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edizione
MONDO MIGROS
Pagine 6 – 7
SOCIETÀ
Cogliere il linguaggio del corpo dei nostri figli può rivelarci molto del loro stato d’animo
Pagina 4
TEMPO LIBERO
Tra gli sport acquatici emergenti spicca il wakeboard che soppianta i più storici sci nautico e monosci
Pagina 13
ATTUALITÀ Pagina 19
Dopo l’epoca dell’egemonia americana inizia una fase molto anarchica e pericolosa
Massimo Gezzi, Premio svizzero di letteratura, racconta il poeta e scrittore americano Charles Simic
CULTURA Pagina 27
Carlo Silini
Anni Novanta. Estate. In una foresta californiana viene trovato il cadavere di un uomo che indossa una muta da subacqueo disciolta sulla pelle. Cosa ci facesse un sommozzatore in una foresta rimane un enigma fino a quando non si capisce che, durante lo spegnimento di un incendio boschivo, un aereo preposto alla raccolta d’acqua dal mare, aveva inglobato nella sacca per l’acqua anche l’ignaro subacqueo, poi gettato dal cielo nel bosco in fiamme. Si parlò un po’ impropriamente di un nuovo Icaro, alludendo al mito greco del ragazzo volato via dal labirinto di Creta con due ali di cera legate alla schiena, che però si erano sciolte passando accanto al sole. Perciò, da millenni, quando si dice di qualcuno che ha spiccato il «volo di Icaro», si sottolinea l’imprudente sopravvalutazione delle sue forze e/o capacità. È stato un «volo di Icaro» la vicenda del Titan, il sommergibile dell’OceanGate imploso nelle
acque dell’Oceano mentre scendeva per scrutare da un oblò i resti arrugginiti del Titanic? Probabile. Lo scafo si era immerso altre volte senza problemi ma, col senno di poi, quel mezzo non era adatto alla fascinosa missione per la quale era stato creato. L’anno scorso David Pogue, divulgatore scientifico della CBS, aveva realizzato un servizio sul mezzo descrivendolo come «una nave sommergibile sperimentale che non è stata approvata o certificata da alcun organismo di regolamentazione e potrebbe provocare lesioni fisiche, disabilità, traumi emotivi o morte». Immaginiamo che i passeggeri (molto ben) paganti non ne sapessero nulla. Si sono fidati del CEO di OceanGate, Stockton Rush, calatosi con loro negli abissi, e Rush si è fidato troppo di se stesso. Alla fine qualcosa è andato storto. Come sulla funivia del Mottarone, il cui schianto, due anni fa, provocò 14 morti e un solo sopravvissuto, il piccolo Eitan.
Confesso il primo pensiero grezzo, dopo la notizia: tanto clamore per cinque ricconi che spariscono sott’acqua e un assordante silenzio per le decine, forse centinaia, di poveracci affogati pochi giorni prima tra le onde dell’Egeo. Ma non vorrei scivolare nella retorica un po’ meschina e incontrollabile che tende a trarre superiori insegnamenti sulle sfortune dei fortunati. Avete sborsato l’indecenza di 250mila dollari per togliervi lo sfizio di sbirciare un illustrissimo relitto? (Pensiero sottinteso: invece di usarli per cause più nobili). Ecco cosa vi è capitato. Si può discutere sui capricci dei ricchi, sullo status symbol rappresentato da certe forme di turismo milionario. E si ha tutto il diritto di dissentire da quel modo di utilizzare il patrimonio. Ma godere delle disgrazie altrui (come fa qualcuno con acidi post sui social), ha il retrogusto della cattiveria, non della giustizia distributiva. La vicenda del sommergibile raddoppierà l’im-
maginario nero attorno al Titanic, ingigantendone l’oscura leggenda. Come era successo con la celebre e scientificamente infondata maledizione di Tutankhamon, secondo la quale molti di quanti hanno scoperto nel 1922 il sarcofago del faraone diciottenne sono morti anzitempo. O con il triangolo delle Bermude, dove negli anni sarebbero svaniti nel nulla aerei in volo e navi in navigazione, un mistero messo oggi in seria discussione dagli studiosi. Panna montata sul nulla o fatti abbarbicati alla realtà? Quello che resta è la scossa elettrica del racconto spaventoso, il piacere irrazionale della paura a debita distanza di sicurezza. Preferiremmo la nascita di nuove leggende felici, come la più bella di tutte in questo convulso esordio estivo: l’incredibile sopravvivenza per 40 giorni di quattro fratellini precipitati con l’aereo nel fitto della giungla colombiana. A volte Icaro ce la può anche fare.
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Terre rare
Quanto inquinano le nostre vacanze e i nostri viaggi?
Lo ha spiegato il ticinese Patrik Reali, ingegnere di Google Zurigo ospite della Fondazione Moebius
Psicologia ◆ Osservare le espressioni, i gesti, la postura, lo sguardo o l’uso dello spazio può aiutare a comprendere gli stati d’animo
Nell’adolescenza non è raro che i figli parlino meno con i propri genitori, per i quali può quindi risultare difficile mantenere aperto un canale di comunicazione, peraltro in un momento in cui esso sarebbe particolarmente importante dati i grandi cambiamenti – a più livelli – che questa fase di crescita comporta. Per sapere cosa fare di fronte a questi silenzi oppure come decifrare il comportamento dei propri figli, vengono in aiuto delle conoscenze relative alla comunicazione non verbale. Come ognuno di noi ha infatti sperimentato, il corpo si esprime anche in assenza di parole; la differenza – e il vantaggio a saperlo interpretare – è che esso non sa mentire. Con i ragazzi vale quindi la pena prestare attenzione ai segnali non verbali – un’espressione, la postura del corpo, un gesto, la scelta di un capo di abbigliamento – ai quali magari normalmente non facciamo caso. Soprattutto, importante è notare eventuali cambiamenti rispetto a quella che gli esperti chiamano «linea di base del comportamento» i quali possono corrispondere a una variazione emotiva.
Secondo alcune ricerche più del 50% della nostra comunicazione passa attraverso la parte non verbale
Su questo tema – e cioè come leggere il linguaggio del corpo dei ragazzi e capire i loro stati d’animo – è stata organizzata dall’Assemblea genitori di Pregassona in collaborazione con GRISMEL (Gruppo Regionale d’Incontri tra Scuole Medie del Luganese) una conferenza con la presenza dello psicologo Francesco Pini.
Ma facciamo un passo indietro; la scienza che studia il linguaggio del corpo si chiama «cinesica», termine ideato dall’antropologo americano Birdwhistell negli anni Cinquanta del secolo scorso. «Nel 1971 Albert Mehrabian ha evidenziato come la comunicazione si componga di tre fattori: linguaggio del corpo, voce, parole – afferma Francesco Pini – siamo portati a pensare che il linguaggio verbale sia il più importante; secondo più ricerche invece oltre il 50% della comunicazione passa per la parte non verbale. Questo ci fa comprendere la centralità di tale componente nelle relazioni sociali, dimostrata anche dal fatto che ognuno di noi ha sperimentato quanto più complicato sia comprendere il reale significato di una comunicazione in cui manca la componente non verbale, per esempio fatta via WhatsApp». Non a caso, nell’app di messaggistica citata sono stati introdotti emoticon e poi emoji, che altro non sono che
riproduzioni delle principali espressioni facciali le quali fungono quindi da componenti extra-verbali alla comunicazione scritta.
«Se la comunicazione verbale è influenzata dal nostro grado di cultura e dalle competenze linguistiche, quella non verbale è fatta di segnali generali omogenei e altri figli di abitudini personali – continua Pini – ciò che le distingue è il grado di naturalezza: controllare la propria comunicazione non verbale è estremamente complicato e richiede grande allenamento e comunque alcuni segnali rimangono inconsci ed automatici. La comunicazione verbale, invece, è filtrata dal lobo frontale del cervello che è responsabile della personalità ed è organizzato per gestire funzioni esecutive come l’autocontrollo,
il ragionamento, la classificazione di oggetti e la pianificazione; di conseguenza, con la parola si ha una grande capacità di manipolazione che non si ha invece con il gesto». Sono otto i canali attraverso i quali passa il linguaggio del corpo, e cioè le espressioni, i gesti, la postura, l’uso dello spazio, il contatto fisico, l’aspetto, la voce e lo sguardo. «Con questi mezzi, nel corso di un dialogo gli individui trasmettono dei segnali che vanno oltre il significato letterale delle parole pronunciate e che possono fornire ulteriori indicazioni utili alla comprensione e all’interpretazione del messaggio –commenta Francesco Pini – queste informazioni additive possono essere consonanti oppure dissonanti rispetto all’informazione fornita dalla
parola; si tratta così di una sorta di chiave di controllo del grado di rappresentazione della realtà di ciò che viene espresso a parole».
Il corpo – quindi – è il primo mezzo di comunicazione che abbiamo, che parla a prescindere dall’età dell’interlocutore. Corpo che assume un ruolo fondamentale nella fase adolescenziale. «Le trasformazioni corporee cominciano nella preadolescenza, momento in cui si realizzano importanti mutamenti a livello endocrino, di crescita di peso e sviluppo dei caratteri sessuali secondari – spiega il dottor Pini – un processo fortemente influenzato dall’ambiente in cui avviene, nel quale l’accoglienza da parte delle figure adulte di riferimento è fondamentale».
Ma cosa significa, nello specifico,
«accogliere»? «Accogliere non significa accettare passivamente, bensì cercare di comprendere», risponde Pini. E per farlo, fondamentale è l’uso di domande per acquisire informazioni piuttosto che limitarsi a esprimere un giudizio, tanto più che il ragazzo si trova già in un momento delicato per quel che riguarda l’accettazione di sé, l’acquisizione di un ruolo sociale di genere e l’instaurazione di nuove relazioni con i coetanei di entrambi i sessi. «In questa fase il corpo diventa spesso inaccettato e inaccettabile. Si tratta di un elemento tipico degli adolescenti di ogni fase storica, che fa parte del tentativo di creazione di una propria identità – spiega Pini – per contro, chi riesce ad avere una percezione armonica del proprio corpo e ad accettare la propria fisicità, sarà facilitato in questo processo, con ripercussioni su stabilità, autostima ed autoefficacia».
Per «accogliere» quindi in modo efficace i propri figli in un momento tanto importante quanto delicato, quella che propone Pini è una «rivoluzione nella relazione»: «Consiglio di non fidarsi delle proprie percezioni sulle informazioni ricevute, che sono nostre proiezioni, ma piuttosto di imparare a validare il proprio sentire. E questo lo si fa, di nuovo, smettendo di sentenziare e giudicare, e trasformando le affermazioni in domande. Entrando nel dettaglio, bisogna utilizzare quello che viene chiamato “feedback fenomenologico”: rimando ciò che osservo in assenza di giudizio (vedo che stai piangendo, noto che ti si bagnano gli occhi, vedo che hai i pugni chiusi) e lascio che sia l’altro a valorizzare il contenuto del suo gesto». Strategia che assume senso e valore anche in considerazione del fatto che come una parola può avere diversi significati in funzione della frase in cui è inserita, lo stesso avviene con i gesti, le espressioni e le posture. Ogni singolo elemento del linguaggio non verbale può di fatto essere polisemico, per cui non ci si può accontentare di pensare, per esempio, che un ragazzo non sia stato sincero perché ha abbassato lo sguardo. Il linguaggio del corpo non ha infatti la pretesa di essere scienza esatta, ma piuttosto uno strumento di aiuto nella comprensione dello stato d’animo dell’altro, portando – come visto – quest’ultimo a elaborarlo cognitivamente ed esprimerlo a parole nominalizzandolo. «Soprattutto con i ragazzi, bisogna evitare di cadere nel VISSI, che sta per “valutare, indagare, soluzionare, sostenere o interpretare”. Sono tutte strategie inutili e pericolose, con le quali l’altro, soprattutto se adolescente, si sentirà invaso e giudicato e tenderà ad allontanarsi e chiudersi in sé», conclude Francesco Pini.
Territorio ◆ Alle pendici del Lema il Patriziato di Novaggio promuove un ampio progetto di valorizzazione che concilia attività agricola e sostenibilità
Stefania HubmannRuota attorno a quattro tipi di intervento l’ampio progetto di valorizzazione territoriale promosso dal Patriziato di Novaggio per ridare vita all’alpe di Cima Pianca e al comparto montano che lo circonda sulle pendici del Lema, conciliando attività agricola e sviluppo sostenibile. Oltre alla ristrutturazione di due stabili a Cima Pianca, sono previste opere di miglioria nella zona di estivazione di Pian Pulpito, la realizzazione di due aree di bosco pascolato e un nuovo tracciato per rampichini, quest’ultimo realizzato in collaborazione con Monte Lema SA. I lavori, in parte già conclusi o in avanzata fase di attuazione, sono il risultato di un iter durato una decina d’anni. Lo sforzo del Patriziato, presieduto da Claudio Delmenico, è volto a preservare il patrimonio locale da più punti di vista, incluso quello della ricerca, come spiega ad «Azione» lo stesso presidente.
«Come altre realtà ticinesi, anche l’alpe di Cima Pianca si è dovuta confrontare dalla fine degli anni 50 con il progressivo abbandono dell’attività agricola», spiega Claudio Delmenico che fa parte dell’Ufficio patriziale dal 1976 e lo guida dal 2001. «Gli edifici sono poi stati utilizzati, dagli anni Settanta fin verso il 2000, dalla Sezione forestale del Politecnico federale di Zurigo per condurre ricerche sull’ecosistema bosco. Si sono successivamente aggiunti nello studio del territorio boschivo altri istituti di importanza nazionale. Attività queste, che speriamo di sviluppare ulteriormente implementando anche momenti di divulgazione resi possibili dalla ristrutturazione dei due edifici principali: Casera e la stalla. La terza struttura ospita già il piccolo Museo
del boscaiolo, postazione del percorso tematico Cielo e terra». Realizzato dal Patriziato una decina di anni fa, il percorso sfrutta il sentiero esistente che dalla cima del Lema, passando da Cima Pianca, prosegue fino a Miglieglia.
A circa dieci anni fa risale pure un primo studio per il recupero degli stabili effettuato da una classe della Scuola professionale artigianale e industriale (SPAI) di disegnatori edili.
L’alpe di Cima Pianca è poi stata oggetto, nel 2018, di una tesi di Bachelor alla Scuola universitaria professionale della Svizzera italiana (SUPSI) da parte di Aline Berclaz che ha sondato le diverse possibilità di una futura destinazione. L’obiettivo del Patriziato è sempre stato quello di rivitalizzare le potenzialità dell’alpe a lungo termine e in modo sostenibile anche dal punto di vista finanziario, favorendo l’agricoltura, la biodiversità e la protezione dell’ambiente.
Con il progetto definitivo, approvato dall’Assemblea patriziale nel giugno di due anni fa, si è giunti alla visione globale composta da quattro diversi interventi. Visione che per Cima Pianca prenderà forma nei prossimi mesi. Spiega il presidente: «Casera sarà resa abitabile per permettere il pernottamento di un gruppo ristretto di 5-6 persone, mentre nella stalla sono pure previsti solo interventi puntuali finalizzati all’uso, in questo caso la trasformazione in un’aula didattico-ricreativa. La struttura, situata a un’altitudine di 1100 metri e raggiungibile attraverso una strada forestale, sarà così adatta per attività di formazione, coaching, workshop e manifestazioni, come pure quale luogo centrale per ricerche in ambito forestale.
Gli edifici conserveranno all’esterno il loro aspetto attuale». I lavori dovrebbero iniziare fra un paio di mesi e concludersi entro la prossima primavera.
Sono invece già completate le operazioni di recupero di due porzioni di bosco pascolato, che permettono di aumentare le aree a disposizione degli agricoltori locali. Sono situate attorno a Cima Pianca lungo la strada forestale e occupano una superficie complessiva di 26’400 metri quadrati.
Per la stagione estiva dovrebbe inoltre essere pronta anche la zona agricola di Pian Pulpito, dove diversi lavori mirati hanno l’obiettivo di facilitare la gestione agricola, attualmente poco attrattiva in particolare a causa della mancanza di acqua. L’impegno principale è quindi rappresentato dalla posa di un impianto a energia solare di captazione e trasporto dell’acqua da una delle tre sorgenti presenti nel comparto patriziale, in modo da poter abbeverare il bestiame. «Gli altri interventi – precisa il nostro interlocutore – riguardano uno sfalcio di pulizia dell’intera superficie agricola, la delimitazione del nuovo tracciato per rampichini con pali di legno e la sistemazione delle tratte erose del sentiero». Quest’ultimo aspetto è legato anche all’uso delle mountain-bike che scendono dalla cima del Monte Lema, lungo i sentieri esistenti provocando solchi profondi. Per favorire, sia una migliore gestione del territorio, sia una più sicura convivenza fra ciclisti ed escursionisti pedestri, si è cercata una nuova soluzione. «La variante scelta rappresenta un compromesso rispetto a una separazione completa dei due tracciati che sarebbe risultata troppo onerosa», precisa Claudio Delmenico. «Fra
un anno dovrebbe quindi iniziare da parte della Monte Lema SA su territorio patriziale la costruzione di un nuovo tracciato limitato a circa 540 metri fino a Pian Pulpito da dove i ciclisti potranno raggiungere Cima Pianca attraverso la pista agro-forestale esistente».
L’intera regione del Malcantone è una meta turistica frequentata tutto l’anno da residenti e turisti in cerca di svago in un ambiente naturale ricco di sentieri. Il progetto del Patriziato di Novaggio si inserisce pertanto anche in quest’ottica. Con un investimento pari a 130mila franchi di fondi propri l’ente si assume un grande impegno dimostrando di credere in un progetto diversificato. I costi rimanenti (circa 570mila franchi) sono coperti principalmente da Cantone Ticino, Comune di Novaggio, Ente regionale per lo sviluppo del Luganese, Fondazione Ernst Göhner (per le generazioni future, sede a Zugo), Schweizer Patenschaft für Berggemeinden con sede a Zurigo e Fondo svizzero per il paesaggio, ciò che dimostra il valore collettivo del progetto.
«Gli introiti che il Patriziato potrà realizzare mettendo a disposizione i locali di Cima Pianca serviranno
a coprire i costi di gestione», spiega il presidente Delmenico, precisando che «le attività previste hanno già suscitato l’interesse dell’azienda agricola presente sul territorio, intenzionata a integrare i suoi prodotti nelle medesime. L’obiettivo principale di questa iniziativa rimane quello di salvaguardare il patrimonio naturalistico e rianimare l’alpe di Cima Pianca che ora rivive solo con l’annuale festa estiva». Non va però dimenticato l’altro appuntamento annuale, ossia la Giornata d’ambiente organizzata da quasi vent’anni in collaborazione con la Società Cacciatori la Drosa Malcantonese. Grazie a questa azione di volontariato, il Patriziato ha potuto effettuare opere di pulizia del bosco, costruire manufatti come un ponticello di legno lungo il percorso del Lema Trail o la fontana in zona Forcola.
Il Patriziato di Novaggio ha pertanto colto il potenziale di sviluppo del suo comparto legandolo al benessere derivante dall’immersione nella natura, ma anche al miglioramento delle condizioni necessarie all’agricoltura di montagna per continuare a svolgere il suo importante compito di gestione del territorio.
Motori ◆ La soluzione migliore, per ora, in attesa di poterci avvalere di celle a combustibile alimentate a idrogeno
Mario Alberto CucchiMolti prendono i mezzi pubblici su gomma ogni giorno, ma pochi hanno idea di quanti chilometri percorra un autobus in un giorno, tantomeno di quanto consumi o inquini. Nessun mistero. Un mezzo di linea percorre anche 300 chilometri al giorno consumando tra i 50 e i 60 litri di carburante ogni 100 chilometri. Tanto! Ecco perché puntare sulle propulsioni alternative al termico per i mezzi pubblici (ma anche per il trasporto pesante e leggero) ha un valore davvero importante per l’ambiente.
