Le trottole fiabesche.
Colleziona subito i personaggi, giocaci e scopri le loro storie.
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Tutto il piacere di collezionare e giocare, come nelle fiabe! Nella SpinMania tutto ruota intorno alle 22 trottole e alle loro avventure.
Ognuno dei 22 personaggi è composto da una testa e un corpo. Puoi comporre tu i personaggi e combinarli a tuo piacimento.
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«La leggenda della trottola del drago» come avventura da ascoltare: immergiti nel mondo di SpinMania e segui le tue trottole nel loro viaggio verso un regno incantato. Puoi ascoltare subito le loro storie su: migros.ch/spinmania
MONDO MIGROS
Pagine 6 – 7
SOCIETÀ
Come mai per le donne è sempre stato un vero tabù rapportarsi con il denaro?
Pagina 4
Quando l’antropologo incontra Mickey Mouse in un non-luogo. Un ricordo di Marc Augé
TEMPO LIBERO Pagina 13
Negli Usa la democrazia continua a soffrire mentre proseguono i processi contro Donald Trump
ATTUALITÀ Pagina 29
La cosa bella degli scout è che per forma mentis s’arrangiano con quello che c’è e prendono le cose come vengono, col piglio positivo e pragmatico che li rende candidamente impermeabili alle avversità. Come l’ottantina di ragazzi ticinesi che nei giorni scorsi ha vissuto lo sgombero dell’accampamento di Saemangeum, in Corea del Sud, dove dal 2 agosto era in corso il Jamboree, il più importante raduno mondiale di scout degli ultimi anni. L’evento, che ha raccolto oltre 43mila scout da 150 Paesi, è partito storto. E il campo, che doveva durare fino al 12 agosto, è stato sbaraccato quasi una settimana prima. Cos’è successo? Neanche il tempo di iniziare che sono iniziati i mancamenti, le febbri e altri malori da surriscaldamento corporeo e/o disidratazione. Almeno 800 persone hanno accusato malesseri per le elevatissime temperature (35-40 gradi) prima ancora che la kermesse prendesse il via.
Il contingente più numeroso, quello britannico, con oltre 4500 scout, ha deciso di abbandonare il sito dell’evento, seguito a ruota dai 1500 membri delle pattuglie statunitensi e dai ragazzi di Singapore.
L’accampamento si trovava su una pianura lagunare di 8 km² priva di alberi, quindi d’ombra naturale, a ridosso della costa marina da cui è separata da una sorta di diga, quindi senza uno spiffero d’aria: una conca riarsa se c’è il sole e melmosa se piove. Lì, le truppe del pianeta hanno montato uno sterminato villaggio di tende contigue dove di giorno era impossibile ripararsi dalla sferza del calore perché ci si soffocava. Ci sono stati gravi problemi anche coi servizi igienici. Ma intanto – da testimonianze dirette –sappiamo che, pur faticando, buona parte degli scout ballava, rideva e scopriva un nuovo mondo. I ragazzi hanno approfittato dell’occasione per tuffarsi entusiasticamente nell’incontro coi coe-
tanei di altre culture, nelle attività e nelle avventure fuori programma. «Quando la strada non c’è, inventala!», diceva Baden Powell.
Il Governo di Seul ha inviato nel giro di poche ore personale medico, centinaia di bus con l’aria condizionata, installato ripari ombrosi irrorati da getti d’acqua vaporizzata, rifornimenti di ghiaccio e piscinette di plastica sparse qua e là. Ma quando la situazione sembrava gestibile è arrivata la plumbea minaccia di un ciclone e le autorità hanno fatto smantellare tende e picchetti e portare gli ospiti in strutture chiuse di varie località dell’entroterra, dove il Jamboree è continuato in modalità «diffusa» (anche con qualche spavento, come un incidente di bus che ha coinvolto alcuni assistenti degli scout svizzeri con ferite lievi).
Impossibile da 9mila km di distanza valutare responsabilità, imprevisti ed esatte circostanze. Troppo superficiale la scelta del sito, così esposto
Un miliardo di incassi al botteghino e non solo: come e perché Barbie ha tinto il mondo di rosa
CULTURA Pagina 35
Roberto Porta
Pagina 23
alle bizze climatiche? Troppo blande le misure di protezione in un evento «monstre» del genere? Troppo breve il periodo di acclimatazione di alcuni gruppi? Gli svizzeri sono arrivati una settimana prima e se la sono cavata, altri contingenti sono «piovuti» in Corea a poche ore dall’inizio. Gli scout del nostro Paese sono stati ineccepibili nella preparazione dell’appuntamento coreano e già l’estate scorsa avevano organizzato con elvetico rigore e riconosciuto successo un campo federale con oltre 30mila partecipanti nelle montagne della Valle di Goms. Chapeau. Per Seul è stata una scoppola. Per i genitori dei ragazzi un patema a distanza. Per gli scout un’avventura straordinaria, spossante, allegra e folle come il mondo dei nostri giorni, ingovernabile e pazzo. E una lezione di vita vera, molto più convincente e brutale di qualsiasi insegnamento teorico sui limiti del nostro corpo e sui cambiamenti climatici e i loro potentissimi effetti.
Donne nell’informazione
Quando hanno cominciato ad esistere delle giornaliste vere e proprie nelle redazioni dei media ticinesi?
Esofagite eosinofila, rara ma nota Gastroenterologia: esiste una disfunzione dell’esofago che si presenta principalmente con la difficoltà a deglutire
Pagina 9
Tesori di casa nostra
Una nuova guida storico-artistica e un progetto di rivalorizzazione sul sempre fascinoso castello di Serravalle
Pagina 12
Società ◆ Culturalmente si crede che sia disdicevole, per loro, parlare di denaro. Quelle che lo fanno vengono considerate troppo ambiziose, materiali e venali. Per l’economista Azzurra Rinaldi è ora di invertire la tendenza
Stefania PrandiÈ ancora convinzione comune che le donne non debbano parlare di soldi. Chi contravviene a questa credenza viene considerata troppo ambiziosa, materiale e venale. Azzurra Rinaldi, docente di Economia politica all’Università degli Studi di Roma Unitelma Sapienza, cerca di scardinare questo tabù con un libro (dal titolo provocatorio): Le signore non parlano di soldi (Fabbri editore).
Azzurra Rinaldi, perché per le donne è disdicevole parlare di soldi?
Culturalmente veniamo abituate a mantenere una certa distanza dal denaro e dai numeri. Un paradosso, considerando che il sistema del lavoro è ormai, dappertutto, capitalistico ed è basato sull’accumulazione dei soldi. Le culture più polarizzate, in questo senso, sono quelle del Mediterraneo, dell’America Latina, del Sud-est asiatico e del Medio Oriente. In generale, comunque, anche nei Paesi più avanzati si preferisce non fare gestire il proprio denaro a una donna. Molte ricerche, a livello internazionale, dimostrano che esiste un bias (pregiudizio, ndr) culturale in tutto il mondo, dal Nord Europa al Sudamerica, che inizia nell’infanzia. Quando si chiede agli insegnanti chi vada meglio nelle materie scientifiche rispondono sempre «i maschi», nonostante le «femmine» siano, in media, più brave a scuola, anche in matematica e nelle scienze. Il meccanismo viene rafforzato in famiglia con la «paghetta», uno strumento importante per entrare in contatto con l’idea di indipendenza economica. Da un’indagine della fondazione Child Wise nel Regno Unito, è emerso che i bambini fino agli undici anni ricevono il 20% di soldi in più rispetto alle bambine e con più regolarità. Il divario si allarga al 30% dai dodici anni perché si ritiene che i ragazzini debbano avere abbastanza denaro da spendere, per offrire il gelato alla fidanzatina.
Le donne continuano a guadagnare meno degli uomini?
Sì, purtroppo. Per una distorsione del mercato, vengono pagate meno a parità di competenze. Inoltre, alle donne sono ancora affidate le mansioni di cura della casa e dei figli. Quindi, si ritrovano a lasciare il posto di lavoro per certi periodi, lavorano più spesso a metà tempo degli uomini e sono maggiormente propense allo smart working. Le aziende, dal canto loro, guardano con sospetto a chi è presente in maniera meno assidua. Nessun Paese al mondo ha superato il gender gap, la disparità di
genere. Nonostante ci siano moltissime iniziative, avviate da organismi internazionali come la UN Women e lo European Institute for Gender Equality, e normative che vietino la disparità salariale, non siamo ancora riusciti a cambiare la situazione. Gli uomini continuano a prendere di più perché hanno benefit maggiori e perché il sistema li premia.
Come mai la maternità penalizza ancora le donne?
Soprattutto nei Paesi in cui non c’è una rete di servizi adeguati alla famiglia, ci si aspetta che siano le donne a prendersi cura dei figli. La pressione sociale è molto forte, quando si diventa madri. I racconti vanno tutti nella stessa direzione e insistono sul fatto che le mamme non ce la faranno mai a fare tutto. A meno di non essere molto motivate e avere una struttura di sostegno, tendono ad abbandonare il posto di lavoro. Diversi studi indicano che così si chiudono in una dimensione privata, diventando più fragili e vulnerabili, restan-
do sprovviste di una rete di relazioni di riferimento. Gli effetti a medio e lungo periodo si vedono non soltanto nell’incapacità delle donne di avere redditi simili a quelli degli uomini, ma anche nelle pensioni. Nell’Unione europea, le anziane rischiano di più la povertà.
Che cos’è la violenza economica?
È una forma di controllo tra due adulti sulla possibilità di produrre e gestire il denaro. È trasversale a tutti i ceti sociali. Se ne parla in modo sistematico da pochissimo tempo, da quando è entrata nella Convenzione di Istanbul, il trattato internazionale creato per affrontare la violenza contro le donne e la violenza domestica. I segnali della violenza economica spesso passano ancora sottotraccia: ci sembrano normali perché li abbiamo visti agire dai nostri padri e nonni. Si va dal controllo delle spese alle verifiche degli scontrini. Nel caso in cui le donne siano disoccupate, si ritrovano a implorare il marito o il compagno per avere il denaro per fare la spesa.
Cosa si può fare per sconfiggerla?
Bisogna aumentare la consapevolezza. Per questo ho scritto questo libro divulgativo, nonostante io sia una docente universitaria. Per lo stesso motivo sono molto presente sui social network. Inoltre, è necessario educare alla sorellanza: noi donne dobbiamo essere alleate e non rivali. La società ci mette ancora l’una contro l’altra, viviamo con l’idea di dover competere per i maschi migliori e per questo motivo tendiamo a criticare le altre per l’aspetto fisico e per le loro scelte di vita. Per un cambiamento, occorre poi l’impegno degli uomini: vogliamo alleati che ci aiutino con un impegno concreto. Pensiamo soltanto al fatto che il 39% delle donne europee non riesce a lavorare perché impiega sette ore al giorno a prendersi cura dei figli, della casa, del marito, dei genitori e degli animali. Infine, le istituzioni devono impegnarsi per favorire i processi di parità, anche potenziando gli strumenti di welfare
Lei scrive che per duecento anni l’economia è stata dominata da una Weltanschauung maschile, ovvero da una concezione del mondo testosteronica. La situazione sta cambiando?
No. Lo scorso marzo António Guterres, segretario generale dell’Onu, ha detto che ci vorranno 300 anni per raggiungere la parità di genere, mentre prima della pandemia si pensava che ne sarebbero «bastati» 132. A peggiorare la situazione sono stati diversi fattori, come la pandemia e la guerra in Ucraina. È tremendo che nelle crisi il prezzo più alto sia sempre pagato dalle fasce più fragili. Se esaminiamo la situazione nei Paesi virtuosi, come Islanda, Finlandia e Norvegia, osserviamo che i miglioramenti sono iniziati negli anni Settanta, quando le donne femministe hanno iniziato a occupare ruoli politici apicali. Dobbiamo ricordarci che non basta la presenza femminile in politica: servono donne che supportino le istanze di equità.
Storia ◆ La singolare nascita del corpo speciale dell’esercito svizzero, che da 80 anni forma le sue reclute in Ticino
Matilde FontanaA pagina 4 di «Azione» del 7 luglio 1944 si legge: «Con il mutare delle condizioni di combattimento e l’alternarsi impressionante della guerra di movimento con quella di posizione,… si è giunti a quelle unità che i tedeschi chiamano “Stosstruppen” e gli inglesi “Commandos”, unità che sono state determinanti nell’esito di parecchie tra le più grandi battaglie, da Stalingrado a El Alamein, e, per venire agli eventi più recenti, da Cassino allo sbarco sulla costa normanna. Nell’esercito svizzero, i comandanti che presiedono alle sorti del paese hanno fatto loro le esperienze che i belligeranti hanno battezzato col sangue sui campi di battaglia, e l’importanza delle truppe d’assalto, definite da noi granatieri, è stata immediatamente e tempestivamente afferrata».
La neutrale Svizzera, accerchiata dai belligeranti, viveva allora (oggi lo sappiamo) la sua ultima estate di guerra
Il lungo articolo firmato dal cannoniere Canonica Ezio, incorporato nella Compagnia artiglieria di fortezza 21, presenta la Recluta granatiere nella rubrica Corriere del soldato Sulla medesima pagina del settimanale, la rubrica Guerra-pace aggiorna sulla travolgente offensiva sovietica, gli sforzi degli Alleati in Normandia e la resistenza di Kesselring in Italia.
La rubrica Angolo della massaia spiega i cartelli indicatori nel labirinto del razionamento, al cinema è in arrivo l’appassionante storia d’amore L’amante segreta, con Alida Valli e Fosco Giachetti, mentre la Società Cooperativa Hotel-Plan pubblicizza i suoi pacchetti di viaggio e soggiorno in oltre 180 luoghi di villeggiatura in patria, da Arosa a Zermatt, passando per il Generoso e Piora.
La neutrale Svizzera, accerchiata dai belligeranti, viveva allora (oggi lo sappiamo) la sua ultima estate di guerra. In occasione del quinto anniversario della mobilitazione dell’esercito, il Cine Giornale presentava nei cinema, in edizione speciale, un documentario sui Granatieri: «Un corto metraggio – si legge sull’«Eco di Locarno» del 7 settembre 1944 – che informa dettagliatamente il pubblico su una delle unità dell’esercito nazionale più agguerrita e allenata alla quale è affidato il compito speciale in caso di guerra»
A poco più di 18 mesi dalla sua istituzione per ordine del generale Henri Guisan, il corpo dei granatieri era già protagonista della propaganda mediatica militare, fiore all’occhiello dell’esercito, per la cui istruzione era
stato scelto, fin dalla primavera 1943, il sud delle Alpi, in particolare il delta della Maggia e i suoi dintorni.
Eppure, in realtà, l’importanza del corpo speciale non era stata afferrata così «immediatamente e tempestivamente». Anzi, la sua genesi aveva subìto un singolare travaglio, caratterizzato dalla condotta a dir poco spregiudicata di un granitico personaggio: il capitano Matthias Brunner.
La storia del «papà» dei granatieri me la racconta il colonnello Nicola Guerini, oggi alla testa delle Forze speciali dell’esercito svizzero e della piazza d’armi del Monte Ceneri. Ambienta la narrazione nel piccolo museo della piazza d’armi di Isone, che ha contribuito ad allestire grazie alle memorie storiche del corpo. Da una parte scorrono le fotografie dei comandanti (24, di cui 6 ticinesi, lui compreso), che si sono succeduti a capo dell’istruzione dei granatieri (dapprima a Losone e poi a Isone).
Dall’altra sono esposti i cimeli, le divise e le armi che compongono 80 anni di storia del corpo scelto.
«Nel 1939, allo scoppio del secondo conflitto mondiale – mi spiega il colonnello – la Svizzera neutrale si ritrovava con il medesimo esercito del-
la Grande Guerra 1914-18, improntato unicamente sulla difesa di trincea, senza contrattacco. Non a caso, l’anno successivo, il general Guisan ordina il ripiegamento nel Ridotto nazionale dopo la capitolazione della Francia».
In questo contesto si distingue la proposta di un giovane capitano istruttore, Matthias Brunner, comandante di una compagnia di fucilieri, che aveva avuto occasione di incontrare alcuni ufficiali della Wehrmacht in cura e riabilitazione in un centro della Svizzera orientale. Degli appunti presi sull’efficacia delle moderne truppe d’assalto tedesche ne aveva fatto un manuale da proporre ai suoi superiori: combattimento ravvicinato, assalto alla baionetta, granate a mano, lanciafiamme, azioni anticarro.
«La risposta degli alti ufficiali al dinamico capitano è negativa – racconta il colonnello Guerini. A Brunner viene ordinato di starsene al suo posto e di limitarsi a svolgere il compito che gli era stato assegnato».
Ma Brunner non si dà per vinto. Fermamente convinto della sua missione, non solo inizia imperterrito ad istruire i suoi uomini alle tecniche d’assalto, ma addirittura si permette di utilizzare la potente arma della
stampa per dare una spallata all’immobilismo dei vertici dell’esercito. Un atto di insubordinazione che poteva costargli caro, in tempo di guerra.
«Appena è in grado di presentare una spettacolare dimostrazione delle nuove tecniche di combattimento –prosegue il colonnello – Brunner invita la stampa in gran segreto ad assistere ad un’esercitazione a Walenstad».
Lo scoop giornalistico sull’innovazione dell’esercito in piena guerra mondiale mette con le spalle al muro gli alti vertici. Ma la partita non è ancora vinta e per Brunner inizia un breve braccio di ferro con gli ufficiali ingessati nelle loro eleganti uniformi.
«Il generale Guisan – racconta nel dettaglio il colonnello Guerini – incarica allora Brunner di farsi dare i migliori uomini dei reggimenti di fanteria, ma i comandanti si rifiutano di privarsi della loro élite. Brunner ancora una volta aggira l’ostacolo facendosi attribuire i militi più “ingombranti”, i meno disciplinati, quelli di cui i superiori si sarebbero liberati volentieri. Da buon capitano istruttore capace di scendere in campo in prima persona, Brunner trova la chiave giusta per coinvolgere e motivare la sua squadra “sperimentale”. Nel lu-
glio del 1942 può quindi presentarsi ufficialmente allo Schwägalp, davanti a Guisan e ai suoi ospiti, impressionandoli con la sua efficienza nel combattimento ravvicinato. Il messaggio ai generali dell’asse Roma-Berlino è chiaro: la difesa della Svizzera non è più solo passiva».
L’evento dello Schwägalp è considerato il battesimo delle forze speciali dell’esercito svizzero. Nel febbraio del 1943 il generale Guisan formalizza l’istituzione delle compagnie di granatieri, che già nella primavera medesima iniziano la formazione tra Locarno e Losone. Il resto è una storia lunga 80 anni vissuta da oltre 60mila reclute volontarie, che si sono formate tra le piazze d’armi di Losone e di Isone.
E il capitano Brunner? «È stato il terzo comandante della caserma di Losone dal 1953 al 1956, poi la carriera militare lo ha portato altrove», conclude il colonnello Guerini indicando la divisa dell’allora capitano esposta al museo di Isone.
