migros Supermercati SA. Questa società indipendente è entrata in funzione all’inizio dell’anno per centralizzare la gestione e rafforzare il core business della Migros: i supermercati. Dopo una fase di test, la nuova organizzazione è ora operativa. Ciò comporta purtroppo anche una riduzione di circa 150 posti di lavoro a tempo pieno presso la sede centrale di Zurigo.

Il Ticino non è toccato

La misura non avrà ripercussioni sull’organico delle Cooperative regionali e quindi non toccherà Migros Ticino. Peter Diethelm, CEO di Migros Supermercati SA, spiega che Migros ha bisogno di processi semplificati, strutture snelle e ruoli chiari. «Sono ben consapevole del fatto che un licenziamento sia spiacevole e doloroso per il personale coinvolto», afferma Diethelm. Tutte le persone interessate riceveranno un sostegno

completo e competente per il loro riorientamento professionale. A tal fine, Migros ha introdotto un nuovo piano sociale di ampia portata.

Divisioni da accorpare

Nell’ambito della riorganizzazione, la direzione sta fondendo le divisioni Food e Prodotti freschi in un’unica divisione. Ciò dovrebbe anche semplificare e standardizzare i processi delle attuali divisioni. Un altro cambiamento riguarda l’assortimento di elettronica in circa 50 delle maggiori filiali dei supermercati. Le superfici di vendita integrate di melectronics saranno ridotte a un assortimento di base. Questo passo è legato alla prevista vendita del negozio specializzato. Una selezione di importanti prodotti di uso quotidiano rimarrà disponibile in queste sedi: ad esempio, un assortimento per la cura del corpo e l’igiene orale, elettrodomestici da cucina e macchine da caffè, apparecchi per la pulizia, orolo-

gi, batterie, cartucce per stampanti e supporti dati.

Addio a Nutri-Score

In futuro, Migros non utilizzerà più il Nutri-Score nell’etichettatura degli alimenti. Si tratta di una scala di valutazione posta sul fronte della confezione che fornisce informazioni sul valore nutrizionale totale di un prodotto. Migros ha introdotto questa etichettatura volontaria tre anni fa, con un successo moderato: i benefici sono ritenuti modesti. Il Nutri-Score sarà quindi gradualmente eliminato dai prodotti Migros. La clientela continuerà a trovare informazioni esaurienti sui valori nutrizionali sulle confezioni di tutti i prodotti Migros. Il processo di trasformazione non è ancora completo. Nei prossimi mesi verranno adottate ulteriori misure per rendere l’azienda più efficiente in tutti i settori, con l’obiettivo di offrire alla clientela prodotti di alta qualità a prezzi interessanti.

Settimanale di informazione e cultura Anno LXXXVII 27 maggio 2024 azione – Cooperativa Migros Ticino MONDO MIGROS 3 azione Settimanale edito da Migros Ticino Fondato nel 1938 Abbonamenti e cambio indirizzi tel +41 91 850 82 31 lu–ve 9.00 –11.00 / 14.00 –16.00 registro.soci@migrosticino.ch Redazione Carlo Silini
Sala
Manzoni
Mazzi Romina Borla Natascha Fioretti Ivan Leoni Sede Via Pretorio 11 CH-6900 Lugano (TI) Telefono tel + 41 91 922 77 40 fax + 41 91 923 18 89 Indirizzo postale Redazione Azione CP 1055 CH-6901 Lugano Posta elettronica info@azione.ch societa@azione.ch tempolibero@azione.ch attualita@azione.ch cultura@azione.ch Pubblicità Migros Ticino Reparto pubblicità CH-6592 S. Antonino tel +41 91 850 82 91 fax +41 91 850 84 00 pubblicita@migrosticino.ch
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e amministrazione Cooperativa Migros Ticino CP, 6592 S. Antonino tel +41 91 850 81 11 Stampa Centro Stampa Ticino SA Via Industria – 6933 Muzzano Tiratura 97 ’925 copie ●
Editore L’appuntamento dell’8 giugno sarà in Piazza Luini. (© LAC 2015 – Foto Studio Pagi) Michelle Hunziker

I l colorato giardino roccioso del

Reportage ◆ Si chiama Nicola di Cesare, il 74enne che a Grosio ha ricreato un percorso ricco di mosaici grazie al recupero di materiale

Luigi Baldelli, testo e foto

Surf and turf per buongustai

Baffetto alla D’Artagnan, capelli ricci che tendono al bianco, occhi dolci e buoni che ti guardano curiosi e un po’ interrogativi. Nicola di Cesare è un pensionato di 74 anni, con mani da lavoratore e un cuore puro. Vive a Grosio, un piccolo paese di quattromila anime in fondo alla Valtellina, verso il confine svizzero. Intorno a lui, da una parte le Alpi Retiche e dall’altro lato le Orobiche. La vetta del Mortirolo, a fare da guardiano. È qui che Nicola ha creato la sua opera d’arte: il giardino roccioso. «Tutto è nato per caso, 43 anni or sono. Era il 1981 e mi serviva uno spiazzo per fare un orto ma dietro casa c’era solo questa parete di roccia. E allora ho pensato: semplice! Faccio dei terrazzamenti sulla roccia, dei giardini verticali». Così, con pala, piccone, sassi e cemento ha tirato su dei muri e realizzato dei piccoli terrazzi per accogliere gli orti.

Intuizione e fantasia

Il lavoro è andato avanti piano piano, sviluppandosi verso l’alto e costruendo anche delle scale e dei camminamenti che potevano unire gli orti. Ma così, questi muri spogli, solo di sassi e roccia, non piacevano molto al nostro Nicola, che decide a quel punto di costruire degli archi e decorare le scale, i muri e le volte, con dei mosaici. «Mi è venuto così, d’istinto. Senza nessun disegno o idea in testa. Quando avevo tempo libero, invece di andare all’osteria, mi mettevo qui a lavorare».

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calma e un accento che passa dall’abruzzese a quello delle Valtellina.

succhi di frutta, mentre questi pezzettini rossi sono i fanali di un’auto che era stata tamponata qui, in fondo alla via di casa mia» mi racconta Nicola mentre ci arrampichiamo lungo le scale strette. Il tragitto è segnato dalle date: 1981, 1990, 2001 eccetera. Sono le tappe del percorso di Nicola per arrivare in cima. «Quando ho iniziato non sapevo che cosa sarebbe uscito fuori. Ho semplicemente preso del cemento e ho attaccato dei sassi colorati sui muri. Andavo avanti così, senza disegni ma solo come mi diceva la fantasia. Dei cerchi, delle linee rette, dei cuori o delle spirali. Dovunque c’era uno spazio libero, per terra, sui muretti o sulle pareti di roccia, mettevo un po’ di cemento e ci incollavo qualcosa. Alla fine è venuto fuori tutto questo» dice con quella sua voce

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Il materiale che usa per i suoi mosaici è di scarto: vecchie mattonelle, vetri di bottiglie colorate, sassi recuperati lungo il fiume Adda, oggetti lasciati in discarica: «Perché avrei dovuto comprarlo quando lo buttavano via?». Una frase che si riaggancia con la cultura contadina e la storia personale di Nicola. Nato nel 1950 in Val di Sangro, Abruzzo, si trasferisce da bambino con la famiglia prima a Roma, dove consegna in bicicletta il pane nei negozi del centro, e poi in Valtellina. Qui si iscrive alla scuola alberghiera e conosce Domenica, con cui condivide ancora oggi un matrimonio «sereno e felice», come dice guardandomi fisso negli occhi. Ed è proprio dietro la loro casa (che li ospita insieme da 50 anni, ma che non aveva lo spazio per un orto), che ha costruito il suo giardino di roccia. Così, da un piccolo orto dietro casa, si è sempre più ingrandito, e proteso verso l’alto. Un terrazzamento qui, uno lì, un altro un po’ più sopra, una scala per unirli. Alla fine le scale sono diventate 207 per un’opera che parte dal basso e si sviluppa per circa 30 metri di altezza, dove si trova l’ultimo terrazzo, e 20 di larghezza.

Il percorso

A ogni passo si è circondati da disegni creati dai mosaici che adornano e abbelliscono la pietra, da oggetti recuperati in discarica come vecchi telefoni, lampade, un volto in bassorilievo di Gesù incastonato nella roccia o antiche ruote di legno. Vecchie damigiane sono state trasformate in anfore e ricoperte da pietruzze colorate. Ogni tanto si trovano secchi pieni di sassi o plastiche di mille colori: «Questi vetri blu sono delle bottiglie dei

Ecologia? No, rispetto

«Era ed è il mio passatempo». Viene spontaneo chiedergli se lui è un precursore dell’ecologismo e del riciclaggio. Sorride Nicola a questa domanda e dice che lui non è ecologista, ma non capisce e non accetta la cultura dello spreco, di buttare tutto quando non serve più, invece di riutilizzarlo. Certamente questo giardino roccioso è qualcosa di unico e virtuoso per il riciclaggio del materiale: «Noi oggi con tutti i nostri scarti inquiniamo il pianeta». Si ferma, tira un sospiro e facendosi più serio aggiunge: «E quando non abbiamo più dove metterli, li portiamo nei Paesi del terzo mondo e

2.55 Ananas Costa Rica/Ecuador, il pezzo

inquiniamo ancora di più anche loro. Ti sembra bella una cosa del genere?» domanda mentre accende un’altra sigaretta: «Vedi questi archi? All’interno c’è un tubo di plastica che io ho ricoperto di cemento e poi di pietruzze colorate. E sai dove ho preso i tubi? Scarti di un cantiere edile; li stavano buttando in discarica. Quanto spreco. Per fortuna quelli della nettezza urbana quando trovano qualcosa che mi può essere utile, me lo mettono da parte».

sce mai, c’è sempre da fare qualcosa. Qui, dice indicando un pezzo di roccia ancora libero, voglio fare un altro scarabocchio colorato».

5.90

Continuiamo a salire circondati dai mille colori dei mosaici. Una vecchia sveglia è appesa al muro, mentre un telefono rosso è appoggiato in un buco tra le rocce. All’angolo, ancora un secchio pieno di mattonelle colorate e pezzi di specchio, pronte per essere rotte e usate per fare un nuovo collage di fantasia. «Il lavoro non fini-

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Eppure, ci chiediamo, prima o poi una fine questo progetto la raggiungerà… «Ah guarda – ci dice ridendo – quando sarò finito io, per me ci possono fare quello che vogliono. I miei tre figli hanno la loro vita e non verranno certo qui a continuare questo mio hobby».

Attrazione turistica

Intanto iniziano ad arrivare i primi visitatori. Sono una coppia di Torino, seguita subito dopo da una di Roma. Nicola ha una battuta per tutti e li mette a proprio agio. Si complimentano per la sua bravura, per i particolari del giardino, gli dicono che il posto ha qualcosa di magico e si stupiscono di come sia riuscito a tirar su tutto questo. Lui si schermisce un po’ per poi rispondere: «Che ci vuole? È una cosa normale, non serve un titolo di studio per farlo. Ma solo volontà». In settimana, il numero di persone che viene a vedere il giardino roccioso non è altissimo, ma è nei fine settimana che l’affluenza di visitatori aumenta. Arrivano pullman da diversi posti della Lombardia e dal Piemonte, dal Veneto. Famiglie con bambini che rimangono stupiti e a bocca aperta per la vastità di colori e disegni, perdendosi in un tragitto fiabesco di scale e balconi che si affacciano sulla valle. Un’altra caratteristica di questo posto è che non si paga il biglietto. È sempre aperto a tutti. «Perché devo far pagare?» ci domanda e domanda a sé stesso Nicola. «Io qui non consumo niente, non ho spese, quindi chi vuole può venire e se gli piace lascia un’offerta. Ma io non chiedo soldi». E anche questo forse Nicola non lo sa, ma è un grande

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Settimanale di informazione e cultura Anno LXXXVII 27 maggio 2024 azione – Cooperativa Migros Ticino 20

SOCIETÀ

Locarno, la città che include La Fondazione Ares coinvolge i centri urbani per creare luoghi «amici dell’autismo»

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Andrea Vitali sulla panchina Intervista allo scrittore che inaugurerà il prossimo 8 giugno a Lugano la «panchina dell’amicizia»

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Istantanee sui trasporti Spese degli spostamenti: anche per le trasferte oltre San Gottardo vince il mezzo pubblico

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Automobilisti più sicuri Il 7 luglio entrano in vigore le nuove prescrizioni circa i Sistemi avanzati di assistenza alla guida

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Un buono per migliorare le competenze di base

Formazione ◆ Francesca Di Nardo ci spiega come funzionano e che opportunità danno i 160 buoni da 500 franchi pensati per sostenere gli adulti che vogliono rafforzare le proprie conoscenze fondamentali dell’italiano, della matematica e delle tecnologie

In Svizzera circa 800’000 adulti non sono in grado di leggere e scrivere correttamente. In Ticino il loro numero si attesta a 40’000. Quali soluzioni esistono per ridurre questa lacuna non propriamente trascurabile? Approfondiamo il tema con Francesca Di Nardo dell’Ufficio della formazione continua e dell’innovazione, ispettrice attiva nella promozione della formazione continua degli adulti e delle competenze di base, alla luce di un importante progetto pilota promosso dal Dipartimento dell’educazione, della cultura e dello sport (DECS) lo scorso marzo e la cui sperimentazione durerà fino ad ottobre: l’offerta di «buoni di formazione» per accrescere le competenze di base in coloro che lo richiedono, buoni che implicano uno sconto di 500 franchi sui corsi.

Il primo corso frequentabile con i buoni formazione del DECS ha riguardato l’italiano nell’ambito delle professioni sociosanitarie

Chi ha diritto ai buoni di formazione? E qual è il profilo di coloro che ne fanno richiesta?

Possono beneficiare dei buoni le persone maggiorenni (fino ai 65 anni) che abitano in Ticino, di nazionalità svizzera o con permesso C o B, con una conoscenza elementare dell’italiano – è richiesto un livello A2 acquisito – e non al beneficio di indennità di disoccupazione o di misure di inserimento e integrazione. Le potenziali persone cui è destinata l’iniziativa sono fra di noi. Sono molti, infatti, coloro che possiedono un telefonino senza essere in grado di conoscere e attivare le sue funzioni. Vuoti, questi, che non vengono vissuti come un tabù. È invece un tabù la difficoltà di capire un testo. Questo deficit emerge spesso lungo il percorso professionale di molti lavoratori e lavoratrici, che non riescono ad esempio a rimanere al passo con lo sviluppo delle tecnologie: basti pensare alla pratica introdotta ormai dalla maggior parte delle aziende di inserire i turni di lavoro o le vacanze online. Se non lo so fare, sono escluso. C’è inoltre il caso di chi ottiene una promozione sul posto di lavoro e nel momento in cui gli viene richiesto di redigere dei rapporti si scopre in difficoltà ad assolvere questo compito. Da qui emerge la necessità di formarsi. Dal canto nostro sensibilizziamo sul tema, cercando di incentivare le persone a frequentare senza alcun imbarazzo i molteplici

corsi mirati a questo tipo di apprendimento e disponibili sul territorio nell’ambito della formazione per le competenze di base che il DECS promuove ormai da diversi anni.

L’iniziativa è partita da pochi mesi. Si può già tracciare un primo bilancio?

Il primo corso con i buoni di formazione ha riguardato l’italiano nell’ambito delle professioni sociosanitarie: si sono iscritte 12 persone un po’ di tutte le età, tra i 25 e i 65 anni, perlopiù con un percorso migratorio. Che seguono i corsi in ambito competenze di base ci sono anche ticinesi scolarizzati che ad esempio hanno sempre svolto lavori pratici e si vedono d’un tratto nel bisogno di rafforzare il vocabolario e la lingua italiana per far fronte a nuove sfide professionali. Molti non se la sentono di tornare sui banchi di scuola, magari memori di esperienze poco gratificanti; quello che cerchiamo di chiarire con loro è che si tratta di formazioni fra adulti, con un’attenzione diversificata nei confronti di ogni partecipante. I corsi sono sia diurni sia serali. Tutto il corpo docente è formato e ha competenze nella didattica per gli adulti.

Oltre all’italiano, quali altre materie promuovete?

Da lunedì 3 giugno sarà disponibile sul sito Internet dell’Istituto della formazione continua (IFC), all’indirizzo www.ifc.ti.ch/competenzebase, il catalogo dei corsi con una decina di nuove offerte pagabili con i buoni di formazione: verteranno ad esempio sull’uso dello smartphone, sulla gestione del budget e sull’informatica in genere. I corsi cominceranno in settembre, seguendo il calendario scolastico. Le lezioni, previste principalmente nel Luganese, nel Bellinzonese e a Chiasso, prenderanno il via se sarà raggiunto un minimo di quattro iscritti. Attueremo naturalmente azioni di promozione. In questa fase sperimentale i corsi sono proposti da CFP-OCST, Croce Rossa Ticino, ECAP Ticino Unia e dall’Istituto della formazione continua (IFC) stesso.

Come è nata l’iniziativa?

Questa sperimentazione sorge dall’impulso di una mozione presentata nel 2022 dalla granconsigliera Anna Biscossa (e confirmatari), che proponeva di creare buoni di formazione per le persone residenti per rafforzare le competenze di base,

ossia leggere, scrivere, parlare nella lingua in cui si vive, saper usare la matematica nel quotidiano. Ci sono poi le tecnologie, indispensabili anche solo per acquistare un biglietto dei mezzi di trasporto con lo smartphone. Questa, in estrema sintesi, è la definizione di competenza di base contemplata dalla legge federale sulla formazione continua. Il Consiglio di Stato ha accolto la proposta parlamentare, incaricando il DECS di avviare la sperimentazione che si concluderà in autunno e che si limiterà all’attribuzione di 160 buoni da 500 franchi.

A suo avviso il progetto ha concrete opportunità di proseguire? Occorre sottolineare che il Ticino promuove ormai da diversi anni anche altre iniziative: solo lo scorso anno abbiamo registrato quasi 3000 partecipazioni ad altri tipi di corsi organizzati a favore delle competenze di base. Il la è stato dato nel 2017 con la Legge federale sulla formazione continua. A livello svizzero, attraverso la Segreteria di stato per la formazione, la ricerca e l’innovazione (SEFRI) sono stati avviati i Programmi cantonali in questo preciso ambito, con i relativi finanziamenti. L’obiettivo è offri-

re la possibilità alle persone adulte di estendere le proprie competenze di base, una premessa indispensabile per l’apprendimento permanente e per garantire l’inclusione sociale e professionale. Proprio per incrementare l’accessibilità alle nostre proposte formative in ambito di competenze di base è attivo, tutto l’anno, un numero verde gratuito (0800 47 47 47) che consente di ricevere informazioni relative a questi corsi. Da parte nostra abbiamo anche un ruolo di vigilanza, dal momento che parliamo di fondi pubblici, e osserviamo dunque da vicino lo svolgimento dei singoli corsi. Proprio a fine maggio andremo a conoscere gli iscritti del primo corso promosso attraverso i buoni di formazione. Inoltre, la sperimentazione vedrà una valutazione esterna da parte di ricercatori e ricercatrici del Centro competenze innovazione e ricerca sui sistemi educativi (CIRSE) della SUPSI, che si occupa proprio di monitorare il progetto per valutarne la sostenibilità organizzativa, amministrativa e finanziaria. Anche in vista di un eventuale suo consolidamento futuro.

Informazioni www.ti.ch/cbda

● ◆ Settimanale di informazione e cultura Anno LXXXVII 27 maggio 2024 azione – Cooperativa Migros Ticino 5
I corsi proposti sono sia diurni sia serali, e si rivolgono esclusivamente ad adulti con un’attenzione diversificata nei confronti di ogni partecipante. (Freepik.com) Guido Grilli

Fragole biologiche nostrane

Novità ◆ Nei maggiori supermercati di Migros Ticino sono ora disponibili quelle prodotte dall’azienda agricola di Caritas Ticino

Produzione biologica e sociale

Le fragole biologiche nostrane sono prodotte a S. Antonino, presso CatiBio, l’azienda agricola di Caritas Ticino, dove sono occupate, in un percorso di agricoltura sociale, persone con indennità di disoccupazione, in assistenza, come pure richiedenti l’asilo. Le fragole coltivate appartengono a tre varietà unifere, ossia che fioriscono una volta all’anno. I frutti sono coltivati in piena terra, sotto tunnel, su una superficie di ca. 1400 metri quadri. La raccolta viene effettuata tra maggio e giugno. L’azienda è certificata secondo le direttive di Bio Suisse. Nella coltivazione non vengono usate sostanze chimiche, ma solo sostanze attive e fertilizzanti conformi alle direttive di produzione di Bio Suisse. Gli insetti nocivi sono combattuti con l’utilizzo di insetti utili, predatori e parassitoidi di insetti antagonisti. Le fragole nostrane biologiche di Caritas Ticino sono vendute nella vaschetta da 250 grammi.

La regina delle bacche

Anche se nel linguaggio comune viene considerata parte della famiglia delle bacche, dal punto di vista bota-

nico non lo è. Il colore delle fragole non è sinonimo di aroma più intenso. I frutti dal colore rosso intenso non sono sempre più dolci. L’aroma delle fragole si combina particolarmente bene con i latticini e lo zucchero.

Oltre ad essere ricche di vitamina C, le fragole sono anche povere di calorie, dato che contengono soltanto 40 kcal ogni 100 grammi. Le fragole andrebbero consumate subito, poi-

ché cominciano a perdere il loro sapore poche ore dopo la raccolta.

Trasporti brevi

Le fragole coltivate sui nostri campi si caratterizzano per i tempi brevi di trasporto tra produttore e rivenditore. Esse vengono raccolte quando hanno raggiunto il grado di matu-

razione ideale e al massimo entro 24 ore i prodotti sono disponibili sugli scaffali di Migros Ticino. Insomma, al massimo della loro freschezza.

Fragole svizzere che bontà

Le fragole svizzere sono molto apprezzate dai consumatori indigeni. Il 50% delle fragole vendute da

Migros sono di provenienza svizzera. Il periodo principale di raccolta va da metà maggio fino a metà giugno. Secondo l’Associazione Svizzera Frutta, quest’anno la qualità è eccellente e si stima una produzione di 7600 tonnellate. In Svizzera la superficie dedicata alle fragole si aggira sui quasi 500 ettari. Il principale produttore a livello nazionale è il Canton Turgovia.

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Novità ◆ L’ultima innovazione del famoso marchio Deborah Milano: Super Vinyl Shake Lipstick

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Settimanale di informazione e cultura Anno LXXXVII 27 maggio 2024 azione – Cooperativa Migros Ticino MONDO MIGROS 6

L’inclusione inizia dalle città

Autismo

◆ La Fondazione Ares promuove un progetto che coinvolge Bellinzona, Lugano e Locarno per sensibilizzare commercianti, operatori turistici ed enti pubblici sui bisogni delle persone che soffrono di un Disturbo dello Spettro Autistico

La qualità di vita di bambini e adulti che soffrono di un Disturbo dello Spettro Autistico (DSA) passa sempre più da una diagnosi precoce seguita da interventi mirati, ma pure dalla possibilità di partecipare nella quotidianità alle attività tipiche della comunità di riferimento. Ciò significa ad esempio andare al supermercato, al ristorante, dal parrucchiere. All’apparenza azioni semplici che a queste persone e alle loro famiglie richiedono però grandi sforzi per superare le barriere derivanti dalla loro condizione. La Fondazione Ares (Autismo Risorse e Sviluppo) ha promosso tre anni fa il nuovo progetto La città che include, iniziando da Bellinzona dove ha la sua sede aperta al pubblico quale centro di informazione e documentazione e dove operano una quindicina di persone attive nella formazione, nella consulenza e negli interventi dalla prima infanzia all’età adulta. Dalla capitale l’iniziativa è stata estesa nel 2023 a Lugano, mentre quest’anno è Locarno ad avviare il processo che porta alla creazione di luoghi «amici dell’autismo», dove le persone con autismo e le loro famiglie possono trovare interlocutori in grado di riconoscere e accogliere i loro bisogni speciali. Ciò è possibile attraverso buone prassi da mettere in atto dopo la sensibilizzazione e la breve formazione previste dal progetto. Con questa iniziativa la Fondazione Ares va quindi a migliorare l’inclusione soprattutto delle persone che presentano un disturbo autistico poco accentuato. Proprio per questo motivo alcuni loro comportamenti nella vita quotidiana possono essere male interpretati creando disagio e insicurezza sia nella persona con autismo sia nei suoi interlocutori. «Anche la parola autismo – aggiunge Gionata Bernasconi, autore con la collega Rosy Pozzi del progetto La città che include – è diventata da un lato più comune, ma dall’altro utilizzata a volte in modo improprio». Riprendiamo quindi la spiegazione fornita nel pieghevole Locarno la città che include che con la sua

Viale dei ciliegi

Susanne Strasser

Tutti sul divano

Terre di Mezzo (Da 2 anni)

grafica blu (colore associato all’autismo a livello internazionale) nei prossimi mesi attirerà l’attenzione del pubblico in commerci e uffici pubblici della Città sul Verbano. Si legge: «A vari livelli emergono compromissioni nelle modalità di comunicazione e interazione sociale, difficoltà a comprendere il pensiero altrui e a leggere e capire le situazioni sociali. Molte di queste persone convivono con una ipo o iper sensibilità sensoriale e possono essere soggette a movimenti del corpo ripetitivi e stereotipati. In molti casi faticano a vivere i cambiamenti e a interrompere le loro routines». Ciò permette di comprendere perché le situazioni di vita collettiva possono risultare fonte di stress e quindi di comportamenti insoliti da parte delle persone con DSA. Altro fattore importante è il loro numero. «L’autismo non è una condizione rara – spiega Gionata Bernasconi – perché riguarda un neonato su 100. Possiamo quindi stimare che in Ticino vi siano 20-25 nuovi nati all’anno.