Il trasporto stradale è l’area prioritaria di intervento per la riduzione delle emissioni di CO2, secondo le principali aziende europee di e-commerce e produzione. Un nuovo report realizzato da Ipsos (società leader nelle ricerche di mercato, sondaggi di opinione e consulenza strategica) e Volvo Trucks (una delle più grandi aziende di autocarri al mondo) rivela che le aziende sono disposte a pagare di più per avere fornitori di trasporti con minori emissioni di CO2
La trazione elettrica per i bus del Locarnese e del Mendrisiotto è ormai vicina. Il Cantone ha ultimamente approvato la domanda preliminare per il finanziamento dell’acquisto e della messa in servizio di dodici bus urbani da 11 e 12 metri per Amsa e di cinque bus articolati per Fart. Tutti E-Bus a zero emissioni. «La riduzione delle emissioni, oltre a essere uno degli obiettivi della nostra strategia aziendale, è un tema di grande attualità sentito fortemente anche dal Cantone e della comunità locale», commenta Paolo Caroni, presidente del consiglio di amministrazione Fart. «Abbiamo l’obiettivo di decarbonizzare la nostra flotta entro il 2030».
I dodici E-bus previsti da Amsa andranno a sostituire altrettanti veicoli a trazione diesel con un investimento complessivo stimato in oltre nove milioni di franchi a cui vanno ad aggiungersi oltre 700mila franchi per gli apparecchi di ricarica notturna.
E l’autonomia delle batterie? «In base agli studi condotti è emerso che la ri-
carica notturna presso il deposito sarà sufficiente per garantire le autonomie richieste» specifica Ivano Realini, direttore Amsa.
«Il Cantone si rallegra di questo risultato verso la riconversione elettrica del trasporto pubblico su gomma» ha detto Claudio Zali, consigliere di Stato e direttore del Dipartimento del territorio. «Anche i bus devono dare il loro contributo alla sostenibilità».
Insomma un futuro già presente, ma siamo certi che sia stata scelta la tecnologia migliore? Sì, almeno per ora. Lo scorso 12 giugno, in Italia presso l’Autodromo di Vairano, si è tenuta una giornata esperienziale e di approfondimento dedicata all’idrogeno: l’Hydrogen Experience. In pista sono entrati anche due autobus Solaris dotati di celle a combustibile alimentate a idrogeno e quindi a emissioni zero. Sempre di bus spinti da un motore elettrico si tratta ma con l’idrogeno si risolve il problema dell’autonomia e della ricarica.
Questi mezzi vengono già utiliz-
zati per il trasporto pubblico a Bolzano, Merano e Laives. La produzione dell’idrogeno è nata insieme alla produzione degli altri gas industriali già intorno agli anni Venti del ventesimo secolo e a oggi la criticità più importante è rappresentata dai costi ancora
elevati. Ma l’attesa crescita dei volumi di produzione degli elettrolizzatori e la crescente disponibilità di energia rinnovabile a basso costo fanno ben sperare riguardo al futuro. Quindi ben vengano oggi i bus elettrici con pacchi batterie in attesa di quelli a idrogeno.
La stagione delle squisite ciliegie svizzere dura soltanto due mesi, tra giugno e luglio, pertanto è il momento giusto per gustarle nel pieno della loro qualità. Tanto più che, rispetto a quelle importate, arrivano sugli scaffali dei negozi entro un paio di giorni dalla raccolta. La raccolta di questi frutti delicati dipende molto dalle condizioni atmosferiche: in caso di pioggia durante la stessa si rischia di non poter più vendere le ciliegie come frutta da tavola. Le principali re-
gioni di produzione sono localizzate dei Cantoni di Basilea Campagna e Città, a seguire il Seeland Bernese e la Svizzera Centrale. Secondo l’Associazione Frutta Svizzera, quest’anno si stima una produzione di ca. 2278 tonnellate di ciliegie da tavola, ciò che corrisponde a quasi il 50% del fabbisogno del mercato indigeno. Il periodo più importante per il raccolto si focalizza sulle prime tre settimane di luglio, dove ci si aspettano tra le 440500 tonnellate di ciliegie a settimana. Quest’anno il clima fresco di aprile e
le abbondanti precipitazioni hanno rallentato lo sviluppo delle piante, di conseguenza l’andamento del raccolto è paragonabile a quello del 2021.
Sane e versatili
Le ciliegie sono ricche di zuccheri e forniscono velocemente energia e vitalità al nostro corpo. Altre importanti sostanze nutritive contenute in buone quantità sono per esempio acido folico, vitamine del gruppo B, vitamina C, potassio, magnesio e ferro. Il contenuto di calorie è relativamente
basso. Le ciliegie sono adatte al consumo fresco ma si prestano bene anche per la preparazione di molte specialità di pasticceria, sorbetti, sciroppi e confetture. Altro utilizzo molto apprezzato dagli intenditori è quello per il famoso kirsch svizzero. Le ciliegie non maturano più una volta raccolte. Dopo l’acquisto, conservatele in frigorifero per un paio di giorni. Essendo un frutto delicato che deperisce velocemente, devono essere sciacquate sotto l’acqua corrente solo poco prima del consumo.
Attualità ◆ Da oltre 200 anni Fratelli Beretta è sinonimo in tutto il mondo di pregiata salumeria italiana
Difficile resistere alle specialità firmate Beretta. Dal prosciutto crudo San Daniele a quello di Parma, dalla bresaola della Valtellina al prosciutto cotto fino ai diversi salami e alla mortadella, la salumeria Beretta si contraddistingue da sempre per il sapore delicato dato dal tradizionale e accurato ciclo di produzione. Passione, dinamismo, esperienza e qualità delle materie prime sono i segni distintivi di questa azienda a conduzione familiare nata nel 1812 nei pressi di Milano e oggi diventata uno dei leader internazionali nel settore dei salumi italiani. Oltre a portare sulla tavola dei consumatori dei prodotti tradizionali d’eccellenza, Beretta si impegna anche per il benessere animale. Per i prodotti forniti alla Migros l’azienda impiega infatti solo carni provenienti da animali allevati secondo gli standard svizzeri in materia di salute, condizioni di allevamento, trasporto e macellazione.
La mortadella
La mortadella non può mancare in un classico tagliere di salumi misti op-
Ingredienti per 1 pirofila per gratin di 20 cm Ø ca. 8 pezzi
• 200 g di ciliegie, snocciolate
• 100 g di burro
• 100 g di cioccolato fondente
• 2 uova
• 8 0 g di zucchero di canna
• 6 0 g di mandorle
• 70 g di farina
• 1 cucchiaino di lievito in polvere
• zucchero a velo per spolverare
• ciliegie per guarnire
• burro e farina per la forma
Come procedere
Tempo totale: 1 h 15 minuti
Imburrate la pirofila e spolveratela di farina. Mettete il burro e il cioccolato in una scodella e fate fondere a bagnomaria. Sbattete le uova e lo zucchero con una frusta finché il composto risulta spumoso. Riscaldate il forno a 180 °C nella modalità ad aria calda. Incorporate le mandorle e il composto di uova e zucchero al burro al cioccolato. Aggiungete la farina e il lievito in polvere setacciandoli. Lavorate e unite le ciliegie alla fine. Versate l'impasto nella pirofila e livellate. Cuocete i brownie al centro del forno per ca. 30 minuti. Sfornate e lasciate raffreddare. Spolverate di zucchero a velo e guarnite con le ciliegie.
pure come farcitura di una morbida michetta. Questa specialità di origini bolognesi è prodotta da Beretta nel rispetto della ricetta tradizionale utilizzando carne di maiale magra, lardo, spezie, aromi naturali e pistacchi. L’impasto così ottenuto viene insaccato in un budello e cotto lentamente in forni ad aria calda. Questa mortadella si distingue per la sua morbidezza, il sapore dolce e aromatico il caratteristico aspetto marmorizzato.
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Formazione ◆ La SUPSI, in collaborazione con la Federazione delle ONG della Svizzera italiana (FOSIT), propone un corso per volontari attivi nel campo della cooperazione e dello sviluppo
Fabio DozioLa volontà non basta più. Il modo di fare volontariato, nel corso degli anni, si è trasformato. Cambia il mondo e cambiano, lentamente, i rapporti tra Nord e Sud del pianeta. Cinquant’anni fa il volontariato all’estero poteva avere connotazioni romantiche o anche religiose o politiche. Oggi è necessario acquisire una formazione adeguata e competenze che rendono professionale il ruolo del volontario, che può agire in Svizzera o nel Paesi del Sud globale.
Da una decina d’anni è attivo un corso in Cooperazione e sviluppo, CAS (Certificate of Advanced Studies), organizzato dalla SUPSI in collaborazione con FOSIT, l’ente che raggruppa una sessantina di Organizzazioni non governative (ONG) della Svizzera italiana, operative nella cooperazione internazionale e nell’aiuto umanitario. Il corso ha permesso a più di 130 persone, a partire dal 2014, di ottenere il Certificato in Cooperazione e sviluppo.
«La collaborazione con la SUPSI è partita dal bisogno di formare volontari e professionisti delle ONG della Svizzera italiana. – ci dice Marianne Villaret, segretaria generale della FOSIT – La metà delle nostre ONG ha certificato un suo volontario. Il corso soddisfa le esigenze di formazione a diversi livelli: gestione dei progetti, aspetti tecnici legati alle nuove leggi, aggiornamento su tematiche attuali come gli abusi e l’importanza dell’etica nel lavoro di volontariato. Non mancano temi più teorici come l’economia politica della cooperazione o la rilettura critica delle relazioni Nord Sud. La parola chiave è aggiornamento: le situazioni cambiano e ci si deve adeguare alle diverse realtà sociopolitiche: nuove sfide, cambiamenti climatici, prevenzione e resilienza. Tante novità, come la sostenibilità legata all’agenda 2030 delle Nazioni Unite».
Jacques Forster, esperto di cooperazione, professore al CAS SUPSI,
Kenneth Grahame
Il drago riluttante
Lindau (Da 7 anni)
È un piccolo gioiello, questo racconto di Kenneth Grahame, che ha già tutta la grazia e la lieve malinconia del suo capolavoro, il romanzo Il vento tra i salici, il quale uscirà dieci anni dopo. Qui, nel Reluctant Dragon, che Grahame inserì nel suo volume di saggi sull’infanzia Dream Days, uscito nel 1898, i protagonisti non sono tutti animali, come tra i salici, dove Topo, Talpa, Tasso, Rospo e tutti gli altri vivono le loro incantevoli avventure, ma sono un trio eterogeneo di creature: un bambino, un santo, un drago. Un trio che nella folgorante immagine finale – «e così andarono verso le colline mano nella mano, il santo, il drago e il ragazzo» – ricorda persino quell’altro trio eterogeneo, biblico, dal libro di Tobia, capitolo 6: «Il giovane Tobia partì dunque insieme con l’angelo, e il cane andò dietro a loro.» Tre dimensioni di innocenza – la fanciullezza, l’animalità, il divino – che si incamminano verso la speranza di un futuro migliore: nel caso di questo racconto, un futuro dove gli uomini
sottolinea che negli ultimi anni c’è stato un riequilibrio nelle relazioni di potere tra chi fornisce l’aiuto e chi lo riceve, i Paesi più poveri. Secondo il professore è sempre più significativo il ruolo della società civile e delle ONG dei Paesi del Nord: «Quando si guarda alla storia della cooperazione e dell’aiuto umanitario si vede che sono spesso queste organizzazioni che sono riuscite a spingere gli Stati a intervenire maggiormente a favore delle popolazioni più vulnerabili. Credo che le ONG siano molto importanti non solo per quello che fanno sul terreno, ma anche per il ruolo di informazione e sensibilizzazione della popolazione».
Questi cambiamenti richiedono una maggiore preparazione dei volontari e quindi una professionalizzazione. «Si lavora per capire come è cambiata la cooperazione, – spiega Anna Jaquinta, coordinatrice del corso SUPSI – come si è evoluta e quali sono le grandi sfide globali. È importante sviluppare un pensiero più critico rispetto ai cambiamenti in atto nel mondo offrendo strumenti operativi per realizzare progetti di cooperazione in grado di essere messi in pratica sul campo. Non si può pensare di partire come si faceva una volta con l’idea che noi sappiamo tutto e abbiamo tutte le soluzioni. Bisogna imparare a relazionarsi con l’altro e portare avanti un approccio più partecipativo sul terreno. Le classi del corso sono molto variegate, ci sono giovani freschi di laurea o persone attive da anni nelle ONG o nel sociale che desiderano riorientare la loro carriera. È un ambiente stimolante e si creano dibattiti proficui».
All’edizione 2023/24 del corso, che inizierà a settembre, ci si può iscrivere entro fine luglio. Il CAS offrirà una griglia tematica rinnovata con vari moduli accessibili anche a un pubblico esterno. I corsi si tengono alla SUPSI di Mendrisio, di regola il venerdì e il sabato, per 210 ore di lezione. IL CAS è sostenuto dalla Direzione dello svi-
luppo e della cooperazione del Dipartimento federale degli affari esteri, ciò che permette di avere un costo relativamente contenuto, 3500 franchi (www.supsi.ch/cas-cs).
Alberto Mandelli ha seguito il CAS per migliorare le sue competenze nella gestione della sua ONG. «Da dieci anni opero all’interno di una ONG che ho ideato e creato assieme ad altri. – ci spiega – Lo scopo è il finanziamento di borse di studio per accedere a un’università del Camerun. Non volevo avere un modello passivo che vivesse solo di donazioni e quindi abbiamo deciso di creare una società di business sociale che opera nell’ambito informatico. La struttura è redditizia e gli utili, invece di andare agli azionisti, vengono utilizzati per finanziare le borse di studio. I giovani che accedono all’università grazie ai sussidi, in cambio si impegnano a lavorare cento ore per progetti sociali nel loro Paese».
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riescano a liberarsi dai loro pregiudizi e dalla loro fame di combattimenti. «In ogni caso io non combatterò, e questo chiude la questione» afferma il drago, rivolgendosi a San Giorgio che, pur essendo un santo gentile, è ancora schiavo del ruolo che è chiamato a recitare: «Forse ho giudicato male questa bestia. Ma cosa possiamo fare? Da una parte c’è il drago e dall’altra io […] dovremmo essere assetati del sangue l’uno dell’altro. Non vedo una via d’uscita, francamente. Tu cosa suggerisci?». Sarà ascoltandosi reciprocamente, e mettendosi in gioco, con la mediazione
del ragazzino, che si potrà trovare una soluzione, la quale paradossalmente punterà proprio sulla fissità dei ruoli (santo contro drago), mettendoli letteralmente in scena, ossia inscenando un finto combattimento, in cui nessuno si farà male (come fosse il gioco del «facciamo che combattevamo») e che dimostrerà l’assurdità del conflitto contro un presunto «cattivo», che invece cattivo non è. Questo drago non è solo meravigliosamente riluttante a guerreggiare, ma è anche un drago poeta («c’è un sonettino a cui stavo lavorando proprio mentre sei arrivato tu…»), simpaticissimo, educato, di una cortesia impeccabilmente british: «Sono davvero molto lieto di averti incontrato» dice al ragazzo «e spero che anche gli altri vicini siano altrettanto piacevoli. Ieri sera qui c’era un anziano signore molto simpatico, ma sembrava che non volesse disturbarmi». L’anziano signore era il padre del ragazzo, che mentre portava le pecore al pascolo aveva intravisto il drago ed era fuggito a casa terrorizzato. Ma la paura viene subito stemperata dal figlio: «Non ti preoccupare, papà, non c’è niente da temere. È solo un drago» e dalla pacata lungimiranza del-
Un concetto interessante che permette di ottenere due obiettivi: l’aiuto allo studio e l’intervento sociale gestito in autonomia dai responsabili del progetto in Camerun. «Acquisire professionalità con il CAS per me è stato molto utile. – prosegue Mandelli – l’eterogeneità dei partecipanti è una grande qualità del corso. Chi si avvicina alla cooperazione allo sviluppo è persona di un certo tipo, quindi si crea un humus dal profilo relazionale che è un aspetto qualificante, un contesto fertile e stimolante. Forse è una parola grossa, ma per fare volontariato ci vuole un po’ di amore». La pandemia ha stravolto anche alcuni aspetti della cooperazione. Marianne Villaret spiega: «La cooperazione allo sviluppo non è più separata dall’aiuto d’emergenza, adesso si lavora sul nesso, sul nexus, fra questi due ambiti. E questa è una conseguenza del Covid. Quando è arrivata la pan-
demia, il volontario ha dovuto modificare il suo intervento per occuparsi di aiuto umanitario d’urgenza. Per esempio, il partner locale non ha più potuto limitarsi a formare i docenti della scuola, ma doveva garantire la consegna dei sacchi di riso, per permettere ai docenti di rimanere a scuola». Lo slogan che Villaret ama ripetere è chiaro e lapidario: «Non basta fare del bene, ma bisogna farlo bene. L’aiuto allo sviluppo non può più essere concepito come un volontariato che pensa di salvare il mondo. Dobbiamo valorizzare l’aiuto allo sviluppo fatto con qualità ed etica e che non rischi di essere neocoloniale. Occorre partire dai veri bisogni dei Paesi in cui si interviene e non dal nostro immaginario; lavorare in modo professionale anche se si è volontari. Abbiamo fatto passi avanti in questi anni, lo vediamo anche nei bandi di concorso. C’è più trasparenza e più attenzione a non cadere nei vecchi stereotipi dell’aiuto umanitario. Il CAS permette di educare ad avere un nuovo sguardo sulle relazioni Nord Sud, strumenti e competenze per capire meglio le tematiche più importanti della cooperazione e dello sviluppo».
«Il mondo è sempre più complesso – annota Alberto Mandelli – La nostra ONG ha ragazzi in Camerun che lavorano ogni giorno da remoto con aziende svizzere. Da queste esperienze nascono tante domande. Per esempio: è giusto che noi imponiamo a dei giovani che stanno nel cuore del Camerun di acquisire la cultura di un’azienda svizzera per lavorare laggiù?». È uno dei tanti interrogativi sostanziali per valutare l’impatto dell’intervento di cooperazione ai quali non è facile rispondere, ma sicuramente merita di essere discusso fra i volontari e gli addetti ai lavori. «C’è una risposta? – si chiede Mandelli – Forse no, ma la professionalità può aiutare a gestire le relazioni e a evitare di fare danni».
di Letizia Bolzani
la moglie: «Credo che abbia ragione, caro. Come ha detto, i draghi sono il suo forte». Un invito ad avere fiducia nella saggezza di chi, come i bambini, è più vicino all’Altrove.
Davina Bell, illustrazioni di Jenny Løvlie, Rombo di motori: amo i trattori
Il Castoro (Da 3 anni)
Non è il classico libro sui trattori (passione, come sappiamo, di molti piccoli lettori). O meglio: sì, parla di trattori, in tutte le loro sfaccettature, differenze e potenzialità, ma è anche un’umoristica e molto seria
difesa del diritto dei bambini a leggere – o a farsi raccontare – sempre la stessa storia, sullo stesso argomento, ancora e ancora. Ed è anche una bella introduzione al mondo della biblioteca, anzi un invito ad andarci, in biblioteca, per poter scegliere quello che più piace (ai bambini, non agli adulti che li accompagnano), e se è l’ennesimo libro sui trattori va bene così, come Simone spiega energicamente alla sua esausta mamma, che prova, con zero successo, a proporgli magari di passare ai camion, agli aerei, alle autopompe, alle gru, persino alle betoniere… Niente da fare, Simone vuole proprio un libro ancora sui trattori. I bambini hanno bisogno di tornare più e più volte su una stessa storia, su uno stesso argomento, su uno stesso cartone animato, per molti motivi, che hanno a che fare con l’elaborazione delle emozioni che quella storia ha suscitato, con la sedimentazione progressiva di contenuti, con la rassicurazione «contenitiva» di un evento che si ripete, come un rito. Insomma, come Simone riassume perentoriamente, nell’andamento ritmico del testo: «Per tanti, magnifici e gloriosi fattori… voglio questo libro. Tutto sui trattori».
Buon divertimento! Divertitevi! Con queste allegre parole capita spesso, in questo periodo, di accompagnare simbolicamente gli amici fin sulla soglia delle loro mete vacanziere. L’augurio è quello di poter vivere momenti piacevoli, con allegria, spensieratezza, leggerezza.
Tutti in vacanza dunque per divertirci, per distrarci!
Ma come? Non viviamo forse già in una società della distrazione?
