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MONDO MIGROS
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SOCIETÀ
Il ritorno al vinile di standard molto alto è stato possibile solo grazie alla rivoluzione digitale
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TEMPO LIBERO
Il ticinese Elia Colombo, atleta di windsurf e quadro di Swiss Sailing, punta alle olimpiadi di Parigi
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Aperti i giochi per la successione di Berset, ci si interroga sul futuro della «formula magica» elvetica
ATTUALITÀ Pagina 19
Venditori di morte nei boschi
CULTURA
Le opere femministe dell’artista svizzera Manon sono protagoniste di una mostra a Casa Ciseri
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Musica che divide
Simona Sala
Sere d’estate, in Francia. A poche manciate di chilometri l’una dall’altra si rincorrono due notizie, entrambe legate alla musica, entrambe legate ad artisti italiani. Il quotidiano francese «Nice Matin» annuncia l’imminente concerto di Ludovico Einaudi a Juan-les-Pins, in occasione della 62esima edizione di Jazz à Juan. Sempre «Nice Matin» riporta anche di come dodici associazioni riunite nel collettivo Touscitoyens06 si siano rivolte al sindaco di Nizza
Christian Estrosi e al direttore dell’Opéra Bertrand Rossi per annullare l’invito a un’altra italiana, quella Beatrice Venezi chiamata a dirigere il concerto di Capodanno nella città affacciata sul Mediterraneo.
Ludovico Einaudi, il suo concerto, l’ha fatto, con le note che per una notte si sono rincorse a ridosso del Golfo, facendo da eco all’esistenzialismo scarno di Keith Jarrett, e giocando al contempo con i rimandi a Piazzolla. Con la sua ritrosia
tutta piemontese, con la grazia e la tranquillità della sua esecuzione, il pianista ha confermato le sensibili scelte fatte in questi anni, contraddistinte da quel desiderio mai sopito di rendere il mondo un posto migliore, fosse anche solo per una persona. Non stupisce che abbia composto Elegy for the Arctic e l’abbia eseguita nel Mar Glaciale Artico dunque, che abbia composto, oltre che per il cinema, anche per Greenpeace, che si occupi dei ghiacciai e che si impegni per sensibilizzare sulla sorte del popolo iraniano.
Anche Beatrice Venezi, il suo, lo farà, così si è deciso a Nizza e così ha preteso lei. «Miserabili», ha definito i suoi contestatori, che la accusano di essere fascista probabilmente in virtù del padre Gabriele, ex dirigente di Forza Nuova e del fatto di avere eseguito a Lucca l’Inno a Roma di Puccini, liquidando con una scrollata di spalle chi le ricordava come nel frattempo la composizione sia stata anche l’inno dell’MSI. E forse i francesi
nemmeno sapevano che la direttrice d’orchestra (che vuole essere chiamata «Direttore») è anche la consigliera del ministro della Cultura italiana Gennaro Sangiuliano, reduce da un’ospitata al Premio Strega dove lo si è visto annaspare per una domanda scomoda di Geppi Gucciari.
La Venezi però non si è limitata a chiamare «miserabili» i contestatori, ma li ha definiti delle «teste di c.», spronando i propri follower a palesarsi in suo sostegno. Subito, in Italia, ci si è prodigati a difendere l’indiscusso talento di Beatrice Venezi, tirando in ballo, oltre alla giusta libertà d’espressione, anche i nocivi eccessi di political correctness e cancel culture (anche se non è chiaro cosa c’entri qui) tipici della nostra era. Nessuno, però, nemmeno per un istante, si è chiesto dove siano finiti il valore universale della musica e la sua forza intrinseca nell’unire gli individui intimamente, se una professionista abituata a maneggiare – con indubbia competenza
– i mostri sacri della musica, liquidi chi le contesta un’appartenenza ideologica più significativa di quanto lei (e molti in Italia) voglia ammettere, con un volgare insulto?
Probabilmente negli anni Vittorio Sgarbi (e di nuovo, la competenza non si tocca) ha fatto scuola, e quell’insulto elargito con generosità, quello sbeffeggio di chi la pensa diversamente, è diventato moneta di scambio tra chi intende la propria visione delle cose come unica possibile. E quindi, tra un Einaudi e una Venezi e il loro rapporto con il mondo che li circonda, vi sono anni luce, e, paradossalmente, se il primo resta pressoché inascoltato nei suoi gentili appelli per la salvaguardia della natura, la seconda, difesa da molti media, forse rappresenta al meglio l’epoca in cui viviamo, che, per stare al passo con i tempi, riesce nell’intento di trasformare anche la musica in «entità divisiva», scavando abissi e alzando muri.
Settimanale di informazione e cultura Anno LXXXVI 24 luglio 2023 Cooperativa Migros Ticino
◆ ● G.A.A. 6592 San t’Antonino
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Andrea Galli Pagina 23 VareseNews
Nuova veste per Cassarate
Info Migros ◆ Una filiale moderna e sostenibile
Riprende le attività questo giovedì, 27 luglio 2023, completamente rinnovato, il punto vendita Migros Cassarate di Viale Castagnola 21F a Lugano. Per l’occasione un mese di sconti, omaggi e sorprese, grande concorso e animazione per i bambini. Dopo alcune parziali migliorie negli anni, questo apprezzato punto vendita del Luganese aveva bisogno di un radicale lifting per restare al passo con i tempi. Con l’intervento iniziato lo scorso 20 aprile si è dunque deciso di fare un ulteriore significativo passo avanti nel rinnovo della rete di vendita di Migros Ticino. L’investimento totale per questo importante esercizio di quartiere è stato di 4.3 milioni di franchi. I lavori hanno tenuto conto degli ambiziosi obiettivi di sostenibilità e risparmio energetico fissati dalla Cooperativa. Le strutture, interamente ammodernate e all’avanguardia, sono ora caratterizzate dai più alti e innovativi standard Migros. Il vecchio riscaldamento a nafta è stato abbandonato in favore di un moderno ed ecologico sistema, che combinerà il freddo commerciale a riscaldamento e climatizzazione, recuperando calore dai frigoriferi a gas naturale CO2 di ultima generazione. Anche il nuovo impianto d’illuminazione LED a basso consumo e le etichette elettroniche giocheranno in favore dell’ambiente. Il supermercato, in grado di servire comodamente tutta la popolazione di Cassarate e dintorni, i numerosi turisti che frequentano la zona e gli avventori in transito, si presenta ora nuovo
fiammante, con una superficie di vendita di circa 750 metri quadrati. Esso si situa su un’importante arteria viaria della Città di Lugano, ed è facilmente raggiungibile sia con i mezzi pubblici (la fermata del bus è proprio di fronte) sia in auto, disponendo di una buona quantità di posteggi. Anche l’accessibilità al punto vendita è stata ripensata e migliorata: due nuovi e moderni ascensori panoramici affiancheranno la già presente scala mobile, facilitando la raggiungibilità del piano inferiore.
Assortimento di Migros Cassarate
Gli avventori avranno la possibilità di fare rapidi acquisti, così come una spesa quotidiana o settimanale più completa. L’offerta di prodotti alimentari si è focalizzata sul fresco e sull’ultra fresco, con il fiore all’occhiello rappresentato dal curato reparto frutta e verdura di nuova concezione. Molto fornito sarà anche il reparto non alimentare, che spazierà dai numerosi articoli per la casa fino ad arrivare all’area della cosmetica. Ben rappresentati saranno gli assortimenti Migros Bio e Nostrani del Ticino, affiancati da una buona selezione di altri prodotti a valore aggiunto. Il punto vendita sarà dotato di due casse tradizionali e, per chi invece va un po’ più di fretta, di tre comode e veloci casse subito per il self checkout: sarà disponibile pure il servizio subitoGo. Completerà l’offerta di que-
sto rinnovato punto vendita Migros il moderno forno per la cottura del pane.
Ulteriori offerte di Migros Cassarate
Il pubblico ritroverà a Cassarate anche il comodo e stuzzicante Take Away Migros, totalmente ammodernato, bello e stilisticamente al passo con i tempi. L’offerta soddisferà come di consueto più generazioni, con un focus verso gli studenti e i giovani lavoratori. Non mancheranno pizze, panini caldi e freddi, il sushi, la caffetteria, gli apprezzati Mocktails e molto altro. Completa la proposta di questo ristrutturato centro Migros del Lu-
Una cena in vetta nel segno dell’inclusione
Monte Generoso ◆ Un successo la serata organizzata con OTAF
Sabato 15 luglio al Fiore di pietra in vetta al Monte Generoso si è cenato in compagnia della solidarietà e dell’inclusione sociale grazie alla collaborazione tra la Fondazione OTAF di Sorengo e la Ferrovia Monte Generoso. I cuochi, gli aiuto cuochi e i camerieri dei laboratori di gastronomia dell’OTAF hanno condiviso i fornelli con lo staff del Fiore di pietra, in quello che si è r ivelato un sodalizio vincente e soprattutto gustoso e apprezzato. Il tutto in un atmosfera da sogno – il tempo era splendido – allietata dai Corni dal Generus.
Per le collaboratrici e i collaboratori dell’OTAF, visibilmente emozionati e dedicati, è stata una serata indimenticabile, anche perché hanno potuto mettere in campo le loro competenze professionali affiancati da professionisti del settore.
Carlo Silini (redattore responsabile)
ganese un nuovo negozio di tessili di circa 200 metri quadrati, dato in gestione a terzi.
Le iniziative per la riapertura di Migros Cassarate
Per sottolineare questo nuovo importante intervento di miglioria Migros Ticino ha previsto un mese di festeggiamenti, con varie iniziative, scontistiche e diversi omaggi: spiccano la colazione offerta dalle 8.00 alle 10.00 e l’animazione con trucca bimbi e palloncini per i più piccoli proposte sabato 29 luglio, nonché il grande concorso che avrà luogo dal 7 al 9 agosto, con in palio una bicicletta elettrica
Orari e contatti di Migros Cassarate
Il responsabile Bruno Gogov e la ventina di suoi collaboratori, cordiali e ben preparati, sono pronti a soddisfare a Cassarate i bisogni della clientela con cura e attenzione, in un clima accogliente e famigliare.
Orari di apertura
lunedì-venerdì 7.30-19.00
sabato 7.30- 18.30
Tel. 091 821 72 50.
Ritorno a Püscenegro
Info Migros ◆ Un nuovo sostegno per le regioni
Il fondo di sviluppo Migros sostiene progetti a favore delle persone e della natura mettendo a disposizione ogni anno un milione di franchi per incentivare lo sviluppo regionale e turistico. Dall’inizio del 2022 possono partecipare anche progetti svizzeri.
Di questa nuova formula di so-
stegno approfitta ora la Valle Verzasca con l’associazione Pro Püscenegro. Sono stati assegnati 10’000 CHF per il recupero del Monte Püscenegro, a Sonogno. Il gioiellino situato a 1340m ha sempre giocato un ruolo importante nell’agricoltura della valle. È raggiungibile solamente a piedi, e quelle che un tempo erano una trentina di costruzioni in pietra, con gli anni sono crollate. Scopo del progetto sostenuto è la ricostruzione dei muri a secco e dei perimetri delle case, la pulizia dei boschi circostanti e dei pascoli, nonché la riqualifica del piccolo biotopo attraverso un drenaggio.
Settimanale di informazione e cultura Anno LXXXVI 24 luglio 2023 azione – Cooperativa Migros Ticino MONDO MIGROS 2 azione Settimanale edito da Migros Ticino Fondato nel 1938 Abbonamenti e cambio indirizzi tel +41 91 850 82 31 lu–ve 9.00 –11.00 / 14.00 –16.00 registro.soci@migrosticino.ch Costi di abbonamento annuo Svizzera Fr. 48.– / Estero a partire da Fr. 70.–Redazione
Simona Sala Barbara Manzoni Manuela Mazzi Romina Borla Natascha Fioretti Ivan Leoni Sede Via Pretorio 11 CH-6900 Lugano (TI) Telefono tel + 41 91 922 77 40 fax + 41 91 923 18 89 Indirizzo postale Redazione Azione CP 1055 CH-6901 Lugano Posta elettronica info@azione.ch societa@azione.ch tempolibero@azione.ch attualita@azione.ch cultura@azione.ch Pubblicità Migros Ticino Reparto pubblicità CH-6592 S. Antonino tel +41 91 850 82 91 fax +41 91 850 84 00 pubblicita@migrosticino.ch Editore e amministrazione Cooperativa Migros Ticino CP, 6592 S. Antonino tel +41 91 850 81 11 Stampa Centro Stampa Ticino SA Via Industria – 6933 Muzzano Tiratura 101’177 copie ●
Winora Sinius i9 Deluxe del valore di CHF 2700 e due carte regalo del valore di CHF 500 e CHF 100.
Il personale dell’OTAF si è occupato di cucina e servizio; nella foto, Roberto Roncoroni, Direttore della Fondazione OTAF e Elisabetta Montobbio, cameriera. (Foto copyright Katerina Neumann)
Info engagement.migros.ch/ it/fondo-di-sviluppo
Uno dei muri che verranno sistemati a Püscenegro.
Le difficoltà finanziarie dei pensionati
Secondo uno studio di Pro Senectute Svizzera molti anziani non richiedono le prestazioni complementari pur avendone diritto
L’educazione secondo Franco Lorenzoni Si conclude con il libro Educare controvento la trilogia del maestro elementare e ricercatore che da anni anima la Casa-laboratorio di Cenci
Attesa la rivisitazione della Renault 5 Non è mai facile reinterpretare in chiave moderna le auto di successo, ma la casa parigina è certa di riuscire a distinguersi
L’ampia diffusione della musica liquida
Tecnologia ◆ Tra le molte innovazioni nel mondo della musica digitale si fa sentire anche la nostalgia per il vinile dei boomers
Lorenzo De Carli
Negli ultimi anni, non è stato infrequente leggere notizia di un presunto ritorno in auge dei dischi in vinile, ed è assai probabile che l’argomento riceverà attenzione anche in futuro. Il motivo è semplice. La generazione dei cosiddetti boomers sta andando in pensione e per loro il canto delle sirene della nostalgia diverrà di giorno in giorno più attraente. Prendere in mano un album, sfilarne il disco, posarlo sul piatto del giradischi, accomodare la puntina e rilassarsi in poltrona sarà come immergere una madeleine nella tazza del tè. I gesti di oggi trarranno dalla profondità del passato le sensazioni di ieri, e il tempo – per loro –sembrerà non essere trascorso.
L’industria discografica ha ben compreso il potere della nostalgia, cosicché – per esempio in occasione del cinquantesimo di album importanti –sforna edizioni di classici del rock in vinile di una qualità che non ha eguali con quella dei dischi di cinquant’anni or sono, offrendo l’opportunità a chi non ha mai smesso di opporre l’analogico al digitale di ribadire che il suono del vinile è incomparabilmente superiore a quello dei CD.
Peccato che il ritorno al vinile a uno standard molto alto è stato possibile solo grazie alla rivoluzione digitale. Prendiamo l’esempio di The Dark Side of the Moon, album che i Pink Floyd pubblicarono nel 1973. Nel marzo di quest’anno ne è uscita una versione, in occasione del cinquantesimo, sia in vinile, così come in CD (più precisamente Blu-ray Disc e DVD). La peculiarità di questa edizione consiste in una nuova masterizzazione che permette di apprezzare tutti i dettagli del lavoro compiuto in studio dalla band inglese tra il maggio del 1972 e il febbraio dell’anno successivo.
Allo scopo di ottenere questo risultato è stato necessario digitalizzare alla massima risoluzione possibile i nastri analogici originali sui quali furono registrati i vari strumenti.
Ciò significa che la nuova edizione di The Dark Side of the Moon è stata realizzata, scavalcando tutta la sequenza dei processi analogici che, mezzo secolo fa, portò ai dischi in vinile; e il tanto apprezzato nitore acustico delle nuove edizioni in formato vinile dei classici del rock è il risultato di una filiera produttiva interamente digitale di una qualità tale da compensare anche l’inevitabile perdita di udito dei boomers
Il processo descritto permette di comprendere bene, invece, ciò che sta davvero caratterizzando l’odierna fruizione musicale, vale a dire la cosiddetta «musica liquida». Dopo la qualità davvero scarsa dei CD audio di un tempo e dopo la brutta qualità dei file .mp3 che ci sta purtroppo accompagnando ancora oggi, gli al-
bum di qualità cosiddetta HighRes (in generale 192kHz/24-Bit), si scaricano dai negozi online o si ascoltano in streaming.
Alla ricerca di musica riprodotta nella miglior qualità audio possibile (denominata anche lossless e che va molto di là dello standard CD), negli ultimi anni, gli amanti della musica classica e del jazz in particolare, si sono orientati verso servizi di download come «Highresaudio.com», «NativeDSD» o «Qobuz»; oppure servizi di streaming come «TIDAL».
La «musica liquida» scaricata dai servizi web e oppure fruita in streaming richiede l’uso di un dispositivo che non è più né un lettore di CD audio, né un giradischi. Si tratta di una filiera di fruizione nuova, che ha due punti d’ingresso possibili: un computer oppure un dispositivo mobile; mentre il punto d’uscita finale resta il tradizionale impianto Hi-Fi (oppure un paio di cuffie). I passaggi intermedi che caratterizzano la cosiddetta «musica liquida» è semplice descriverli.
Dopo la qualità davvero scarsa dei CD audio e la brutta qualità dei file .mp3, arrivano gli album di qualità cosiddetta HighRes
Nella sua più recente versione, l’album dei Pink Floyd citato è in vendita presso vari negozi online. Il processo di download di un album HighRes è preceduto dalla selezione del formato audio desiderato, che sarà ottenuto in una cartella assieme con l’immagine di copertina, allo scopo di costituire un album digitale.
I brani musicali in tal modo scaricati nel proprio computer sono fruibili con i software in generale installati nei computer con lo scopo di avere una collezione di album, come per esempio iTunes, Amarok, TunesGo. Tuttavia, l’applicazione più apprezzata da chi fruisce di «musica liquida» di alta qualità audio è «Audirvana» perché ha la prerogativa di ottimizzare il computer allo scopo di renderlo un dispositivo principalmente dedicato alla riproduzione musicale quando in uso, e perché è in grado di gestire tutti i formati audio della più alta risoluzione possibile.
Ottenuto un album digitale attraverso il download e resolo disponibile alla fruizione grazie a una applicazione come «Audirvana», il passaggio successivo consiste nella conversione dell’informazione digitale in segnale analogico realizzata da un dispositivo denominato DAC (Digital Audio Converter).
Dispositivi simili se ne trovano dentro i computer, così come dentro
i lettori di CD audio, tuttavia la loro qualità è scarsa e inadeguata a gestire formati audio di risoluzione molto alta. Per questo motivo, il DAC è un dispositivo a sé, collegato al computer per mezzo della porta USB. A valle del DAC, poi, il segnale analogico è disponibile per alimentare un paio di cuffie, oppure per l’ingresso nella presa AUX di un amplificatore o un preamplificatore tradizionali.
Un’alternativa possibile alla filiera qui descritta è l’uso di un dispositivo wireless di ricezione del segnale digitale, che contenga in sé anche un DAC. Un esempio possibile tra i più economici ma allo stesso tempo i più apprezzati dagli audiofili è il francese «Octavio»: il segnale digitale lascia il computer per entrare nella rete
wireless di casa usando la tecnologia UPnP (che ha la caratteristica di avere una qualità audio molto migliore della qualità CD), giunge a «Octavio», che a sua volta lo converte nel segnale analogico utile per essere amplificato e riprodotto.
In alternativa all’uso del computer per collezionare gli album musicali e inviarli al DAC, si sta diffondendo la tendenza a usare un dispositivo dedicato a questo scopo, uno streamer casalingo, cui si collega l’hard disk con la collezione di album, navigabile per mezzo di uno smartphone.
Quanto descritto riferendoci all’uso di un computer o di uno streamer, è possibile anche con un dispositivo mobile. Se si tratta di uno smartphone o di un tablet, l’accorgimen-
to necessario è l’uso di un DAC e di un’applicazione audio in grado di riprodurre i formati di più alta risoluzione. Se si tratta, invece, di un dispositivo dedicato alla riproduzione musicale – per esempio i prodotti HiBy Music –, allora il DAC non è necessario perché il dispositivo è già stato progettato e costruito per svolgere al meglio la filiera qui descritta, cosicché basta collegarvi un paio di cuffie, oppure collegarlo con un cavo all’impianto tradizionale.
I supporti in vinile continueranno a essere venduti anche nei prossimi anni, ma saranno oggetti galleggianti sulla marea montante della musica liquida, destinata a riversarsi in mille rivoli dentro qualunque tipo di dispositivo digitale.
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Cannucce in paglia della Valle Onsernone
Novità ◆ Un nuovo prodotto sostenibile va ad arricchire l’assortimento di articoli regionali di Migros Ticino. Ilario Garbani Marcantini, uno degli ideatori del progetto, ci parla di questa interessante proposta volta a valorizzare la paglia coltivata in valle
Signor Garbani Marcantini, com’è nata l’idea di produrre delle cannucce in paglia di segale?
L’idea è nata da Pagliarte nel 2019, in particolare da Lara Blumer che ne è la presidente. Questa associazione del Locarnese con sede a Berzona si dedica alla lavorazione della paglia coniugando le antiche tradizioni a uno spirito attuale e dinamico e vendendo le proprie creazioni nel negozio-laboratorio della località onsernonese. Per questo progetto Pagliarte collabora anche con l’associazione Farina Bóna, di cui sono responsabile, come anche l’Ente regionale di sviluppo del Locarnese e Vallemaggia (Erslvm).
Ilario Garbani Marcantini uno degli ideatori del progetto
Dove viene coltivata la segale e come avviene il processo di produzione?
Il processo di produzione è completamente manuale e inizia a fine ottobre quando la segale viene seminata nella Campagna Granda di Russo, in campi «strappati» o, meglio, «ripresi» al bosco grazie a un progetto dell’associazione Farina Bóna. Prosegue con la cura del campo che consiste nel togliere erbacce, annaffiare e tutti gli altri lavori che ne conseguono. Poi a fine maggio si inizia con la raccolta vera e propria, effettuata tutta a mano poiché si tende a privilegiare quelle cannucce che abbiano un diametro superiore ai 3 mm. Con le forbici quindi si vanno a scegliere gli steli più idonei. Poi si tagliano su misura le cannucce e si toglie la foglia che accompagna ogni singolo stelo. Infine, si mettono ad essiccare al sole (proprio come avveniva con la paglia dell’antico intreccio), si puliscono e si confezionano. Insomma, un processo produttivo manuale piuttosto laborioso che, in collaborazione con la SUPSI, stiamo cercando di ottimizzare, anche per ridurre i costi di produzione e, di conseguenza, il prezzo finale.
Chi si occupa della lavorazione?