Tornato a vivere a Losone dopo il pensionamento, oggi il papà, nonno e bisnonno della grande famiglia dei granatieri riposa nella piccola cappella della piazza d’armi di Isone.
il sapore della cucina mediterranea
Burrata Murgella 200 g Fr. 4.55 invece di 5.40
dal 15.8 al 21.8.2023
Sotto il marchio Murgella, Migros
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Ticino offre alla propria clientela alcuni prodotti d’eccellenza a pasta filata provenienti direttamente dalla meravigliosa Puglia, la burrata e la treccia di mozzarella. Entrambe le specialità sono prodotte nella Murgia – territorio ricco di rocce carsiche, fiumi e colline che scendono fino al mare – dal Caseificio Palazzo, azienda specializzata da oltre cinquant’anni nella produzione artigianale di formaggi pugliesi di qualità. I prodotti sono realizzati con antichi metodi che prevedono l’utilizzo del latte raccolto in zona e la formazione della cagliata mediante siero innesto. Questo metodo di produzione permette di ottenere autentici prodotti pugliesi ricchi di principi nutritivi che si contraddistinguono per la loro morbidezza, fragranza, bontà e leggerezza. Una pratica che consente la coagulazione del latte senza l’aggiunta di acidi organici che velocizzerebbero e standardizzerebbero la produzione. I prodotti realizzati con il siero innesto inoltre risultano meglio digeribili poiché contengono una minore concentrazione di lattosio. Il caseificio lavora il latte proveniente da allevatori situati nella Murgia Barese. Alla base dei formaggi Murgella c’è una ricetta tradizionale fatta di ingredienti semplici e genuini quali latte pastorizzato, siero innesto naturale, caglio e sale, senza l’impiego di conservanti né additivi.
Attualità ◆ Nella tua filiale Migros ti aspetta la nuova agenda scolastica della Svizzera italiana 2023-2024
Per la gioia di tutti i bimbi è arrivato il nuovo diario scolastico della Svizzera italiana. All’interno dell’agenda è possibile trovare degli spazi destinati all’intrattenimento e al tempo libero come il sudoku e il cruciverba; imperdibili idee per attività dedicate ai più giovani come, per esempio, i festival di narrazione e letteratura, dei consigli di lettura, alcuni suggerimenti sull’orientamento professionale, molteplici informazioni sulle strutture giovanili presenti sul territorio ticinese e gli indirizzi utili a cui rivolgersi in caso di dubbi e difficoltà. Oltre a tutto ciò si potranno scoprire delle curiosità sul corpo umano e scoprire dei libri che trattano il tema del corpo e dell’aspetto fisico oltre a consigli sulla salu-
te e il benessere. Sono inoltre presenti svariati testi di ragazzi tra gli 11-14 anni che, dopo aver seguito un laboratorio di scrittura creativa dal tema «Scrivere con il corpo» con la scrittrice Angela Tognolini, parlano di loro stessi e delle loro esperienze. Gli appassionanti testi sono accompagnati da diversi bellissimi disegni ideati dall’illustratrice ticinese Sara Stefanini. Infine, come in tutte le agende, non mancano naturalmente le classiche vacanze del Canton Ticino e del Grigioni italiano, gli spazi per poter prendere appunti, disegnare, indicare il proprio rendimento scolastico e l’orario delle lezioni. L’agenda è stata ideata nel rispetto dell’ambiente stampata su carta 100% riciclata.
Per garantire la migliore qualità, il latte viene lavorato dopo poche ore dalla raccolta.
Treccia di mozzarella e burrata
Oltre alla classica mozzarella disponibile nell’originale e invitante forma a treccia, Murgella propone uno dei prodotti più tipici della tradizione pugliese, la burrata. Questo prodotto realizzato con ingredienti semplici quali latte, panna, siero innesto, sale e caglio, si distingue per il sacchetto di pasta filata dall’aspetto lucido, di colore bianco latte. All’olfatto si percepisce un pronunciato odore di latte, con un sapore caratteristico e intenso che avvolge il palato. La farcitura è invece composta dalla stracciatella, un cuore cremoso a base di pasta di mozzarella e panna. La stracciatella può essere consumata anche da sola. La burrata nasce in provincia di Bari nei primi decenni del Novecento. Si ritiene che un contadino, a causa di una forte nevicata che gli impediva di portare il latte in città, dovette per forza trasformarlo per evitare che andasse a male utilizzando la panna o crema che affioravano in superficie. Seguendo il concetto delle mantèche (conservazione del burro in involucri di pasta filata) riuscì a realizzare un prodotto fresco con la stessa metodologia.
Agenda scolastica della Svizzera Italiana 2023 – 2024 Fr. 10.90
In vendita nelle maggiori filiali Migros
Attualità ◆ Per gli amanti del pesce alla Migros questa settimana lo squisito filetto di tonno è proposto ad un prezzo speciale
Il filetto di tonno è molto apprezzato dagli amanti del pesce, soprattutto preparato alla griglia, che ne esalta idealmente le sue inconfondibili caratteristiche con l’utilizzo di pochi grassi. Fresco, morbido, gustoso, tenero e delicato, il tonno è una bontà che piace anche ai più piccoli buongustai.
Uno dei tonni più diffusi sul mercato, è la varietà a pinne gialle. Questa specie può superare i due metri di lunghezza e pesare oltre 200 kg. Vive soprattutto nei mari tropicali e subtropicali. È conosciuto anche come tonno monaco o albacore ed è disponibile tutto l’anno.
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Il tonno fresco è una delicatezza leggera e ricca di aromi. La sua carne rossa, soda e senza lische si presta a diverse preparazioni, ma dà il meglio di sé grigliata o arrostita brevemente. La sua consistenza ricorda la carne di vitello. Per preservarne il sapore non deve essere condito troppo. Bastano anche solo una spennellata di olio di oliva, erbette fresche quali aneto, rosmarino o salvia, pepe, succo di limone e un pizzico di sale. Perché si mantenga succoso al suo interno, bastano cinque minuti di cottura. Può essere servito rosa. Il tonno è ricco di omega 3, proteine, sali minerali e vitamine.
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Sono sempre stato sbadato. A cominciare da quando, con l’incarico di portare le bozze da correggere «alla signora Tencalla», me le tenevo in tasca per due o tre giorni. Ma avevo quindici anni e sapevo appena che cosa fossero le bozze. Rezia Tencalla Bonalini (1906-1986), grigionitaliana trapiantata a Lugano, dirigeva La pagina della donna del «Corriere del Ticino». Dei temi trattati in quella pagina tutto doveva essermi estraneo: temi «donneschi», una categoria che allora, come a tutti i miei coetanei maschi, pareva evidente e separata dai nostri interessi. La Pagina della donna del «Corriere», peraltro, non conteneva solo ricette di cucina e disegni sulle ultime della moda, anche se la politica, quella no: le donne non votavano ancora, e nel 1965 il Ticino avrebbe ancora negato quel diritto.
Al «Giornale del Popolo», quotidiano cattolico, la rubrica femminile era tenuta da Cora Carloni (19011978), una donna alta e di corporatura robusta, che dagli anni Venti dirigeva la Casa di Sorengo per quelli che chiamavamo «bambini gracili». La pagina inserita nel giornale della Curia aveva un accento più spiccatamente cattolico, un tantino di quella pietas devotionalis che allora pareva conveniente al devoto sesso femminile.
Rispetto a questi due modelli, Iva Cantoreggi (1913-2005) rappresentava un’eccezione. Il suo ruolo era prevalentemente di segretariato: alla scrivania di un modesto ufficio ubicato al piano superiore del «palazzo Alhambra», in Corso Pestalozzi a Lugano, stenografava i «dispacci» che riceveva per telefono dall’Agenzia telegrafica svizzera a Berna, poi li ricopiava a macchina su fogli di «carta velina» che i fattorini dei giornali passavano a ritirare due o tre volte al giorno. Quello era il suo lavoro: ma era anche animatrice dell’Ora della donna alla Radio e si sarebbe da ultimo affermata nella società civile, come direttrice della Federazione ticinese delle società femminili.
Donne sui giornali a un livello più alto, letterario o politico, ce n’erano state anche in Ticino: come Teresa Bontempi (1883-1968), redattrice del settimanale «L’Adula», soppresso nel 1935 dalla polizia federale per il suo acceso filofascismo, oppure Lauretta Rensi-Perucchi (1873-1966), nativa di Ascona, vicina agli ambienti radicali, collaboratrice di varie testa-
Parole verdi ◆ Una nuova angoscia legata al futuro
Francesca RigottiSi torna alla paura, cifra della nostra epoca, che non a caso era stata, insieme a natura, la prima parola verde di questa serie. La paura che ricompare di questi tempi sotto un nome nuovo, preoccupante: ecoansia. Una parola nuova per un sintomo nuovo, calco dell’inglese ecoanxiety, la parola ecoansia è stata registrata come neologismo della lingua italiana dall’Enciclopedia Treccani nel 2022.
te: dal «Dovere» a «Gazzetta Ticinese», a «L’Adula»… Ma le redazioni dei giornali erano tutte esclusivamente maschili.
Molte scrivevano da fuori. Elsa
Franconi Poretti (1895-1995) firmava
Claude Paris sul «Corriere del Ticino» e riferiva di De Gaulle e di Pompidou, di letteratura e di moda… Riconosciuto alle donne il diritto di voto, nel 1971 il Ticino politico l’avrebbe onorata con l’elezione a presidente della seduta inaugurale del Gran Consiglio.
Singolare, ma per molti aspetti essenziale, fu il ruolo professionale di donne da cui un giornale dipendeva, più che dal direttore. Luciana Caglio (1929), luganese, figlia d’arte (suo padre, Luigi, dal 1940 al 1969 redattore del «Corriere del Ticino»), resse il settimanale «Azione»: prima come braccio destro di Vinicio Salati (19081994), poi come direttrice dal 1975 al 1988. Della stessa pasta, Francesca Snozzi, segretaria esecutiva (ma molto di più) nella redazione basilese di «Cooperazione» durante la direzione di Ugo Frey, dal 1955 al 1980.
Alla radio si deve l’apertura di nuovi obiettivi professionali alle donne. Pia Pedrazzini (1927-2003), locarnese, iniziò a collaborare alla RSI, nel 1945, come autrice dei primi reportage sonori per la rubrica La RSI in viaggio Tiziana Mona (1944-2022) fu la prima in Europa a presentare un Telegiornale, che allora aveva la redazione a Zurigo. La prima a occupare la sedia del direttore (se si esclude la brevissima parentesi di Mariangela Galli-Bonini a «Gazzetta Ticinese» nel 1974) fu Monica Piffaretti, dal 1987 corrispondente parlamentare da Berna per
il «Corriere del Ticino», dal 1992 al 1999 direttrice del nuovo quotidiano: «laRegione». Da ultimo, e con un velo di tristezza perché la sua uscita di scena corrispose con la fine del quotidiano, Aleassandra Zumthor al «Giornale del Popolo». È un fatto, comunque sia, che alla fine del mio Giornalismo nella Svizzera italiana 1950-2000 (2 voll. Dadò editore) le biografie maschili sono 144, quelle femminili 7. Ticino maschilista. Ma il modello doveva essere universale. Gli indici in coda ai quattro volumi di Giornalismo italiano (Mondadori) – di cui mi limito a citare gli ultimi due: 1939-1968 e 1968-2001 – confermano l’invincibile pregiudizio. Per il primo di questi due periodi, le biografie femminili sono 7 su 174, per il secondo 15 su 197. Le autrici citate con più di un articolo sono soltanto Oriana Fallaci (9 citazioni), Camilla Cederna (6), Natalia Aspesi (5) Lietta Tornabuoni (4), Barbara Spinelli (3), Dacia Maraini (2), Miriam Mafai (2) e Conchita de Gregorio (2). È vero che dal terzo al quarto volume – cioè dal secondo dopoguerra al post-Sessantotto – si nota un incremento nel numero delle giornaliste citate: ma la rivincita delle donne dovrà aspettare il nuovo secolo.
Riferimenti
Gli «Archivi riuniti delle donne Ticino» a Massagno contengono 47 incarti relativi a «giornaliste» e schede biografiche di Pia Pedrazzini, Iva Cantoreggi, Rezia Tencalla Bonalini, Corinna Carloni, Elsa Franconi Poretti , Teresa Bontempi e Lauretta Rossi-Perucchi.
L’ecoansia è diversa dalla meteoropatia, che sarebbe la reazione dell’umore di alcune persone particolarmente sensibili ai ritmi stagionali, al freddo, alla pioggia e al bel tempo. È invece una preoccupazione cronica per la sorte del pianeta che colpisce prevalentemente, pare, giovani ambientalisti. I sintomi sono tensione, angoscia, tristezza, apprensione, insonnia, e manifestazioni quali sudorazione, irrequietezza, pianto. Chi ne soffre può arrivare a prendere decisioni estreme come quella di non fare figli: sia per non sottoporli allo stress da inquinamento, sia per non permettere che altri abitanti del pianeta collaborino a distruggerlo.
Su queste posizioni si ritrova Lalitha, personaggio del romanzo Libertà di Jonathan Franzen (Freedom, 2010). Ha 27 anni, non vuole avere figli. Le sue motivazioni a non procreare sono di natura strettamente ecologica: la Terra è già sovrappopolata, la specie umana si è rivelata la più nociva per l’ambiente che da essa è stato distrutto e inquinato in maniera forse irreversibile. Perché ostinarsi nella follia della riproduzione a ogni costo? Perché, ci chiediamo insieme a Lalitha, consegnare i nostri figli a vite che saranno devastate da alluvioni e aridità, da riscaldamento anzi da «ebollizione globale», come ha detto il segretario
dell’Onu Antonio Guterres suscitando ancor più ecoansia? Eppure, mettere al mondo figli vuol dire in ogni caso confrontarsi con il loro contingente malessere e con la loro necessaria mortalità… Tornando ai sentimenti e agli stati d’animo scatenati dal riscaldamento climatico e dall’inquinamento ambientale perché, mi chiedo, invece di curarne i sintomi col Prozac non li trasformiamo in indignazione, un bel sentimento positivo e propositivo? Indignazione non soltanto contro le scellerate iniziative di politica economica; no, anche contro la mentalità che vorrebbe promuovere lo sviluppo sostenibile da una parte e dall’altra mantenere i propri privilegi senza modificare in modo sostanziale gli standard di consumo del mondo industrializzato; mentalità propagandata per esempio dal guru verde Bill Gates con il suo soluzionismo (più tecnica salverà dai danni della tecnica!). Insomma, contro l’ecoansia una bella terapia attiva: che ognuno per sé riduca sprechi e consumi idioti, e si impegni insieme ad altri per un uso equo delle risorse, per una giustizia globale contro l’ebollizione globale. Si diceva anni fa che «Platone è meglio del Prozac» (era il titolo di un fortunato libro di Lou Marinoff); che più efficace dei farmaci è la cura che nasce dalla riflessione filosofica, dal porre domande, dal dialogo socratico. Potremmo modificare i termini e dire che «L’indignazione è meglio del Prozac», e ancor meglio è agire, spinti dallo sdegno, e cominciare a usare i mezzi pubblici, a non sprecare, a mettersi un golf in più e a scaldare di meno. Lo so, lo sappiamo che ci daranno degli ingenui, diranno che è come spostare sdraio sul ponte del Titanic che affonda, ma forse no, e forse ci servirà anche per superare ansia ed ecoansia.
Medicina ◆ L’esofagite eosinofila è una patologia seria ma poco nota, perciò ancora
Maria Grazia Buletti«Mangiando capita che il cibo si blocca, non va più giù né su. La situazione non migliora bevendo, si comincia a salivare finché a volte il cibo riesce a scendere, altrimenti bisogna vomitarlo per poter continuare a mangiare». Martina, 35 anni, racconta di un «disagio» che all’inizio, da ragazzina, le capitava solo sporadicamente, poi sempre più frequentemente: «Ricordo una volta in automobile: mangiavo un pezzettino di pane, ero alla guida, nel traffico del centro città, quando mi è rimasto bloccato in gola. Non potevo accostare per vomitare ed è stato un momento molto complicato che poi, per fortuna, quella volta si è risolto».
A un certo punto, decide di affrontare la situazione: «L’ho fatto dopo tanto tempo, quando succedeva quasi tutte le settimane, poi quasi ogni giorno». Un peggioramento che la porta finalmente a parlarne col proprio medico di famiglia il quale chiede un consulto dello specialista gastroenterologo per giungere a una diagnosi, preambolo per una presa a carico terapeutica adeguata. «Sono stata visitata dal dottor Claudio Gaia che con una gastroscopia ha scoperto di cosa soffrivo», ricorda Martina. Si tratta dell’esofagite eosinofila (EoE), un serio problema dell’esofago a cui fa seguito una sorta di «comportamento adattativo» della persona che ne soffre, inducendola a rivolgersi al medico solo quando diventa così frequente da abbassare la qualità di vita.
«Parliamo di una malattia infiammatoria cronica progressiva immuno-mediata che inizialmente si pensava fosse una patologia rara ma, come altre patologie di questo tipo, è diventata sempre più frequente con un’incidenza in aumento soprattutto nei centri urbani», così la gastroenterologa Cristiana Quattropani definisce l’esofagite eosinofila di cui, dice, si è presa sempre meglio conoscenza negli ultimi anni sia a livello della malattia sia riguardo i relativi approcci terapeutici.
«I suoi sintomi sono correlati a una disfunzione dell’esofago e si presentano principalmente con la difficol-
tà a deglutire. Sappiamo inoltre che si manifesta facilmente in presenza di malattie concomitanti come asma bronchiale, dermatite atopica, rinite allergica, congiuntivite allergica» aggiunge il gastroenterologo Claudio Gaia che individua la maggior parte di questi pazienti nel 50-70 per cento degli allergici/atopici sopra elencati, aggiungendo coloro che soffrono di allergie alimentari, «in particolare al latte di mucca». In effetti, Martina, la nostra testimone, afferma di essere asmatica e di avere intolleranze alimentari che sta cercando di curare.
«Se non curata, questa malattia cronica progredisce aumentando il rischio di restringimento cicatriziale dell’esofago. La qualità di vita del paziente viene sempre più compromessa ed è accompagnata da sofferenza e dal rischio di un blocco, anche totale, di cibo nell’esofago» afferma Gaia che però sottolinea una differenza fra il bambino e l’adulto perché, spiega: «Nella persona adulta, la difficoltà nel deglutire può portare fino alla completa ostruzione ed è possibile che la persona si presenti al Pronto Soccorso per un bolo alimentare come succede a circa un terzo di questi pazienti. Poi, si possono sentire dolore al torace (indotto spesso dallo stress) e bruciore di stomaco. I sintomi manifesti dei bambini possono somigliare al reflusso, vomito postprandiale, dolore addominale, diarrea e ritardo nella crescita, insieme al rifiuto di mangiare».
I due specialisti concordano sul fatto che purtroppo la natura inizialmente sporadica degli eventi induce la persona a non curarsene e, malgrado la progressione nel tempo, si assiste a una sorta di adattamento alla condizione finché questa non diventa insostenibile: «Molti pazienti possono essere asintomatici per un lungo periodo di tempo, o si abituano lentamente a sintomi lievi». Quattropani indica la via dell’approccio alla ricerca di una diagnosi che si basa su tre criteri: «Visita accurata, istologia, endoscopia da parte del gastroenterologo permettono di ragionare sui sintomi come di-
sfunzione solo dell’esofago, difficoltà a deglutire e altro ancora; sulla biopsia che permetterà all’esame istologico di mostrare un’infiammazione con eosinofili; infine, l’esclusione di altre cause che portano a esosinofilia».
Dai primi sintomi alla diagnosi passa molto tempo: «Il ritardo diagnostico può sfortunatamente arrivare a 5 o 6 anni per una concomitanza di responsabilità: meccanismi di evasione o assuefazione del paziente, scarsa conoscenza del quadro clinico da parte dei medici di medicina generale e dei gastroenterologi». Tutto confermato dal racconto della nostra paziente: «La visita specialistica dal dottor Gaia e la gastroscopia mi hanno permesso di avere la diagnosi di esofagite eosinofila che, mi è stato spiegato, dovevo cominciare a curare con un farmaco da assumere per 12 settimane dopo le quali è andata decisamente meglio, tanto che ho smesso. Dopo qualche mese però il problema si è ripresentato anche se solo una o due volte al mese».