La nostra attività di consulenza e intervento, per la quale esiste ormai una lista d’attesa, segue in un anno circa 140 bambini e 80 adulti con il coinvolgimento di 250 famiglie».

Il rischio è l’autoesclusione

Famiglie che, considerato il gravoso impegno nell’organizzare un’uscita con una figlia o un figlio autistico, tendono ad autoescludersi dalla vita sociale o a limitarla a quei luoghi dove sanno che la loro condizione è capita e rispettata. Un bambino che si nasconde sotto un tavolo in un negozio o che si tappa le orecchie può agire in questo modo per proteggersi da stimoli ambientali per lui eccessivi come lo sono a volte la presenza di troppe persone o l’alto volume della musica. Non va quindi giudicato negativamente, ma piuttosto accolto con qualche accorgimento. Gionata Bernasconi spiega che in alcuni casi sono sufficienti piccoli cambiamenti per rendere un ambiente

più inclusivo e questo non solo a favore di chi soffre di DSA. «Con il nostro progetto desideriamo offrire la possibilità di leggere determinate situazioni con uno sguardo attento e sensibile affinché si riesca a dare un senso a comportamenti che riflettono i bisogni specifici di chi soffre di DSA. Le discriminazioni in questo senso sono per lo più involontarie e non percepite come tali. Ci muoviamo a livello di barriere legate all’ambiente umano, più complesse da riconoscere rispetto a quelle riguardanti le disabilità fisiche». Tornando agli esempi, ecco che «a livello di percezione sensoriale si può agire abbassando la musica o, per le grandi superficie di vendita, considerando eventuali aree o fasce orarie che permettano di evitare situazioni eccessivamente stimolanti; esperienze in questo senso sono già in corso in Francia. Anche gli alberghi possono compiere una riflessione analoga. È il caso della catena Best Western, che prevede camere discoste più tranquille presentate tramite numerose immagini per facilitare la scelta ai potenziali clienti. Per quanto riguarda la comunicazione – si pensi ai negozi o agli sportelli dei servizi pubblici – è importante rispettare i tempi di reazione delle persone, semplificare il linguag-

Ha vinto il Premio italiano Nati per Leggere (fascia 18-36 mesi), conferito al recente Salone di Torino, questo divertente albo dell’autrice tedesca Susanne Strasser, che si aggiunge alle altre sue brillanti «storie ad accumulo» pubblicate in italiano da Terre di Mezzo. Le storie ad accumulo, perfette per questa fascia d’età, si caratterizzano per una narrazione solitamente basata su una situazione fissa e ben definita, nella quale pagina dopo pagina viene ad aggiungersi un elemento, o un’azione, che mescola abilmente la conformità alle aspettative del giovane lettore con un guizzo sorprendente, che scatena la risata e mantiene desta l’attenzione. Ad esempio, in questa storia, la situazione è l’invito del bambino o bambina protagonista (volutamente l’illustrazione lascia aperte entrambe le possibilità) a venire sul divano ad ascoltare la lettura di un libro. «Ragazzi, venite! Leggiamo un libro!». Il primo ad arrivare è il criceto, che subito chiama anche la zebra, il gatto e il leone. «Adesso si può cominciare». Ma… «Aspettate!» Arriva anche la cicogna, e scavalca con le sue lunghe gambe lo schienale del divano per accomodarsi ad ascoltare la storia. Allora adesso si può cominciare. «Fermi tutti!» Il gatto vuole un cuscino, e poi il criceto vuole andare a prendere anche il pesce, che nella sua boccia non può certo arrivare da solo, e poi il leone si lamenta perché la cicogna si è sdraiata sulla sua coda (con i popcorn del criceto)… È proprio nel contrappunto tra quell’iterato «adesso si può cominciare» e il tormentone di qualcosa che immancabilmente arriva

a rimandare la lettura, che si esprime l’umorismo di questa storia. Ma anche altri sono gli aspetti apprezzabili del libro: ad esempio l’abilità dell’autrice a vivacizzare ogni dettaglio, dando a ogni oggetto presente sulla scena un dinamismo e una funzione narrativa. Nulla è statico né casuale, tutto si muove e ha un senso. Soprattutto gli oggetti dimenticati sotto il divano: il gomitolo verrà recuperato dal gatto, e poi servirà a qualcos’altro, così come la torcia, per non parlare delle pantofole… che il rinoceronte verrà a cercare, generando un dirompente finale, in cui lo scenario «tutti sul divano ad ascoltare una storia» assumerà inedite, divertenti e ancor più confacenti modalità.

Sergio Ruzzier

Diciassette fiocchi di neve e altre storie, «serie Fox+Chick», Topipittori (Da 3 anni)

«Per la capacità di delineare un universo rassicurante e quieto in cui i due protagonisti vivono le loro avventure, con scambi verbali sospesi tra l’assurdo e il reale, e per la maestria del-

Un bambino che si tappa le orecchie può agire in questo modo per proteggersi da stimoli ambientali per lui eccessivi. (Freepik.com)

gio e utilizzare le immagini per facilitare la comprensione». Queste situazioni trovano conferma nella testimonianza diretta di una donna Asperger (sindrome rientrante nel DSA) raccolta tramite la Fondazione Ares. La donna spiega come la vicinanza con le persone le generi «molto stress e ansia, e capita che rinuncio a spostarmi proprio per questo motivo». I trasporti pubblici sono infatti spesso affollati. Aggiunge la donna: «L’insieme di rumori, odori e luci forti mi causa un sovraccarico. Vado raramente nei ristoranti e se vado normalmente sono sempre gli stessi due o tre posti conosciuti». Al supermercato «il momento della cassa spesso è un momento di ansia, soprattutto se trovo coda o se c’è troppa vicinanza tra una persona e l’altra». In generale «anche il doversi sempre giustificare o spiegare nei dettagli il perché di alcuni miei comportamenti o abitudini diventa estremamente estenuante per me».

Locarno aperta e accogliente

Per Giovanna Schmid, coordinatrice dei Servizi sociali della Città, il progetto Locarno la città che include rappresenta un ulteriore tassello dell’im-

pegno di fondo a essere inclusivi, ossia aperti e accoglienti. «La campagna volta a coinvolgere i vari attori, dai commercianti agli operatori turistici, dalle associazioni di quartiere agli enti pubblici, ha avuto un buon riscontro così come gli eventi organizzati in aprile. Alla giornata mondiale per la consapevolezza dell’autismo (2 aprile) sono seguiti un pomeriggio formativo per studenti universitari e delle scuole superiori basato su uno spettacolo teatrale e un convegno di studio organizzato dal Dipartimento formazione e apprendimento della SUPSI. Quest’ultimo ha promosso una riflessione sull’importanza dell’incontro e del lavoro di rete nel sostegno alle persone nello spettro autistico e alle loro famiglie». Ora Locarno sta entrando nella seconda fase. Prosegue la nostra interlocutrice: «Stiamo organizzando con la Fondazione Ares la mezza giornata di formazione che coinvolgerà una quindicina di persone a livello di uffici comunali. L’obiettivo è quello di raggiungere i funzionari a contatto con il pubblico come pure i servizi di polizia e dei pompieri attraverso un loro rappresentante che potrà in seguito sensibilizzare i propri colleghi. È inoltre previsto un incontro con il nuovo Consiglio comunale, perché questo genere di progetti vada a buon fine è importante che le autorità politiche siano informate e consapevoli. L’obiettivo di lavorare con la diversità in generale e non solo con l’autismo è parte essenziale di una crescita civica. Questi progetti richiedono tempo, continuità e persistenza».

In effetti la Fondazione Ares intende proseguire nell’estendere il concetto de La città che include ad altre realtà cantonali, siano esse cittadine o regionali quali ad esempio le valli. Come ogni label anche questo non è acquisito per sempre, ma è necessario verificare che evolva in sintonia con le trasformazioni che interessano la società.

Informazioni www.fondazioneares.com

la composizione grafica in perfetta armonia con lo svolgersi delle vicende delle tre piccole storie». Con questa motivazione la giuria del Premio Nati per Leggere 2024 ha assegnato la vittoria per la fascia 3-6 anni al libro che presentiamo, e non si poteva sintetizzarne meglio il valore. Fox e Chick sono rispettivamente una volpe e un pulcino, e costituiscono una coppia, paradossale e gentile, di amici veri. Come spesso accade nelle coppie di amici in questo genere di storie per l’infanzia, uno è quello più naïf, più «bambino», l’altro quello più esperto, più «adulto» (ma non per questo si prende gioco delle ingenuità dell’altro). Un po’ come Topo e Talpa del Vento tra i salici di Grahame, come Rana e Rospo di Lobel, come Grande Orso e Piccolo Orso di Waddell, Fox e Chick vivono le loro avventure piccole, ma dense di meraviglia per tutto ciò che li circonda, e dialogano molto, con pacata tenerezza, dando origine a storie in cui la semplicità fa scaturire situazioni nuove e impensate – con rovesciamenti di prospettiva tipici dello sguardo infantile – non prive di arguzia filosofica, un’arguzia tuttavia sempre immediata, anche per i più piccini. Le avventure di Fox e Chick costituiscono una serie, uscita in originale negli Stati Uniti, dove Ruzzier, prima di tornare in Italia, ha vissuto a lungo. Nel libro che l’editore Topipittori ha candidato al Premio, ottenendo la vittoria, i diciassette fiocchi di neve sono quelli che Chick prova a contare, per vedere se sono abbastanza per andare in slitta; ma c’è anche la storia di Chick che ha paura a scendere dall’albero, e Fox saprà come aiutarlo… lasciando che se la cavi; e c’è la storia di un libro che ha bisogno di una libreria, un libro da leggere con gioia, come questo.

Settimanale di informazione e cultura Anno LXXXVII 27 maggio 2024 azione – Cooperativa Migros Ticino 7 SOCIETÀ
di Letizia Bolzani

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«Non credo molto agli amori platonici»

Tra letteratura e società ◆ Sarà lo scrittore di Bellano Andrea Vitali a inaugurare il prossimo 8 giugno a Lugano la «Panchina dell’amicizia» ideata da Gentletude e sostenuta dal Percento culturale Migros

Le amicizie terribili, come quella mitologica tra Achille e Patroclo, e quelle veraci con gli «umili», le amicizie (forse) impossibili tra uomini e donne, da qualche parte tra letteratura e vita reale, tra Italia e Svizzera, tra Ticino, Lombardia e il lago di Bienne. Di tutto questo chiacchieriamo a metà maggio con uno scrittore di «confine» amatissimo e lettissimo, da una parte e dall’altra della ramina: Andrea Vitali. Lo facciamo perché sarà proprio lui, il prossimo 8 giugno, a inaugurare in via Trevano 55 a Lugano, nel parco di Villa Carmine, la «Panchina dell’amicizia», un progetto ideato da Gentletude e sostenuto da Percento culturale Migros (ne avevamo parlato su «Azione» nell’edizione dello scorso 5 febbraio).

Andrea Vitali, qual è l’amicizia letteraria che ha preferito tra Achille e Patroclo (Omero), Sherlock Holmes e Watson (Conan Doyle), Athos, Portos e Aramis (Dumas), Huckleberry Finn e Tom Sawyer (Twain), Narciso e Boccadoro (Hesse)?

Sicuramente quella tra Achille e Patroclo. Sono un fan dell’Odissea, di tutto il mondo classico che rileggo continuamente. Adesso, per esempio, sto leggendo l’Antigone e un saggio da poco pubblicato per Einaudi da Eva Cantarella: Contro Antigone Adoro quel mondo e cerco di tenerlo sempre presente. La profondissima amicizia tra Patroclo e Achille è quella che mi avvince di più, tra le coppie sottoposte.

Un’amicizia feroce e tragica. Sì, ed è uno degli aspetti che più mi affascinano del mondo classico. Ci sono moltissime implicazioni legate alla visione della vita e dell’aldilà. Non è mai conosciuto abbastanza quel mondo. È un’amicizia che si porta dietro delle conseguenze ancora più tragiche, la vendetta, lo scempio che Achille compie sul corpo di Ettore. Priamo che si piega a inginocchiarsi davanti a lui per riavere il corpo del figlio, per poterlo seppellire, altrimenti l’anima non riuscirà a entrare nel mondo sotterraneo. Non ci sono più differenze di classe, di grado o di censo. Lo testimonia poi Odisseo quando entra negli Inferi e incontra Agamennone e lo stesso Achille. È una ragnatela di suggestioni, tipica della mitologia, che mi fa preferire questa amicizia.

È anche un’amicizia attuale, un’amicizia di guerra. Esatto. E chissà quante di queste cose sono successe in Ucraina, in Israele e in Palestina.

Quali sono le amicizie che hanno ispirato i suoi romanzi?

Prima di tutto ci sono le amicizie letterarie, con Piero Chiara, Giovannino Guareschi, o Nico Orengo per citarne solo alcune. Tanti scrittori italiani. Tra le amicizie vere, cito quelle con i personaggi cosiddetti «umili», che non so in quale categoria mettere. Insomma, parlo di uno spazzino, di un’operaia di un cotonificio, di un uomo che una volta andato in pensione faceva il «guardiafili» per le ferrovie e si è poi dedicato completamente alla campagna. Sono tutte persone che non hanno mai praticato molto la lettura, ma questo non le ha private di un profondo senso della vita, dell’umanità, dei rapporti umani. Mi hanno insegnato molto.

Nel «piccolo mondo antico» dei nostri laghi, figure semplici che trasmettono grandi valori. Sì, l’ha detta giusta.

L’eterna questione, che sicuramente si è posta anche creando i suoi personaggi: è possibile l’amicizia tra uomini e donne?

Secondo me sì, ma solo oltre una certa età. L’ormone comanda fino a una certa età, poi non comanda più. A un certo punto – non vorrei essere prosaico – ma quando un essere umano ha soddisfatto le sue voglie o pretese, ecco che l’amicizia tra un uomo e una donna può diventare possibile.

Quindi bisogna aspettare la pace dei sensi.

Oppure che i sensi si siano così raffinati da pretendere qualcosa in più e non quello che i sensi esigono quando sono loro a comandare.

Ma allora Dante e Beatrice?

L’amore platonico?

L’amore platonico – come dire – è una bella cosa, ma generalmente gli amori platonici lo sono solo da una parte. Uno si tiene l’amore platonico e l’altro o l’altra cerca di farsela passare.

Lei è una persona facile alle nuove amicizie?

Non sono selettivo, ma abbastanza cauto. Avere un’amicizia significa anche confidare certe cose a una persona, parlare di certi argomenti anche personali o che riguardano la sfera del come si intende la vita. Sono aperto alla conoscenza degli altri, ma l’amicizia, quella vera e profonda la concedo a pochi.

Esiste una sua «panchina dell’amicizia», un luogo che facilita l’amicizia anche occasionale con gli altri? Dov’è?

Esiste e si trova di fronte al molo di Bellano. È una panchina che ho frequentato per anni. Oggi ci vado un po’ meno. Ma lì ho vissuto esperienze narrative importanti. È una panchina che è stata protagonista di confidenze che mi hanno permesso di raccontare molte cose.

Parliamo di amicizia tra Italia e Svizzera, anzi tra Lombardia e Ticino. Sono amici sinceri o sono piuttosto «fratelli coltelli»?

Per quanto mi riguarda sono amici sinceri. Ho molti amici che abitano nel cantone Ticino e in altri cantoni della Svizzera. Con la Svizzera mi è capitato spesso di fare magnifici giri, come quelli organizzati dal Forum Elle o dalla Dante Alighieri, raccontando i miei libri. Ho sempre sperimentato un’ottima ospitalità. E poi, siccome sono nato in una casa vista lago di fronte alla Svizzera, l’ho sempre vissuta come un traguardo da raggiungere.

Perché?

Perché è una terra che chiamava, per le leggende vere o meno che arrivavano da là. Quando mi trovo nel sud dell’Italia, il fatto di dire che vivo a un quarto d’ora dalla Svizzera mi rende orgoglioso.

Mi scusi ma è inevitabile: qual è il prossimo libro che ha nel cassetto? Si parlerà anche di amicizia? Si tratta di una storia ambientata in Svizzera! Uscirà nella primavera dell’anno prossimo. In realtà ce n’è uno pronto per l’autunno, ma mi piace raccontare questo perché inizia proprio sul lago di Bienne. È un romanzo che fa parte di una collana di cold case. Inizia con il ritrovamento di un cadavere sulle sponde del lago di Bienne ed è estremamente legato alla Svizzera. Inizia e finisce lì.

Dove e quando Inaugurazione Panchina dell’Amicizia alla presenza dello scrittore Andrea Vitali, sabato 8 giugno 2024, ore 15.30, Lugano (Via Trevano 55). www.gentletude.com

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Quanto costa la trasferta oltre San Gottardo?

Nell’articolo apparso settimana scorsa abbiamo confrontato i prezzi dei trasporti pubblici con quelli dell’automobile per gli spostamenti in Ticino, dove, da oltre un venticinquennio, la Comunità tariffale Arcobaleno ha permesso di armonizzare le diverse tariffe precedentemente gestite da ogni singola impresa e di semplificare agli utenti l’accesso ai servizi. Abbiamo visto che in generale l’uso di bus e treni è molto conveniente. Ora ci chiediamo: il risultato cambia se consideriamo gli spostamenti sulla lunga distanza tra il Ticino e le destinazioni al nord delle alpi?

Nella scelta ha un ruolo centrale l’abbonamento a metà prezzo, molto diffuso a nord delle Alpi, meno in Ticino

Consideriamo per questo confronto i soli costi variabili dell’automobile, presupponendo dunque che in ogni caso quest’ultima fa parte del «corredo» di base di grandissima parte delle economie domestiche. La scelta avviene dunque paragonando i costi variabili con l’alternativa del viaggio in ferrovia. L’esempio illustrato nel grafico considera un utente che si sposta occasionalmente per un tragitto di andata e ritorno tra Lugano e Zurigo, Lucerna, Berna e Losanna.

L’esito è eloquente se si è in possesso dell’abbonamento per biglietti a metà prezzo. Anche senza considerare i costi del posteggio, la scelta del treno è sempre vincente. Il guadagno del treno è tanto maggiore quanto maggiore è la distanza percorsa. Il viaggio in prima classe appare conveniente solo per le mete più lontane. Va peraltro considerato che esistono altre possibilità per ridurre ulteriormente e anche in modo significativo i costi del viaggio in treno. Infatti, a determinate condizioni (scelta anticipata dell’orario, del treno, del giorno della settimana per effettuare la trasferta) è possibile beneficiare dei cosiddetti «biglietti/carte giornaliere risparmio», acquistabili on line sul sito delle FFS. Altre facilitazioni possono essere messe a profitto attraverso le carte giornaliere risparmio Comune (www.cartagiornaliera-comune. ch/it), disponibili in parecchie località presso le rispettive cancellerie comunali. Evidentemente se la scelta del treno fosse accompagnata anche dalla rinuncia al possesso dell’automobile o della seconda automobile, molto diffusa in Ticino, cadrebbero anche i costi fissi e il guadagno finanziario risulterebbe molto più elevato. Per superare l’ostacolo dell’abbonamento a metà prezzo varrebbe la pena riflettere su una possibile azione mirata, circoscritta nel tempo, per incrementarne la vendita. Que-

Confronto dei costi con treno (abbonamento ½ prezzo e biglietto o giornaliera) e costi variabili automobile da Lugano

1a classe

2a classe

variabili auto

sto abbonamento, oggi leader assoluto in Svizzera tra tutti i titoli di trasporto è molto diffuso a nord delle Alpi e invece molto meno in Ticino. Spiccò il volo nel 1986, quando il Consiglio federale lo lanciò attraverso un’azione speciale estesa a tut-

to il Paese per promuovere l’uso dei trasporti pubblici nell’ambito della strategia per combattere l’inquinamento atmosferico. Fu subito battezzato «abbonamento Borromini», poiché si poteva acquistare al prezzo di cento franchi, la banconota allo-

ra con l’effigie dell’illustre architetto Francesco Borromini. Oggi questo abbonamento costa 190 franchi per chi lo acquista per la prima volta. Riproporre l’abbonamento «in azione» a 100 franchi potrebbe bissare il successo di un tempo.

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Aiuti all’automobilista, a breve obbligatori

Motori ◆ Entreranno presto in vigore le nuove prescrizioni europee concernenti i Sistemi avanzati di assistenza alla guida

Mario Alberto Cucchi

Il 7 luglio 2024 è una data fondamentale per il mondo dell’automotive. Entreranno infatti in vigore le nuove prescrizioni del Regolamento europeo 2019/2144 sugli Adas obbligatori nelle auto di nuova immatricolazione. Per i non addetti ai lavori, gli Adas (Advanced Driver Assistance Systems) aiutano l’automobilista durante la guida quotidiana. È più probabile che un essere umano freni in ritardo e tamponi un veicolo piuttosto che lo faccia un computer

I primi sistemi di «assistenza» erano primitivi rispetto a quelli attuali. Spesso si trattava di optional costosi a cui molti rinunciavano e quasi sempre erano destinati alle ammiraglie; d’altronde, come disse Joachim Schmidt, storico capo ricerca e sviluppo del Gruppo Mercedes-Benz: «Il lusso è uno stimolo all’innovazione». Ed ecco allora che in anteprima mondiale nel 1998 proprio sulla Classe S, ammiraglia della Casa tedesca, debutta il Tempomat con regolazione della distanza. Avvalendosi di un radar, il sistema monitora costantemente il traffico rilevando sia la distanza rispetto al veicolo che precede sia la relativa velocità. Sulla base di questi dati elabora una serie di comandi di guida al

fine di mantenere sempre la giusta distanza di sicurezza rispetto al mezzo che lo precede. Rallenta intervenendo su motore, freno e cambio automatico. E se inizialmente operava in un range di velocità compreso tra 40 e 160 chilometri orari, oggi arriva ad arrestare completamente l’auto.

Mercedes non era certo nuova a soluzioni che avrebbero reso e rendono ancora oggi più sicuri i viaggi in auto, considerando che nel 1995 adottò per prima l’Electronic Stability Program (ESP). E precedentemente, nel 1978, in collaborazione con Bosch lanciò l’ABS. Ovvero il sistema pensato per evitare il bloccaggio delle ruote in frenata. Insomma delle pietre miliari nella storia dell’industria automobilistica. La Casa della stella a tre punte a oggi ha circa 100mila brevetti dei quali molti dedicati proprio alla sicurezza.

Torniamo ai giorni nostri, al 7 luglio 2024. Sul sito dell’Automobile Club Svizzero (www.acs.ch) si può leggere che l’introduzione si applica ai nuovi veicoli e che nessuna messa a norma è prevista per quelli già esistenti. L’ ACS «sostiene lo sviluppo di nuove tecnologie, in quanto promuovono un uso più efficiente e sicuro delle infrastrutture e aumentano la sostenibilità della mobilità individuale. Allo stesso modo, i sistemi intelligenti di assistenza alla guida contribuiscono ad aumentare la sicurezza

stradale e riducono tanto il rischio di incidenti quanto le loro conseguenze». È un dato di fatto: della tecnologia oggi ci si può fidare, lo facciamo tutti i giorni nella vita quotidiana. L’errore, certo, è possibile, è tuttavia dimostrato che è più probabile che un essere umano freni in ritardo e vada a tamponare il veicolo che lo precede piuttosto che faccia lo stesso un computer. In ogni caso non stiamo ancora parlando di guida autonoma totale, ma di un prezioso ausilio alla sicurezza in

cui è comunque richiesta una costante vigilanza da parte dell’automobilista. Un po’ come su alcuni aerei che sono in grado di procedere autonomamente alle manovre di atterraggio seppur sempre e solo in presenza attenta del Comandante pronto a intervenire. Ma entriamo nel dettaglio dei sistemi di bordo che saranno obbligatori dal prossimo 7 luglio. Tra questi la predisposizione per il montaggio di un sistema Alcolock con interfaccia e cablaggio per agevolare la suc-

cessiva installazione di un dispositivo che impedisca al conducente in stato di ebbrezza di avviare il veicolo. Poi sarà obbligatorio il montaggio all’origine di una Blackbox ovvero una scatola nera come quella degli aerei in grado di rilevare velocità, decelerazione, accelerazione, ribaltamento e l’attivarsi di diversi dispositivi (airbag, fari, indicatori di direzione eccetera) prima durante e dopo un incidente. La registrazione verrà conservata nel veicolo a partire da cinque secondi prima dell’evento sino al termine dello stesso.

Non mancherà il sistema di adattamento intelligente della velocità che la limita in funzione della segnaletica stradale. A questo si aggiunge un sistema di avviso di disattenzione e stanchezza del conducente che analizza il comportamento dello stesso monitorando i segnali di diminuzione della concentrazione, emettendo un segnale acustico e visivo che invita a fare una pausa. Prezioso inoltre il «sistema di rilevamento in retromarcia» che frena automaticamente se nota la presenza di oggetti dietro il mezzo. Infine, non si può non menzionarlo, con tutta questa elettronica diventa indispensabile il software che protegge il veicolo da attacchi informatici degli hacker.