L’associazione Pagliarte, per motivi organizzativi, mi ha affidato il compito di coordinare la produzione e lo smercio del prodotto. Faccio capo a una preziosa mano d’opera composta da giovani studentesse della valle, che colgo qui l’occasione per ringraziare sentitamente per il grande e prezioso lavoro che svolgono con passione.
RIUTILIZZABILI
Le cannucce, a uso casalingo, si possono lavare anche in lavastoviglie fino a 5 volte: basta poi lasciarle asciugare all’aria e sono pronte per il riutilizzo.
CONSIGLIO
Della confezione delle cannucce non si butta via niente. Il cartoncino dell’etichetta può essere riciclato con la normale raccolta della carta, mentre l’imballaggio in plastica può essere riutilizzato per esempio per impacchettare biscotti e funghi secchi.
Cosa sta dietro questo progetto a carattere sostenibile?
Si vuole in un certo senso «omaggiare» ulteriormente la lavorazione della paglia che per secoli ha dato di che vivere agli abitanti della Valle Onsernone con l’intreccio e la creazione di diversi prodotti quali per esempio cappelli in paglia, borse, cesti e altri oggetti venduti soprattutto nei mercati italiani e svizzeri. Al tempo stesso questo atto di resilienza vuole mostrare che questo ritorno alle cose semplici, ai prodotti naturali ed ecosostenibili è possibile e guarda con fiducia verso il futuro.
Settimanale di informazione e cultura Anno LXXXVI 24 luglio 2023 azione – Cooperativa Migros Ticino MONDO MIGROS 4
I campi di segale coltivati a Russo in Valle Onsernone.
Maggiori informazioni www.museonsernonese.ch www.farinabona.ch www.pagliarte.ch
«Le cannucce in paglia sono un prodotto artigianale dalla valenza sociale, culturale e ambientale»
Cannucce di paglia della Valle Onsernone 12 pezzi Fr. 6.90
In vendita nelle maggiori filiali Migros
Fotografie di Flavia Leuenberger Ceppi
Un diritto che crea ancora imbarazzo
Anziani ◆ Secondo uno studio di Pro Senectute in Svizzera circa 230’000 persone con più di 65 anni che vivono a casa avrebbero diritto alle Prestazioni complementari ma non vi fanno ricorso
Stefania Hubmann
Accedere alle prestazioni complementari (PC) all’AVS per uscire da una situazione di povertà. Una soluzione praticabile da parte di numerose persone anziane in difficoltà finanziaria le quali però, in Svizzera e in maniera più marcata in Ticino, non sfruttano questo diritto – soprattutto perché ne temono alcune possibili conseguenze – o neppure lo conoscono. Come evidenzia il recente studio mirato promosso da Pro Senectute Svizzera, il mancato ricorso alle prestazioni complementari resta una sfida in particolare per le organizzazioni che si occupano delle generazioni anziane. Una sfida da affrontare migliorando l’informazione sia da parte di questi enti, sia delle istituzioni preposte. Per capire le cause di questo problema sul territorio cantonale – dove lo studio indica il 31% della popolazione over 65 residente al domicilio che non usufruisce delle PC pur avendone diritto – abbiamo interpellato Deborah Stacchi, responsabile del Servizio di consulenza sociale di Pro Senectute Ticino e Moesano.
Dalla ricerca presentata lo scorso aprile – la prima a livello nazionale incentrata su questa problematica – emerge che nel canton Ticino il numero di anziani con serie difficoltà finanziarie che non chiede il beneficio delle PC è maggiore rispetto alla media nazionale e proporzionalmente il più elevato. La prima è pari al 15,7% della popolazione, mentre il dato più basso è quello del canton Glarona (4,7%). Già attraverso uno studio sulla povertà Pro Senectute Svizzera aveva reso noto l’anno scorso che il 13,9% della popolazione sopra i 65 anni aveva un reddito al di sotto della soglia di povertà assoluta (2279 franchi), percentuale che saliva al 29,5% per il Ticino, sempre fanalino di coda a livello nazionale.
«La prestazione complementare è un diritto valutato in base alla situazione finanziaria – spiega Deborah Stacchi – ma per gli anziani che incontriamo durante le nostre consulenze sovente una richiesta in tal senso genera un sentimento di vergogna. Non di rado sentiamo affermare: “Ho lavorato tutta la vita e adesso finisco a pesare sulla società”». Imbarazzo e paura sono fra i principali motivi emersi in tutto il Paese grazie al sondaggio rappresentativo (con circa 3300 interpellati) realizzato per conto di Pro Senectute Svizzera dalla Scuola superiore di scienze applicate di Zurigo (ZHAW). Al primo posto delle cause troviamo infatti una rinuncia consapevole (37,4% degli intervistati) legata a più fattori, seguita dalla mancata conoscenza di questa prestazione (21,2%). Deborah Stacchi: «La carenza di informazioni sul funzionamento delle PC si può situare a due livelli: il diritto a una rendita supplementare e i rimborsi a essa correlati. La prima integra l’AVS quale reddito mensile, mentre i secondi riguardano alcune spese specifiche, ad esempio per malattia, dentista e aiuto domestico. Su questi aspetti Pro Senectute sensibilizza sempre gli utenti, anche quando giungono al Servizio di consulenza per altri motivi».
Per rinuncia consapevole invece che cosa si intende? Risponde la nostra interlocutrice: «In questo caso le persone sono informate, anche se a volte non nei dettagli, ma preferiscono rinunciare a esercitare il loro diritto appunto perché si vergognano o te-
mono le conseguenze per sé stesse o i loro discendenti. Due sono i casi più frequenti con i quali sono confrontati i nostri assistenti sociali (venti attivi su tutto il territorio cantonale). Da un lato chi non è di nazionalità svizzera e beneficia di un permesso di soggiorno teme che questo possa alla sua scadenza non essere rinnovato se si è al beneficio di una PC. Il rischio effettivamente sussiste. Se il permesso è stato ottenuto sulla base della propria indipendenza finanziaria o della relativa attività professionale, quando tale condizione viene meno possono esserci delle conseguenze. Notiamo che sovente si tratta di situazioni dubbie per le quali anche la consulenza diventa delicata».
In questi ultimi anni il problema maggiore è però costituito dalla riforma delle PC entrata in vigore il 1. gennaio 2021. Fra le misure centrali della riforma figura l’obbligo di restituzione delle prestazioni da parte degli eredi.
Prosegue Deborah Stacchi: «Effettivamente l’introduzione dell’obbligo di restituzione della parte di eredità eccedente i 40mila franchi rappresenta un deterrente che spinge sovente gli anziani a rinunciare alla richiesta. Ogni situazione è diversa per cui la persona interessata dovrebbe sempre decidere dopo aver beneficiato di una consulenza che esamini il suo caso. Per stabilire l’ammontare della restituzione vengono valutate da un lato la sostanza (mobiliare e immobiliare) al momento del decesso e dall’altro le PC ricevute negli ultimi dieci anni ma non prima del 2021, anno di entrata in vigore della riforma. In questi ultimi due anni abbiamo notato che chi possiede ad esempio un rustico – situazione piuttosto diffusa in un cantone di montagna quale il nostro – preferisce tramandarlo agli eredi senza i vincoli che potrebbero derivare dal ricorso alle PC. In Ticino la riforma ha quindi avuto un impatto significativo anche perché va a coinvolgere aspetti emotivi».
Un’altra questione da non sottovalutare è la complessità della procedura, notevolmente cresciuta negli ultimi anni, come conferma ancora la responsabile del Servizio di consulenza sociale di Pro Senectute Ticino e Moesano. «Dalle quattro pagine di undici anni fa, quando ho iniziato a lavorare in Ticino, il formulario per questo tipo di richiesta è passato a una quindicina. A questo vanno aggiunti i documenti da presentare per giustificare la propria condizione finanziaria. Alcuni pensionati sono in grado di affrontare la procedura in modo autonomo, facendo anche ricorso al calcolatore online di Pro Senectute Svizzera per una prima valutazione sul possibile riconoscimento di queste prestazioni, ma un numero importante di anziani è in difficoltà. Se un familiare li aiuta, capita che la nostra consulenza sia estesa anche a lui per chiarire alcuni aspetti e permettergli di riprenderli con calma a casa con la persona beneficiaria. Vi sono però anche anziani completamente soli o che non parlano bene l’italiano. In Ticino questi ultimi sono per lo più cittadini svizzeri di lingua madre tedesca. Il linguaggio tecnico della prassi amministrativa risulta pertanto di difficile comprensione. Il nostro Servizio li informa e li accompagna nello svolgimento della pratica, assumendo un ruolo chiave evidenziato anche dal sondaggio della ZHAW».
L’iter di richiesta è quindi lungo
e laborioso, ostacolato da un insieme di fattori. Deborah Stacchi cita però la buona collaborazione esistente con l’Istituto delle assicurazioni sociali del Dipartimento della sanità e della socialità soprattutto per i casi con un pressante bisogno di aiuto e magari in difficoltà nel reperire in tempo utile la documentazione richiesta. Non va dimenticato che le norme vigenti hanno quale obiettivo la tutela della legalità, evitando possibili abusi.
Secondo lo studio di Pro Senectute quasi la metà degli anziani colpiti dalla povertà potrebbe migliorare la propria situazione finanziaria se esercitasse il proprio diritto alle prestazioni complementari. Fra i fattori che ostacolano questo risultato, la ricerca evidenzia a livello svizzero la mancanza di formazione e la nazionalità straniera, oltre alla residenza in piccoli comuni rurali. Per raggiungere queste fasce di popolazione anziana, sono
in corso riflessioni, che verranno ulteriormente approfondite, su come migliorare la divulgazione di informazioni in modo da renderle sempre più chiare e accessibili.
Valutare il diritto alle prestazioni complementari è in genere complesso, ma la rappresentante di Pro Senectute invita in caso di dubbio a chiedere al Servizio di consulenza di cui è responsabile per chiarire eventuali criteri di esclusione e le conseguenze della richiesta. La presenza sul territorio cantonale dell’ente è capillare con cinque sedi a Balerna, Lugano, Muralto, Bellinzona e Biasca. In caso di necessità l’incontro può essere organizzato anche al domicilio. L’anno scorso in Ticino le consulenze nel loro insieme sono state oltre 7mila, la maggior parte per questioni finanziarie, mentre in tutto il Paese la Fondazione ne svolge annualmente più di 55mila attraverso 24 enti cantonali. Nel caso delle PC si tratta in gran parte di abbattere i pregiudizi, visto che in realtà queste prestazioni contribuiscono a raggiungere il minimo vitale garantito agli anziani dalla Costituzione.
Informazioni
Pro Senectute Ticino e Moesano, tel. 091 912 17 17, e-mail: info@prosenectute.org www.prosenectute.org
Settimanale di informazione e cultura Anno LXXXVI 24 luglio 2023 azione – Cooperativa Migros Ticino 5 SOCIETÀ Da tutte le offerte sono esclusi gli articoli già ridotti. Offerte valide solo dal 25.7 al 7.8.2023, fino a esaurimento dello stock La tua soluzione contro tutti i tipi di macchie pigmentate. Af na la carnagione Riduce le macchie senili Siero 2in1 Anti-Age & Macchie Senili Cellular Luminous630® 30 ml 34.95 Siero AntiMacchie PostAcne Cellular Luminous630® 30 ml 34.95 20x CUMULUS Nuovo 20x CUMULUS Nuovo Annuncio pubblicitario
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Educare è un’impresa collettiva
Pubblicazioni ◆ L’avventura pedagogica di Franco Lorenzoni racchiusa in una trilogia appena conclusa
Barbara Manzoni
Le scuole sono chiuse non c’è dunque momento migliore per riflettere sul mestiere dell’educare in questi tempi difficili, nella convinzione che più le difficoltà sono grandi più è necessario approfondire, analizzare, confrontare e guardarsi dentro. L’occasione in questo caso è data dall’ultimo libro di Franco Lorenzoni intitolato Educare controvento. Storie di maestre e maestri ribelli, da poco pubblicato dall’editore Sellerio. Il libro completa una trilogia iniziata con I bambini pensano grande (2014) e proseguita con I bambini ci guardano (2019). Una trilogia dedicata certo a chi nella scuola ci lavora ogni giorno, insegnanti di tutti gli ordini e gradi, educatori e formatori, ma la cui lettura può essere di stimolo anche a genitori, politici, funzionari, architetti (che le scuole le progettano) e a tutti coloro che hanno (o dovrebbero avere) a cuore i destini della scuola e l’educazione dei bambini e dei giovani.
Lorenzoni invita sempre a domandarsi: «cosa ho imparato da bambine e bambini questa settimana?»
Franco Lorenzoni è stato per quarant’anni maestro di scuola elementare e, parallelamente, ricercatore e formatore, attivo nel Movimento di Cooperazione Educativa, ha fondato la Casa-laboratorio di Cenci in Umbria, ad Amelia, che è un vero e proprio centro di sperimentazione educativa su temi ecologici, scientifici, interculturali e di inclusione. Per questo suo impegno ha ricevuto due lauree honoris causa dall’Università Bicocca di Milano e dall’Università di Palermo. Sui temi ai quali ha dedicato una vita intera ha scritto alcuni articoli pubblicati su «Internazionale» e «L’Essenziale».
In Educare controvento Lorenzoni affronta (nei capitoli dispari) sette questioni educative che gli stanno a cuore: la scelta, il corpo, lo spazio, il
Viale dei ciliegi
Marianne Kaurin
Il nostro piccolo paradiso
La Nuova Frontiera Junior (Da 11 anni)
Il romanzo «estivo» è un genere ricorrente nella letteratura per ragazzi, e spesso è una storia di formazione, di avventura, di esperienze en plein air. Anche per Ina, la dodicenne protagonista di questo bellissimo romanzo, le vacanze estive rappresentano, eccome, un percorso di crescita, e anche lei vivrà un’avventura, ma non esattamente en plein air Ina trascorrerà l’estate in uno scantinato del palazzone popolare in cui vive, in compagnia di Vilmer, il ragazzo dell’altra scala, il nuovo arrivato, lo sfigato come lei, secondo la prospettiva dei ragazzi che, nella loro classe, sono considerati vincenti. Perché questa è anche una storia di prospettive, di come ci si vede e come si vorrebbe essere visti. Mathilde, Regine, Markus sono quelli che tutti ammirano, nella cui cerchia tutti vorrebbero essere ammessi. Loro, ma anche gli altri compagni, faranno delle «vere» vacanze – Maldive, Portogallo, Grecia… – mentre Ina le trascorrerà nel suo piccolo apparta-
Letture in famiglia
Nati per leggere ◆
Da 15 anni avvicina i bambini ai libri
Terzo volume che completa la trilogia iniziata con I bambini pensano grande e I bambini ci guardano.
perché, scrive, «educare è liberare potenzialità, allargare gli sguardi, forgiare e mettere a punto conoscenze e strumenti in grado di moltiplicare le possibilità di scelta di ciascuno, ma non dovrebbe mai pretendere di portare dove vogliamo noi». La seconda è che «da soli non ce la possiamo fare», cioè chi educa ha bisogno di cooperare, ricercare insieme, condividere dubbi e domande, sperimentare e studiare: per educare controvento bisogna stringere amicizie e accogliere stimoli.
E come vorrebbe la scuola Lorenzoni? Così scrive nel capitolo dedicato allo spazio: «Sogno che tutte le bambine e i bambini, o almeno i più piccoli dai 3 agli 8 anni, possano entrare e uscire liberamente dalle loro aule, che è auspicabile abbiano tutte un’apertura diretta e autonoma verso un luogo aperto, possibilmente verde… ogni scuola dovrebbe essere circondata da un’isola pedonale vietata alle automobili, da segnalare con un bel cartello con su scritto “scusate, stiamo giocando per voi”…. La scuola dovrebbe sempre tendere ad abbattere muri e a pensare sconfinata e questo lo si dovrebbe percepire immediatamente vedendo i bambini occupare con i loro giochi e studi ed esperimenti gli spazi della città che la circondano».
tempo, il dialogo, l’arte del convivere, la conversione ecologica. Nei capitoli pari, invece, racconta le storie di maestre e maestri che hanno fatto la differenza promuovendo quelle che l’autore definisce «ribellioni efficaci». Sono: Piero Calamandrei, giurista e politico nato nel 1889, qui attento padre che osserva lo sviluppo del figlioletto Franco; Alessandra Ginzburg, pedagoga con approccio psicoanalitico paladina dell’integrazione dei bambini disabili nella scuola italiana negli anni 70; Emma Castelnuovo, insegnante di matematica che lotta per la liberazione del pensiero ed esalta le capacità di scoperta degli allievi; Nora Giacobini, impegnata a ripensare radicalmente l’in-
segnamento della storia; Mario Lodi, maestro elementare e scrittore che si ribellerà alla scuola che nega la parola a bambine e bambini (vi ricordate il libro Cipì?), accomunato nel capitolo a Don Lorenzo Milani e l’esperienza di Barbiana; Alexander Langer, militante ecologista e pacifista che si ribella a qualsiasi esclusione etnica; chiudono il volume le ribellioni di due giovanissime attiviste contemporanee: Malala Yousafzai e Greta Thunberg. In questo alternarsi tra pratica e teoria Lorenzoni racconta la sua visione di scuola che nasce da due profonde convinzioni. La prima è la necessaria e imprescindibile centralità dell’ascolto di chi si vuole educare
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mento della scala A dei «condomini Trine», che i compagni chiamano condomini «Latrine» (un plauso a Lucia Barni, ottima traduttrice dal norvegese), tra intonaco scrostato, resti di kebab sui pianerottoli e plafoniera rotta e lampeggiante, come in una «discoteca triste». Per non sembrare una poveraccia come Vilmer, che invece ammette tranquillamente di non avere i soldi per andare in ferie, Ina la spara grossa: lei andrà ai Tropici. Da qui si dipana la storia, commovente e divertente, capace di raccontare con straordinaria
intensità e delicatezza la tavolozza di stati d’animo che i ragazzini tra infanzia e adolescenza attraversano, e che hanno a che fare con il bisogno di approvazione, di visibilità sociale, di bugie, di verità, di primi innamoramenti. Vilmer e Ina renderanno quello scantinato un vero e proprio «piccolo paradiso», trasformandolo nei «loro» Tropici. In fondo i Tropici non sono un posto preciso, e allora anche quello spazio, che giorno dopo giorno diventa sempre più «loro», può diventare una vacanza esotica. Il mare è una piscinetta di Hello Kitty, il bar una bottiglia di Pepsi, la spa due batuffoli di cotone bagnati, il tramonto un poster recuperato: è come il gioco del «facciamo che eravamo», e immersi in questo gioco Ina e Vilmer sperimentano una totale felicità. Tra infanzia (il gioco, appunto, in cui tutto può diventare altro, illuminato, magico) e adolescenza (i primi batticuori, le chat del gruppo consultate con ansia). Ma qualcosa arriverà brutalmente a rompere l’incantesimo, e sarà lo scherno dei compagni, quando scopriranno la verità. Ina a quel punto vedrà se stessa con i loro occhi, in un violento rovesciamento di prospettiva, e do-
La scuola per l’autore non è un’isola separata dal tessuto sociale e urbano che la circonda, anzi dovrebbe diventare piazza. Si educa dunque dentro e fuori la scuola e sull’«intensità educativa» Lorenzoni riflette in molti passaggi del libro come in alcuni articoli apparsi su «Internazionale» perché convinto che per contrastare l’esclusione sociale e superare le disuguaglianze che ancora (pre)determinano il futuro dei giovani ci siano due strade percorribili: la scuola e la città. E la città siamo noi adulti, tutti chiamati in causa e con urgenza in questo periodo in cui le problematiche e le sofferenze dei giovanissimi si sono moltiplicate e non solo a causa della pandemia.
Dal 2008 entra nelle case di molti neo-genitori svizzeri. È un cofanetto gratuito contenente due libri per l’infanzia. Distribuito da «Nati per leggere» è pensato per avvicinare i bambini ai libri fin dalla più tenera età, oltre che per sviluppare un legame emotivo tra genitori e bambino. La nuova edizione, che festeggia l’anniversario, contiene i volumi di Vera Eggermann (Chi sale a bordo) e di Walid Serageldine (Balza e rimbalza). Il set è accompagnato da un opuscolo in 18 lingue, fra cui quelle dei principali gruppi migranti in Svizzera, che spiega le basi dello sviluppo linguistico, cognitivo ed emotivo dei bambini. «Nati per leggere» è il risultato della collaborazione tra la Fondazione Bibliomedia e l’Istituto svizzero media e ragazzi ed è sostenuto finanziariamente dall’Ufficio federale della cultura. Il progetto mira a sensibilizzare le giovani famiglie sui benefici derivanti dalla lettura. Diversi studi dimostrano infatti che i libri sono fondamentali nello sviluppo intellettuale dei bambini e affinano le loro abilità linguistiche. Inoltre, attraverso l’esperienza di leggere assieme racconti e storie, i genitori migliorano il dialogo con i propri figli e li accompagnano nella scoperta dei loro punti di forza, delle loro debolezze e delle loro emozioni.
Informazioni www.natiperleggere.ch
di Letizia Bolzani
vrà fare una scelta. Anche di questa struggente scelta racconta il romanzo. Un libro eccellente, che non a caso ha vinto prestigiosi premi, tra cui il Deutscher Jugendliteraturpreis
Tomo Miura
Piscina, sto arrivando!
Fatatrac (Da 3 anni)
Surreale e umoristico, questo albo racconta dei tentativi (ineluttabilmente infruttuosi) del piccolo protagonista di farsi un bel bagno in piscina. Scandita dai giorni della settimana (un’occasione tra l’altro per impararli, anche se non è questo il punto) la storia lo porta ogni giorno a confron-
tarsi con un problema diverso. «Lunedì: preparo gli occhialini da nuoto, il costume a righe, la cuffia nera, l’asciugamano. Piscina, sto arrivando!». Esclama il bimbo, avviandosi, carico a molla, verso la piscina. Peccato che la trovi piena di altri bambini, ma così piena, che uno in più proprio non ci sta. «Pazienza, tornerò domani!». L’indomani, egli porterà, oltre all’abbigliamento necessario, anche il suo libro preferito, ma troverà la piscina piena di pesci e contornata da pescatori, tuttavia non si scompone, tornerà il mercoledì, stavolta con una canna da pesca oltre al libro e al resto, ma – oh, no! – l’acqua è diventata ghiaccio, e la piscina una patinoire… ora oltre a costume-libro-canna da pesca serviranno anche i guanti, e via così, in una di quelle concatenazioni narrative a sviluppo iterativo e cumulativo, che faranno fare al piccolo lettore ipotesi pertinenti (quale problema ci sarà adesso con la piscina?) pur godendo ogni volta al contempo di un effetto sorpresa, perché la piscina diventerà qualcosa di sempre più fantasioso. Tomo Miura è una giovane autrice giapponese, che Fatatrac ora traduce dall’edizione originale svizzera, la ginevrina Joie de Lire.