L’aderenza terapeutica di questi pazienti è un punto talvolta dolente, spiega Gaia: «Quando la persona si sente meglio, tende a non sottoporsi più ai regolari controlli necessari. Questo esalta l’importanza di sensibilizzazione e responsabilizzazione del paziente: se istruito sulla patologia che oggi conosciamo molto meglio di qualche anno fa, non trascurerà controlli ed eventuali sintomi che si possono ripresentare nel tempo». Due gli obiettivi terapeutici per l’esofagite eosinofila: «Migliorare la qualità di vita per mezzo del controllo dei sintomi, e nel contempo prevenire le complicanze controllando l’infiammazione». Farmaci e dieta alimentare sono le due opzioni terapeutiche che li soddisfano: «I medicamenti sono della famiglia dei corticosteroidi e degli inibitori della pompa protonica (nei casi più lievi). La dieta è un approccio terapeutico causale che va per eliminazione empirica di principali alimenti allergenici, senza che i pazienti siano
sottoposti a un preventivo esame allergologico». Il dottor Gaia spiega nel concreto: «Sulla base di studi scientifici, sappiamo che latte (proteine), grano / glutine, noci, uova, e talvolta soia, pesce e frutti di mare sono i fattori scatenanti più comuni dell’EoE. Poiché gli alimenti più critici sono alimenti di base, la gestione dietetica è impegnativa sia per i pazienti che per i medici».
Il consiglio è quello di proporre questa via «solo ai pazienti particolarmente motivati e seguiti da nutrizionisti preparati», raccomandando un controllo appropriato dell’efficacia con gastroscopia e biopsie. «Con la cura dietetica adeguata e col farmaco cambia tutto! Oggi posso mangiare tranquillamente qualsiasi cosa in ogni momento, ma non trascuro i controlli a cui mi sottopongo regolarmente dal mio medico curante e dal gastroenterologo». Presa a carico aderenza terapeutica di Martina sono una testimonianza incoraggiante.
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edita dalla SSAS e un progetto di valorizzazione importante ridanno lustro al maniero
Stefania HubmannScoprire la storia del castello di Serravalle sul posto a conclusione del progetto di valorizzazione, ma pure attraverso i suoi reperti attualmente esposti al Palazzo dei Landfogti a Lottigna, il tutto con il prezioso supporto di una nuova guida dedicata al maniero dalla rinomata collana Guide storico-artistiche della Svizzera. Edito dalla Società di storia dell’arte in Svizzera (SSAS), l’opuscolo Il castello di Serravalle, rigoroso dal punto di vista scientifico ma agile da consultare, costituisce la prima pubblicazione al termine di un progetto comprendente indagini archeologiche e valorizzazione durato due decenni. Il 2023 è quindi l’anno in cui il castello della bassa Valle di Blenio viene riconsegnato in tre diverse forme alla popolazione locale, a un ampio ventaglio di visitatori – la guida è disponibile anche in tedesco – e a tutti gli interessati a scoprire, conoscere ed esplorare lo sperone roccioso di Serravalle che ha rivelato l’esistenza di un castello precedente (risalente al X secolo), oltre a reperti eccezionali dal punto di vista archeologico.
Partiamo anche noi a ritroso, come deciso sia per la guida, firmata dall’archeologa e storica Silvana Bezzola Rigolini, codirettrice del progetto di scavi, sia per l’esposizione in una delle due sedi del Museo storico etnografico Valle di Blenio. La mostra è stata curata dalla stessa archeologa unitamente all’architetto e museografo Ni-
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cola Castelletti al quale è stata affidata la rilettura contemporanea dell’edificio per renderlo fruibile. Emerge così già un primo aspetto importante di questo progetto: l’interdisciplinarità che ha visto riunite archeologia e architettura. Il dialogo fra le due discipline ha potuto svilupparsi sul lungo periodo, giungendo a risultati gratificanti per entrambe e soprattutto per l’obiettivo dell’iniziativa volta a riunire in un unico programma ricerca e valorizzazione.
Un’iniziativa promossa in primis dall’Associazione Amici del Castello di Serravalle (premiata nel 2013 dall’Associazione svizzera per la protezione dei beni culturali) che all’i-
La chiesa di Santa Maria del Castello nel suo aspetto attuale risale al XVI secolo ed è stata inglobata nel 1350 nelle mura di cinta della bassa corte di Serravalle II. (Guide storicoartistiche della Svizzera, Il castello di Serravalle)
nizio del nuovo Millennio si è rivolta all’Accademia di architettura dell’USI. La sensibilità dell’architetto Aurelio Galfetti, allora direttore dell’ateneo, ha permesso a Silvana Bezzola Rigolini, dopo un primo studio preliminare, di condurre una ricerca archeologica sul campo dal 2002 al 2006, in collaborazione con l’Università di Basilea (prof. Werner Mayer), l’Ufficio dei beni culturali del Canton Ticino, finanziata dal Fondo nazionale svizzero per la ricerca scientifica e sostenuta da enti nazionali, cantonali e locali. Al termine delle indagini archeologiche, tramite un concorso di architettura, è stato scelto il progetto del neolaureato dell’Accademia Nico-
la Castelletti per valorizzare il sito. Per i seguenti sedici anni i due professionisti hanno quindi cercato di capire le reciproche esigenze nell’intento da un lato di far risaltare le caratteristiche del castello e dall’altro di rendere questo luogo visibile e godibile. «Oggi il castello restituisce a visitatori e ricercatori la sua storia», spiega Silvana Bezzola Rigolini. «I risultati delle cinque campagne di scavo hanno superato le nostre aspettative, permettendo in primo luogo di documentare l’esistenza di un castello precedente (Serravalle I) a quello oggi visibile (Serravalle II), il primo risalente al 900, il secondo edificato attorno al 1230 con successivi ampliamenti e distruzione definitiva nel 1402. Il progetto di valorizzazione ha permesso ad esempio di evidenziare in superficie i ritrovamenti murari del primo castello conservati sotto il piano di calpestio, così da rendere visibile parte della sua planimetria».
«Se le immagini dall’alto permettono di identificare la planimetria completa di Serravalle II – precisa da parte sua Nicola Castelletti – il castello è comunque ben visibile anche dal basso grazie al risanamento della selva castanile e relativo taglio degli alberi invasivi. Sono inoltre stati riattivati i sentieri che portano allo sperone roccioso e posata una discreta illuminazione all’interno delle mura. Il castello, con nuove sedute in ferro, è così diventato anche uno spazio ricreativo da godere sia di giorno, sia la sera in occasione di eventi culturali».
Nella guida, testi e immagini invitano alla scoperta di questo luogo situato in posizione strategica all’inizio della Valle di Blenio. «Il castello di Serravalle è oggi il meglio conservato della valle ed era l’opera castrense più importante della regione, accanto al castello di Curtero, a Torre, completamente distrutto nel 1182…» si legge nella parte dedicata all’inquadramento storico.
Dall’architettura del castello spostiamo l’attenzione ai ritrovamenti riconducibili a diversi ambiti. Uno dei più significativi è stato rivelato proprio da un pezzo di muro. Si tratta di un affresco di cui è visibile una riproduzione in loco. Spiega Silvana Bezzola Rigolini: «Il grande frammento di affresco costituisce l’unico esempio di decorazione parietale dell’inizio del XIV secolo ritrovato in un edificio civile a livello regionale. Con numerose altre tipologie di reperti contribuisce a identificare il castello come una dimora signorile, la cui architettura difensiva aveva essenzialmente valore simbolico e di rappresentanza del potere dei residenti». Un altro ritrovamento di incomparabile valore archeologico è quello dei proiettili di trabucco (macchina d’assedio). «Quest’ultimo
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è una macchina da guerra di origine bizantina», prosegue l’esperta. «I cinque proiettili ritrovati (di due diversi calibri) sono tra le testimonianze più antiche dell’utilizzo del trabucco in Occidente, impiegato in questo caso nell’ambito della distruzione del primo castello».
All’affresco e al trabucco la guida dedica due box di approfondimento. Nella quarantina di pagine ve ne sono altri su ulteriori aspetti significativi del progetto. Per Valeria Frei, responsabile dell’Ufficio Svizzera italiana della SSAS, è una soddisfazione vedere riuniti nella guida i risultati di una ricerca di così ampio respiro, completi delle informazioni riguardanti l’esistenza di due castelli. Al riguardo precisa: «Il contributo del Comune di Serravalle, da sempre convinto sostenitore dell’intero progetto, ha permesso di arricchire la collana delle guide SSAS con un monumento il cui interesse travalica i confini cantonali coinvolgendo, oltre al pubblico, anche la comunità scientifica. La versione in lingua tedesca sarà quindi pure molto apprezzata». Pubblicate da quasi novant’anni, le guide storico-artistiche della Svizzera sono riconosciute per la loro autorevolezza e in diversi casi rimangono l’unica pubblicazione riservata a un determinato edificio. «L’opuscolo è curato in ogni dettaglio – prosegue Valeria Frei – motivo per cui ha richiesto quasi un anno di lavoro. Il suo valore passa attraverso i testi, le fotografie (la maggior parte di Roberto Gianocca) e la grafica affidata a Claudio Lucchini. La guida è inoltre disponibile come eBook».
Nelle immagini dell’opuscolo, come dal vivo nella mostra, ci sono dettagli che colpiscono. Pensiamo, ad esempio, alle tracce di riparazione tuttora visibili sul frammento di un grande recipiente in pietra ollare. Questo e altri reperti contribuiscono a mostrare come si svolgeva la vita al castello di Serravalle. Nicola Castelletti: «Dalla quotidianità del castello oggi, diventato un piacevole parco, il percorso dell’esposizione porta a scoprire la quotidianità medievale del signorile palazzo. I bambini possono farlo tramite una postazione interattiva incentrata sulla tavola. I reperti in mostra si riferiscono però a più ambiti. Oltre alla tavola e alla cucina, sono rappresentati l’artigianato, l’intrattenimento, il cavallo con il cavaliere e, molto importante, la sfera militare».
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Serata Le guide nello zaino
Il castello di Serravalle così come la guida pubblicata dalla SSAS saranno i protagonisti di una conferenza con Silvana Bezzola Rigolini e Valeria Frei che si terrà mercoledì 23 agosto alle 19.00 sulla piazza esterna della Biblioteca cantonale di Bellinzona. Moderato da Stefano Vassere, direttore delle Biblioteche cantonali, l’incontro è intitolato «Le guide nello zaino. Ticino culturale da sfogliare e visitare».
Su quest’ultima si sofferma pure Silvana Bezzola Rigolini: «Entrambi i castelli sono stati distrutti con grande violenza come testimoniano l’impiego del trabucco per il primo maniero e il ritrovamento di migliaia di punte di freccia per dardo di balestra per il secondo. Quest’ultimo venne assediato, saccheggiato e dato alle fiamme».
L’architettura e i reperti dei due castelli permettono di rivivere un significativo spaccato di storia della regione che si estende per cinque secoli.
Ciò è possibile fra le mura del castello, leggendo la Guida della SSAS e visitando la mostra allestita fino al 5 novembre a Lottigna. Scoperta, esplorazione e conoscenza sono quindi riunite nella valle come auspicato dal progetto di valorizzazione e dopo la prima mostra organizzata nel 2016 a Bellinzona. Silvana Bezzola Rigolini, Nicola Castelletti e Valeria Frei sottolineano d’altronde il ruolo chiave svolto dalla comunità locale nella realizzazione del progetto, oggi arricchito della guida.
Ci vuole un fisico... statuario
Il vicecampione svizzero di Calisthenics ci racconta le sue sfide prima dei mondiali a Riga
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New Orleans e i diritti civili
La Betlemme del jazz è una delle mete d’America più amate anche per le arti visive e la cucina creola
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Piatto freddo di carni miste
Ha una lunga storia alle spalle, ma un presente non troppo brillante; il nome della portata è galantina
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Fatti a mano sono più fioriti Adatto a tutta la famiglia, ecco come preparare biglietti d’auguri con vestiti riciclati
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Tra il ludico e il dilettevole ◆ Autorevole interprete della contemporaneità, Marc Augé ha scritto diversi saggi sul turismo di massa
L’antropologo francese Marc Augé, nato nel 1935 e scomparso lo scorso 24 luglio, ha saputo esprimere con coerenza e continuità le trasformazioni che l’antropologia culturale ha conosciuto negli ultimi decenni. Attraverso penetranti saggi dedicati alla globalizzazione, all’immagine, e alla spettacolarizzazione del quotidiano, Augé è stato fra gli interpreti più convincenti di un riposizionamento disciplinare che ha portato l’antropologia a un profondo rinnovamento. Nel giro di qualche decennio, l’antropologia è infatti passata da un interesse quasi esclusivo per quelle culture rimaste ai margini del mondo noto, a una riflessione sui fenomeni che attraversano la cultura occidentale, scoprendosi inaspettatamente incuriosita e interessata al mondo contemporaneo.
Il turismo di massa, sostiene Augé, è incline a spettacolarizzare il reale trasformandolo in un mondo di immagini preconfezionate
La traiettoria professionale di Augé ricalca, e non potrebbe essere altrimenti, tale cambiamento di prospettiva. Come altri illustri intellettuali francesi, frequenta dapprima la scuola normale superiore a Parigi. Ma poi, invece di abbracciare la carriera di professore di filosofia, decide un po’ inaspettatamente di dedicarsi all’antropologia, disciplina che lo condurrà a intraprendere diversi soggiorni di studio e di ricerca sia in Africa sia in America latina.
Giovane antropologo, nel 1976 Augé entra all’École des hautes études en sciences sociales (EHESS), dove riveste anche la carica di direttore dal 1985 al 1995. Nel 1992, con i colleghi Gérard Althabe, Jean Bazin, e Emmanuel Terray fonda il Centre d’anthropologie des mondes contemporains dell’EHESS. Nello stesso anno pubblica Non-lieux, introduction à une anthropologie de la surmodernité (tradotto in italiano nel 1993 dalla casa editrice Elèuthera di Milano). Il centro di ricerca e la pubblicazione del saggio marcano in maniera netta l’intenzione di orientare l’antropologia allo studio del contemporaneo e a una riflessione sul mondo occidentale
A partire da questo momento, la produzione di Augé si distingue per la ricchezza dei soggetti affrontati e per la versatilità con la quale sottopone allo sguardo dell’antropologo campi del sapere quali l’architettura e il design, la mobilità, lo sport, la salute e la medicina. Augé propone anche, nella forma del saggio breve, accattivanti riflessioni che indagano l’esperienza del viaggio, la logica del turismo e, in modo particolare, il modo in cui
la globalizzazione ridefinisce, intrecciando e sovrapponendo il locale e il globale, l’esperienza delle vacanze.
Fra i brevi saggi che si muovono fra questi temi, giova ricordare, in particolare, la raccolta L’impossible voyage. Le tourisme e ses images (1997) tradotta in italiano da Bollati Boringhieri nel 1999 con il titolo Disneyland e altri nonluoghi. Il turismo di massa, sostiene Augé, è particolarmente incline a spettacolarizzare il reale finendo per trasformarlo in un mondo di immagini preconfezionate orientate al profitto. Destinazioni ambite come Disneyland, o come i villaggi turistici della catena Center Parcs che Augé visita non senza un certo stupore, si insinuano in modo subdolo nell’immaginario dei viaggiatori seducendoli con effetti ammiccanti che giocano continuamente sulla confusione fra finzione e realtà, finendo per sostituire la prima alla seconda
Differentemente dai viaggiatori d’altri tempi, chi visita Disneyland, dice Augé, non cerca novità, ma vuole ritrovare e riconoscere un’immagine che ha già visto e nella quale può identificarsi. «Quando si arriva a Disneyland dalla strada», racconta
l’antropologo, «il castello della Bella Addormentata si staglia sul cielo, con le sue torri e le sue cupole, simile, stranamente simile alle foto viste sui giornali e alle immagini della televisione». Di fronte a una tale vista, l’antropologo constata che «(è) senza dubbio questo il primo piacere di Disneyland: ci (offre) uno spettacolo in tutto e per tutto simile a quello che ci era stato annunciato».
La ricerca del già noto, e il piacere della conferma provato da chi visita Disneyland, sono del del tutto simili – scrive Augé – al sollievo di quei turisti un po’ imbranati che, in un Paese straniero, «si ritrovano e si riconoscono solo nell’anonimato scintillante di un supermercato identico a quello cui sono abituati». Così, al termine di una giornata trascorsa a Disneyland, a Augé conclude: «A Disneyland è lo spettacolo stesso che viene spettacolarizzato: la scena riproduce quel che era già scena e finzione».
L’idea di un turismo che ricrea, attraverso la simulazione, un’atmosfera di autenticità, è il filo conduttore di un altro saggio dello stesso volume, in cui Augé racconta di aver trascorso alcuni giorni presso uno dei noti villaggi
turistici della catena olandese Center Parcs, un luogo dotato di numerose attrazioni e di ambienti che favoriscono l’incontro con la natura. Le famiglie che scelgono questi villaggi alloggiano presso dei cottages che, addossati gli uni agli altri, riescono comunque a regalare quell’impagabile sensazione di assoluta tranquillità di chi vive isolato nella natura. «Sette-ottocento cottages riuniti in uno spazio relativamente limitato a grappoli di quattro-dieci unità – scrive Augé – danno a ciascuno degli occupanti l’impressione di essere per un certo tempo riusciti a fare il proprio nido».
Incredulo di fronte a tanta quiete e armonia, a un certo punto Augé capisce qualcosa che prima gli era sfuggito: «Ma questo miracolo – prosegue l’antropologo –, come tutti i miracoli, ha bisogno degli uomini, della loro complicità. Il piacere reale, incontestabile che provano sotto i miei occhi stupiti centinaia di villeggianti felici dipendeva per un verso, mi parve dopo un momento di riflessione, dalla consapevolezza che avevano di giocare. Non di giocare nel senso immediato del termine, (…) ma di giocare a fare come se, di giocare nel senso in
cui i bambini giocano – a fare il dottore, il papà, la mamma, la guardia e il ladro».
Sul finire del secolo scorso, la globalizzazione era ancora un’idea ricca di potenzialità, e aveva il sapore di un progetto in divenire. In quegli anni Marc Augé fu un cronista di eccezione, un antropologo che raccontò alcuni grandi avvenimenti globali come la morte di Lady Diana, i mondiali di calcio del 1998, o l’attentato dell’11 settembre. Già allora ci avvertì che i grandi eventi passano prima di tutto per le immagini, facendoci intravedere un mondo che andava verso le rapide della finzione.
A rileggere oggi quello che scriveva, non possiamo non ritrovare quelle logiche e quelle tendenze che, con la complicità dei social media e del metaverso, sono più che mai di attualità. Ai giorni nostri, non c’è neanche più bisogno di andare a Disneyland per vivere in un mondo di finzione. Il mondo virtuale ce l’abbiamo in tasca.
Consigli di lettura Marc Augé, Disneyland e altri nonluoghi, Bollati Boringhieri, 1997.
Quasi in sordina negli ultimi anni, sono spuntati qua e là dei castelli. Ovviamente non ci riferiamo a torri merlate e ponti levatoi, bensì a strutture d’acciaio utili per praticare gli esercizi del Calisthenics.
Dopo il primo castello di Tesserete, sorto nel 2017, ne sono spuntati anche a Castagnola, Pregassona, Lugano (Gerra), Mendrisio (Villa Argentina), Tenero (Centro Sportivo) e ad Avegno. Visti da vicino, i parchi calistenici non presentano una grande varietà architettonica, ma solo parallele e sbarre (adatte a installare anche gli anelli). Nel mondo se ne contano oltre 25mila, e di nuovi continueranno a esserne costruiti.
Il Calisthenics è uno sport che si pratica a corpo libero, vale a dire senza l’impiego di macchinari come avviene in una classica palestra, sebbene l’ausilio dei già menzionati castelli possa potenziare l’espressione dei suoi esercizi.