Non ho bisogno di tante parole per richiamare la potenza del mercato del divertimento così presente e invitante nella vita di tutti giorni. Divertimento e distrazione, che spesso coincidono con il consumo di cose, di esperienze, di emozioni, sono un linguaggio molto pervasivo che tende a orientare i nostri comportamenti.
Dalle gite ai centri commerciali, alle mille attività con cui riempiamo le ore libere dei nostri figli e di noi stessi, tutto rischia di diventare un gio-
strare senza meta, e forse senza senso, in una liquidità del camminare nella vita così ben raccontata da Zygmunt Bauman nel descrivere, ad esempio, la metamorfosi esistenziale dal pellegrino al viandante.
Ai nostri figli, e a noi stessi, spesso evitiamo accuratamente di sperimentare momenti di noia (uffa, non so che cosa fare!) senza riconoscere, della noia, il grande valore di occasione di incontro con sé stessi. Rischiamo così di riempire gli spazi liberi dalle occupazioni quotidiane con tante cose e con tante esperienze che poi esperienze non sempre riescono a diventare perché siamo in difficoltà nel sostare di fronte alla domanda «che senso ha quello che sto facendo?». Rischiamo così di vivere come trottole sulla superficie del tempo, senza pause che ci invitino ad abitarne le profondità. Divertimento e distrazione hanno radici semantiche diverse, ma indicano ambedue una separazione, un prende-
Grazie all’iniziativa della Fondazione Moebius e del suo presidente Alessio Petralli, è stata organizzata a Lugano negli scorsi giorni una presentazione pubblica del lavoro di Patrik Reali, ingegnere informatico in forza a Google Zurigo. Reali lavora per il colosso informatico da oltre un quindicennio. Ha visto l’azienda passare dai 30 impiegati dei primi anni Duemila ai 5000 dipendenti attuali (!). Scherzando ha annotato al proposito: «Con i miei colleghi eravamo stupiti dal tasso di crescita del personale. A un certo punto ci siamo messi a calcolare la curva esponenziale che stavano descrivendo le assunzioni stimando che, se la cosa fosse continuata a quel ritmo, l’azienda avrebbe raggiunto un numero di dipendenti pari a diversi miliardi di persone entro il 2022».
Scherzi a parte (e lo scherzo, comunque, pare di capire che sia una com-
ponente non indifferente nello stile di gestione dell’atmosfera sul lavoro a Google), seguire il racconto di Reali ci ha permesso di riflettere su molti aspetti interessanti dell’esperienza dell’ingegnere ticinese. Prima di tutto, naturalmente, sul fatto che un ragazzo cresciuto nel nostro cantone, maturato al Liceo 2 di Lugano, poi diplomato e addottorato al Poli di Zurigo, abbia avuto tutte le carte in regola per trovare una collocazione di prestigio in una delle più importanti aziende mondiali. Sarà un pensiero un po’ provinciale e campanilista ma fa tornare alla mente il destino di moltissimi altri amici e compagni di scuola che hanno seguito un analogo percorso e, alla fine di studi brillanti, sono rimasti «di là». È un pensiero scontato, mi scuso, ma davvero sentito. Che ricchezza, da ticinesi, abbiamo disseminato Oltralpe…
«Red flag» è una scritta che spopola nei video su TikTok e stra-utilizzata nelle Parole dei figli che appartengono al linguaggio della Gen Z. È spesso seguita dall’emoji di una bandiera rossa che è il suo significato letterale dall’inglese. I giovanissimi la usano per indicare il segnale di un pericolo: sbagliato ignorarlo, bisogna invece prestarci attenzione. È un po’ come la bandiera rossa sulle spiagge che viene issata quando il mare è cattivo ed è vietato fare il bagno. Qui il campanello d’allarme, però, viene fatto suonare soprattutto per le relazioni: storie d’amore o rapporti d’amicizia. In questo senso le red flags sono i segnali di avvertimento. Quelli che fanno/ devono fare scattare un alert per cui è meglio prendere le distanze, stare alla larga, darsela a gambe. Nel mirino ci sono comportamenti o caratteristiche di una persona che per noi sono la spia di qualcosa che non va: inuti-
le, dunque, perderci tempo. È un po’ la lettera scarlatta dei nostri tempi: un marchio d’infamia. Qualcosa di tossico o dannoso: nei video gli adolescenti indicano le proprie red flags, per fare scattare campanelli d’allarme anche negli altri. Per dirla in modo che sicuramente risulta cringe (imbarazzante) per un adolescente: difficilmente se c’è una red flag può scattare una crush che sta a indicare che ci si prende una sbandata per qualcuno/a. Oppure se la crush c’è già stata, una volta scoperta la red flag, la reazione giusta può essere quella di ghostare: sparire all’improvviso, chiudendo i rapporti anche sui social (niente più like, commenti, condivisione delle storie). Lo ammetto, sto mettendo voi lettori/lettrici a dura prova, costruendo frasi con Parole dei figli raccontate in precedenza. È il mio modo per ribadire quanto, per noi genitori boomers, il linguaggio dei giovanissi-
re le distanze. Il volgere altrove del divertirsi (de – vertere) corrisponde infatti al separare, all’allontanare della distrazione (distrahere). Sull’intreccio dei due concetti, il filosofo Blaise Pascal ci ha consegnato una riflessione fondamentale in grado di illuminare, oggi ancora, questo comportamento esistenziale determinato, secondo il filosofo, dalla precaria condizione umana. I suoi celeberrimi Pensieri, pubblicati postumi nel 1670, avrebbero dovuto comparire nell’opera più ampia Apologia del Cristianesimo che però non fu mai realizzata perché il filosofo morì a trentanove anni, nel 1662. In questa straordinaria raccolta di pensieri sulla condizione umana, rimasti frammentari, incontriamo anche riflessioni attualissime e illuminanti proprio sul significato del divertissement. Quando Pascal descrive il desiderio mai soddisfatto di felicità sembra proprio che stia parlando di noi e del nostro modo di abitare (e di
di Lina Bertolaconsumare) la vita. «Per natura siamo sempre infelici in tutte le condizioni e i nostri desideri ci prospettano una condizione felice, perché aggiungono allo stato in cui siamo i piaceri di uno stato in cui non siamo, ma qualora raggiungessimo questi piaceri, non saremmo perciò felici, perché nutriremmo altro desideri…». Viviamo dunque in uno stato di perenne agitazione perché «nulla è così insopportabile per l’uomo quanto l’essere in assoluto riposo (…) senza divertimenti». Uno stato insopportabile in cui l’uomo avverte «il niente, l’abbandono, l’insufficienza, il dipendere, l’impotenza è il vuoto (…) e nel fondo della sua anima la noia, la tristezza, la malinconia, il dispetto e la disperazione». Ecco allora la necessità del divertissement, quel «trambusto» esistenziale che ci impedisce di pensare alla nostra «infelice condizione». «Noi non cerchiamo mai le cose ma la ricerca delle cose», ma non ce ne ren-
diamo conto, aggiunge, perché non conosciamo noi stessi. La consapevolezza della nostra condizione ci può invece portare a cogliere, nel continuo ricercare, una promessa di trascendenza. In Pascal ciò è sostenuto dalla fede in Dio. Ma anche volendo prescindere da questa prospettiva religiosa, a me pare, il suo, un messaggio per tutti noi: un invito a conoscere e ad abitare, della nostra «infelice condizione», anche un altrove. È un invito a riflettere sul senso di tutto questo agitarsi e sul malessere che ne deriva, sempre più palpabile, soprattutto tra i giovani. C’è allora da sperare che il divertimento e le distrazioni vacanziere possano diventare, in verità un po’ paradossalmente, un momento di ritorno alla propria intimità, trascurata nelle distrazioni quotidiane. Può essere che proprio in quell’augurio di «buon divertimento» sia custodito l’invito a viaggiare anche nel nostro mondo interiore.
D’altro canto, sapere che Reali sta lavorando a un progetto destinato alla sostenibilità dei viaggi, e in particolare a una quantificazione oggettiva della produzione di CO2 dei principali vettori, ci piace molto. Si tratta di un impegno in cui la logica vocazione al profitto di un’azienda privata si coniuga e sovrappone a intenzioni etiche di ampio respiro (ed è proprio il caso di dirlo). Sarà pure un mostro della comunicazione, sarà un raccoglitore di dati di incommensurabile potenza, ma non si può dire che Google non fornisca a ognuno di noi dei servizi di grande utilità e praticità. A cominciare dall’offerta di un indirizzo gratuito di posta elettronica, di calendari automatici, di servizi di mappe dettagliatissime e indicazioni stradali, ognuno di noi ha trovato un’integrazione pratica nel proprio quotidiano di quest’offerta, di cui, occorre dire molti
elementi sono stati sviluppati proprio a Zurigo. Grazie al nuovo servizio di cui Reali si sta occupando, nei prossimi mesi ci sarà possibile anche mettere parzialmente a tacere i sensi di colpa sull’impatto ecologico dei nostri comportamenti di viaggiatori. Grazie a Google Travel ci sarà possibile scegliere, tra tutte le opzioni di spostamento, quelle con un impatto minore in termini di emissioni di CO2 (per i voli e per gli alberghi è già possibile). Durante la conferenza Reali ci ha spiegato a grandi linee come è stata affrontata la complessità della stima (occorre tener conto del tipo di mezzo, del consumo di carburante, del numero di passeggeri e di altri dati, la cui reperibilità non è scontata, anzi spesso è mantenuta sotto riservatezza), e quali saranno le necessarie evoluzioni dal punto di vista anche tecnologico per migliorare la situa-
zione attuale. La tecnologia dovrà ad esempio sviluppare nuovi carburanti, e anche nuovi aeroplani. Ma è ancora più importante che ognuno di noi cominci a pensare seriamente al proprio personale impatto sulle emissioni. Le stime ufficiali indicano che se si vuole mantenere un comportamento neutro verso l’ambiente, occorre limitare la quantità delle proprie emissioni a una tonnellata di CO2 all’anno. Un volo Zurigo-San Francisco, per dare un esempio, ne emette per ogni singolo passeggero all’incirca 600 kg (nel migliore dei casi: a volte anche di più). Ecco che l’utilità del lavoro di Reali assume a questo punto un valore pratico e concreto per ognuno di noi. Dovremo imparare a renderci conto di quale sia il mezzo di trasporto più indicato per ogni necessità: un’ulteriore richiesta di responsabilizzazione a cui la tecnologia ci espone.
mi possa risultare ostico. E, forse, anche un po’ per esorcizzarlo. Quello che merita riflessione, a mio avviso, è che con le red flags i ragazzi hanno trovato il loro modo per esprimere ciò che conta per loro in amore o in un’amicizia. Il tutto raccontato ovviamente a colpi di video su TikTok. Così è diventata un tormentone la voce di Abby Lee Miller, fondatrice e direttrice dell’Abby Lee Dance Company, la scuola di danza del reality show statunitense Dance moms ambientato a Pittsburgh, in Pennsylvania, e a Los Angeles. Il programma ha debuttato sul canale Lifetime il 13 luglio 2011 e segue i primi allenamenti e la carriera di alcune bambine nel mondo della danza e dello show business oltre ai rapporti personali, spesso litigiosi, della Miller con le madri delle ballerine, le quali, di fatto, competono tra di loro attraverso le loro figlie. Lee Miller
ha davanti una sorta di lavagna con appesi sei fogli che nascondono i nomi delle baby-danzatrici: scoprendoli uno dopo l’altro, rivela il posto in classifica di Paige Hyland, Kendall Vertes, Brooke Hyland, Leah Rose Kennedy, Mackenzie Ziegler e Maddie Ziegler. Ebbene i Gen Z, usando la sua voce come sottofondo, riproducono i sei fogli appesi in camera, in bagno e dove capita, per scoprire le loro red flags che sono le più varie.
Le femmine sui maschi: «Non ha la patente», «Fuma», «Ti scrive solo la sera», «Senza ambizioni», «Fa l’amicone con tutte», «È stato con troppe ragazze», «Ti vuole e non ti vuole», «È bugiardo», «Ha una migliore amica femmina», «È mommy’s boy » (sigh, questa un po’ mi dispiace e già mi vedo nelle vesti della suocera!). I maschi sulle femmine: «Pensa troppo alle feste», «Mangia troppe schifezze», «Migliore amico maschio», «Non pa-
ga mai quando esce», «Risponde dopo ore», «Fuma». Nei rapporti d’amicizia: «Ride di te e non con te», «Non ti invita», «Ci prova con chi ti piace», «Si lamenta in continuazione», «Deve essere più piaciuta di te», «Non puoi avere un’opinione», «Ti dice che non ha amiche femmine».
Alla fine trovo il coraggio e chiedo a Clotilde, la 14enne di famiglia, di farmi un elenco delle sue cinque red flags. Risposta via WhatsApp: 1) Non riesce a scusarsi; 2) Cambia completamente atteggiamento in presenza di altre persone; 3) Ha ancora i jeans skinny; 4) Profilo pubblico su Instagram; 5) Fa jokes sessisti. Appreso che cosa sono le red flags, concludo la serata digitando su Google che cosa vuol dire jokes. Orgogliosamente scopro che a mia figlia danno fastidio le battute sessiste, segnale per lei che bolla una persona da cui è meglio stare alla larga. Evviva.
Il quadrifoglio speciale
L’Oxalis assomiglia al noto portafortuna verde, ma in verità si tratta di una specie diversa
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Storia di una terra estrema Reportage da Punta Arenas e da Cerro Sombrero, per riscoprire la Patagonia meno nota
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Uno squisito dolce bavarese Gnocchi di pasta lievitata al vapore, originari della Germania del sud, qui al limone e serviti con fragole
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Dalla Malvaglia a Kingston Non tutte le storie di emigrazione sono andate come i nostri avi speravano, alcune sono tornate terra
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Adrenalina ◆ Al recente Wake Cup 2023 di Tenero dalle acque del Verbano è emerso grande interesse per uno sport spettacolare
Il wakeboard è nato in scia (è proprio il caso di dirlo) al dilagante entusiasmo che da fine anni Novanta in poi ha accompagnato gli sport acquatici emergenti. Con sci nautico e monosci in sostanziale perdita di slancio, si è infatti affacciata sui vari specchi d’acqua (lacustri alle nostre latitudini) tutta una serie di altre attività alternative. Come il kitesurf o, appunto, il wakesurf, che ha poi preso una sua declinazione… verticale, per proporsi nella variante del wakeboard, decisamente più spettacolare e adrenalinica, «anche se il wakesurf non è molto da meno: anche con la disciplina “base” ci si può sbizzarrire parecchio e provare emozioni forti. La sostanziale differenza però è che il wakesurf presenta un maggiore tasso di sicurezza, e dunque è ideale per chi preferisce praticare uno sport più safe », è la premessa di Mattia Pedretti, da anni praticante wakeboard in prima persona e titolare di una scuola guida nautica. Ed è dunque a lui che ci siamo rivolti per conoscere più da vicino questo sport, portato di recente alla ribalta con il primo Wake Contest (Wake Cup 23), spettacolare appuntamento per gli amanti della tavola acquatica andato in scena a Tenero e destinato a diventare un classico appuntamento per gli anni a venire.
«La differenza sostanziale fra wakesurf e wakeboard sta nella velocità di traino: nel primo caso la “velocità di crociera” è di 16-17 km/h e si surfa l’onda causata volontariamente dalla barca, mentre nel secondo si viaggia a velocità un attimino più sostenute, dai 28 e fino ai 34 km/h e si “usano” le onde per poter saltare da una parte all’altra, a dipendenza delle pretese e delle capacità di chi lo pratica, in modo da permettere le evoluzioni più spettacolari. Va da sé che a queste velocità aumenta anche sensibilmente il rischio di farsi male, per questo occorre una buona preparazione», riassume Mattia Pedretti. Che poi aggiunge: «Caratteristiche, queste, che ne fanno uno sport estremo a tutti gli effetti. Anche perché gli impatti con la superficie dell’acqua possono avere conseguenze abbastanza importanti se non gestiti con un certo “mestiere”».
A fronte di queste premesse, vi è un’età ideale per praticare questo sport. «A Tenero, nell’ambito del WakeCup Contest, abbiamo avuto partecipanti di età compresa tra i 12 e i 16 anni. È l’età ideale per vivere al massimo le emozioni di questa disciplina senza essere condizionati dalla paura di farsi male. È un po’ come quando ci si tuffa da una roccia: col passare degli anni, guardando verso il basso, le gambe tremano un po’ di più… A ogni buon conto, ci vuole ovviamente
anche tanta maturità e consapevolezza dei propri limiti, avendo la premura di non superarli per non prendersi rischi eccessivi».
Più impressionante e adrenalinico dell’antenato wakesurf, il wakeboard sta ravvivando la nuova generazione sportiva
Torniamo alle sue origini: «Il wakeboard ha visto i suoi natali oltre Atlantico, sulle coste statunitensi. Non a caso le imbarcazioni che vengono usate pure qui, alle nostre latitudini, per il traino sono soprattutto americane. Sostanzialmente, poi, il wakeboard si divide in due categorie: il Cable, ossia quello praticato facendo capo a una struttura fissa di cavi in grado di trainare l’atleta all’interno di un Wake Park, dove vengono predisposti gli ostacoli artificiali che consentono le varie evoluzioni, o quello classico, in
cui il traino viene effettuato da una barca, ed è il moto ondoso creato da quest’ultima a fungere da trampolino per spiccare il volo tra un’onda e l’altra. Ed è appunto quest’ultimo che viene praticato in Ticino, tanto sul Lago Maggiore quanto sul Ceresio. In ogni caso, tanto la prima quanto la seconda variante sono altamente spettacolari. A volte, specie fra i più bravi, le esecuzioni sono così veloci che in presa diretta non riesci quasi nemmeno a contare quante torsioni o rotazioni hanno eseguito in aria!».
C’è chi, nel wakeboard, vede la declinazione estiva dello sci freestyle praticato con la tavola da snowboard: un accostamento che ci sta tutto, dal momento che dal profilo pratico si tratta di due discipline sorelle. Non a caso, come nello snowboard, la competizione più ambita a livello internazionale dai wakeboarder (così si chiamano i cultori della «tavola volante» acquatica) sono gli X-Games. «A ben vedere cambia solo l’ingrediente di
fondo (o, se vogliamo, solo il suo stato), l’acqua nel nostro caso, la neve per gli sport invernali, ma il succo rimane il medesimo. E anche i brividi che si provano nel praticarlo. Non a caso sono parecchi gli atleti che fanno le due stagioni: quella invernale con lo snowboard ai piedi e quella estiva con il wakeboard. Sicuramente chi ha una buona base sulla neve parte avvantaggiato nell’apprendere i trucchi del mestiere».
Veniamo dunque al Wake Cup 2023, il contest proposto a Tenero: «Una competizione come quella è l’occasione per chi si cimenta con la tavola (con una certa regolarità) di mettersi in gioco confrontandosi con altri atleti, la partecipazione è indirizzata anche a un pubblico più principiante, così da poter provare l’emozione di un Contest. Per chi l’assiste è invece l’occasione per vedere qualcosa di spettacolare. L’evento di Tenero è stato un lavoro di squadra, organizzato in stretta collaborazione con la SpakaOnda Crew
che – grazie alla sua esperienza e alle sue conoscenze sul territorio – ha creato interesse a rider di un certo livello, con il supporto alla sicurezza in acqua della Salvataggio Minusio, Salvataggio Tenero nonché dei kayakers di Velagiovane a Minusio (oltre che al Wake Inn che ci ha dato la possibilità di farlo a casa sua); un lavoro di squadra che si è rivelato un’ottima vetrina per questo sport. Tant’è vero che nelle nostre intenzioni vi è quella di riproporlo regolarmente pure nelle stagioni a venire. Dal lato pratico abbiamo avuto una quarantina di partecipanti, segno evidente che c’è parecchio interesse pure alle nostre latitudini per questo sport tutto sommato emergente (in tutti i sensi). Inoltre, il fatto che il nostro non sia un appuntamento determinante ai fini delle classifiche internazionali permette agli atleti più bravi di osare un po’ di più e provare qualche combinazione più audace, per capire se riproporla poi in gare ufficiali oppure optare per altre evoluzioni».
A chi non è mai capitato di fermarsi in un prato e cercare con lo sguardo il famoso quadrifoglio – amuleto d’erba, risultato di un’anomalia del trifoglio (Trifolium repens), simbolo d’Irlanda, che nel riprodursi ha emesso quattro invece di tre foglie, ragione per cui è normalmente più raro e difficile da trovare – per esaudire i propri desideri?