6 Settimanale di informazione e cultura Anno LXXXVI 24 luglio 2023 azione – Cooperativa Migros Ticino SOCIETÀ
Un punto di riferimento per la tecnologia di bordo
Motori ◆ La casa automobilistica parigina sta puntando tutto sulla versione elettrica della mitica Renault 5
Mario Alberto Cucchi
Ci sono alcune automobili che hanno fatto la storia dell’automobilismo. La «regie», così viene chiamata Renault che per oltre mezzo secolo è stata sotto il controllo statale dopo la morte del fondatore Louis Renault, ne ha diverse nel suo carnet. A partire dalla Dauphine venduta in 2 milioni e 500mila esemplari alla Renault 4 che in trent’anni fu prodotta in 8 milioni di pezzi.
In tempi più recenti, va dato risalto certamente alla Renault 5, costruita in 5 milioni di unità tra il 1972 e il 1984. Una vettura che ha fatto sognare centinaia di migliaia di appassionati soprattutto per una versione: la turbo! Una vera e propria «piccola bomba», velocissima soprattutto in accelerazione.
Siamo avvezzi negli ultimi anni alla rinascita di modelli il cui nome è stato tolto da archivi impolverati. Dalla Mini alla 500. Tutte auto di successo, ma non è mai facile reinterpretarle in chiave moderna. Renault oggi ci sta provando con la mitica 5 e lo fa in chiave ultramoderna e tecnologica. Sta investendo il massimo per realizzare un mezzo che è lo stato dell’arte delle sue capacità. Ecco allora che il dietro le quinte del progetto della nuova Renault 5, che arriverà nelle concessionarie nel 2024, permette di capire in che direzione sta andando il mondo delle quattro ruote.
Al futuro del marchio francese
stanno lavorando designer, tecnici e ingegneri in un esclusivo stabilimento in miniatura, segreto e hightech. Un centro per la produzione dei prototipi creato 25 anni or sono nella regione parigina. Diciamolo subito abbiamo a che fare con una vettura elettrica i cui primi «muletti» sono stati prodotti da ottobre 2021 e avevano il design della Clio. Ora sono pronti i vehicle check che rispecchiano fedelmente il futuro del modello di serie in termini di design.
La fase di prototipazione, che funge da vero e proprio punto di incontro tra la progettazione e l’industrializzazione dei modelli di serie, prima traduce e poi convalida fisicamente tutte le ipotesi e i dati digitali elaborati a monte. È così che si scovano con una
precisione di decimi di millesimi tutti i giochi e i dislivelli dei moduli della scocca e dei componenti provenienti dai fornitori. Viene testata anche tutta la parte software, connessioni e impianto elettrico.
La futura Renault 5 Electric sarà il primo veicolo Renault dotato di caricatore di bordo V2G (Vehicle-toGrid). Di che cosa si tratta? «Grazie a Mobilize V2G, l’auto diventa una riserva di energia. Al conducente basterà collegare regolarmente il veicolo alla Powerbox per ottimizzare la bolletta e decarbonizzare la mobilità. Il costo della ricarica sarà mediamente dimezzato. Mobilize favorisce così una mobilità più sostenibile e più accessibile», ha dichiarato Corinne Frasson, direttrice servizi ener-
gia di Mobilize. Quest’ultima è una divisione dedicata a servizi e tecnologia da cui il Gruppo Renault punta a ottenere il 20 per cento del fatturato entro il 2030.
Grazie alla tecnologia V2G (vehicle-to-grid, dal veicolo alla rete elettrica), la ricarica diventa bidirezionale. Il servizio Mobilize V2G permette non solo di interrompere la ricarica nei momenti di picco dei consumi, ma anche di restituire elettricità alla casa, soprattutto quando è costosa, e alla rete elettrica, quando quest’ultima è molto sollecitata. La ricarica, invece, avviene quando c’è abbondanza di energia nella rete e, pertanto, è meno cara.
Oltre a reimmettere l’energia nella rete elettrica, il caricatore di bordo
bidirezionale è anche in grado di alimentare un barbecue elettrico per godersi un picnic all’aria aperta oppure un’aspirapolvere per pulire gli interni della futura Renault 5 Electric (funzione V2L, vehicle-to-load o dal veicolo a dispositivi elettrici). Con un adattatore, sviluppato da Renault, che si attacca alla presa di ricarica del veicolo, la futura Renault 5 Electric è in grado di fornire un’energia equivalente a quella prodotta da una presa di corrente da 220 volt.
Si tratta di una vettura decisamente innovativa di cui senz’altro ci sarà ancora da parlare ma che indubbiamente diventerà un punto di riferimento per la tecnologia di bordo, siamo convinti che molti altri costruttori seguiranno questa tendenza.
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limone
Approdi e derive
Tra ricordi e memorie
Questo inizio d’estate si è portato via l’amico di una vita, una presenza che mi ha accompagnata in tante vicende professionali ed esistenziali. Se ne è andato per una malattia degenerativa che non lascia scampo e ti espone alla consapevolezza del destino e al lento consumarsi del suo piano.
Nei nostri ultimi, faticosi dialoghi abbiamo parlato tanto della morte. Di quella morte che lui sapeva imminente e che in me abitava invece l’orizzonte, assente e insieme presente, del sempre possibile. Avrei potuto morire io prima di lui, avevo detto qualche volta, ma questa mia verità gli bruciava dentro, come un’oscenità. È difficile condividere gli spazi delicati tra il vivere e il morire, difficile dare parole comuni al loro vissuto e al loro mistero. La morte è sempre ospitata dentro sguardi diversi che rendono difficile donarsi reciprocamente momenti di verità.
Terre Rare
Non era credente, fino alla fine non ha voluto lasciarsi toccare dalla speranza. Aggrappato al disincanto, considerava la morte imminente come una tragica, definitiva cesura. Alla mia domanda sul senso della vita rispondeva, con parole sempre più fragili, sospese tra disperazione e risentimento, che la sola possibilità di trascendenza è nella memoria di coloro con cui abbiamo condiviso il cammino. Secondo lui, la morte concede in dono alla tua inevitabile finitudine solo fragili occasioni di trascendenza consegnate al ricordo di chi ci ha amato. Una memoria custodita nel sentire la vita, non certo nel sapere dei suoi molti libri, tradotti in diverse lingue, che avrebbero potuto continuare a vivere tra le mani degli studiosi.
Quel suo io, così presente nei suoi scritti, sembrava non riguardarlo più. Si disperava, invece, per il fatto che la nipotina era ancora troppo piccola per potersi ricordare dei
momenti trascorsi con lui, del suono della sua voce, dell’espressione dei suoi occhi, del tocco delle sue carezze. L’unica forma di sopravvivenza, respirata a fatica tra la vita e la morte, non la percepiva tra le pagine dei suoi libri ma nei frammenti di questo vissuto aurorale, in cui solo intravedeva il senso e il mistero della vita. Forse per questa sua sempre celata inquietudine, negli ultimi giorni non rispondeva più ai miei messaggi se non con dolcissime immagini della bimba.
Il disincanto di questa trascendenza tanto intima quanto… immanente, riconoscibile solo nel «qui adesso» dei sorrisi della piccola, mi ha raggiunta come una vera e propria provocazione. Ora che il nostro dialogo si è interrotto, le sue nude parole continuano a risuonare in me come un invito a cercare di dar loro un senso, un invito a riflettere sul significato della memoria e sulla potenza dell’esperienza vissuta del ricordare.
La bellezza dell’imperfezione digitale
L’intelligenza artificiale vista nei suoi aspetti meno performanti: questa è l’interessante prospettiva con cui la giovane artista ticinese Maria Minussi ha avvicinato il mondo della creazione grafica mediata da un apparato tecnologico. L’esperienza (che tra l’altro le ha fruttato il primo premio nel concorso per giovani artisti organizzata nelle scorse settimane dal m.a.x. Museo di Chiasso) è stata persino oggetto della sua tesi di laurea, discussa quest’anno all’Accademia di Brera.
I lavori grafici di Minussi, nati sulla scia di questa sua curiosità artistico-tecnologica, possono quindi godere di un approfondimento teorico particolarmente ricco e documentato, proprio in virtù di questo loro inquadramento accademico.
In cosa consiste l’esperimento? Sappiamo che gli artisti hanno da sem-
pre utilizzato dei modelli per le loro creazioni, degli spunti figurativi quale ispirazione iniziale per la realizzazione delle loro opere. E se in passato l’artista tradizionale si è affidato principalmente a copie dal vero o ad altre raffigurazioni «analogiche», le tecnologie a disposizione oggi permettono di creare in modo digitale nuove figure, totalmente artificiali. In particolare, l’onnipresente motore di Chat GTP è in grado di realizzare immagini create partendo da suggerimenti testuali. Come si sa, le infrastrutture grafiche di IA (perlomeno quelle a cui si può avere accesso gratuitamente) non sono per ora in grado di produrre immagini raffinate; spesso realizzano disegni che sono approssimazioni, anche abbastanza grottesche nella loro precarietà. Maria Minussi ha voluto enfatizzare questi aspetti
Le parole dei figli
Boomerata
«Se qualcuno non capisce le vibes (letteralmente dall’inglese vibrazioni, viene usato per indicare le sensazioni, ndr) di noi Z non per forza è un boomer, può essere anche un millennial», dice impietoso lo Gen Z del Milanese Imbruttito che con il suo sito e via social prende in giro i tic e i riti della città più imbruttita d’Italia. Così le Parole dei figli ci fanno capire come la boomerata ormai trascenda le generazioni che vuol dire che c’è sempre uno più vecchio da prendere in giro!
È il 29 ottobre 2019 quando il «New York Times», a firma della giornalista Taylor Lorenz, pubblica un articolo dal titolo OK Boomer, segnando la fine delle amichevoli relazioni generazionali. In quelle settimane negli Usa il grido di battaglia della Generazione Z che non si sente capita diventa prima un meme poi un prodotto di merchandising : le felpe, le magliet-
te e le borse della spesa di stoffa con la scritta Ok boomer spopolano. È una risposta di massa contro chi non crede nel cambiamento climatico o che le persone possano trovare lavoro con i capelli tinti di blu o ancora che anche un maschio possa indossare una gonna. Oggi quel sussulto è diventato un’onda che segna la ribellione degli adolescenti che sono i nostri figli, ma è anche diventata una presa in giro virale che travolge tutte le generazioni. Ree di compiere boomerate. Breve riassunto per capirci meglio: da manuale i Boomers sono i nati tra il 1946-1964 figli del baby boom; gli Xers tra il 1965-1979; i Millennials dal 1980 al 1996 a indicare i giovani che diventano maggiorenni intorno al 2000, appartenenti a una generazione in netto contrasto con quella precedente e quella successiva per l’utilizzo dei media, e per come sono stati
di Lina Bertola
Il valore più grande e più vero attribuito ai ricordi della bimba rispetto alla memoria contenuta nei suoi libri mi ha ricondotta immediatamente a Socrate, alle sue parole riportate da Platone nel Fedro: «Questo ha di terribile la scrittura, simile per la verità, alla pittura: infatti, le creature della pittura ti stanno di fronte come se fossero vive, ma se domandi loro qualcosa se ne restano zitte, chiuse in un solenne silenzio e così fanno anche i discorsi».
Socrate non ha scritto nulla perché credeva in una scrittura «migliore e più potente»: la «scrittura nell’anima». È nell’anima, e nell’incontro e nel dialogo di anime che la vita ci conduce verso un cammino di verità.
Così, anche la memoria di esperienze di bellezza abita l’anima. Questo vissuto della memoria scritta nell’anima ci mantiene in continuo dialogo con il nostro mondo interiore; nel libro invece il dialogo non può essere mantenuto vivo. Se la interroghi,
la pagina scritta ti ripeterà sempre la stessa cosa, perché l’Autore «non potrà più venire in suo soccorso». La differenza tra forme diverse di memoria annunciata da Socrate sembra rivolgersi anche a noi, alla presenza di tante memorie informatiche che ci allontanano, in qualche modo, dal nostro intimo ricordare. La memoria consegnata al virtuale potrebbe infatti provocare una specie di alienazione del vissuto, una dimenticanza del corpo e dell’anima. Giuseppe Longo nel suo Homo technologicus, spiega bene il rischio di perdita del vissuto umano nelle esperienze virtuali: possiamo giocare il nostro rovescio preferito o rilanciare di testa un pallone restando immobili sul divano.
La «scrittura nell’anima» di Socrate, il valore di questa intima esperienza dell’umano, rimane ancora oggi un invito a prenderci cura della bellezza e della verità del nostro mondo interiore.
di imprecisione e, al di là della loro apparenza di «errori», ha cercato di sottolineare invece la loro capacità evocativa, diremmo quasi fantasmatica. Ecco che, allora, le sue false fotografie, realizzate all’acquerello, diventano ritratti abbastanza inquietanti, ma dalla grande suggestione poetica. «La tecnologia, in fondo, è una fonte di ispirazione per l’arte e lo è stata da sempre» ci ha spiegato. «Basta pensare a quanto la pittura sia debitrice alla fotografia. Io ho deciso di usare l’intelligenza artificiale proprio come strumento creativo, nel senso della produzione di immagini nuove, diverse, evocatrici. Ho usato una piattaforma pubblica in grado di realizzare immagini partendo da semplici istruzioni scritte, www. playgroundai.com. Sulla base degli spunti ottenuti ho poi disegnato
con una tecnica molto elementare e tradizionale, l’acquerello. Si è creato quindi un contrasto, che mi sembra particolarmente significativo, tra tecnologia e disegno».
Va considerato, del resto, che i giovani artisti sono i primi a doversi confrontare con nuove modalità di comunicazione visiva. I loro quadri devono passare attraverso Instagram e attraverso gli altri social, devono raggiungere un nuovo pubblico che non è necessariamente quello delle gallerie d’arte, devono insomma lanciare segnali visivi che fanno i conti con una «sensibilità digitale» diffusa.
L’impressione, avuta visitando proprio l’esposizione proposta a Chiasso, è che le giovani generazioni di artisti siano ben coscienti del loro compito di rielaboratori e mediatori culturali.
«L’innovazione tecnologica ci per-
mette di allargare lo sguardo sulla realtà» ci spiega ancora Minussi. «E del resto molti altri artisti del 900 hanno esplorato la distorsione dell’immagine come pratica poetica originale. Pensiamo a quanto i pittori cubisti abbiano trasformato e ampliato le possibilità espressive, oppure a ritrattisti come Francis Bacon. La pittura moderna è testimonianza del fatto che occorre andare oltre le rappresentazioni fotografiche “realistiche”, per trovare stimoli più originali».
In un certo senso, dobbiamo ringraziare l’arte e gli artisti per questa loro utile riflessione sul valore della défaillance tecnologica: all’arte non potremmo chiedere di più e sarà proprio l’arte, forse, uno dei campi che ci aiuterà a mantenere viva l’attenzione critica attorno all’intelligenza artificiale.
influenzati dallo sviluppo tecnologico e digitale. Poi ci sono loro, gli Gen Z con la data di nascita tra il 1997 e il 2012. Sui social la questione è molto più semplice: «Il boomer non sa se l’emoticon con le lacrime è uno che ride o che piange, il millennial lo usa conoscendone il significato, lo Gen Z per indicare che sta morendo dal ridere preferisce usare il teschio (oppure la sedia oppure la scala: non c’è il tempo di sintonizzarsi che già l’emoticon è cambiato)».
Lo Gen Z del Milanese Imbruttito i boomers vs millennials li sintetizza così: il boomer è colui che commette errori madornali per colpa del correttore automatico, pubblica foto private sulla bacheca pubblica di Facebook, quando manda un messaggio vocale lascia sempre qualche secondo di silenzio all’inizio perché prima deve capire cosa sta facendo e nelle video-
chiamate si inquadra sempre il mento. Mi autodenuncio: tranne le foto su Fb, tutto il resto io lo faccio! Invece il millennial ha come social di riferimento Instagram, che maneggia molto bene, ma qualcuno è ancora convinto che TikTok sia solo il social dei balletti. Come reagiscono le diverse generazioni quando devono fare un ordine al telefono? Il boomer : «Lei è il titolare della pizzeria? Salve, io sono Marcello. Devo fare un ordine. Aspetti che devo leggere, che non ci vedo bene». Il millennial: «Salve, Margherita per due». Lo Gen Z: «C’è l’App, Just Eat!». La giornalista Taylor Lorenz riporta il parere dei giovanissimi, che suona così: chiunque può essere un boomer, se non gli piace il cambiamento, non capisce le cose nuove soprattutto legate alla tecnologia e non condivide il principio di uguaglianza. «Es-
sere un boomer è solo avere questi atteggiamenti – scrive Lorenz –. Può applicarsi a chiunque sia resistente al cambiamento». Dopodiché, tornando ai social, ci sono esempi tipici di boomerata da cui non possiamo sfuggire: pubblicare una foto orizzontale nelle storie di Instagram, nei commenti usare troppe faccine, puntini di sospensione e abbreviazioni (come xke, nn, qlks, ke, ecc.), costruire frasi con gli hastag invece di usarli solo alla fine; utilizzare l’emoticon con il pollice alzato, fare selfie dall’alto. Ovviamente la boomerata è cringe (che vuol dire che suscita imbarazzo, ma ormai dovreste saperlo). Opporci a questa insolenza collettiva sarebbe un comportamento tipico da boomer, meglio allora riderci su. Senza dimenticare, però, i motivi profondi che stanno dietro le prese in giro social. Su quelli è sempre bene riflettere.
Settimanale di informazione e cultura Anno LXXXVI 24 luglio 2023 azione – Cooperativa Migros Ticino SOCIETÀ / RUBRICHE 10 ◆ ●
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di Alessandro Zanoli
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di Simona Ravizza
Un paradiso fortificato
Pigeon Island, nelle Antille, fu terra di conquiste e lotte di potere, ma anche rifugio
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Due asini e 400 chilometri Nel suo avventuroso trekking, la ticinese Sofia Benagli ha attraversato la Svizzera Centrale
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La freschezza del ribes nero
Un amabile contrasto tra sapore e colore intensi con il profumo dello zucchero ai fiori fatto in casa
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La carica di 101 spille svizzere Il chiassese Marzio Canova ha collezionato tutti i distintivi dedicati alla nostra Festa nazionale
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Sulla cresta dell’onda fino ai Cinque Anelli di Parigi
Adrenalina ◆ Elia Colombo è il miglior interprete ticinese di windsurf e atleta di punta dei quadri di Swiss Sailing
Moreno Invernizzi
Chi ha già qualche anno sulle spalle, non può non correre con la mente al film di Claudio Risi del 1984 Windsurf – Il vento nelle mani, con Pierre Cosso. Chissà, forse è anche da quelle spettacolari immagini che il nostro interlocutore di oggi ha trovato l’ispirazione per seguire questa scia e… cavalcare a sua volta l’onda. Lui è Elia Colombo, 27enne di Bironico, nonché miglior interprete ticinese di questa disciplina e atleta di punta dei quadri di Swiss Sailing in odor di Olimpiadi. Insomma, il punto di riferimento ideale per una chiacchierata a 360 gradi per conoscere più da vicino questo appassionante (e adrenalinico) sport.
Il windsurf richiede parecchio sforzo fisico, uno spiccato senso strategico e tattico, e bravura nel leggere le bizze del vento
«Quello che pratico io, per essere precisi, è il windsurf olimpico, che appunto rientrerà nel menu delle Olimpiadi di Parigi l’anno prossimo e a cui conto di partecipare», premette d’entrata Elia Colombo. Per poi precisare: «Il windsurf olimpico è una sorta di sottocategoria del windsurf». Più che una sottocategoria, a ogni buon conto, lo si potrebbe definire un… «discendente 2.0» per la sua spettacolarità. A cominciare dall’ebbrezza di una velocità decisamente superiore al windsurf classico. «La differenza sostanziale sta nel foil, ossia una sorta di pinna applicata sotto la tavola, che permette di volare sulla superficie dell’acqua riducendo al minimo ogni attrito in modo da toccare velocità anche ragguardevoli fin da subito, che vanno dai trenta fino ai cinquanta chilometri orari, e oltre».
Molte le sensazioni che si provano quando si raggiungono simili velocità con una tavola sotto i piedi e una vela stretta fra le mani: «È qualcosa di speciale, una sensazione unica: da un lato c’è la forza della natura, e dall’altra la tua che cerca di domare onde e vento. Una sorta di braccio di ferro in cui sai che, in ogni caso, non potrai avere il completo controllo della situazione, ma dovrai limitarti a gestirla, cercando di sfruttarla come meglio puoi. A voler azzardare un paragone è un po’ la medesima sensazione che prova un pilota d’aliante quando si libra nel cielo, dove a dettare il ritmo di tutto sono le correnti in quota. E il windsurfer più abile è quello che meglio si adatta alle varie situazioni con cui si trova confrontato, il più bravo a leggere e interpretare il quadro che vento e onde gli disegnano sulla tela dello specchio dell’acqua».
Per Colombo la vela è come una compagna d’infanzia: «Essendo na-
to e cresciuto non molto distante dal lago, è stato un percorso quasi naturale per me. Il battesimo dell’acqua l’ho avuto già da piccolo, partecipando ai corsi di vela proposti dal Circolo Velico Lago di Lugano. Avrò avuto sei-sette anni. Lì ho avuto la possibilità di apprendere i rudimenti di questa disciplina». Ma Elia Colombo non si è però fermato lì: qualche anno più tardi eccolo cimentarsi con il windsurf classico. «Le prime uscite sul lago con il windsurf le ho fatte a dieci-dodici anni, ed è praticamente stato amore a prima vista: ho capito che quella era la strada che volevo imboccare; le emozioni che provavo sulla tavola rappresentavano in tutto e per tutto l’essenza che stavo cercando».
Da quella tavola, in pratica, Elia non ci è più sceso. Anzi, grazie al foil
si è letteralmente alzato! «Anno dopo anno il tempo che trascorrevo in acqua per dedicarmi a questa
attività è aumentato, al punto che da ormai tre anni abbondanti è diventata una sorta di occupazione a tempo pieno, con il traguardo delle Olimpiadi come ideale punto di arrivo (dove poi, perché no, giocarsi il tutto per tutto)».