L’origine di questa disciplina risale però al 600 a.C, quando l’allenamento a corpo libero era praticato dagli antichi greci insieme agli sport da combattimento dell’addestramento militare spartano. Cent’anni più tardi, anche i monaci Shaolin adottarono questo metodo per rafforzarsi, con lo scopo di migliorare la difesa del monastero e di loro stessi dai saccheggiatori. La parola Calisthenics deriva da una somma di due termini antichi Kallós e Sthénos. Rispettivamente, bellezza e forza, due principi che rappresentano la base di questo sport.
Potrebbe sembrare che la difficoltà dei movimenti eseguiti sia unicamente alla portata di giovani sportivi d’élite, ma la realtà è ben diversa. Per approfondire il tema, siamo andati a fare due chiacchiere con il vicecampione svizzero nella categoria – 68-80 kg di Freestyle, Patrick Almeida, (vedi foto) che dal 22 al 26 agosto 2023 sarà impegnato ai mondiali di Riga per rappresentare la Svizzera.
«Diciamo che il Calisthenics non ha limitazioni d’età, perché può farlo chiunque: dal bambino all’anziano» ci dice Patrick, precisando che ogni praticante ha obiettivi diversi perseguibili. Si possono allenare sia le basi sia le cosiddette skills; con questa parola ci riferiamo a una branca di questo sport (vedi box), la quale prevede la realizzazione di alcune pose statiche codificate, mentre ci si tiene stretti a delle sbarre.
Allenandosi molto si possono raggiungere traguardi sorprendenti. Non importa la propria struttura fisica, ciò che davvero è fondamentale sono: voglia di migliorarsi, sacrificio e costanza. Prima di arrivare a livelli mondiali, però, Patrick ha trascorso diversi anni ad allenarsi insieme ai suoi amici all’aperto. Pratica che non si è tuttavia dimostrata sempre adatta: «Noi ci allenavamo in un parco giochi, mentre ci gironzolavano attorno i bambini». Questo però non lo ha mai fermato, la passione e la voglia di apprendere nuove abilità lo ha sempre spinto a dare di più.
Col trascorrere degli anni anche le strutture sono migliorate, fino alla diffusione dei cosiddetti castelli. Castelli che Patrick è felice di avere nella regione, sebbene un piccolo confronto con quello che si può trovare al di fuori del Cantone fa capire che ci sono ancora margini di miglioramento: «Mi sono allenato in diversi parchi: in Italia, Germania, Francia, Portogallo e Spagna. Nelle grandi città ce ne sono tanti, ma anche nei piccoli villaggi è possibile trovare infrastrutture utili e
fatte bene: con tanto di sbarre per fare il freestyle, parallele adatte, sbarre ad altezze adeguate. E per di più, c’è tanta gente che si allena».
I suoi obiettivi erano ben chiari sin da subito: «Ho iniziato Calisthenics perché volevo mettere su massa muscolare», un’idea nata dall’ammirazione per un suo amico che aveva raggiunto questo stesso traguardo prima di lui.
Gli obiettivi, però, cambiano: di fronte alla potenza espressa da una posa statica – durante la quale un atleta calistenico era appeso a una sbarra con solo due mani e in posizione orizzontale in parallelo al terreno ( front lever) – Patrick ha iniziato ad allenare le skills senza mai più fermarsi.
È quindi spesso l’ammirazione, il primo passo che fa trovare l’ispirazione per praticare questa attività. Sicuramente nel 2002 chi guardò il film in DVD Thug Workout, fitness from the Street dei Ruff Ryders, è rimasto colpito dalla possibilità di potersi allenare per strada, scolpendosi un bel fisico. Proprio questa pellicola ha gettato le basi del Calisthenics così come lo conosciamo oggi.
Da allora la disciplina ha avuto un’ascesa notevole: dai video amatoriali di allenamenti che furono caricati su una celebre piattaforma di condivisione internet, si è arrivati fino ai giorni nostri dove ogni anno diverse competizioni vengono programmate per stabilire i migliori atleti nazionali e internazionali.
Sul nostro territorio, grazie all’associazione SSWC, il cui acronimo sta per Swiss Street Workout & Calisthenics, vengono organizzati ogni anno i campionati nazionali di Calisthenics per il ramo delle skills. Patrick è stabilmente nella lista degli atleti in gara
da diversi anni. Nel 2021 e nel 2022 si è piazzato al terzo posto nella classifica generale. A giugno di quest’anno si è poi aggiudicato (nell’ultima edizione del campionato svizzero tenutasi a Berna) il titolo di vicecampione nella sua categoria per il secondo anno consecutivo, che gli ha permesso di conquistare la qualifica ai mondiali. «A livello di risultato sono contento perché avrò modo di confrontarmi con atleti internazionali» ci racconta Patrick.
Riguardo invece alla tendenza degli ultimi anni, il livello qualitativo degli atleti, che gareggiano durante i campionati rossocrociati, è in evoluzione di anno in anno, permettendo di far emergere nuovi talenti: «La competizione mi è sembrata cresciuta, il livello si alza sempre di più», conferma lo stesso Patrick.
Il cosiddetto margine di qualità che c’era tra un atleta e l’altro si sta quindi assottigliando, anche se ci sono quei quattro o cinque atleti che spiccano più degli altri.
Da oltre 40 anni le rive del Verbano si trasformano in un palcoscenico sportivo. Protagoniste e protagonisti sono atleti di ogni età, provenienti da ogni parte della Svizzera e dall’estero.
Ogni anno, il villaggio, le competizioni, la buvette e la calorosa accoglienza rendono questa manifestazione un incontro imperdibile. L’intera manifestazione ha il sostegno di Swiss Triathlon e, grazie all’ottima organizzazione è stata insignita del titolo «Gold Event». Inoltre quest’anno è stata scelta da Swiss Triathlon per svolgere i campionati svizzeri sulla distanza Medium che si svolgeranno domenica 3 settembre (1,9 km nuoto, 90 km bici e 21 km corsa).
Dopo il successo della scorsa edizione si ripete il duathlon (corsa e bici) e, altra novità, è stata inserita la staffetta sulla corta distanza. La distanza di 500 m a nuoto, seguita da 20 km di bici e 5 km di corsa permette a tutti di affrontare questa sfida e provare l’ebrezza della triplice!
La prima parte del sabato è dedicata principalmente a bambini e adolescenti con gare già a partire dai tre anni.
E per sottolineare lo spirito inclusivo della manifestazione con una particolare sensibilità ai bambini, si consolida per il secondo anno la partnership con UNICEF Svizzera e Liechtenstein. Un connubio perfetto tra Locarno, primo Comune in Ticino a diventare «Comune amico dei bambini», triathlon Locarno e UNICEF.
Il Calisthenics è basato su allenamenti di resistenza, allenamenti con esercizi zavorrati, e skills Skills che per antonomasia «immobilizzano» l’atleta e lo rendono per qualche istante come una statua dell’antica Grecia.
Vi è però una branca importante di questo sport denominata freestyle, la quale permette di combinare diverse skills tra loro e creare sequenze che possono sorprendere gli stessi praticanti.
Questa attività richiede una padronanza molto avanzata del proprio corpo e delle figure, poiché un movimento eseguito male può costare un infortunio, a volte anche spiacevoli contusioni. Il discorso si può applicare a tutti i rami che compongono la
Ai prossimi mondiali, Patrick è fiducioso di poter far bene e guadagnarsi punti in classifica: «Il mio obiettivo per Riga è entrare nei primi dieci nella categoria di peso a livello mondiale: quello sarebbe top. Ti dirò che potrei anche lavorare per entrare tra i primi sei, in questo modo accederei alle finali, ma resto coi piedi per terra». In ogni caso significherà fare il possibile per portare dei set tecnicamente quasi perfetti.
disciplina: gli infortuni non sono solo legati alla pericolosità dei movimenti, bensì possono derivare da sovraccarichi di articolazioni e muscoli.
Nel freestyle la fantasia e un pizzico di buon senso sono elementi che, se ben abbinati, possono generare una bella sequenza.
Possiamo, infatti, partire eseguendo una verticale sulle parallele, per poi inclinare tutto il busto di novanta gradi mantenendo le braccia tese, fino ad avere il corpo parallelo al terreno: ecco che avremo creato una transizione da una verticale a una planche; le combinazioni sono svariate. Bisogna, tuttavia, stare attenti a praticare queste tecniche con molta attenzione e concentrazione.
Grazie al sacrificio, all’impegno e alla costanza richiesti da questo sport, siamo convinti che si espanderà ancora di più, permettendo a diverse generazioni future di praticare un esercizio fisico in grado di soddisfare tutte le ambizioni sportive (non per forza a livello agonistico): il più delle volte, gli allenamenti sono infatti total body (ideati per tutti i gruppi muscolari del corpo), ciò che permette di prepararsi a molti tipi di sforzo. Ma ancor di più, il Calisthenics aiuta nella vita di tutti i giorni, perché permette di «percepire meglio il proprio corpo» e di migliorare la propria condizione posturale, necessaria per affrontare la quotidianità.
Programma della manifestazione
Sabato 26 agosto
Kids Camp Sabato 2 settembre Kids Triathlon; Youth Triathlon; Mini-Tri; Staffetta Mini-Tri; Duathlon Domenica 3 settembre Olympic Distance; Triathlon Medium; Team Relay
Informazioni
www.3locarno.ch
Concorso
«Azione» mette in palio 5 biglietti per la gara Mini-Tri all’interno del Locarno Triathlon. Per partecipare all’estrazione inviare una mail a giochi@azione.ch (oggetto: «Triathlon») indicando dati personali, indirizzo di posta tradizionale, e mail entro domenica 20 agosto 2023.
Sembrano usciti da una vecchia cartolina in bianco e nero quei gradini di cemento grezzo. Siamo a New Orleans. L’immagine della bimbetta con un grazioso fiocco tra i riccioli, che scende lo scalone scortata da tre imponenti agenti, è impressa indelebilmente nella coscienza civile degli americani. Il calendario segnava il 14 novembre del 1960. Il governo federale aveva appena messo al bando la segregazione nelle scuole della Louisiana. Quel giorno Ruby Bridges, sei anni, diventava la prima allieva afroamericana a mettere piede alla William Frantz Elementary School di New Orleans. Con la sua facciata originale in stile Art Déco, questa scuola è da sessantadue anni uno dei santuari del pellegrinaggio che ripercorre il Movimento per i diritti civili.
Un posto appartato, lontano dal chiasso festaiolo del Quartiere Francese. Per arrivare qui, bisogna lasciarsi alle spalle il fiume Mississippi, ma anche la musica suonata in ogni angolo, le risate dei visitatori a passeggio. Dopo il trillo dell’ultima campanella, qui tutto è silenzio. Si sentono solo gli sbuffi del vento pomeridiano. Kyle, il tassista esperto che ci accompagna, conosce New Orleans a menadito, ma qua non c’era mai stato. «Avevo visto la foto sul giornale, ma i turisti vengono raramente», ci dice.
Quel che manca nello scatto ingiallito che Kyle ricorda a memoria, sono le urla inviperite dei manifestanti bianchi contrari alla fine della segregazione, schiamazzi razzisti e insulti rivolti a una bambina colpevole di voler studiare nelle aule dei loro figli. La storica sentenza Brown vs Board of Education della Corte Suprema aveva posto fine alla segregazione razziale nelle scuole pubbliche già nel 1954, ma gli Stati del Sud resistettero finché poterono. Le proteste proseguirono per settimane a New Orleans. Molti ragazzini bianchi cambiarono scuola; in classe per un anno intero ci fu un solo banchetto, il suo. Barbara, la maestra, arrivò da Boston: gli altri insegnanti si erano rifiutati di fare lezione a una piccola di colore. Una bimba a cui fu affidato il compito di scrivere un nuovo capitolo di storia.
La William Frantz Elementary School oggi è la scuola più famosa di New Orleans. Il punto di partenza perfetto per chi voglia scoprire l’altro volto della città, la sua «anima nera» e forse meno nota.
New Orleans, si sa, è una delle mete più amate, viaggio obbligato per chiunque apprezzi arte, musica e buon cibo. C’è chi la adora per la tradizione culinaria creola e cajun; i cultori della musica la venerano come la Betlemme del jazz; gli amanti delle arti visive restano ammaliati dai colori e dalle espressioni visive delle opere che qui vengono prodotte. Eppure la «Big Easy» – come affettuosamente gli americani la definiscono, cogliendone lo spirito «sereno» e libero – è anche una città intimamente legata alla lotta contro le leggi razziste dette Jim Crow che, tra la fine dell’Ottocento e l’inizio degli anni Cinquanta del Novecento codificarono la segregazione negli Stati del Sud.
Una passeggiata nella New Orleans nera, non può non toccare Tremé, il quartiere afroamericano più antico della nazione, a nord del Quartiere Francese. Il cuore dell’area è il Louis Armstrong Park, omaggio a uno dei musicisti più amati al mondo. Il trom-
bettista, leggenda indiscussa del jazz, era nato proprio a New Orleans nel 1901. L’insegna luminosa al neon che indica l’ingresso è immancabile nella galleria fotografica di ogni turista.
Tra i giardini e le bellissime sculture del parco, è incastonata Congo Square, una delle piazze più significative. Nel diciottesimo secolo, era il luogo di incontro degli schiavi a cui una volta a settimana, la domenica, era concesso di ritrovarsi. È qui che i suoni della madre Africa incontrarono la tradizione europea, concependo il miracolo del jazz.
Se New Orleans fu sede di un orrendo mercato di schiavi destinati alle
piantagioni del Sud, in città fiorì anche quello che gli storici considerano il primo esperimento di borghesia afroamericana (e libera) in territorio statunitense. La vicina St. Augustine Church, la seconda chiesa cattolica più antica degli Usa – all’incrocio tra le strade St. Claude e Governor Nicholls – fu fondata proprio da neri liberi nel 1841.
Il verde del Louis Armstrong Park ospita anche il teatro dedicato alla «regina del gospel», Mahalia Jackson, anche lei nata in città. Amica e confidente di Martin Luther King – profeta della non-violenza – interpretò con la sua inconfondibile vo-
ce contralto l’intensa colonna sonora del Movimento. Con il reverendo King, la cantante viaggiò in giro per il Paese, contribuendo con la sua musica alle lotte per l’uguaglianza. Fu la sua voce ad accompagnare King il giorno dei suoi funerali, quando Jackson intonò il suo spiritual preferito «Prendi la mia mano, prezioso Signore». La stessa melodia che sembra dischiudersi dalla bella scultura della cantante, posta all’ingresso del teatro. Un’altra tappa importante di questo «pellegrinaggio» è la New Zion Baptist Church. È qui che nel ’57, Martin Luther King Jr. fondò – con un coordinamento di ministri di culto – la Southern Christian Leadership Conference. La storica organizzazione, che consacrò King a livello nazionale, fu la base operativa delle più importanti proteste dell’epoca, culminate con l’entrata in vigore della legge sui diritti civili del 1964. Poco distante, c’è il parco A. L. Davis, in onore del primo consigliere comunale afroamericano di New Orleans (e pastore della New Zion). Questo giardino, oggi adornato con murales coloratissimi dedicati ai personaggi più emblematici della storia del Movimento, negli anni Sessanta funse da punto di raccolta e partenza di tutte le manifestazioni cittadine.
Conclude il viaggio, la tappa al Dooky Chase’s Restaurant, la locanda di Tremé che dal 1941 racchiude, nelle sue delizie, la storia del popolo nero e delle sue battaglie. La proprietaria, la compianta chef Leah Chase, scomparsa nel 2019, è stata da sempre considerata la «regina» della cucina creola,
ovvero l’armonia miracolosa di sapori in cui si fondono elementi europei, africani, caraibici e ispanici. Durante il periodo più intenso del Movimento – tra gli anni Cinquanta e Sessanta – il secondo piano del Dooky Chase’s era diventato una sorta di centrale operativa, in cui gli Stati Maggiori (incluso il leader Martin Luther King) potevano incontrarsi nel massimo riserbo. Tra le sue panche si sono accomodati star e presidenti, come Barack Obama a George W. Bush.
Nel ricco menù non manca il pollo fritto, piatto principe della tradizione nera; in carta anche il po’ boy, un panino imbottito con carne o gamberi fritti, che da Dooky Chase’s preferiscono chiamare con l’antica trascrizione «poor boy » (povero ragazzo) in omaggio all’origine umile del sandwich. Secondo la leggenda, infatti, il panino nacque come pasto improvvisato dai fratelli Benny e Clovis Martin, due ex tranvieri, che inventarono la pietanza per rifocillare gratuitamente i colleghi conducenti in sciopero, «poveri ragazzi» che protestavano per le pessime condizioni di lavoro sugli streetcar, i tram cittadini. Non meno richiesto è poi il «gumbo creolo», uno stufato di carne o crostacei con riso e abbondanza di spezie. La specialità della casa è la versione verde «z’herbes», con una selezione di nove verdure diverse e carni miste. In una generosa cucchiaiata, ottantuno anni di sapori unici e lotte per la giustizia.
si trova
più ampia galleria fotografica.
1.80
Ha una lunga storia alle spalle, ma un presente non troppo brillante. Stiamo parlando della galantina, una portata di origine medioevale, che per secoli è stata di grande successo, perché, essendo servita fredda, si proponeva a chi mangiava senza fretta, senza l’ansia di veder raffreddare una pietanza cotta.
Era una preparazione lunga e complessa, ma allora la manodopera di cucina abbondava quindi non era un problema. Ed è proprio l’eccessiva complessità ad averla probabilmente fatta dimenticare al mondo moderno: ma questo spiace, ché una perdita è sempre un pezzo di storia che se ne va.
Persino io, a onor del vero, l’ho fatta poche volte, in giornate uggiose, quando non avevo nulla da fare: recuperai gli ingredienti e feci quella di pollo e marroni, che vedete qui sotto.
Presentiamola. La galantina, come si è detto, è un piatto freddo a base di carne di pollo, di solito, ma anche di anatra, coniglio o vitello, farcito non con tutto, ma di tutto: carni varie sempre cotte, verdure, odori, classico il tartufo nero; poi lessato in brodo e servito con gelatina o, oggi, con maionese.
Per prepararla bisogna tagliare e miscelare la carne con la guarnizione scelta, poi sigillare il tutto in pelle di pollo, in un segmento di intestino di suino o in fette di vitello o ancora in uno stampo.
La galantina ha tradizionalmente forma rotonda; se rettangolare, prenderebbe il nome di ballotine – teoricamente, nessuno la usa. Ecco due ricette «esemplari» – esemplarmente lunghe… Ma buonissime.
Galantina di pollo e marroni (ingredienti per 6 persone). Disossate o fatevi disossare un pollo da 1,8 kg. Macinate il fegato e il cuore, quindi mescolate il composto con 200 g di polpa di vitello tritata, 200 g di salsiccia spellata e tritata, 2 spicchi d’aglio tritati, 12 marroni lessati, fatti raffreddare e tritati, 2
cucchiai di prezzemolo tritato, il succo e la scorza grattugiata di un limone.
Unite un uovo o due e mescolate. Regolate di sale, di pepe e di noce moscata e mescolate di nuovo. Riempite il pollo con questa farcia e poi cucite la pelle per racchiudere il ripieno. Avvolgete il pollo in un telo grande ripiegato a metà e legatelo con spago da cucina. Mettetelo in una casseruola e copritelo di brodo freddo di pollo o vegetale. Portate a ebollizione a fuoco medio e fate sobbollire per 1 ora e 30’.
Trasferite la galantina su un piatto da portata e copritela con un piatto, cui sovrapporrete un peso. Togliete il telo e lasciate ancora la galantina sotto il peso finché non si è raffreddata completamente. Servitela affettata nappando con maionese – o un’altra salsa a piacere.