E infatti dal prossimo 7 luglio questo e altro saranno di serie. E meno male…

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Bambini iperconnessi: il valore del limite

L’uso di tablet e smartphone sembra comportare rischi non trascurabili per la salute e lo sviluppo dei bambini. Queste le conclusioni del rapporto di un gruppo di esperti recentemente commissionato dall’Eliseo. Si tratta di conclusioni preoccupanti che propongono anche una serie di limitazioni e di divieti secondo l’età: ad esempio, non lasciare i bambini davanti a uno schermo fino a tre anni e limitare l’uso di tablet fino agli undici anni, con supervisione di adulti e scelta di contenuti educativi, ma niente smartphone. Il presidente francese ha preso in seria considerazione le proposte e sta ipotizzando di legiferare in merito, dicendosi preoccupato non solo per i rischi per la salute psicofisica di bambini e adolescenti, ma anche per il futuro della democrazia. A queste sue preoccupazioni fa eco una recente indagine americana secondo cui l’iperconnessione dei bambini li renderebbe

Terre Rare

incapaci di mantenere la concentrazione oltre i tre minuti. Come si fa allora a studiare e a sviluppare il proprio pensiero? Una popolazione che non pensa è certamente un problema anche per le democrazie. Ben vengano dunque questi campanelli d’allarme che sono innanzitutto occasioni di riflessione soprattutto per tanti genitori alle prese con le richieste capricciose dei loro bambini, spesso catturati da un mercato sempre più invadente. La possibilità di mettere in atto controlli e divieti legali sta tuttavia suscitando dubbi e perplessità. Ma al di là delle considerazioni circa la fattibilità di tali divieti e controlli, a me pare che si riproponga qui una questione di fondo sul tema della libertà che già si era manifestata durante la pandemia. Come si ricorderà, l’obbligo di vaccinarsi, i divieti e le chiusure avevano provocato reazioni in alcune persone che si erano sentite toccate nella libera scelta

L’impegno della divulgazione

Tra i molti servizi offerti al pubblico dal centro culturale-ricreativo La Filanda di Mendrisio c’è da qualche anno anche lo spazio dedicato alla «alfabetizzazione informatica», un appuntamento settimanale curato da Daniele Raffa, informatico di professione che da anni gestisce una propria azienda nel settore assisitive technology (tutto quello che la tecnologia può fare per migliorare la qualità di vita delle persone più fragili).

La sua attività professionale è, però, affiancata da un regolare impegno di volontariato, che si concretizza appunto in momenti di consulenza rivolti sia ai frequentatori del suo corso, sia in altre attività dove Daniele mette a disposizione del bene comune il suo tempo. «La grande soddisfazione per me è stabilire un contatto positivo, costruttivo con tutte le persone. Nel caso di quelle che hanno grosse difficoltà, le soddisfazioni maggiori si

provano quando, magari nel caso di qualcuno che non può più parlare o esprimersi in altro modo, si riesce a trovare una modalità per ristabilire una comunicazione con i propri cari. In quel caso si tratta di individuare le risorse della persona e confrontarle con le possibilità offerte dalla tecnica. Quando l’intervento funziona, magari grazie a un computer da comandare con lo sguardo, per me è un grande successo».

Raffa ci racconta ad esempio come la fantasia sia una componente fondamentale per risolvere con poco problemi che, per chi ci si trova confrontato, sono vere e proprie montagne da scalare. A tal proposito ci racconta come con una semplice modifica a un campanello wireless (di quelli che si trovano normalmente in un «fai da te») sia riuscito a far azionare la chiamata del personale infermieristico in ospedale, a una persona ferma a letto e incapace di muovere le braccia.

Le parole dei figli

«Chiedo al mio collega il significato di termini utilizzati dagli Gen Z», annuncia già sghignazzando Natalie Jones, una reporter 20enne del giornale locale dell’Ohio Dayton.com. Il suo video, che su TikTok è arrivato a 4,3 milioni di visualizzazioni, fotografa meglio di ogni altro un fenomeno in rapida diffusione che sta dietro alle Parole dei figli: il boomer-stumping che, tradotto letteralmente, sta per «mettere in imbarazzo il boomer». La rubrica che state leggendo nasce il 25 ottobre del 2021 per cercare di capire i nati tra il 1995/97 e il 2010/2012 che sono i nostri figli (non ci sono date esatte sul periodo della Generazione Z), attraverso le parole che ci consegnano. Al di là del loro mutismo, del loro essere sfuggenti, dei loro pensieri difficili da carpire. Il senso è capire cosa dicono, per cercare di comprendere cosa gli frulla in testa. Ebbene,

dei propri comportamenti. Come ebbi a scriverne, in quel contesto mi erano parse reazioni poco giustificate: eravamo in una situazione di emergenza in cui le scelte andavano ben oltre ogni motivazione individuale. Regole e divieti sono necessari per la convivenza, in vista di un bene comune. Qui la libertà si esprime nel permesso di poter fare ciò che non è proibito. E non va dimenticato che proprio la conquista di questo genere di libertà ha scritto una storia importante di emancipazione. Tuttavia, per l’intima esperienza della nostra libertà, quando la scelta del nostro modo di stare al mondo ci interpella in prima persona, l’accettazione e il rispetto di regole imposte dall’esterno non può bastare. Per quanto necessario alla convivenza, il permesso di fare ciò che non è proibito è una forma riduttiva rispetto all’esercizio della libertà come libera scelta, e questo perché fa dipendere il mio agire

da regole eteronome, non da leggi che io so dare a me stesso. La legge comporta sempre un’esperienza del limite, fondamentale per il nostro vivere convivere, ma il limite che orienta le mie scelte personali non dovrebbe essere solo qualcosa che viene da leggi e regolamenti. L’esercizio più radicale della nostra libertà ci chiede di andare oltre l’accoglienza e il rispetto di un limite che viene stabilito per legge, ci chiede di riconoscere la sua presenza nel nostro mondo interiore: il limite come radice dell’etica. Dal daimon dell’etica degli antichi che incoraggia a coltivare e a far sbocciare le nostre potenzialità per una vita buona e felice, alla «legge morale in me» di Kant che mi suggerisce che «devo perché devo», non certo per rispettare una regola esterna o non incorrere in sanzioni. È un cammino personale che ci può accompagnare oltre la percezione della libertà come quantità di ciò che mi è permesso.

«Lui è più libero di me, dicono gli studenti, perché ha il permesso di rientrare più tardi la sera». È anche vero che, nello scegliere la verdura al supermercato, con 30 franchi in tasca posso essere più libero del mio amico che ne ha solo 20. Eppure, oltre la percezione di queste libertà misurabili è dato a tutti noi di sperimentarla, la libertà, anche come qualità non misurabile della mia vita. Anche l’impegno etico della politica potrebbe andare oltre lo strumento normativo scegliendo vie diverse per incoraggiare comportamenti personali che riconoscano nel limite una preziosa qualità della libertà. Di fronte ai campanelli d’allarme per l’iperconnessione dei bambini penso innanzitutto alle responsabilità della politica scolastica nell’assumere l’impegno etico di promuovere il valore della conoscenza come un bene e come pura finalità, rinunciando a valorizzarne l’utilità sempre più tecnologicamente coltivata.

La sensibilità a questo tipo di problemi arriva sicuramente anche dal fatto che Daniele è egli stesso paraplegico ed è quindi abituato a confrontarsi con simili difficoltà. Discutiamo con lui di quanto ancora ci sia da fare per far sì che «inclusione» non sia una semplice parola da usare qua e là nei discorsi più disparati come a volersi lavare la coscienza, ma un impegno concreto al voler offrire una vita dignitosa ad ognuno di noi, a prescindere dalle sue difficoltà. «Mi sono sempre chiesto, ad esempio, perché i distributori di benzina hanno le pompe piazzate sopra uno scalino… questo infatti rende l’utilizzo più complicato per esempio a chi, come me, si sposta con una sedia a rotelle. Non parliamo poi di leggere il display per interagire con la tastiera della cassa automatica, anche questa posizionata sul medesimo scalino. In questi casi sono spesso costretto a chiedere aiuto a qualcuno, e questo

va a scapito della mia indipendenza». Per tornare ai suoi momenti di formazione alla Filanda (Daniele non le chiama lezioni in quanto non si definisce né un maestro né tanto meno un professore) il nostro interlocutore nota come simili difficoltà di accesso ai servizi si ritrovino oggi anche nell’uso di molte applicazioni informatiche. «Esistono scelte grafiche e tecniche che rendono difficile, non intuitivo, l’uso dei programmi da parte di molti utenti. In questo caso “l’inclusione” potrebbe avvenire coinvolgendo le persone con difficoltà nella fase di progettazione, così da rendere i servizi subito fruibili a tutti gli utenti». Il tema è già stato discusso in altre occasioni su queste pagine e ci fa particolarmente piacere trovare un interlocutore che esprima la stessa nostra opinione. Tanto più che Daniele, come noi, tiene una rubrica regolare sul settimanale «L’Informatore», in cui di volta in volta propone articoli di-

vulgativi sull’argomento tecnologia. «Penso sia importante far conoscere vari aspetti che riguardano i temi tecnologici che caratterizzano la nostra vita. Fanno parte di una cultura di cui tutti dovrebbero appropriarsi. E cerco di farlo prendendo una posizione positiva, senza pregiudizi. Mi sembra importante ad esempio parlare anche degli aspetti utili dell’Intelligenza Artificiale, che oggi invece è demonizzata da più parti. Questo non aiuta la discussione né la comprensione. Nei miei momenti di formazione mostro per esempio ai partecipanti l’uso divertente di sistemi come ChatGPT nel farsi consigliare ricette, nell’inventare storie per i nipotini, ribadendo che l’intelligenza del computer è artificiale, sta a noi quindi giudicare se le notizie ricevute siano vere o inventate, usando la nostra di intelligenza che è un bene assolutamente da proteggere e preservare».

oggi essere in grado di conoscere il significato del loro slang non è più solo una questione tra genitori e figli, ma un affair che riguarda anche il posto di lavoro.

Ormai i più vecchi degli Gen Z hanno 27-29 anni e stanno prendendo piede negli uffici e nelle aziende di ogni dove. Il saggio dal titolo GenZ @ Work: how the next generation is transforming the workplace (ed. in inglese HarperCollins) lo prediceva già nel 2017, il suo anno d’uscita: il guru degli studi generazionali David Stillman si mette insieme con il figlio 17enne Jonah per analizzare come gli Gen Z trasformeranno i posti di lavoro. «Con i suoi 72,8 milioni di dipendenti solo negli Usa – scrivono gli autori – la Gen Z sta per far conoscere la sua presenza in modo importante e i datori di lavoro devono comprendere le differenze che li contraddistinguo-

no. Questa generazione ha una prospettiva del tutto unica sulle carriere e su come avere successo». Secondo il sito internet e social network americano Glassdoor, nel quale gli impiegati delle aziende anonimamente recensiscono i loro superiori, l’anno X in cui i Baby Boomers saranno superati è proprio il 2024. E il fenomeno nei prossimi anni esploderà, tanto che negli Usa hanno coniato il motto: «Più zoomer, meno boomer » proprio a indicare il sopravvento della Gen Z. Di qui libri e siti web, come quelli di Roberta Katz, ex ricercatrice senior presso il Center for Advanced Study in the Behavioral Sciences di Stanford, per studiare come i loro valori e le loro aspettative plasmeranno il futuro in ufficio: lavorano in gruppo, spesso con le cuffie alle orecchie, al primo posto mettono equilibrio tra professione e vita

privata e il mantenimento della salute mentale e fisica. Ma ci risiamo: per arruolare, motivare e gestire la Generazione Z è innanzitutto fondamentale capire cosa dice. Cosa indispensabile anche per non farci prendere in giro. Il boomer-stumping, ossia mettere in imbarazzo chi è più vecchio e non riesce a capirli, è così diffuso che per Natalie Jones insegnare il gergo degli Gen Z ai colleghi di lavoro, la maggior parte dei quali hanno 15 o 20 anni più di lei, è indispensabile per non farci diventare dei bersagli in posti di lavoro sempre più impregnati dalla cultura pop dei social media. È l’essenza delle Parole dei figli, insomma, traslata dai genitori al posto di lavoro!

Inutile dire che la Rete è già piena di esempi di incomprensioni che fanno molto divertire i nostri figli. Per dire, il «New York Post» racconta di

Kiana Sinaki, 21 anni, desiderosa di condividere dei pettegolezzi con un collega più anziano in una palestra a Santa Barbara, in California: «Ho del tea (tè) – gli dice – per te». Il collega senior risponde: «Oh, no, grazie. Ho abbastanza bustine di tè per conto mio». Giù a ridere! Il senior non coglie il significato del termine gergale tea che sta per pettegolezzo, e invece pensa che il suo junior gli stesse offrendo del tè. «Ho detto No cap ad alcuni dei miei colleghi e non avevano idea di cosa stessi dicendo», continua impertinente Sinaki (chi di voi ha letto, invece, l’ultima rubrica de Le parole dei figli, adesso lo sa!). Qui stiamo parlando di persone di generazioni diverse ma tutte di lingua madre inglese: il grado di complessità per noi italofoni con ragazzi che ogni due per tre dicono un termine in slang inglese non può che moltiplicarsi.

Settimanale di informazione e cultura Anno LXXXVII 27 maggio 2024 azione – Cooperativa Migros Ticino 17 SOCIETÀ / RUBRICHE ◆ ●
di Lina Bertola
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◆ ●
di Simona Ravizza
Boomer-stumping
di Alessandro Zanoli

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Il colorato giardino roccioso di Nicola È stato definito il Gaudì della Valtellina, ma non vuole farsi chiamare artista: la sua opera sarebbe solo il frutto di un passatempo

Pagine 20-21

Un’insalata rinfrescante e fruttata

Cetrioli snack, anguria, fragole e rucola: una delizia di sapori da annaffiare con una salsa allo zenzero per aggiungere note piccanti

Pagina 23

Un gioco di ruolo facile ma non troppo In CBR+PNK, i giocatori rivestono i panni di un gruppo di mercenari che tentano di sopravvivere in un pericoloso mondo cyberpunk

Pagina 25

Sci appesi al chiodo ma… testa sempre in aria

Adrenalina ◆ Dopo una carriera agonistica ricca di medaglie anche iridate, Marco Tadé ha deciso di non smettere di «volare»

Moreno Invernizzi

Il momento di dire basta. Prima o poi, ineluttabile, arriva per tutti. E per Marco Tadé quel momento è arrivato qualche settimana fa. Ha detto basta con le gobbe, le Moguls, per chi mastica il gergo dello sci freestyle, al termine di una carriera agonistica che l’ha visto competere ai massimi livelli, Olimpiadi comprese, la ribalta più prestigiosa e ambita per qualsiasi atleta. Lui, il 28enne di Tenero, l’ha vissuta a Pechino, nel 2022 (dopo aver dovuto rinunciare in extremis a Sochi 2014 e Pyeongchang 2018).

In questa puntata di «Adrenalina» torniamo dunque ad aprire una finestra sul freestyle, e in particolare su quelle gobbe che già avevamo frequentato nel numero 10/2022 di «Azione», per celebrare la carriera di spessore di un atleta di casa nostra.

In principio è sempre una scintilla o una tradizione: «Lo sci è una sorta di… vizio di famiglia. Sono praticamente nato con gli sci ai piedi; non a caso mia madre afferma che ho iniziato prima a sciare che a camminare: non sarà ovviamente proprio così, ma non siamo nemmeno troppo distanti dalla realtà. Fin da piccolo ogni vacanza, ogni giorno libero e scampolo di tempo lo trascorrevamo su qualche pista», racconta Marco Tadé.

Quelle con le gobbe le ha imboccate quasi subito, «seguendo le orme, anzi le… scie di mio fratello, che si è avvicinato a questa disciplina qualche anno prima di contagiare anche me: l’emozione e la scarica di adrenalina che si provava e che provo tutt’ora nel domare quei percorsi “gibbosi” è davvero impagabile. Il fatto che mia nonna avesse una casa a Lurengo, a due passi da Airolo (che da anni ormai è il fulcro delle attività per tutti gli appassionati di freestyle del Ticino, come pure uno dei principali punti di riferimento per tutto il movimento svizzero) mi ha un po’ spianato la strada».

Spianato fino a un certo punto, visti i percorsi affrontati in una quindicina di anni di agonismo ai massimi livelli. «Quando io ho cominciato, il freestyle era già di casa ad Airolo. Le Olimpiadi di Torino, nel 2006, hanno dato un ulteriore slancio a tutto il movimento; ed è proprio in quegli anni che ho iniziato pure io in modo attivo a praticare questa disciplina. Pur essendo uno sport individuale – bene o male nello sci in generale, e nel freestyle in particolare – ci si trova sempre sulle piste in compagnia, vuoi per le gare, vuoi per gli allenamenti. E a lungo andare viene a crearsi una certa

affinità di squadra. Ed è anche questo spirito di gruppo che mi ha dato lo stimolo giusto per andare avanti, per proseguire con costanza su questa via, allenandomi e partecipando alle varie competizioni. Di pari passo, gara dopo gara, anche i miei risultati crescevano, così ho deciso di insistere, di alzare di volta in volta la mia asticella personale».

Ma per ambire alla ribalta internazionale serve spesso fare quel «clic» in più. «Non ho mai pensato ai risultati, ma al piacere che mi dava lo sciare. E questa “spensieratezza” mi ha spinto sempre più in là: prima le gare regionali, poi quelle nazionali… Alla fine, senza quasi accorgermene, mi sono ritrovato in Coppa del mondo e alle Olimpiadi». Con qualche bella soddisfazione, aggiungiamo noi. Come il bronzo iridato dei Mondiali 2017 conquistato a Sierra Nevada, quello ai Mondiali juniores nel 2014 a Chiesa in Valmalenco, oppure ancora i tre podi in Coppa del mondo (a Deer Valley nel 2015, a Thaiwoo nel 2017 e a Ruka nel 2020). «Ognuno di questi ricordi è speciale e ha una storia tutta sua: se dovessi sceglierne uno in particolare, sarei in difficoltà…». Meno difficile è però trovare ricordi che hanno a che fare con le sto-

rie legate a questi risultati: «Sì, ricordo in particolare la gara conclusiva della Coppa del mondo nel 2017, a Thaiwoo, in Cina, che precedeva pure i Mondiali. Eravamo reduci da un’estenuante tournée durata un abbondante mese e mezzo, fisicamente ero scarico e anche i risultati ne stavano risentendo. È con quei sentimenti che mi ero presentato al via in Cina, senza particolari ambizioni di classifica, ma con la voglia di lasciarmi alle spalle quel tour de force per ricaricare un po’ le batterie in vista dell’appuntamento iridato. Prima di scendere, avevo anche scambiato qualche battuta con i compagni, dicendo loro che appena arrivato al traguardo mi sarei infilato sul bus per rientrare a casa». E invece… «Invece andò a finire che centrai un sensazionale secondo posto, così fui “costretto” (ben volentieri) a prolungare la mia presenza a bordo pista per la cerimonia di premiazione. Il podio ottenuto ai Mondiali, poi, è stata un’altra pagina emozionante del mio album dei ricordi personale: a bordo pista quella volta c’era un po’ tutto il mio parentado, e chiudere con una medaglia al collo è stato qualcosa di molto emozionante. Altrettanto emozionante, ad esempio, è stato anche il primo po-

dio in Coppa del mondo, centrato a Deer Valley, sorta di “mecca” di questo sport». Il capitolo gare chiuso, la vita però continua: «In questi anni l’adrenalina è stata il mio pane quotidiano. Del resto io sono sempre stato un fan delle attività adrenaliniche: quell’ansia e quello stress che sanno generare ti fanno sentire “vivo”. Non a caso, negli ultimi anni, complice anche una serie di infortuni che mi hanno condizionato sulle piste, mi sono cimentato con altre attività, come il parapendio e il volo a vela. E, ultimamente, anche con il volo in elicottero: nei miei piani futuri c’è infatti quello di conseguire il brevetto di pilota di elicotteri, che mi sarebbe utile professionalmente. Insomma, volare mi è sempre piaciuto, e ora che non lo posso più fare, almeno agonisticamente, sulle gobbe, ho deciso di… salire di quota». Tuttavia, Marco Tadé non volterà le spalle allo sci: «Ho detto addio al mondo delle gare, ma questo non significa che non calcherò più le piste. Lo sci è e resterà una parte di me, ragion per cui resterò in qualche modo a contatto con il mondo del freestyle ticinese, perché mi ha dato tanto e ora voglio essere io a dare qualcosa a questo sport».

TEMPO LIBERO ● ◆ Settimanale di informazione e cultura Anno LXXXVI 27 maggio 2024 azione – Cooperativa Migros Ticino 19

I l colorato giardino roccioso del

Reportage ◆ Si chiama Nicola di Cesare, il 74enne che a Grosio ha ricreato un percorso ricco

di mosaici grazie al recupero di materiale

Baffetto alla D’Artagnan, capelli ricci che tendono al bianco, occhi dolci e buoni che ti guardano curiosi e un po’ interrogativi. Nicola di Cesare è un pensionato di 74 anni, con mani da lavoratore e un cuore puro. Vive a Grosio, un piccolo paese di quattromila anime in fondo alla Valtellina, verso il confine svizzero. Intorno a lui, da una parte le Alpi Retiche e dall’altro lato le Orobiche. La vetta del Mortirolo, a fare da guardiano.

È qui che Nicola ha creato la sua opera d’arte: il giardino roccioso. «Tutto è nato per caso, 43 anni or sono. Era il 1981 e mi serviva uno spiazzo per fare un orto ma dietro casa c’era solo questa parete di roccia. E allora ho pensato: semplice! Faccio dei terrazzamenti sulla roccia, dei giardini verticali». Così, con pala, piccone, sassi e cemento ha tirato su dei muri e realizzato dei piccoli terrazzi per accogliere gli orti.

Intuizione e fantasia

Il lavoro è andato avanti piano piano, sviluppandosi verso l’alto e costruendo anche delle scale e dei camminamenti che potevano unire gli orti. Ma così, questi muri spogli, solo di sassi e roccia, non piacevano molto al nostro Nicola, che decide a quel punto di costruire degli archi e decorare le scale, i muri e le volte, con dei mosaici. «Mi è venuto così, d’istinto. Senza nessun disegno o idea in testa. Quando avevo tempo libero, invece di andare all’osteria, mi mettevo qui a lavorare».

Il materiale che usa per i suoi mosaici è di scarto: vecchie mattonelle, vetri di bottiglie colorate, sassi recuperati lungo il fiume Adda, oggetti lasciati in discarica: «Perché avrei dovuto comprarlo quando lo buttavano via?». Una frase che si riaggancia con la cultura contadina e la storia personale di Nicola. Nato nel 1950 in Val di Sangro, Abruzzo, si trasferisce da bambino con la famiglia prima a Roma, dove consegna in bicicletta il pane nei negozi del centro, e poi in Valtellina. Qui si iscrive alla scuola alberghiera e conosce Domenica, con cui condivide ancora oggi un matrimonio «sereno e felice», come dice guardandomi fisso negli occhi.

Ed è proprio dietro la loro casa (che li ospita insieme da 50 anni, ma che non aveva lo spazio per un orto), che ha costruito il suo giardino di roccia. Così, da un piccolo orto dietro casa, si è sempre più ingrandito, e proteso verso l’alto. Un terrazzamento qui, uno lì, un altro un po’ più sopra, una scala per unirli. Alla fine le scale sono diventate 207 per un’opera che parte dal basso e si sviluppa per circa 30 metri di altezza, dove si trova l’ultimo terrazzo, e 20 di larghezza.

Il percorso

A ogni passo si è circondati da disegni creati dai mosaici che adornano e abbelliscono la pietra, da oggetti recuperati in discarica come vecchi telefoni, lampade, un volto in bassorilievo di Gesù incastonato nella roccia o antiche ruote di legno. Vecchie damigiane sono state trasformate in anfore e ricoperte da pietruzze colorate. Ogni tanto si trovano secchi pieni di sassi o plastiche di mille colori: «Questi vetri blu sono delle bottiglie dei

succhi di frutta, mentre questi pezzettini rossi sono i fanali di un’auto che era stata tamponata qui, in fondo alla via di casa mia» mi racconta Nicola mentre ci arrampichiamo lungo le scale strette. Il tragitto è segnato dalle date: 1981, 1990, 2001 eccetera. Sono le tappe del percorso di Nicola per arrivare in cima. «Quando ho iniziato non sapevo che cosa sarebbe uscito fuori. Ho semplicemente preso del cemento e ho attaccato dei sassi colorati sui muri. Andavo avanti così, senza disegni ma solo come mi diceva la fantasia. Dei cerchi, delle linee rette, dei cuori o delle spirali. Dovunque c’era uno spazio libero, per terra, sui muretti o sulle pareti di roccia, mettevo un po’ di cemento e ci incollavo qualcosa. Alla fine è venuto fuori tutto questo» dice con quella sua voce

calma e un accento che passa dall’abruzzese a quello delle Valtellina.