Per rendere l’idea, di questi tempi Elia Colombo macina annualmente suppergiù duecento uscite sull’acqua. «Nei mesi primaverili e in quelli estivi generalmente mi alleno sulle acque dei nostri laghi (dal Ceresio al Verbano, passando anche per il lago di Como e diversi altri bacini d’Oltre Gottardo), altrimenti, durante il resto dell’anno, devo giocoforza ripiegare su specchi d’acqua all’estero, più esotici». Ore e ore di allenamenti a… pelo d’acqua che però, aspettando il ticket per Parigi 2024, stanno già dando i loro frutti, a cominciare dal titolo mondiale Formula Foil conquistato a fine giugno sul Lago di Garda. «Una grande soddisfazione, certo, anche se la mia attenzione resta tut-
ta focalizzata sugli appuntamenti che metteranno in palio il biglietto per i Giochi di Parigi. A ogni buon conto il successo iridato rappresenta uno stimolo in più per affrontare con lo spirito giusto le prossime prove, oltre che una grande iniezione di morale: ora so di essere nella… scia giusta; ora devo solo continuare a seguirla e insistere». Poche ma essenziali sono le caratteristiche per poter diventare un buon windsurfer: «Uno dei requisiti fondamentali è il fisico: il windsurf è una disciplina che richiede parecchio sforzo fisico per cui occorre lavorare molto sulla corporatura e sui muscoli in modo da poter contare su una buona prestanza fisica. Allo stesso tempo occorre uno spiccato senso strategico e tattico: per emergere dalla massa occorre essere bravi a leggere le condizioni meteorologiche e in particolare quelle del vento». La competizione olimpionica segue regole e cri-
teri precisi: «Quello che pratico io è il Windsurf Foil Racing che, come dice il nome stesso, è una disciplina tutta basata sulla velocità. La partenza avviene in massa, di solito fino a una cinquantina e più vele: per ogni manche – ogni evento ne prevede diverse sull’arco di una giornata – viene poi stilata una classifica in base all’ordine d’arrivo, da cui viene poi ricavata la graduatoria complessiva».
Nato nel 1968 (data della prima tavola con vela brevettata), il windsurf ha fatto la sua prima apparizione ai Giochi di Los Angeles nel 1984 (mentre la gara femminile con tanto di titolo olimpico in palio è stata introdotta a Barcellona, otto anni dopo). Negli anni, nel menu olimpico si sono succedute diverse classi, dalla Mistral di Atene 2004 alla RS:X di Londra, 2012, Rio 2016 e Tokyo 2020. Che, a sua volta, a Parigi 2024 cederà la scena al Foil di Elia Colombo e compagni.
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Corinne Kutz –Unsplash); sotto da sinistra a destra: uno dei cannoni usati dall’esercito di Rodney punta verso l’isola di Martinica (che all’epoca era sotto il possesso dei francesi), (Simona Dalla Valle); le antiche cucine degli accampamenti militari britannici, (Simona Dalla Valle); in basso: vista di Rodney Bay, (© Simon Hurry –Unsplash)
Là dove i cannoni si riflettono nel mar caraibico
Reportage
Non è semplice arrivare in cima al Fort Rodney o al Signal Peak, ma non è nemmeno faticoso quanto altre scalate di Saint Lucia, una su tutte l’ascesa ai Pitons. Le due cime di Pigeon Island, un tempo separata da Saint Lucia come suggerisce il nome, sono unite da una sella, mentre uno sperone a nord-est sfocia nel Mar dei Caraibi.
A pochi minuti dalla capitale Castries, una strada artificiale conduce al territorio montuoso di quasi diciotto ettari, un luogo che ebbe un ruolo cruciale negli eventi mondiali a partire dal Settecento.
Nel 1782 la guerra d’indipendenza americana aveva raggiunto i Caraibi e alcuni anni prima la Francia si era alleata con le colonie nordamericane in rivolta. Nel tentativo di strapparne il possesso agli inglesi, i francesi si erano uniti alla flotta spagnola per invadere la Giamaica. La Gran Bretagna, priva di alleati, cercava di mantenere il monopolio della regione. L’ammiraglio britannico Rodney, a cui oggi è intitolata una baia da cartolina, fu una figura cruciale per la storia dell’isola. Nel 1778 l’ufficiale vi stabilì una base navale fortificata per contrastare l’espansione francese nei Caraibi, facendo abbattere tutti gli alberi per osservare indisturbato i francesi in Martinica. Le alture sono ancora costellate da rovine di forti, cannoni, bunker e fondamenta di edifici militari, non è difficile dunque immaginare come fossero queste strutture nella loro versione originale e integrale.
Oggi Pigeon Island è gestita dal Saint Lucia National Trust, che ha restaurato l’area sviluppandola in modo da non comprometterne la storia e l’abbondante vegetazione. Un museo e un centro di interpretazione sono stati incorporati nelle rovine presenti sull’isola, concentrandosi principalmente sulla battaglia delle Saintes e nei dintorni nel corso degli anni.
Tra le fitte e boscose montagne di Pigeon Island si sviluppò un singolare movimento di resistenza. Un esercito guidato da Kermené e Sabathier Saint-André divenne una forza da non sottovalutare alla fine dell’Ot-
tocento: l’Armée française dans le bois, l’esercito francese nei boschi. I membri di questa compagine erano schiavi, persone libere di colore, bianchi indigenti, alcuni soldati francesi e un esiguo numero di proprietari di piantagioni favorevoli alla repubblica i quali, sotto la minaccia di tornare in schiavitù, non combattevano per un premio in denaro o un bottino, ma per la propria vita.
Nel 1795 l’Armée controllava la maggior parte dei siti strategici di Saint Lucia, tra cui Pigeon Island, che cadde il 6 giugno 1795, i suoi uomini completamente logorati dalla febbre gialla. Gli inglesi reinvasero Saint Lucia e, nel novembre 1797,
i combattenti per la libertà si arresero a condizione di una cessazione delle ostilità e della promessa di non ritornare schiavi. Difatti, nonostante il ripristino della schiavitù a Saint Lucia, i combattenti furono trattati come prigionieri di guerra, molti di loro inviati al Castello di Portchester a Portsmouth. I sopravvissuti furono poi scambiati e inviati in Francia, o arruolati come soldati del West India Regiment. Lì avrebbero prestato servizio in vari teatri di guerra europei e in Africa. Altri non si arresero mai, e rimasero nascosti sulle montagne.
Il nome di Pigeon Island non è legato alla sola guerra. Nel 1909, l’amministrazione locale concesse un con-
tratto di locazione al sanvincentino Napoleon Ollivier allo scopo di stabilirvi un’attività di caccia alla balena. La distanza dell’isola da qualsiasi insediamento la rendeva una scelta ideale, e il vento avrebbe ridotto al minimo l’odore pungente delle carcasse. A metà degli anni Venti alcuni pescatori americani gestivano una piccola flotta di golette baleniere. Le loro conquiste erano per lo più focene, ogni tanto una megattera, e quando ciò accadeva gli abitanti della vicina Gros Islet accorrevano per vedere il «mostro». Nel 1925 Saint Lucia emanò una legge per controllare l’industria baleniera dell’isola, di fatto ponendo fine alla pratica già nel corso dell’anno successivo. Storie di guerre, schiavitù e caccia. Ma anche un’appassionata devozione, quella di Agnes Pennington Leigh. Un personaggio eclettico e carismatico, la donna era nota ai più con il nome d’arte Josset, legato al ruolo di soprano e di attrice che svolgeva per la compagnia teatrale D’Oyly Carte all’hotel Savoy di Londra. Durante una visita a Saint Lucia nel 1937, Josset firmò un contratto di locazione di 99 anni per una proprietà su Pigeon Island. La donna si affermò rapidamente come figura quasi mitologica legata al territorio dell’isola. Dopo le nozze con Anthony Snowball, il secondo marito, fu scherzosamente soprannominata «Ma Snowball», un nome che si adattava perfettamente ai
suoi folti capelli chiari. Questo matrimonio, così come il primo, terminò in fretta, e Josset poté dedicare tutta la sua attenzione a Pigeon Island.
In questo paradiso tropicale la vita era perfetta per lei. Aveva barattato il periodo dei balli sfarzosi, degli abiti eleganti e dei brandy costosi con un luogo tranquillo e soleggiato, leccornie fatte in casa e bottiglie di rum speziato. Prese in gestione un ristorante sulla spiaggia tenuto insieme da bastoni sbiechi e un tetto di paglia raffazzonato vicino alla spiaggia meridionale di Pigeon Island. Spesso gli avventori erano un centinaio, arrivati a bordo di yacht ancorati a poca distanza.
Durante l’occupazione americana della Seconda guerra mondiale, Josset dovette lasciare l’isola, ma nel 1947 le fu permesso di riprendere la sua vita spensierata. Quando nel 1972 con il Rodney Bay Development Scheme si decise di costruire la strada rialzata che collega tuttora Pigeon Island alla terraferma, Josset aveva già ceduto la proprietà, conservando un appezzamento nella parte meridionale dell’isola. Visse in pace e tranquillità fino al 1976, mantenendo le attività consuete anche dopo che l’isola fu accessibile in auto e non solo via mare. Tornata in Inghilterra, Josset morì all’età di 90 anni. Gran parte della sua abitazione fu distrutta dall’ultimo grande uragano che colpì Saint Lucia nel 1980.
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Vista di Saint Lucia, (©
◆ Storia tormentata, quella di Pigeon Island dell’arcipelago delle Isole Sottovento
Simona Dalla Valle
La prossima settimana festeggeremo il 1° agosto. Ma per una volta non si tratta del Tell di Bürglen, ma di un altro straordinario Wilhelm. Perché Wilhelm Kaiser di Berna ha fondato nel 1901 l’azienda Chocolat Villars a Villars-surGlâne FR. La fabbrica di cioccolato produce le teste di cioccolato più vendute in Svizzera, con una leggera schiuma cremosa all’interno e un sottile strato croccante di cioccolato all’esterno. Per l’anniversario della Svizzera, i «Moretti di cioccolato» sono ora disponibili nel tradizionale look a croce svizzera.
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Una sfida lunga (quasi) quattrocento chilometri
Itinerario ◆ È giunto al termine il trekking della ticinese Sofia Benagli e dei suoi due asini
Guido Grilli
Sono tornati a casa Sofia, Leopoldo e Batuffola. Sofia Benagli, malcantonese, ha 25 anni e un giorno di maggio s’è decisa: intraprendere un viaggio straordinario. Partire in un trekking di due mesi e mezzo con i suoi due asini. Itinerario: da Kleindöttingen, vicino a Koblenz, canton Argovia, il punto in cui l’Aare sfocia nel Reno, quindi in cammino lungo l’intero fiume, il lago di Bienne, poi in direzione dei passi di Grimsel e Nufenen, e rientro in Ticino. Una sfida lunga oltre 400 chilometri. Una sfida… quasi vinta.
L’inedito quanto instancabile team ha macinato ben oltre i tre quarti del percorso, tra avventura, imprevisti, forza, resilienza «e l’accoglienza sorprendente delle tante persone incontrate, chè talora senza il loro aiuto…».
È andata bene ma non benissimo, giusto?
Esatto: per finire siamo tornati a casa il 23 giugno. Siamo rimasti in giro per 47 giorni, 36 dei quali abbiamo camminato e abbiamo percorso un totale di 387 km. I piani sono cambiati un po’, da Meiringen, al posto di prendere per il Grimsel, abbiamo percorso il Brünig, e da lì abbiamo camminato fino a Wassen (in realtà un pezzo tra Jakob e Seedorf lo abbiamo fatto con il trasporto data l’impossibilità di scendere a piedi dal Seelisberg) e da Wassen siamo tornati a casa con il trasporto. Questo cambiamento di programma è stato dovuto alla neve ancora presente sui sentieri del Grimsel, alla mia stanchezza e al caldo che è cominciato ad arrivare.
Si sente che sei entusiasta. Sì, il bilancio è stato positivo fino a un certo punto; dopo le difficoltà delle prime due settimane le cose erano cominciate a funzionare molto meglio. Abbiamo aumentato gradualmente il numero di chilometri percorsi, fino a 14, 18 al giorno. Gli asini man mano che avanzavamo camminavano meglio, abituandosi alla situazione. Durante la seconda settimana a
Leopoldo ho dovuto mettere dei ferri, visto che molto del nostro cammino è avvenuto sull’asfalto, per «Batu» ho usato invece delle scarpette.
Perché partire con due asini?
Io con gli asini ci sono nata e cresciuta; i miei genitori li hanno sempre avuti e c’era sempre in me il desiderio di fare una vacanza con loro due, caricarli e partire. Alcuni anni fa ho scoperto che una ragazza germanica ha realizzato un trekking assieme al suo asino col basto, da Monaco a Venezia. Ho letto il suo libro, ho seguito il suo blog e una sua conferenza poi mi sono detta, «se lo ha fatto lei possiamo farlo anche noi»: finiti i miei studi di veterinaria ho capito che era giunto il momento, ed eccoci qui.
Ma non tutto nasce dal nulla
Da dicembre fino al giorno della partenza – assicura Sofia– ho iniziato ad allenare gli asini con uscite in Malcantone e fino al Monte Lema che è stato da sempre uno dei miei sogni, perché un trekking così non si può realizzare da un giorno all’altro, c’è voluto molto allenamento. Loro non erano abituati a portare il basto né a reggere pesi, né a camminare per lunghe distanze. Neppure a camminare l’uno dietro l’altro. Non è stato affatto semplice portarli entrambi, insieme, ho dovuto escogitare soluzioni. «Poldo» ha 7 anni, mentre la Batuffola 19, che significa più esperienza.
Qual è la psicologia e la dinamica che si sono instaurate tra voi tre durante il percorso?
Adesso conosco i miei due asini e so quando una situazione può essere difficile ed è dunque meglio fare andare avanti l’uno o l’altra. La Batuffola generalmente procedeva per prima, io subito dopo e Leopoldo dietro. Questa è stata la nostra formazione. Se cambiavo l’ordine e «Batu» la mettevo dietro, lei non camminava e lo manifestava chiaramente, vedendo la fatica davanti agli occhi si arrestava, mentre davanti è bella motivata.
La giornata tipo?
Abbiamo sfruttato le ore del mattino per metterci in marcia. Leopoldo iniziava a ragliare alle 6, quindi il richiamo era eloquente e capivo che bisognava partire. Ma a me servivano almeno due, tre ore per chiudere la tenda e per riorganizzare da capo il basto, con tutto il carico. Camminavamo in media dalle 9 alle 15.30, con brevi pause. Ci concedevamo un’interruzione più lunga se veniva a trovarci qualcuno per condividere una tappa: si sono uniti per alcuni tratti mia mamma, mio zio e un paio di amici.
Trovare un alloggio con due quadrupedi al seguito non dev’essere stato semplice.
La soluzione l’ho sempre cercata sul posto, mai prima. Verso le 15, dopo sei ore di cammino, iniziavo a guardarmi intorno, alla ricerca preferibilmente di una fattoria, una stalla con cavalli, a volte da privati, chiedevo alle persone del posto. Abbiamo trovato molta solidarietà, persone gentili, disponibili ad aiutare: abbiamo ricevuto soldi, cibo, alloggi quasi tutti gratuiti, fieno per gli asini, mi hanno
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gli percorrere 20 metri. Sono tornata indietro, pensando «che idea assurda camminare vicino a un fiume quando a casa non ne hanno mai visto uno, non ce la faremo mai. Chi me lo ha fatto fare?». Eppure da quel giorno il fiume non è più stato un problema, avevano solo bisogno di tempo. E poi ho imparato che bisogna godersi un giorno alla volta senza fissarsi dei programmi.
Qual è stata invece la parte più appagante e commuovente del viaggio?
A livello paesaggistico è tutto molto bello, nel cuore della Svizzera. Noi siamo spesso soliti cercare mete lontane, ma alla fine non conosciamo il nostro paese. Costeggiare il lago di Thun mi è piaciuto particolarmente.
E le avversità della meteo?
fatto il bucato per i vestiti. Perfino un telefono in prestito quando la seconda settimana ho rotto il mio. La gente si è fidata di me e ci ha aperto con gentilezza la porta di casa.
Giorni difficili ce ne sono stati?
Sì, assolutamente, parecchi. Viaggiare con degli animali non è semplice. I momenti più complicati fino ad oggi sono stati quando Poldo aveva le suole degli zoccoli molto consumate e abbiamo dovuto mettere i ferri. L’altro momento difficile è stato quando da Beatenberg dovevamo scendere di nuovo a valle. La strada era molto trafficata, con sentieri ripidi, stretti e scivolosi. Altri episodi ardui, i passaggi in galleria, sotto ponti bassi, scivolate sul sentiero. Trovare una strada adeguata per loro non è sempre evidente.
Quali insegnamenti ha dispensato questo viaggio?
Ho imparato che bisogna essere pazienti, non farsi stressare troppo, perché gli animali lo sentono ed è peggio. Il primo giorno che hanno visto il fiume Aare non volevano avvicinarsi, ci sono voluti 45 minuti per far-
La prima settimana abbiamo avuto un po’ di pioggia, ma siamo riusciti a schivarci molti temporali, metterci al riparo in stalla. Poi invece abbiamo avuto quasi sempre soleggiato.
Evadere con la mente, la lentezza del cammino, gli orizzonti del territorio, quali sensazioni ha prodotto il trekking?
Mi è capitato spesso in queste settimane di capire quanto la nostra vita sia frenetica e di apprezzare il fascino della lentezza. La condivisione di momenti con persone che poco prima non conoscevo, oltre al forte legame che si è instaurato tra me e gli asini, è uno degli aspetti più belli di questo viaggio. Gli obiettivi dell’esperienza? Sono partita con l’obiettivo di godermi la natura e gli asini. Mi sono però presto resa conto, durante il viaggio, che molta gente non conosce come ci si deve approcciare a un animale. Ad esempio ciclisti e corridori che sfrecciano dietro di noi pensando che gli asini abbiano gli occhi anche dietro. Per questo ora ho un obiettivo in più: sensibilizzare le persone e far conoscere l’asino come animale a bambini e adulti.
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Ricetta - Gelato al cassis con zucchero ai fiori
Ingredienti
Ingredienti per 6 persone
1 dl d’acqua
200 g di zucchero
4 tuorli
450 g di ribes neri (cassis)
1 dl di panna
100 g di skyr
Zucchero ai fiori:
½ manciata di petali di fiori commestibili, ad esempio violette, cappuccina, rose
50 g di zucchero
Preparazione
1. Mescolate l’acqua con lo zucchero e i tuorli in una scodella d’acciaio inox. Sbattete la massa a bagnomaria, mescolando di continuo e facendo attenzione che l’acqua non bolla, finché la massa lega un po’. Togliete la scodella dal bagnomaria e lasciate raffreddare la massa.
2. Staccate le bacche di ribes dai rametti e frullatele. Passatele attraverso un colino. Poi montate la panna ben ferma. Mescolate la crema di tuorli con la panna, la purea di ribes e lo skyr (yogurt islandese). Trasferite nella gelatiera e lasciate consolidare.
3. Per lo zucchero ai fiori, pestate i petali con 50 g di zucchero in un mortaio, finché lo zucchero prende colore. Per ottenere dei bei colori, non mischiate i fiori, ma lavorateli con lo zucchero separatamente. Distribuite lo zucchero su una teglia e lasciate essiccare in forno a 80°C per circa 30 minuti.
4. Servite il gelato e cospargete con lo zucchero ai fiori. A piacere, guarnite con fiori.
Consigli utili
Per lo zucchero alle rose utilizzate solo fiori dell’orto. Quelli commestibili, se si conoscono bene, si possono raccogliere anche in giardino o nei prati non frequentati dai cani. I fiori di erba cipollina e di tropeolo, per esempio, hanno un sapore da speziato a piccante. I delicati fiori di borragine, violetta, rosmarino e le margherite sono adatti ai dolci, così come sono commestibili i petali di rosa non trattati o le dalie .
Se non disponete della gelatiera, versate la massa in una scodella di acciaio inox e mettewtela in freezer per circa 4 ore, avendo l’accortezza di mescolare il composto con una frusta ogni 30 minuti.
Il gelato può essere preparato anche con bacche congelate.
Preparazione: circa 30 minuti. Essiccazione: circa 30 minuti Congelamento: circa 2 h
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Prova
Un primo agosto che si «distingue»
Collezionismo ◆ Cento anni, cento spille commemorative per i natali della Patria
Maria Grazia Buletti
Attivo in un «mucchio di associazioni», come ama definirsi, è nel Patriziato di Chiasso, Alfiere dei Sottoufficiali dell’Esercito, associazione Amici fermodellisti di Chiasso, Chiasso 45 (evento nato per la commemorazione della fine della Seconda guerra mondiale): Marzio Canova non è solamente una persona curiosa, propositiva ed estremamente attiva, è pure un collezionista doc: «A sette anni ho cominciato a collezionare francobolli (complice il fatto che mio papà lavorava in Posta); posseggo circa 1600 cartoline di Chiasso e 1300 cartoline di Bellinzona, le due città ticinesi a cui sono legato per le origini di mio papà e di mia mamma; ho cominciato a collezionare le cartoline del primo di agosto che però circa vent’anni fa sono state soppiantate dalle spille».
Di distintivi del primo di agosto, che lui chiama spille, Marzio ne possiede cento, almeno fino al primo agosto di quest’anno quando saranno 101: «Le ho tutte, dalla prima all’ultima! Non ho idea di chi le collezioni qui in Ticino, ma so che in Svizzera interna comprare la nuova spilla che viene prodotta a ogni primo d’agosto è una vera a propria tradizione; ne è prova che molti negozi d’Oltralpe specializzati in numismatica le vendono». Dice di essersele comprate tutte da solo, a partire dalle prime tre che ci mostra orgoglioso: «Sono la numero 1, la 2 e la 5 e sono fatte di stoffa ricamata; sono rare e preziose perché poi si è passati
dalla stoffa alle spille, forse a causa di motivi di economicità inerenti alla loro produzione».
Le osserviamo nella loro improbabile e apparentemente empirica varietà, ed egli riflette ad alta voce sulla qualità di ciascuna «andata via via scadendo nel corso degli anni. Queste prime di stoffa sono preziose perché sono perfette e nuove; il loro valore può andare dai mille ai duemila franchi e questo è regolato da un vero e proprio listino dei prezzi del mercato». Così ci mostra un libriccino del 1992 che, ad esempio, riporta il valore della spilla del 1963: «Usata e non bella vale sui 18 franchi; quella bella sui 35 e quella nuova sui 45 franchi».
Giochi e passatempi
Cruciverba
Per rendere le fette di ananas più dolci dovrai… Termina la frase leggendo, a cruciverba ultimato, le lettere evidenziate.
(Frase: 11, 3, 2, 7, 2, 4)
ORIZZONTALI
1. Imbrattate
7. 54 romani
9. Iatale nelle patologie
10. Moneta dell’Iran
12. Sparisce al buio
13. Membrana dell’occhio
15. Monete rumene
16. Una camera d’albergo
17. Arma per la caccia
alla balena
18. 101 romani
19. Un palmipede
Oggi Marzio continua imperterrito a rimpinguare la sua collezione ogni anno, in occasione del Natale della Patria che ne vede nascere sempre una nuova: «Le conservo in un sacchettino di plastica come quelli per raccogliere le viti, le identifico con la data e le ripongo in una scatola per non farle rovinare, perché a tenerle in bacheca col tempo si rovinano a causa della luce e dei raggi del sole».