Nei miei libri ne trovo a decine, pressati e in ricordo del passato; oggi li trovo sempre con la stessa facilità, ma non li strappo più, bensì preferisco piantarne di altri, anche se non originali!
Ho una piccola collezione di Oxalis, discreta e graziosa erbacea perenne con foglie di vari colori, che solitamente acquisto a dicembre, periodo in cui vengono venduti in simpatici vasetti oro o rossi e decorati con uno spazzacamino, un cornetto o un ferro di cavallo in segno di buon augurio per il nuovo anno. Terminato il loro ruolo propiziatorio, attendo le prime giornate tiepide e le interro ai bordi delle aiuole del giardino, visto che la loro dimensione è contenuta e non supera i trenta centimetri di altezza, fermandosi spesso ai quindici-venti centimetri.
Formano cuscini di foglie cuoriformi, raccolte in gruppi di tre, proprio come quelle del trifoglio e hanno fiori bianchi o rosa, che sbocciano in questo periodo, o più precisamente da marzo fino a ottobre in base alla varietà.
Le Oxalis, della famiglia delle Oxalidaceae si trovano allo stato spontaneo in tutto il mondo, vantando ben seicento specie: Brasile, Messico e Sud Africa vantano il maggior numero di esemplari in natura.
La varietà più classica, che si trova con una certa facilità nei nostri boschi, è Oxalis acetosella, chiamata acetosella dei boschi: una piccola erbacea alta dodici centimetri, con fiori bianchi che sbocciano alla fine di febbraio, prima che gli alberi del bosco si riempiano di foglie. Dal terreno spuntano prima le foglie, trifogliate che hanno, oltre a un lungo picciolo rosso, anche la capacità di richiudersi la sera o quando il sole è troppo intenso per loro.
Utilizzata anche in cucina grazie alle sue foglie commestibili, che odorano di aceto, l’acetosella è molto facile da coltivare sia in piena terra sia in vasi e spesso viene utilizzata in cache-pot preziosi , dai colori sgargianti, che ben si abbinano con le sue foglie verde prato o violacee, come nella specie Oxalis purpurea Prediligono la mezz’ombra, un terreno fresco e umido, e non hanno alcun problema ad affrontare i rigo-
ri dell’inverno, visto che adottano la strategia di far seccare la parte aerea, mentre le radici, sotto forma di rizomi, restano sempre vivi e pronti a rivegetare all’inizio della primavera. Oxalis purpurea «Shamrock» ha foglie di un viola scuro molto intenso, con all’interno una macchia più chiara, e hanno forma triangolare con fiori bianchi e piccoli, che ben si accostano a quelli rosa di Oxalis debilis (sinonimo di O. corymbosa), una pianta di origine sudamericana che si trova facilmente in vendita in vivai e fiorerie. Chi ama invece le tinte più solari può virare sull’acetosella gialla, Oxalis
pes-caprae (nella foto a sinistra), un’altra sud africana che ben si è adattata ai nostri climi e le cui foglie, dal sapore acidulo molto simile al limone, vengono utilizzate per insaporire i piatti in cucina, come insalate, torte salate, minestre e salse.
Tra le mie preferite vi è la «Versicolor», una tappezzante con fiori simili ai colori dei lecca-lecca: i petali bianchi bordati di rosso sono simbolo di allegria e quando sono completamente aperti diventano un goloso spettacolo per gli occhi, specie se abbinate alla varietà «Golden Cape», gialla e sfumata di rosso.
Una barca arenata davanti all’estancia di San Gregorio; in mezzo, la vista desolata dalla collina di Cerro Sombrero; sotto, il Faro San Isidro non distante da Fuerte Bulnes.
Reportage ◆ Agricoltori, pecorai e petrolieri animano una delle terre più meridionali del pianeta, la provincia di Magallanes
Lisa Maddalena, testo e foto
Un vento fuori dal comune. Probabilmente è questo che molti ricorderanno dopo aver visitato il Cile meridionale, e più precisamente la provincia di Magallanes, che si affaccia sullo Stretto di Magellano, tra la Patagonia e la Terra del Fuoco. Un vento che, appena svolti l’angolo delle strade di città, quasi ti sbatte a terra senza tante cerimonie; un vento che fa ondeggiare i rifiuti di plastica rimasti impigliati ai fili spinati che circondano i prati delle pecore, e che fa crescere i pochi alberi dando loro forme strane.
Cerro Sombrero oggi conta circa seicento abitanti, anche se, visitandolo, sembra quasi abbandonato
Si tratta dello stesso vento che probabilmente fu d’aiuto ai primi navigatori europei approdati da queste parti, il più famoso dei quali fu il portoghese Ferdinando Magellano, ben cinquecento anni or sono. Correva, infatti, il 1520 quando l’esploratore riuscì finalmente a trovare lo sbocco dello Stretto e a passare all’Oceano Pacifico, dopo numerosi tentativi falliti.
A Magellano seguirono molti altri esploratori e coloni, come i primi cileni inviati in queste terre di nessuno per prenderne possesso e non farsele rubare da altri naviganti. Nel 1843, dopo un lungo viaggio a bordo della nave Ancud, i primi coloni riuscirono finalmente a raggiungere la zona dell’attuale città di Punta Arenas, insieme alle rispettive mogli, qualche capra e qualche maiale. E qui si stabilirono, fondando Fuerte Bulnes. Ancora oggi si può visitare questo luogo, restaurato nel 1943, e immaginarsi come doveva essere difficile la vita su questa costa spazzata dai venti.
Punta Arenas fu fondata poco dopo l’arrivo dei primi coloni, nel 1848, da militari cileni. La città servì ini-
zialmente come base militare e come colonia penale. Tutt’ora diversi comandi militari dell’esercito e delle forze aeree cilene risiedono nella regione. Come ci racconta Francisco, alcune basi, ad esempio quella di Yendegaia non lontana da Ushuaia, servono solo per «marcar presenza», visto che il confine argentino è vicino e non ci sono altri insediamenti cileni in zona.
Francisco lavora già da molti anni nella marina militare cilena. Ora lavorerà per sette anni a Puerto Williams, al sud di Ushuaia, dove la marina controlla tutto il traffico di navi che passa a sud del Capo Horn. A volte i militari sono spediti fino in Antartide, per rifornire le basi presenti sul territorio. Lui stesso ci è stato varie volte, così come in molti altri posti nell’Oceano Pacifico e Atlantico.
Ma torniamo nel passato: alla fine del 1800 si stabilirono in tutta la zona e nella vicina isola di Terra del Fuoco numerosi allevatori di pecore, che fondarono estancias di migliaia di ettari. L’allevamento ovino fece arricchire diversi proprietari terrieri, che poterono comprare nuove terre ed estendere ancora di più le loro proprietà. Le estancias divennero come piccoli villaggi, che riunivano tutti i servizi necessari ai lavoratori: infermeria, biblioteca, sale giochi, teatri e cappelle, tutto questo si poteva incontrare in ogni allevamento degno di questo nome. Come l’estancia San Gregorio, situata a 120 km a nord di Punta Arenas e tutt’ora visitabile. Questa estancia possedeva addirittura un molo privato e una sua ferrovia in modo da imbarcare e vendere direttamente i propri prodotti .
Dopo gli anni d’oro tra il 1910 e il 1930, la richiesta di lana e carne della regione calò, soprattutto a causa dell’entrata sul mercato dei prodotti ovini neozelandesi. L’economia crollò, anche perché l’apertura del Canale di Panama nel 1914 fece calare l’importanza dello Stretto di Magellano.
Molte estancias, tra le quali San Gregorio, furono abbandonate e la regione iniziò a spopolarsi. Fu solo con la scoperta del petrolio che la gente ritornò in cerca di lavoro. Interi villaggi furono costruiti per alloggiare questo nuovo tipo di lavoratori: come Cerro Sombrero, fondato nel 1958 per ospitare gli operai della Empresa Nacional del Petróleo, i quali estraevano l’oro nero dal primo pozzo petrolifero della Terra del Fuoco. All’inizio degli anni Novanta la cittadina iniziò a spopolarsi, a seguito della chiusura di alcuni centri di produzione. Oggigiorno, Cerro Sombrero conta circa seicento abitanti, anche se, visitandolo, il paese sembra quasi abbandonato. I pochi turisti che ci passano si fermano rapidi al ristorante, le raffiche di vento che spesso superano i cento all’ora non invitano a sostare molto a lungo.
Tuttavia, negli ultimi settant’anni la scoperta di petrolio in diversi punti sul fondo dello Stretto ha fatto sviluppare fortemente l’economia di Punta Arenas, attirando sempre più nuovi abitanti. Ora la città, con i suoi circa 140mila abitanti, è la più grande della regione. A differenza di molte altre città sudamericane, qui non si trovano senzatetto per strada. Ciò non è però dato dalle buone condizioni di vita, ma semplicemente per il fatto che il clima non permette ai poveri di vivere senza la protezione di una casa. Andando al supermercato, ci si rende conto che i prezzi sono comparabili a quelli svizzeri. Ci si chiede come faccia la gente locale a vivere, dato che il salario mensile medio è di soli 450 franchi.
Pamela, una giovane di Punta Arenas, ci racconta che quando la gente del posto è in vacanza non viaggia come gli europei: piuttosto, si cerca un lavoro da svolgere anche nel tempo libero. Lei, per esempio, passa le sue vacanze a raccogliere fragole e lamponi nella piccola azienda frutti-
cola di Patricia, una donna sulla cinquantina che conduce la sua azienda da sola. Ci sono vari piccoli produttori locali che, come Patricia, coltivano frutta e ortaggi in serre ai margini della città. Ogni giorno hanno la possibilità di vendere i loro prodotti in una sala a loro riservata di un grande centro commerciale, Zona Franca. In questo luogo non si paga l’imposta sul valore aggiunto, perciò è un piccolo paradiso del consumismo per la
gente locale. Purtroppo, la sala degli agricoltori non è molto visitata. In un qualche modo però, anche i contadini riescono a sopravvivere in questa città alla fine del mondo. E continueranno a essere schiaffeggiati dal vento, così come le loro terre, per molti altri anni ancora.
Informazioni Su www.azione.ch, si trova una più ampia galleria fotografica.
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Pasticceria
Ingredienti per circa 16 pezzi per 1 stampo per gratin di circa 28 cm Ø
40 g di burro per lo stampo
½ limone (solo il succo)
2 buste di zucchero vanigliato da 10 g
2 dl di panna semigrassa
400 g di fragole
2 c di zucchero
Pasta
400 g di farina
1 cc di sale
1 busta di zucchero vanigliato da 10 g
40 g di zucchero
20 g di lievito fresco
2 dl di latte, tiepido
1 uovo grande di circa 60 g
60 g di burro
½ limone (solo la scorza)
1. Per la pasta, mescolate la farina con il sale, lo zucchero vanigliato e lo zucchero. Sciogliete il lievito nel latte e incorporatelo alla farina. Sbattete l’uovo. Tagliate a pezzettini il burro e unitelo all’impasto con l’uovo. Aggiungete la scorza grattugiata del limone. Mescolate bene il tutto sul piano infarinato e impastate per circa 5 minuti fino a ottenere una pasta liscia e omogenea. Copritela e lasciatela lievitare a temperatura ambiente per circa 1 ora; deve raddoppiare di volume.
2. Imburrate lo stampo per gratin. Dividete la pasta in 16 porzioni e modellate delle palline. Distribuitele nello stampo distanziandole. Coprite e lasciate lievitare ancora una volta per circa 30 minuti.
3. Scaldate il forno statico a 180°C. Spremete il limone e mescolate il succo con lo zucchero vanigliato e la panna, poi versate il composto sulle palline di pasta. Cuocete i dampfnudel nella parte bassa del forno per circa 30 minuti. Tagliate le fragole a dadini e mescolatele con lo zucchero. Servite i dampfnudel preferibilmente tiepidi con le fragole. Spolverizzate di zucchero a velo e guarnite a piacimento con foglie di menta.
Preparazione: circa 40 minuti; Lievitazione: circa 1 ora; cottura in forno: circa 30 minuti
Per persona: circa 5 g di proteine, 9 g di grassi, 27 g di carboidrati, 200 kcal
I membri del club Migusto ricevono gratuitamente la nuova rivista di cucina della Migros pubblicata dieci volte l’anno. migusto.migros.ch
A partire dall’Ottocento la storia dell’emigrazione ticinese può contare su una ricca documentazione. Sono diversi gli storici, gli studiosi e gli scrittori che hanno contribuito a impreziosire la letteratura in questo ambito. Va tuttavia rilevato che, nella stragrande maggioranza dei casi, si tratta di una storia che interessa gli emigranti appartenenti a importanti famiglie oppure i pochi che ce l’hanno fatta. E di tutti gli altri? Quelli che nella nuova Patria non hanno trovato né la fortuna né i soldi per il ritorno a casa, che ne è stato? Di loro non è rimasta traccia anche perché, per una questione di dignità, si erano rassegnati a farsi da parte.
L’ultima traccia della prozia, emigrante malvagliese, è una modesta lapide ai piedi di un albero alla periferia di Londra
Per indagare la questione e ricordandomi la frase «Se si vuole capire chi siamo dobbiamo prima sapere da dove veniamo», mi sono lasciato convincere da mia moglie Valeria (appassionata di genealogia) ad andare a conoscere il luogo di sepoltura di uno di questi emigranti senza storia. La scelta è caduta sulla sorella di mio nonno, Maria Elena Valchera, nata nel 1865.
Un percorso difficile per non dire drammatico il suo, al pari di altre migliaia di ticinesi costretti a emigrare per cercare lavoro, per sopravvivere.
Le poche informazioni recuperate negli archivi parrocchiali e in quelli di Stato lasciano supporre che quello affrontato da questa emigrante malvagliese sia stato un vero e proprio calvario. Insieme al marito Giacomo Alessio (1859-1937) è andata dapprima a Parigi poi, supponendo che lì non abbiano trovato un lavoro, è partita per Londra dove è rimasta fi-
Cruciverba
«Sandro, ho comprato una macchina che può portare sei persone senza problemi!»
Trova la risposta dell’amico leggendo a soluzione ultimata le lettere evidenziate.
(Frase: 1, 4, 2, 5, 3, 7, 5, 8)
ORIZZONTALI
1. Neutralizza il rancore
6. Le tengono tese le scotte
10. Un segno zodiacale
11. Ministro del sultano
12. Articolo romanesco
14. Iniziali di Machiavelli
15. Labbro inglese
16. Le iniziali dell’attore Roncato
17. Scorre nella Catalogna
19. Un vento
22. Fu amata da Vasco de Gama
24. Sinonimo di dentina
26. Debutti
28. Un inganno mimetizzato
31. Noto monte biblico
33. Unità di misura del lavoro
34. Le iniziali del romanziere Zola
36. Il «verso» del grillo
37. L’attore Preziosi (Iniz.)
no alla morte, nel 1921. Da Giacomo Alessio, Maria Elena ha avuto otto figli. Al di fuori di questi dati anagrafici non si conosce praticamente nulla: una vita senza storia!
Quello di Kingston, alla periferia di Londra, dove è sepolta l’emigrante malvagliese insieme al marito e alla figlia Rose, è un cimitero che ospita 45mila tombe, registrate a partire dal 1855. È un universo speciale, con aree specifiche. Da una parte quelle moderne (o comunque più recenti) curate dai giardinieri. Dall’altra, quelle
vecchie, lasciate al loro destino. Che è poi quello deciso da una vegetazione completamente libera di avere il sopravvento sulle lapidi di dimensioni più modeste, indifese, soffocandole e relegandole sottoterra. Come quella della sorella di mio nonno e dei suoi cari che, grazie alla digitalizzazione dell’intera area e all’aiuto di Sam (uno dei quattro dipendenti di questo grande cimitero) siamo comunque riusciti a individuare.
Di Elena, della sua vita tribolata (un figlio andato a combattere in
Australia e divenuto eroe di guerra, due figlie, anche loro emigrate e morte a «Nuova York») non è rimasta altro che una zolla di terra, lontana migliaia di chilometri dalla sua Valle di Blenio. C’è di che riflettere, anche sul senso da dare ai cimiteri. Aree lastricate con gallerie fotografiche, fiori, lapidi, tombe e marmi allineati in ordine geometrico, con tanto di sfratto dopo un tot di anni, come da noi. Oppure oasi di riflessione e raccoglimento, fra la natura, quale dimora perenne per tutti, come a Kingston?
Vinci una delle 2 carte regalo da 50 franchi con il cruciverba e una carta regalo da 50 franchi con il sudoku
39. Le iniziali di Lincoln
40. Osso del braccio
42. Sito web personale
44. Solitario in poesia
45. Manovale VERTICALI
1. Sacerdoti
2. Un Ricky regista (Iniz.)
3. Fiume russo
4. Ha la forma della suola
5. Un avverbio
6. Genere di serpenti
7. Le iniziali dell’attore Solfrizzi
8. Prima moglie di Giacobbe
9. Una consonante
11. Si nasconde a Carnevale
13. Dietro al peritoneo
15. Nome femminile
18. C’è quella dei conti
20. Lavorano in punta di piedi
21. Dipartimento della Francia
settentrionale
23. Un topo a Roma
25. Colore giallo-rossiccio
27. Sporadico
29. Bulbo commestibile
30. Le macchie dell’anaconda
32. Fa binomio con quale
35. Un sovrano d’altri tempi
38. Per ... per gli spagnoli
41. È dieci volte più grande del cm
42. Le iniziali di Pascal
43. Le ha in testa Gastone
Regolamento per i concorsi a premi pubblicati su «Azione» e sul sito web www.azione.ch
Soluzione della settimana precedente
STRANEZZE DAL MONDO – Nel mondo ci sono solo due… e si trovano in… Resto delle frasi: … CASCATE ORIZZONTALI – …AUSTRALIA
I premi, tre carte regalo Migros del valore di 50 franchi, saranno sorteggiati tra i partecipanti che avranno fatto pervenire la soluzione corretta entro il venerdì seguente la pubblicazione del gioco. Partecipazione online: inserire la soluzione del cruciverba o del sudoku nell ’apposito formulario pubblicato sulla pagina del sito. Partecipazione postale: la lettera o la cartolina postale che riporti la soluzione, corredata da nome, cognome, indirizzo del partecipante deve essere spedita a «Redazione Azione, Concorsi, C.P. 1055, 6901 Lugano». Non si intratterrà corrispondenza sui concorsi. Le vie legali sono escluse. Non è possibile un pagamento in contanti dei premi. I vincitori saranno avvertiti per iscritto. Partecipazione riservata esclusivamente a lettori che risiedono in Svizzera.
La ricerca infinita
A che punto sono le scoperte sull’esistenza di possibili altre forme di vita nell’universo
Diatribe storiche
Per molti anni si è creduto che gli antichi egizi non fossero d’origine africana, poi...
L’uscita di scena
È stato per 12 anni in Governo con autorevolezza e carisma ma ora Berset dice basta
Politica internazionale ◆ La crisi dell’ordine americano divide L’Europa in due gruppi e inaugura una fase anarchica e pericolosa
C’è una stagione per l’ordine e una per il caos. La prima è segnata dall’egemonia di una potenza o di un gruppo di potenze. La seconda dal decadere dell’egemonia e quindi dell’ordine, mondiale e regionale. Viviamo questa seconda fase. Ma non ne siamo perfettamente consapevoli né disposti a trarne le conseguenze ultime. Le quali riguardano, come europei, la crisi del nostro sistema a guida americana. Sistema del quale è parte anche la Svizzera, pur mascherata da neutra, per ragioni più identitarie che strategiche. O forse solo per inerzia.
La crisi dell’ordine americano si riflette sulla sua organizzazione di sicurezza in Europa: la Nato. Mai come in questa guerra contro l’Ucraina le differenze interne all’aerea atlantica, passata dai dodici membri fondatori all’attuale trentina, è apparsa più palese.