Ecologia? No, rispetto

«Era ed è il mio passatempo». Viene spontaneo chiedergli se lui è un precursore dell’ecologismo e del riciclaggio. Sorride Nicola a questa domanda e dice che lui non è ecologista, ma non capisce e non accetta la cultura dello spreco, di buttare tutto quando non serve più, invece di riutilizzarlo. Certamente questo giardino roccioso è qualcosa di unico e virtuoso per il riciclaggio del materiale: «Noi oggi con tutti i nostri scarti inquiniamo il pianeta». Si ferma, tira un sospiro e facendosi più serio aggiunge: «E quando non abbiamo più dove metterli, li portiamo nei Paesi del terzo mondo e

inquiniamo ancora di più anche loro.

Ti sembra bella una cosa del genere?» domanda mentre accende un’altra sigaretta: «Vedi questi archi? All’interno c’è un tubo di plastica che io ho ricoperto di cemento e poi di pietruzze colorate. E sai dove ho preso i tubi? Scarti di un cantiere edile; li stavano buttando in discarica. Quanto spreco. Per fortuna quelli della nettezza urbana quando trovano qualcosa che mi può essere utile, me lo mettono da parte».

Continuiamo a salire circondati dai mille colori dei mosaici. Una vecchia sveglia è appesa al muro, mentre un telefono rosso è appoggiato in un buco tra le rocce. All’angolo, ancora un secchio pieno di mattonelle colorate e pezzi di specchio, pronte per essere rotte e usate per fare un nuovo collage di fantasia. «Il lavoro non fini-

sce mai, c’è sempre da fare qualcosa. Qui, dice indicando un pezzo di roccia ancora libero, voglio fare un altro scarabocchio colorato».

Eppure, ci chiediamo, prima o poi una fine questo progetto la raggiungerà… «Ah guarda – ci dice ridendo – quando sarò finito io, per me ci possono fare quello che vogliono. I miei tre figli hanno la loro vita e non verranno certo qui a continuare questo mio hobby».

Attrazione turistica

Intanto iniziano ad arrivare i primi visitatori. Sono una coppia di Torino, seguita subito dopo da una di Roma. Nicola ha una battuta per tutti e li mette a proprio agio. Si complimentano per la sua bravura, per i particolari del giardino, gli dicono che il posto ha qualcosa di magico e si stupiscono di come sia riuscito a tirar su tutto questo. Lui si schermisce un po’ per poi rispondere: «Che ci vuole? È una cosa normale, non serve un titolo di studio per farlo. Ma solo volontà». In settimana, il numero di persone che viene a vedere il giardino roccioso non è altissimo, ma è nei fine settimana che l’affluenza di visitatori aumenta. Arrivano pullman da diversi posti della Lombardia e dal Piemonte, dal Veneto. Famiglie con bambini che rimangono stupiti e a bocca aperta per la vastità di colori e disegni, perdendosi in un tragitto fiabesco di scale e balconi che si affacciano sulla valle. Un’altra caratteristica di questo posto è che non si paga il biglietto. È sempre aperto a tutti. «Perché devo far pagare?» ci domanda e domanda a sé stesso Nicola. «Io qui non consumo niente, non ho spese, quindi chi vuole può venire e se gli piace lascia un’offerta. Ma io non chiedo soldi». E anche questo forse Nicola non lo sa, ma è un grande

Settimanale di informazione e cultura Anno LXXXVII 27 maggio 2024 azione – Cooperativa Migros Ticino 20
Luigi Baldelli, testo e foto

Gaudì della Valtellina

riciclato non per animo ecologico, ma perché contrario alla cultura dello spreco

insegnamento, quello di poter condividere la bellezza e far godere in modo gratuito il bello anche agli altri. «Ma io non ci trovo tutta ’sta bellezza che dite voi», sottolinea in modo deciso il nostro pensionato: «Te lo ripeto: per me è stato solo un passatempo».

L’ultimo terrazzo

Arriviamo in cima, all’ultimo terrazzo, accompagnati da alberi di ciliegio, cachi, prugne, noci e uva americana. Da quassù la vista sulla valle è spettacolare. Mentre sotto di noi c’è la cascata dei colori dei mosaici. Sull’ultimo gradino la scritta fatta con dei sassolini bianchi «Questo cercavo» è stata fatta nel 2020, durante il periodo del Covid, «perché volevo arrivare fino a quassù e ci sono riuscito». La passeggiata lungo il giardino roccioso permette di conoscere un po’ Nicola, un uomo semplice e trasparente, schietto e diretto. Siamo titubanti nel fargli un’altra domanda, perché temiamo la sua risposta. «Ma quindi tu sei un artista?» gli chiedo comunque, mentre ammiriamo la valle. Si volta di scatto, mi guarda serio e poi dice in modo secco e perentorio: «Non sono un artista, sono uno che ha semplicemente trovato da fare una cosa che gli piace, que-

sto è il mio rifugio». L’umiltà è un suo tratto forte.

Gaudì

«Ok, aggiungo, ma lo sai che ti chiamano il Gaudì di Grosio?». «Ma io non so neanche chi è questo Gaudì». Si gratta la testa per poi aggiungere: «È stato un architetto messicano durante una visita che mi ha dato questo titolo».

Gaudì, famoso architetto catalano vissuto dopo la metà dell’Ottocento, è stato il massimo esponente del modernismo. Famoso per essere l’autore di grandi opere architettoniche, prima fra tutte la Sagrada Familia di Barcellona. O la Casa Batllò, per non parlare dei mosaici e delle costruzioni del Parco Guell, che il giardino roccioso ricorda moltissimo. «No no, nessun titolo d’artista. Io sono solo un operaio in pensione».

Torniamo alla base, proprio accanto all’ingresso di casa di Nicola. Guardare dal basso la parete di roccia, piena di colori e archi ci fa ancora di più render conto della maestosità dell’opera, anche se Nicola forse non vuole ammettere la bellezza di quanto ha costruito interamente con le sue mani: un piccolo paradiso che lui a volte chiama solo una montagna

di sassi. Perché per lui non è un’opera d’arte di cui vantarsi, ma solo qualcosa nato in modo spontaneo a cui ha dedicato quasi tutta la sua vita, rendendolo un posto bello, originale e sostenibile.

La panchina

Ci sediamo su una panchina accanto alla porta di casa e il nostro Gaudì di Grosio aggiunge: «È stato anche un luogo che mi ha permesso di pensare e riflettere quando da solo passavo le mie giornate a incollare sassi e vetri. Mi ha permesso di pensare alla vita, alle cose importanti, a quelle che hanno veramente valore. Una volta una suora mi ha detto che nel mio cuore sente un’oasi di pace».

Rimaniamo seduti e ci lasciamo riscaldare dai raggi del sole fumando in silenzio una sigaretta. In una piazzola, a metà percorso del giardino, c’è una frase che dice «non contano le scarpe che usi ma le impronte che lasci». Certamente questa di Nicola è un’impronta indelebile, un esempio di sostenibilità e una testimonianza di chi ha saputo dare un segno positivo alla propria vita.

Informazioni

Su www.azione.ch, si trova una più ampia galleria fotografica.

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Ricetta della settimana - Insalata di cetrioli e anguria

Ingredienti

Piccolo pasto

Ingredienti per 4 persone

400 g d’anguria

250 g di fragole

250 g di cetrioli snack

1 cipollotto

100 g di rucola o d’insalata a foglia

Condimento per l’insalata

100 g d’anguria

1 centimetro circa di zenzero

2 c di Condimento Bianco

3 c d’olio, ad esempio olio al limone sale

pepe nero macinato fresco

Preparazione

1. Per il condimento, tagliate l’anguria a pezzetti. Tritate lo zenzero. Mettete gli ingredienti in un recipiente alto con l’aceto (Condimento bianco) e riducete tutto in purea con un frullatore a immersione.

2. Incorporate l’olio e condite con sale e pepe.

3. Tagliate l’anguria a pezzetti e le fragole a fettine. Dividete i cetrioli in quattro. Sminuzzate il cipollotto.

4. Mescolate tutto con poco condimento e servite con la rucola. Irrorate con il resto del condimento per l’insalata e decorate a piacimento con fiori commestibili, ad esempio viole del pensiero o mammole.

Consigli utili

Le angurie mini sono prive di semi e quindi ideali per la preparazione di questa insalata. Completate l’insalata con della feta o altro formaggio fresco.

Preparazione: circa 20 minuti

Per persona: circa 2 g di proteine, 7 g di grassi, 15 g di carboidrati, 150 kcal.

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Rischiare tutto nell’ultima missione

Colpo critico ◆ Figlio di mitici giochi di ruolo, CBR+PNK proietta chi si fa protagonista in un pericoloso mondo cyberpunk

Chi decide il destino di una storia? In quale attimo decisivo matura il cambiamento? Anche i narratori più smaliziati non lo sanno. A scegliere il destino di una vicenda non è certo l’autore – ma esiste davvero un autore? – e nemmeno i personaggi. Le storie sono già lì che aspettano, fin dall’inizio, proprio come una quercia è racchiusa nella potenzialità di una ghianda.

Non si possono crescere delle querce in un vivaio. Non si può decidere che si comportino come dei rampicanti o come dei cactus. Una quercia troverà con il tempo la propria maestà, noi possiamo solo assecondarne lo sviluppo. Tutto ciò appare evidente quando si partecipa a un gioco di ruolo, nel quale i partecipanti devono improvvisare. Il narratore, il maestro di gioco, è in grado di influenzare la trama fino a un certo punto, poi dovrà rassegnarsi all’andamento imprevedibile dell’avventura.

In questo senso Blades in the dark (John Harper, 2017) è un gioco di ruolo formidabile: costruito per accogliere scene nervose, tese, nello scenario di una città oscura dove s’incrociano atmosfere vittoriane, fantasmi e tecnologia, mette in scena un gruppo di avventurieri che tentano la sorte. Dal gioco è poi nato Forged in the dark, un sistema che permette di trasferire il meccanismo narrativo in altri scenari, da un quadro di Hyero-

nimus Bosch alla fantascienza o al cyberpunk.

Vorrei soffermarmi proprio sul cyberpunk, prima di presentare meglio uno dei tanti giochi Forged in the dark. È un genere che mette in scena un mondo futuro, dominato dalla tecnologia, con megalopoli degenerate, reti di connessioni e intelligenze artificiali sempre più pervasive. Fra le opere ispiratrici, il film del 1982 Blade Runner, girato da Ridley Scott, e il romanzo del 1984 Neuromante, scritto da William Gibson e pubblicato in italiano da Mondadori.

Blade Runner è a sua volta ispirato da un romanzo del 1968 di Philip Dick: Ma gli androidi sognano pecore elettriche?, edito da Fanucci. I paesaggi del libro e del film sono lividi, come una proiezione grottesca di un futuro immaginato. Nella Los Angeles del 2019, così come la si immaginava all’inizio degli anni Ottanta, si muovono replicanti sintetici e cacciatori di taglie.

L’impasto di informatica e malinconia tipico del cyberpunk si ritrova in Neuromante. Come Philip Dick e Ridley Scott, William Gibson ebbe intuizioni sorprendenti, immaginando perfino l’intelligenza artificiale. Mi ha sempre sorpreso invece che nessuno abbia saputo prevedere i telefoni cellulari. Nel romanzo c’è una tecnologia che permette al protagonista di connettersi alla rete per in-

Giochi e passatempi

Cruciverba

Il colmo per un calciatore è di mettere… Trova il resto della frase risolvendo il cruciverba e leggendo le lettere evidenziate.

(Frase: 2, 9, 6, 5, 2, 4)

ORIZZONTALI

1. Famoso, noto

7. Pane francese

11. Perdita del tono muscolare

12. Pasta… formata da sottilissimi strati

13. Articolo

14. Sul pulsante dell’accensione

15. Correlativo di tale

16. Il suo simbolo chimico è au

18. Suggerimento che ispira un progetto

21. Con te

23. Latte a Parigi

24. In genere… sono estremi

25. In italiano e in tedesco

26. Granturco

28. C’era una volta… in latino

30. Deposito melmoso, posatura

32. Vantaggio

33. Il Masini cantante

34. Pronome personale

36. Preposizione

37. Gruppo sociale chiuso

38. Privi di turbamenti

40. Eroe troiano

41. Guida… il treno

VERTICALI

1. Copertura di forma emisferica

2. Celestiale, spirituale

3. Un articolo

4. Prefisso che vuol dire vino

5. Bidoni in inglese

6. A metà strada

7. Spianato, schiacciato

8. Preposizione articolata

9. Raganelle arboree

10. Un avverbio

12. Sono formate da trefoli

carnarsi nel corpo di un’altra persona, in modo da vedere e sentire come il suo «ospite». In Blade runner ci sono addirittura androidi che sono in grado di provare emozioni e di sognare. Però quando uno dei personaggi deve videochiamare un’amica che cosa fa? Cerca una cabina telefonica. Il futuro visto dal passato è un’invenzione ludica, un riflesso della nostra paura e della nostra nostalgia per un presente che in pochi anni diventa già passato remoto. In CBR+PNK (Emanoel Melo 2021; edito in italiano da Grumpy Bear nel 2023), i giocatori rivestono i panni di un gruppo di mercenari che tentano di sopravvivere, e di sbarcare il lunario, in un pericoloso mondo cyberpunk. Il gioco, disponibile in una scatola molto pratica, di piccole dimensioni, semplifica il sistema Forged in the dark, per consentire partite ancora più dinamiche. È fruibile da due a cinque giocatori ed è adatto per scoprire il gioco di ruolo. È meglio comunque che almeno il maestro di gioco abbia una certa esperienza. È vero che il gioco contiene degli spunti di avventura già preparati, ma non è immediato gestire la narrativa emergente su cui si basa il meccanismo. Lo scenario infatti si compone da sé: i partecipanti reagiscono alle situazioni che presenta loro il maestro di gioco, tirando i dadi per risolvere le situazioni critiche. Il maestro di gioco stesso, tuttavia, e questo è l’aspetto

più suggestivo, dovrà cambiare la trama per accogliere gli spunti di chi si trova al tavolo.

Alla fine la storia è sempre quella, vecchia come il mondo o come una quercia che non dimentica di essere stata una ghianda. Un pugno di uomini e donne segnati dalla vita, abili con le armi o con l’ingegno, o anche buoni a nulla ma con una buona dose

di fantasia. Antieroi che intuiscono la possibilità di un riscatto, insieme alla prospettiva del fallimento. Del resto, certi fallimenti valgono più di una vittoria (e che cos’è una vittoria se non un fallimento con l’abito della festa?). Ma i protagonisti non si pongono nemmeno queste domande. Loro partono, semplicemente, pronti a rischiare tutto nell’ultima missione.

15. Avverbio di quantità

17. Antica lingua provenzale

19. Busta sigillata contenente documenti

20. Diavolo

22. Silenzio complice

24. Larve delle rane

27. Una consonante

29. Le iniziali di Pirandello

30. Momento caratteristico di un fenomeno

31. Si dice in chiesa

33. Isola del Mar d’Irlanda

35. Trascina lo spazientito

37. Le iniziali dell’attore Eastwood

38. Operetta di Mascagni

39. Le iniziali del cantante Ruggeri

Regolamento per i concorsi a premi pubblicati su «Azione» e sul sito web www.azione.ch

I premi, tre carte regalo Migros del valore di 50 franchi, saranno sorteggiati tra i partecipanti che avranno fatto pervenire la soluzione corretta entro il venerdì seguente la pubblicazione del gioco. Partecipazione online: inserire la soluzione del cruciverba o del sudoku nell’apposito formulario pubblicato sulla pagina del sito. Partecipazione

cartolina postale che riporti la soluzione, corredata da nome, cognome, indirizzo del partecipante deve essere spedita a «Redazione Azione, Concorsi,

esclusivamente a lettori che risiedono in Svizzera.

Settimanale di informazione e cultura Anno LXXXVII 27 maggio 2024 azione – Cooperativa Migros Ticino TEMPO LIBERO 25
postale: la lettera o la
C.P. 1055, 6901 Lugano». Non si
concorsi. Le vie legali sono escluse. Non è possibile un pagamento in contanti dei premi. I vincitori saranno avvertiti per iscritto. Partecipazione riservata
intratterrà corrispondenza sui
G R A NA DA EAR F EZ L I SELZ O NELLA S OSI A LA MA C O NTO D OT TI LAGO R ETE U IVI M EAT S T PIOLO RAD IO 89 63 7 1 52 3 6 1 5 4 7 18 6 2 1 4 2 9 46 5 7 7681 492 53 9452 371 86 2135 869 74 8 7 6 3 2 4 5 9 1 3297 516 48 1549 683 27 5 9 1 4 7 3 8 6 2 6378 924 15 4826 157 39
Sudoku Scoprite i 3 numeri corretti da inserire nelle caselle colorate.
Soluzione della settimana precedente La tigre siberiana è il più… Può essere lunga più di … Resto delle frasi: …GRANDE FELINO AL MONDO – …TRE METRI
1 2 3 456 7 8 9 10 11 12 13 14 15 16 17 18 19 20 21 22 23 24 25 2627 2829 30 31 32 33 34 35 36 37 38 39 40 41
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ATTUALITÀ

Svizzera protagonista

Dalla riunione a Ginevra tra Usa e Cina sull’Intelligenza Artificiale all’atteso Summit sull’Ucraina

Pagina 31

Brasile e Giappone uniti

I due Paesi hanno raggiunto un’intesa a favore dell’ambiente e dello sviluppo sostenibile

Pagina 33

L’inferno di Gwadar

Il Pakistan fortifica la città-chiave delle nuove vie della seta su spinta di Pechino. Beluci in cattività

Pagina 34

Contro la guerra

Testimonianze di giovani israeliani che rifiutano di arruolarsi andando incontro alla prigione militare

Pagina 35

Se la chiocciola può essere un buon investimento

Confederazione ◆ Sui banchi dei parlamentari finiscono anche questioni curiose come quella che riguarda il riconoscimento dell’allevamento delle lumache quale attività agricola. Ma si discute anche di cavalli, muli, bardotti e coleotteri del Giappone

Non è di certo il tipo di lettura che si tiene sul comodino, non si tratta né di prosa né di poesia, bensì di testi che per la maggior parte sono stati scritti in «burocratese stretto», e destinati soprattutto agli addetti ai lavori. Stiamo parlando della lunga lista di atti parlamentari, archivi compresi, a cui si può dare un’occhiata approdando alla pagina online del parlamento svizzero. Un sito – www.parlament. ch – in cui si può anche percorrere il programma delle sessioni che si svolgono quattro volte all’anno a Palazzo federale e che per consuetudine vengono denominate in base alla stagione, al momento è in corso quella chiamata «estiva».

In Svizzera le chiocciole non sono considerate animali da reddito ed è dunque proibito allevarle nelle zone agricole

A dire il vero i programmi sono due, uno per il Consiglio nazionale e l’altro per il Consiglio degli Stati. Si tratta di un lungo elenco di argomenti, distribuiti giorno per giorno e che di fatto rappresentano una sorta di fotografia del momento politico del Paese. Sui banchi dei parlamentari finiscono tutti i dossier di attualità più scottanti: la sanità, le casse malati, il clima, le finanze federali in rosso o il ruolo della Svizzera nel mondo, tanto per fare alcuni esempi. Temi che potremmo definire di portata epocale. A volte però i nostri rappresentanti devono occuparsi anche di questioni un po’ più marginali, ma anche decisamente curiose.

In questa sessione estiva, in un’ipotetica classifica dell’atto parlamentare più originale, spicca senza ombra di dubbio una mozione presentata dal socialista Bruno Storni. Esperto di trasporti e di energia, il deputato ticinese questa volta si muove in contesti per lui piuttosto inabituali, esortando il Parlamento a «riconoscere l’elicicoltura quale attività agricola». Nel titolo della sua mozione Storni spiega subito di cosa si tratta, di «allevamento di chiocciole». Questa proposta era stata inoltrata alla fine del 2021 e nell’iter parlamentare sta viaggiando a una velocità non proprio da primato, ma non ci si deve meravigliare più di quel tanto, stiamo pur sempre parlando di lumache. Va comunque detto che ci sono atti parlamentari a cui viene imposto un ritmo ancora più lento, pur riferendosi a tematiche più rilevanti. Ponendo l’accento sulle lumache Storni ha comunque toccato un tasto dolente, o meglio ha messo in evidenza una lacuna nella legislazione in materia,

visto che le norme in vigore escludono oggi l’allevamento di chiocciole dall’attività agricola. «Eppure l’elicicoltura – aveva fatto notare in aula lo stesso Storni lo scorso settembre, quando la sua mozione era stata discussa una prima volta – è un nuovo ramo di attività agricola che si sta sviluppando nel mondo. Ma non è permesso nella zona agricola in Svizzera, dato che le chiocciole non sono considerate animali da reddito».

In Italia in soli cinque anni gli allevamenti di chiocciole sono triplicati, offrendo lavoro a oltre novemila persone

Nel suo primo passaggio in Parlamento la proposta del socialista ticinese era stata accolta, anche perché Storni in aula aveva messo l’accento pure sulle possibili ricadute economiche dell’allevamento di lumache.

«Il potenziale di questa nuova filiera agricola definita pulita e ecologi-

camente sostenibile è notevole, come si può constatare in Italia dove in soli cinque anni gli allevamenti sono triplicati, offrendo lavoro a oltre novemila persone, e garantendo un fatturato da 350 milioni di euro all’anno». Il Consiglio federale aveva però chiesto di introdurre una modifica alla mozione di Bruno Storni per evitare di equiparare le lumache a qualsiasi altro animale di allevamento da reddito, mucche o maiali ad esempio. Le chiocciole – ha fatto notare il Governo – dovrebbero essere considerate alla stessa stregua di «altri organismi viventi», come è il caso per i pesci, i crostacei e i molluschi. Il Consiglio degli Stati ha accettato questa modifica ed è per questo che il tema ritorna al Nazionale per capire se anche questa Camera la pensa allo stesso modo sulle lumache. In ogni caso si prospetta un passo avanti in questa tematica – «un progetto molto interessante», come è stato definito in aula – perché attraverso una modifica della legge sulla pianificazione del territorio si potranno realizzare pic-

cole strutture poco invasive in zona agricola, dei recinti, per l’allevamento di chiocciole. In altri termini anche per le lumache si applicherà il classico compromesso elvetico: non possono essere considerate animali da reddito agricolo ma potranno essere allevate in zona agricola, inserite nella categoria di «altri organismi viventi». Al Nazionale ora il verdetto. In ogni caso la chiocciola ci permette di fare anche una sorta di giro virtuale in Parlamento, tra leggi, procedure e possibili soluzioni per colmare quella che è a tutti gli effetti una lacuna nella nostra legislazione. Dalle lumache passiamo ora a «asini, muli e bardotti», di questi animali ci parla una mozione presentata dalla deputata grigionese Anna Giacometti. E qui bisogna fare un salto a ritroso, visto che questa proposta è stata discussa durante la scorsa sessione primaverile. Il tema è anche in questo caso decisamente originale. La consigliera nazionale del PLR chiedeva di tener maggiormente conto delle «caratteristiche di questi animali».

Il problema sta nel fatto che cavalli e asini appartengono a due famiglie diverse, Equus caballus ed Equus asinus, come ha fatto notare la deputata grigionese. Per questo hanno bisogni diversi per quanto riguarda l’alimentazione, la loro vita sociale e le esigenze di avere un tetto sotto il quale potersi proteggere. In altre parole il cavallo non può essere considerato un «partner sociale per asini, muli e bardotti, e viceversa». Da qui l’esigenza di modificare l’ordinanza sulla protezione degli animali, che ad oggi mette invece sullo stesso piano questi mammiferi. La mozione di Giacometti è stata approvata dal Nazionale, tocca ora gli Stati affrontarla. Nella sessione estiva in corso a Berna si parlerà tra l’altro anche di coleottero del Giappone, di controlli meno burocratici nelle cantine dei viticoltori e della «concia delle sementi con microplastiche». Argomenti che ci fanno capire come sulla scrivania di un parlamentare possa approdare un po’ di tutto, chissà magari anche un’analisi approfondita sulla vita sociale di muli e bardotti.

● ◆ Settimanale di informazione e cultura Anno LXXXVII 27 maggio 2024 azione – Cooperativa Migros Ticino 27
Roberto Porta
Invisiblepower/Pexels

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Cassa malati, quanto mi costi!

Votazioni federali – 1 ◆ Il 9 giugno il popolo sarà chiamato a esprimersi sull’iniziativa del Partito socialista per premi meno onerosi e su quella de Il Centro che mira a introdurre un freno alla crescita delle spese per la sanità. Gli argomenti di favorevoli e contrari

Introdurre un limite massimo per i premi malattia e un freno ai costi sanitari: è quanto chiedono due iniziative popolari – una socialista e l’altra del Centro – in votazione federale il prossimo 9 giugno. Dopo il sì alla tredicesima rendita AVS, la sinistra potrebbe ripetere l’impresa con i premi malattia? L’iniziativa del PS, depositata nel gennaio del 2020, chiede che i premi di cassa malati ammontino al massimo al 10% del reddito disponibile. L’idea sembra godere dei favori di una stretta maggioranza dei cittadini, per i quali i premi delle casse malati, in costante aumento, sono diventati la preoccupazione numero uno, relegando in secondo piano i timori legati alla pensione o alla crisi climatica. E potrebbe farcela anche l’iniziativa che mira a frenare i costi nel settore sanitario, lanciata nel marzo 2020 dal Centro, che è però il solo partito a difenderla. L’elettorato potrebbe lasciarsi sedurre nella speranza che i premi delle casse malati vengano limitati.