Sul fatto che nella scatola nessuno le possa ammirare, nemmeno lui, racconta che: «Sono per pochi (solo per me), e ogni tanto me le guardo o le presto, come gli oggetti delle mie altre collezioni, quando qualcuno me le chiede perché vuole allestire una mostra tem-
poranea o gli servono a scopi didattici». Non gli è ancora successo che qualcuno gli chiedesse queste spille, cosa che imputa probabilmente allo scarso interesse che suscitano qui da noi.
Intanto, i ricordi corrono sul filo degli anni: «Una volta i bambini andavano di porta in porta a vendere la spilla del primo d’agosto e lo facevo pure io: andavamo in Municipio dove ci consegnavano un cartoncino con alcune spille da vendere, e ciascuno di noi riceveva in cambio due franchi con cui andavamo poi a comprarci il gelato. Prima dei bambini c’erano i venditori muniti di coccarda con uno stemmino che li rendesse riconoscibili e abilitati alla vendita». Dagli anni Ottanta a oggi, da due a cinque franchi: questo il loro prezzo alla vendita.
Marzio racconta del suo modo molto particolare di procurarsi le prime, quelle che aveva dovuto andare a cercare, e aveva trovato con molta fortuna, dal rigattiere suo conoscente: «Non ricordo quanto mi sono costate, perché la maggior parte delle volte col mio amico rigattiere ci scambiavamo oggetti e cose che potessero interessare l’uno o l’altro di noi: io gli portavo quello che trovavo per lui, e lui mi ricambiava con qualcosa che potevo desiderare io».
Per noi le ha poste tutte sul tavolo dove ce n’è di ogni tipo, materiale e genere: da quella a forma di stella alpina allo stemma con disegnate le bandiere di tutti i Cantoni, fino a una molto originale: una pergamena minuscola e
arrotolata che attira la nostra attenzione: «Se la si srotola, c’è scritto tutto il Salmo svizzero». Naturalmente è minuscolo e perciò quasi illeggibile, ma è innegabile il moto di stupore per questa idea così bizzarra e originale. «In genere, il collezionismo ci insegna un sacco di cose: la storia, la geografia… Le spille sono un po’ meno “maestre” di altre collezioni, anche se le prime sono legate alla beneficenza. Ad esempio, nel 1910 il ricavato delle prime cartoline era devoluto a favore delle persone non vedenti; in pratica il ricavato poteva essere destinato a una causa, sempre che fosse a scopo benefico».
Difende l’idea del suo collezionismo multiplo e cita Angelo Brocca: «Era un grande collezionista di Lugano e alla fine degli anni Novanta faceva una trasmissione alla RSI nella quale parlava di una collezione, sua o di altri: in un quarto d’ora ne raccontava origine e significato, partendo da tre o quattro immagini che descriveva. Spiegava i personaggi, i loro abiti, determinati attrezzi raffigurati… e così permetteva di vivere la storia. E di impararla».
Oggi Marzio si reca ogni anno allo sportello postale per comprare la spilla corrente. Quest’anno, la portavoce di Pro Patria Ludovica Darani da noi interpellata ci anticipa: «Per la spilla dei 101 anni, a inizio giugno Pro Patria, fra le altre cose, ha annunciato in conferenza stampa che sarà prodotta nel tipico formato rettangolare della targhetta di bicicletta».
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Soluzione della settimana precedente
FAUNA AUSTRALIANA – Il canguro australiano può fare salti… Resto della frase: …ALTI CIRCA TRE
LUNGHI
20. Questo latino
21. Un avverbio
22. Stars
23. Saggi, avveduti
24. Elevati
25. Introduce un’ipotesi
VERTICALI
1. Fa parte dei finimenti
2. Estremità anteriori delle navi
3. Misura per guantoni da box
4. Cattive in poesia
5. Le iniziali dell’attore
Amendola
6. Un derivato della morfina
7. Fibre tessili
8. Piccole rane
11. Disseminate di difficoltà
13. Uno come Antonio Cannavacciuolo
14. Pianta aromatica
16. Limite, margine estremo
18. Cittadino dell’antica Roma
20. Virus dell’AIDS
22. Si dice per esortare
23. Sono a coppie nei cassetti
Regolamento per i concorsi a premi pubblicati su «Azione» e sul sito web www.azione.ch
I premi, tre carte regalo Migros del valore di 50 franchi, saranno sorteggiati tra i partecipanti che avranno fatto pervenire la soluzione corretta entro il venerdì seguente la pubblicazione del gioco. Partecipazione online: inserire la soluzione del cruciverba o del sudoku nell ’apposito formulario pubblicato sulla pagina del sito. Partecipazione postale: la lettera o la cartolina postale che riporti la soluzione, corredata da nome, cognome, indirizzo del partecipante deve essere spedita a «Redazione Azione, Concorsi, C.P. 1055, 6901 Lugano». Non si intratterrà corrispondenza sui concorsi. Le vie legali sono escluse. Non è possibile un pagamento in contanti dei premi. I vincitori saranno avvertiti per iscritto. Partecipazione riservata esclusivamente a lettori che risiedono in Svizzera.
Settimanale di informazione e cultura Anno LXXXVI 24 luglio 2023 azione – Cooperativa Migros Ticino TEMPO LIBERO 17
OTTO M A L TES I I CE S I R CE F A TO I O RTIS S E M E ETA T O T R I E LISIR UE U NITE A G F HA ITI ORI E TA OE S T OP 6192 735 48 8745 912 36 2534 689 17 9 2 6 3 8 4 7 5 1 4376 158 29 1859 273 64 7 4 8 1 5 2 6 9 3 5917 364 82 3628 491 75
METRI E
1 2 3 4 5 6 7 8 9 1011 12 13 14 15 16 17 18 19 20 21 22 23 24 25 Sudoku Scoprite i 3 numeri corretti da inserire nelle caselle colorate. 4 8 75 3 5 6 9 3 8 8 4 24 9 53 7 4 9 3 2 1 1 6
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ATTUALITÀ
Prove di leadership
La Turchia è pronta ad allargare la propria influenza trasformandosi in potenza regionale
Un esercito di spacciatori Dal Marocco ai boschi di Varese, sulle tracce delle bande che gestiscono il mercato della droga
Governo Meloni in crisi
I principali problemi della presidente del Consiglio italiano provengono dai suoi alleati
La «formula magica» ha un futuro?
Casse pensioni: un anno nero Nel 2022 si è verificato in media un calo dell’8,8% dei loro capitali; nel 2023 la situazione è migliorata
Berna ◆ Sono aperti i giochi per la successione di Berset e ci si interroga sulla ricetta migliore per garantire la stabilità del Governo
Iniziamo da dove aveva terminato Ueli Maurer, lasciando il Governo l’anno scorso. Nel suo intervento di commiato davanti al Parlamento l’ex ministro UDC esordì citando alcune cifre: «Questo è un giorno importante per il nostro Paese perché nei 174 anni di vita della Svizzera moderna oggi verranno eletti il consiglieri federali numero 120 e numero 121», in altri termini Maurer aveva voluto sottolineare la stabilità del sistema politico svizzero e il suo «Sonderfall». Nessun’altra democrazia al mondo ha probabilmente avuto un numero di ministri così contenuto in questi 175 anni di storia. Ed è un po’ quello che scrive anche Hans-Peter Kriesi nel suo volume Il sistema politico svizzero. A proposito del Consiglio federale, il politologo turgoviese sottolinea che nel nostro Paese non si procede mai a un suo completo rinnovo, visto che di regola i ministri vengono sostituiti individualmente. «Senza esagerare – sottolinea poi Kriesi – possiamo dunque dire che esiste una continuità totale dal primo Consiglio federale, eletto nel 1848, fino ai giorni nostri. Questa grande stabilità aiuta a rafforzare il ruolo del nostro Governo». E qui arriviamo appunto al concetto di «stabilità» di cui occorre sempre tener conto quando si aprono le danze per la sostituzione di un consigliere federale, come sta capitando in queste settimane per la successione di Alain Berset.
A garantire questa stabilità governativa dal 1959 c’è persino una formula non per nulla definita «magica». Fu ideata da Martin Rosenberg, un ex giornalista argoviese che in quegli anni lavorava come segretario generale del partito che oggi chiamiamo il Centro. Una formula che si basava su uno schema, con la squadra dell’Esecutivo federale schierata in questo modo: 2 - 2 - 2 - 1. Ai tre principali – PLR, Socialisti e Cristiano-Democratici – vennero assegnati due seggi in Governo e al quarto, l’UDC, uno, in questo modo veniva a crearsi una sorta di «grande coalizione» con l’obiettivo di integrare il più possibile le forze di opposizione e di accrescere il consenso attorno all’operato del Consiglio federale. Nel 1959 tornò stabilmente in Governo il Partito Socialista, allora la prima forza politica del Paese con il 26% delle preferenze, e questo proprio con l’intento di ridurre il suo ruolo di forza d’opposizione, sempre pronta a lanciare referendum o iniziative popolari. Questa prima versione della formula magica ha saputo reggere fino al 2003. A partire da quell’anno ci sono state un paio di forti turbolenze e alcune varianti rispetto alla formula iniziale. Dapprima vi fu l’entrata in Governo di Christoph Blocher che portò a due i ministri UDC, ormai primo
partito svizzero, estromettendo Ruth Metzler dell’allora PDC. I democratico-cristiani si ritrovarono così con un solo ministro.
Nessun’altra democrazia al mondo ha probabilmente avuto un numero di ministri così contenuto in questi 175 anni di storia
Quattro anni più tardi però lo stesso Blocher dovette fare i conti con uno sgambetto del Centro-sinistra che a sorpresa non gli rinnovò il mandato. Al suo posto fu eletta la grigionese Eveline Widmer Schlumpf che proprio per questo venne espulsa dal suo partito di allora, l’UDC, e che aderì al neo-nato Partito Borghese Democratico. Così fece anche l’altro ministro UDC Samuel Schmid, dopo essere stato dichiarato «clinicamente morto» dal suo partito per aver accettato la clamorosa bocciatura di Christoph Blocher. Per pochi mesi i democentristi si ritrovarono senza ministri e quindi schierati del tutto all’opposizione. Si trattò di una fase molto breve visto che l’UDC tornò in Governo già all’inizio del 2009, con
Ueli Maurer, dopo che lo stesso Schmid si era dovuto ritirare per ragioni di salute. Eveline Widmer Schlumpf restò nell’Esecutivo federale fino al 2015, con una «formula magica» che numericamente non corrispondeva più a quella iniziale, lo schema passò infatti ad un 2 - 2 - 1 - 1 - 1. In Governo non c’erano più quattro partiti ma ben cinque, mai era successo prima nella storia moderna del nostro Paese. E con due ulteriori anomalie. La prima riguardava l’UDC, che pur essendo il primo partito svizzero aveva un solo consigliere federale. La seconda singolarità chiamava in causa invece proprio il PBD, che poteva contare su un seggio in Governo nonostante fosse di fatto presente solo in tre Cantoni – Berna, Grigioni e Glarona – e malgrado una forza politica che non andò mai al di là del 5% su scala nazionale.
Nel 2016 l’entrata in Governo di Guy Parmelin ridiede all’UDC il suo secondo seggio e permise alla «formula magica» di ritrovare il suo schema numerico iniziale, con due seggi in Consiglio federale ai primi tre partiti e uno al quarto. Si tratta di una versione rivista e corretta rispetto alla formula iniziale del 1959, visto che l’UDC è riuscita a raddoppiare la sua
presenza in Governo e che il Centro si ritrova ormai stabilmente con un solo seggio. Resiste comunque lo schema iniziale del 1959: 2 - 2 - 2 - 1. Tutto a posto dunque? Non proprio. La «formula magica versione 2.0» subisce inevitabilmente il logorio del tempo, basti dire che 25 anni fa i partiti che la componevano rappresentavano oltre l’83% dei cittadini. Oggi questa percentuale è scesa al 70%. Non per nulla soprattutto i Verdi, ma anche i Verdi Liberali mirano da tempo a un seggio in Governo, per accrescere la loro capacità di incidere sul corso della politica svizzera ma anche per aumentare la legittimità dell’Esecutivo agli occhi dei cittadini. E la successione di Alain Berset riapre i giochi pure da questo punto di vista, anche se dapprima, il 22 ottobre, tutti i partiti dovranno affrontare la sfida delle elezioni federali. Le urne diranno se le ambizioni ecologiste potranno essere concretizzate o se si tratta, una volta di più, di semplici velleità, visto che i sondaggi danno per il momento i Verdi in perdita di velocità rispetto a quattro anni fa. Bisognerà capire come andranno le cose anche per gli altri partiti, in particolare tra i Liberali-radicali, dato
che il loro secondo seggio in Governo è da tempo rimesso in discussione. Sul tema della composizione del Governo una cosa è certa: i partiti non hanno fatto i loro compiti. Quattro anni fa, confrontati con la crescita elettorale dei Verdi, si erano detti che occorreva organizzare una sorta di vertice nazionale per discutere del futuro della «formula magica». Quell’incontro che non c’è mai stato. Affrontare ora un tema così delicato appare senza dubbio un azzardo, visto che ci troviamo in un contesto di tripla corsa elettorale: quella per le federali di ottobre, quella per il rinnovo del Governo in dicembre e infine quella per la sostituzione di Alain Berset. Una triplice sfida in cui ad oggi una sola cosa è certa: in dicembre la Svizzera avrà il suo 122 ministro o ministra. Ma questo forse non basterà per continuare ad andare fieri del «Sonderfall» elvetico, come ha fatto Ueli Maurer l’anno scorso. Prima o poi bisognerà anche poter a metter mano al grande cantiere della formula governativa. Per riuscire a capire quale ricetta sia in grado di garantire al meglio la stabilità del nostro Governo. E magari per giungere alla conclusione che in fondo va bene così.
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Il Consiglio federale davanti al lago di Murten/Morat a fine giugno. Da sinistra: Walter Thurnherr (il cancelliere), Elisabeth Baume-Schneider, Karin Keller-Sutter, Guy Parmelin, Alain Berset, Viola Amherd, Ignazio Cassis e Albert Rösti. (Keystone)
Roberto Porta
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Quei cavi strategici
Taiwan ◆ È necessario mettere in sicurezza le infrastrutture sottomarine che permettono il traffico internet, poiché la Cina potrebbe sabotarle
Giulia Pompili
Una mattina di febbraio, da un giorno all’altro, i 13mila abitanti di un arcipelago di fronte alla costa meridionale della Cina si sono ritrovati senza internet. Connessioni rallentatissime per le comunicazioni, per le prenotazioni degli hotel e dei ristoranti, per fare ricerche su Google o accedere al proprio conto bancario online. Le isole Matsu sono un piccolo arcipelago, composto da 19 isolotti, il cui territorio appartiene alla Repubblica di Cina, il nome formale di Taiwan, ma sono posizionate proprio di fronte alle coste della Repubblica Popolare Cinese, cioè la Cina. Pechino rivendica tutti i territori di Taiwan come suoi, anche se il Partito comunista cinese non li ha mai governati, e la «riunificazione inevitabile» è una priorità della leadership cinese di Xi Jinping da sempre, da raggiungere con «tutti i mezzi necessari», quindi anche con l’invasione armata e la guerra.
L’isola delle Matsu più vicina alla terraferma dista poco più di 9 chilometri dalla costa della provincia cinese del Fujian. Ci sono due cavi sottomarini che portano internet alle Matsu, ed entrambi sono stati danneggiati nel giro di una settimana, tra il 2 e l’8 febbraio scorso. Un disastro annunciato. Può sembrare sorprendente, ma nell’era delle comunicazioni senza fili, in realtà almeno il 95% del traffico internet avviene via cavo: si stima che ci siano 1,4 milioni di km di cavi sottomarini in servizio a livello globale. Sono piccoli, di circa 25 millimetri di diametro, e si estendono in una rete capillare per portare le comunicazioni via dati un po’ ovunque, da un continente all’altro.
Due cavi sottomarini portano internet alle Matsu; entrambi sono stati danneggiati nel giro di una settimana
In alcune aree del mondo, come quella dello stretto di Taiwan, la tensione politica rende certe infrastrutture a dir poco strategiche. I due cavi che portano internet alle isole taiwanesi sono stati riparati solo il 31 marzo scorso, ma quella cinquantina di giorni di isolamento di parte del ter-
Una posizione di privilegio
Turchia ◆ La Nazione guidata da Erdo ˘ gan è pronta a un ruolo di primo piano sullo scacchiere internazionale, ma la guerra in Ucraina la frena
Lucio Caracciolo
ritorio amministrato da Taipei ha fatto capire in modo molto concreto non solo a Taiwan, ma anche al resto del mondo, che parte delle attività ostili delle grandi potenze potrebbe manifestarsi proprio con il sabotaggio di infrastrutture strategiche come quella. Nei giorni successivi al danneggiamento dei cavi, il Governo di Taiwan ha evitato di definirlo un atto deliberato di Pechino e non ci sono prove dirette che dimostrino la responsabilità delle navi cinesi nell’isolamento internet delle Matsu, eppure il sospetto è più che legittimo. La Cina ha la capacità tecnica di usare una tattica simile come parte di quella che viene definita la guerra ibrida, e da almeno un anno la Marina cinese ha intensificato enormemente le sue attività attorno all’isola di Taiwan. La guerra d’invasione della Russia contro l’Ucraina, inoltre, ha mostrato la fragilità del sistema di sicurezza internazionale attorno a certe infrastrutture che servono alle attività via internet dei civili, per ordinare una pizza o per mandare messaggi, ma anche ad accedere a un conto bancario, per esempio, oppure per le comunicazioni militari cifrate.
Dopo i sabotaggi ai gasdotti Nord Stream nel settembre del 2022, la necessità di mettere in sicurezza le infrastrutture sottomarine e ridurre le dipendenze dalle potenze autocratiche è diventata molto più urgente. Non a caso, il tema della difesa dei cavi sottomarini è stato sollevato anche durante l’ultimo Summit della NATO a Vilnius, in Lituania. Nel comunicato finale dei leader dei Paesi membri, al punto 65, si esplicita: «La minaccia contro le infrastrutture sottomarine critiche è reale e sta aumentando». E quindi: «Qualsiasi attacco deliberato contro le infrastrutture critiche degli Alleati sarà affrontato con una risposta unita e determinata; questo vale anche per le infrastrutture sottomarine».
Secondo alcune notizie trapelate sui media taiwanesi, per aumentare la capacità di reagire a eventuali attacchi contro la rete internet, il Governo di Taipei sta studiando un modo per raddoppiare i cavi che portano internet ai suoi territori. Ma non basta. Taiwan ha studiato molto da vicino
la guerra in Ucraina, e ha capito che la Russia ha fatto della sua capacità di mettere fuori uso le infrastrutture strategiche belliche un punto di forza. L’ingresso nella guerra in Ucraina di Starlink, la costellazione satellitare di proprietà della SpaceX di Elon Musk, dimostra che una via d’uscita ci sarebbe: evitare l’isolamento spostando le comunicazioni critiche, quelle più importanti, sulla rete internet satellitare. Che però è costosa, perché si tratta di lanciare in orbita decine di satelliti equipaggiati con tecnologia di altissimo livello. E il Governo di Taipei non può affidarsi completamente all’infrastruttura privata di Elon Musk, perché il tycoon ha più volte fatto intendere di essere più interessato agli affari con la Repubblica popolare cinese.
L’alternativa del sistema satellitare ai cavi sottomarini è studiata anche tra i Paesi occidentali, ma il problema resta
L’alternativa del sistema satellitare ai cavi sottomarini, molto esposti a danneggiamenti e sabotaggi, è studiata anche tra i Paesi occidentali, ma il problema resta. La Russia e la Cina hanno sviluppato una sofisticata capacità antisatellitare, anche da terra: sono in grado, cioè, di mettere fuori uso un satellite ostile. Anche per questo la NATO, durante l’ultimo summit, ha ribadito anche la necessità di mettere in sicurezza i sistemi satellitari e le infrastrutture spaziali dei Paesi dell’Alleanza da potenziali minacce. La Space Force (USSF), la sesta branca delle forze armate degli Stati Uniti, oggi sta lavorando alla costruzione di costellazioni di satelliti per il trasferimento dati e il controllo delle minacce in modo da aumentare i sistemi di Difesa: secondo il Pentagono, è questa una delle priorità dell’Amministrazione Biden. Per i cittadini di Taiwan, invece, la priorità è soprattutto uscire dalla trappola delle intimidazioni cinesi e usare internet liberamente, senza la preoccupazione dei sabotaggi. La questione influenzerà anche le elezioni presidenziali che si terranno il 13 gennaio del 2024.
Che cosa vuole la Turchia? È la domanda forse più interessante che possiamo porci per capire il momento della guerra in Ucraina. Nessun altro attore di peso si muove oggi con altrettanta insistenza nel mondo per tentare di avviare una mediazione tra Putin e Zelens’kyj. E affermarsi conseguentemente come potenza di rango globale. Ankara è formalmente ed effettivamente membro della Nato, ma a modo suo. Cerca il dialogo con Mosca, da cui acquista sistemi missilistici mentre arma con i suoi speciali droni Bayraktar gli ucraini. Impone e poi ritira veti a paesi che vogliono entrare nell’Alleanza Atlantica, a dimostrare di essere l’unico fra gli Stati associati a svolgere di fatto una politica indipendente dal leader americano. Penetra in Asia centrale, facendo leva sulle comuni radici turche degli – stan ex sovietici, in competizione con i cinesi e con gli stessi russi. Ripropone, senza troppo crederci, la propria candidatura all’Unione Europea costringendo i Ventisette a improbabili giochi di parole per spiegare che non se ne parla mentre ne parlano. Il primo errore da evitare quando si analizza la posizione turca è identificarla con il suo attuale leader Erdoğan. Personalità prorompente, ego molto visibile, ma pur sempre provvisorio capo della Repubblica Turca e non quell’autocrate che molti semplicisticamente vorrebbero vedere. Tanto da aver vinto, pur di misura, le ultime elezioni politiche e presidenziali che gli aprono altri cinque anni di governo al timone della nazione turca. Lo sfondo su cui Erdoğan e la Turchia – Erdoğan con la Turchia –muovono le proprie pedine geopolitiche è rappresentato dall’idea fissa di vedersi riconosciuto il ruolo di Grande. E questo spiega anzitutto le sue apparenti contraddizioni, la sua quasi estetica capacità tattica, e il suo scarso interesse a non smentire sé stesso.
Dal punto di vista geopolitico il limite maggiore che si pone alle ambizioni di Erdoğan è la compressione della Repubblica Turca nello spazio anatolico. Frutto della catastrofica sconfitta nella Prima guerra mondiale, quando l’impero ottomano, decadente da almeno mezzo secolo, evapora e si instaura la Repubblica di Atatürk.