Grosso modo possiamo distinguere due gruppi di Paesi. Il primo, centrato sulla Polonia, concerne gli Stati a ridosso della frontiera con la Federazione Russa. Cioè coloro che vorrebbero veder la fine della guerra in-
sieme alla fine della Russia. Non basta difendere vittoriosamente l’indipendenza dell’Ucraina, serve abolire una volta per tutte la potenza russa dal libro della storia. Il grande «protettore» di questo schieramento, esteso dalla Scandinavia al Mar Nero e appena allargato alla Finlandia (domani forse anche alla Svezia), è il Regno Unito.
Nel gruppo di Paesi a cui appartiene la Svizzera si vuole la salvezza dell’Ucraina ma non se si rischia la guerra con la Russia
Siamo abituati a considerare Londra quale (not so) brilliant second di Washington. Non è così semplice. I britannici sono sì decisi a stare per principio con la loro ex colonia nordamericana, in quanto ascesa a superpotenza globale. Ma curando di porsi, quando possibile, un passo avanti. Segnalando così agli americani quanto abbiano bisogno degli inglesi per muoversi in un mondo che conoscono
poco e cui non sono intellettualmente troppo interessati. La differenza fra un ex impero e una ex colonia.
Il secondo gruppo, abbastanza frastagliato, comprende i Paesi dell’Europa centro-occidentale, in particolare Germania, Francia, Italia e Spagna, insieme al Benelux e ai «finti neutri» Austria e Svizzera. Il punto di vista che avvicina questa parte d’Europa consiste nel volere la sconfitta della Russia, quindi la salvezza dell’Ucraina, ma non fino a rischiare la guerra con Mosca in vista della sua cancellazione dalla carta geografica.
All’interno di questa Europa vi sono sfumature dovute alla storia, alla geografia e soprattutto al grado di influenza di questi Paesi. La Francia si è sempre considerata sovraordinata al resto dell’Europa continentale e cerca di profittare oggi della crisi economica, politica e identitaria della Germania per tornare a visioni golliste che parevano ormai obsolete.
Gli Stati Uniti d’America faticano a tenere insieme queste intenzioni e questi interessi, spartiti lungo una faglia Est-Ovest simile a quel-
la della guerra fredda ma a valori rovesciati. Con in più l’acuta questione turca, ovvero il rifiuto di Ankara di risolversi al rango di sentinella atlantica alla frontiera con la Federazione Russa. Erdoğan, rieletto contro tutti i pronostici, insiste anzi nella postura estroflessa e nelle dichiarate ambizioni imperiali.
La Turchia è, più di altri Paesi, il marchio di questa fase piuttosto anarchica della politica internazionale. Il più importante esercito atlantico dopo quello americano è schierato su più fronti e in modi apertamente differenziati rispetto agli interessi del Paese leader. Sicché Ankara cura contemporaneamente il rapporto con lo storico nemico russo, cui concede l’esenzione dalle sanzioni e con cui ha negoziato a partire dal febbraio 2022 ogni possibile margine per un cessate-il-fuoco in Ucraina. Allo stesso tempo i turchi si presentano sui territori nordafricani e balcanici, nel Levante e in Asia centrale. Certo, la loro crisi economica è sempre più profonda e il rischio di bancarotta è dietro l’angolo. Ma questo non sembra per
ora alterare le ambizioni turche, che affondano in una visione della propria storia abbastanza smisurata.
Questa fase di disordine internazionale rilancia infatti il ruolo di potenze che fino a pochi anni fa potevamo considerare secondarie e che ora si riscoprono – forse velleitariamente – dotate di ambizioni grandiose. Citavamo prima la Polonia, in Europa. Lo stesso vale, in misura ben maggiore, per il Giappone in Asia. Per tacere della fantasiosa galassia che un tempo chiamavamo Terzo Mondo o area dei non allineati, cui oggi abbiamo attribuito il meraviglioso ossimoro di «Sud globale».
Tanta carne al fuoco non promette il ritorno a una qualche forma di ordine internazionale negli anni a venire. Sarà probabilmente questione di decenni, con relativi conflitti di minore o maggiore intensità. Sulla soglia della terza guerra mondiale, che Henry Kissinger immagina probabile entro cinque anni se cinesi e americani non troveranno un compromesso. Conviene allacciare le cinture di sicurezza.
Il nome di Galileo Galilei è stato associato a missioni e ricerche in campo spaziale. Non ultimo il Sistema Galileo, che per l’agenzia spaziale europea (ESA) indica il sistema di posizionamento controllato dai satelliti, l’equivalente europeo del notissimo GPS americano. Civile il primo, militare il secondo. L’ultima dicitura che porta il suo nome fa capo al Dipartimento di astronomia della Harvard University di Cambridge Massachusetts ed è un progetto che ha l’obiettivo principale di cercare gli indizi che svelino la presenza di tecnologie aliene in prossimità della Terra. Sono definiti come «fenomeni aerei non identificati», nella sigla in lingua inglese UAP (Unidentified Aerial Phenomena), nome preferito dai militari e sigla che ha sostituito la vecchia di UFO (Unidentified Flying Object), «oggetti volanti non identificati». Meno di un mese fa i membri del gruppo di lavoro legati al citato Progetto Galileo hanno tenuto una riunione, trasmessa dal canale web di NASA TV, nella quale hanno preannunciato la pubblicazione, prevista per la fine dell’estate, di un loro rapporto in proposito, presumibilmente il primo di una serie. Inutile dire che il fatto ha scatenato le fantasie di un tipo di stampa che, per attirare l’attenzione, non ha esitato a usare titoli tipo Storica conferenza della NASA sugli UFO. Di veramente storico francamente non ci pare ci sia nulla. In più la patente di ufficialità che si potrebbe leggere dietro la presunta sponsorizzazione della NASA, l’Agenzia spaziale americana, appare ingannevole.
Certo, la quindicina di scienziati, tra astronomi, biologi, fisici e tecnologi capitanati dal dr. Avi Loeb, che formano il gruppo di lavoro del Progetto Galileo, attivi insieme con collaboratori esterni esperti di informatica, chimica e altre discipline, hanno tutti la benedizione della NASA, che è ben contenta che altri spendano soldi privati per ricerche imparentate con le sue ufficiali. L’onore e l’onere di condurre ricerche parallele fa
comodo all’amministrazione americana, sempre più aperta ai privati in ogni campo spaziale. Ricordiamo che fin dagli anni Settanta la NASA insieme a organizzazioni scientifiche private lanciò il progetto SETI (Search for Extra-Terrestrial Intelligence), ricerca di forme intelligenti di vita extraterrestre. Da allora procede con varie ramificazioni internazionali e costa parecchio. SETI si occupa in modo scientifico di rilevare onde e segnali radio che arrivano dall’universo al fine di individuare eventuali segni di vita intelligente, come noi la concepiamo, abbastanza evoluta da poter rispondere a segnali radio che noi stessi inviamo nello spazio. Qualsiasi registrazione ottenuta da terzi in questo ambito deve essere sottoposta al giudizio dei responsabili del programma SETI, seguendo un protocollo preciso.
Detto questo, cosa c’è di nuovo
nel proclama del Progetto Galileo?
Qui non si tratta solo di segnali radio: il gruppo di ricercatori dell’Harvard University ha reso noto che si stanno analizzando circa 800 episodi di fenomeni aerei apparentemente inspiegabili, ma che quelli considerabili come anomali sono meno di 40 e, in ogni caso, lo stesso gruppo di lavoro denuncia che gli attuali sistemi di raccolta dati non sono sufficienti per dare una risposta attendibile. Risposta che, tra l’altro, con gli extraterrestri potrebbe non aver nulla a che fare. È ragionevole pensare che nell’universo vi possa essere vita simile o diversa dalla nostra, ma comunque vita. La presenza di centinaia di miliardi di galassie, ognuna con miliardi di stelle e innumerevoli pianeti, rende scientificamente improbabile che siamo soli nell’universo e che la nostra vita sia stata solamente il frutto di una circostanza fortunata e irripe-
tibile. Che poi queste possibilissime vite aliene riescano fisicamente a manifestarsi a noi è tutt’altra faccenda. Per lo meno se ragioniamo nei termini della nostra tecnologia.
Limitiamoci alla nostra galassia: la Via Lattea. Si calcola che potrebbe contenere oltre 300 miliardi di stelle di cui un migliaio, assimilabili al Sole, sarebbero entro una distanza di 100 anni luce da noi. L’anno luce è una distanza di 9460 miliardi di chilometri. Distanze enormi su scala umana. Per farvi un’idea: nel 1977 abbiamo lanciato la sonda Voyager 1 oltre i confini del Sistema solare. Nel 2012 è uscita nello spazio interstellare e l’ultimo dato, del 5 giugno 2023, la dà a 23,9 miliardi di km oltre il Sole. Siamo ancora in contatto radio col Voyager ma nessuno oltre a noi ha mostrato di averlo notato. Parlando di segnali radio inviati da Terra verso lo spazio, quante e quali stelle hanno
raggiunto? Due astronomi del Deep Space Network della NASA, usando un catalogo stellare della missione Gaia dell’ESA, sono giunti alla conclusione che i nostri segnali in tutti questi anni potrebbero aver raggiunto solamente 4 stelle e in più molto meno brillanti del Sole, che speriamo attorniate da pianeti. Ammesso che gli ipotetici alieni locali abbiano riconosciuto i nostri segnali e che si siano presi la briga di risponderci, forse la loro risposta potrebbe arrivarci per la fine di questo decennio. Ammesso e non concesso, perché non abbiamo oggi alcun modo di capire se attorno a quelle 4 stelle ci siano davvero esopianeti compatibili con la vita. Quindi la nostra speranza di contatto resta, appunto, solamente una speranza. Si definiscono come esopianeti quei pianeti che orbitano attorno a una stella che non sia il Sole. La scoperta del primo esopianeta, avvenuta nel 1995, è valsa il premio Nobel per la fisica allo svizzero Michel Mayor e al suo allievo Didier Queloz. Da allora è partita una importante corsa mondiale alla scoperta degli esopianeti, che hanno superato il numero di 4000. Il prestigio e la qualità delle ricerche svizzere hanno poi dato l’opportunità alle nostre università di Berna e Ginevra di lanciare nel 2019, con il sostegno dell’Agenzia spaziale europea, il satellite CHEOPS, un telescopio spaziale che studia dimensioni e caratteristiche di esopianeti già conosciuti, di dimensioni comprese tra 1 e 6 volte il raggio terrestre. Dopo 3 anni dalla messa in orbita, CHEOPS sta ancora lavorando efficacemente con la preziosa collaborazione del telescopio spaziale James Webb (JWST) della NASA al quale chiede di puntare sull’esopianeta che sta analizzando. La qualità delle immagini di JWST, le migliori al mondo, permettono di individuare dettagli preziosi. Questo lavoro di coppia ha dato grandi risultati e CHEOPS, che doveva cessare l’attività il prossimo settembre, ma vede la sua vita prolungata almeno fino al 2025.
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◆ Il Progetto Galileo sta analizzando una serie di «fenomeni aerei non identificati» ma non è detto siano segni di vita alienaLoris Fedele ImaArtist / Pixabay
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Pietro Veronese
Fino a un tempo relativamente recente, poco più di mezzo secolo fa, il passato dell’Africa era ancora un fatto privato, un patrimonio degli africani non condiviso con il resto del mondo.
In qualunque punto del Continente fosse nato, un individuo conosceva i nomi dei propri antenati, era capace di risalire di nome in nome la propria genealogia, per molte generazioni. Sapeva queste cose perché così gli era stato insegnato, conosceva il proprio posto nel tempo e nel luogo in cui viveva attraverso questo rapporto personale, intimo verrebbe da dire, con le donne e gli uomini che lo avevano preceduto su questa Terra e lo avevano generato.
L’erudito senegalese
sconvolse gli studi sul continente, ma alla fine la spuntò: al di là del reale colore della loro pelle, gli antichi egizi erano africani
Nello spazio pubblico, viceversa, imperava l’ignoranza portata dai colonizzatori europei. Questi erano convinti che l’Africa non avesse un passato: essa viveva in un eterno presente, ferma allo stato di natura rimasto immutato dalla notte dei tempi. Non conosceva secondo loro civiltà se non quella portata da fuori. Il pregiudizio illuminista e poi ottocentesco vigeva ancora alla metà del Novecento. L’Africa era e restava il «Continente senza storia» condannato dalle cieche parole di Georg Wilhelm Friedrich Hegel (1770-1831), uno dei più grandi pensatori europei. Poi venne il genio di Cheikh Anta Diop.
Cheikh Anta Diop (1923-1986), senegalese, è stato un fisico, un antropologo, uno storico, un linguista e molte altre cose. La sua mente non aveva confini. In pochi anni passò da una tradizionale scuola coranica della sua terra d’origine al Collège de France di Parigi, si addottorò in un’infinità di materie, studiò fisica nucleare con il genero di Marie Curie, tradusse la teoria della relatività di Einstein in wolof (lingua parlata in Senegal). Ma non è ricordato per questo, bensì per la sua sconvolgente tesi storiografica: i faraoni, affermò, erano neri. Africani. Africana era dunque la civiltà dell’antico Egitto.
La sua tesi fu considerata rivoluzionaria da alcuni, infondata da altri, convinti dell’origine extra-africana degli Egizi. La controversia fu enorme e in parte dura ancor oggi. Ma, nella sostanza, Cheikh Anta Diop l’ha avuta vinta: qualunque fosse il colore della loro pelle, nessuno dubita più che i faraoni fossero africani a tutti gli effetti. Soprattutto, la sua temerarietà e originalità di pensiero ha liberato la mente degli studiosi, ha sepolto il pregiudizio di Hegel e restituito al passato africano la dignità che era stata negata. Nello spazio mentale e culturale direttamente o indirettamente creato dai suoi studi senza precedenti, è fiorita nei decenni una messe di opere sull’antica storia dell’Africa.
Oggi sappiamo che, più o meno negli stessi secoli del Medioevo e del proto-Rinascimento in cui in Europa si andava formando lo Stato moderno, l’organizzazione sociale e politica dell’Africa affrontava un processo analogo. In più punti del Continen-
te grandi regni e imperi sorsero o si affermarono su realtà preesistenti. E prima ancora in Egitto, nella Nubia, nell’odierno Tigrè etiopico e altrove, erano fiorite complesse civiltà e sistemi di governo. Ricchissima è la bibliografia che ne ricostruisce le vicende, i rapporti commerciali, spirituali, diplomatici con il mondo esterno, le ambizioni, le innovazioni, l’affermazione e il declino. Molto se ne sa e molto resta da scoprire. Ultimo, appena pubblicato, è un bellissimo volume edito dalla britannica Thames & Hudson: Great Kingdoms of Africa (a c. di John Parker). Il libro si avvale del contributo di numerosi specialisti di varia origine e competenza: da anni lo studio del passato africano attinge alle più diverse discipline, dall’ar-
cheologia alla storia dell’arte. Questo racconto a più voci è organizzato in ordine cronologico, dalla civiltà delle piramidi cara a Sheikh Anta Diop al regno Zulu, che ebbe il suo apogeo nel diciannovesimo secolo nell’odierno Sudafrica. Cartine, illustrazioni e testi sempre di accattivante lettura restituiscono l’eccezionale contributo dell’Africa alla civiltà umana. Particolarmente emozionanti sono gli infiniti riferimenti al patrimonio di capolavori artistici che testimoniano la gloria di questo passato. Si impara per esempio che i più antichi Vangeli miniati, cioè illustrati con miniature, sono etiopici, datati tra il quarto e il settimo secolo dell’era cristiana. Il secondo capitolo del libro è dedicato agli Imperi sudanesi, cioè situati
«Basta con la vita da rifugiati! Basta controlli, basta verifiche, basta colloqui! Vogliamo tornare a casa, vogliamo un rapido rimpatrio attraverso la carta dati dell’Alto commissariato ONU per i rifugiati! Non cercate di fermarci, vogliamo tornare in Myanmar!». Così recitavano i cartelli che decine di migliaia di Rohingya sventolavano durante una dimostrazione tenutasi di recente nei campi profughi che li ospitano ormai da anni in India. I rifugiati non ne possono più di vivere in tende e abitazioni di fortuna, di essere sotto costante sorveglianza. Non ne possono più della criminalità che ormai dilaga nei campi perché è spesso l’unica attività lavorativa che i profughi possono praticare. Non ne possono più delle ragazze vendute ai bordelli di Calcutta o di Dhaka, del traffico di droga. Di essere un bacino di reclutamento per jihadisti. Di non avere prospettive né futuro. Durante l’ultimo anno molti rifugiati si sono messi in mare su imbarcazioni di fortuna per cercare di raggiungere la Malesia o l’Indonesia e, secondo i dati ufficiali ONU, 348 sono morti in mare. In realtà, nell’ambito di un’iniziativa sostenuta dalla Cina, il Myanmar e il Bangladesh stanno compiendo l’ennesimo sforzo per avviare il rimpatrio di circa 1100 rifugiati Rohingya in un progetto pilota prima dell’inizio del-
la stagione dei monsoni a giugno-luglio: tutto risolto? Non proprio: la situazione è sempre più intricata. Lo stato di Rakhine, dove i Rohingya vivono da secoli, è stato conquistato e annesso al Myanmar, da cui è praticamente separato da una catena montuosa, nel 1784.
Diventato poi parte dell’impero britannico, è rimasto nell’allora Birmania dopo l’indipendenza. I Rohingya, pur cittadini di fatto del Myanmar, sono stati privati della nazionalità birmana, non riconosciuti come uno dei 135 gruppi etnici che vivono all’interno del Paese e fatti oggetto di una campagna persecutoria in grande stile: moschee distrutte (sono musulmani sunniti in un Paese prevalentemente buddista), terre confiscate, stupri etnici e omicidi hanno costretto all’epoca più di 200mila persone ad abbandonare il Paese. Quelli che sono rimasti sono stati dichiarati «stranieri residenti» senza diritto a possedere terra e senza diritti civili o legali. Secondo una legge del 1982 ai Rohingya non è permesso di viaggiare senza ottenere un permesso speciale, non è permesso possedere terreni o proprietà immobiliari. Sono poi soggetti a limitazioni del regime legale in materia di matrimoni e sono costretti a firmare, quando si sposano, un impegno a non mettere al mondo più di due
figli. Non solo: sono soggetti a vere estorsioni e a lavorare in regime di semi-schiavitù alle dipendenze dell’esercito e del Governo.
Al principio degli anni Novanta, in seguito all’ennesima campagna di stupri, omicidi e persecuzioni, 250mila Rohingya abbandonavano la Birmania per rifugiarsi principalmente in Bangladesh, inseguendo l’illusione di poter essere meglio accolti in uno di popolazione a maggioranza musulmana sunnita. Tra il 9 ottobre e il 2 dicembre 2016, secondo le agenzie umanitarie, sono arrivati a Cox Bazaar, in Bangladesh, 21mila
Rohingya in seguito all’ennesima ondata di violenze. Seguiti nell’agosto del 2017 da altri 750mila profughi, sfuggiti a un autentico genocidio, che da allora vivono nei campi in condizioni più o meno precarie nonostante gli aiuti umanitari. Tutte le pressioni fatte sul Myanmar per riprendersi i profughi e far cessare l’emergenza umanitaria sono cadute nel vuoto.
Il governo di Naypyidaw aveva difatti accettato soltanto una proposta di rimpatrio sponsorizzata dalla Cina, sospettata con buone ragioni di stare dietro a quella che è stata definita «una pulizia etnica da manuale»: ri-
in quella che i geografi arabi chiamavano bilad al-Sudan, la «terra dei neri» a meridione delle vastità desertiche del Sahara. Questi territori non hanno nulla a che vedere con l’odierno Sudan e perciò sarebbe preferibile adottare l’aggettivo inglese, sudanic, «sudanici». Essi sono principalmente tre: Ghana, Mali e Songhay, e corrispondono grosso modo agli attuali due Stati dello stesso nome. In queste pagine, solo un breve accenno ricorda il più famoso sovrano dell’Impero del Mali, Mansa Musa I, figura storica e mitica che oggi si tende a considerare come l’uomo probabilmente più ricco di tutti i tempi. Per fortuna l’opera di un autore italiano, anch’essa recentissima, dedica a quel fantastico re un intero volume. Parliamo di La carovana del sultano, sottotitolo Dal Mali alla Mecca: un pellegrinaggio medievale dell’antropologo Marco Aime (Einaudi).