Consiglio federale e Parlamento, ancora una volta soprattutto per motivi finanziari, chiedono di respingere anche questi due progetti socialmente sensibili. Il primo chiede dunque di limitare i premi versati alle casse malati al 10% del reddito imponibile. Attualmente le economie domestiche vi dedicano mediamente il 14%. Con questa iniziativa i premi potranno continuare ad aumentare ma, se dovessero superare il citato tetto massimo, l’importo eccedente verrebbe coperto dalla Confederazione (per almeno due terzi) e dai Cantoni (per un terzo), attraverso i sussidi. Pharma e altri operatori del settore sanitario non sono chiamati a contribuire.

L’iniziativa del Partito socialista chiede dunque di limitare i premi versati alle casse malati al 10% del reddito imponibile

Dalla fine del secolo scorso a oggi, i premi sono più che raddoppiati. Nel 2022 circa un quarto della popolazione, ossia 2,3 milioni di persone, ha beneficiato di una riduzione dei premi. A tale scopo la Confederazione ha versato 2,9 miliardi di franchi e i Cantoni 2,5 miliardi, per una somma complessiva di 5,4 miliardi. Sempre nel 2022 in Ticino sono stati versati 335 milioni di sussidi per i premi di cassa malati. Cifra destinata a crescere dopo l’ennesimo aumento dei premi. Un ticinese su tre riceve il sussidio. In caso di accettazione dell’iniziativa, Confederazione e Cantoni dovrebbero ulteriormente ridurre i premi per diversi miliardi di franchi all’anno. Secondo l’Ufficio federale della sanità pubblica (UFSP),

l’iniziativa comporterebbe per Confederazione e Cantoni uscite supplementari per 3,5-5 miliardi di franchi (stima riferita al 2020). A seconda dell’evoluzione dei costi della salute, entro il 2030 le uscite supplementari sono stimate tra 7 e 11,7 miliardi di franchi. L’importo esatto dipenderà dalle modalità di attuazione dell’iniziativa da parte del Parlamento, che dovrà stabilire i parametri per determinare il reddito disponibile. Il Partito socialista, sostenuto dall’Unione sindacale svizzera (USS), Caritas e dai medici di famiglia vuole porre fine alla «folle crescita dei premi». Intende garantire il potere d’acquisto di famiglie, pensionati ed economie domestiche a reddito basso e medio. Infatti, mentre i premi sono

andati alle stelle, i redditi continuano praticamente a marciare sul posto. Per numerosi nuclei famigliari l’onere è troppo pesante. Secondo il presidente dell’USS Pierre-Yves Maillard, già vittorioso qualche mese fa con la tredicesima AVS, i premi malattia sono gli unici ad aumentare liberamente, mentre tutte le altre imposte hanno limiti nelle leggi o nella Costituzione. Considerata l’ampia libertà di manovra lasciata al legislatore, Maillard stima le uscite supplementari a carico del settore pubblico sotto i 2 miliardi. Per Governo e Parlamento l’iniziativa del PS prende di mira soltanto i sintomi (la crescita dei premi) e non le cause dell’aumento dei costi della salute. UDC, PLR e Verdi liberali le rimproverano di proporre «terapie

sbagliate», senza incitamenti per frenare questo aumento. Gli avversari sottolineano che l’iniziativa comporterà nel 2030 costi aggiuntivi di 12 miliardi di franchi all’anno, a carico di Confederazione e Cantoni. Questo maggior onere non può essere pagato soltanto risparmiando in altri settori. Un aumento dell’imposizione fiscale appare quindi inevitabile. E già si palesa un aumento dell’IVA tra l’1% e il 2,3%. Solo per quest’ultimo – sostiene l’UDC – una famiglia media pagherà all’anno fino a 1200 franchi in più.

Consiglio federale e Parlamento, riconoscendo il peso dei premi malattia che grava sulle economie domestiche, hanno elaborato un controprogetto indiretto a livello di legge che entrerà in vigore se l’iniziativa fosse respinta e sempre che non sia combattuto dal referendum. Anche il controprogetto si prefigge di ridurre i premi in modo più importante di prima ma, diversamente dall’iniziativa, obbliga i Cantoni a ridurre i premi per almeno altri 360 milioni di franchi, oltre ai 2,5 miliardi già versati a tale scopo.

Nel 2030, questi costi supplementari potrebbero lievitare tra i 700 e i 960 milioni di franchi. In generale, il controprogetto comporterà nel 2026 costi aggiuntivi meno elevati per i Cantoni, rispetto a quelli provocati dall’iniziativa popolare. Con l’iniziativa – rispondono i suoi fautori – Confederazione e Cantoni saranno tenuti a intervenire una volta per tutte per ridurre i prezzi dei medicamenti e

porre fine alla concorrenza fittizia e costosa tra casse malati. Nel solco della crescita esponenziale dei costi sanitari, rientra anche l’iniziativa del Centro «Per premi più bassi – Freno ai costi nel settore sanitario», che mira ad affrontare il problema alla radice, introducendo un freno alla crescita dei costi sanitari, dalla quale dipende l’aumento dei premi. Governo, Parlamento, Cantoni e quasi la totalità degli operatori del settore sanitario ritengono il testo «assurdo» e «inutile», con il rischio di introdurre una medicina a due velocità. Ma anche in questo caso il popolo potrebbe sconfessarli. I primi sondaggi danno infatti il sì in vantaggio.

Il Centro chiede che l’aumento pro capite dei costi sanitari non sia di troppo superiore alla crescita dei salari medi

Per frenare i costi sanitari, l’iniziativa del Centro chiede che l’aumento pro capite di quest’ultimi non sia «sensibilmente superiore» (non più del 20%) all’incremento dei salari medi e alla crescita dell’economia. Questo meccanismo, che l’iniziativa non specifica, funzionerebbe sul modello del freno alle spese della Confederazione. Al Parlamento, poi, il compito di metterlo a punto. Se due anni dopo l’accettazione dell’iniziativa l’aumento dei costi sanitari supera del 20% l’andamento dei salari, Confederazione e Cantoni devono adottare provvedimenti per ridurre i costi. Con un freno ai costi, i pazienti dovrebbero pagare di tasca propria determinate prestazioni che non verrebbero più rimborsate dall’assicurazione obbligatoria. La ministra della sanità Elisabeth Baume-Schneider ha criticato la rigidità dell’iniziativa che non tiene conto di fattori quali l’invecchiamento della popolazione e i progressi della medicina. Il Centro, citando un rapporto dell’Amministrazione federale, afferma che già oggi si potrebbero risparmiare 6 miliardi di franchi all’anno, senza perdita di qualità nelle cure. Basti pensare ai prezzi eccessivi dei medicinali, alle terapie inutili o ancora ai doppioni durante gli esami medici.

Anche per questa seconda iniziativa, Consiglio federale e Parlamento hanno messo a punto un controprogetto indiretto, che entrerebbe in vigore in caso di una sua bocciatura. Esso prevede che gli attori del sistema sanitario siano tenuti a definire e motivare l’aumento dei costi previsto per ciascun ambito, al fine di garantire maggiore trasparenza. Ciò che non ha però convinto il Centro a ritirare il suo progetto, proprio per mettere pressione sugli attori del sistema sanitario.

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Svizzera al centro del dibattito internazionale

Appuntamenti ◆ Dalla riunione a Ginevra tra Stati Uniti e Cina sull’Intelligenza Artificiale all’atteso Summit sull’Ucraina

La Svizzera sta cercando di ritagliarsi un ruolo di primo piano nella diplomazia internazionale, mentre la competizione tra America e Cina diventa sempre più complicata da gestire per il resto del mondo e la guerra della Russia contro l’Ucraina è la priorità dei Paesi europei. L’ultima missione in ordine di tempo della presidente della Confederazione svizzera Viola Amherd è stata in Italia, che ha la presidenza di turno del G7, la piattaforma operativa delle sette grandi economie del globo. La consigliera federale Amherd è stata ricevuta da papa Francesco, al Quirinale dal capo dello Stato Sergio Mattarella e poi ha avuto quaranta minuti di colloquio vis-à-vis con la presidente del Consiglio italiana Giorgia Meloni, incontro che, secondo chi vi ha assistito, si è svolto in toni cordiali e amichevoli.

Amherd e Meloni

Il Governo tradizionalmente neutrale della Svizzera sta lavorando molto a livello diplomatico per ottenere consensi sull’atteso Summit sulla pace in Ucraina che si terrà il 15 e 16 giugno, cioè nei giorni immediatamente successivi alla riunione dei capi di Stato e di Governo del G7 che Meloni ha in programma di tenere nel comune di Fasano presso il resort Borgo Egnazia, in Puglia. Secondo quanto riferito dalla stampa, durante il suo colloquio privato Amherd avrebbe parlato con Meloni proprio di questo: ottenere la più ampia partecipazione possibile al Summit per la pace in Ucraina. E così in questi giorni si sta studiando un modo per far partire dalla regione del sud Italia i leader di America, Ca-

nada, Giappone, Francia, Germania e Italia, più i vertici dell’Unione europea e i capi di Stato dei Paesi invitati, come India, Brasile e Argentina, per raggiungere il più velocemente possibile la simbolica località montana di Bürgenstock, sul lago di Lucerna, a poco più di mille chilometri a nord di Fasano.

A metà maggio, durante una conferenza stampa dopo un bilaterale con il cancelliere tedesco Olaf Scholz a Berlino, Viola Amherd ha dichiarato di aver invitato al vertice sull’Ucraina centosessanta Paesi, di cui più di cinquanta hanno già dato la loro adesione, e che il lavoro diplomatico sarebbe continuato soprattutto sul fronte dei Governi del cosiddetto «Sud globale», in Africa e Sudamerica.

Era stato il presidente ucraino Volodymyr Zelensky, durante la sua prima visita in Svizzera, a chiedere al Governo di Berna di impegnarsi nell’organizzazione di un vertice per la pace. Il luogo scelto è lo stesso in cui nel 2002 la Svizzera riuscì a portare al tavolo dei negoziati il Governo del Sudan e il movimento di Liberazione del Popolo, e a firmare, infine, un cessate il fuoco sulle montagne di Nuba che mise le basi per un trattato di pace arrivato poi tre anni dopo. Per il successo diplomatico di Amherd però, questa volta, il problema più importante da superare riguarda l’organizzazione di una conferenza di pace con gli ucraini ma senza la parte degli aggressori, dei funzionari di Mosca. Già all’inizio di maggio, quando le date sono state ufficializzate, il Governo svizzero aveva diffuso un comunicato in cui affermava che «la Svizzera è convinta che la Russia debba essere coinvolta in questo processo», ma che «in questa fase» non è stato possibile

invitare Mosca a Bürgenstock. Dove molto probabilmente però parteciperà la Cina di Xi Jinping, sempre più vicina a Mosca e al suo cinque volte presidente Vladimir Putin. Pochi giorni dopo l’ultima visita di Putin a Pechino e Harbin, durante la quale Cina e Russia si sono impegnate a rinforzare la cooperazione strategica, Zelensky ha detto in un’intervista all’Afp che sarà importante avere i funzionari cinesi in Svizzera, perché loro «hanno un’influenza» sul Cremlino.

La posizione di Pechino

La posizione della Cina – che giovedì scorso ha avviato manovre militari «attorno» a Taiwan dopo l’insediamento sull’isola del nuovo presidente Lai Ching-te – nel conflitto in Ucraina è più o meno la stessa da sempre, contenuta nella sua proposta di pace dove emerge che il principale nemico di Kiev non è a Mosca ma a Washington che, nella propaganda di Pechino, sarebbe la causa del protrarsi della guerra. Pechino e Mosca su questo sono allineate come mai era avvenuto sin dalla fine della Guerra fredda e dello split sino-sovietico: l’America e la Nato, come espressione imperialista di Washington, sono i guerrafondai che fino a oggi hanno mantenuto la leadership globale solo con l’uso della forza. Eppure con i funzionari americani si deve parlare, soprattutto delle questioni più delicate dal punto di vista di un eventuale conflitto diretto fra le due superpotenze. Ed è proprio a Ginevra che di recente si è aperta la segretissima riunione a porte chiuse fra funzionari americani e ci nesi. Ordine del giorno: come garan tire che le tecnologie emergenti come

Ha senso versare regolarmente degli importi sul mio conto 3a?

La consulenza della Banca Migros ◆ Investire in titoli come azioni o obbligazioni sotto forma di fondi previdenziali è in genere una buona idea

Farei meglio a investire il denaro in un fondo previdenziale?

In linea di massima, investire i capitali del pilastro 3a in titoli come azioni o obbligazioni sotto forma di fondi previdenziali è una buona idea. In questo modo lei beneficia di opportunità di rendimento migliori, che non avrebbe lasciando il denaro su un normale conto 3a: dal 2019 in alcuni casi il rendimento può arrivare fino al 6%, a seconda della strategia d’investimento. A titolo di confronto, la remunerazione media dei conti 3a si è attestata recentemente sullo 0,65%. La soluzione in fondi è vantaggiosa anche perché i proventi non vengono distribuiti, bensì reinvestiti nel patrimonio del fondo.

Tuttavia un fondo previdenziale comporta anche dei rischi, dato che tutti gli investimenti possono essere soggetti a forti fluttuazioni dei corsi. Per compensare sul lungo periodo le perdite temporanee quindi, è consigliabile investire il più possibile a lungo termine. L’orizzonte d’investimento dovrebbe essere compreso tra quattro e dieci anni almeno, a seconda della quota azionaria del fondo previdenziale. Se per contro prevede di

riscuotere prima le prestazioni del 3° pilastro, perché si avvicina il pensionamento oppure perché desidera finanziare la sua proprietà abitativa, è meglio lasciare il denaro su un conto 3a. In caso contrario, infatti, rischia una perdita qualora al momento della vendita i fondi previdenziali valgano meno rispetto all’acquisto. Più è lungo l’orizzonte d’investimento, maggiore è il rischio che può assumersi con il risparmio in fondi e che le consente di conseguire un rendi-

l’intelligenza artificiale (IA) non diventino rischi esistenziali.

Il presidente Joe Biden e il leader cinese Xi Jinping avevano concordato di avviare delle regolari conversazioni su sicurezza e rischi dell’IA durante il loro incontro al vertice Apec di novembre dell’anno scorso, e alla prima riunione c’erano diversi funzionari della Casa Bianca e del Dipartimento di Stato e una delegazione del Ministero degli esteri e della Commissione nazionale per lo sviluppo e le riforme cinesi. Secondo i media, né il Cantone di Ginevra né il Dipartimento federale degli affari esteri hanno partecipato all’organizzazione dell’incontro fra Stati Uniti

licata questione di competizione geostrategica fra le prime due economie del mondo.

A gennaio Viola Amherd, subito dopo essere entrata in carica come presidente della Confederazione, aveva ricevuto un messaggio di congratulazioni da parte di Xi Jinping, e quindici giorni dopo, in occasione del World Economic Forum, aveva ricevuto in Svizzera una significativa delegazione della leadership cinese, compreso il primo ministro Li Qiang, considerato il numero due di Xi. Durante quei colloqui era emersa la possibilità di usare il Paese come base –anche geograficamente a metà strada fra Washington e Pechino – per man-

mento potenzialmente più elevato. Questo è possibile optando nel fondo previdenziale per una quota azionaria più elevata, ad esempio il 45% anziché solo il 25%. Per gli investitori particolarmente propensi al rischio, alcune banche offrono anche fondi con una quota azionaria del 75% e oltre. A differenza dei fondi d’investimento classici, le commissioni per i fondi previdenziali sono basse. Ad ogni modo conviene confrontare le offerte per vanificare il meno possibile i rendimenti. A proposito: presso la Banca Migros non paga commissioni per l’acquisto e la vendita di fondi previdenziali né diritti di custodia. Se ritiene che un fondo previdenziale non sia la soluzione giusta, è comunque opportuno che continui a effettuare versamenti nel 3° pilastro: sia per il fondo che per il conto 3a, infatti, può dedurre ogni anno l’importo versato dall’imposta sul reddito. Questo vantaggio fiscale offre, per così dire, un rendimento «garantito».

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A inizio maggio Viola Amherd, nell’immagine a sinistra, è stata in Italia e ha incontrato Giorgia Meloni. (Keystone)
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Brasile e Giappone la strana coppia

Diplomazia ◆ I due Paesi hanno raggiunto un’intesa a favore dell’ambiente e dello sviluppo sostenibile. Focus: l’Amazzonia

Alfredo Venturi

Da una parte il Brasile, una delle potenze del «Sud globale» impegnate con gli altri BRICS nella sfida all’egemonia finanziaria degli Stati Uniti, dall’altra il Giappone, una fra le più potenti economie dell’Occidente liberista e globalista. Il Brasile schierato con la Russia e la Cina, il Giappone strettamente legato alla superpotenza americana. Eppure questi due Paesi così diversi e diversamente collocati nel mondo hanno raggiunto a Brasilia un’intesa di notevole importanza che i due negoziatori, il presidente brasiliano Lula da Silva e il primo ministro giapponese Fumio Kishida, hanno denominato «Iniziativa di partnership nippo-brasiliana sull’ambiente, il clima e lo sviluppo sostenibile». L’intesa si fonda sul fatto che i due Paesi si sono entrambi attivamente impegnati nella «decarbonizzazione» dell’ambiente: a Tokyo come a Brasilia si vorrebbe raggiungere l’ambizioso obiettivo fissato dalla diplomazia delle Nazioni Unite, cioè zero emissioni di anidride carbonica e altri gas in eccesso responsabili dell’effetto serra entro il 2050. Il Brasile, che quest’anno ospita il G20 mentre nel 2025 gli toccherà la presidenza di turno della Conferenza ONU sul cambiamento climatico, si è anche impegnato a bloccare entro sei anni la deforestazione della selva amazzonica, il «polmone verde» del pianeta.

Il Brasile si è impegnato a bloccare entro sei anni la deforestazione della selva amazzonica, il «polmone verde» del pianeta

Proprio sulla vitale sfida dell’Amazzonia puntano i firmatari dell’Iniziativa nippo-brasiliana. La salvaguardia di quell’immenso patrimonio forestale, a cominciare dall’auspicata inversione di tendenza della deforestazione, è infatti una delle condizioni del salvataggio del mondo aggredito dal rapido cambiamento climatico, a sua volta accelerato dall’eccessiva immissione nell’atmosfera di elementi a base di carbonio. Si tratta di favorire la conservazione di quell’ambiente naturale, produttore di ossigeno e «consumatore» di anidride carbonica, bloccando l’assalto speculativo a quei territori che era stato consentito e incoraggiato dal precedente capo dello stato, l’ultraconservatore Jair Bolsonaro. Nella ricerca e nella ge-

stione di soluzioni alternative la sofisticata tecnologia giapponese potrà offrire un validissimo aiuto.

Come vogliono le buone maniere della diplomazia quando si tratta di Paesi appartenenti a diversi sistemi di valori che intendono lavorare insieme, la grande intesa ecologica di Brasilia è stata accuratamente inquadrata in una cornice che esalta la corrispondenza bilaterale su alcuni grandi temi della politica internazionale. Via libera alla retorica delle relazioni internazionali: Tokyo e Brasilia s’impegnano a cooperare per mantenere e rafforzare l’ordine mondiale basato sulla legalità, a cominciare dai due principi non sempre conciliabili dell’integrità territoriale e dell’uso della forza militare per affrontare le controversie.

Lula e Kishida hanno espresso la loro preoccupazione per le due gravissime crisi che infiammano l’attualità internazionale, Ucraina e Medio Oriente, respingendo nel primo caso la tremenda prospettiva del ricorso all’arma nucleare, appoggiando nel secondo l’attribuzione di un

seggio ONU alla Palestina. Estrema prudenza invece sui temi più scottanti. Per esempio sul terreno minato dell’attivismo cinese nei mari attorno a Taiwan il comunicato congiunto tace, limitandosi a sottolineare l’appoggio alle regole del buon vicinato marittimo. C’è anche un pressante invito alla Corea del Nord, che viene sollecitata a rinunciare ai suoi programmi nucleari.

Nei BRICS convivono due visioni, una delle quali sfida apertamente l’Occidente e l’egemonia degli Stati Uniti

Dissapori accuratamente smussati dunque, per poter collocare al centro della scena l’Iniziativa verde, che si propone sia di fermare la deforestazione, sia di dedicare a un’agricoltura ecologicamente responsabile buona parte dei territori ormai sottratti alla selva amazzonica, la più estesa del mondo. Uno dei punti centra-

Nei primi 6 mesi del 2022 – affermava il National Institute for Space Research brasiliano – ben 3988 chilometri quadrati di foresta amazzonica sono andati distrutti. (Keystone)

li dell’accordo riguarda il rilancio dei combustibili biologici, in particolare puntando sulla produzione del bio-etanolo derivato dalle colture brasiliane di canna da zucchero, da destinarsi fra l’altro alla soddisfazione dei bisogni energetici della tecnologia ibrida dell’industria automobilistica di Tokyo. Paese povero di petrolio, il Giappone è particolarmente sensibile allo sviluppo di energie alternative. Che l’intesa nippo-brasiliana sull’ambiente non sia soltanto un capriccio diplomatico lo conferma il fatto che i dirigenti delle numerose imprese che hanno accompagnato Kishida a Brasilia hanno sottoscritto una trentina di memoranda d’intesa con le compagnie locali. Riguardano i progetti più disparati, con al centro gli interventi per la sostenibilità «verde». La messa a punto di questi piani occuperà a lungo le due cancellerie, durante l’incontro di Brasilia il primo ministro giapponese ha invitato Lula a Tokyo. La visita, in programma l’anno prossimo, celebrerà fra l’altro una ricorrenza storica, i 130 anni delle

relazioni diplomatiche fra i due Paesi. I rapporti di amicizia e cooperazione fra Giappone e Brasile confermano la coesistenza nei BRICS di due diverse visioni. Alcuni partecipanti al gruppo, come la Russia e in misura più attenuata la Cina, affidano a questo insieme di potenze dichiaratamente anti-OCSE e anti-FMI la missione di ridimensionare il dominio occidentale sulle istituzioni globali sfidando l’egemonia politica e finanziaria degli Stati Uniti. Altri preferiscono vedere nei BRICS un club di Paesi militarmente non allineati alla ricerca di formule nazionali per lo sviluppo. Fra questi ultimi è sicuramente il Brasile, uno dei Paesi fondatori del gruppo che non esita a ricorrere a una delle potenze dell’esecrato Occidente, come il Giappone, per realizzare i suoi programmi di crescita sanando gli errori del passato. È facile prevedere che il prossimo ottobre, al vertice BRICS di Kazako, la Russia, che occupa la presidenza annuale del gruppo, cercherà di concordare un rilancio della propria posizione.

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La prigione a cielo aperto di Gwadar

Diritti umani ◆ Il Pakistan punta da tempo sulla fortificazione della città-chiave delle nuove vie della seta su spinta di Pechino Intanto l’India si fa avanti in Iran e Teheran finanzia i gruppi terroristici che attaccano Israele

Una prigione a cielo aperto, e non in senso metaforico. Circondata per tre lati dal mare e da nord da un complicato sistema di filo spinato, cavalli di frisia e posti di blocco coadiuvati da cinquecento telecamere di sorveglianza dotate di sistemi di riconoscimento facciale. Si parla di Gwadar, nella regione pakistana del Balucistan, fiore all’occhiello di quel progetto di stampo coloniale-imperialistico battezzato China-Pakistan Economic Corridor e il cosiddetto Gwadar Fencing Project è l’ennesima violazione di ogni diritto umano e civile degli abitanti della regione. Progetto che, se portato a compimento, taglierà definitivamente fuori sia dall’accesso al mare che dall’accesso all’acqua potabile e dalla fruizione della propria città gli abitanti del Balucistan.

L’esercito pakistano sostiene che l’iniziativa delle recinzioni è una semplice misura di sicurezza, ma l’iniziativa ha scatenato le proteste dei residenti locali, portando alla temporanea sospensione dei lavori: secondo gli abitanti della zona si tratta difatti dell’ennesimo tentativo di regolare la circolazione dei cittadini, di occupare, sfruttare le loro risorse, di schedare e controllare coloro che dipendono da tali risorse. Secondo il cosiddetto master plan del progetto, Gwadar dovrebbe essere divisa grosso mo-

do in tre zone distinte: Gwadar Port Free Zone, GIEDA Industrial Zone e EPZA Export Processing Zone. Il fiore all’occhiello del progetto è la cosiddetta Gwadar Smart Port City (la zona del porto), che si sviluppa su circa 300 chilometri quadrati e che comprende: «resort di lusso, shopping malls a campi da golf fronte mare». La progettata recinzione fa parte del piano Gwadar Safe City di sicurezza per queste aree. Peccato che, secondo gli abitanti di Gwadar, il filo spinato non sia nemmeno lontanamente vicino a una di queste zone. E che, secondo la popolazione locale, il vero scopo del filo spinato e dei quindicimila soldati cinesi installatisi al porto, su cui sventolano assieme le bandiere cinese e pakistana, non sarebbe quello di garantire la sicurezza delle installazioni commerciali ma soltanto quello di difendere gli interessi di Pechino e di tenere i beluci fuori dalle zone da sviluppare. Tanto che, a quanto pare, l’esercito sta perfino progettando di rilasciare carte d’ingresso speciali o pass ai residenti che, per inciso, vengono regolarmente sfrattati dalle loro abitazioni senza cerimonie.