Siamo nel 1923. Esattamente cent’anni dopo Erdoğan si propone di compiere un salto di scala. Di usare
quindi l’Anatolia non solo come spazio di protezione della nazione turca ma quale trampolino di lancio.
Per questo il primo obiettivo è quello di allargare la propria influenza nell’estero vicino. Non solo inseguendo i curdi lungo la direttrice siriana o irachena e nemmeno tanto annettendosi di fatto l’Azerbaigian quasi fosse una provincia del suo Stato. L’obiettivo primo, qualche volta evocato con parole minacciose, è la Grecia. Più precisamente le isole dell’Egeo che premono sulla penisola anatolica e che impediscono ad Ankara di realizzare il sogno della Patria Blu. Marchio con il quale la Marina turca, qualche anno fa, ha battezzato i suoi progetti di egemonia mediterranea, da intendersi come premessa dell’accesso all’Oceano Mondo. Ciò che codificherebbe effettivamente la Turchia come attore di primissimo piano.
Ma per arrivare a Suez devi passare le barriere dell’Egeo e di Cipro. Oggi Ankara controlla non troppo indirettamente la parte settentrionale dell’isola condivisa con i greci. In una prospettiva non molto lontana Erdoğan immagina di poter estendere se non il controllo diretto quantomeno la sua influenza indiretta su Cipro, intesa come crocevia del Mediterraneo orientale.
Tutto questo, ovviamente, prevede la fine della guerra in Ucraina. Obiettivo che pare oggi lontano, e che limita il ruolo di mediazione di Ankara a questioni di dettaglio, perché né russi né ucraini – tanto meno gli americani – sanno come far terminare decentemente questo conflitto. L’unica cosa certa è che quando questa guerra effettivamente si sospenderà (di vera pace non è il caso di sognare) tutti ci accorgeremo del ruolo che la Turchia è venuta ad assumere nel Mediterraneo orientale e nella zona del Mar Nero, tanto da farne in prospettiva la potenza regionale dell’area.
Questo significherà che la Turchia sarà un attore di primo piano anche in Europa. Questo vale per gli approvvigionamenti energetici, in particolare di gas russo e azero, che potrebbe trasformare la penisola anatolica in un perno gasiero di primo piano, complementare a quello nordafricano. Ma vale anche per la potenza militare. Oggi che tutti riarmano, la Turchia parte da una posizione privilegiata, disponendo delle Forze armate più efficienti e credibili nell’area euro-mediterranea.
Zelens’kyj in occasione dell’incontro con Erdogˇ an a Istanbul a inizio luglio.
(Keystone)
Settimanale di informazione e cultura Anno LXXXVI 24 luglio 2023 azione – Cooperativa Migros Ticino ATTUALITÀ 21
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Alle origini dei legionari della droga
Conseguenza della combustione della polvere da sparo, le minuscole particelle fuoriescono dalla bocca della pistola, si raffreddano a contatto con l’aria assumendo forma sferica, si espandono sullo sparatore – dorso delle mani, naso, pieghe dei vestiti – così come sulla vittima ammesso che essa non sia lontana, e quindi si depositano nell’ambiente sostando poche ore.
Quei cadaveri ignoti
Nei boschi lombardi della droga, specie al confine con il Canton Ticino, da mesi giacciono cadaveri ignoti devastati dal freddo, poi dal caldo e torturati dagli animali selvatici. Forse un giorno questi cadaveri saranno scoperti dal cane d’un cacciatore, dai cercatori di funghi, da bimbi a passeggio sui sentieri insieme alle loro mamme e ai loro papà. Forse nell’autopsia il medico legale scoverà pallottole incastrate nei corpi che in precedenza avevano colpito cuori e polmoni, cervelli e arterie, interrompendo subito la vita oppure originando lente agonie, il sangue che colava sulle radici degli alberi e l’ossigeno che cessava di rifornire la testa; ma di sicuro un carabiniere o un poliziotto costruirà la sua indagine ipotizzando l’ennesimo regolamento di conti tra pusher divenuti rivali.
«In considerazione della crescita numerica e degli arsenali dei gruppi, e contando gli omicidi finora avvenuti, abbiamo la ragionevole certezza che vi siano state altre esecuzioni»
Si predicano fratelli e lo sono – le stesse origini nella regione di Béni Mellal-Khénifra, entroterra marocchino, gli stessi Paesi, le stesse scuole elementari – ma fin quando il denaro non attacca a girare vorticosamente.
Allora si scannano: verbo necessario per registrare la progressione feroce delle bande della droga. «In considerazione della crescita numerica e degli arsenali dei gruppi, e contando gli omicidi finora avvenuti, abbiamo la ragionevole certezza che vi siano state altre esecuzioni, quante non si sa, ma senza dubbio avvenute», conferma un investigatore.
Eppure da qui, dall’altra parte, dal punto di partenza, insomma dal Marocco, al solo nominare le faide intestine tra connazionali, tra identici spacciatori, appunto tra fratelli, riceviamo sguardi rabbiosi che azzerano in un niente il credito accumulato avendo noialtri lavorato di fonti, ganci, amici degli amici di conoscenti che ci hanno permesso di girare e chiedere.
Manca il vertice
La geografia giusta, anzi ineludibile, poggia su un’unica strada, non larga, che attraversa il villaggio di Ouled Youssef, e attorno alla quale si susseguono le bancarelle dei macellai, dei contadini, dei venditori di vestiti, e il Café Duomo. L’insegna è un evidente omaggio al passato milanese del gestore, un omino scattante che interrogato sul tema della droga attacca perfino a vantarsi dei sette anni nel carcere di Opera, di quando e come veicolava significativi carichi di cocaina, delle case popolari in periferia che servivano come basi, salvo però innervosirsi alla richiesta – ed eccoci – sul perché mai, a un certo punto, anziché muovere tutt’insieme uniti e pertanto più forti, certamente sempre operando contro la legge – ma non è, capirete, l’ambito per dibattiti sulla morale – i pusher finiscono per darsi addosso. Forse per l’assenza di una struttura organizzata e verticistica con «norme» di comportamento?
Forse perché alla lunga questa della fratellanza è una gran balla? «Salutami Milano», dice il gestore del Café Duomo. «Io a Milano dirò grazie in eterno, mi ha fatto ricco».
Il PIL del male
Ha detto un investigatore esperto di delinquenza internazionale che in Italia si provvede al PIL, il Prodotto Interno Lordo, del male, nel senso che in Italia si ospita (anche) qualunque straniero non abbia voglia di faticare, persegua i propri comodi sulla pelle del prossimo, metta da parte denaro per sé, i figli e i nipoti, e rimpatri per trascorrere una bella vecchiaia benedicendo l’impunità
avuta nella Penisola. Vero però che a camminare per Ouled Youssef, uno dei principali punti di reinvestimento dei capitali della droga, schivando galline, instabili motorette scoppiettanti e folate di vento più che afoso, s’innesca il seguente fenomeno: si fanno avanti rispettosi anziani che vogliono raccontare un’altra storia. Quella dell’emigrazione sofferente di muratori, imbianchini, i famosi «vu cumprà» che inizialmente vendevano tappeti ma all’occorrenza commerciavano sui marciapiedi accendini, sigarette, calze, magliette, e poi operai, magazzinieri, custodi, giardinieri. Decine di migliaia di persone che hanno rappresentato e rappresenteranno l’enorme maggioranza.
Pullman sospetti
E però, di ritorno nel Café Duomo, il gestore, non si capisce se per scherzo oppure per sfida, se non per trappola, propone il trasporto di panetti di cocaina in Italia garantendo un sostanzioso anticipo cash – il resto alla consegna – e predicando la facilità della missione: basta infilarsi su una delle corriere che in tre giorni vanno a Tangeri, attraversano la Spagna e sbucano in Liguria. «Alla dogana –dice – gli spagnoli non possono fermare tutti i pullman e mettersi lì a controllare ogni passeggero… Ci sono autisti svegli che sanno dove nascondere la droga».
I marocchini, ricambiati, detestano i tunisini che considerano infidi a prescindere, e i francesi: negli infiniti posti di blocco della Royal Gendarmerie c’è stata infatti una premessa, appena abbassato il finestrino, che definiva i successivi tempi d’attesa: «Sei francese?». Con gli spagnoli, invece, al netto dello scontro di-
plomatico relativo al passaggio dei profughi tra Nordafrica ed Europa, i rapporti sono buoni in quanto funzionali. Molti degli spacciatori ricercati a Varese sono latitanti specie in Andalusia dove hanno reti, appoggi, fornitori di armi.
«Madame cocaina»
Un sistema consolidato raggiunto anche da parte di uno degli ultimi che si è sottratto alla cattura. Componeva la banda autrice del massacro di un 24enne che aveva osato derubare i complici di 30mila euro in contante e dosi. Nonostante la distanza, i traffici del latitante non sono mai diminuiti: merito della fidanzata che svolgeva ruoli da contabile, organizzatrice, che riforniva i «soldati» nascosti nelle radure e addetti
alla vendita diretta, che verificava lo stato delle armi, monitorava le mosse dei concorrenti, esplorava colline e monti alla ricerca di nuovi luoghi di smercio.
È la prima donna con un ruolo da protagonista nella narrazione delle bande della droga. Un’anomalia, a considerare il maschilismo imperante di un popolo nato sulle leggi coraniche. Il soprannome della donna è «Madame cocaina». Arrestata, pernotta in cella. Parlerà tradendo l’innamorato e la banda? O forse che, con lei, ventenne, si sta configurando una nuova regina del crimine che genererà emulatrici e addirittura cambiamenti nella società marocchina?
(2. continua; la prima puntata, Giovani analfabeti e disposti a tutto per denaro, è apparsa sull’edizione del 17 giugno 2023).
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Reportage
bande
anche nei boschi al confine con il Ticino
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Le mestruazioni sono la cosa più naturale del mondo: durano in media cinque giorni. Durante questo periodo, una donna perde in media 60 millilitri di sangue al giorno. Fino alla menopausa, una donna consuma tra i 12’000 e i 16’000 assorbenti o assorbenti interni. I prodotti sostenibili, come le coppette mestruali o la biancheria intima speciale, contribuiscono a ridurre la quantità di rifiuti. Da ultimo ma non per importanza: in media, una donna trascorre 3500 giorni o quasi dieci anni con il mestruo.
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Governo Meloni in tilt
Italia ◆ I principali grattacapi della presidente del Consiglio provengono dal suo cerchio interno e dalla sua maggioranza
Alfio Caruso
La «Guerra dei trent’anni» italiana è incominciata nell’autunno 1994 allorché Berlusconi, neo presidente del Consiglio, fu raggiunto a Napoli da un avviso di garanzia che, a onta del nome, garantisce soltanto lo screditamento di chi in teoria dovrebbe essere garantito. Al tempo, Berlusconi veniva indagato per concorso in corruzione nell’inchiesta denominata «Mani pulite». Era stata avviata dalla procura di Milano e in pratica decapitò la classe politica in sella da mezzo secolo. Fu una congiura? Nella sostanza, no. Tuttavia, per Berlusconi e il Centrodestra raggruppato attorno lui, era il tentativo dei magistrati «sinistrorsi» di sovvertire per via giudiziaria il responso delle urne. La soap opera si è ripetuta nel 2001 e nel 2008, in occasione degli altri due successi di Berlusconi con l’acme toccato nel 2011 quando il Cavaliere sostenne di esser stato costretto alle dimissioni da un complotto internazionale, di cui avrebbero fatto parte la Banca Centrale Europea, il Fondo Monetario, alcune Cancellerie europee.
Lo scorso settembre la straripante vittoria di Giorgia Meloni e del cartello di Centrodestra avrebbe dovuto rappresentare la chiusura di quella lunga stagione di sospetti e di polemiche. Persino l’annunciata riforma della giustizia, invocata da ampi settori, presente nel programma elettorale di Fratelli d’Italia e legittimata dalla va-
langa di voti ricevuti, sembrava poter essere accolta financo dalle correnti progressiste, malgrado le impennate del ministro competente, Nordio. Per di più, la scomparsa di Berlusconi avrebbe dovuto segnare la fine del rancore, normalizzare i rapporti, chiudere un’epoca fin troppo lunga, in cui berlusconismo e giustizialismo si sono alimentati e motivati a vicenda.
Viceversa, sono bastate tre iniziative giudiziarie (Santanchè, Delmastro, La Russa), benché slegate fra di esse, per mandare anche questo Governo in tilt; per indurre Meloni a salire sulle barricate contro l’ennesimo complotto delle toghe «sinistrorse» in vista delle elezioni europee; per solleticare gl’immancabili cani sciolti delle procure a sfruculiare altri rappresentanti del Centrodestra. Una psicosi inspiegabile o addirittura un virus che nessuno riesce a debellare e che contagia regolarmente il Centrodestra. Ed è già costato a Fratelli d’Italia, fin qui in ascesa, due punti nei sondaggi.
Eppure, l’inchiesta contro la ministra del Turismo Santanchè per i suoi comportamenti, alquanto discussi, da imprenditrice andava avanti da mesi e la stessa interessata lo sapeva, malgrado sostenga il contrario. E adesso che incombe il rinvio a giudizio per bancarotta fraudolenta e falso in bilancio, si ricordano le innumerevoli polemiche che l’hanno vista protagonista nell’ultimo decennio e che for-
se avrebbero dovuto consigliare maggiore prudenza prima di affidarle una poltrona ministeriale.
Il sottosegretario Delmastro ha fatto qualche confidenza di troppo al suo coinquilino Donzelli, uno dei cervelli di Fratelli d’Italia, sulle visite in cella dei parlamentari democratici a un condannato al 41 bis, cioè il carcere duro. Tutto nelle regole, Donzelli ha però utilizzato queste visite per scatenarsi in una veemente reprimenda contro l’opposizione. Un normale gioco delle parti, tant’è vero che la procura romana aveva chiesto l’archiviazione per Delmastro, mentre il giudice delle indagini preliminari ne
ha stabilito il rinvio a giudizio coatto. Somiglia più a uno scontro fra poteri giudiziari, che una macchinazione ai danni del Governo.
Il terzo caso è quello più delicato, nonostante all’apparenza sembri un caso privato: Leonardo La Russa, diciannovenne terzogenito del presidente del Senato, Ignazio, è accusato di violenza sessuale. Siamo soltanto all’avvio di una vicenda che si annuncia complessa, aspra, divisoria e che coinvolge alcune blasonate famiglie della Milano ricca. Per quanto Meloni sia abituata a dover gestire gli scivoloni dei propri collaboratori, stavolta l’episodio è foriero di rischi, altro
che l’irrilevante opposizione di Schlein e Conte. Perché coinvolge il politico con cui ha fondato Fratelli d’Italia, quello che l’ha supportata negli anni difficili dell’inizio con il partito al 3% e che lei ha premiato con la seconda carica dello Stato. Perché il suo prolungato silenzio sulle dichiarazioni fuori luogo dello stesso La Russa, costretto poi a rettificare, può irritare le tante donne che l’hanno votata, nonostante Meloni abbia poi detto che al posto del presidente del Senato avrebbe taciuto. Perché aver ribadito la propria solidarietà a una ragazza che denuncia, significa mettere sulla graticola La Russa nell’evenienza di un probabile rinvio a giudizio del figlio con l’aggravante che gli è stato rinfacciato di aver troppo protetto Santanchè.
Si è così avuta la conferma che i principali problemi di Meloni non provengano dagli avversari politici, bensì dal suo cerchio interno e dalla sua maggioranza. Tranne rare eccezioni, le scelte di Meloni hanno premiato la fedeltà più che la competenza. E ogni passo falso è stato sottolineato da Salvini, costretto a ruoli di secondo piano dal deludente esito elettorale della Lega e ansioso di una rivincita avente come traguardo le europee della prossima primavera. Meloni, purtroppo per lei, ha potuto selezionare i rivali – chi non vorrebbe vedersela con Schlein e Conte? – ma non gli alleati.
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Risultati deludenti per le casse pensioni nel 2022
Svizzera ◆ L’anno scorso si è verificato in media un calo dell’8,8% dei loro capitali, ma nel 2023 la situazione è migliorata
Ignazio Bonoli
A fine maggio è stato pubblicato l’abituale rapporto di Swisscanto, l’associazione delle banche cantonali, sull’andamento delle casse pensioni nel 2022. Prima constatazione: lo scorso anno non è stato un buon anno per le casse pensioni svizzere, soprattutto per quanto concerne il rendimento degli investimenti. Contrariamente all’anno precedente, nel quale si è potuto registrare un miglioramento dell’8%, nel 2022 si deve constatare in media un calo dell’8,8% dei capitali delle casse pensioni. Si è quindi trattato dell’anno peggiore dal 2008. Seconda constatazione: si possono vedere grandi differenze di rendimento fra le varie casse. Mentre la peggiore perde il 16,2%, la migliore ha potuto contenere la perdita nell’1%. Questo significa una buona prestazione nel clima di generale calo del rendimento che ha caratterizzato lo scorso anno. Queste differenze si possono constatare anche se si esaminano le prestazioni delle migliori performances delle casse negli ultimi cinque anni rispetto alle peggiori. Nel 2022 il primo gruppo ha subito una perdita del 3,8%, mentre il secondo gruppo soffre di una perdita del 12,7%.
Dopo la crisi del 2008 le casse hanno potuto realizzare buoni rendimenti, costituendo un solido capitale di base
Ovviamente una cattiva prestazione nel settore degli investimenti si ripercuote sul grado di copertura degli impegni di ogni singola cassa. Lo scorso anno il grado di copertura delle casse è sceso in media del 12%, attestandosi attorno al 110%. Per il 10% delle casse migliori – sempre dal punto di vista del rendimento degli investimenti – il grado di copertura è stato in media del 116,5%, mentre per il 10% delle casse peggiori è stato del 102,9%. I motivi principali di questa evoluzione vengono visti in un aumento del tasso di inflazione,
nell’aumento dei tassi di interesse e nella difficile situazione geopolitica. Non va però dimenticato che, dopo la crisi del 2008 (anno in cui il grado di copertura medio era sceso al 96,7%), le casse hanno potuto realizzare buoni rendimenti, costituendo così un solido capitale di base. Allora si temeva, invece, un persistere della sottocopertura, che avrebbe creato grossi problemi a tutte le casse.
Nel 2022 sono andate meglio le casse con investimenti importanti nell’immobiliare e negli alternativi
Nel 2023, sulla base dei risultati dei primi mesi, la situazione è nettamente migliorata. L’indice calcolato dalla banca privata ginevrina Pictet, sulla base di un capitale delle casse simulato che si componga di un 25% di azioni, indica un miglioramento del 3,3%. Se questo capitale fosse del 40% di azioni, il miglioramento sarebbe del 3,8%. Grazie a queste buone performances, anche il grado di copertura sarebbe già salito al 112,5% in media alla fine del mese di marzo. Il rapporto della Pictet sottolinea ancora una volta quanto sia importante una buona gestione dei capitali delle casse. Cioè una gestione professionale degli investimenti dei capitali della previdenza, ripartendo il rischio su varie classi di investimento. Nel 2022 si costata che le casse con una prevalenza di investimenti nel settore obbligazionario hanno subito le perdite maggiori. Meglio sono invece andate le casse con investimenti importanti nell’immobiliare e negli alternativi. Sul piano delle discussioni politiche è sempre preminente il problema degli interessi sul capitale di vecchiaia degli assicurati. Anche qui si constatano grandi differenze fra le singole casse. Differenze che variano dallo 0,96 al 4,28%. Il 10% delle casse migliori paga un interesse del 2,6%, il 10% delle peggiori solo l’1,1%. La
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media degli interessi sul capitale vecchiaia è dell’1,9%, cioè inferiore al tasso di inflazione. Questo rendimento si ripercuote ovviamente sul capitale di vecchiaia, sul quale si calcolerà poi la rendita degli assicurati al pensionamento. Una recente inchiesta svolta dalla Sotomo per la società d’assicurazione Zurigo ha, ancora una volta, rilevato che la popolazione svizzera non dà troppa importanza al proprio capitale assicurato. Le maggiori attenzioni sono rivolte al costo della vita, piuttosto che alla silenziosa svalutazione dei propri risparmi e alla perdita di potere d’acquisto del proprio capitale di vecchiaia. Una leggera maggioranza ritiene inoltre corretto che le giovani generazioni finanzino le rendite dei pensionati. E questo benché il principio della previdenza professionale voglia che ognuno provveda (con
il proprio datore di lavoro) a finanziare le proprie rendite di vecchiaia.
Lo scetticismo riguardo al principio della distribuzione (come per l’AVS), anche per il secondo pilastro, sta calando nella popolazione. Segno anche, secondo l’inchiesta, che una buona parte della popolazione sente una responsabilità sociale, garantita dallo Stato, piuttosto che una responsabilità individuale anche nel campo della previdenza professionale. Quando, però, si presenta una diminuzione dei rendimenti del capitale di vecchiaia (si voterà il prossimo anno sulla nuova legge), gli animi si riscaldano e torna in auge il principio della copertura del proprio capitale che non deve essere usato per altri scopi. Ci si rende conto che il previsto 60% dell’ultimo stipendio non basta più per offrire una pensione dignitosa. Si dovrà perciò tornare a contare sui propri risparmi
anche nel secondo pilastro, eventualmente completato dai risparmi privati del terzo. Nel frattempo, con oltre 141’000 firme raccolte, il referendum contro la riforma della legge sulle casse pensioni è riuscito. Non è quindi da escludere che i buoni risultati realizzati dalle casse pensioni nei primi mesi di quest’anno abbiano contribuito alla riuscita del referendum.
I punti principali del disavanzo sono la diminuzione del tasso di conversione del capitale di vecchiaia in rendita, nonostante le proposte di compensazione per le classi d’età più toccate, nonché un aumento dei contributi. Alla legge votata dal Parlamento federale si rimprovera inoltre di non aver provveduto a sanare la situazione che vede le rendite delle donne inferiori a quelle degli uomini. Ancora una volta toccherà al popolo decidere.
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Sul piano delle discussioni politiche è sempre preminente il problema degli interessi sul capitale di vecchiaia degli assicurati. (Pixabay)
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Biennale di Architettura
Un’edizione che si concentra sull’emergenza ambientale, ma che non convince perché presenta pochi progetti di architettura
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Giancarlo Giannini al Sacro Monte Intervista all’attore, doppiatore e regista italiano che giovedì prossimo sarà a Varese ospite della rassegna Tra Sacro e Sacro Monte
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L’arte femminista di Manon a Casa Ciseri
Mostra ◆ In una nuova strategia di rilancio, la dimora Ciseri a Ronco sopra Ascona ospita le installazioni dell’artista svizzera
Uno dei panorami più spettacolari del Lago Maggiore si gode dal piazzale della chiesa di San Martino a Ronco sopra Ascona, un tempo tipico villaggio di contadini, vignaioli ed emigranti. Proprio di fronte all’edificio religioso, in una posizione privilegiata nella parte inferiore del paese, sorge Casa Ciseri, dimora che diede i natali al noto pittore Antonio Ciseri, artista debitamente omaggiato dal nostro cantone nel 2021 in occasione del bicentenario della sua nascita.