La fama imperitura di Mansa Musa si deve in primo luogo a una carta geografica, il celeberrimo Atlante catalano disegnato a Palma di Maiorca da Abraham Cresques nel 1375 circa. Qui il Rex Melli, o re del Mali, è raffigurato in tutto il suo splendore: seduto su un trono d’oro, con in capo una corona d’oro, nella mano destra un globo d’oro e nella sinistra uno scettro dello stesso metallo, è un sovrano fulgido, potente, un grande della Terra. Cinquant’anni prima, nel 1324, aveva compiuto un viaggio alla Mecca alla testa di una carovana di migliaia di persone e di dromedari, e di quintali d’oro, un trionfo transafricano magnificato dai cronisti dell’epoca. È di quella impresa che ci racconta meravigliosamente Aime.
prendere i Rohingya, ricollocandoli però non più nello stato di Rakhine, ricchissimo di minerali ed essenziale ai progetti di connettività stradale ed economica cinesi, ma nel sud del Paese. L’ultimo tentativo di rimpatrio, il «progetto pilota», non si discosta di molto da quella proposta.
I Rohingya sarebbero rimandati nel Rakhine, a casa loro, ma in «strutture di reinsediamento» appositamente costruite dalla giunta militare che governa il Myanmar. In altri campi profughi, in parole povere, in condizioni forse ancora peggiori di quelle attuali. Il Consiglio militare di Naypyidaw, difatti, si riferisce ancora ai Rohingya come «bengalesi» e intende emettere carte di verifica nazionali che renderebbero di fatto i rifugiati immigrati illegali nel loro Paese, identificandoli come stranieri e limitandone la libertà di movimento e la possibilità di lavorare. I Rohingya chiedono invece il pieno ripristino dei loro diritti di cittadinanza, secondo quanto stabilito dall’ONU, e di poter tornare nelle loro case e alla loro vita quotidiana senza essere considerati cittadini di terza classe. Il resto del mondo, chiede Human Rights Watch, «non dovrebbe dimenticare le ragioni che hanno costretto i Rohingya a diventare profughi, e riconoscere che da allora nulla è cambiato». E agire di conseguenza.
Consiglio federale ◆ Il politico romando conclude con questa legislatura i dodici anni di maratona in Governo. Le ragioni
Roberto PortaCome una maratona. Mercoledì scorso, annunciando le sue dimissioni dopo dodici anni in Consiglio federale, Alain Berset ha paragonato la sua presenza in governo a quei 42 chilometri di corsa ereditati dall’Antica Grecia. «Adesso è come se mi mancassero soltanto due chilometri, poi sarò arrivato al mio traguardo», ha affermato il ministro socialista che rimarrà in carica fino al termine di questo 2023 e che negli anni della gioventù era tra i migliori talenti dell’atletica leggera romanda, con un titolo regionale nella disciplina degli 800 metri. Due giri di pista, non certo una maratona, ma pur sempre una gara ostica e insidiosa. Gli 800 metri richiedono velocità ma anche resistenza, senso tattico e pure una buona dose di furbizia. Qualità che possono venire buone anche in politica e forse ancora di più in Consiglio federale. Del resto lo aveva detto nel 2017 lo stesso Berset in un’intervista al quotidiano vodese «Le Matin»: «La competizione è un’eccellente scuola di vita», disse allora il ministro. «Ti insegna a fissare un obiettivo e a fare di tutto per raggiungerlo anche se il cammino può essere molto lungo. E per di più sei da solo in pista, devi saper gestire anche questo». Chissà quante volte l’ormai quasi ex ministro dell’interno avrà paragonato le giornate in Governo alle sue fatiche di atleta? Con la campana che suona prima dell’ultimo giro di pista.
Per Berset, quella campana, quel segnale che gli ha fatto dire «questo è il momento buono per smettere» è arrivato dalla votazione popolare sulla Legge Covid dello scorso 18 giugno, come ha affermato egli stesso annunciando le dimissioni. Quel terzo «sì» delle urne alle regole anti-pandemia gli ha fatto capire che «il ciclo si è chiuso», anche se i cantieri aperti sono ancora parecchi e gravosi. Fin qui l’ufficialità e le parole scelte da Berset per annunciare davanti al Paese la sua uscita di scena a soli 51 anni, dopo tre legislature e due mandati presidenziali. E dopo essere stato la mente e il volto del Governo negli anni bui e tormentati della pandemia. Un periodo estremamente intenso e complesso, come ha ricordato più volte lo stesso ministro, che in quegli anni ha dovuto confrontarsi anche con insulti e minacce, rivolte a lui e pure ai suoi famigliari a tal punto da dover richiedere la protezione della polizia.
Nel decidere di non più ricandidarsi per un’ulteriore legislatura c’è dunque anche questa fatica da mettere in conto, nella consapevolezza «d’avoir fait ma part», per il bene del Paese, come lui stesso ha scritto nella lettera di dimissioni. E come molti altri hanno ribadito in questi giorni, lodando il suo impegno nel contra-
Alain Berset col suo capo della comunicazione Christian Favre, a destra, saluta il consigliere nazionale Juerg Grossen dopo le votazioni del 18 giugno.
sto alla pandemia. C’è anche chi lo ha persino paragonato a Henri Guisan, il generale che guidò l’esercito svizzero durante la Seconda guerra mondiale. Ma oltre alle spiegazioni di Berset, certo legittime, quali possono essere state le possibili altre ragioni delle sue dimissioni? O, in altri termini, quali i momenti in cui si era capito che per Berset il 2023 sarebbe stato con ogni probabilità il suo ultimo anno in Governo? Domande a cui si può rispondere con due episodi.
Il primo è legato a filo doppio a una cifra, quella della sua elezione a presidente della Confederazione per l’anno in corso. Berset ha assunto per la seconda volta questa carica grazie ai 140 voti ricevuti dal Parlamento, un risultato che diplomaticamente è stato definito «poco brillante». In realtà si tratta di una sorta di umiliazione.
Prima di lui Ignazio Cassis era arri-
vato a 156 e Guy Parmelin a 188. Ueli Mauer nel 2018 aveva raggiunto le 201 preferenze. Un primato che condivide con Jean-Pascal Delamuraz. Vista come era andata l’anno scorso si poteva facilmente ipotizzare che l’elezione del prossimo dicembre, con il rinnovo dell’intero Consiglio federale per la nuova legislatura, sarebbe stata ad alto rischio per Berset. Meglio dunque evitare passi falsi, per lui e anche per il suo partito.
Il secondo episodio invece riguarda la fuga di notizie dal suo Dipartimento durante l’emergenza della pandemia. Una vicenda su cui è in corso un’analisi da parte di una commissione del Parlamento. Al di là dei risultati che ne scaturiranno a pesare qui è so-
Berset nega di aver deciso di andarsene per le polemiche degli ultimi tempi, ma da un po’ non aveva quella marcia in più che l’aveva sempre contraddistinto. (Keystone)
prattutto quanto capitato nella seduta che il Consiglio federale ha dedicato a questo tema nel gennaio scorso, con Berset che da presidente e decano del Governo, ha lasciato la sala, molto probabilmente su richiesta dei suoi colleghi, per permetter loro di affrontare questo tema in tutta libertà. Un fatto straordinario per un Governo di concordanza come quello svizzero. Nella conferenza stampa successiva il portavoce del governo André Simonazzi aveva poi più volte richiamato Berset, sollecitandolo a non andare oltre a quanto scritto nel comunicato stampa di quel giorno. Anche qui un’umiliazione, in Governo e davanti al Paese. Un secondo segnale che qualcosa per Berset dentro Palazzo federale si era inceppato. La vicenda va ancora chiarita. Il ministro socialista ha sottolineato che non ha influenzato la sua decisione di lasciare il Governo, ma a molti osservatori, in questi ultimi mesi Berset era sembrato una sorta di contro-figura rispetto al Consigliere federale che il Paese aveva conosciuto in questi ultimi anni, a lungo sul gradino più alto nei sondaggi che misurano la popolarità dei nostri ministri.
Quella marcia in più del politico di razza e del grande comunicatore era andata affievolendosi, sulla campanella dell’ultimo giro di pista. Rimangono le lodi di chi ha visto in lui «un homme d’État» come pochi nella storia recente del nostro Paese e di chi sottolinea uno dei risultati concreti di cui Berset può di certo vantarsi: l’essere riuscito a stabilizzare le finanze dell’AVS perlomeno fino al 2030.
Altri prima di lui ci avevano provato, senza riuscirci. Sul fronte opposto emergono invece le critiche soprattutto per non essere riuscito a frenare il galoppo costante dei costi sanitari e dei premi delle casse malati. Ma al di là della pagella da dare a Berset ora si aprono tre partite.
Cosa succede ora
La prima è interna ai socialisti, chiamati a individuare i profili ideali da lanciare nella corsa al Consiglio federale. Con alcuni cantoni, soprattutto svizzero-tedeschi, che si faranno avanti più di altri, in particolare Zurigo che mira a tornare al più presto in Governo e Basilea, che ha avuto finora solo tre consiglieri federali, l’ultimo, Hans-Peter Tschudi, negli anni ’60. La seconda sfida è quella tra i partiti, tra chi vuole confermare la propria presenza in Governo e chi ambisce a conquistare un seggio. I Verdi su questo punto sono tornati a farsi sentire, con il seggio socialista lasciato libero da Berset che rischia di vacillare. Ma anche le due poltrone del PLR non sono fuori pericolo. Tutto dipenderà dall’esito delle elezioni federali di ottobre. E poi c’è un ultimo punto di domanda: a chi andrà il Dipartimento dell’interno, che da gennaio dovrà avere una nuova guida? Risposta entro il prossimo Natale. La volata su questi tre fronti è dunque più che aperta, ci ha pensato l’ex mezzofondista Berset a lanciarla e ad accelerare le tante dinamiche di questo anno elettorale 2023.
Dimensioni da scoprire
A Lipsia la mostra curata da Richard Castelli in una ex fabbrica indaga il rapporto tra realtà e digitale attraverso le opere di sessanta artisti
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Casa Ricordi Fascino e storia del complesso editoriale milanese che ha saputo coniugare i valori culturali con le ragioni imprenditoriali
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Il fuoco dentro il vulcano e non solo Ossessioni e desiderio del regista Werner Herzog che nel suo nuovo documentario alza un inno alla meraviglia del nostro pianeta
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Intervista ◆ Il Premio svizzero di letteratura Massimo Gezzi racconta il poeta americano Charles Simic
Creatore di un mondo poetico sospeso fra un immaginario alla Hopper e i colori di una visione epifanica, Charles Simic (Belgrado, 1938 – Dover, 2023; ritratto nella foto), uno dei più grandi poeti statunitensi del nostro tempo, se ne è andato qualche mese fa lasciandoci in dono i suoi preziosi libri, tanto carichi di stupore quanto la notizia di una morte improvvisa.
Simic era arrivato a Chicago negli anni ’50. Si era poi laureato alla New York University nel 1966, ma sempre, in lui, era rimasto vivo il sentimento di appartenenza alla cultura slava.
Con gli anni ’70, parallelamente alla carriera di professore di letteratura, aveva preso a definire il suo essere poeta con la pubblicazione di versi in cui brillava uno stile inconfondibile, minimalista, le cui immagini – aspetto chiave della sua cifra – si imponevano al lettore con forza e sarcasmo.
Insignita dei più prestigiosi riconoscimenti letterari, in lingua italiana l’opera di Simic ha avuto un’egregia collocazione editoriale grazie all’editore Donzelli e in particolare ad Adelphi, che nel proprio catalogo accoglie titoli quali Hotel Insonnia (2002), Il cacciatore di immagini (2005), Il mostro ama il suo labirinto (2008) e Club Midnight (2008). Fra gli autori ticinesi che hanno avuto modo di occuparsene, vi è il poeta Massimo Gezzi (Premio svizzero di letteratura, 2016), il quale, assieme a Damiano Abeni, nel 2007 ha curato la pubblicazione Il titolo per L’Obliquo. Gli abbiamo fatto qualche domanda.
Nella sua nota introduttiva alla raccolta Il titolo, lei afferma che «delle poesie di Simic non ci si dimentica più». Mi piacerebbe cominciare da qui: come fu il suo primo incontro con questo autore, attraverso quale testo fece la sua conoscenza? Potrebbe riportarci dei versi e commentarli?
Ho conosciuto Charles Simic grazie a Damiano Abeni, grande traduttore di poesia americana contemporanea. Fu lui a suggerirmene la lettura. Allora Abeni aveva già realizzato delle versioni dei suoi libri per Donzelli e altri editori. La prima opera a colpirmi fu Hotel Insonnia, un libro del 1992, tradotto da Andrea Molesini per Adelphi. Lì vi è una poesia che non si è più cancellata dalla mia memoria: Spring, Primavera. Si tratta di un quadretto molto semplice: una donna stende sul filo del bucato le camicie del marito; improvvisamente, una folata di vento le solleva la gonna; lei si ferma per coprirsi e, nel farlo, si mette a ridere da sola. Questa immagine si impresse nella mia mente. E, a ripensarci ora, credo
abbia ragione il traduttore e studioso Paolo Febbraro quando afferma che «Simic coglie il mondo sul fatto, in flagranza di reato». Perché è un autore che partendo dagli oggetti, dalle scene della vita di tutti i giorni e da figure marginali attesta l’irripetibilità del quotidiano. Leggere le poesie di Simic è un po’ come guardare delle vecchie fotografie che ti dicono che gli attimi trascorsi erano unici e sacri e tu non lo sapevi. Con la differenza che Simic non parla del passato, ma del «mondo che accade».
Charles Simic è stato uno scrittore profugo, che visse l’abbandono del paese natale. Era serbo di nascita e americano d’adozione. Come crede si manifesti questa doppia anima nella sua poesia? Vi sono caratteristiche peculiari, riconoscibili, che appartengono all’una e all’altra cultura?
È una domanda difficile, alla quale risponderei così: Simic è uno degli ultimi esemplari di scrittore europeo cosmopolita, perché la sua poesia è composta da elementi disparati. Ad esempio, da parte paterna – il padre di Simic era un uomo colto, curioso verso cose diverse, come ad esempio il cibo – gli trasmise la fascinazione per il mondo gitano e il surrea-
lismo. Caratteristiche che il poeta portò con sé dapprima a Parigi, dove, formandosi, assimilò la cultura europea ottocentesca e dei primi del Novecento, poi a New York e Chicago, città in cui visse dal 1954. In questo viaggio transcontinentale è come se egli avesse attraversato tutto il sapere e i patrimoni della civiltà occidentale: nei suoi saggi e nei suoi versi cita di continuo i grandi autori francesi – ad esempio Rabelais, verso il quale ha un vero e proprio culto, o Baudelaire e Rimbaud –; fa rimandi alla tradizione italiana (Boccaccio, Petrarca, etc.), della quale ha una conoscenza approfondita; menziona autori russi, così come serbi, croati e sloveni, che sovente ha tradotto. C’è poi l’amore per la grande poesia americana contemporanea: Robert Lowell, Mark Strand e via dicendo. Era, quindi, uno scrittore «cittadino del mondo», nel cui animo si riunivano «paesaggi» estremamente diversi gli uni dagli altri.
Charles Simic è stato infatti anche un saggista e un prosatore, oltre che un poeta. Parliamo un poco di questa parte della sua opera. Le prose di Simic sono bellissime. Appartengono alla tradizione dell’essay inglese: saggi pieni d’ironia, leg-
gerezza, intelligenza – mai pedanti o scolastici – in cui la figura dell’io scrittore è centrale. Simic non si vergogna mai di dire «io» in quanto autore e uomo. In queste pagine, dove si parla di poesia e letteratura, spesso ritroviamo anche aneddoti biografici, nei quali ci racconta della sua infanzia, della guerra, del suo essere un grande insonne e, in quanto tale, un lettore notturno (c’è un meraviglioso testo, intitolato Leggere filosofia la notte, in cui definisce il carattere fondamentale della poesia mescolando cinema, cucina, memorie). Quello di Simic è saggismo che non teme di farsi passare per stupido, perché, come scrive lui, nel passare per stupidi
c’è grande saggezza. Cito a memoria un passo, proprio da Leggere filosofia la notte (1987): chi scrive deve essere come Buster Keaton quando, in un film, galleggia su un tabellone in balia delle onde. Il tabellone è un bersaglio per delle navi da guerra, ma lui non lo sa. Piovono le bombe e Keaton inizia a pescare. Questo è il poeta: sereno nel disastro.
Mi sembra che oggi si scriva moltissima poesia. Forse se ne legge poca. E, forse, molta di quella pubblicata non è all’altezza delle proprie pretese (quando queste vi so-
no). In cosa l’opera di Simic brilla, rispetto a tanta produzione contemporanea? Cosa si può «imparare» dalla sua scrittura?
Paolo Febbraro sostiene che l’opera di Simic abbia «un equilibrio leggiadro che non si può imparare». Infatti pochissimi hanno le sue stesse qualità. Io credo però che un paio di cose si possano apprendere. La prima è che la poesia, come egli afferma, è un prodotto del caso non meno che dell’intenzione. Non bisogna quindi credere in una poesia strettamente celebrale, costruita a tavolino, ma affidarsi anche al caso, all’inconscio, al surreale, all’imprevisto. La seconda è che la poesia non può essere schizzinosa, selettiva. Al contrario, deve accogliere ogni aspetto della realtà, perché, come scrive sempre Simic, «nella poesia cielo e terra, natura e storia, dei e diavoli sono tutti scandalosamente riconciliati». Egli sa parlarci di cose dolcissime così come di altre atroci; ad esempio, in una poesia di Avvicinati e ascolta riporta l’immagine di un gruppo di soldati che, durante la guerra, ha cavato gli occhi a una vacca e acceso un fuoco sotto alla sua coda. Per essere poeti bisogna saper accogliere anche questo: le contraddizioni, il tremendo, oscillando fra levità e orrore.
Oggi come oggi la carta di credito è una compagna di viaggio praticamente indispensabile. Ecco 10 consigli su quando e come utilizzarla al meglio all’estero – risparmiando.
Se possibile è sempre meglio optare per la valuta locale. Esempio: se al lettore di carte hai la scelta tra EUR e CHF, ti conviene selezionare la valuta del luogo. Se selezioni il franco svizzero viene applicato il calcolo dinamico della valuta, il che comporta commissioni aggiuntive, non di rado superiori al 2% dell’importo pagato.
Per mance e importi di piccola entità conviene metter mano al contante, ma per tutti gli altri pagamenti la carta di credito è ideale.
A seconda del tipo di carta di credito e dell’ente che l’ha emessa, le commissioni sulla valuta estera possono ammontare anche al 2% dell’importo pagato. Per i titolari di carta di credito Cumulus il problema non si pone. Le società emittenti fissano il tasso di conversione di ciascuna valuta estera presso la banca. Vale quindi la pena di confrontare le condizioni in anticipo. Si aggiunge solo un importo di transazione, applicato da tutte le società emittenti, che la banca deve versare all’emittente di turno e che addebita al cliente sotto forma di commissione.
Mi conviene usare la carta di credito anche per prelevare contanti?
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Come faccio a non superare il limite di utilizzo della carta di credito?
Innanzitutto è utile verificare prima della partenza il limite massimo di spesa (plafond) previsto per la tua carta. Perché una volta che l’hai raggiunto, la carta diventa inservibile. Il limite varia a seconda dell’emittente. Se in vacanza prevedi di fare spese piuttosto elevate, ti conviene richiedere per tempo un aumento del plafond.
Non dare mai la tua carta di credito in mano a sconosciuti. Al ristorante, per esempio, fatti portare il lettore di carte al tavolo oppure accompagna il cameriere alla cassa. Controlla sempre l’importo indicato sul display del lettore. Inserisci il PIN al riparo da sguardi indiscreti.
Dipende dall’emittente. Alcune carte includono l’assicurazione contro l’annullamento del viaggio o l’assicurazione sanitaria per i viaggi all’estero, altre coprono i danni in caso di bagaglio perso o danneggiato. La carta di credito Cumulus offre una gamma particolarmente ampia di vantaggi: oltre a tutelarti in caso di imprevista interruzione del viaggio, l’assicurazione copre anche i costi di ricerca e salvataggio in caso d’incidente. Inoltre con la carta di credito Cumulus raccogli punti a ogni utilizzo – anche all’estero.