Gwadar, nelle intenzioni di Pechino, doveva diventare una «nuova Dubai», una inesauribile fonte di denaro sonante e accorciare le rotte commerciali cinesi. Però qualcosa è andato

storto: il porto di Gwadar, nonostante sia stato completato nel 2007, non solo non è riuscito ad attrarre nessuna linea di navigazione d’altura regolare, ma nel suo momento di massimo splendore ha registrato un traffico di appena 22 navi all’anno. In compenso l’occupazione cinese, in aggiunta ai militari pakistani, è riuscita a esacerbare la popolazione del Balucistan già esacerbata da anni di sparizioni forzate, omicidi extragiudiziali, fosse comuni, violazioni di diritti umani e civili, crescita a dismisura del debito pubblico. E la situazione rischia di peggiorare. Lo scorso 13 maggio di-

fatti il ministro dei Trasporti indiano Sarbananda Sonowal ha firmato a Teheran un contratto decennale da parte della India Ports Global Ltd con l’Organizzazione marittima dell’Iran (Paese in lutto per la morte del presidente Ebrahim Raisi in un incidente in elicottero). In base al patto, l’India investirà circa 120 milioni di dollari per sviluppare e gestire il porto di Chabahar, oltre a offrire una finestra di credito di 250 milioni di dollari per il miglioramento delle infrastrutture. Chabahar, che in persiano significa «quattro sorgenti», è un porto in acque profonde nella provincia

del Sistan Balucistan, in Iran, a circa 170 chilometri da Gwadar. Situato in mare aperto, offre un accesso facile e sicuro alle grandi navi da carico: è vicino al Golfo di Oman e allo Stretto di Hormuz. Da Chabahar parte una strada che arriva fino a Zaranj, in Afghanistan. La strada di 218 km (costruita con il sostegno dell’India) darà accesso a quattro grandi città: Herat, Kandahar, Kabul e Mazar-e-Sharif. È la prima volta che l’India assumerà la gestione completa di un porto d’oltremare, il che avrà anche un effetto moltiplicatore sul commercio con l’Iran e l’Afghanistan aggirando il problematico Pakistan. Inoltre, da un punto di vista strategico, l’India sarà in grado di monitorare le attività della Cina nel Golfo Persico attraverso Chabahar. Creando anche una serie di corto-circuiti geopolitici suscettibili di sviluppi interessanti: Iran e Pakistan, nonostante nei mesi scorsi abbiano bombardato a vicenda i baluci dall’altra parte dei rispettivi confini, insistono sull’amicizia tra i due Paesi. I talebani sono divisi tra fazioni pro-Pakistan e fazioni vicine all’Iran. L’India, arci-nemico del Pakistan, ha fornito aiuti umanitari ai talebani ma, oltre a gestire Chabahar, sta sviluppando il porto israeliano di Haifa: mentre l’Iran finanzia i gruppi terroristici che attaccano Israele.

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«Pagheremo per il dolore dei palestinesi»

Medio Oriente ◆ Alcune testimonianze di giovani israeliani che rifiutano di arruolarsi andando incontro alla prigione militare

Da domani – martedì 28 maggio –Spagna, Norvegia e Irlanda riconosceranno ufficialmente lo Stato palestinese. Dal canto suo la Svizzera ha chiarito: «Berna sostiene da anni la creazione di uno Stato palestinese sovrano sulla base dei confini del 1967. Stato che viva fianco a fianco ad Israele in pace e sicurezza». Al momento però «mancano le condizioni» per procedere in questa direzione. Intanto la guerra in Medio Oriente continua, con il suo immenso carico di morti (soprattutto a Gaza) e disperazione. Ma dal lato israeliano c’è anche chi si rifiuta di combattere. Si tratta di ragazzi e ragazze che finiscono in carcere per le loro convinzioni. Dicono: «Mesarvot!», ovvero «Ci rifiutiamo!». Vanno in cella ripetutamente: vengono condannati a 4, 5, 6 settimane di prigione poi escono in libertà vigilata fino a nuova sentenza. Hai cambiato idea? «No, io mi rifiuto», è la risposta. E arriva la seconda, la terza, la quarta condanna. Ne avevamo già parlato sull’edizione del 4 marzo 2024 («Quel rifiuto che salva l’anima»), oggi vi proponiamo qualche testimonianza. Alla fine dell’aprile scorso Sofia Orr, 18 anni, è stata condannata a 45 giorni di cella e altri 15 di libertà vigilata per la sua obiezione di coscienza. Identica sentenza per Tal Mitnick, stessa età. Per lui è la quarta condanna, finora è stato in carcere militare 150 giorni. Dalla cella scrivono perché sono in prigione e non a combattere con l’uniforme dell’esercito del loro Paese addosso.

No all’uccisione di innocenti

Ben Arat, anche lui 18enne, ad aprile era atteso al campo d’addestramento di Teal Ahover, nei dintorni di Tel Aviv. Si è presentato e ha detto: «Io mi rifiuto». E ha reso pubblici i motivi della sua scelta in una lettera in cui si legge: «L’unico strumento che conosciamo è quello militare. Questo è il motivo per cui la soluzione a ogni problema deve essere militare. Ma la nostra strategia di deterrenza non si è dimostrata efficace. Il terrorismo non si può fermare con le minacce, perché i terroristi non hanno molto da perdere. Per di più l’uccisione senza precedenti di civili innocenti a Gaza, la fame, la malattia e la distruzione di proprietà non fanno che alimentare la fiamma dell’odio e del terrore di Hamas». E la stoccata terribile: «Prima o poi pagheremo per il dolore dei palestinesi (...). Mi oppongo alle uccisioni insensate, mi oppongo alla scelta di far morire persone di fame e di malattie, mi oppongo al sacrificio di soldati, civili e ostaggi per una guerra che non può e non vuole raggiungere gli obiettivi dichiarati e che potrebbe degenerare in una guerra regionale. Per queste e per altre ragioni, rifiuto di arruolarmi». È in attesa della prossima sentenza di prolungamento della detenzione.

Sofia Orr il 25 febbraio si è presentata allo stesso campo di arruolamento e ha detto che rifiutava di indossare la divisa per protestare contro la guerra a Gaza e l’occupazione. Non è andata da sola, l’hanno accompagnata all’ingresso un gruppo di attivisti di Mesarvot, la rete di sostegno agli obiettori di coscienza. Anche lei ha fatto della sua dichiarazione un testo pubblico. C’è scritto: «Rifiuto di arruolarmi per dimostrare che il cambiamento è necessario e possibile, per

la sicurezza di tutti noi in Israele e in Palestina e in nome di un’empatia che non è limitata dall’identità nazionale.

Mi rifiuto di arruolarmi perché voglio creare una realtà in cui tutti i bambini tra il fiume Giordano e il mare possano sognare senza gabbie».

Dalla cella, Sofia Orr ha scritto una lettera sui palestinesi uccisi mentre cercavano di procurarsi qualcosa da mangiare. «In una recente visita del mio avvocato – vi si legge – ho sentito parlare un po’ del mondo esterno e degli attacchi contro i palestinesi che a Gaza lottavano per ottenere cibo e aiuti. Questa storia non riesco a scordarla, ho continuato a pensarci costantemente in cella. Oltre al fatto che colpire persone affamate che cercano di procurarsi del cibo è un orribile crimine di guerra, credo che dobbiamo riconoscere che non si è trattato di una casualità o di un fatto insolito. È un evento che rappresenta la direzione che sta prendendo la coscienza di Israele, una disumanizzazione che si collega alla volontà di vendetta. Voglio ricordarvi che le persone che hanno circondato i camion carichi di cibo non sono affamate per caso. Stanno morendo di fame. Da dietro le sbarre vi chiedo: provate a pensare a cosa li ha spinti a correre verso i camion. Resistete alla tentazione di trasformare gli affamati in mostri. Quando lo facciamo, li uccidiamo senza pensarci perché li abbiamo trasformati tutti in mostri. Le loro vite non hanno più valore. Quando ho sentito ulteriori dettagli, ho capito che la storia raccontata dai media israeliani descriveva un assalto violento da parte di chi cercava cibo, durante il quale i soldati si sarebbero sentiti minacciati e avrebbero sparato per autodifesa. Perché non si può comandare una folla affamata, e quando non si può comandare, si cerca di uccidere il più possibile per recuperare la “deterrenza” e fingere che il sangue versato aiuti a riprendere il controllo». Questi ragazzi ogni volta ricordano che non sono solo loro a dire «no alla guerra», che la società israeliana non è uniformemente schiacciata sulle posizioni di chi, anche contrario al Governo israeliano, appoggia l’esercito di Tel Aviv. Ricordano che non c’è solo la rete degli obiettori all’arruolamento. C’è anche Combatants for Peace, un gruppo di ex militari israeliani ed ex combattenti palestinesi che lavora insieme alla sensibilizzazione contro la risposta militare. Ricordano

che è lunga la storia di resistenza arabo-ebraica, che questa resistenza non è fatta soltanto di volontà di dialogo, ma anche di resistenza fisica congiunta all’occupazione. Si resiste insieme, dicono, israeliani e palestinesi. La lettera di Sofia Orr sui palestinesi uccisi mentre cercavano cibo per i loro figli accenna a questo comune sentire tra due popoli da decenni in guerra.

«Anche volendo non tener conto di questa storia specifica in cui i soldati cercavano di gestire una popolazione di rifugiati affamati – scrive Sofia –Israele mette sempre i palestinesi in condizioni invivibili, cerca di gestirli e fallisce. E quando il fallimento ci esplode in faccia e va fuori controllo, ci convincono che è colpa dei palestinesi. È così che possono uccidere e

far sì che questo non abbia alcun peso. Molti cercheranno di dire, e la maggior parte degli israeliani cercherà di credere, che la sparatoria era giustificata, che i soldati si sentivano minacciati e che sparare alla gente di Gaza va bene, visto che sono il nemico». Ma quando parliamo di palestinesi «stiamo parlando di esseri umani», sottolinea la ragazza. «Non permetterò che la disumanizzazione continui senza alcuna resistenza. Come obiettrice di coscienza purtroppo non ho niente di positivo da dire in questo momento, ma ciò rafforza la mia volontà di fare ciò che faccio, di rifiutare di arruolarmi, di pagare il prezzo e di stare in prigione, di continuare ad alzare la voce e di non lasciare che la disumanizzazione passi sotto silenzio. Ve lo dico dal carcere: i palestinesi sono esseri umani e non posso restare a guardare mentre muoiono. Non si può più fingere di gestire la situazione; questa finzione non fa altro che favorire questi caotici spargimenti di sangue. La mia generazione non è nata per uccidere o essere uccisa e per avere un futuro qui dobbiamo passare al processo di pace e fermare la guerra». Un grido potente, coraggioso. Di una giovane di 18 anni chiusa a chiave in una cella di una prigione militare. Che dice al mondo come, in questa guerra in cui non c’è niente di simmetrico, non esiste per nessuno una possibilità di vittoria.

Settimanale di informazione e cultura Anno LXXXVII 27 maggio 2024 azione – Cooperativa Migros Ticino ATTUALITÀ 35
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ATTUALITÀ

Buon compleanno Ice Tea!

L’Ice Tea della Migros è da 40 anni una delle bevande più amate della Svizzera. Chi l’ha creato e quanti milioni di litri sono prodotti ogni anno? Rispondiamo a tutte le domande e vi diciamo, alla salute!

Silvia

Un grande brindisi per la mitica bevanda!

Curiosità

Un’ondata di caldo portò al successo Il tè freddo era diffuso negli Stati Uniti fin dagli anni Sessanta dell’Ottocento. Uno dei primi libri di cucina con ricette è il Buckeye Cookbook, pubblicato nel 1876, ma l’«iced tea» divenne noto a livello nazionale solo nel 1904, in occasione della World’s Fair di St. Louis, nel Missouri. Un commerciante di tè serviva gratuitamente tè caldo. Quando vi fu un’ondata di caldo, versò del ghiaccio nel tè. I visitatori ne rimasero estasiati e fecero lunghe code per assaporare la rinfrescante bevanda.

Negli Stati Uniti già dalla fine del 19esimo secolo si usava servire il tè freddo con il ghiaccio.

Gettare le foglie di tè ai porci Dopo l’estrazione, le tonnellate di foglie di tè importate per l’Ice Tea vengono trasformate in foraggio per suini. La broda ricavata dalle foglie e da altri rifiuti organici viene prodotta sotto il pavimento della Bischofszell SA.

Settimanale di informazione e cultura Anno LXXXVII 27 maggio 2024 azione – Cooperativa Migros Ticino 36
Immagini: Getty Images, © Nicolas Bamert/original artiste/2014
Testo:
Schütz Foto: Yves Roth
Ice Tea

ATTUALITÀ

L’artista Nicolas Bamert ha allestito un bagno con il look Ice Tea. Li avrà bevuti tutti?

Il bagno di Ice Tea

30

La Svizzera è il campione europeo nel consumo di tè freddo: ne beviamo 30 litri all’anno per persona

50

Bischoffszell produce ogni anno 50 milioni di litri di Ice Tea. Con questa quantità si potrebbero riempire 24 piscine olimpioniche.

8

Attualmente esistono otto diversi gusti di Ice Tea.

2800

In 24 ore, gli estrattori di Bischoffszell producono ½ milione di litri di estratto di tè fresco dalle foglie di tè per l’Ice Tea. Ciò corrisponde a circa 2800 normali vasche da bagno piene.

100

Ogni anno vengono importate più di 100 tonnellate di tè. Occorrono circa tre grammi di tè essiccato per un litro.

Le fantasiose creazioni dei fan dell’Ice Tea sono davvero divertenti. Un’artista ha interamente tappezzato il suo bagno di confezioni di Ice Tea. Un altro utente ha costruito una mangiatoia per gli uccelli con un Tetra Pak di Ice Tea e un cucchiaio di legno. I chicchi sono nel cucchiaio e l’uccello sta appollaiato sul manico, che è fissato in una confezione di Ice Tea. Vi sono video in cui persone si tuffano da un ponte in un bicchiere pieno di Ice Tea o riempiono il loro frigorifero di un solo prodotto: Ice Tea.

Il mitico 1984: Madonna, Miami Vice e Macintosh

Quando la Migros lanciò il suo tè freddo, la musica pop stava vivendo un periodo d’oro. In TV c’era la serie poliziesca più bella di tutti i tempi e i computer potevano essere utilizzati per la prima volta con il mouse

L’aerobica era la disciplina di fitness più in voga: era praticata soprattutto dalle donne, che indossavano leggings, scaldamuscoli e fasce.

Community attiva

Circa 105’000 persone discutono dell’Ice Tea su Facebook. Tra le altre cose, la community dibatte animatamente se sia meglio il mitico Ice Tea alla pesca o l’originale al limone.

Elisabeth Kopp fu la prima donna a diventare membro del Consiglio federale. Il 2 ottobre 1984, l’Assemblea federale plenaria elesse Kopp come prima donna al Consiglio federale al primo turno. La camicetta e la gonna del marchio di moda svizzero Akris che indossava il giorno dell’elezione fanno parte della collezione storica del Museo Nazionale Svizzero.

La serie poliziesca «Miami Vice» esordì con Don Johnson che dava la caccia ai gangster della droga in un completo color pastello con le maniche arrotolate.

«Il più grande anno della musica pop»: così la rivista Rolling Stone ha definito il 1984. All’epoca furono infatti pubblicate molte hit immortali, tra cui «Like a Virgin» di Madonna, «Purple Rain» di Prince e «Last Christmas» di George Michael.

Apple rivoluzionò il mondo dei computer con il primo Mac. Era il primo computer dotato di mouse. La scatola da sette chili costava 2500 dollari, un prezzo astronomico per l’epoca.

Settimanale di informazione e cultura Anno LXXXVII 27 maggio 2024 azione – Cooperativa Migros Ticino MONDO MIGROS 37 Immagini: Getty Images (4), Keystone
Ice Tea
Ice Tea Pesca 1l Fr. 1.10 Ice Tea Limone 1l Fr. –.95
Testo: Michael West Fatti & cifre

«La ricetta non è stata modificata nel corso dei decenni»

Ruedi Bärlocher è il creatore del mitico Ice Tea. Ha cercato e cercato e ha sperimentato ininterrottamente fino a riuscire a lanciare il primo tè freddo sul mercato svizzero. Intervista con l’inventore

Mister Ice Tea:

Ruedi Bärlocher era nel 1984 tra i creatori della mitica bevanda.

Come è nata l’idea di produrre un tè freddo?

In occasione di un viaggio negli Stati Uniti nel 1983 del nostro responsabile dello sviluppo di allora. Negli USA era consuetudine versare il tè appena preparato in bicchieri pieni di ghiaccio, che consentiva di raffreddarlo immediatamente. Questo «iced tea» veniva bevuto ovunque, a casa e fuori casa.

E poi cosa è successo?

Una volta rientrato in Svizzera, ci siamo messi a sperimentare per cercare di produrre un tè freddo su larga scala. Quando prepariamo il tè a casa, versiamo l’acqua calda sulle foglie o sulla bustina e lo beviamo in breve tempo. Per produrlo invece industrialmente, all’inizio abbiamo seguito il cosiddetto processo «home made». In altre parole, prima di adottare il sistema dell’infusione, durante i primi tentativi usavamo mettere grandi sacchetti di stoffa pieni di tè in speciali serbatoi da 2000 litri. Il tè pronto raggiungeva una temperatura di circa 35 gradi. I processi microbiologici però ne modificavano ripetutamente il gusto rendendolo imbevibile.

Come avete risolto il problema? Abbiamo cercato e cercato fino a trovare una soluzione unica nel suo genere: quando il tè bollente lascia l’impianto, cede il calore all’acqua fresca che entra per l’infusione successiva. Naturalmente i due liquidi rimangono separati. In questo modo il tè appena preparato si raffredda. Con questo sistema si evitano i problemi microbiologici e si risparmia molta energia.

Settimanale di informazione e cultura Anno LXXXVII 27 maggio 2024 azione – Cooperativa Migros Ticino 38 ATTUALITÀ Ice Tea
Testo: Silvia Schütz Foto: Michael Sieber

Cosa contraddistingue il mitico Ice Tea?

Estraiamo direttamente dalle foglie di tè. In questo modo i tannini passano direttamente nell’acqua, conferendo al tè il suo carattere asprigno. Si tratta di un tè in infusione in cui l’acqua calda viene pressata attraverso una miscela di tè nero e rosa canina. Durante questa fase si sprigionano i sapori tipici del nostro mitico Ice Tea. Altri fabbricanti lavorano con l’estratto di tè. Naturalmente è importante anche la qualità delle foglie di tè, che deve rimanere invariata durante tutto l’anno. Il nostro fornitore di tè ce lo garantisce miscelando sapientemente varietà provenienti da diverse piantagioni. Nel 1984 ci rifornivamo di tè nero dallo Sri Lanka, oggi dall’India.

E perché ancora oggi l’Ice Tea continua ad avere successo?

È una bevanda che si beve in famiglia, sempre presente sulla tavola e ideale per accompagnare ogni pasto, tutto l’anno.

Se hai dei figli, lo tramandi. Anche il buon rapporto qualità-prezzo depone a suo favore. Hanno dato un ulteriore impulso pure le novità come la bottiglia di PET richiudibile. L’Ice Tea si può portare ovunque, sia in gita che a scuola o a un concerto rap.

Esiste una formula segreta?

Sì e no, perché tutti gli ingredienti figurano sulla confezione. Le quantità di ogni singolo ingrediente rimangono però un segreto. Anche i dettagli della lavorazione delicata non sono resi noti. Naturalmente vogliamo evitare che il «nostro» tè venga copiato. La particolarità di questo Ice Tea è che nulla è stato modificato nel corso dei decenni trascorsi. Il sapore è lo stesso del 1984 e, come per tutti i mitici tè freddi, non usiamo conservanti.

Il mitico Ice Tea è conosciuto anche a livello internazionale? No, il mitico Ice Tea è una specialità svizzera.

Qual è il suo tè preferito?

L’Ice Tea alle erbe alpine. Per questo abbiamo usato erbe alpine del Vallese, che abbiamo poi introdotto negli estrattori di Bischofszell come le foglie di tè. Affinato con la menta, l’Ice Tea alle erbe alpine è una delizia.

ATTUALITÀ

5 pietre miliari

1

I ce Tea classico: il mitico Ice Tea al limone è stato il primo tè freddo al mondo prodotto industrialmente nel 1984. Il successo è immediato e il prodotto diventa un bestseller. Ancora oggi è il numero uno. Per il compleanno lo proponiamo in una speciale confezione retrò.

2

I ce Tea alla frutta: poco dopo il lancio del primo Ice Tea al limone arriva sul mercato il tè freddo alla pesca. Il successo perdura ancora oggi e si colloca al secondo posto in classifica.

3

I ce Tea senza zucchero: fa la sua comparsa il mitico Ice Tea Zero con edulcoranti. Grazie ai fiori di ibisco e alla rosa canina il gusto rimane quello di sempre ed è il terzo tè freddo più apprezzato.

4

Il prodotto su misura: nel 2018 si è tenuta per la prima volta una votazione in cui gli amanti dell’Ice Tea potevano votare un nuovo gusto. Il vincitore «KiwiAnguria» è ancora presente nell’assortimento.

5

I ce Tea con caffeina: il mitico Ice Tea Energy con caffeina e senza anidride carbonica viene lanciato nel 2024.

Settimanale di informazione e cultura Anno LXXXVII 27 maggio 2024 azione – Cooperativa Migros Ticino MONDO MIGROS 39
Immagini: MGB-Archiv
Ice Tea
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SPINAS CIVIL VOICES Chiamarsi con un fischio, una meraviglia dei mari Una voce unica Noi umani ci salutiamo chiamandoci per nome. Per i delfini non è molto diverso: ogni cucciolo di tursiope sviluppa un fischio individuale che utilizza per avvicinare gli altri animali e comunicare con loro. Anche dopo decine di anni i delfini si ricordano la voce dei loro vecchi compagni di mare. Per altre meraviglie: mari.wwf.ch Proteggiamo le meraviglie della natura. Ora in azione The Taste of Fun! Da tutte le offerte sono esclusi gli articoli già ridotti. Offerte valide solo dal 28.5. al 3.6.2024, fino a esaurimento dello stock 43% conf. da 10 Su selezionati prodotti Capri-Sun per es. Capri-Sun Multivitamin, 10 x 200 ml, 3.35 invece di 5.90

CULTURA

Spring Fever a Territori Festival Dal 5 al 9 giugno Bellinzona tornerà ad essere un palcoscenico pulsante sul quale si esibiranno le arti sceniche e performative indipendenti

Pagina 43

Il primo festival di storia in Ticino L’Associazione ticinese degli insegnanti di storia inaugura un nuovo festival con voci autorevoli del panorama culturale svizzero e italiano

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Echi da Cannes

Fabrice Aragno e Mitra Farahani raccontano i progetti per portare avanti l’opera di Jean-Luc Godard protagonista a Cannes con Scenario

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Di fantasmi e abitudini amorose impreviste

Intervista ◆ La scrittrice Chiara Valerio racconta Chi dice e chi tace, il suo nuovo romanzo uscito per Sellerio

Chi dice e chi tace (Sellerio, 2024) è tra i dodici candidati al premio Strega e racconta della morte di Vittoria, o meglio di tutto ciò che ne consegue: la donna, arrivata nel paese di Scauri insieme a Mara molti anni prima viene ritrovata annegata nella sua vasca da bagno, ma l’amica e avvocata Lea non si dà per vinta e cerca una verità su una persona che conosce da sempre, ma di cui non sa nulla. Abbiamo incontrato l’autrice, la scrittrice Chiara Valerio (nella foto), responsabile della narrativa italiana per la casa editrice Marsilio e collaboratrice di varie testate e per Radio3. «Alla fine quando ti piace e ti avvicini abbastanza, ci finisci dentro»: è una frase di Mara, la compagna di Vittoria. L’orientamento sessuale viene considerato come dato. Nel suo romanzo, invece, emerge che non è così, che ci si può ritrovare a vivere abitudini amorose impreviste. Ce ne parla?

Non penso che ci sia niente di definitivo nella vita di ciascuno se non in abbrivio (la madre) e in exitu (la morte). Per il resto mi pare tutto molto mutevole. C’è una eccezione di cui tuttavia bisogna tenere conto, ne scrive Patricia Highsmith in Carol, e cioè che il corpo prende abitudini: uno stesso bar, una stessa strada, la stessa concavità o convessità di un corpo amato. Si conosce e si ama anche per frequentazione.

Nel testo in due occasioni la violenza in ambito familiare viene definita come «incapacità ad accettare che quelli che ami cambino». Cosa permette di evitare questo controllo che può avere risvolti tragici?

Cosa fa sì che in una famiglia a dominare sia invece la libertà di essere e trasformarsi?

L’idea, sempre più difficile da salvaguardare in un mondo dominato da una tecnologia che ci immerge nei consumi con un sistema di cookies, è che l’altro sia irriducibile a noi, che non sia un oggetto o un soggetto di consumo nella nostra bolla, ma sia un altro, appunto, diverso, distante. Scauri, in questo romanzo, è una bolla. Una bolla con una certa estensione fisica, che contiene corpi e non nickname o avatar. I corpi devono incastrarsi e sistemarsi per non darsi fastidio. I corpi, anche quelli amati, possono darci fastidio. I corpi muoiono, i nomi no. «Nomina nuda tenemus» sta in esergo al più formidabile romanzo storico italiano degli ultimi cinquant’anni: Il nome della rosa Credo che al fondo di tutto ci sia che il corpo di un altro non è assimilabile al nostro.