Prima che le case incomincino ad addossarsi le une alle altre affacciandosi su strette viuzze, l’abitazione della famiglia Ciseri ci accoglie dall’entrata attraverso un cortile romboidale racchiuso da un alto muro. Varcando la soglia della residenza, la cui riattazione è avvenuta secondo i piani dell’architetto Francesco Meschini, si scoprono gli interni dal ricco impianto decorativo realizzato intorno al 1830 dai due fratelli Francesco e Giuseppe Ciseri, rispettivamente padre e zio di Antonio. A catturare la nostra attenzione è l’ornamento pittorico dei due ambienti principali al pianterreno: dapprima i motivi neoclassici ispirati allo stile toscano che caratterizzano la Sala delle absidi, successivamente gli affreschi della Sala dei Promessi Sposi con paesaggi e personaggi ispirati al celebre romanzo manzoniano.
Proprio i locali al piano terra hanno ospitato nel 2021 la mostra Antonio Ciseri e gli antenati da Ronco a Firenze, curata dall’Associazione Ronco sopra Ascona Cultura e Tradizioni (ARCT), esposizione grazie alla quale sono tornati a essere accessibili al pubblico. A seguito dell’apertura degli spazi dell’edificio per il bicentenario, la famiglia Ciseri ha deciso di metterli a disposizione per allestirvi rassegne di alto livello, incaricando l’ARCT di stilare un programma espositivo annuale.
L’appassionato ed esperto lavoro di questa Associazione, il cui Presidente è l’architetto e urbanista Sabrina Németh, ha l’obiettivo di rendere Casa Ciseri un polo culturale di riferimento nonché di dare nuova visibilità al cuore storico di Ronco. La gestione di questo progetto va infatti inquadrata nella più ampia cornice in cui si muove l’ARCT, che da venticinque anni si adopera per conservare, divulgare e valorizzare il patrimonio del territorio, portandolo a una reale e approfondita conoscenza di un pubblico più vasto.
In quest’ottica di rilancio di Ronco sopra Ascona è stata organizzata a Casa Ciseri la mostra dedicata a Manon, grande protagonista della scena artistica contemporanea. La rassegna, curata da Sacha Nacinovic e coordinata da Andreas Locher, ha visto la scrupolosa partecipazione dell’artista svizzera, che, sebbene non abbia potuto
essere presente fisicamente a causa del suo stato di salute, ha lavorato con entusiasmo all’allestimento, occupandosi di ogni dettaglio.
Visitando l’esposizione ci sorprende scoprire come le sale di Casa Ciseri siano un contesto particolarmente appropriato per ospitare i lavori di Manon. Certo non deve essere stato facile per l’artista e per il curatore confrontarsi con uno spazio storicamente così ben connotato, ma ciò ha costituito per loro una sorta di sfida che li ha spronati a cercare un accostamento tra le opere e gli ambienti secolari dell’edificio capace di coniugare con profonda sensibilità antico e contemporaneo, attraverso un poetico gioco di richiami visivi e concettuali.
Con i loro muri che si sgretolano e quella nostalgica patina del passato che ricopre ogni cosa, i locali di Casa Ciseri si prestano non solo ad accogliere ma addirittura a far risaltare le creazioni di Manon, i cui temi trattati muovono proprio dalla riflessione sulla fugacità del tempo e sulla transitorietà dell’esistenza umana. Si in-
nesca così un fecondo dialogo tra la produzione dell’artista e le decorazioni delle sale, in uno scambio di ritmi e di simmetrie spaziali, di profondità e di illusioni ottiche, cosicché i lavori esposti aggiungono un ulteriore livello di lettura all’ambiente architettonico, fondendosi con esso in un’opera d’arte onnicomprensiva.
Manon, nata a Berna nel 1940, figlia di un professore di economia e di una modella, non ha avuto una vita semplice: infanzia trascorsa nel più totale disinteresse nei suoi confronti da parte dei genitori, fuga da casa a quindici anni, primo matrimonio a sedici, ricovero in un ospedale psichiatrico. Le cose vanno meglio quando si trasferisce a Zurigo, dove inizia a lavorare come grafica, stilista e modella. Qui sposa il suo secondo marito, l’artista Urs Lüthi, ed entra a far parte della cultura alternativa della città, frequentando figure quali Luciano Castelli, H. R. Giger e Sigmar Polke.
È a metà degli anni Settanta che Manon diventa nota come la «performance artist svizzera», andando a
La storia delle sorelle diverse, la grande sfera aurea che la Manon dedica a tutte le donne che hanno stimolato la sua immaginazione. (Foto: Sacha Nachinovic)
toccare quei temi legati al femminismo, alla liberazione sessuale e all’identità di genere che saranno sempre presenti nella sua ricerca. Del 1974 è la celeberrima installazione Il boudoir color salmone: la sua camera da letto meticolosamente arredata in un loft di Zurigo utilizzando lingerie, strass, boa di piume e oggetti fetish per renderla la quintessenza della femminilità codificata. Nel 1976 è poi la volta di Manon presenta Uomo, installazione in cui l’artista, ispirandosi ai quartieri a luci rosse di Amburgo che ha visitato travestendosi con abiti maschili, espone alcuni uomini nella vetrina di una vecchia macelleria, proponendoli come oggetti del desiderio.
Con queste opere Manon finisce su tutti i giornali del tempo. L’artista è volitiva, eccentrica e audace, ma è anche solitaria, timida e schiva. Non riuscendo a sostenere il fulmineo successo ottenuto, nel 1977 fugge a Parigi, dove si rade il cranio come gesto di ribellione. Dopo un periodo di disintossicazione durato sette anni, riprende l’attività creativa nel 1990, portan-
do avanti la sua ricerca con rinnovata energia.
A Casa Ciseri, uno dei temi prediletti da Manon proprio dagli anni Novanta in poi, quello della caducità di ogni cosa, è subito esplorato, nella Sala delle absidi, da una selezione di fotografie della serie Hotel Dolores realizzata tra il 2008 e il 2011 in un albergo termale diroccato di Baden, le cui stanze, «in uno stato deplorevole ma pittoresco», hanno enormemente affascinato l’artista. Collocata nel medesimo locale, in una piccola abside, cattura la nostra attenzione una croce avvolta da piume rosa di marabù, un’opera dal titolo Arte attraverso cui Manon attribuisce un nuovo significato all’emblema per eccellenza della sofferenza, trasformando il concetto di dolore in qualcosa di costruttivo e di rassicurante.
Agli angoli della sala successiva, quella dei Promessi Sposi, in stretto dialogo con i ritratti maschili dei personaggi manzoniani troviamo quattro piccole lampade a forma di conchiglia appartenenti all’opera La stanza delle donne, oggetti kitsch acquistati dall’artista in un negozio di souvenir che simboleggiano l’erotismo e la fertilità, esposti per la prima volta in Svizzera. Sulla base che sorregge le conchiglie appaiono le parole Letteratura, Poesia, Pittura e Surrealismo, a elevare spiritualmente la donna emancipandola dalla sua mera fisicità. Vicino a loro, al centro dell’ambiente, ecco un altro tributo alla figura femminile: una grande sfera aurea, intitolata La storia delle sorelle diverse, che l’artista dedica a tutte le donne che hanno stimolato la sua immaginazione. Meret Oppenheim, ad esempio, o Coco Chanel, omaggiate dalla perfezione della forma sferica e dalla preziosità dell’oro.
Allestite nella Saletta del camino sono poi alcune fotografie del ciclo Nature morte, datate 2017, lavori di formato più piccolo e dai temi più intimi in cui l’artista non si pone più al centro della scena, lasciando invece che la sua presenza venga evocata dagli oggetti della sua vita. Qui ritornano spesso forme sferiche e ovali: uova, angurie, mappamondi. Tutti richiami alla femminilità e a quell’idea di identità in perenne trasformazione, fluida e libera, che l’artista ha pionieristicamente indagato e rivendicato, sfidando con acume e ironia i ruoli e i vincoli dettati dalle convenzioni.
Dove e quando Manon – Poesia. Casa Ciseri, Ronco sopra Ascona. Fino al 19 agosto 2023.
Orari: sa-do dalle 14.00 alle 17.00.
Ultima visita guidata (gratuita) con il curatore: sabato 12 agosto, ore 14.15.
Per informazioni: www.arct.ch
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La vita che scorre in presa diretta
Memoir ◆ Nel suo romanzo Bruno Arpaia costruisce una tramatura complessa per parlarci di Alzheimer e decadenza fisica
Angelo Ferracuti
Ha molti solchi narrativi l’ultimo libro di Bruno Arpaia, Ma tu chi sei, scrittore raffinato e civile di molti romanzi, ma anche impeccabile traduttore che ha dato voce a grandi autori della letteratura spagnola e latino-americana, tra i quali García Márquez, Cortázar e Cercas. Il primo è una sorta di motore, motivo e fil rouge, i suoi incontri con la vecchia madre malata di Alzheimer che vede periodicamente in una casa di Ottaviano, successivamente in una casa di riposo per lungodegenti, segnati da dialoghi serrati e incalzanti da teatro dell’assurdo, di una comicità esilarante e allo stesso tempo dolorosa, ma che gli serve da baricentro per allargare ad altre porzioni di senso.
«Andare avanti negli anni significa confrontarsi di continuo con il proprio corpo»
A volte durante questi incontri non lo riconosce, non ricorda il nome di sua moglie. L’ossessione per la malattia, il decadimento e la perdita di memoria della madre resta in tutto il libro il nervo angosciato e scoperto da cui s’innervano tutti gli altri ragionamenti e congetture di «uno smisurato senso di perdita e di lutto», perché «senza futuro, il presente è solo disordine e dolore», come la perdita di passato «è una forma di morte sempre presente all’interno della vita». La perdita è quindi un pezzo di vita privata ma anche un pezzo di mondo che se va, «in qualche modo io sono anche i ricordi che lei ha di me», scrive di un patrimonio che svanisce, ed è una cosa che riguarda tutti. Perché questo non è solo un memoir, non è solo una storia intima, come ci avverte facendo intendere le sue intenzioni: «non è un’autobiografia, e la scrittura non è un confessionale», afferma in polemica con la cosiddetta autofiction che quando non diventa letteratura (Carrère, Ernaux, il Manuel Vilas di In tutto c’è stata bellezza, sempre
tradotto da Arpaia) si riduce a confessione narcisistica, memoriale solipsistico, a scrittura dell’io.
Un’altra traccia di questo ibrido è una riflessione sulla morte e la decadenza fisica a partire da sé nella stagione di precarietà esistenziale segnata dalla pandemia, perché «Andare avanti negli anni significa confrontarsi di continuo con il proprio corpo», scrive l’autore, ma anche con la solitudine del fine vita che ci riserva l’epoca che affida alle parole dello scrittore argentino Mempo Giardinelli in
Le nuove povertà
quella che è una spietata riflessione sul tema del declino: «tutti soli, nella penombra di una miserabile saletta di terapia intensiva, con le sonde infilate anche nel culo e la dignità completamente perduta». Questi diversi solchi si alternano, si intrecciano, riverberano in una tramatura complessa che parte dalla vita vera per diventare narrazione e indagine scientifica, storica, in un libro capace di mescolare eccentricamente elementi saggistici, filosofici, pagine di reportage esistenziale.
Oltre ai fatti, alla vita che scorre in presa diretta, guardata con senso critico da osservatore militante, l’autore riflette anche sulla figura del fisico Heisenberg, «l’uomo che aveva scoperto il principio di indeterminazione, che aveva svelato al mondo l’ambiguità e l’inafferrabilità della realtà», o indaga la vicenda di Rebecca Sharrock, malata di ipertimesia e capace di una memoria autobiografica prodigiosa, fagocitata da flussi di ricordi incontrollabili. In questo modo Arpaia – riuscendo a innovare la forma
romanzo in modo contemporaneo –crea coraggiosamente una narrazione complessa e problematica che diventa un sedimentato complesso di sensi diversi. Così facendo rimette anche in circolo molta letteratura, da Kundera a Mario Vargas Llosa, passando per Cechov, Borges, Semprùn, e naturalmente per la vicenda collettiva e generazionale degli anni ’70, persino per la memoria dispersa dei suoi libri, in modo tale che la propria storia ci riguarda perché diventa la storia di tutti.
Ma questo è anche un libro pensato volutamente senza finzione, nel tentativo di rovesciare l’idea del romanzesco: «non potevo e non dovevo manipolare e mascherare la mia esperienza personale con le tecniche del romanziere per parlare di quello che mi stava a cuore, non dovevo affidarmi all’abilità narrativa o alla plasticità di un romanzo per centrare il bersaglio». Arpaia allora scrive «senza rete», sempre in bilico, senza inseguire il pathos, cercando (e trovando) la naturalezza della lingua umana della vita per la sua ispirata confessione, con l’angoscia di possedere solo un infinitesimo della sua biografia, che gli sfugge, perché come ha già scritto in un suo altro libro indimenticabile, Il passato davanti a noi, «la memoria inventa», affabula, racconta, e «per esistere, dobbiamo raccontarci anche a noi stessi, e quel racconto, anche se non vogliamo, è pieno di bugie».
La memoria è come un romanzo a lieto fine: «fa tutto il necessario perché il racconto funzioni (…) e ci renda piacevoli a noi stessi.» E come ha scritto Jonathan Gottschall, ogni autobiografia pubblicata dovrebbe avere questa dicitura: «Questa storia che racconto su me stesso è soltanto tratta da una storia vera. Sono in larga parte io stesso un frutto ardente della mia immaginazione».
Bibliografia
Bruno Arpaia, Ma tu chi sei, Guanda, Milano, 2023.
Feuilleton ◆ Il romanzo a puntate di Lidia Ravera per «Azione». Sul nostro sito www.azione.ch sono disponibili quelle precedenti
Lidia Ravera
«Abbiamo deciso di divorziare, di comune accordo», disse Betta, sdraiata sul divano su cui aveva giurato che non sarebbe mai più tornata a sdraiarsi.
Aveva saltato un paio di sedute e si era fatta precedere da una mail in cui pregava il dottor M di non mettergliele in conto e di attendere, pazientemente, con la generosità di cui lo sapeva capace, che la disgraziata situazione finanziaria sua e di suo marito, si ristabilisse, in qualche modo.
Gli aveva anche raccontato, nella medesima lettera, lo sgradevole incontro con «suo figlio», il figlio di M, esagerando il senso di umiliazione che le aveva provocato la sua indiscrezione.
Aveva confessato, pesando bene le parole: «Quando tornerò a coricarmi davanti a lei, non ne parliamo, la prego, gliene ho scritto perché non potevo farne a meno. È stato troppo tremendo per me, non so quanto ho pianto. Però non mi sento di parlargliene. So-
no sopraffatta dalla vergogna, ma anche dall’indignazione».
Doveva farlo sentire in colpa.
Probabilmente sapeva di aver cresciuto un disadattato.
Proprio lui che dispensava guarigioni a pagamento. Probabilmente gli dispiaceva davvero per lei e l’unico modo di compensarla sarebbe stato certamente continuare ad ascoltarla. Gratis.
Come risarcimento per l’offesa subita le sarebbe stato più facile accettarla, la crescita esponenziale del suo debito.
Non poteva certo interrompere le sedute, non in quel momento.
«Siccome viviamo in una topaia di 30 metri quadri, mio marito tornerà da sua madre. Ho cercato di tirargli dietro anche nostra figlia, ma non ci sono riuscita.
Lui vuole essere sicuro che io non sia libera di uscire la sera per andare a mettergli corna».
La seduta volgeva al termine e M aveva detto soltanto, «buongiorno» e «si accomodi».
Betta rinunciò a dominare la sua irritazione.
«Le dispiace farmi almeno una domanda, prima di rimandarmi a casa? O in quanto paziente non pagante ho perso il diritto alla sua attenzione?»
M sorrise, divertito.
Non credeva a una parola di quello che la giovane donna gli aveva raccontato.
La decisione di divorziare da Tom l’aveva annunciata decine di volte nei lunghi anni della terapia.
Doveva esserci dell’altro, se aveva voluto tornare da lui.
Anche se Emanuele, il peggiore dei suoi figli, si era comportato in modo riprovevole e si riprometteva di cazziarlo come meritava, non poteva trattarsi di lui, non era per colpa sua che Betta la Bella era tornata in analisi. E di nuovo si aggrappava allo sgretolarsi della relazione con Tom per dare un nome alla sua propria personale forma di infelicità.
La sconfitta amorosa, in fondo, era più nobile del disprezzo per
quella cronica mancanza di danaro di cui, come una donnina del secolo scorso, si ostinava a considerare il maschio della coppia come unico responsabile.
Azzardò una domanda non pertinente, ma conosceva talmente a fondo l’animo umano che era praticamente certo di aver intuito la verità.
«Quell’anziano signore che l’ha invitata a cena circa… vediamo… un mese fa, l’ha più rivisto?»
Betta si alzò di scatto e mentì frettolosamente.
«No. Perché me lo chiede?»
M sorrise, interiormente, senza mutare espressione.
Lo divertiva la certezza di essere, al momento, per Betta, il sostituto di un anziano corteggiatore.
La accompagnò alla porta.
«Allora ci vediamo martedì», disse.
«No, non martedì, giovedì prossimo. Non posso più permettermi due sedute a settimana… checchè ne dica suo figlio, mi pongo il problema del debito, io».
Lì per lì si sentì soddisfatta per aver avuto l’ultima parola, ma durò poco.
M ci aveva azzeccato, come al solito. La scomparsa del vecchio l’aveva sorpresa e inquietata oltre misura. Anche l’analista era un vecchio.
Ma non aveva mai mostrato di desiderarla. Per anni aveva parlato della sua bellezza, sdraiata davanti a lui, come di un territorio morboso da attraversare con cautela.
Il suo fascino, il suo istinto seduttivo, perfino il profumo della sua pelle erano stati sottoposti ad analisi, smontati e rimontati come giocattoli da mettere in ordine e abbandonare nella nursery.
Il vecchio, al contrario, la faceva sentire incantevole, adorabile, pregiata.
Erano passati dieci lunghissimi giorni dalla notte in cui l’aveva accolta in casa sua e ricoverata per la notte con una naturalezza che era, di per sé, prodigiosa.
(40 – Continua)
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Le persone che soffrono di incontinenza non ne parlano quasi mai. Eppure è più comune di quanto si pensi. Cosa si può fare per rimediare?
1
Rafforzare il pavimento pelvico: contrastare l’incontinenza con un allenamento mirato dei muscoli del pavimento pelvico.
2
Mangiare sano: alcuni alimenti possono avere un effetto negativo sull’incontinenza. I cibi piccanti spesso provocano un’urina piccante e irritano la vescica. Lo stesso vale per gli alimenti acidi.
3
Bere a sufficienza: se i reni non ricevono abbastanza liquidi, l’urina si concentra e irrita la vescica. Pertanto: bere normalmente anche se si soffre di incontinenza.
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Utilizzare prodotti protettivi: l’incontinenza non deve necessariamente compromettere la vita. I prodotti personalizzati garantiscono la sicurezza nella vita quotidiana. Ben protetti, è possibile dedicarsi alle attività preferite in tutta tranquillità.
5
Chiedere consiglio: a causa delle varie cause, è importante consultare un medico. Dopo l’analisi, esistono buone opzioni di trattamento. Sono disponibili anche i consigli della Società svizzera per l’incontinenza (senza consigli sui prodotti): inkontinex.ch
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Foto: Getty Images
Una Biennale con poca architettura
Mostra ◆ L’emergenza ambientale porta l’attenzione sulle ragioni che determinano la costruzione degli edifici
Alberto Caruso
Anche in questa Biennale di Architettura abbiamo visto poca architettura, come in quella del 2021. È un’affermazione decisa, condivisa da quasi tutta la critica, che si divide invece sulla coerenza e validità culturale del progetto espositivo. C’è chi sostiene, infatti, che le tesi programmatiche della curatrice Lesley Lokko (scrittrice e docente inglese, originaria del Ghana) siano state rappresentate con efficacia anche se con pochi progetti di architettura, non ritenuti indispensabili ai fini della ricerca e riflessione su quei temi, e chi sostiene che senza una precisa relazione tra il pensiero e il progetto la Biennale di Architettura perda di senso.
L’esposizione serve a illustrare le questioni che rendono il futuro di tutti incerto come finora non era mai avvenuto
Il tema The Laboratory of the Future vuole illustrare il concetto di «cambiamento» soprattutto guardando all’Africa e alla sua diaspora, sulla cultura interpretata nel mondo dalle persone originarie di quel continente, che più di ogni altro vive le criticità drammatiche dei cambiamenti climatici e della disparità di condizioni economiche e sociali. La storia dell’architettura, sostiene Lokko, è incompleta perché riferita solo a quella dei Paesi ricchi. L’esposizione serve a illustrare le questioni che rendono il futuro di tutti incerto come finora non era mai avvenuto: la questione dell’acqua e della desertificazione, la crisi dei modelli abitativi e della solidarietà, lo spreco di risorse. Questi temi importanti, che agitano la ricerca scientifica e il pensiero in tutti i Paesi, sono posti nelle premesse in modo forte, ma non vengono rappresentati con la necessaria efficacia, nonostante i mezzi scenografici a disposizione dei partecipanti. Manca la provocazione, mancano gesti capaci di colpire l’immaginazione dei visita-
tori. E manca l’architettura.
Il Presidente della Biennale ha difeso la scarsa presenza di architettura sostenendo che conta di più indagare le ragioni per le quali si costruisce un edificio, piuttosto che ragionare sulla sua forma. Ma se non si collega il pensiero al suo esito formale, l’esito sarà sicuramente fallimentare. Proprio perché il mondo della costruzione è protagonista delle emissioni globali e del consumo di suolo, è all’interno della sua cultura che si deve esercitare la critica, ricercando ed esponendo progetti nuovi, che cambino i paradigmi consolidati.
In questo senso, tra i pochi progetti di architettura visibili nelle sezioni curate dalla Lokko ricordiamo quelli del cinese Zhang Ke (ZAO), degli
spagnoli Floris & Prats e degli studi BDR bureau + carton123 architecten (italiani e belgi). Gli architetti internazionalmente più noti non sono stati invitati, con la sola eccezione di David Adjaye, originario del Ghana, e di Diébédo Francis Kéré, originario del Burkina Faso.