La carta di credito virtuale, cioè sullo smartphone, è meglio di quella fisica?
No. In generale la carta di credito fisica è il mezzo di pagamento migliore, soprattutto perché si può utilizzare anche per il prelievo di contanti. Con le carte di credito virtuali puoi prelevare solo dai bancomat senza contatto, che non sono ancora molto diffusi. Per il resto, tuttavia, la carta di credito sullo smartphone funziona esattamente come quella fisica.
Per prima cosa devi segnalarne lo smarrimento al più presto. Molte società emittenti hanno istituito un servizio di assistenza 24 ore su 24 per il blocco d’emergenza della carta. Di solito il numero di telefono corrispondente si trova sul retro della carta o sull’estratto conto. Prima di partire è utile annotarsi questo numero, così come quello della carta (ma non insieme!) Con molte carte di credito è possibile effettuare personalmente il blocco tramite una app su misura, accessibile via portale o tramite smartphone. La app per la carta di credito Cumulus è «one – la tua carta sempre sotto controllo».
Ammettiamolo, il digitale ci fa paura. Non appena sentiamo quei nomi – intelligenza artificiale, robot – ci prende l’ansia. Il timore che le «macchine» ci superino, ci assoggettino. Ogni film sul tema – da Metropolis di Fritz Lang a Terminator – ci parla di questi sacri terrori.
Per questo la mostra ora aperta a Lipsia, e curata da Richard Castelli, massimo esperto di Digital Art, è un evento da non mancare. «Volevo spiazzare il visitatore e mostrare come oggi l’arte digitale si muova su più piani, creando una grande, ibrida famiglia di posizioni artistiche», spiega Castelli.
Le enormi pareti della ex fabbrica di Lipsia sono tappezzate di megaschermi e video pieni zeppi di intelligentissimi Avatar
Non è un caso dunque se la mostra si intitola Dimensions e, sino al prossimo 9 luglio, espone in una vecchia fabbrica di macchinari a Lipsia, la Pittlerwerke, opere di 60 artisti. Un’occasione per abbattere le nostre «paure» e scoprire, in tutte le combinazioni e finezze ipertecnologiche le «dimensioni» dell’arte digitale. A partire dalle filigrane, quasi trasparenti sculture di luce e nylon di Ivana Franke, con cui apre la mostra a Lipsia.
«Mi interessava il rapporto fra logica matematica, algoritmi e figure nello spazio», spiega l’artista croata, presentandoci le sue delicatissime strutture di luce, create nei minimi dettagli geometrici al computer. C’è anche un riferimento «alle lucciole scomparse di cui parlava Pier Paolo Pasolini nelle mie opere», continua Franke. Opere che, come lucciole digitali, cambiano pelle e colore non appena ci spostiamo. Nel tentativo di toglierci le nostre fobie per l’arte «fat-
mostra il sottotitolo: Digital Art since 1859. È l’anno in cui Francois Willème allestì nel suo atelier 24 apparecchi fotografici, fotografando i suoi modelli da altrettante angolazioni per creare le sue incredibili foto-sculture. «In questo modo Willème è all’origine della nostra stampante digitale o del moderno 3D-Scan», dice orgoglioso Castelli. La mostra pullula di colonnine-smart. Alla base hanno un QR-Code da fotografare e, non appena piazzi il telefonino sul loro piedistallo, ecco comparire come per miracolo le «sculture digitali» sintetizzate da vari artisti (e tecnici). Sul mio cellulare ho conservato la
«statuetta digitale» di Francois Willème, con il suo lungo pizzo, i capelli lunghi e il giaccone da artista.
Nel così fluido universo Digital gli artisti rielaborano al computer non solo mille creature, video o avatar che siano, ma si divertono anche ad inventarsi strani «modelli scientifici» e stranissime «creature viventi». Come le meravigliose «Reverse Phylogenesis» che Golnaz Behrouznia & Dominque Peysson hanno riprogettato al computer costruendosi – con tanto di alambicchi e fialette polverose – tutto uno stupendo, oscuro laboratorio in cui vediamo muoversi «una evoluzione al contrario» di fantastiche meduse, insetti e fossili, tutte creature mai esistite ovviamente, ma decisamente esilaranti.
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Tasso occupazionale
80/100%
Requisiti
Data d’inizio
Da concordare
Formazione commerciale con specifiche nella contabilità (attestato federale o cantonale)
Esperienza di almeno 3 anni nell’ambito della contabilità
Padronanza nell’uso degli applicativi informatici e della suite Office 365
Buone conoscenze della lingua tedesca (almeno livello B2)
Spiccate capacità organizzative e di concentrazione
Buone doti comunicative e relazionali, attitudine al lavoro in team
Mansioni
È responsabile della contabilità nell’insieme del processo aziendale attribuito
Garantisce la qualità di registrazione dei documenti contabili
Cura i contatti con stakeholders per il settore di competenza.
Si attiva in prima persona in occasione di attività straordinarie e/o puntuali del dipartimento collaborando con colleghi e superiori e/o partner esterni
Esegue la contabilità utilizzando i processi e strumenti informatici in uso, proponendo e portando delle ottimizzazioni quando possibile
Le persone interessate sono invitate a compilare la loro candidatura in forma elettronica entro il 9.7.2023, collegandosi al sito www.migrosticino.ch (sezione «Lavora con noi»), includendo la scansione dei certificati d’uso.
Le enormi pareti della ex fabbrica di Lipsia sono tappezzate di mega-schermi e video pieni zeppi di intelligentissimi Avatar. Una delle più note artiste digital di Shangai, Lu Yang, ha riprogettato un’altra sé stessa, nel ruolo di fascinosa super-eroina (carica ovunque di sensori nel suo costumino nero-verde fosforescente, e ultra-aderente). Molto dissacranti poi le sue pseudo-anatomiche riconfigurazioni digitali del «cervello» e degli attributi di asiatiche divinità. Anche i video del nuovo trend Détournement sono in fondo delle delicate, raffinate parodie: si tratta di «girare al rovescio» le più classiche pellicole di Kung-fu, ma con dei sottotitoli di stampo politico o filosofico, come fa Hu Jieming nelle sue parodie di alcune serie cinesi. L’arte digitale, con tutte le sue tecnologie d’avanguardia, gioca spesso con effetti slow-motion o mimando le vecchie tecniche al rallenti. Nelle video-animazioni di Susanne Wagner compare l’artista stessa che, con una manovella in mano e un cavo, si illumina al ralenti come una madonna bavarese. In un suo altro video-trittico, un giovane scultore decostruisce un pezzo alla volta una scultura luminosa (di tubi al neon dai colori Mondrian).
Geniale anche Man at Work, una sorta di preistorico proiettore ricostruito da Julien Maire con tante pic-
cole diapositive (fatte ognuna a mano dall’artista) inserite su un traballante nastro di gomma. Sulla parete freme così un divertente «cinema-scultura» di un minatore, che ricorda i primi filmini in bianco e nero, ma rivisto in chiave digitale. Certo, i lavori più «spettacolari» sono quelli concentrati nella sezione dell’arte Robotica. Dove, con occhialini 3D sul naso, siamo risucchiati nei tunnel stereoscopici del video La Dispersion du Fils di Michel Bruyère. O incantati davanti ai suoni e alle luci di 3D Water Matrix, una vera fontana di luce sintetizzata da Shiro Takatani, sincronizzando cascate d’acqua e luci digitali. La meraviglia poi del digitale è la capacità «immersiva» delle nuove tecnologie: Sarah Kenderdine & Jeffrey Shaw sono riusciti a ri-programmare, senza timori né ritegno, nientemeno che il capolavoro della Vergine delle rocce di Leonardo. Basta un iPad, e nel loro spazio di 70 metri quadrati visualizziamo ogni millimetro delle grotte che Leonardo, nel suo dipinto, ha solo accennato.
Digital Art sta dunque per un’arte dissacrante, ironica, anche scioccante, che ci consente di re-inventare la storia dell’arte, implementare il nostro quotidiano, «aumentarne» le percezioni.
«Oggi dobbiamo trovare un equilibrio fra realtà e dimensioni digitali», spiega Castelli, «le varie forme di
Digital Art hanno già costruito intorno a noi un nuovo classicismo». Che si tratti di realtà «aumentata» al computer, di identità sempre più fluide degli artisti o di percezioni-potenziate, l’importante è perdere le paure di fronte al digitale. Ad esempio entrando negli spazi estremi e lasciandosi immergere nella «nebbia-digitale», che Kurt Hentschläger ha creato nella sua opera ZEE Ma la famiglia della Digital Art è così ampia che a Lipsia troviamo anche operazioni «mitologiche», come l’impressionante installazione Le Chemin de Damastès, in cui Jean Michel Bruyere ha allineato 21 lettini da camera operatoria, sincronizzati fra loro e con rumori scricchiolanti, ricostruendo con l’ausilio dei robot, la saga greca del letto «spezza-osse» di Procuste. E in fondo non stupisce che tutto questo mondo digitale si rianimi oggi in una ex fabbrica abbandonata a Lipsia. La città in cui è nato Leibniz, il filosofo che con i suoi elementi di logica binaria ha creato l’universo dell’informatica, in cui oggi tutti noi siamo immersi dalla testa ai piedi.
Dove e quando
DIMENSIONS – Digital Art since 1859, Lipsia, Pittlerwerke, fino al 9 luglio 2023.
Info: www.dimensions-digital-art.de; www.artpress-uteweingarten.de
Nell’approccio alla musica non sempre il pubblico si rende conto dell’apporto determinante svolto dai supporti organizzativi alla sua diffusione. Teatri, enti concertistici d’altronde appaiono appena profilati persino negli studi monografici nel delineamento della fortuna di grandi e piccoli compositori, il cui destino sarebbe impensabile senza quei canali attraverso i quali fu ed è possibile la comunicazione. Attenzione ancora minore è riservata alla componente editoriale, attiva fin dal Cinquecento, ma che almeno da due secoli si pone quale fattore di mediazione prioritario fra il compositore e la vita musicale. Si dà così il fatto che non solo le trattazioni storico musicali non ci illuminino sufficientemente sul ruolo delle case stampatrici di musica, ma persino le enciclopedie le cui schede informative su Breitkopf & Härtel, Bernhard Schott, Artaria, Durand, ecc. si limitano alla catalogazione senza indagare sui risvolti promozionali e sulla formazione del gusto legata al compito editoriale.
La presenza di Ricordi si sviluppò anche su altri due piani dello scacchiere musicale, quello della didattica e quello della musica di intrattenimento
Fra di esse quella che spicca è certamente Casa Ricordi. Nell’arco secolare della sua attività la vicenda del complesso editoriale milanese non solo si incrocia, ma si salda strettamente all’evoluzione musicale italiana costituendone parte integrante fin da quando il fondatore, Giovanni Ricordi (1785-1853), registrando il radicale cambiamento di gusto intervenuto nel secondo decennio del secolo, fece di Rossini l’autore guida della sua Casa presentandone nel catalogo del 1825 l’«opera completa» (in realtà si trattava di 19 opere). Da quel momento in poi le sorti del teatro musicale italiano si sposarono alle ragioni editoriali del complesso milanese che, riunendo nel suo catalogo i nomi degli autori più correnti (Vaccai, Pacini, Mercadante, Ricci, Meyerbeer ecc.), non mancherà di puntare con infallibilità sulle figure guida che avrebbero determinato i momenti risolutivi dello sviluppo estetico di quel filone fino ai decenni più vicini a noi, attraverso Bellini, Donizetti, Verdi e Puccini.
La presenza di Ricordi si sviluppò inoltre anche su altri due piani dello scacchiere musicale: quello della didattica, consacrato fin dal primo catalogo dove egli si definiva «Editore dell’Imperial Regio Conservatorio di Musica di Milano» introducendo i trattati e i metodi di Asioli e Pollini capostipiti di una vasta produzione che fino a oggi ha costituito il passaggio obbligato per tutti gli studenti di musica dell’area culturale italiana. E quello della musica di intrattenimento che, attraverso la produzione da salotto, per banda, le canzonette napoletane e la moderna musica leg-
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gera nella sua versione discografica, mostrano la capacità dell’imprenditore di occupare tutti gli spazi dell’espressione musicale garantendosi un ruolo che fu sempre di protagonista.
Il fascino di Casa Ricordi è rimasto tuttavia consacrato dalla capacità di coniugare senza contraccolpi di sorta e grazie a uno straordinario equilibrio delle scelte i valori culturali con le ragioni imprenditoriali. Scelta evidente soprattutto nel momento in cui Giovanni, accogliendo una proposta avanzata dal figlio Tito (18111888), nel 1842 diede vita alla «Gazzetta Musicale di Milano», non già intesa come organo della ditta, ma come vera e propria rivista musicale che, pur adempiendo la funzione di sostegno alla linea editoriale, svolgeva compiti informativi su vasta scala. Guadagnandosi un merito soprattutto nell’intenzione di sottrarre la musica alla condizione di discriminazione e di subordinazione di cui aveva sempre sofferto nella società e nella cultura italiane. D’altra parte, tale risultato non poteva mancare in un editore che Liszt aveva definito «il ministro residente della repubblica musicale, il salus infirmorum, il refugium peccatorum, la provvidenza dei musicisti erranti come me». Francesco Degrada ha evidenziato tale aspetto politico-diplomatico, attribuendo all’azione di Giulio Ricordi (1840-1912) «la capacità, non meno che straordinaria, di mediare ciò che a prima vista appariva contraddittorio e incompatibile, l’eredità risorgimentale e i fermenti della cultura della nuova Italia, il nazionalismo e l’internazionalismo, la tradizione e il rinnovamento, il melodramma e il dramma musicale e, last but not least, gli interessi dell’arte e quelli del profitto».
A Giulio, in particolare, va il merito non solo di aver fiutato, con Ver-
Redazione Carlo Silini (redattore responsabile)
Simona Sala
Barbara Manzoni
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Natascha Fioretti Ivan Leoni
di e Puccini, da che parte avrebbe tirato il vento, ma di aver fondato con quei grandi autori un sodalizio che al di là dell’amicizia lo vedeva coinvolto come consigliere dall’intuito sottile e lungimirante. Sua rimane l’iniziativa della riappacificazione tra Verdi e Boito e la gestione di un rapporto fra i più complessi che fruttò la seconda versione di Simon Boccanegra, l’Otello e il Falstaff, mentre con Puccini il rapporto maturerà fino al punto di «interferire» nel lavoro di composizione vera e propria, (come dimostra soprattutto la lettera del 10 ottobre 1899 a proposito della prima versione di Tosca) e addirittura nella vita privata sentimentalmente movimentata del musicista, più di una volta richiamato dal paterno editore ai doveri di una grandezza artistica a cui le distrazioni sarebbero state fatali.
Certo, Casa Ricordi mancò alcuni bersagli, primo fra tutti la scuola verista. Pure il periodo postpucciniano fino al quinto decennio del secolo scorso segna un momento di stasi in cui è mancata la capacità di individuare le forze realmente emergenti: nel catalogo di quegli anni Dallapiccola vi è estraneo, mentre figure quali Casella, Malipiero, Petrassi vi compaiono solo marginalmente. Successivamente, recuperando le personalità italiane d’avanguardia impostesi internazionalmente (Luigi Nono, Bruno Maderna, Sylvano Bussotti, ecc.), Casa Ricordi è ridiventata punto di riferimento per le generazioni a venire, non solo avviando una colossale opera di sistemazione del suo patrimonio storico (l’edizione critica delle opere di Rossini e di Verdi in particolare), ma aprendo le porte agli esponenti dei nuovissimi e più giovani compositori (Ferrero, Vacchi, Guarneri, Maggi, ecc.) con la riscoperta del ruolo propulsore legato fin dall’origine alla sua lunga vicenda.
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Il mondo dell’informazione cartacea ha subìto forti cambiamenti con l’impatto digitale e l’ingresso della rete nell’uso comune. Un processo che ha fortemente condizionato il ruolo della stampa modificando lo spazio per la cultura dove il teatro sembra soffrirne maggiormente. In particolare per quanto riguarda la critica, la sua dimensione dialettica. Il processo deve fare i conti con le abitudini dei lettori ma anche e soprattutto con i mezzi a disposizione. Il web ha così soppiantato zone di interesse settoriale come lo specifico teatrale che ai più ora appare obsoleto e marginale. Fanno eccezione pochi casi di resilienza dove la continuità e la qualità dei contenuti permettono ancora la sopravvivenza di piccole aree protette. La critica teatrale è in via d’estinzione? A sua difesa c’è chi ama ricordare che il teatro per più di 2500 anni ha accompagnato l’evoluzione della civiltà offrendo una visione variata e articolata della realtà, aperta a giudizi, riflessioni e discussioni. Dinamiche che hanno contribuito a creare le istituzioni democratiche ponendo le basi del tessuto sociale. Ritroviamo questi concetti alla base di un saggio di Giulia Alonzo e Oliviero Ponte di Pino (Dioniso e la nuvola, L’informazione e la critica teatrale in rete: nuovi sguardi, nuove forme, nuovi pubblici, Franco Angeli) dove l’analisi della crisi della critica teatrale si riconduce all’impatto della rete sui consumi culturali con un excursus fra l’evoluzione delle arti e la percezione del pubblico che, come annotava Tullio De Mauro, ha portato a un neo-analfabetismo fisiologico nei paesi industriali e di alto livello consumistico. In altre parole, l’esuberanza tecnologica cannibalizza il ruolo dell’esperto lasciando libero il campo «alla dittatura del mouse».
Fra gli esempi più emblematici, il saggio cita la gigantesca libreria di Amazon. Agli inizi del suo percorso impiegava decine di critici e redattori per le recensioni proponendo nuovi titoli e offerte sulle sue pagine web. Presto però i redattori umani scomparvero lasciando il posto agli stessi clienti del negozio online. Un’intuizione di Jeff Bezos che ha anticipato la realtà, dove sono gli stessi consumatori che, da dilettanti o eventuali falsari, diventano la concorrenza. Una situazione analoga che i critici dell’era web 2.0 devono
affrontare fra piattaforme social, chat, algoritmi e big data. Sulla base delle scelte del pubblico nasce inevitabilmente un robot critico al servizio del mercato, dove la cultura è una merce da analizzare dal punto di vista economico. A farne le spese è in particolare il critico teatrale, una figura professionale spuria, ormai scesa a compromessi, che deve considerare lo spazio critico una rarità laddove la nascita dei blog non è già un terreno (gratuito) di mediazione culturale.
Non mancano pubblicazioni utili per ampliare gli orizzonti degli spettatori e quello degli addetti ai lavori. Ne è un bell’esempio L’arte di guardare gli attori (Marsilio) di Claudio Vicentini, una sorta di un manuale per lo spettatore. Storico del teatro e autore di numerosi saggi, oltre a inquadrare le tecniche recitative e gli stili attraverso l’impiego di oggetti, del trucco, di azioni fra cliché e tensioni emotive, Vicentini adotta una scrittura semplice e piacevolmente scorrevole. Una narrativa insolita per un manuale ed efficace nel fornire strumenti utili per la lettura di uno spettacolo. L’autore distribuisce le varie voci accompagnandole con esempi per riconoscere l’efficacia di una recitazione. Da Eduardo a Totò, da Sordi a Gassman ma anche Paul Newman, Marlon Brando, Al Pacino e De Niro, dal cinema al teatro alla tivù, le pagine contengono preziose indicazioni per riconoscere il valore della recitazione in relazione a diverse situazioni. Secondo Vicentini, un primo espediente, è quello di osservare come l’attore utilizza lo spazio e quale rapporto instaura con gli oggetti. Non a caso una delle scene predilette in assoluto è l’esplosione di una crisi fra una coppia perché scatena le emozioni del pubblico. Un capolavoro, illustra Vicentini, è il celebre inizio di Filumena Marturano di Eduardo in cui sono già successe cose che lo spettatore scoprirà man mano. In questo senso la rappresentazione teatrale è una sorta di battaglia tra l’attore e l’attenzione del pubblico. Il saggio esplora decine di esempi, uno più intrigante dell’altro, dal teatro dell’800 ai giorni nostri, dai grandi maestri ai mattatori della scena, dal fingere all’imitare, dall’uso della voce, del corpo e del ritmo alla costruzione dei dialoghi con l’immagine del palcoscenico: un campo di gioco dove la vittoria si conquista ogni volta.