Galantina di vitello e lingua (ingredienti per 4-6 persone). Macinate finemente 300 g di vitello bollito e raffreddato, 100 g di prosciutto cotto, 100 g di pancetta e 50 g di pinoli. Metteteli in una terrina e mescolateli con 3 cucchiai di grana grattugiato, 2 uova sbattute, 200 g di lingua salmistrata tagliata a dadini e un pizzico di noce moscata. Regolate di sale, di pepe, aggiungete gradualmente un bicchierino di vino dolce ma l’impasto deve rimanere sodo. Avvolgete il composto in un telo, sistematelo in uno stampo rettangolare a pareti alte e fatelo cuocere a bagnomaria per 1 ora. Preparate una gelatina istantanea e lasciatela rassodare. Prima che sia solidificata versatene uno strato in uno stampo rettangolare leggermente più grande di quello usato per cuocere la galantina.
Quando quest’ultima è cotta e intiepidita toglietela dal telo e mettetela nello stampo con la gelatina. Coprite con la gelatina rimasta e lasciate raffreddare in frigorifero fino al momento di servire. Immergete brevemente lo stampo in acqua calda e sformate.
Inaudito! Mi rendo conto di aver citato, negli anni, le triglie solo due volte: triglia con pinoli e olive, nel 2012, e pasta con le triglie nel 2018. E dire che è uno dei pesci che più amo! Vediamo come si fa una ricetta di triglia basilare, al cartoccio. Triglie al cartoccio alla classica (in-
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gredienti per 4 persone): 4 triglie di 300 g l’una, soffritto di scalogno, prezzemolo tritato, origano, succo di limone, pangrattato, olio d’oliva, sale, pepe. Squamate, eviscerate, lavate e asciugate le triglie. Fate soffriggere 4 cucchiai di pangrattato in 1 filo d’olio e, appena è imbiondito, amalgamatelo in una ciotola con 4 cucchiai di soffritto di scalogno, 1 manciata di prezzemolo tritato, 1 cucchiaino di succo di limone, 1 pizzico di origano e di sale e una spolverata di pepe. Ponete le triglie, una per una, su altrettanti fogli d’alluminio leggermente unti d’olio, cospargetele con il composto, chiudete bene i cartoc-
ci e fateli cuocere in forno a 200° per 10 minuti. Servite i cartocci appena tolti dal forno, ancora chiusi. Amo particolarmente le triglie al cartoccio per un motivo: ne assaggiai da giovane una variante in un grande ristorante provenzale che resta nel mio cuore – e che rifaccio spesso. Una cena memorabile, che iniziò con questa ricetta. Triglie con pancetta. La base è uguale a quella precedente, salvo omettere l’origano. Al ristorante, però, misero sopra alla triglia, prima di formare il cartoccio, una fetta di ottima pancetta, tagliata sottile. L’equilibrio dei sapori fra triglia e pancetta è magico.
Oggi vi presento le due ricette più facili che vi ho mai proposto: non richiedono cottura e sono godevolissime.
Ingredienti per 4 persone: 400 g di fave – 240 g di focaccia – 150 g di salame – 200 g di pecorino dolce – prezzemolo – aglio – olio di oliva –sale e pepe
Togliete le fave dal baccello e pelatele, sciacquatele con cura e tenetele in frigorifero coperte fino al momento di usarle. Togliete il budello al salame e tagliatelo molto sottile. Tagliate il pecorino a cubetti. Mettete il pecorino e le fave in una ciotola, cospargeteli con prezzemolo e con aglio tritati e condite con olio e sale. Disponete le fette di salame nei piatti e accompagnatele con l’insalatina di fave e la focaccia. Se volete scaldate leggermente in forno la focaccia.
Ingredienti per 4 persone: 320 g di scamone di manzo o più a piacere –4 cucchiai abbondanti di maionese – 1 cucchiaio di panna – 1 cucchiaino di senape – 1 cucchiaino di Worcester – sale e pepe in grani
Private la carne delle parti grasse e cartilaginee, avvolgetela in pellicola e mettetela in freezer per 30 minuti. Mescolate la maionese, la panna, la senape e la salsa Worcester emulsionandole con cura. Tagliate lo scamone a fette sottilissime, se con l’affettatrice è meglio, se no con un coltello affilatissimo e molta attenzione, quindi sistematele nei piatti. Nappate con la salsa, salate, pepate e servite.
Un biglietto fatto a mano è sempre gradito e trasmette attenzione a chi lo riceve. In questo tutorial vediamo come crearne alcuni a tema floreale, utilizzando resti di stoffa, magari recuperati da vestiti smessi e piccole decorazioni che già abbiamo in casa come bottoni, nastri, cordoncini. Un bricolage adatto a tutta la famiglia e un ottimo esercizio creativo che ci permette di spaziare con la fantasia.
Procedimento
Realizzate la base dei cartoncini applicando con il biadesivo un quadrato
colorato al centro. Potete crearli nelle misure che preferite. Per questo tutorial sono stati utilizzati cartoncini quadrati bianchi da 13,5 cm, e quadrati colorati da 10 cm.
Selezionate i resti di tessuto, se molto stropicciati date loro una rapida stiratura, quindi divideteli per tonalità. Potete usare tessuti di ogni genere, utilizzando materiali diversi, dal cotone al jeans, dal panno al tulle,… l’effetto sarà più interessante. Non preoccupatevi nemmeno se il tessuto dovesse sfilacciarsi.
Una volta decisi gli abbinamenti per ogni fiore ritagliate 4-5 dischetti di
La beccaccia ha un… Completa la frase leggendo, a cruciverba ultimato, le lettere nelle caselle evidenziate.
(Frase: 5, 6, 2, 16, 5)
ORIZZONTALI
1. Filo metallico
4. Le iniziali dell’attore Placido
6. La indica la meridiana
7. Si sbarra per ripararla
8. Le iniziali della conduttrice
Spada
9. Il noto delle Vigne
10. Nome femminile
13. Precede il two
14. Si segue... a tavola
18. Non mancano nei pescherecci
20. Così in latino
21. Preposizione francese
misure variabili tra gli 8 e i 3 cm.
Sovrapponete i dischetti dal più grande al più piccolo, senza cercare di essere precisi, quindi cuciteli insieme applicando sulla sommità un bottone.
Fissate i fiori così creati sulla base delle cartoline con la colla a caldo. In questa fase potete decidere di inserire elementi aggiuntivi. Strass, passamanerie, nastri, petali in tessuto.
Creare questo tipo di biglietti è un ottimo esercizio creativo, lasciatevi trasportare dalla fantasia.
Potete per esempio creare varianti utilizzando della raffia: avvolgete sulla mano alcuni giri di raffia. Legateli al centro, allargate i petali e sfilate la raffia. Inserite questo fiore tra i dischetti, magari aggiungendo uno YoYo in tessuto.
Oppure creare yo-yo in stoffa: vi basterà prendere un cerchio di tessuto, fare un punto filza lungo tutto il perimetro esterno, tirare e fissare il filo. Per avere degli yo-yo di una misura ideale vi consiglio di tagliare dei cerchi grandi quanto un cd. O ancora piegare su sé stessi i cerchi tagliati: per questo fiore servono 4 cerchi da 8 cm e 4 da 6 cm. Assemblateli a due a due (uno grande e uno piccolo) quindi piegateli in quattro per ottenere un petalo. Fissate con la colla. Creati i 4 petali fissateli sulla cartolina per realizzare il fiore. Aggiungete al centro un dischetto di tulle e un bottone.
• Biglietti d’auguri quadrati, cartoncini colorati
• Nastro biadesivo trasparente
• Resti di tessuto di vario genere
• Filo da cucito in tinta, ago
• Bottoni, raffia colorata
• Colla a caldo o colla universale
• Forbici e taglierino
(I materiali li potete trovare presso la vostra filiale Migros con reparto Bricolage o Migros do-it)
Create le vostre varianti in base ai materiali che avete in casa. Con un buon paio di forbici che tagliano bene la stoffa questo è un tutorial creativo a cui può partecipare tutta la famiglia. Otterrete tanti biglietti unici da utilizzare per i vostri amici e parenti. Buon divertimento!
Tutorial completo azione.ch/tempo-libero/passatempi
Vinci una delle 2 carte regalo da 50 franchi con il cruciverba e una carta regalo da 50 franchi con il sudoku
22. Andato alla latina
23. Un dato anagrafico
25. Le iniziali dello scrittore e filosofo Tommaseo
26. Mitologico gigante
27. Genere musicale
29. Spazio verde in città
30. Un goccetto soltanto!
VERTICALI
1. Preposizione articolata
2. Bruciato
3. Le iniziali dell’Alfieri
4. Un possessivo
5. Un luogo di delizie
7. Dinamiche, energiche
9. Sono alberi
11. Un fiore nell’acqua
12. Fenomeno atmosferico
15. A Roma valeva dieci
16. Pronome personale
17. Fiume della Sicilia
19. Sono unità di peso
20. Mostra i denti al falegname
23. Sigla di Società a Responsabilità Limitata
24. Danno un punto a scopa
26. Le rive dell’Arno...
28. Le iniziali della Tatangelo
Soluzione della settimana precedente LO SAPEVI CHE… – Papa Adriano IV è stato l’unico papa… Resto della frase: …DELLA STORIA DI ORIGINE BRITANNICA
D E LUSA L A S T
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Regolamento per i concorsi a premi pubblicati su «Azione» e sul sito web www.azione.ch I premi, tre carte regalo Migros del valore di 50 franchi, saranno sorteggiati tra i partecipanti che avranno fatto pervenire la soluzione corretta entro il venerdì seguente la pubblicazione del gioco. Partecipazione online: inserire la soluzione del cruciverba o del sudoku nell’apposito formulario pubblicato sulla pagina del sito. Partecipazione postale: la lettera o la cartolina postale che riporti la soluzione, corredata da nome, cognome, indirizzo del partecipante deve essere spedita a «Redazione Azione, Concorsi, C.P. 1055, 6901 Lugano». Non si intratterrà corrispondenza sui concorsi. Le vie legali sono escluse. Non è possibile un pagamento in contanti dei premi. I vincitori saranno avvertiti per iscritto. Partecipazione riservata esclusivamente a lettori che risiedono in Svizzera.
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Le Faroe sono un piccolo arcipelago sperduto nell’Atlantico settentrionale, lungo la rotta tra la Scozia e l’Islanda. Chi le frequenta ha sempre una storia curiosa da raccontare. Per esempio molte case hanno il tetto coperto d’erba e le pecore si prendono cura della manutenzione pascolandoci sopra. Del resto nelle diciotto isole gli ovini sono oltre settantamila (un terzo più degli abitanti) e qualcosa dovranno pur fare. Fær Øer significa proprio «isole delle pecore» e il loro allevamento è la principale attività economica, insieme alla pesca. Da qualche tempo tuttavia anche il turismo internazionale è una voce importante, nel quadro di un crescente interesse per il Nord. Anzi, da molti punti di vista queste isole sono diventate un laboratorio del turismo contemporaneo. Un esempio di qualche giorno fa. Gli abitanti delle Faroe difendono con tenacia la tradizionale e cruen-
ta caccia alle balene ( grindadráp). Da secoli accerchiano branchi in migrazione in mare aperto e li sospingono verso alcuni fiordi, dove i cetacei vengono poi massacrati nell’acqua bassa, arrossata del loro sangue. Inutili sin qui le (fondate) proteste delle associazioni ambientaliste. Poche settimane fa i passeggeri di una nave da crociera di Ambassador Cruise Line in cerca dell’aurora boreale («uno spettacolo di luci come nessun altro») hanno invece assistito alla mattanza di un’ottantina di balene quando sono approdati nel porto della minuscola capitale Tórshavn. Sono seguite naturalmente prese di distanza, le scuse della compagnia di navigazione e così via ma viaggiare non servirebbe anche a misurarsi con la diversità del mondo? O forse le culture tradizionali ci piacciono solo in una versione edulcorata e addomesticata?
Nonostante l’attaccamento alla tra-
Colpo di scena, quasi subito, studiando un po’: già in origine, nel 1856, la seconda orangerie del parco, a trecentosettantadue passi dalla prima che vi ho raccontato due settimane fa e ho appena salutato di sfuggita, diventava, d’estate, teatro. Mica dunque riconvertita ad altro a posteriori, ma concepita in partenza, caso più unico che raro, seppur a uso privato, con la doppia funzione di orangerie in inverno e teatro estivo. Nel tragitto potete incontrare: monumentale cedro del Libano, villa settecentesca – sempre chiusa a parte per importanti incontri tipo l’ultimo, nel giugno 2021, tra Biden e Putin – con biblioteca filoellenica annessa, fontana mistilinea vuota all’ombra di sei ippocastani, ex scuderie, grange. E la fattoria di una volta che dà il nome a questo parco dove salendo, come adesso, si vede man mano sempre un po’ più di lago. Così, avvolta nella luce serale d’inizio agosto, tra palme delle Canarie e ser-
re, spunta, neogreca, l’orangerie-teatro (387 m) del parc de la Grange a Ginevra. Attribuibile all’architetto-ingegnere Charles Schaeck-Jaquet (1800-1899), autore di La sépulture, particulièrement les cimetières et nécropoles (1876), c’ero stato una sera di secoli fa a vedere una pièce particolarmente dimenticabile. Mi ricordo invece le grandi vetrate botaniche di quell’insolito teatro stagionale e l’atmosfera del bar orticolo, lì fuori dal Théâtre de l’Orangerie, dove scorrevano, a fiumi, bianchi ben freddi, dolci e speziati, ottenuti da vitigni fuori dal comune come lo Scheurebe e sulla cui etichetta, c’era un centauro o un satiro.
Il committente è il colonnello Edmond Favre (1812-1880), figlio dell’erudito bibliofilo incontrato l’ultima volta e autore di due opere di storia militare: L’armée prussienne et les manœuvres de Cologne (1862) e L’Autriche et ses institutions militaires (1866).
dizione, gli abitanti delle Faroe hanno dimostrato di sapersi promuovere molto bene, sfruttando tutte le possibilità offerte dalla rete. Qualche anno fa per protestare contro la mancata copertura del loro Paese da parte di Google Street View hanno montato delle telecamere sul dorso delle immancabili pecore, creando… Google Sheep View. E poiché i principali servizi di traduzione online non contemplano la loro lingua, hanno creato un servizio (Faroe Islands Translate) che permette di chiedere direttamente agli abitanti del posto.
Intanto le Faroe sono di moda e il numero dei turisti cresce rapidamente, al ritmo del dieci per cento l’anno. Erano solo settantamila nel 2013, già più che raddoppiati nel 2019. E dopo la pandemia si temono accelerazioni esponenziali. Per non farsi cogliere impreparato, nell’aprile di quest’anno l’arcipelago ha proposto
di Claudio Visentinper il quinto anno consecutivo l’iniziativa «Chiuso per manutenzione». Per alcuni giorni l’accesso ai turisti è vietato, ma un centinaio di candidati scelti per sorteggio possono venire come volontari per prendersi cura dei luoghi più popolari, con la copertura di tutte le spese. Nel resto dell’anno gli altri turisti però devono pagare parecchio se vogliono scattarsi un selfie a effetto, per esempio alla Rupe degli schiavi (Trælanípan), da dove il lago Leitisvatn sembra sospeso sopra l’oceano. Dal 2019 per fotografare questo luogo di tendenza su Instagram si pagano alcune decine di dollari. Lo stesso per riprendere l’arco di roccia di Drangarnir o per salire sul monte Villingardalsfjall, nell’isola di Viðoy. In quest’ultimo caso i locali si giustificano spiegando che spesso devono recuperare dei turisti sorpresi dalla nebbia. Del resto, alle Faroe la meteo cambia con grande rapidità, an-
che tre o quattro volte al giorno (di solito in peggio).
Si può discutere naturalmente la legittimità di questi pedaggi. Di certo contrastano con la tradizione prevalente nell’Europa settentrionale, ispirata al concetto norvegese di Friluftsliv (letteralmente «vita all’aria aperta») e basata sul diritto di libero utilizzo in qualunque forma degli spazi naturali. Gli isolani per parte loro non amano le distinzioni troppo sottili. In fondo il problema non sono i turisti, dicono, benvenuti dopo la lunga sospensione per la pandemia, ma gli ultimi arrivati, interessati quasi solo a un selfie da condividere in rete.
Alle Faroe, nonostante siano alla fine del mondo (o forse proprio per questo) hanno le idee chiare. Per gestire il nuovo iperturismo servono idealismo, creatività e parecchio realismo. Una lezione da ricordare, anche in paesaggi diversi e distanti.
Inaugurata l’estate del 1856 con Le Gendre de monsieur Poirier, commedia in quattro atti la cui première parigina risale a due anni prima, stasera va in scena Fin de partie (1957) di Beckett con l’attore memorabile del film Les Amants du Pont-Neuf (1991). In alto, sul tetto, dei fregi decorativi come fiori in fiamme. Davanti, in bella mostra, vigilano quattro piante esotiche in enormi mastelli di legno. Avvicinandomi, a una a una, ne leggo il nome: Ficus microcarpa, Yucca gigantea, Phoenix canariensis, Ficus benghalensis Non solo aranci, allora, svernano tra queste mura che ritrovano la vocazione teatrale nel 1982 attraverso l’arrivo di Richard Vachoux (1932-2012), attore e regista teatrale ginevrino, fondatore del Théâtre de l’Orangerie, a cui hanno dedicato una placca commemorativa a lato dell’entrata. Aspettando Beckett, gironzolo perlustrando qua e là tra orti utili per la cucina
della buvette dove mangio un babaganoush più che ottimo. Nella fresca sera di mezza estate, vedo arrivare, in sandali intrecciati, Denis Lavant, l’attore feticcio di Leos Carax che per me sarà sempre Alex, mangiafuoco senzatetto con cui, Juliette Binoche, vagabonda a un certo punto cieca, sul Pont Neuf, innesca una storia d’amore folle e distruttivo.
«Fini» inizia dicendo così, Clov, interpretato da Denis Lavant che il tempo ha caratterizzato ancora di più la faccia, con fronte iper aggrottata e testa d’uovo perfetta per questo ruolo di personaggio stralunato dall’andatura rigida e vacillante che non può più sedersi. Maggiordomo-servitore del lamentoso Hamm che invece è in sedia a rotelle e cieco. Con in testa un fez di velluto verde e brillantini, è impersonato da Frédéric Leidgens: una rivelazione. Superbo, gioca la partitura delle sue battute con interiorizzazione sottilissima, scandendo
In campo, Svizzera e Filippine. Parte un lancio dalla difesa. Sulla fascia sinistra Ramona Bachmann addomestica il pallone con l’esterno del piede destro. Un morbido «stop a seguire» che accompagna la sfera davanti all’attaccante rossocrociata. L’azione si conclude con un cross. Non accade nulla di che, ma il gesto tecnico è sufficiente per rispondere a coloro che ritengono il calcio femminile «un altro sport». L’avesse compiuto Roberto Baggio, o un’altra divinità del calcio, si sarebbe detto che bastava per giustificare il costo del biglietto.
La Nazionale Svizzera ha concluso agli ottavi di finale il suo percorso mondiale agli antipodi, superata nettamente dalla più quotata Spagna. Era l’obiettivo dichiarato. Alla soddisfazione si mescola il rammarico per non essere riuscite ad argina-
re meglio l’impeto delle Furie Rosse. Del resto era capitata la stessa cosa in Qatar ai ragazzi di Murat Yakin contro il Portogallo. Sono tuttavia convinto che la rassegna che si sta concludendo in Australia e Nuova Zelanda abbia aperto una nuova via. Per la prima volta i media del globo le hanno dedicato uno spazio degno di una Coppa del Mondo. Per la prima volta l’interesse popolare si è diffuso ovunque. Anche in Svizzera, nonostante le rossocrociate abbiano disputato la prima e l’ultima sfida alle sette del mattino, ora di Berna. L’interesse nei confronti dell’universo calcistico femminile è stato alimentato anche dai cosiddetti elementi di contorno: interviste a bordo campo, studi sul posto, commenti in sede, servizi di costume, ritratti. Su tutti, il documentario The Pres-
sure Game, prodotto dalla SRG SSR in collaborazione con l’Associazione Svizzera di Football, in cui si racconta l’approccio delle nostre ragazze alla Coppa del mondo, sin dalla fase di qualificazione. Secondo una scelta stilistica collaudata, sul modello di Le Bleu dans les Yeux, che aveva narrato dal cuore dello spogliatoio l’impresa della Nazionale maschile francese alla Coppa del mondo del 1998, gli autori hanno scavato nell’animo delle nostre calciatrici portando le loro storie nelle nostre case. Sia quelle delle star, sia quelle di coloro che non sono riuscite a conquistare il posto nella Selezione.