Anche la distribuzione delle installazioni alle Corderie dell’Arsenale è significativa dello scarso rilievo attribuito alle questioni spaziali. Situate trasversalmente rispetto all’antico colonnato, parte del quale è stato incorniciato da setti in cartongesso, le installazioni interrompono la lunga prospettiva, annullando la singolare qualità spaziale delle Corderie. Come è successo in altre Biennali, la mostra si riscatta con i padiglio-
ni nazionali, i cui temi sono spesso dotati di autonomia rispetto a quello della curatrice. Il padiglione svizzero, curato da Karin Sander e Philip Ursprung, è dedicato alla relazione tra il manufatto edilizio del padiglione (costruito da Bruno Giacometti nel 1952) e l’adiacente padiglione del Venezuela (costruito da Carlo Scarpa nel 1954). Abbattuto il muro e rimossa la cancellata che li divideva, si è prodotta una relazione spaziale di grande interesse tra due concetti architettonici tra loro contemporanei e di qualità eccellente. Nella sala grande del padiglione svizzero è stato steso un tappeto di dimensioni pari a quelle della sala, che riproduce le piante unite dei padiglioni di due Paesi. Un concetto espositivo elementa-
re, risolto con mezzi espressivi semplici, capaci di suggerire riflessioni sulle relazioni tra i due Paesi così lontani e diversi.
Anche altri padiglioni sono dedicati alla cultura della costruzione del proprio spazio espositivo. Quello giapponese, per esempio, descrive la storia del progetto, rivelandone le qualità costruttive. I visitatori scoprono che nel progetto originario un grande foro quadrato nella copertura consentiva l’ingresso della pioggia che, attraverso il secondo foro presente nella soletta del primo piano, scendeva fino al livello del terreno, conferendo allo spazio un carattere particolare e un’atmosfera poetica.
L’ingresso al padiglione tedesco, in altre Biennali oggetto di interventi finalizzati a ridurne la monumentalità nazionalsocialista, è stato modificato sostituendo con una lunga rampa circolare la grande scala esterna situata in asse con il portale. All’interno, un magazzino di materiali recuperati dalla rimozione di precedenti esposizioni viene ordinato, durante il periodo della mostra, per organizzare ambienti destinati a diverse attività dedicate ai visitatori.
Il padiglione austriaco (progettato da Josef Hoffmann nel 1934) propone un progetto che avrebbe potuto rivoluzionare l’intero assetto dei Giardini. La costruzione di una passerella pedonale, destinata a oltrepassare l’adiacente muro di confine dell’area, poteva consentire agli abitanti del Sestiere di Castello di utilizzare una parte degli spazi del padiglione per le attività del quartiere. La passerella è stata costruita solo per metà, fino al confine, perché le autorità competenti non hanno consentito di varcarlo.
Dove e quando
18. Mostra Internazionale di Architettura, The Laboratory of the Future, Venezia. Dal 20 maggio al 26 novembre 2023. Lu-ve 10.00-13.00 / 14.00-17.00; sa 10.00-13.00 www.labiennale.org
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Uno sguardo sul padiglione giapponese. (Courtesy: La Biennale di Venezia)
«Non mi chieda di parlare di letteratura»
Intervista ◆ Giovedì prossimo l’attore Giancarlo Giannini sarà ospite a Varese del Festival Tra Sacro e Sacro Monte
Enrico Parola
«Non mi chieda di parlare di letteratura, sono un perito tecnico-industriale». Premessa confortante, quando l’intervista è sulla sua presenza al Sacro Monte di Varese. Lì giovedì, alla XIV Cappella della Via Sacra varesina, Giancarlo Giannini si racconterà in dialogo con Andrea Chiodi, direttore artistico del festival Tra Sacro e Sacro Monte, rassegna dedicata non solo al teatro sacro, ma aperto a tutte quelle opere, teatrali e letterarie, che mettono a tema le grandi domande esistenziali. Quest’anno l’inaugurazione è stata con Simone Cristicchi che – tra racconti e canzoni – ha ripercorso la Divina Commedia dantesca; quindi Maria Paiato ha interpretato il 21esimo capitolo dei Promessi sposi, la celebre Notte dell’Innominato, e settimana scorsa Giacomo Poretti, del trio Aldo, Giovanni e Giacomo, ha portato il suo spettacolo Chiedimi se sono di turno ispirato agli undici anni trascorsi in corsia quando lavorava come infermiere, da cui aveva già tratto il libro Turno di notte
«Credo che la letteratura più alta sia profondamente filosofica, nel senso che affronta le grandi questioni dell’uomo»
Giancarlo Giannini sarà il gran finale della rassegna, e per l’occasione l’attore leggerà i versi di Dante, Shakespeare, Leopardi e altri poeti. Una voce, oltre che un volto, inconfondibili, eppure alla prima richiesta di discettare sui giganti della letteratura mondiale si schernisce e si schermisce, richiamando i suoi studi e la sua prima vita lavorativa.
Perito tecnico-industriale, dunque. Ero piuttosto bravo: appena diplomato trovai subito lavoro, l’ambito era quello dei satelliti, e poi andai un anno in Brasile.
Perché non continuò? E come arrivò a imboccare la strada della recitazione?
Perché volevo fare il militare, o meglio avrei voluto fare il militare.
Non è chiaro il nesso.
Volevo fare il militare, avevo fatto richiesta, ma venni rifiutato. Perché?
Perché mia nonna era vedova e non
aveva figli maschi: secondo la legge io, nipote maschio, ero una sorta di suo tutore, di aiuto. Con questa motivazione mi fu recapitata a casa la lettera di congedo definitivo.
E da lì a diventare attore?
Un mio amico mi propose di entrare in Accademia. Io accettai entusiasta, convinto che fosse quella militare dei cadetti; mi ritrovai nell’Accademia di Arti Drammatiche, e da lì è iniziato tutto.
Bravo anche lì, evidentemente. Durava tre anni, dopo un anno venivo già scritturato regolarmente; e presto arrivarono anche i primi allestimenti importanti: ricordo un Sogno di una notte di mezza estate con la regia di Strehler e Carla Fracci a fianco.
E la letteratura?
È parte integrante della formazione di un attore; io stesso, quando insegnavo all’Accademia, chiedevo agli studenti di portare delle poesie, era
un esercizio obbligatorio. Quando iniziai a studiare come attore mi dovetti confrontare non solo con la grande letteratura per teatro, dai greci a Shakespeare fino ai contemporanei, ma anche con prosa e poesia. E poi c’era mia sorella.
Letterata?
No, studiava filosofia e mi propinava insistentemente questo o quel testo, Platone, Socrate, poi i moderni. Confesso che alcuni li leggevo e mi interessavano, altri li evitavo. Però mi hanno segnato, vi leggevo le grandi domande; e ancora adesso che sono passati parecchi anni da quando noi eravamo studenti, continua a leggere, a interessarsi e a propinarmi: non più passandomi i testi, ci chiamiamo al telefono e ci capita abbastanza di frequente di discutere per un’ora abbondante su temi filosofici.
Insisto: e la letteratura?
Credo che la letteratura più alta sia profondamente filosofica, nel sen-
so che affronta le grandi questioni dell’uomo. Leggo Leopardi, per fare un esempio tra i più evidenti, e vi trovo le grandi domande sul perché della vita, della morte, della felicità e del dolore, dell’insoddisfazione e della nostalgia. Però i poeti e in generale i letterati hanno un vantaggio rispetto ai filosofi: questi devono porre tutto in modo chiaro, netto, perfettamente preciso domande, spiegazioni, risposte. Invece, come direbbe Montale, il poeta non deve trovare la «parola che squadri», è tutto più sfumato, suggestivo; il che non significa impreciso, anzi.
Sente sue queste domande? E più adesso o da giovane?
Più che l’anagrafe, conta l’età dello spirito, cioè l’essere vivi, tesi, curiosi dentro; come diceva Pascoli, il «fanciullino» che c’è in noi. Le sento urgere in me, così come l’esigenza di una risposta.
Non pochi pongono le domande, in
letteratura e in generale nell’arte, meno sembrano essere le risposte. Ci sono, bisogna saperle leggere. In Dante è evidente, la sua fede cristiana rende tutto esplicito. Però anche Leopardi ha delle sue risposte, che non sono solo pessimistiche; pensi all’Infinito, c’è il verbo «naufragar», ma lo definisce «dolce»: c’è, in questa parola, una percezione che sfida il senso generale del pensiero filosoficamente svolto.
Lei ha delle risposte, delle verità? Sono un credente, ho delle mie verità che mi portano a vedere un mistero nelle piccole cose quotidiane: è il cercare il senso della vita ponendo la domanda nella cosa che si sta facendo, nella circostanza che si sta vivendo; non pensando astrattamente, ma vivendo.
Queste domande interessano alla gente? O quando lei tiene delle letture viene più che altro per vedere il famoso attore?
Tutte e due le cose, talvolta magari anche più perché c’è Giannini che Dante o Ungaretti. Però non è un male, perché noi attori e la nostra voce siamo lo strumento attraverso cui un autore, un testo parlano al pubblico.
Affermazione di notevole umiltà; gli attori non sono vanitosi? Per uno che ha avuto una nomination all’Oscar, ha vinto sei David di Donatello e tanti altri premi, tra cui la stella nella Walk of Fame di Hollywood… Non c’è sempre in agguato la tentazione di insuperbirsi?
Tanti attori sono timidi, poi quando si rompe il ghiaccio si entra davvero in scena. Confesso che vedere il proprio nome, la propria stella tra le stelle della Walk of Fame mi ha fatto davvero piacere. Perché è Hollywood, perché sono gli americani, perché è una stella e tutte e tre le Cantiche della Divina Commedia terminano con la parola stelle.
Dove e quando
Festival Tra Sacro e Sacro Monte, fino al 27 luglio al Sacro Monte di Varese. Giancarlo Giannini sarà protagonista giovedì 27 luglio alle 21.00 alla Cappella XIV in Conversazione da Dante a Leopardi www.sacromontedivarese.it
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Giancarlo Giannini in posa sulla stella dedicatagli nella Hollywood Walk of Fame. (Keystone)
In fin della fiera
La nuova religione dell’Apericena
L’estate è la stagione più propizia per celebrare a ogni tramonto il culto della nuova religione: l’Apericena. Se non piove il rito si celebra all’aperto, sulle terrazze o meglio ancora su spianate nate per facilitare il passaggio pedonale e ricoperte da uno sterminato numero di tavolini e sedie, in funzione di inginocchiatoi. I fedeli li riconosci facilmente: hanno tutti davanti a sé un bicchierone con cubetti di ghiaccio colmo di un liquido per lo più di colore arancio e, in qualche raro caso, rosso. Il culto dell’Apericena ha già miracolato un’intera regione, il Veneto, che ha visto piantare vitigni di prosecco ovunque, anche sulle tombe nei cimiteri, dopo aver divelto quelli riservati a mitici vini, che avevano il torto di essere celebrati solo da una sparuta minoranza di intenditori. Il rito della celebrazione inizia solo quando, dopo il vassoio con i bicchieri colmi di liquido arancione, arriva al tavolo il miti-
Pop Cult
Per chi ha superato la temuta boa degli «anta», è innegabile come, in quella sottile ma onnipresente dimensione del quotidiano che ha a che fare con la colonna sonora della vita, molte cose, negli ultimi anni, siano cambiate –forse irrimediabilmente. Infatti, tutti coloro che hanno trascorso la propria gioventù tra un mercatino dell’usato e l’altro, impegnati nella costante ricerca di copie usate di album storici del repertorio rock, oggi faticano ad abituarsi alla pressoché totale sparizione di quello che per decenni è stato l’oggetto del desiderio principale, ovvero il disco – ormai divenuto, nell’era digitale, entità intangibile e assolutamente eterea, destinata ad essere fruita perlopiù sotto forma di asettico file elettronico (di solito in formato mp3), acquistabile e scaricabile via internet. Questo ha portato, nel giro di pochi anni, alla progressiva quanto inarre-
Xenia
co «tagliere». Per lo più è di legno ed è unico per tutti, come nel Medioevo. Su quella tavola c’è di tutto, in formato boccone singolo. Se il bar ha la fortuna di essere collegato con un ristorante o con una pizzeria può riciclare tutti gli avanzi, basta tagliarli a pezzettini o, nel caso di risotti o di pasta, usarli per colmare delle piccole ciotole. Tutto viene a tiro: le cornici delle pizze, le schegge di parmigiano, i frammenti generati dalle affettatrici quando danno inizio a un nuovo salume, o porchetta, o arrosto, le croste commestibili dei formaggi. Se qualche reperto ha un’aria troppo mesta, è sufficiente dargli un po’ di colore con la conserva di pomodoro. Non mancano mai le patate e nei locali più raffinati, le verdure impanate e fritte così hanno tutte lo stesso gusto, i pesciolini in agrodolce, le ciotole di olive.
Il rito vero e proprio inizia nel momento in cui il cameriere, in funzio-
ne di chierichetto, deposita il tagliere al centro del tavolo dopo che i fedeli hanno spostato verso il bordo i bicchieri. Si entra nella fase del silenzio, del raccoglimento. Gli sguardi sono puntati sul tagliere, ognuno medita su quale prelibatezza gli conviene iniziare, prima che qualcun altro gliela porti via. Da qualche tempo è entrata in uso la pratica di fotografare con il cellulare il tagliere prima di iniziare l’assalto. La fotografia sarà inviata agli amici che stanno celebrando il rito ai tavolini del bar sull’altro lato della piazza. Iniziando così un simpatico e istruttivo gioco di confronti. C’è sempre, nel gruppo di amici, il buontempone, l’audace, il coraggioso che dà il via all’assalto. E qui notiamo un altro miracolo generato dal culto dell’Apericena. Vediamo dei giovani fedeli che trangugiano di tutto, senza un attimo di respiro. Proprio loro che nelle loro case
di Bruno Gambarotta
signorili e accoglienti, prima di portarsi alla bocca il cucchiaio o la forchetta, chiedono e ottengono di conoscere tutto del cibo che stanno per inghiottire: non è sufficiente leggere la lista degli ingredienti sulla scatola del prodotto acquistato nel magazzino del cibo bio. Controllare la data di scadenza. Vogliono essere certi che le procedure della sua coltivazione e successiva preparazione non abbiano concorso al riscaldamento globale. Iniziato l’assalto, restano in breve sul tagliere pochi, tristi, solitari avanzi. Entra in gioco il fedele con fama meritata di «lavandino»: se non lo vuole nessuno lo finisco io, è un peccato lasciarlo lì. Celebrato il rito, prende il via l’ultima fase, la conversazione. Non tra i fedeli seduti attorno al tavolo: che gusto c’è, loro sono già lì. Ognuno impugna lo smartphone e inizia a chiamare gli amici che, per lo più, stanno celebrando il rito da un’altra parte. Se qualche amico
è sorpreso altrove, sottraendosi alla celebrazione, è tenuto a giustificarsi: come mai? Non stai bene? La risposta viene comunicata agli altri: «Si scusa, dice che doveva studiare, lunedì ha un esame. Promette che è l’ultima volta, non succederà più». Si chiama un altro amico pensando che stia celebrando da qualche altra parte. Una domanda non manca mai: indovina chi c’è qui con me? Parte l’elencazione dei nomi dei presenti. La prima opzione: Tizio vi saluta. La seconda: Tizio vuol sapere perché non glielo abbiamo detto, sarebbe venuto volentieri. Sgomento. Una qualche giustificazione ci vuole. Digli che ancora non lo sappiamo. Tizio con le sue domande importune rivela di essere un miscredente: uno all’antica, sorpassato, uno che sente ancora il bisogno di pianificare il suo tempo, di avere una meta da raggiungere. Non l’inviteremo mai, uno che trova da ridire su tutto.
Zaga Christos tuttavia riuscì a differire il ritorno in Etiopia: gli stati europei, lacerati da conflitti politici e religiosi, esitavano a organizzare la missione, e inoltre lui si struggeva per rivedere Caterina. Per qualche tempo vagò nel nord Italia, fermandosi a Venezia e a Mantova. Guarì da un attacco di febbre maligna solo grazie alle cure del medico del duca di Savoia.
Ed è a Torino che nella primavera del 1635 posò per il pittore di corte: Giovanna Garzoni.
Lui era un aspirante imperatore di venticinque anni, lei una borghese di trentacinque. Forse era al corrente della sua straziante storia d’amore, di certo Zaga Christos era il primo nero di condizione non servile (paggio, domestico, gondoliere) che avvicinava. Non provò imbarazzo per la novità del soggetto e della situazione. Scelse come supporto la pergamena, e vi dipinse il ritratto a guazzo
stabile chiusura della maggior parte dei negozi di dischi, inclusi i maggiori retailer internazionali, a favore della «rivoluzione» commerciale offerta dall’acquisto online Da parte sua, lo strapotere dei social network ha esacerbato sempre più la situazione, al punto che oggi, gli ascoltatori casuali scelgono di fruire della musica direttamente su YouTube, scavalcando così a piè pari qualsiasi ambizione di acquistare i propri brani favoriti e rinunciando implicitamente al possesso dell’opera d’arte – il che solleva anche una serie di dilemmi relativi al diritto d’autore e al guadagno degli artisti. Tuttavia, forse proprio in risposta alla lenta agonia commerciale del disco, negli ultimi anni una nuova, inaspettata tendenza ha preso sempre più piede tra i nostalgici, incapaci di rinunciare al conforto rappresentato da un og-
getto che, al pari di un manufatto sacro d’altri tempi, è sempre stato considerato il simbolo stesso della musica (e, come tale, meritevole di rispetto e considerazione). Ecco quindi che il vecchio 33 giri di un tempo torna in voga quale espressione della musica intesa come oggetto di culto e da collezione; e come membri di una setta riservata a pochi eletti, gli estimatori del vinile riscoprono un mondo caratterizzato da rituali quasi iniziatici, e da un’esperienza sensoriale infinitamente più ricca e suggestiva di quella offerta dalla fruizione digitale – a partire dal suono attutito prodotto dalla puntina nel momento in cui si poggia sulla superfice del disco, fino ad arrivare alla cura estrema con cui il vinile va maneggiato e mantenuto pulito. Un mondo rarefatto, in cui la purezza del suono non ha niente a che ve-
dere con i prodigi della rimasterizzazione digitale o le meraviglie del surround, anzi. Del resto, per questi appassionati, l’ormai obsoleto compact disc, o CD, rappresentava già un compromesso assai poco nobile, poiché solo un oggetto di stampo superiore e dal valore artigianale come il buon vecchio vinile può davvero valorizzare l’ascolto di un album di vaglia – una regola che vale soprattutto nel caso di dischi simbolo della storia del rock: secondo il credo della «confraternita», il supporto su vinile è infatti l’unico a permettere davvero di godere di ogni dettaglio e sfumatura per come originariamente concepito dagli ingegneri del suono dell’epoca, nonché di differenziare tra mono e stereo, toccando così picchi di assoluto (e perfino elitario) perfezionismo.
Così, in una sorta di ironico rove-
sciamento del concetto di alta fedeltà (hi-fi) tanto in voga all’arrivo dei primi compact disc, quel che oggi si sperimenta è una sorta di ritorno alle origini – una risposta chiara quanto decisa a quel pervasivo e dilagante modernismo che sembra peraltro presentarsi in molti altri ambiti del vivere comune. Forse perché, in un mondo in cui fattori quali l’intelligenza artificiale e le moderne crisi morali portano molti a paventare una totale disumanizzazione della realtà sociale, anche il tramonto del disco diviene il simbolo di qualcosa di più inquietante – ovvero, della natura ormai per molti versi asettica e impersonale della nostra vita quotidiana, e del fatto che il contatto vivo e tangibile con la materia e con il «qui e ora» stia inspiegabilmente divenendo, per noi comuni mortali, evento sempre più raro.
e acquerello. Poi lo incollò su carta e lo fece incastonare in una cornice d’argento. Il principe etiope dovette posare a lungo per la pittrice, poiché alla conclusione delle sedute era tanto in confidenza con lei da aiutarla a firmare sul retro del foglio – oltre che in italiano – anche nella sua lingua,
l’amarico. L’accostamento dei due alfabeti, dei due mondi, è più che inconsueto: unico.
Il ritrattino è un medaglione da portare come un ciondolo. Il giovane ventenne ha crespa capigliatura afro, pelle bruna, un filo di baffetti sul labbro. Il raffinato bavero di merletto lascia intravedere il sontuoso abito sottostante – rosso, con fili d’oro. Zaga Christos è assorto. I suoi occhi sgranati tradiscono un certo stupore. Forse per la perizia della pittrice, forse per l’incertezza del futuro. Non so a chi fosse destinato il ritratto. Nonostante la committenza cortigiana, l’espressione sognante, l’evidente empatia e il formato privatissimo fanno pensare a un dono d’amore.
Zaga Christos non tornò mai in Africa. Partì per la Francia, affrontò le Alpi, bufere di neve e avventure di ogni tipo; seminò scompiglio nella nuova corte (per la regina An-
na d’Austria, nota per le infedeltà al marito Luigi XIII, e da lui incuriosita, scrisse una nuova autobiografia); si legò a un’altra donna, Magdalene Alemant – moglie di un notabile parigino, spia o prostituta: le versioni divergono –, le firmò un contratto dal notaio in cui giurava di rinunciare per sempre a Caterina e cercò di fuggire con lei in Inghilterra. Reato che lo rese ulteriormente sospetto. Finì in prigione a Parigi, con l’accusa di essere una spia e un impostore. Anche Giovanna Garzoni, che aveva lasciato Torino nel 1637 alla morte di Vittorio Amedeo, era in Francia. Ma non si rividero.
Richelieu, in altre faccende affaccendato, trascurò di occuparsi della sua liberazione. I giudici e i carcerieri lo trattavano tuttavia con rispetto e non dubitavano che il giovane nero fosse davvero un imperatore. Infine Richelieu lo fece rilasciare e lo accolse nella
propria dimora, a Rueil-Malmaison, dove però Zaga Christos morì quasi subito. Qualcuno ipotizzò il suicidio. Altri il veleno. Era il 1638. Richelieu gli pagò un funerale modesto ma lo fece seppellire nel coro della chiesa. Sulla sua storia, degna di un romanzo di Dumas, esistono migliaia di documenti, in dodici lingue, dall’arabo al veneziano al geez, ma nessuno saprà mai se Zaga Christos intendeva davvero tornare in Etiopia a riprendersi un trono che neppure era mai stato suo o se voleva solo tornare dalla sua amata, a Roma. Dove finì per tornare Giovanna, stabilendosi, dopo un passaggio a Firenze alla corte dei Medici, nella città eterna, fino alla morte, nel 1670. Pure Caterina gli sopravvisse, e divenne badessa, come destino di una monaca del suo rango. Ma dovette distruggere tutte le lettere che lui le aveva scritto col suo sangue. (Seconda parte – fine)
Settimanale di informazione e cultura Anno LXXXVI 24 luglio 2023 azione – Cooperativa Migros Ticino 35 CULTURA / RUBRICHE ◆ ●
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di Benedicta Froelich
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L’eterna ricerca di un sound d’altri tempi
di Melania Mazzucco
Wikipedia
Zaga Christos, figlio dell’imperatore d’Etiopia
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