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Grazie al sostegno del Cantone tramite il Dipartimento sanità e socialità e, più particolarmente, grazie al Programma d’azione cantonale (PAC) e a Promozione Salute Svizzera, offriamo un ventaglio di offerte di movimento durante l’estate.
Le attività spaziano dalla ginnastica all’aperto, nordic walking, danze popolari, acqua-gym al lago (Lido di Lugano), Pilates, Tai Chi e Qi gong. Esse hanno luogo nel luganese, mendrisiotto, Bellinzonese, Locarnese e nel Moesano, per un totale di 20 gruppi.
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Cinema ◆ Il documentario The Fire Within è un inno alla meraviglia
Nicola FalcinellaIl cinema di Werner Herzog, uno dei più grandi cineasti dei nostri giorni, è fatto di ossessioni e di desiderio di spingersi oltre i limiti. Tra i suoi chiodi fissi ci sono i vulcani, cui aveva già dedicato il breve La Soufrière nel 1977 e Into the Inferno nel 2016. Il primo racconta di un’eruzione mai avvenuta, quando gli scienziati rilevarono un’attività minacciosa dell’omonima montagna di Guadalupa e fecero sfollare l’isola, tranne un contadino che rifiutò di eseguire l’ordine. Attratto da questa scelta sconsiderata, Herzog si precipitò per filmarlo con gli operatori Ed Lachman e Jörg Schmidt-Reitwein.
«La lava esprime la rabbia del diavolo» si dice, e forse la frase contiene una parte della fascinazione di Herzog per questi fenomeni geologici
Il secondo film segue il lavoro del vulcanologo Clive Oppenheimer, viaggiando per il mondo a visitare le eruzioni in corso o i vulcani in attività o oggetto particolare di studio, tra Indonesia, Guadalupa, Dancalia (con una digressione sulle origini dell’uomo) e Islanda, sospeso tra la paura e la meraviglia, fino alla Corea del Nord.
«La lava esprime la rabbia del diavolo» si dice, e forse la frase contiene una parte della fascinazione di Herzog per questi fenomeni geologici. Il film contiene immagini spettacolari della lava, delle eruzioni, delle profondità dei camini, ma anche i danni e il terrore: la visione del regista è ancora di una natura potente e non benigna.
In quest’opera Herzog usava spezzoni di immagini realizzati dai francesi Katia e Maurice Krafft, cui ha dedicato il suo ultimo lavoro, il bellissimo The Fire Within: A Requiem for Katia and Maurice Krafft, vincitore della Genziana d’oro quale miglior film di esplorazione o avventura al recente Trento Film Festival. Cu-
riosamente lo scorso anno allo stesso festival il premio del pubblico andò a Fire of Love di Sara Dosa (che ottenne anche una nomination all’Oscar come migliore documentario), realizzato a partire dagli stessi filmati e fotografie prodotti dai Krafft nel corso delle loro esplorazioni. Si tratta di due lungometraggi di grande valore e molto diversi tra loro, il cui confronto vale una lezione di cinema su cosa significhino lo sguardo di un regista, un punto di vista, la capacità di scegliere i materiali e l’abilità nel montaggio creativo.
I due scienziati si conobbero da studenti universitari nel 1966 in Alsazia, si sposarono presto, decisero di non avere figli e di dedicare l’intera loro vita allo studio ravvicinato dei vulcani, cominciando con l’avventuroso viaggio di nozze in Islanda. Insieme esplorarono Etna e Stromboli (che per loro furono una rivelazione e un banco di prova), il Niyragongo, il Sant’Elena o il colombiano Nevado del Ruiz, assistendo anche a eruzioni grandiose quanto devastanti. I Krafft tenevano molto a documentare con immagini e testi i loro viaggi e le loro missioni (pubblicarono diversi libri e parteciparono a molte trasmissioni televisive), raccogliendo decine di ore di riprese in 16mm prive di sonoro.
Sara Dosa, una delle documentariste più in ascesa del panorama statunitense, è stata colpita dalla vicenda personale e amorosa dei due
Morirono insieme il 3 giugno 1991 in Giappone, travolti dall’eruzione dell’Unzen, letteralmente a un passo l’uno dall’altra. I loro filmati sono stati raccolti in un archivio a disposizione dei ricercatori e registi interessati.
Sara Dosa, una delle documentariste più in ascesa del panorama statunitense, è stata colpita dalla vicenda personale e amorosa dei due,
e ha posto l’accento su questo aspetto totalizzante delle loro vite e ne ha tratto quasi un melodramma fiammeggiante, come del resto suggerisce il titolo Fire of Love, dai plurimi significati e che racchiude le diverse componenti della storia. Attraverso i loro occhi e le loro parole, la regista ricostruisce due vite piene, intense, inseparabili, alimentate dall’amore e dal comune lavoro di ricerca, superando le coordinate e i confini del documentario con un film sentimentale, esaltante e struggente, su un amore totalizzante e vissuto fino in fondo, senza trascurare gli aspetti scientifici.
The Fire Within è un altro affascinante tassello della sua scoperta della natura, maestosa e distruttiva allo stesso tempo
Herzog trova, nello stesso archivio di immagini, uno spunto molto herzoghiano nel porsi sogni che sembrano impossibili, nel superare difficoltà estreme e nell’affrontare condizioni oltre i limiti che fanno tornare alla mente i suoi Fitzcarraldo e Grizzly Man. È questo ad averlo attratto dei due scienziati con «il fuoco dentro», unitissimi nell’affrontare 25 anni di viaggi e osservazioni estreme.
The Fire Within è un altro affascinante tassello della sua scoperta della natura, maestosa e distruttiva allo stesso tempo, tra l’estasi e la paura. Con la sua voce narrante e musiche sempre pertinenti, Herzog alza un inno alla meraviglia del nostro pianeta, un invito all’incanto e una presa di consapevolezza dei suoi aspetti terribili: ci si può ritrovare qualcosa del Terrence Malick di Voyage of Time (2016). Il grande regista tedesco dice che avrebbe voluto accompagnare i Krafft nelle loro esplorazioni, stare al loro fianco nell’arrivare tra i primi nei pressi di vulcani in eruzione e fa intendere che forse avrebbe voluto essere al loro posto in quel finale che lascia senza parole.
Creativ Center – Telefono 091 912 17 17
Avete voglia di andare in vacanza? Ci sono ancora posti liberi per i seguenti soggiorni:
– Torre Pedrera di Rimini, 30 luglio - 9 agosto 2023
– Gabicce Mare, 4 - 14 settembre 2023
– Fano, 27 agosto - 4 settembre 2023
– Montegrotto Terme, 15 - 24 ottobre 2023
Il programma nel dettaglio è consultabile sul sito www.prosenectute.org oppure ottenibile, su richiesta, in forma cartacea rivolgendosi al segretariato.
Per informazioni e iscrizioni:
Creativ Center – Telefono 091 912 17 17 creativ.center@prosenectute.org
Siamo costantemente alla ricerca di persone che si mettono a disposizione a titolo di volontariato per i vari ambiti della Fondazione e in tutte le regioni del Cantone.
Pro Senectute Ticino e Moesano
Via Vanoni 8/10, 6904 Lugano
Tel. 091 912 17 17 – info@prosenectute.org
Le nostre sedi regionali si trovano anche a: Balerna, Bellinzona, Biasca e Muralto
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«Il prossimo 22 novembre la nostra azienda compie cento anni. Vi rendete conto? Sono cento anni che la nostra Chiodo scaccia Chiodo fabbrica chiodi, milioni, miliardi di chiodi. Vogliamo fare qualcosa per festeggiare l’evento?».
La domanda del quarantenne Filippo, il più anziano dei tre nipoti, coglie di sorpresa nonna Gemma che a 94 anni quasi compiuti ritiene che non sia ancora giunto il momento di lasciare le redini dell’azienda a lui e agli altri due nipoti, Andrea (37 anni) e Roberto (34 anni). Quest’ultimo mal sopporta la regola che lo condanna a essere subalterno al fratello primogenito e da lui sospetta sempre tranelli: «Se ci hai convocati apposta significa che hai qualcosa in mente. Avanti, sputa il rospo!»
Filippo: «A suo tempo. Prima voglio sentire cosa ne pensate voi».
Nonna Gemma: «A me sembra una
grande idea. Affittiamo la palazzina di caccia dei Savoia a Stupinigi e organizziamo un gran ballo con dame e cavalieri travestiti da chiodi e lo mandiamo in streaming sul nostro sito».
Roberto ostenta il suo scetticismo: «Non mi risulta che quando la Chiodo scaccia Chiodo compì 50 anni si siano fatte così tante feste.»
Nonna Gemma, piccata: «Tu non eri ancora nato e neanche i tuoi fratelli.
Ma quel 22 novembre 1973, il giorno in cui la nostra ditta tagliava il traguardo dei 50 anni, il governo Rumor firmò il decreto che imponeva l’austerità, con il risparmio dell’energia, il blocco alla circolazione. La gente, non potendo prendere l’auto, per far trascorrere il tempo, piantava chiodi dal mattino alla sera».
Filippo riprende le fila: «Il chiodo è uno dei pochi oggetti rimasti inalterati nel tempo e che continua a essere richiesto.»
Andrea, che finora ha taciuto, è l’intellettuale della famiglia: «Organizziamo un bel convegno sul chiodo nella storia d’Italia, frequentabile anche da remoto. Sono sicuro che nelle nostre università troviamo, oltre che storici, anche docenti di sociologia del chiodo e autori di ricerche sul fantasma del chiodo in psicanalisi. Poi pubblichiamo gli atti del convegno e li mettiamo in rete».
Filippo stronca l’entusiasmo del secondogenito: «Già che ci siamo, perché non dedichiamo il convegno al tema del chiodo nella storia dell’umanità?».
Roberto rientra in gioco: «Lascia perdere internet. Ho io l’idea vincente. Lanciamo la collezione dei chiodi che hanno avuto un ruolo determinante nella vita dei personaggi famosi».
«Per esempio?» domanda Filippo. «Che so, provo a inventare. Il chiodo
Come ogni anno, l’arrivo dell’estate inaugura una stagione di grandi promesse per ogni appassionato di musica pop-rock – ovvero, il periodo dei grandi festival all’aperto, manifestazioni della durata di più giorni i cui fittissimi cartelloni vedono esibirsi un artista dopo l’altro davanti a vere e proprie folle oceaniche; e quest’anno, le maggiori manifestazioni in territorio svizzero appaiono particolarmente spettacolari – come nel caso dello Zürich Openair, che può contare su nomi del calibro delle popolari band dei The Killers e Florence + The Machine, o l’ormai celeberrimo Moon and Stars locarnese, stavolta responsabile della calata sul Ticino, tra gli altri, di One Republic e Tom Odell.
Questo porterebbe istintivamente ad affermare che eventi come questi, in grado di richiamare ogni estate svariate migliaia di spettatori nelle lo-
dove s’impiglia il costume di Maria Callas quando sta per cantare Casta Diva, quello usato da Silvio Pellico per graffiare un appello sul muro della sua cella allo Spielberg, il chiodo portafortuna che Napoleone chiese di portare con sé nell’isola di Sant’Elena».
Filippo è tentato dalla proposta ma ha qualche obiezione: «Non è un’idea malvagia… I chiodi della collezione li produrremmo noi. Ma come farai a dimostrare che quello è proprio il chiodo portafortuna di Napoleone?»
«Credi forse che quando un tifoso compra la maglia di Ronaldo venduta in migliaia di esemplari si domandi se quella maglia in particolare sia stata veramente indossata?»
Andrea, l’intellettuale, entra in campo: «In effetti, nel capolavoro del Manzoni la parola chiodo compare ben cinque volte senza contare che c’è anche un personaggio che fa di co-
gnome Chiodo, è il chirurgo che don Rodrigo manda a chiamare quando scopre di avere i primi sintomi della peste, ma il Griso invece del Chiodo fa arrivare i monatti che lo portano via prima che infetti gli altri».
Filippo è ormai convinto: «Se è così, si potrebbe quasi tentare… Ne parlerebbero tutti, magari ci chiamano in qualche talk show in televisione». Per fortuna c’è nonna Gemma in grado di riportare i nipoti alla realtà: «Così facendo attiriamo l’attenzione della Guardia di Finanza e di qualcuno che ci vuole comprare dopo averci messi al tappeto con la complicità delle banche. I nostri operai pretenderebbero un aumento della paga. Meglio lasciar perdere. Anzi, se date retta a me, correggiamo il nostro anno di nascita, passiamo dal 1923 al 1933. A nessuno viene in mente di festeggiare un’azienda che compie novant’anni».
calità interessate, possano considerarsi una benedizione per turismo ed economia locale; eppure, negli ultimi anni, complice la diffusione capillare del pensiero «green» e una rinnovata consapevolezza nei riguardi di tematiche legate alla sostenibilità e al cambiamento climatico, gli open air festival hanno cominciato a essere visti come fonte di molteplici controversie e problemi che, agli occhi di molti, superano ampiamente i vantaggi.
In realtà, anche in passato le grandi manifestazioni musicali sono state sovente messe sotto processo, principalmente per via dei rischi legati alla presenza delle enormi folle che tali eventi richiamano; chi non ricorda la tragedia del festival danese di Roskilde (2000), quando ben nove spettatori perirono schiacciati nella calca? Oggi, naturalmente, al terrore atavico che ogni tipo di as-
sembramento suscita nella mente di molti (incluse le autorità incaricate di mantenere ordine e sicurezza) si aggiungono gli effetti dell’esperienza pandemica, responsabile di aver acuito la diffidenza dell’opinione pubblica bollando qualsiasi contesto di overcrowding come possibile veicolo di contagio; e neppure il fatto che i festival estivi si svolgano all’aperto ha impedito l’insorgere di nuove critiche, stavolta legate proprio agli scenari prescelti per le varie manifestazioni.
Così, se le enormi quantità di spazzatura non biodegradabile (soprattutto plastiche) che ogni evento outdoor si lascia alle spalle danno agli ecologisti più di qualche grattacapo, la «scia di devastazione» del post-festival comprende ben altro: oltre ad altissimi consumi energetici e innumerevoli problemi logistici (traffico automobilistico fuori controllo e for-
ti disagi per i residenti locali), le conseguenze del passaggio di migliaia di persone, accampate per giorni interi su prati inermi, comportano anche danni alla flora e fauna locali, inclusi inquinamento acustico e la produzione di scorie spesso difficili a smaltirsi. E questo, naturalmente, senza tener conto dell’enorme dispendio di denaro e risorse che, sempre più spesso, viene vanificato da episodi di prolungato o violento maltempo, davanti ai quali gli organizzatori sono totalmente inermi.
Eppure, al di là di tutte queste ampiamente giustificabili considerazioni, non si può negare che i grandi festival rock all’aperto costituiscano, ormai da decenni, elemento vivo e pulsante della nostra cultura popolare: fin dai tempi della leggendaria «tre giorni di pace e musica» di Woodstock, l’immaginario collettivo ha avuto grande riguardo per simi-
li occasioni – in cui, forse con un po’ di ingenuità, si immagina che l’atto di riunirsi in gran numero in nome dell’arte musicale, da sempre in grado di unire le masse, possa creare una sorta di «egregoro» tale da trasmettere positività e benessere; e magari, perché no, perfino cambiare il mondo.
Alla luce di tutto ciò, il provvedimento più auspicabile consisterebbe forse nel ricercare nuove vie per aggirare quegli ostacoli pratici che, all’interno del contesto e delle sensibilità odierne, rendono tali dinamiche di aggregazione poco sostenibili – così da non cadere nel facile inganno di ignorare il cosiddetto «fattore umano» e le sue innate necessità; ricordandoci come, per molti di noi, beneficiare del liberatorio atto di unione rappresentato dalla grande musica dal vivo sia, ancor oggi, davvero importante.
Nella primavera del 1635 alla pittrice Giovanna Garzoni venne chiesto di eseguire il ritratto in miniatura di un principe africano. Nata in una famiglia di raffinati artigiani (il nonno materno era orefice, lo zio pittore), che le aveva offerto la possibilità di apprendere il mestiere della pittura, nonché il privilegio – raro per una donna del XVII secolo – di formarsi una cultura, studiando musica, poesia, calligrafia, è oggi apprezzata soprattutto per il realismo delle sue nature morte. Stupefacente per noi, ma necessario in età barocca, quando la meraviglia per l’imitazione della natura e la capacità di ingannare l’occhio erano i presupposti stessi di quella pittura. Dipingeva fiori, frutta, stoviglie, insetti, animali, con uno spiccato naturalismo che tradiva un gusto quasi scientifico per la verità delle cose. I suoi quadri, piccoli, facili da esporre e da trasportare, ave-
vano molto mercato, tanto che poteva stabilirne il prezzo lei stessa. Garzoni era nata ad Ascoli Piceno, nelle Marche, da genitori veneziani; aveva soggiornato a Venezia, Napoli e Roma, ma dal 1632 viveva a Torino, dove la duchessa Cristina di Francia l’aveva invitata alla corte dei Savoia, per eseguire ritratti e miniature di soggetto sacro e profano. Fu a Torino che dipinse la prima natura morta (un piatto di ceramica con frutti) – il genere che le avrebbe dato la fama. Il principe però non era una ciliegia, una conchiglia, una cosa inanimata. Zaga Christos – ovvero Sägga Kr stos – era misteriosamente apparso al consolato veneziano del Cairo nel 1632. Pretendeva di essere il figlio dell’imperatore d’Etiopia, il grande regno cristiano d’Africa. Assassinati il padre Clarso Yaqub (che si vantava di discendere da Salomone e dalla regina di Saba) e il fratello maggiore
dall’imperatore rivale Susenyos, era fuggito – scampando ai mercenari stranieri che lo braccavano – nel regno musulmano del Sudan, dove era stato bene accolto (finché, per evitare il matrimonio con la figlia del sultano, che implicava la sua conversione all’Islam, era dovuto fuggire ancora). Passando dal Darfur, attraverso il deserto era approdato in Egitto. Dopo un pellegrinaggio a Gerusalemme e innumerevoli peripezie si rifugiò in Italia. Garantivano per lui i monaci francescani e Marco Lombardo, un nobile veneziano che, catturato giovanissimo dai turchi, si era convertito all’Islam, aveva guerreggiato per il pascià d’Egitto e infine era riuscito a tornare al servizio della Serenissima.
Zaga Christos era insieme un esule dall’identità dubbia e un pretendente all’impero – pericoloso perché edotto degli intrighi dei gesuiti
che avevano alimentato, e a suo dire scatenato, la guerra civile in Etiopia. Ricevuto con grandi onori nel regno di Napoli, arrivò a Roma nel 1633, coccolato dal giovane cardinale Antonio Barberini, nipote del papa, e dal papa stesso, Urbano VIII. Gli chiesero di scrivere la sua storia, per verificare il suo racconto, così che quella di Zaga Christos è la prima autobiografia di un africano. La cronologia si rivelò erronea, l’assenza di riscontri insormontabile. Ma l’autore era colto e di nobile origine, e tanto bastò a dargli credito. Lo misero sotto l’occhiuta protezione dei francescani, rivali dei gesuiti, nei loro conventi – prima in San Francesco a Ripa, a Trastevere, poi alle pendici del Gianicolo.
Come testimoniano altri ritratti, sculture e disegni, Zaga Christos non fu l’unico africano del XVII secolo a essere accolto da papi e prin-
cipi. L’inferiorità della sua razza non era stata ancora teorizzata, benché sul «nero» si addensassero già le ombre. Zaga Christos era comunque molto religioso, perfino mistico, giovane, bello e appassionato. A Roma s’innamorò, ricambiato, di una clarissa del convento francescano di San Cosimato a Trastevere, Caterina Massimi. Peccato mortale ma assai diffuso, poiché nei conventi, cui si accedeva versando una dote cospicua, finivano le figlie eccedenti dell’aristocrazia, spesso belle e inquiete: Caterina, che apparteneva a una delle più potenti famiglie romane, era degna dell’amore di un principe. Ma dopo nove mesi, nel novembre del 1633, Zaga fu costretto ad abbandonarla, perché il papa lo rimandava in Etiopia, dove sperava di insediarlo sul trono. Disperati, i due si scambiarono per anni torride lettere scritte col sangue. (– Continua)
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