Sotto i nostri occhi sono sfilate, fra le altre, la blogger e influencer planetaria Alisha Lehmann, la lucida e sorridente capitana Lia Wälti, la bomber Ramona Bachmann con le sue scelte
esistenziali che aiutano a scardinare le porte del pregiudizio.
Le cifre della lunga fase a gironi sono da capogiro. In 48 sfide, le tribune sono state popolate da 1 milione e 222mila spettatori. Una media di oltre 25mila a partita. Il 30% in più rispetto all’ultima edizione che si era tenuta in Francia. Cifre che sono lievitate durante la fase a eliminazione diretta e che sono destinate a impennarsi ulteriormente fino alla finalissima in programma domenica prossima. La prevendita dice che globalmente si sfiorerà la soglia dei due milioni di spettatori. Qualcuno potrà avere la percezione che a volte la società ricorra a delle forzature nel perseguire l’assoluta parità di genere. Opinioni in questo senso giungono sia dall’universo maschile, sia da quello femminile. Tut-
al massimo, a tratti, il testo estremo di Beckett. Tinteggiando il suo tormento, ogni tanto, con un movimento disperato di lingua come se non avesse più fiato o volesse essere più velenoso. Caustico, feroce, ferito, tenero, strappa risate perché «niente è più divertente dell’infelicità». Mentre Clov, sempre sul punto di partire ma non parte mai, ha tonalità circensi-clownesche nel suo andirivieni e saliscendi con la scala a pioli alle due finestre, per riportare a Hamm, notizie laconiche dal mondo e dal mare. Dimenticati dalla natura che non c’è più, secondo Clov, in compagnia dei genitori di Hamm dentro due bidoni della spazzatura, il duo assurdo di attori incanta gli spettatori. La signora in carrozzina davanti a me, a sprazzi, ride a crepapelle. Non andavo a teatro da anni e confesso che stasera, in due ore e un quarto, ho riso e ritrovato, per un attimo, le lacrime agli occhi.
tavia è fuori di dubbio che la Coppa del Mondo in corso abbia offerto un contributo fondamentale sulla via dell’uguaglianza di trattamento e di genere. Non a caso, media e opinione pubblica hanno stigmatizzato il comportamento di Gianni Infantino. Il Presidente della Fifa, che in Qatar, favorito dalle agevoli condizioni logistiche, aveva seguito tutte le partite della Coppa del Mondo maschile, dopo aver assistito alle prime sfide, se ne era ritornato in Europa. Il numero 1 del calcio si è in seguito imbarcato su un volo che lo ha riportato di nuovo nella mischia. Non saprei dire se questo andirivieni fosse programmato e dettato dalla sua fitta agenda. Ma il fatto che la sua assenza temporanea sia stata mal digerita, la dice lunga su come i tempi stiano cambiando.
L’orangerie-teatro del parc de la Grange a Ginevradi Giancarlo Dionisio
Si allenta la tensione
Il significato del viaggio in Svizzera di Emmanuel Macron e il punto sulle relazioni tra Berna e Parigi
La Cina spinge il mondo a isolare Taiwan con il ricatto economico. Però c’è chi non ci sta...
Le elezioni del 2023 saranno un duello tra due leader anziani, sfiduciati da moltissimi elettori
Quell’Occidente imperialista
Il caso nigerino rimette in questione il senso della presenza non solo francese in Africa
Sanità ◆ Gli addetti ai lavori lanciano l’allarme: a breve la Svizzera rischia di non più poter disporre di un numero sufficiente di professionisti, con ripercussioni dirette sulla qualità delle cure. Le cause del problema e come sta reagendo il Consiglio federale
Tra le maggiori preoccupazioni degli svizzeri c’è senza ombra di dubbio la fattura delle casse malati, che anno dopo anno non accenna a diminuire. Fra poche settimane, verso la fine di settembre, toccherà di nuovo al dimissionario Alain Berset comunicare al Paese una nuova impennata di questa parcella. Ci sono già state delle anticipazioni, per la direttrice di Santésuisse Verena Nold, per esempio, i premi delle casse malati subiranno nel 2024 un ulteriore aumento del 7,5%. Dall’anno prossimo al posto di Berset ci sarà un nuovo ministro della sanità ma tutto lascia intendere che la tendenza al rialzo sarà inevitabile anche in futuro. In ambito sanitario però non è detto che la questione dei costi economici sia il principale rompicapo da risolvere.
I posti a disposizione per chi vuole studiare medicina sono limitati, visto che nelle università elvetiche è stato introdotto il «numerus clausus»
Secondo Philippe Luchsinger, presidente dell’Associazione svizzera dei medici di famiglia e dell’infanzia, c’è un problema ancora più preoccupante da affrontare, ed è quello della carenza sempre più diffusa di medici. Mancano in particolare quelli che si occupano delle cure di base: i medici di famiglia e i pediatri. L’allarme non è nuovo visto che queste difficoltà sono conosciute da tempo. Già nel 2005 uno studio commissionato dagli stessi medici di famiglia metteva in guardia sulla criticità della situazione, anche a causa del fatto che la professione del dottore generalista risulta essere meno attrattiva rispetto ad altre carriere mediche più specialistiche. Nuovi ora sono però i toni utilizzati da Luchsinger che parla, sul sito di informazione sanitaria Medinside, di un sistema ormai al collasso, con all’orizzonte quelli che lui chiama, in tedesco, «massive Probleme». A suo dire, nel giro di due o tre anni la Svizzera rischia di non più poter disporre di un numero sufficiente di medici, con ripercussioni dirette sulla qualità delle cure, negli ospedali e negli ambulatori privati. E così, come già succede in diversi altri Paesi, anche da noi si dovrà aspettare parecchio tempo prima di poter incontrare il proprio medico di famiglia. Con ritardi a cascata nel definire una terapia e nel dare inizio alle cure. E persino con l’introduzione di un sistema di selezione, con il quale, sempre secondo Luchsinger, si darà la priorità a chi soffre di gravi pro-
blemi di salute mentre chi è confrontato con patologie più leggere dovrà mettersi in coda. Con il rischio però di non riuscire a diagnosticare una malattia nel suo stadio iniziale. Una situazione non certo ideale, né per il paziente interessato e nemmeno per la fattura sanitaria, visto che intervenire in ritardo significa anche dover metter a bilancio costi più elevati.
Al centro di questa spirale negativa c’è proprio la questione della mancanza di medici, che colpisce non solo la medicina di base ma anche alcune specializzazioni come la radiologia o la chirurgia generale. La causa principale di tutto ciò è da ricondurre a una lacuna nel sistema formativo, o meglio a una strozzatura. Nel nostro Paese i posti a disposizione per chi vuole studiare medicina sono limitati, visto che nelle università è stata introdotta ormai da tempo la barriera del «numerus clausus», con tanto di esame di ingresso. In altri termini si forma meno rispetto alle necessità del sistema sanitario, questo perché così ha voluto la politica, su forte sollecitazione delle casse
malati. A loro dire occorreva frenare l’aumento del numero di studi medici, visto che l’apertura di ogni singolo nuovo ambulatorio costa qualcosa come mezzo milione di franchi.
Finora il sistema ha retto soprattutto grazie ai camici bianchi in arrivo dall’estero, e in particolare dai Paesi dell’Ue. Più di un medico su tre è di origine straniera
Vi è poi una seconda ragione all’origine di questa strozzatura: i posti di formazione nei nostri ospedali sono limitati per semplici ragioni di spazio; aumentare il numero di studenti in medicina significa anche correre il rischio di intasare le corsie degli ospedali, dato che durante i loro sei anni di studi i candidati medici svolgono anche dei lunghi periodi di formazione a diretto contatto con i pazienti. Finora il sistema ha retto soprattutto grazie ai camici bianchi in arrivo dall’estero, e in particolare dai Paesi dell’Unione europea. Basti dire che
tra il 2012 e il 2021 solo il 26% dei nuovi medici attivi in Svizzera aveva studiato in un’università elvetica, mentre il 74% si era formato altrove. Giovani medici che sono andati ad affiancarsi ai loro colleghi più anziani, e così oggi complessivamente nel nostro Paese più di un medico su tre è di origine straniera. Un dato che porta anche ad aprire scomode riflessioni di carattere etico, visto che grazie a questa forte immigrazione medica la Svizzera raccoglie i frutti di quanto seminato da altri Paesi, che hanno investito nella formazione di questi medici e che a loro volta devono andare a cercare altrove il personale sanitario di cui hanno bisogno. Di fatto però il nostro Paese si trova in una situazione di dipendenza dall’estero. E anche di fragilità, basti dire che negli ultimi anni i medici di origine tedesca e austriaca tendono sempre di più a ritornare nei loro Paesi.
Davanti a tutti questi grattacapi, va detto che in questi ultimi anni qualcosa si è mosso. Nel 2011 il Consiglio federale, su sollecitazione del Parlamento, ha elaborato una strate-
gia per combattere la carenza di camici bianchi. Un piano d’azione che annualmente prevedeva di aumentare fino a 400 unità il numero di medici diplomati. Nel 2017 c’è stato un ulteriore cambio di marcia, che ha visto la Confederazione sostenere i Cantoni con 100 milioni supplementari allo scopo di accrescere i posti di studio a disposizione nelle nostre facoltà di medicina, compreso il nuovo master inaugurato nel 2020 all’USI di Lugano. L’obiettivo è quello di passare dai 900 diplomi del 2016 ai 1350 previsti nel 2025. Cifre che però non basteranno a far fronte alle necessità del sistema sanitario svizzero, in particolare per quanto riguarda i medici di famiglia e i pediatri. Da qui il grido di allarme lanciato dal loro presidente, il dottor Luchsinger, che, sia detto per inciso, ha 66 anni e continua a lavorare. E qui si apre un altro capitolo: i dati dicono che entro il 2025 il 60% dei medici di famiglia andrà in pensione. C’è dunque pure un problema legato al ricambio generazionale, anche a questo è dovuto il rischio collasso del nostro sistema sanitario.
Emmanuel Macron compirà una visita di Stato in Svizzera a metà novembre. La notizia è giunta il mese scorso ma è sparita presto dai radar: l’estate toglie vigore all’attività politica e orienta gli interessi e le preoccupazioni dei cittadini in altre direzioni. È la prima volta, dopo sei anni di permanenza all’Eliseo, che il presidente francese dedica due giornate intere al nostro Paese e ai rapporti che le due Nazioni vicine intrattengono. La visita avrà un sicuro rilievo, soprattutto nel contesto della politica estera elvetica dei prossimi mesi, anche al di là dei risultati che ne scaturiranno.
Guardando al passato, scopriamo che le visite di Stato in Svizzera dei presidenti francesi sono state soltanto quattro
Se diamo un rapido sguardo al passato, scopriamo che le visite di Stato in Svizzera dei presidenti francesi sono state soltanto quattro. La prima risale addirittura al 1910, con Armand Fallières, presidente della Terza Repubblica. Le altre tre sono avvenute nei tempi più recenti della Quinta Repubblica, ossia negli ultimi cinquant’anni: con François Mitterrand nel 1983, Jacques Chirac nel 1998 e François Hollande nel 2015. Sono state dunque poche e ciascuna visita è stata interpretata come la fine di un periodo denso di problemi e l’inizio di una nuova fase di cordialità e di buone relazioni. Esemplare in tal senso è stata la visita di Hollande nel 2015, accolto dalla presidente della Confederazione di allora Simonetta Sommaruga. Hollande sottolineò allora i passi avanti compiuti dalla Svizzera nella lotta contro l’evasione fiscale, in particolare con l’adozione dello scambio automatico di informazioni, e decretò la fine delle vertenze fiscali che per anni avevano avvelenato la relazione bilaterale. Il quotidiano francese «Le Monde» titolò: Hollande in Svizzera per seppellire l’ascia di guerra fiscale Assisteremo a qualcosa di analogo con la visita di Macron. I rapporti tra i due Paesi hanno vissuto un momento difficile nel 2021. Dapprima con la decisione del Consiglio federale di interrompere la trattativa con l’Unione europea sull’accordo istituzio-
nale. La Francia non era schierata in primo piano, però appoggiava la posizione della Commissione europea, che cercava di trovare un’intesa sui punti maggiormente contestati, come la soluzione dei conflitti bilaterali o la ripresa del diritto europeo da parte della Svizzera. Parigi non nascose la sua delusione per l’interruzione del negoziato.
In secondo luogo e soprattutto, con un’altra decisione del Consiglio federale, quella di scegliere come nuovo aereo da combattimento l’F-35 americano e non il francese Rafale o gli aerei del consorzio europeo Eurofighter. La decisione provocò una grossa delusione a Parigi perché il Governo francese, sulla base delle discussioni che aveva avuto con il Dipartimento federale della difesa, pensava che l’accordo con la Svizzera fosse ormai a portata di mano. Anche le altre principali capitali europee non nascosero il loro disappunto e criticarono Berna per non aver tenuto conto dell’importanza degli aspetti geostrategici. La stampa romanda non esitò a schierarsi contro la decisione del Consiglio federale di
acquistare gli F-35 americani e scrisse che la Svizzera stava infliggendo un nuovo affronto ai Paesi dell’Unione europea dopo aver cestinato il progetto di accordo istituzionale.
Negli ultimi due anni dietro le quinte si è svolto un paziente lavoro di ricomposizione, con numerosi incontri anche tra i principali dirigenti. Lo scorso mese di giugno il presidente della Confederazione Alain Berset è stato a Parigi al vertice per un nuovo patto finanziario internazionale e ha avuto la possibilità di intrattenersi con il presidente francese. Lo scorso mese di ottobre Ignazio Cassis, nella sua veste di presidente della Confederazione, ha incontrato Macron a margine della prima riunione della Comunità politica europea. Un organismo voluto da Macron che ha centrato i suoi lavori sui temi della sicurezza e dell’energia, e che comprende 44 Paesi, fra i quali molti Paesi extra Ue, dai Balcani al Caucaso, passando per la Svizzera. L’incontro tra i due presidenti si è poi ripetuto un mese dopo nella capitale francese al margine del Forum di Parigi. Numerosi altri incontri si
sono svolti anche tra i massimi rappresentanti delle due amministrazioni nazionali.
Il paziente lavoro diplomatico ha potuto appoggiarsi sulla realtà di fondo che caratterizza i rapporti tra i due Paesi vicini. La Francia e la Svizzera sono legati da una lingua comune, quella francese, da valori fondamentali condivisi come la libertà e la democrazia, da importanti scambi economici, politici e culturali, nonché da rapporti umani. La Svizzera condivide con la Francia quasi 600 chilometri di frontiera. Ogni giorno più di 200’000 cittadini francesi attraversano il confine per lavorare in Svizzera.
Gli svizzeri residenti in Francia sono oltre 200’000 e costituiscono la più grande comunità elvetica all’estero. I francesi che risiedono in Svizzera sono 185’000. La Francia è il sesto partner commerciale della Svizzera e occupa il sesto posto tra gli investitori esteri nel nostro Paese. Più di 1300 imprese svizzere sono insediate in Francia e danno lavoro a oltre 300’000 persone.
I due Paesi intrattengono intense relazioni anche nei campi dell’istruzio-
Le bandiere svizzera e francese a Berna, in occasione della visita di François Hollande nell’aprile 2015. (Keystone)
ne e della ricerca e sono attivi nei vari programmi e organizzazioni a livello europeo, come il CERN o l’Agenzia spaziale europea. Gli scambi culturali, infine, sono storicamente antichi e molteplici. Il Centre culturel suisse a Parigi promuove e diffonde la produzione culturale svizzera contemporanea. Numerosi sono gli artisti e gli intellettuali francesi che presentano e diffondono le loro opere nei teatri e nelle sale della Svizzera romanda.
Gli intensi sforzi diplomatici intrapresi a vari livelli e il riconoscimento reciproco dell’importanza reciproca delle relazioni bilaterali hanno dunque indotto i dirigenti politici a ritrovare una buona intesa e una certa cordialità. Il pragmatismo è prevalso e ora la visita di Macron può diventare il punto di partenza di una nuova fase bilaterale, più proficua per le due parti di quella vissuta negli ultimi anni. Sul piano interno sarà sicuramente anche un ultimo momento felice nella carriera politica di Alain Berset che, a fine anno, lascerà la presidenza della Confederazione e anche il Consiglio federale.
La consulenza della Banca Migros ◆ Una possibilità è l’investimento in obbligazioni che hanno un ridotto rischio di insolvenza o di perdita
Da anni verso denaro sul mio conto di risparmio, che non genera pressoché interessi. È possibile investire i risparmi in modo che fruttino, senza però correre grandi rischi?
Potrebbe investire il suo denaro in obbligazioni. Questi titoli, che insieme all’oro rientrano nella categoria degli investimenti finanziari conservativi, hanno un ridotto rischio di insolvenza o di perdita. Gli investitori e le investitrici concedono un prestito a un’azienda (o a uno Stato) che se ne serve per finanziare varie idee imprenditoriali. Le obbligazioni hanno una scadenza fissa con tasso di interesse costante; per-
tanto generano perlopiù annualmente un reddito da interessi fisso. Vi è rischio di perdita soltanto se il debitore diventa insolvente. Investendo in imprese con un’elevata affidabilità creditizia, tuttavia, è improbabile che ciò avvenga. Lo svantaggio delle obbligazioni è che non generano rendimenti elevati: investire in queste ultime serve perlopiù per diversificare rispetto alle azioni e ad altre classi di asset e ridurre così il rischio di perdita. Dal punto di vista storico, generalmente il valore delle obbligazioni sale quando scende quello delle azioni. Chi desidera conseguire un rendimento maggiore deve comunque assumersi più rischi,
una cosa non può escludere l’altra. A lungo termine le azioni offrono opportunità di rendimento nettamente superiori rispetto alle obbligazioni. Tra il 1926 e il 2022 le azioni svizzere hanno avuto un rendimento medio del 7,5%, come ha mostrato uno studio a lungo termine. Per costituire il patrimonio ci vogliono disciplina e pazienza: bisogna saper accettare che le azioni possano perdere considerevolmente valore a breve e medio termine. I rendimenti elevati a lungo termine vengono generati perlopiù durante pochi mesi borsistici estremamente forti. I rendimenti positivi e negativi estremi si compensano nel corso degli an-
ni, avvicinandosi così al rendimento medio a lungo termine. Un fattore decisivo per la performance positiva delle borse è l’effetto degli interessi composti, che si manifesta quando si reinvestono i proventi dei propri investimenti, vale a dire gli interessi e i dividendi. Più lungo è l’orizzonte temporale, maggiore sarà tale effetto. Ecco perché non è così importante individuare il momento «giusto» per iniziare a investire. Ha domande sugli investimenti? Prenoti un appuntamento di consulenza presso la Banca Migros: bancamigros.ch/consulenza-video
L’analisi ◆ La continua tensione in Asia orientale potrebbe mettere a rischio la stabilità mondiale. È con il ricatto economico che Pechino spinge la comunità internazionale a isolare Taipei ma c’è chi non ci sta. La posizione della Svizzera
Giulia Pompili
La minaccia posta dallo spionaggio straniero di Russia e Cina in Svizzera resta alta, soprattutto per quel che riguarda gli agenti sotto copertura contro individui coinvolti nelle decisioni del Paese in uno Stato che ospita organizzazioni internazionali (vedi Nazioni Unite). L’ultimo dossier sulla sicurezza in Svizzera, pubblicato a fine giugno dal Servizio delle attività informative della Confederazione (SIC), mette in guardia non solo sulla minaccia posta dalla Russia, ma anche sulle operazioni cinesi portate avanti nel territorio svizzero. A differenza di Mosca, Pechino sfrutta personale non diplomatico – come scienziati, giornalisti e uomini d’affari – per aumentare la sua influenza nel Paese anche su questioni politiche e d’immagine, promuovendo la visione del mondo della Cina anche tra la gente comune. Non a caso l’ambasciatore cinese a Berna, Wang Shihting, è molto attivo sulla scena pubblica svizzera e qualche tempo fa in un’intervista a RTS ha denunciato la «grossolana ingerenza» del Consiglio nazionale sulle faccende interne alla Cina, perché è così che Pechino considera la questione Taiwan.