«La vita interiore non esiste, è solo una scusa per comportarsi male»:

si tratta di una frase di Vittoria, una considerazione molto originale, in netta contrapposizione con lo psicologismo dilagante. Lei cosa ne pensa, è d’accordo?

«Più sì che no»: mi rispondeva Cesare De Michelis quando gli domandavo se un certo romanzo gli era piaciuto. Vittoria è più originale di me. Vittoria è originale. Vittoria spera in fondo che la vita interiore non esista perché sul resto, ciò che vede, può agire. Vittoria è avventurosa, fatalista, pratica, Vittoria non cede ad alcuna metafisica. A me divertono quelli che non cedono alla metafisica visto che Platone vincit omnia e metafisici lo siamo tutti.

La storia inizia con la notizia di una morte. La ricerca della verità sul decesso di Vittoria che ossessiona Lea nasce dal rimpianto di non averla conosciuta abbastanza quando era in vita o di non aver scoperto qualcosa di sé stessa, attraverso l’incontro con Vittoria?

Lea inciampa in quella che solo a lei pare una contraddizione e cioè che una grande nuotatrice sia morta affogata nella vasca da bagno. Quello che succede a Lea e che è anche il motivo per cui ho capito che mi sta simpaticissima, è che non ha paura di andare a vedere se c’è un’altra vita, forse più inquieta e meno felice, in-

somma se c’è un’altra possibilità, nonostante abbia una vita professionale ed emotiva soddisfacente e direi felice. Lea mi sta molto simpatica, non si ferma, è curiosa, non pensa neanche che valga la pena fermarsi, anche quando si sta bene, ma non per ottenere chissà cosa, quanto per assecondare, mi pare, una caratteristica della specie animale a cui apparteniamo: spostarci.

Il modo di conoscersi che vige nel paese, a Scauri, da una parte è superficiale: «Tutti ci accontentavamo di ciò che avevamo davanti agli occhi», dall’altra permette di conservare la memoria delle storie e delle radici. Sembrerebbe un mondo ancorato al passato in cui domina «la forma», eppure Scauri dalle sue pagine emerge come uno spazio di libertà. Cosa rende tale un paese di provincia?

La forma è uno spazio di libertà. L’idea che la libertà sia nel disordine è una idea romantica che non tiene conto del fatto che la maggior parte di noi per la gran parte della vita – e ciascuno di noi è ciò che è per la maggior parte del tempo – vive in comunità. Per essere liberi in una comunità e per pensare liberamente c’è bisogno di molta forma. Sono stata matematica per un numero consistente di anni e potrebbe essere che

questa mia visione della forma dipenda da una prossimità a studi dove la sostanza è la forma del linguaggio in cui la sostanza si esprime. Il teorema di Pitagora coincide con le forme, simboliche o geometriche, che lo enunciano.

Vittoria è una donna eccezionale: una guaritrice sapiente, generosa, che vince sempre a carte. Se è «sventurata la terra che ha bisogno di eroi», che ne pensa delle eroine? Vittoria non è una eroina. Nel senso che non sappiamo mai se ciò che si conosce di lei, se ciò che gli altri dicono di lei, sia realtà, fantasticheria, mitomania. Vittoria genera fascino o sgomento, questo è acclarato, così come è acclarato che Lea sia tra gli affascinati, ma gli scauresi ingigantiscono o rimpiccoliscono – come i biscotti di Alice – la figura di Vittoria, che non è personaggio del romanzo, ma fantasma nel romanzo. Il personaggio del romanzo che porta il nome di Vittoria è un caleidoscopio di impressioni lasciate da Vittoria. Possiamo discutere se una fantasma possa essere o non essere eroe o eroina e questo sarebbe affascinante. Fiorella che salta di sogno in sogno nel racconto Passare contenuto nella raccolta Piccoli miracoli e altri tradimenti di Valeria Parrella (Feltrinelli, 2024) è un fantasma o no ed è una eroina o

no? Per restare nella letteratura italiana contemporanea. E Filinnio de Il Libro delle meraviglie dello storico greco Flegonte lo è? (Einaudi, a cura di T. Braccini).

Vittoria abbandona la carriera universitaria, rinuncia al girl power come si dice oggi, per proteggere un’altra ragazza. Si tratta di un modo di intendere il femminismo che spesso viene dimenticato, l’importanza della relazione fra donne, dell’essere, come si diceva all’epoca, almeno in due. Che ne pensa?

Non penso che Vittoria sia buona, e non penso nemmeno che Vittoria sia femminista, ma appunto, Vittoria è morta e io ne so quanto Lea Russo, quanto gli altri scauresi, quanto lei che ha letto il romanzo e formulato le domande. Forse ha ragione lei, forse Vittoria abbandona il girl power e protegge e aiuta un’altra ragazza. Quello che tuttavia mi interessa non è tanto la causa, in questo caso, ma l’effetto. Di Vittoria conosciamo solo gli effetti. Le sue motivazioni interiori, le sue ragioni, non le conosciamo. E non possiamo conoscerle, perché è morta a pagina uno.

Bibliografia Chiara Valerio, Chi dice e chi tace, Sellerio, Palermo, 2024.

● ◆ Settimanale di informazione e cultura Anno LXXXVII 27 maggio 2024 azione – Cooperativa Migros Ticino 41
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Il risveglio delle arti sceniche

Teatro ◆ Dal 5 al 9 giugno torna Territori, il festival di Bellinzona

Conclusasi l’undicesima edizione delle Giornate del Teatro Svizzero che dal 23 al 26 maggio hanno trasformato il Canton Ticino in un grande palcoscenico, le arti sceniche e performative restano protagoniste e tra pochi giorni – dal 5 al 9 giugno – faranno di Bellinzona un palcoscenico pulsante. Torna infatti Territori Festival che – dopo il grande successo dello scorso anno con oltre 1700 spettatori – per la seconda edizione sigla la collaborazione tra Il Teatro Sociale Bellinzona e la piattaforma artistica ZONA’B.

Margherita Saltamacchia, anima e promotrice della piattaforma insieme all’attrice e cantante Raissa Avilés, ci racconta le novità in cartellone quest’anno nel solco dello spirito della manifestazione che punta a far conoscere e a mettere in risalto le proposte della scena artistica indipendente ticinese. «L’anno scorso abbiamo avuto bel successo di pubblico e di programmazione, è stato bello vedere all’opera la scena artistica locale, valorizzare le produzioni che nascono sul nostro territorio che poi è il lavoro che ZONA’B promuove tutto l’anno con un’attenzione particolare agli spettacoli in debutto. Se però da un lato vogliamo dare visibilità alle compagnie e alle produzioni ticinesi, dall’altra non dobbiamo dimenticare di guardare altrove per ispirarci e confrontarci. In questa edizione lo facciamo costruendo un ponte con le Isole Baleari grazie alla collaborazione con FiraB! – Mercat professional de música, arts escèniques de les Illes Balears. Un festival più grande ma che condivide il nostro intento e dunque celebra, promuove la scena artistica e performativa indipendente delle Isole Baleari». Basta dare un’occhiata al program-

ma di Territori Festival ’24 per riconoscere l’influenza del festival maiorchino che approda a Bellinzona con due spettacoli: A beginning #1616D della compagnia di Aurora Bauzà e Pere Jou, una commistione di canto e danza per uno spettacolo molto suggestivo, delicato e potente al tempo stesso e La fine delle cose che porta sul palcoscenico una intelligente performance sulla maternità e le sue radici antropologiche.

Le novità però non finiscono qui, infatti quest’anno, nell’ottica di valorizzare e dare spazio alle giovani generazioni di artisti emergenti e agli aspetti formativi del lavoro teatrale, parteciperà anche l’Accademia Dimitri con Spring Fever, il lavoro collettivo di fine formazione del terzo anno del Bachelor of Arts in Theatre. Presentato per la prima volta a Verscio lo scorso 17 maggio, a raccontarcelo in anteprima è il regista, coreografo e ballerino svizzero Philipp Egli che ne ha diretto i lavori. Lo raggiungiamo al telefono mentre rientra da La Chaux-de-Fonds, dove gli studenti dell’Accademia hanno portato in scena il loro spettacolo (nella foto ritratti tutti insieme) tratto dal Sacre du Printemps di Stravinsky che sarà in tournée per tutta l’estate e, appunto, a Territori Festival. «Abbiamo scelto di esplorare l’opera di Stravinsky senza però concentrarci sul tema sacrificale ma ponendo l’accento sulla musica, sulla composizione. Da qui anche il titolo Spring Fever che allude alla forza, al vibrare della natura nel momento del suo risveglio, tutto ciò insomma che viviamo a ogni primavera e che qui trabocca dalla musica di Stravinsky». Da questi presupposti è nata dunque la coreografia corporea basata sulla partitura che ha permesso agli

Stress a Locarno

Musica ◆ A tu per tu con il rapper svizzero

In vista della sua partecipazione a Moon and Stars che si terrà quest’anno dall’11 al 21 luglio 2024, abbiamo fatto qualche domanda a Andres Andrekson, nome d’arte

Stress, nato a Tallinn nel 1977 e di casa a Zurigo.

Losanna o Zurigo?

Zurigo. Vivo qui da più di dieci anni, è qui che ho la mia cerchia di amicizie ed è qui che mi sento a casa. Una delle migliori città della Svizzera.

Una delle migliori o la migliore?

Rimango educato: una delle migliori.

MC Solaar o Eminem?

Sicuramente Eminem, dato che mi ha influenzato molto come rapper.

Birra o vino?

Vino. Si sposa meglio con del buon cibo.

Rösti o raclette?

Adoro la raclette. La mangiamo sempre a casa con la famiglia il 25 dicembre.

studenti di immergersi e abbandonarsi totalmente all’esperienza musicale, tanto da risvegliare timori profondi o alimentare sogni febbrili. «Alla fine – racconta Philipp Egli – i ragazzi si sono buttati nel lavoro anima e corpo. La sfida è stata quella di far propria la partitura trovando il modo di esprimerla attraverso il corpo. Loro stessi si sono fatti orchestra, i loro corpi si fanno strumenti che prima interiorizzano e poi fanno risuonare la partitura».

Se vi siete incuriositi, l’appuntamento con Spring Fever, tra le varie date estive, è per domani 28 maggio al LAC, e per il 5 giugno alle ore 20.00 al Teatro Sociale di Bellinzona nell’ambito di Territori Festival che aprirà le danze con uno spettacolo dedicato ai bambini. «Il festival si rivolge tanto agli operatori quanto al grande pubblico – dice Margherita Saltamacchia – quindi abbiamo pensato innanzitutto ai bimbi con uno spettacolo clownesco che vede protagonista un artista di origini russe che ha fatto la Scuola Dimitri». Nel corso della programmazione saranno inoltre presentate le ultime produzioni di Manuela Bernasconi, Léna Sophia Bagutti, Tommaso Giacopini, Camilla Parini, Igor Mamlenkov, Alessia Della Casa e Jess Gardolin con Marzio Picchetti. «Da segnalare anche il debutto di Rocco Schira con il suo spettacolo creato ad hoc, una performance dal titolo Mofo con la quale inauguriamo lo spazio Underground nei sotterranei del Teatro Sociale e che sarà replicata ogni giorno».

Informazioni Territori Festival dal 5 al 9 giugno a Bellinzona. www.territorifestival.ch

Cioccolato nero, al latte o bianco?

Nero extra. Nella mia testa è anche più sano.

Mare o montagna?

Sono cresciuto a Tallinn, in riva al mare, e adoro il suono delle onde.

Negli ultimi anni ho scoperto anche la montagna e ho fatto escursioni. Proprio la settimana scorsa ero sul Rigi.

Classica o jazz?

Classica. La musica classica suscita emozioni nelle quali mi identifico molto più che con il jazz.

Batteria o basso?

L’una non funziona senza l’altro. Se dovessi però scegliere: batteria.

Padre o madre?

Madre. Lei è il mio modello, c’è sempre stata per me e le sono molto grato.

Café au lait o espresso? Espresso, forte e corto.

Mattiniero o nottambulo?

Nottambulo. Nessuno mi telefona, ho spazio e concentrazione e posso lavorare in tutta tranquillità.

Credente o non credente?

Cerco di credere in me stesso, è già abbastanza difficile. Sono cresciuto sotto il comunismo, non esisteva il concetto di Dio. Ma capisco che questa convinzione sia importante per molte persone.

Libro o televisione?

Leggo e guardo la TV ogni sera. Ma i libri mi danno di più, cibo per la mente e per la fantasia.

Cosa sta leggendo?

Nella quarta dimensione dello scrittore di fantascienza cinese Liu Cixin.

Paura o coraggio?

La paura non è costruttiva e non ti aiuta. Quel che sarà, sarà. Quindi scelgo il coraggio.

Parigi o Berlino?

Parigi è più bella e il cibo è migliore.

Pragmatico o perfezionista?

Entrambi. Devi essere pragmatico nella vita, ma anche perfezionista come artista.

Sapere o abilità?

Ci sono troppe persone che pensano di sapere tutto ma non sanno fare nulla. Ecco perché a mio avviso è meglio saper fare.

Molière o Goethe?

Non li conosco molto bene, scelgo Molière perché l’ho studiato a scuola

Animale solitario o da branco?

Nel mio lavoro tendo a essere solitario perché sono responsabile di tutto ciò che mi circonda, incluso il branco. Poi capita che devi prendere decisioni difficili, in quei momenti sei solo.

Carattere litigioso o bisognoso di armonia?

Ho molto bisogno di armonia. Discutere richiede troppa energia e di solito non porta a nulla.

Spontaneo o pianificato?

Meglio pianificato. È facile per me essere spontaneo sul palco. Nella vita normale, meno. Qualcuno chiede: «Usciamo a mangiare?» E io dico, «Dove?» In situazioni come questa mi manca la spontaneità.

Vintage o moderno?

Adoro le cose retro-futuristiche, cioè il modo in cui le persone del passato immaginavano il futuro.

Informazioni

L’intervista integrale è sul nostro sito www.azione.ch

Per il programma di Moon and Stars: www.moonandstars.ch

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Fare la storia e raccontarla

Appuntamenti ◆ Mancano pochi giorni all’inaugurazione del primo festival di storia su suolo ticinese

Per festeggiare i suoi primi vent’anni, ATIS, Associazione ticinese degli insegnanti di storia (nata nel 2003 dalla necessità di promuovere l’insegnamento della storia nelle scuole del Cantone e, in parallelo, lo sviluppo di uno sguardo critico ai grandi problemi che animano il nostro tempo), si rivolge alla comunità del Canton Ticino e a tutte le regioni limitrofe con un Festival della storia in cui fare interagire voci autorevoli del panorama culturale svizzero e italiano per dialogare intorno al tema specifico del ruolo del coraggio nella storia.

Echi di storia, questo il nome della manifestazione, nasce con l’ambizione di diventare, con il tempo, un appuntamento fisso, dal taglio internazionale, in grado di spaziare dall’antichità alla contemporaneità con una prospettiva pluridisciplinare, combinando storia locale e storia globale. È per questo motivo che, oltre alle conferenze gratuite, rivolte a un pubblico di tutte le età, sono previsti anche diversi incontri con allievi delle scuole luganesi, nell’encomiabile tentativo di rendere la Storia un’entità viva, che possa essere rapportata con la realtà che viviamo, e il cui scopo sarebbe proprio quello di permetterci di capirla meglio.

Visto e considerato il periodo storico in cui siamo immersi, che ha visto l’acuirsi di conflitti di vario genere, ma anche l’evoluzione della percezione del sè all’interno della società, un festival che offra una serie di momenti di scambio e riflessione non può che contribuire allo sviluppo e al rafforzamento di un pensiero critico generale e individuale. Le scelte in programma, spaziando da temi come i conflitti, la condizione femminile, fino al patrimonio culturale e al ruolo della Svizzera, offrono una serie di chiavi di lettura diversificate del nostro tempo.

Il Festival avrà luogo dal 6 al 9 giugno in vari luoghi della città di Lugano (v. programma e sito internet) e, proprio in un’ottica di necessità di una diffusione capillare dello scambio e della cultura, le conferenze saranno tutte a ingresso libero e non sarà necessario riservare in anticipo (a differenza degli spettacoli teatrali).

Giovedì 6 giugno 2024

17.00 - Apertura ufficiale (Asilo Ciani) alla presenza della Consigliera di Stato Marina Carobbio Guscetti

L’intera gamma di latti di proseguimento e Junior Aptamil

18.00 - (Asilo Ciani) Silvia Salvatici, L’umanitarismo e le guerre

20.30 - (Teatro Studio Foce), Spettacolo di Alessandro Vanoli, C’è uno storico in sala?

Venerdì 7 giugno

9.30 - (Asilo Ciani), Massimo Bucciantini, Capitani coraggiosi: Giordano Bruno e Galileo, (in collaborazione con la società filosofica della Svizzera italiana)

11.30 - (Asilo Ciani) Laura Schettini, L’insostenibile leggerezza del ge-

nere. I confini tra maschile e femminile in età contemporanea (in collaborazione con la Commissione consultiva per le pari opportunità)

16.00 - (Asilo Ciani) Farian Sabahi, L’Iran e la questione femminile dal passato al presente (in collaborazione con il Servizio per l’integrazione degli stranieri)

18.00 - (Asilo Ciani) Carlo Greppi dialoga con Maurizio Binaghi, Italiani buoni, cattivi tedeschi e svizzeri neutrali. Gli inossidabili stereotipi della storia

20.30 - (Asilo Ciani) Adriano Prosperi, Una Vita per la Storia in un Tempo

senza Storia; Paolo Favilli, Il coraggio di fare storia oggi

Sabato 8 giugno

9.30 - (Asilo Ciani), Nicola Arigoni e Jonas Marti dialogano con Daniele Bollini, Patrimonio culturale e identità locale. Una questione di coraggio?

11.30 - (Asilo Ciani) Francesco Paolo Campione e Denise Tonella dialogano con Leonardo Marchetti, I musei e le sfide della contemporaneità 16.00 - (Asilo Ciani) André Holenstein e Paolo Ostinelli, Una storia europea della Svizzera? (Appuntamento del ciclo di Coscienza Svizzera «La Svizzera in Europa e nel mondo», intervento di Verio Pini)

18.00 - (Asilo Ciani) Marcello Flores e Francesca Gori dialogano con Paolo Bernasconi (Fondazione diritti umani), Il coraggio della memoria critica nella Russia attuale

20.30 - (Teatro Studio Foce), Benedetta Tobagi, Anna Bonaiuto e Giulia Bertasi, La Resistenza delle donne

Domenica 9 giugno

9.30 - (Biblioteca cantonale Lugano) Anna Scattigno, Primato della coscienza e amore costruttivo della legge: Lorenzo Milani 11.30 - (Biblioteca cantonale Lugano) Luigi Mascilli Migliorini, Il coraggio di tutti i giorni

Dove e quando Echi di storia Festival 2024 Il coraggio. 6-9 giugno 2024, Lugano (Asilo Ciani, Biblioteca cantonale di Lugano, Studio Teatro Foce) Per il programma e tutte le informazioni: www.echidistoria.ch

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Denise Tonella, di Airolo, direttrice del Museo nazionale svizzero, sarà ospite del Festival sabato 8 giugno 2024. (Wikipedia)
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Scénario, il film testamento di Jean-Luc Godard

Da Cannes – 1 ◆ Fabrice Aragno e Mitra Farahani raccontano i loro progetti per portare avanti l’opera del regista

Sta nascendo un progetto ambizioso, ma anche importante e necessario a Rolle, nel canton Vaud. Si sta costituendo una Fondazione che avrà il compito di indentificare, riunire conservare e promuovere l’insieme dell’opera di Jean-Luc Godard. Ce lo hanno confermato due dei promotori e più stretti collaboratori, Fabrice Aragno e Mitra Farahani, che abbiamo incontrato a Cannes, dove hanno presentato l’ultima breve opera del famoso regista (morto nel 2022), uscita postuma.

Di che cosa si tratta? Che cosa volete fare in concreto?

È un’idea alla quale teniamo molto e vogliamo concretizzarla nei prossimi anni, partendo dall’associazione che abbiamo costituito. Ci siamo dati un obiettivo: il 2030, perché è il centenario della nascita di Godard, sarebbe bellissimo aprire un nuovo centro a lui dedicato per quella data. In sostanza, vogliamo continuare il suo gesto, la sua opera, per sottolineare che anche dopo la sua morte Jean-Luc non morirà mai. Del resto, ancora oggi è un regista sempre molto conosciuto nel mondo intero e non solo dalle nostre generazioni, ma anche dai giovani che amano il cinema. Un amore sconfinato che abbiamo avuto modo di notare di recente anche in Giappone e in Grecia; sia per le opere più note e degli anni 60 e 70, sia per quelle recenti. Abbiamo quindi voglia di creare un luogo a lui dedicato che riunisca tutta la sua opera per ora sparsa nel mondo. Da quello che ha scritto, ai film che ha realizzato, ai vari altri progetti. Sarà un luogo di creazione per i giovani registi, ecco perché pensiamo ci debbano essere delle sale di proiezione, come anche delle sale montaggio e laboratori dedicati al cinema.

Dove intendete realizzare questo centro?

Abbiamo individuato una vecchia fabbrica vicino al Lago, a Rolle, il paese dove ha vissuto gli ultimi decenni della sua vita. Siamo già partiti contattando il Comune, il Cantone e la Confederazione e il progetto ha suscitato un grande interesse; tutto ciò ci fa ben sperare. Stiamo anche cercando i finanziamenti necessari (sia pubblici, sia privati) e spero che si riuscirà nell’impresa perché Godard è un tesoro svizzero da salvaguardare e promuovere.

Passiamo al filmato presentato a Cannes, Fabrice Aragno, quale è stata la sua genesi?

Nel 2018, gli furono fatte due proposte: la prima da parte di Saint-Laurent che è stata presentata l’anno scorso e l’altra da parte dell’Opera di Parigi che gli aveva chiesto di fare un film sul teatro e lui aveva accettato. Più precisamente, un film sul dietro le quinte di quel teatro particolare. E, al posto di scrivere la sceneggiatu-

ra su carta, per poi trasportarla sullo schermo, ha direttamente filmato la sceneggiatura. Infine, ha anche scritto un libricino d’opera. Tre progetti poi diventati Scénario, prodotti dalla casa di produzione Ecran Noir e da Arte. E su cui è stato fatto anche un documentario dallo stesso Godard: Exposé du film annonce du film «Scénario», nel quale si vede Jean-Luc che mi spiega come intende realizzare il film (nell’immagine una scena trat-

ta da qui). Una sorta di backstage dal quale si capisce molto bene il suo approccio e il suo modo di lavorare: molto pragmatico e poco teorico.

E per lei Mitra Farahani che esperienza è stata?

Come produttrice ho avuto la fortuna di accompagnare questo immenso artista negli ultimi film e di osservare da vicino il processo creativo e soprattutto di comprendere dove

Le procès du chien, film svizzero a Cannes

La Svizzera, oltre a essere l’invitato d’onore al Marché du film, ha presentato anche alcune opere interessanti nei vari concorsi. Se di Godard abbiamo detto sopra, nella seconda sezione per importanza, Un Certain Regard, l’attrice Laetitia Dosch ha mostrato la sua prima opera da regista: Le procès du chien. Un film nel quale si ride, anche di gusto. E non è poco.

La pellicola – ispirata a fatti realmente accaduti – sottolinea un aspetto poco noto del sistema giudiziario elvetico: il fatto che per legge un cane sia paragonato a una cosa e non a un essere umano. Girato in Romandia, soprattutto a Losanna e dintorni, il debutto dietro la macchina da presa di Dosch, segue da vicino le gesta – anche un po’ scapestrate e disordi-

nate – di un’avvocatessa (interpretata dalla stessa regista) dedita alle cause perse. Il nuovo incarico che assume con impegno è la difesa di un cane (Cosmos) che ha morso sul viso una donna sfigurandola e per questa ragione è a rischio eutanasia.

Buona la scelta dei ruoli secondari, indispensabili per il funzionamento della commedia: da Jean-Pascal Zadi, un veterinario comportamentalista che cerca di spiegare alla giuria le ragioni dell’aggressione a Tom Fizselson, nel ruolo del giovane Joachim, il vicino di casa maltrattato dai genitori e che la protagonista cerca di aiutare, a conferma della sua sensibilità verso i più deboli e indifesi. Ma è l’estroso padrone del cane (Dariuch, uno scoppiettante François Damiens) a prendersi sovente la scena. Così co-

andava il suo sguardo, che per me è stato l’aspetto più interessante. Per quanto riguarda questi due filmati posso aggiungere che mette in scena tre modi originali di lavorare sul film: raccontato appunto, filmato e messo in opera.

Fabrice Aragno, lei ha lavorato negli ultimi 20 anni con Godard. Come è arrivato a lui?