A differenza di Mosca, Pechino sfrutta personale non diplomatico (scienziati, giornalisti e uomini d’affari) per aumentare la sua influenza in Svizzera
All’inizio di maggio il Consiglio nazionale ha approvato una risoluzione per chiedere di rafforzare i legami con lo Yuan legislativo, il Parlamento di Taiwan. La risoluzione è stata votata a seguito di una proposta della Commissione esteri presentata nell’ottobre del 2022, ed è arrivata un anno e mezzo dopo una risoluzione simile, che invitava a intensificare le relazioni con la Repubblica di Cina (comunemente nota come Taiwan). Un
gruppo di parlamentari elvetici (due PS, due Verdi e un UDC) nel febbraio 2023 aveva compiuto una missione a Taipei, durante la quale c’era stato un incontro con la presidente taiwanese, Tsai Ing-wen, e la richiesta di rafforzare i legami economici per lavorare con le democrazie asiatiche contro le interferenze cinesi. Tutto è in linea con i principi della Svizzera di cercare pace e stabilità, aveva fatto sapere Edith Graf-Litscher, portavoce dell’Ufficio di presidenza del Consiglio nazionale.
Le relazioni bilaterali tra Taiwan e il resto del mondo sono sempre di più un problema politico, e non solo in Europa. La Repubblica Popolare Cinese considera l’isola – de facto indipendente, governata da una giovane e vibrante democrazia – parte integrante del proprio territorio, e questo nonostante il Partito Comunista Cinese non l’abbia mai governata. Pechino lavora da anni all’isolamento diplomatico di Taiwan – ormai soltanto tredici Paesi al mondo la riconoscono come Stato sovrano (tra questi non c’è la Svizzera) – e non ha mai escluso l’uso della forza per compiere quella che considera «l’inevitabile riunificazione».
Qualunque Paese decida di rafforzare i rapporti con Taipei riceve critiche e condanne da Pechino, ed è successo anche alla Svizzera: dopo l’approvazione della citata risoluzione, l’ambasciata cinese a Berna ha pubblicato un comunicato di protesta formale, nel quale «esprime la sua forte insoddisfazione e respinge fermamente» le attività del Consiglio nazionale. È accaduto anche alla Lituania, due anni fa, quando ha aperto un ufficio di rappresentanza di Taiwan usando la parola «Taiwan» e non «Taipei», come vorrebbe Pechino per evitare di normalizzare le istanze di autonomia dell’isola. Subito dopo l’apertura dell’ufficio, la Lituania è stata colpita da un violento boicottaggio economico da parte della Cina, e l’Unione
europea è stata costretta a trascinare Pechino all’Organizzazione Mondiale del Commercio per pratiche commerciali scorrette.
La forza cinese è quella del business, e quindi è quella che viene definita l’arma di «coercizione economica». È soprattutto con il ricatto che la Cina è in grado di convincere la comunità internazionale, specialmente il Sud globale, a isolare Taiwan. L’ultimo Paese ad aver chiuso l’ambasciata di Taipei per aprirne una di Pechino è l’Honduras. Già da tempo la presidente dell’Honduras, Xiomara Castro, lamentava il fatto che dalle relazioni con Taiwan il Paese non aveva grandi benefici economici, mentre l’apertura al mercato cinese avrebbe portato più ricchezza anche per i cittadini. Secondo gli osservatori, l’Honduras è stato un grande successo diplomatico per la Cina, e soprattutto il segnale di un aumento esponenziale dell’influenza ci-
nese in America del sud. Nonostante l’isolamento diplomatico, Taiwan è una potenza dal punto di vista del commercio internazionale nel settore tecnologico, e ha uffici di rappresentanza in oltre cento capitali nel mondo. Ma per i Paesi in difficoltà economica e in via di sviluppo il gigantesco mercato cinese, le promesse di investimenti e prestiti agevolati, continuano a essere un’attrattiva molto forte.
I rapporti con Taipei sono stati al centro dell’ultima campagna elettorale in Paraguay, dove il candidato dell’opposizione Efraín Alegre aveva promesso di chiudere le relazioni con Taiwan e aprirle con la Cina per ragioni «non ideologiche, ma per interesse nazionale»: anche qui, si trattava solo di business. Secondo Alegre, le esportazioni di soia e di manzo dal Paraguay sarebbero aumentate e avrebbero risollevato l’economia interna se solo il Paese avesse cambiato il riconosci-
mento da Taipei a Pechino. A vincere alle elezioni di inizio marzo, però, è stato Santiago Peña, che è sicuro del contrario: ha detto di voler continuare a rafforzare le relazioni con Taiwan e qualche giorno dopo l’elezione ha ricevuto una telefonata dalla presidente Tsai.
Oltre che dal punto di vista militare, con l’intensificazione delle incursioni aeree e navali cinesi attorno all’isola, la questione taiwanese è anche e soprattutto diplomatica e politica. La comunità occidentale, dall’Europa all’America, sostiene lo status quo –cioè mantenere le relazioni tra Cina e Taiwan così come sono – ma per Pechino, sempre più forte e influente, la «riunificazione» è una priorità politica. Secondo il primo ministro giapponese Fumio Kishida, «l’Ucraina di oggi è l’Asia orientale di domani». In pratica, la politica attorno a Taiwan non è più soltanto una questione regionale.
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9.50 Preservativi feelgood classic Preservativi classici
9.95 Preservativi feelgood ultrathin, large e sensitive Preservativi ultra sottili, extra grandi e extra umidi Nuovo
Elezioni 2024 ◆ Gli Stati Uniti si avviano verso un duello tra due leader anziani, sfiduciati da una maggioranza di elettori, con enormi problemi di credibilità. Pechino e Mosca gongolano
Federico RampiniVisto da Mosca e da Pechino il 2024 è un anno ricco di opportunità. Xi Jinping e Vladimir Putin già pregustano lo spettacolo di un’elezione americana distruttiva, in tutti i sensi. Stando alla situazione attuale – e quindi fatte salve le infinite sorprese che possono intervenire – la prima superpotenza e principale economia mondiale si avvia verso un duello tra due ottuagenari, ambedue sfiduciati da una maggioranza di elettori, con enormi problemi di credibilità. Il dibattito elettorale sprofonderà verso nuovi abissi di faziosità, da ambo le parti. Uno dei due contendenti, Donald Trump (nella foto a destra), è inseguito dalla giustizia del suo Paese. Ma poiché i sondaggi dicono che la sua rielezione non può essere esclusa, tra i godimenti di Xi e Putin c’è la prospettiva di un indebolimento delle alleanze americane nel mondo, viste le posizioni isolazioniste e anti-Ucraina del candidato repubblicano. Si può aggiungere che perfino nel caso di una rielezione di Joe Biden (nell’immagine in basso), le modalità con cui sarebbe sconfitto Trump rendono probabile che la democrazia americana continui a soffrire.
Questo impone di esaminare la questione giudiziaria con onestà. Chi considera l’eventuale Trump 2 come una sciagura, non deve però cedere alla tentazione del fine che «giustifica i mezzi», accettando qualsiasi modo per sbarrargli la strada della Casa Bianca. Ora è doveroso riconoscere che la sinistra americana non è riuscita a intaccare seriamente i consensi di cui Trump gode in una parte consistente della Nazione. Descrivere quella parte di America come un ammasso di trogloditi, ignoranti, fascisti e razzisti, alimenta il senso di superiorità della sinistra americana ma non sposta di un millimetro la situazione. A meno di togliere il diritto di voto a chi non passa gli esami del politicamente corretto, la questione del consenso non può essere ignorata in una democrazia.
Non avendo spostato in modo rilevante gli equilibri politici del Paese reale, il Partito democratico per adesso sta cercando di eliminare Trump per via giudiziaria. Anche qui la narrazione può imboccare due strade. La strada prevalente, praticata da molti media apertamente militanti, è quella del godimento per l’accumularsi di nuove incriminazioni e l’addensarsi di un calendario di processi. Se ne ricava da un lato la prova che Trump è un delinquente da assicurare alla giustizia, dall’altro la fiducia che prima o poi un numero sufficiente di elettori volterà le spalle a un criminale. Sul primo punto: ancora dobbiamo arrivare a una condanna definitiva, e il calendario giudiziario lascia perplessi. Sul secondo: se «x» accuse non hanno alienato la base di Trump, non si vede perché dovrebbero riuscirci «x+1» o «x+2» o «x+3».
Sulla scorciatoia giudiziaria per fare fuori Trump, e sulle sue conseguenze reali, trovo una buona sintesi in un’analisi del giurista Jack Goldsmith sul «New York Times». Goldsmith è docente di diritto a Harvard. Ha anche lavorato ai vertici della giustizia americana durante la presidenza di George W. Bush. È un re-
pubblicano moderato e risolutamente anti-trumpiano. Tuttavia vede con lucidità il pericolo di una strategia che punta a eliminare Trump con mezzi giudiziari. Il suo pensiero si riassume in questa frase: «Le azioni giudiziarie contro di lui, per quanto possano essere giustificate, riflettono una scelta tragica che aggraverà i danni alla Nazione già inflitti dalle trasgressioni di Trump». Se al termine di queste istruttorie non si arriva a una condanna definitiva, sostiene, «sarà un disastro storico», soprattutto se i processi si concludono (senza condanna) dopo il voto. La base repubblicana avrà le prove che si è trattato di una montatura giudiziaria orchestrata per influenzare le elezioni. Ma anche se si arriva ad una condanna, prima o dopo le elezioni, secondo Goldsmith «i costi per la giustizia e per il sistema politico saranno elevati».
Per cominciare, ricorda il giurista di Harvard, c’è una realtà innegabile: queste incriminazioni arrivano per iniziativa di un Dipartimento di giustizia agli ordini di Biden, in una fase in cui Trump è ampiamente in testa alla corsa per la nomination repubblicana (almeno nei sondaggi, visto che le primarie cominceranno solo a gennaio) ed è alla pari con il presidente in carica nelle proiezioni su una sfida tra questi due duellanti. Questa situazione già di per sé si presta al
sospetto di una giustizia di parte. È aggravata dalla scelta dei tempi. La terribile aggressione al Campidoglio è del gennaio 2021, perché si è aspettato finora a incriminare Trump per il suo ruolo nel fomentare l’assalto? Due anni e mezzo sono anomali per la giustizia americana. Guarda caso, i tempi dell’incriminazione sembrano calcolati per finire a ridosso della campagna elettorale. Proprio come l’inchiesta originale sul cosiddetto Russiagate (poi finita in un flop totale) fu avviata dall’Amministrazione Obama contro Trump in modo da andare a sovrapporsi con la campagna elettorale del 2016.
A tutti questi sospetti si aggiunge il comportamento altamente contestabile dello stesso Dipartimento di giustizia nelle indagini che riguardano il figlio di Biden, Hunter. Abbondano i segnali che Hunter Biden abbia ricevuto un trattamento di favore nelle indagini sui suoi traffici finanziari, conflitti d’interessi e reati fiscali. I media repubblicani hanno buon gioco a descrivere le gesta di questo individuo che gira il mondo usando il nome del padre, prima vicepresidente e ora presidente, per procacciarsi affari di dubbia legalità; sempre difeso e protetto dal vecchio Joe.
Questo, osserva Goldsmith, «è il contesto dentro il quale una larga parte della Nazione giudicherà la legittimità dell’istruttoria avviata dal Dipartimento di giustizia contro Trump per frode elettorale». Il risultato secondo lui è che «il Dipartimento di giustizia emergerà da questa istruttoria irrimediabilmente macchiato come un’istituzione politicizzata agli occhi di un bel pezzo d’America». Le conseguenze si faranno sentire ben al di là della credibilità di questo dicastero, investiranno il sistema politico e lo Stato di diritto. «Ispireranno – scrive Goldsmith – rappresaglie sempre più aggressive sotto forma di successive indagini del Congresso sulle azioni dei presidenti e sul Governo del partito opposto (…) Verrà esasperata la criminalizzazione della politica». La conclusione di Goldsmith è amara, ancorché equilibrata. «Nulla di tutto ciò assolve Trump, che in ultima istanza è responsabile per questo immane disordine. La questione difficile è se riparare le sue azioni riprovevoli attraverso la giustizia penale valga il prezzo enorme che pagherà la Nazione».
Neppure i democratici riescono veramente a eccitarsi davanti ad ogni nuova offensiva dei magistrati contro l’ex presidente. Anche se le due ultime, a rigore, focalizzandosi sul suo ruolo nell’assalto al Campidoglio e sul suo tentativo di manipolare l’elezione del 2020 potrebbero essere le più serie; purtroppo sono state precedute e screditate da alcune montature giudiziarie farsesche. In campo repubblicano i rivali di Trump sono sempre più deboli, e una ragione sta proprio nelle vicende giudiziarie: sono costretti a solidarizzare con lui, quindi lo ingigantiscono e rimpiccioliscono se stessi. In campo democratico c’è una sorta di inconfessabile nausea che circonda la ricandidatura di Joe Biden. La maggioranza dei suoi elettori la subiscono, nella migliore delle ipotesi come un male minore, più spesso come un’assurdità contro cui non hanno alcun potere di ribellarsi.
Criminal Indictment: United States of America v. Donald J. Trump – Charges of Conspiracy and Election Interference, a cura della Corte distrettuale degli Stati Uniti per il Distretto di Columbia, agosto 2023. «Ogni volta che presentano un’incriminazione, saliamo nei sondaggi». È con questo tono di sfida che Donald Trump ha accolto gli ultimi sviluppi della sua vicenda legale, che a questo punto rischia di precludergli l’agognata rivincita alle elezioni del 2024 (o no?). L’ultimo di questa lunga fila di scandali è piovuto il primo agosto, quando Trump è stato accusato di diversi capi d’imputazione federali collegati ai suoi presunti sforzi di rovesciare i risultati delle elezioni del 2020.
Di cosa si tratta precisamente? Lo stesso primo agosto la Corte distrettuale degli Stati Uniti per il Distretto di Columbia ha pubblicato l’ebook in formato kindle dal titolo: Atto d’accusa criminale: gli Stati Uniti d’America contro Donald J. Trump – Imputazioni di cospirazione ed interferenza elettorale. Il titolo riassume perfettamente l’argomento del libro: tutto comincia quando Donald Trump si rifiuta di accettare la sconfitta elettorale del 2020, cosa che, secondo le accuse, lo porta a disseminare dichiarazioni false su presunte frodi elettorali allo scopo di diffondere sfiducia e rabbia presso la popolazione.
I capi d’imputazione riguardano quindi cospirazioni criminali. Innanzitutto, cospirazione per defraudare gli Stati Uniti, per danneggiare e ostacolare la legale funzione del Governo federale di raccolta, conteggio e certificazione dei risultati delle elezioni presidenziali. La seguente accusa di cospirazione riguarda la sedizione del 6 gennaio 2021, quando, incitata da Trump via Twitter, la folla diede l’assalto al Campidoglio, il luogo in cui si riunisce il Congresso (l’organismo bicamerale che formula le leggi degli Stati Uniti). Nel vasto edificio di Washington – lo ricordiamo – si stavano contando i voti delle elezioni, quando l’operazione fu interrotta dall’assalto dei ribelli filo-Trump. Questi avevano aggredito le forze dell’ordine (tra le quali si contò una vittima e diversi feriti), rotto porte e finestre, sparso feci sui muri e distrutto documenti di rappresentanti degli Stati Uniti che a loro non andavano a genio. Tutto questo accadeva mentre i rivoltosi cantavano di voler impiccare il vicepresidente Mike Pence, che presiedeva al conteggio. La conta riprese al termine della sedizione e certificò l’elezione presidenziale di Joe Biden. Quindi, per il secondo e il terzo capo d’imputazione contro Donald Trump, si parla di cospirazione per ostacolare e impedire la certificazione dei risultati delle elezioni presidenziali e cospirazione contro il diritto di voto.
Oggi Trump è il primo presidente o ex presidente ad essere incriminato per reati federali. Oltretutto questo gli è accaduto non una ma due volte. Poco prima del primo agosto, il 13 giugno, l’ex inquilino della Casa Bianca ha ricevuto ben 37 capi d’accusa (cui poi se ne sono aggiunti altri) riguardanti la sua gestione di documenti riservati dopo aver lasciato la Casa Bianca. E queste sono le accuse federali, poi c’è tutto il resto: molestie sessuali, casi di frodi e chi più ne ha più ne metta. L’ebook citato si occupa solo delle accuse federali di agosto, per tutto il resto ci vuole una biblioteca. Si stima infatti che nel corso della sua vita l’ex presidente americano abbia dovuto fronteggiare circa 4000 cause legali.
9.30
L’Africa post-coloniale è stata segnata da centinaia di colpi di Stato, falliti o riusciti. Il golpe è un metodo di passaggio del potere fra le élite locali che segnala il ruolo preponderante che le Forze armate e le milizie hanno nelle società africane. Tanto vero che in passato i colpi di Stato trovavano raramente interesse nell’opinione pubblica e nei media occidentali, compresi gli europei che pure dovrebbero esservi più sensibili. Il golpe del 26 luglio in Niger ha invece avuto un’eco straordinaria, non solo in Africa e in Europa ma in tutto il mondo. Perché?
Parigi è considerata ancora una potenza coloniale di fatto che estrae le risorse locali senza produrre nulla sul fronte della sicurezza interna
La ragione principale è che, per riprendere la sentenza di papa Francesco, stiamo vivendo una «guerra mondiale a pezzi». Molti di questi pezzi sono in Africa, dove si concentra la maggioranza dei conflitti in corso. Letto nel contesto strategico globale, il golpe nigerino tocca non solo gli squilibri saheliani ma investe le maggiori potenze. La Francia, anzitutto, che quale ex (?) padrone coloniale vi ha concentrato il grosso delle sue forze armate stanziate nel Continente Nero, a protezione dei propri interessi non solo minerari ed energetici (uranio). Le piazze di Niamey si sono riempite nei giorni successivi alla presa del potere della giunta di folle eccitate dal sentimento anti-francese, giacché Parigi è considerata ancora una potenza coloniale di fatto che estrae le risorse locali senza produrre nulla sul fronte della sicurezza interna (la cosiddetta «guerra al terrorismo»).
La Francia sta qui per «Occidente imperialista», almeno nella retorica dei militari al potere a Niamey e dei loro sostenitori regionali, a cominciare dalle giunte del Burkina Faso e del Mali, altri frammenti dell’ex Africa occidentale francese. Il suo opposto è la Russia, che sta ritessendo i fili della sua influenza d’età sovietica con contorno di retorica anti-imperialista e anti-occidentale. Insieme alla Cina, sempre più radicata in Africa, è lo spauracchio delle potenze europee ma soprattutto degli Stati Uniti – che in Niger hanno un paio di basi militari con oltre mille uomini. Il capo della giunta di Niamey, generale Abdourahmane Tchiani, è quindi percepito a Washington come a Parigi quale
agente del nemico. Il gruppo Wagner starebbe silenziosamente preparandosi a servire il nuovo regime, così espandendo la già vasta sfera di influenza africana di Mosca. Insomma, il Niger è percepito dagli strateghi occidentali come un altro fronte dello scontro con Russia e Cina, dopo quello caldo in Ucraina e quello freddo ma non troppo nell’Indo-Pacifico.