La nostra collaborazione è nata per caso all’inizio del Millennio. Tutti me l’avevano descritto come un mostro con cui era difficile lavorare. Mi ricordo che mi dicevano che bisognava aver letto tutto l’inimmaginabile per poter discutere con lui. Invece, quando l’ho incontrato, mi sono trovato davanti una persona umile con la quale non era necessario parlare molto, era completamente immerso nel fare. Con lui mi sono trovato subito bene perché, come me, guardava le cose nella loro essenza, nella pratica. Personalmente, prima di incontrarlo lavoravo in un teatro di marionette dove non c’era nessuna regola, e una totale libertà. Ed è la stessa libertà che ho ritrovato collaborando con lui.

me è forte il ruolo dell’avvocatessa della difesa (Anna Dorval bene nella parte), una caricatura di certi politici odierni; alla Donald Trump per capirci, che spesso diventano ridicoli nelle loro espressioni e battaglie sopra le righe.

È un film dove si sente la sincerità della giovane regista: si avverte sin dall’inizio che crede in quello che dice. Ma si percepisce anche la grande preparazione della sceneggiatura con dialoghi convincenti e la giusta alternanza tra battute e riflessioni più serie. È un aspetto, quest’ultimo, che spesso e volentieri il cinema di fiction svizzero tende a sottovalutare.

Eppure, come dimostra questo film, se un’opera è ben scritta arriva anche a Cannes; malgrado sia un debutto e su un tema particolare e curioso.

Godard ha lavorato fino all’ultimo giorno. Ci racconta come sono stati quei momenti? Sì, per lui il lavoro era vitale. Credo che il suo pensiero creativo non smettesse mai di evolvere e pensava continuamente a nuovi progetti. Personalmente penso che girare un film sia come preparare un bastone di zucchero filato, nel senso che appena ti viene un’idea subito si deve cristallizzare. Lui lavorava proprio così, gli venivano idee diverse che poi doveva mettere in pratica, passo dopo passo. E credo anche che negli anni questo suo atteggiamento non sia cambiato: quando, per esempio, vedo le interviste che faceva negli anni 60, lo riconosco e osservo lo stesso Godard con cui ho lavorato, anzi, probabilmente negli ultimi anni era anche più libero. E come sono stati gli ultimi momenti della sua vita?

L’ultima immagine di questo film che lo ritrae seduto sul suo letto l’ho girata il giorno prima della sua morte. E prima di salutarlo per l’ultima volta, si è alzato, ci siamo abbracciati e in quel momento ho capito che aveva deposto le armi, il cinema.

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Il cinema critica il potere

Da Cannes – 2 ◆ Da Coppola ad Abbasi, i registi riflettono sul nostro tempo

Nicola Falcinella

Niente, probabilmente, incarna il simbolo del potere nell’ultimo secolo più dei grattacieli. E più dei grattacieli di New York. Ce lo ricordano due delle più rilevanti e stimolanti pellicole del 77esimo Festival di Cannes che si è chiuso sabato, ovvero Megalopolis di Francis Ford Coppola (nella foto un’immagine tratta dal film) e The Apprentice di Ali Abbasi. Del resto già nel King Kong del 1933 il gorilla si arrampicava per dominare la città, mentre nei nuovi film a puntare in alto sono lo scienziato imprenditore visionario Cesare Catilina e un giovane arrembante inarrestabile Donald Trump. Due opere molto distanti nella forma, tanto il primo è debordante, barocco e vitale, quanto l’altro è lineare, incalzante e va diritto al punto. Coppola trasforma la Grande Mela in una New Rome con tanto di corsa delle bighe per una fiaba fantapolitica dal sapore shakespeariano che vuole esplorare come crollano gli imperi. Il populista Catilina ha conquistato gli uffici nel Chrysler Building e coltiva l’utopia di una Megalopoli fondata sul futuristico materiale megalon, contrapponendosi al pragmatico sindaco Cicero che invece crede nell’acciaio e nel cemento. Anche Trump crede nei materiali tradizionali, ma si scontra con i primi cittadini: se non crede nella politica («è da perdenti» sostiene, ripetendo continuamente l’alternativa tra killer vincenti e loser), sa utilizzarla e corromperla. Coppola cita Ralph Waldo Emerson a proposito dell’umanità che sarà distrutta dalla civilizzazione e su questo punto è molto pessimista, mostrando rivolte per le strade e il crescere di sentimenti antipolitici.

Il pessimismo accompagna lo spettatore assistendo alla scalata di Trump, anche se la pellicola si ferma ben prima dell’elezione del 2016. Abbasi non vuole rivelare fatti nuovi quanto mostrare un metodo e una personalità, che incarnano il peggior volto del capitalismo. Si basa sulla lezione dell’avvocato Roy Cohn che salvò Trump dai guai giudiziari a inizio anni 70 e ne fece uno squalo vorace all’insegna delle tre regole d’oro: «Attacca, attacca attacca; nega sempre; non ammettere la sconfitta». Da notare il coraggio di Abbasi, che già aveva sfidato il governo iraniano in Holy Spider, nell’andar contro un potente sulla cresta dell’onda. Lo stile invece è da cinema impe-

gnato anni 70 e non a caso apre con Richard Nixon che si proclama innocente nel mezzo del Watergate. Nello stesso decennio approda a New York dall’Urss pure Eduard Limonov, raccontato dal russo antiputiniano Kirill Serebrennikov in Limonov – The Ballad a partire dal romanzo di Emmanuel Carrère. Una parabola di ribellione tra beat e punk, una figura allergica a tutto, a cominciare dal comunismo e da tutte le leggi, ma non al nazionalismo e qui ci si ricollega a Trump.

La visione generale che emerge dai film visti a Cannes è quella del potere corrotto e c’è un’aperta critica al mondo politico di oggi

I leader di oggi compaiono in Rumours dei canadesi Guy Maddin e Evan e Galen Johnson, film ambientato durante una riunione del G7 in un castello in Germania. Soli, senza accompagnatori, i sette capi visitano inquietanti scavi archeologici, e a seguire cenano cercando di concordare una dichiarazione finale del vertice. Tra i vari personaggi c’è l’anziano presidente americano catalettico che sogna di essere assassinato, la tedesca pragmatica ma non così dura (Cate Blanchett), il canadese sentimentale e depresso che citerà una canzone di Neil Young al momento giusto. Ci sono sempre crisi, sostengono, ma i sette sembrano inadatti ad affrontarle e si perdono in parole vuote. Il film inizia come commedia

grottesca e volge all’horror, punta più all’atmosfera e alla psicologia dei potenti (e i rapporti tra di loro) che alla fantapolitica: ricorda l’argentino Il presidente – La cordillera di Santiago Mitre e Adults in the Room di Costa-Gavras, con una componente di Melancholia

La visione generale che emerge dai film visti a Cannes è quella del potere corrotto e c’è un’aperta critica al mondo politico di oggi. L’unico a uscirne bene è il Presidente brasiliano Lula nel documentario di Oliver Stone che porta il suo nome. Il regista americano di Jfk ricostruisce la vicenda del sindacalista nato povero che fondò il Partito dei lavoratori e lo portò al potere, riuscendo a togliere dalla povertà decine di milioni di connazionali, liberare il Brasile dal giogo del debito estero e farlo diventare uno dei grandi che contano. Il lavoro di Stone è di parte, elogia il protagonista e i suoi risultati, ma è anche l’ennesima critica alla politica estera degli Stati Uniti e alle sue interferenze in Sudamerica, considerato «il giardino di casa».

Non mostra invece i capi di stato e governo l’ucraino Sergei Loznitsa che, dieci anni dopo Maidan e sei dopo Donbass, filma in The Invasion come il suo Paese resiste all’aggressione russa. Episodi che si succedono, tra funerali di soldati, allarmi aerei nelle scuole, attrici che portano aiuti al fronte, feriti al fronte o soldati amputati in riabilitazione, senza far vedere né Zelensky né Putin. Loznitsa non mostra neppure esplosioni o azioni di guerra, solo chi ne paga le conseguenze.

I morti ai

vivi

SmartTV ◆ Jacques Chessex su Play Suisse

Daniele Bernardi

Risalente al marzo del 1988, Jacques Chessex, scrittore è una testimonianza che il grande autore svizzero di lingua francese (Payerne, 1934 – Yverdon-les-Bains, 2009) ha consegnato attraverso la registrazione di una conversazione con Bertil Galland per la regia di Bastien Genoux. Il documento è stato restaurato nel 2010, in vista della realizzazione di un DVD, ed è oggi disponibile su Play Suisse. Siamo a Ropraz, nello studio dell’autore de L’orco (Prix Goncourt del 1973), e Chessex è alla scrivania. «È primavera, Jacques, e piove. Ha nevicato un po’ sulle alture, ma i primi germogli stanno spuntando», esordisce Galland. «Non sappiamo a chi stiamo parlando, forse a delle persone del futuro. I morti parlano ai vivi e noi adesso siamo i vivi».

Chessex lo fissa con occhi attenti, come se, compiaciuto, sorridesse fra sé e sé per l’esordio dell’amico. Alle sue spalle ha trentaquattro anni di lavoro, durante i quali ha pubblicato libri di poesia, racconti, romanzi e saggi. Ha collaborato con la «Nouvelle Revue Française», frequentando Jean Paulhan e Marcel Arland, e ora insegna alla Facoltà di Lettere di Losanna, dove in gioventù si è formato e sono passati autori quali Ramuz, Roud e Mercanton. Il suo volto baffuto, immortalato in un bianco e nero anni 80, ricorda quello di Jerzy Grotowsky.

Dopo la lettura di una poesia dalla sua più recente raccolta, Chessex parla dei suoi inizi, raccontando come il sentire poetico e la necessità del dire lo abbiano sempre accompagnato: «Molto presto ho sentito la nostalgia dell’espressione. Presto sono stato colpito – a volte ferito – dalla bellezza degli esseri e dei paesaggi, dallo splendore animale». Con le sue parole Chessex ci riporta subito a quei «poeti di sette anni» di cui parlava Rimbaud riferendo delle sue precoci illuminazioni d’enfant prodige

Sì, perché con i maudits francesi lo scrittore ha molto a che spartire, essendo la sua una voce oscura – unanimemente considerata una delle più significative della letteratura francofona del secondo ’900.

Con L’orco (Fazi, 2010) ha infatti narrato la storia di un figlio costretto a fronteggiare il suicidio di un padre autoritario e crudele, che ha avvelenato la vita del protagonista con l’onnipresenza oltraggiosa della sua

ombra violenta, esasperatamente calvinista. Ne Il vampiro di Ropraz (Fazi, 2009) Chessex darà voce, attingendo a un fatto di cronaca del 1903, alla folle caccia alle streghe diffusasi in seguito al ritrovamento di una tomba profanata nel paesino del Canton Vaud. Infine, in Un ebreo come esempio (Fazi, 2011) metterà il dito nella piaga dell’antisemitismo elvetico, attingendo alla sua personale testimonianza di bambino (e questi non sono che tre esempi, qui riportati perché tutti disponibili in lingua italiana assieme a Il primo odore – Alberto Gaffi editore in Roma, 2006 –, L’ultimo cranio del Marchese De Sade – Fazi, 2012 – e a Perdonami madre – Armando Dadò, 2022).

Sollecitato dalle domande dell’amico, in Jacques Chessex, scrittore il poeta-romanziere (nonché critico e pittore) oltre a riferire del suo apprendistato intellettuale e umano, a raccontare di libri come Portrait des Vaudois (1969) e Carabas (1971), passa in rassegna gli autori prediletti, fra i quali spiccano Hemingway, per la sua «audacia di scrivere sulle corna del toro», e Gustave Roud, il grande letterato romando da lui considerato un «santo» capace di avvicinare la realtà alla sua natura più vera.

Ed è un certo sentimento della fine, così come il profondo desiderio di meditazione su quest’ultima, ad emergere dalla sua figura impassibile, che, interrogata sulla propria metà oscura afferma: «Non potrei eliminare l’ombra senza, al contempo, uccidere la luce. Non penso sia possibile una salvezza (…) senza l’accettazione della nostra pelle, della nostra carne, delle nostre ossa e di ciò che di noi è destinato, con la morte, al rischio di non vedere Dio nell’eternità».

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In fin della fiera

Se Dalì fosse nato a Torino?

Torino è la mia città e lo sarà per sempre. E non cessa di stupirmi. Lo sapevate che Torino ospita la più importante e ricca collezione di opere di Salvador Dalì? Una coppia di medici, Mara e Beppe Albaretto, sono stati grandi amici del pittore dal 1956 fino alla sua morte, nel 1989. Hanno collezionato una serie di opere che ogni tanto vengono esposte. Torino e Salvador Dalì: gli estremi si attraggono. L’artista catalano veniva volentieri in Piemonte, se c’era la prospettiva di pranzare con i tartufi. Surrealista, ma mica scemo: invitato per la sagra della castagna o la festa del cavolo verza faceva rispondere che sarebbe venuto volentieri ma, spiacente, aveva già preso un altro impegno.

Che vita avrebbe vissuto Dalì se, invece di nascere a Figueras, in Spagna, fosse nato a Torino? Un amico, per trovargli un lavoro, gli procurava un colloquio con il capo del persona-

le della Fiat. Lui, invece di presentarsi in camicia e cravatta regimental, arrivava come lo vediamo in un celebre poster, vestito da re, con l’ermellino, la corona, i baffi arricciati e l’occhio spiritato.

Il colloquio non avrebbe neanche avuto inizio: «Si ricordi, caro signor Dalì, che qui a Torino una sola persona può permettersi di farsi vedere in giro conciato così, l’avvocato Agnelli, per festeggiare la vittoria della sua Juventus».

Ma quel testone di Salvador insisteva a dipingere e metteva nei suoi quadri le formiche, gli elefanti con le zampe da ragno. Gli dicevano: «Vuoi fare il pittore invece di lavorare? Va bene, ma almeno dipingi le nostre montagne, il Monviso, che è già un quadro bell’e fatto. Oppure una bella veduta del monte dei Cappuccini, quella si vende sempre bene». Ma lui niente, una testa più dura del marmo che col tempo diventava una macchiet-

ta, uno spauracchio per i ragazzi svogliati: guarda cosa diventi se continui a prendere insufficienze a scuola. Finché un bel giorno arriva la notizia che a Barcellona, a Parigi, a New York gli dedicano una grande mostra e lo proclamano un grande artista del nostro tempo. E tutti a dire: io ho capito subito il suo valore. Tutto sommato è meglio che lui sia nato in Spagna. Eppure fra Dalì e i torinesi ci sono delle affinità. Come il culto per il cibo; i suoi quadri sono pieni di pane, di uova, di aragoste, di pesci, di melograni. Racconta Marisa Vescovo che l’idea per la celebre serie degli «orologi molli» venne a Dalì una sera a cena nel ristorante di una cittadina della Normandia quando gli venne servito del formaggio Camembert estremamente pastoso e colante. Ci vuole già una bella fantasia. È come se io, quando al ristorante chiedo per favore al sommelier di cambiarmi la bottiglia per-

Quando musica e attualità si intrecciano

Forse non tutti lo ricordano, ma la Svizzera può vantare un legame piuttosto profondo con il celeberrimo Eurovision Song Contest, la cui prima edizione si svolse proprio in Ticino, a Lugano, culminando nell’incoronazione della cantante elvetica Lys Assia: una fortunata concomitanza che, tuttavia, non era destinata a inaugurare una serie di facili successi. Non avveniva infatti da ben 36 anni che un partecipante rossocrociato vincesse l’annuale kermesse canora; e certo in molti hanno esultato quando, l’11 maggio scorso, il cantante Nemo, originario di Biel/Bienne, ha infine riportato la Svizzera alla vittoria nella seguitissima competizione che, dal 1956, incorona a nome dell’EBU (European Broadcasting Unit) la canzone dell’anno (v. anche sullo scorso numero di «Azione» nelle pagine di Società e Territorio nell’articolo di Simona Sala).

Xenia

Certo, anche in questo caso non sono mancate le polemiche: alcuni hanno infatti sottolineato come, in termini nazionalistici, la vittoria di Nemo non sia poi così «collettiva» come si potrebbe pensare, dato che parte della popolazione svizzera non può riconoscersi del tutto nel personaggio; un’idea senz’altro provocatoria, dato che quello dell’inclusione è da sempre il punto nodale nelle rivendicazioni della comunità non binaria, alla quale il giovane cantante appartiene. Allo stesso modo, essendo quello dell’integrazione delle minoranze LGBTQIA+ uno dei temi «caldi» della nostra attualità, altri hanno insinuato che proprio l’appartenenza identitaria di Nemo possa aver giocato un ruolo nella sua vittoria, offrendo un’opportunità agli organizzatori per dichiarare una volta di più il loro appoggio alla causa. Supposizione che certo deve qualco-

sa al carattere stesso di una manifestazione come l’Eurovision, la quale, secondo alcuni critici, oggigiorno tende a premiare i brani considerati come più rappresentativi delle tematiche care al pubblico, anziché quelli di maggior qualità – esponendo i giudici a possibili accuse di parzialità legate al contesto internazionale del momento. Il che ci conduce a considerazioni di più ampio spettro, ovvero: in una società fortemente divisa e frammentata come quella odierna, manifestazioni quali l’Eurovision si limitano ancora all’ambito strettamente musicale? In altre parole, è davvero la musica a costituire il fulcro della kermesse canora, o vi sono altri fattori (culturali, d’immagine, sociopolitici, ecc.) che rivestono altrettanta, se non maggiore, importanza? Questa domanda appare legittima non solo alla luce degli attuali sviluppi geopolitici e delicati

era un ragazzo e non una cosa

Questa è una storia triste. Astenersi cinici e cuori duri. L’ho appresa da altri, la raccolgo come un oggetto smarrito. Perché alla fine il ragazzo che era stato Amadou era diventato una cosa.

Era arrivato come migliaia di altri, dopo un viaggio talmente comune da poter essere riassunto in poche righe – pure se in realtà è durato due anni. La macchina sino alla frontiera interna di un Paese africano della costa atlantica, il camion nel deserto del Sahara, la Libia, il carcere, l’attesa, le percosse, le torture, la barca, il Mediterraneo, la traversata, il terrore, l’euforia dello sbarco. Il trasferimento in terraferma, il centro di accoglienza, la richiesta d’asilo. L’attesa del colloquio con la commissione, il diniego, un altro centro d’accoglienza, la seconda attesa, il nuovo rigetto. La vita randagia di un escluso, le notti in un

ché quel vino sa di tappo, una volta tornato a casa mi mettessi a dipingere ritratti di nani.

Un’altra felice affinità con il carattere dei torinesi è illustrata dai quadri e dai disegni che hanno come soggetto la Femme aux tiroirs, ovvero «La donna a cassetti». Si tratta di ritratti di donne nude che hanno sul davanti, a partire dal collo, tanti bei cassetti; quello prossimo all’inguine è anche provvisto della sua serratura, non si sa mai, fidarsi è bene ma…Per noi maniaci dell’ordine – ogni cosa al suo posto e ogni posto per ogni cosa – sarebbe già bello se esistessero delle donne a cassetti dove mettere le bollette, i ticket della mutua, le lettere del condominio, le buste paga. Nella collezione ci sono 47 acquarelli ispirati ai racconti de Le mille e una notte, uno più bello dell’altro. Ammirato da tanta bravura e scatenata fantasia, penso: se Dalì li aves-

se dipinti indossando un normale doppiopetto grigio sarebbe altrettanto famoso?

Nel 1930 sperimenta un metodo chiamato «paranoico critico»; poi inventerà le unghie dotate di piccoli specchi, gli occhiali con caleidoscopio per non annoiarsi, le scarpe a molla, i costumi da bagno con il reggiseno sulle spalle. Nel 1969, stando alla sua nota biografica, inizia ad attribuire alla stazione ferroviaria di Perpignan un ruolo decisivo nella nascita dell’universo.

Se non avesse fatto e proclamato stranezze per tutta la vita, noi ora ammireremmo i suoi acquerelli esposti in una piccola galleria e diremmo: bravo questo illustratore, com’è già che si chiama? Aveva ragione Dalì, l’artista moderno, per farsi notare ed emergere, deve fare il saltimbanco. Dove posso andare per comprarmi un ermellino e una corona regale di seconda mano?

equilibri internazionali, ma anche in funzione delle peculiarità stesse della manifestazione europea, che ha sempre mantenuto un carattere per molti versi differente rispetto agli altri concorsi canori (incluso il Festival di Sanremo, a cui si era originariamente ispirata). Infatti, in confronto a premi altrettanto celebri, ma dall’accezione più commerciale (Grammy Awards, MTV Europe Music Awards, etc.), l’Eurovision si è sempre distinto per il suo carattere, per così dire, «nazionalista»: il fatto che ogni artista partecipante funga da rappresentante del proprio Paese ha finito per dar vita a un tipo di competizione dall’accezione quasi patriottica – caratteristica aliena ad altri premi, e che ha reso difficile non scorgere, in alcune vittorie delle passate edizioni, la volontà di lanciare un segnale politico rivolto agli stati di provenienza delle formazioni in lizza per la finale.

Al di là di ogni considerazione, tuttavia, una cosa rimane chiara: se è vero che un evento di carattere musicale dovrebbe sempre e comunque porre l’accento sulla qualità della musica stessa, prima ancora che su qualsiasi considerazione di carattere sociopolitico, è altrettanto innegabile come le linee di confine tra arte e politica appaiano spesso sfumate e confuse. Proprio per questo, sarebbe forse utile tenere a mente quale sia il vero, più significativo ruolo della musica nella nostra società: in quanto unico linguaggio completamente universale, essa costituisce infatti uno dei rari rifugi ove le distinzioni nazionali e culturali, così come quelle di genere, credo e razza, cessano di esistere – e proprio per questo, il suo ruolo di mediatrice e forza in grado di unire le persone, anziché dividerle, andrebbe preservato ad ogni costo.

casolare fatiscente, il lavoro nei campi pagato appena quanto basta per non morire di fame. La stanchezza fisica e morale, l’idea di raggiungere a piedi la Francia. E poi il fermo, ai piedi delle montagne, i documenti senza scampo, la traduzione in un centro permanente per il rimpatrio. CPR: un acronimo che fa paura, e dovrebbe fare vergogna. Una prigione, in effetti. Muri e celle. E ancora attesa: della deportazione al punto di partenza. Ma in realtà il viaggio di Amadou è finito. In Italia non può restare, nel suo Paese non può tornare, perché non ha firmato accordi col nostro. La vita anonima e generica di un numero.

Invece Amadou era una persona. Alto, magro, occhi scintillanti, un esitante sorriso. A qualche operatore aveva raccontato di un padre morto, di una madre con altri tre figli – tutti

in attesa di denaro da lui, il più grande e il prescelto per il salto in Europa. Di una casa in periferia: non brutta né bella, ma era la sua. Non veniva da un villaggio con le capanne e il pozzo costruito da una missione o da una Ong, come vuole l’immaginario europeo sugli africani. Aveva frequentato due anni di liceo e parlava francese. All’avvocato che lo aveva aiutato a presentare domanda d’asilo aveva raccontato anche che sognava di proseguire gli studi e un giorno diventare pure lui avvocato. Ma prima doveva lavorare – un lavoro qualunque, soldi – e poi chissà. Magari sarebbe riuscito a far studiare il fratello. Col tempo era diventato taciturno. I gestori del centro di accoglienza gli pagavano la ricarica del cellulare, perché potesse comunicare con la famiglia. Ma dopo il secondo diniego

ne avevano perso le tracce. Al CPR restava tutto il giorno disteso sul letto, senza capire perché si ritrovasse in una cella senza aver commesso un reato. Purgatorio o limbo, ma piuttosto inferno – gremito di disperati. Risse e rivolte quasi ogni giorno. C’era chi si cuciva le labbra, chi aggrediva i poliziotti, chi dava fuoco ai materassi. Amadou mai aveva dato problemi. Attuava uno sciopero invisibile, cui non avrebbe saputo dare un nome. Aveva cessato di vivere. Piangeva. Il suo allarmante stato di prostrazione mentale era stato segnalato allo psicologo. Amadou chiedeva di uscire, perché stava diventando pazzo. O almeno di essere rimandato a casa. Solo questo, grazie. Sette mesi, tutti uguali. Pianti, insonnia, silenzio. Lo trovano i compagni. Non si muove e non si sveglia. In infermeria, si con-

stata il decesso. L’autopsia è d’obbligo: aveva solo vent’anni. Ha ingoiato la lametta del rasoio da barba, emorragia interna. Nessuno si è accorto del furto, né del gesto. Com’è ingoiare una lametta di quattro centimetri? Con un sorso d’acqua, il tè? Ha lasciato un biglietto in francese. Portate il mio corpo in Africa. È il desiderio di tutti. Vengono, vanno, a volte restano. Ma il corpo non vogliono lasciarlo in Europa. Nemmeno quelli che ce l’hanno fatta. Alcuni mettono da parte i tremila o cinquemila euro necessari per l’imbarco della bara in aereo. Altri si affidano alle collette dei compatrioti, dei fedeli, anche dei bianchi che – pur dissentendo – li aiutano. Il comune seppellisce la salma in un loculo, a titolo gratuito. La cosa – il corpo di Amadou – è ancora lì. In attesa di rimpatrio.

Settimanale di informazione e cultura Anno LXXXVII 27 maggio 2024 azione – Cooperativa Migros Ticino 51 CULTURA / RUBRICHE ◆ ●
di Bruno Gambarotta
◆ ● Pop
Cult
di Benedicta Froelich
◆ ●
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