Il caso Niger rimette in questione il senso della presenza militare occidentale, in particolare francese, nel continente africano. La ragione pubblicamente addotta per spiegare lo schieramento di migliaia di soldati francesi nell’ex impero costruito con particolare acribia dalla Terza Repubblica e smantellato formalmente sotto de Gaulle è la lotta al terrorismo jihadista. Argomento piuttosto pretestuoso, se non altro a giudicare dai risultati. Si tratta semmai di perpetuare l’influenza francese in territori che l’Esagono continua a percepire propri e che hanno un rilievo economico e strategico, oltre che sentimentale, tuttora notevole nell’opinione pubblica e nelle élite. Il golpe di Niamey, dopo gli smacchi subiti in Mali, in Centrafrica e in Burkina Faso, segnala che il terreno su cui poggiano i francesi è sempre più fragile. E le popolazioni locali sempre più ostili.
Il contesto regionale è assai poco incoraggiante. L’unica potenza rilevante nell’area è la Nigeria, peraltro anglofona, che da sola non può certo riprendere il controllo del vicino Niger. Né l’Ecowas, la Comunità Economica dell’Africa Occidentale, ha la coesione e la forza sufficiente per riportare al potere il deposto presidente Bazoum. Per questo esita a rendere concreta la minaccia di un intervento militare in Niger e si orienta, apparentemente, verso una pista diplomatico-sanzionatoria per ora priva di sbocchi. Il rischio di una guerra resta quindi effettivo. Con l’eventuale coinvolgimento di altri Paesi della zona.
La Francia non ha alcuna intenzione di ritirarsi dal Niger. Per Macron sarebbe il suggello di un fallimento totale; lui è lo zimbello dei media e dei leader africani
La Francia non ha alcuna intenzione di ritirarsi dal Niger. Per Macron sarebbe il suggello di un fallimento totale. Il presidente francese è lo zimbello dei media e dei leader africani. Come a molti suoi predecesso-
ri gli viene rimproverato il tono arrogante, l’incapacità di garantire la sicurezza, la rapacità nello sfruttamento delle risorse africane. Se consideriamo anche la guerra in Sudan, l’instabilità permanente in Nordafrica e soprattutto nel Corno d’Africa,
possiamo derivarne la certezza che la crisi nigerina contribuirà ad alimentare i flussi migratori verso l’Europa via Mediterraneo. Nella città nigerina di Agadez si concentrano infatti le principali rotte migratorie. I tentativi di varie potenze europee, Fran-
cia e Italia in testa, di utilizzare un regime amico come quello appena deposto quale tampone per limitare quei tragici viaggi sono falliti. L’onda d’urto del golpe di Niamey arriverà presto, in varie forme, anche sulle nostre sponde.
Sensibilità femminile Solo le mamme sanno cosa significa partorire. Fatta eccezione per i maschi di cavalluccio marino. Le femmine depongono infatti le uova in un apposito marsupio dei maschi che provvedono a fecondarle, nutrirle e covarle. Dopo circa dodici giorni, sono loro che danno alla luce i piccoli, passando attraverso le doglie del parto. Per altre meraviglie: mari.wwf.ch
Il numero estivo del trimestrale della Seco sulle tendenze congiunturali contiene un articolo nel quale si cerca di fare il punto sulla situazione del mercato immobiliare in Svizzera.
L’autore di questa ricerca, Stefan Neuwirth, inizia la sua analisi dalla considerazione di come si sono sviluppati gli investimenti nel ramo delle costruzioni negli ultimi vent’anni. Noi pensiamo sia più istruttivo risalire sino al 1980 per rendersi conto di come si sviluppano gli investimenti reali nelle costruzioni. Dal 1980 al 2022 (ultimo anno per il quale si possiedono dati) l’attività di investimento in questo settore ha conosciuto quattro fasi: due fasi di crescita, una di stagnazione e una di riduzione degli investimenti reali. Ma andiamo per ordine. Dal 1980 al 1995 gli investimenti reali nella costruzione aumentano. In seguito, dal 1995 al 2010, l’attività di investimento del settore ristagna. La stessa ripren-
de poi a crescere dal 2010 al 2020 (in particolare nella prima metà del decennio) mentre nel corso degli ultimi tre anni ha segnato una diminuzione in termini reali. È importante precisare che, mentre in termini reali gli investimenti nelle costruzioni stanno diminuendo, in termini nominali, per effetto dell’inflazione, essi continuano ad aumentare.
Ma la crescita è dovuta solo al rincaro dei prezzi. L’autore della ricerca che stiamo presentando si concentra poi sugli investimenti per la costruzione di abitazioni. Secondo lui, con la revisione della legge federale sulla pianificazione del territorio che prevede un contenimento della costruzione di abitazioni, la casa unifamiliare ha perso di attrattiva come bene di investimento. Gli investitori (in particolare i fondi delle casse pensioni) si sono invece orientati verso la costruzione di edifici con più abitazioni generando così un
surplus di offerta. A partire dalla metà circa del decennio scorso la presenza di questo eccedente ha così agito da freno sull’evoluzione degli investimenti. Insomma, visto l’andamento degli investimenti a lungo termine le cose sembrano andare maluccio sul mercato immobiliare. Per anni UBS aveva anche avvertito venditori e compratori del possibile pericolo di bolla immobiliare. L’indice che dovrebbe misurare il pericolo che la bolla scoppi continua a restare alto. Ma le cose sono cambiate negli ultimi tre anni. Stando a Stefan Neuwirth sembrerebbe che la pandemia di Covid, con il formarsi di una quota permanente di lavoratori attivi a domicilio, abbia avviato una svolta, a livello di domanda, rafforzando di nuovo la richiesta di spazio abitativo e di proprietà immobiliare. Chi scrive aggiungerebbe ai fattori che hanno avviato la ripresa della domanda durante gli anni del Covid anche la caduta del-
Manca meno di un anno ai Giochi di Parigi 2024. L’Olimpiade è l’infanzia del mondo, è una favola globale. Ma non sarà un’Olimpiade facile. Un tempo si sospendevano le guerre per gareggiare. Oggi non accade più. E se si arrivasse a Parigi senza che russi e ucraini abbiano abbassato le armi, cosa accadrà? I russi potranno gareggiare liberamente? Sarà consentito agli atleti ucraini se non altro di non stringere loro la mano? Un segno di quel che potrebbe accadere a Parigi si è visto a Milano, ai Mondiali di scherma disputati a fine luglio. Un’atleta ucraina, Olga Kharlan, ha rifiutato di stringere la mano all’avversaria russa. Si era concordato che sarebbe bastato il tocco con le lame, tradizionale gesto di rispetto e di saluto. Ma la russa astutamente ha inscenato una piazzata per far squalificare la rivale. La squalifica è poi rientrata e tutto il palazzetto milanese ha tifato Ucraina, compresi gli atleti di varie nazionalità.
Ma l’accaduto è un monito per i Giochi di Parigi. Lo sport russo è stato in questi anni uno strumento di regime, anche con il doping di Stato. Al di là di qualche dichiarazione generica, non c’è stata una vera presa di distanza del movimento sportivo russo dalla guerra in Ucraina; né probabilmente potrebbe esserci. I singoli atleti non sono colpevoli; il regime sì. Tutti auspichiamo che da qui al 26 luglio 2024, data dell’inaugurazione dell’Olimpiadi (a cent’anni esatti dai Giochi del 1924, quelli del film Momenti di gloria), la guerra sia già finita. Ma se così non fosse? Anche i Giochi di Tokyo 2020, che in realtà sono stati disputati l’anno successivo, non sono stati facili. Ma era un’altra la guerra in corso: quella contro il Covid. La capitale giapponese è stata più un set che una sede. Ha interagito poco con i Giochi. I giapponesi non li volevano. Gli atleti dovevano restare all’interno del villaggio olimpico e quelli
che ne sono usciti per visitare Tokyo sono stati rimpatriati con disonore. Comunque, alla fine, i Giochi si sono fatti; e non era scontato. Ho seguito un’altra edizione memorabile delle Olimpiadi: quella di Pechino 2008. Inaugurata alle otto di sera dell’8 agosto: il numero otto, secondo i cinesi, porta fortuna. Ricordo bene la faraonica cerimonia di inaugurazione, un autentico rito di regime. Non si badò a spese: il problema non erano i soldi, era celebrare il partito comunista e soprattutto la grande avanzata economica del Paese.
Se l’obiettivo era aprire la Cina al mondo, da subito era fallito: al mondo la Cina non era mai stata così antipatica dai tempi di Confucio. Prima di arrivare a Pechino avevo viaggiato nelle principali città, incontrando pochi turisti. La capitale era sterilizzata. Chiusi i mercati, spostate le bancarelle, vietata la vendita di cibo per strada, simbolo del modo di vivere dei cinesi
Vedo in foto una lunga coda di spettatori in attesa di entrare al Fevi per una serata del Festival del cinema di Locarno. Normale, mi dico: il Pardo ha anche delle code, e belle lunghe. Subito la mente vola all’ossessiva ripetitività dei nostri media in fatto di code autostradali. In tempi remoti capitavano a Pasqua, Pentecoste e Ascensione. Ora invece le chilometriche colonne di veicoli al portale del San Gottardo ci sono quasi tutti i weekend di primavera ed estate, addirittura anche alla domenica mattina, fotocopiate due o tre giorni dopo al portale sud. Inevitabile qualche considerazione sul tema, a cui abbino anche un ricordo di gioventù. Inizio consultando un amico «codofobo», uno che rifiuta di mettersi al volante se avverte solo un vago timore di incappare in una coda autostradale: decenni di residenza nella Svizzera tedesca non bastano però
a farsi un’idea del perché migliaia di confederati e nord europei continuano imperterriti a flirtare con questo «insulto all’intelligenza». Certo le code ci sono sempre state, probabilmente c’erano anche ai tempi dei cambi delle carrozze a cavalli, per colpa del romantico «Drang nach Süden» (ovvero la brama di andare a sud), richiamo prima legato alla ricerca di condizioni climatiche migliori al sud, poi al desiderio di evadere dalla lagna quotidiana di certe lande confederate o della Germania. Ma oggi, con inversioni climatiche e lande assolate ormai globalizzate, cosa può spingere migliaia di persone a mettersi in viaggio come rondini o cicogne con la certezza di finire in un imbuto?
Qualche spiegazione potrebbe forse giungere organizzando interviste di auto in auto e chiedendo ai protagonisti, non tanto dove vanno in vacan-
di Angelo Rossile quotazioni di borsa che hanno favorito di nuovo l’investimento sui mercati immobiliari. Tuttavia, aggiunge il collaboratore della Seco, l’offerta ha per il momento difficoltà a rispondere. Da un lato perché nell’edilizia i lavoratori qualificati sono carenti e dall’altro perché i prezzi dei materiali per la costruzione sono aumentati in modo significativo (inflazione). Quali sono dunque le prospettive a medio termine dei mercati immobiliari? Neuwirth non dà una risposta precisa a questa domanda. Da un lato dimostra che a medio termine, in termini di investimenti nel mattone, l’orizzonte potrebbe schiarirsi anche se la domanda, in seguito all’aumento dei tassi ipotecari, potrebbe subire un colpo di freno. Il suo ottimismo si basa sul fatto che in quasi tutte le regioni del Paese la popolazione continua ad aumentare; in secondo luogo sulla costatazione che il numero delle abitazioni vuote è in di-
minuzione, quasi dappertutto, e sulla convinzione che i prezzi, sia della costruzione che del costruito, dovrebbero cessare di aumentare.
Negli ultimi anni l’evoluzione del mercato immobiliare ticinese si è scostata di molto dalla media nazionale. A un’offerta di abitazioni sempre in aumento non ha corrisposto un incremento proporzionale della domanda. Un numero elevato di nuove abitazioni è così rimasto inoccupato. Le abitazioni vuote sono così salite da 1847 unità, nel 2014, a 7017 unità nel 2021, per cominciare a scendere fino a 6262 unità nel 2022. Non si conoscono ancora le cifre per il 2023 ma è probabile che il numero delle abitazioni vuote sia di nuovo diminuito. L’ultima inchiesta congiunturale dell’USTAT, appena pubblicata, rivela, ed è un risultato che non sorprende, che le aspettative degli imprenditori del ramo delle costruzioni sono abbastanza pessimistiche.
da migliaia di anni. Se invece l’obiettivo era celebrare il regime, rivendicare l’alleanza con la borghesia artefice del boom economico e rinfocolare l’orgoglio nazionale, allora l’inaugurazione olimpica – e i Giochi che seguirono – fu un grande, colorato successo. La Cina lontana dalle Olimpiadi era vuota di stranieri, i rari occidentali inseguiti per le vie di Shanghai e Suzhou da venditori di orologi contraffatti, interi quartieri di Pechino deserti e presidiati dalla polizia pronta inutilmente a intervenire. La causa tibetana è stata sia pure per poco tempo argomento dibattuto, e il mondo si accorse persino degli uiguri, perseguitati anche loro ma meno trendy e per giunta musulmani. All’apparenza l’Olimpiade non ha giovato alla causa dei cinesi, già accusati di sottrarre quote di produzione all’Occidente. Eppure l’orgoglio nazionale crebbe a vista d’occhio. E alla fine il consenso per il regime ne uscì rafforzato; per quanto misurare il
consenso di un regime sia sempre difficile, se manca un’alternativa. Ho seguito anche i Giochi di Atene 2004, dove la Grecia fece il passo più lungo della gamba, e quelli di Rio 2016 (il Brasile affrontò l’Olimpiade in piena crisi economica). Il ricordo più bello è legato a Londra 2012: lo sport tornò a casa, in Inghilterra, dove è stato inventato. Il tennis a Wimbledon, il calcio a Wembley, il nuoto di resistenza nel Serpentine Lake di Hyde Park, l’equitazione nel parco della regina a Greenwich: un’edizione meravigliosa. Speriamo di vederne un bis a Parigi, ora che i Giochi tornano in Europa. Il punto è coinvolgere tutta la città, comprese le periferie, che di recente si sono ribellate. Occorre reclutare volontari in ogni quartiere, creare posti di lavoro, coinvolgere le associazioni, organizzare per tempo corsi di lingue, allargare la base di appassionati. Allora Parigi 2024, guerra permettendo, sarà un successo.
za, ma piuttosto perché non evitano gli imbottigliamenti. Arrivo a immaginare che in estate – sulla falsariga del suo Siamo fuori pomeridiano – la RSI realizzi un Siamo in coda in diretta dalla A2. Magari scopriremmo che per molti vacanzieri rimanere a lungo «in stand by» ha lo stesso valore di una pausa relax che interrompe la monotonia del viaggio sul nastro autostradale. Se così fosse, sarebbe il caso di creare un «care giver» autostradale, magari via whatsapp o sms, offrendo servizi di supporto e sostegno psicologico nei giorni «da bollino rosso». O magari sentiremmo qualche coppia confessare che il trovarsi incolonnati in definitiva è un’opportunità per tornare a dialogare e comunicare senza social… Lascio questi ghiribizzi mentali per evocare uno scherzo con protagonisti vacanzieri incolonnati alla fine anni
Sessanta. A quei tempi, a inizio estate, le vacanze di opifici e fabbriche della Svizzera interna e del sud della Germania causavano già allora intoppi lungo tutta la cantonale. L’autostrada nazionale era solo in progettazione e il forte flusso che oggi si incolonna solo al Gottardo (la galleria doveva ancora attendere quasi un ventennio) era diluito in una fila indiana di auto dal passo del Gottardo fino alla dogana di Ponte Chiasso. Quel fiume notturno di vacanzieri toccava anche Massagno dove, al curvone del Sole, iniziava la discesa verso Lugano stazione e poi proseguiva verso Paradiso, Melide, il Mendrisiotto e l’Italia. Ogni inizio estate si attendeva quel flusso seduti davanti a un bar (ovvio, del Sole) dispensando anche commenti e saluti ai forestieri. E lo scherzo? Una goliardata, degna di Tognazzi e Moschin nel film Ami-
ci miei. Sapete cos’è (o cos’era) una calotta? Un copricerchione a mo’ di marmitta che celava i bulloni delle ruote e il mozzo delle automobili. Immaginatene una, legata a un lungo filo di spago e lanciata sull’asfalto quando una vettura di quel flusso continuo affrontava la curva con un po’ di velocità: il rumore della latta quasi sempre induceva il conducente a frenare e a fermarsi. Ma appena l’autista scendeva dal veicolo per recuperare quella che riteneva fosse una delle sue calotte, qualcuno (solitamente l’inventore dello scherzo, il mitico Lubini) con un deciso strappo al filo tirava indietro la calotta scatenando una miscela fra risate di nullafacenti confuciani al bar e maledizioni di vacanzieri beffati arrabbiati. Per dire: sessant’anni fa le colonne d’auto ai giovani suggerivano goliardate, oggi invece li inducono a incollarsi sull’asfalto.
L’amore di Solari per la letteratura
Un presidente del Festival che non ti aspetti e ti stupisce quando cita a memoria e in spagnolo l’incipit del Don Chisciotte della Mancia
Pagine 36-37
Intervista a Barbet Schroeder
Pardo a sopresa per il regista de Il mistero
Von Bulow che ha presentato fuori concorso il documentario Ricardo et la peinture
Pagina 39
Festival di Bayreuth
Il racconto della festa wagneriana con la nuova produzione del Parsifal e il successo di Markus Poschner con il Tristan und Isolde
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Tendenze ◆ Da semplice bambola a icona ribelle: la Barbie in Birkenstock di Greta Gerwig ha tinto il mondo di rosa
Se da grandi poteri derivano grandi responsabilità, è altrettanto vero che per ogni fenomeno cult ci si ritrova con un’armata di critici pronti a scoccare commenti avvelenati. Ma davvero possiamo cercare un difetto in un film su una bambola che, per marchio di fabbrica, non ne ha? Un film, tra l’altro, che nei giorni scorsi ha superato il miliardo di dollari di incasso, impresa che – come riporta il «New York Times» – prima di Greta Gerwig era riuscita soltanto a 28 registi maschi.
Greta Gerwig, con la sua Barbie, ha compiuto un’impresa straordinaria: trasformare un potenziale, lunghissimo spot Mattel in un’avventura che ci guida oltre la coltre rosa shocking di Barbieland. Ci ha spinto a mettere in discussione il ruolo tradizionale di Barbie nelle generazioni passate – uno stereotipo inarrivabile odiato dalle femministe – trasformandola in un’icona che esplora la complessità delle donne moderne in chiave satirica. Facile, no? Già dalla primissima scena, con la gigantesca Margot Robbie che fa il suo ingresso come il monolite di 2001: Odissea nello spazio, la regista ci dice che prima di Barbie, nulla esisteva e proclama «She is everything, he is just a Ken.»
Basta avvicinare lo sguardo per capire come la frivola rappresentazione del plastic world sia la maschera che nasconde il viaggio di due moderni Adamo ed Eva, strappati da un paradiso di marzapane e gettati nel mon-
do reale, tutt’altro che idilliaco. Il patriarcato non è solo un fantoccio per far applaudire il pubblico femminile; Greta Gerwig lo mette in scena in quella che sarebbe una geniale trama distopica, se non fosse la semplice realtà. Ken, eterna spalla di Barbie, si ritrova improvvisamente con tutto da guadagnare, solo per essere maschio. Dall’altra parte, Barbie ha solo da perdere per il fatto di essere una donna. Un messaggio trito e ritrito, ma che a quanto pare bisogna continuare a ribadire con forza se non lo si è afferrato. E se il miliardo di dollari di incassi al botteghino non bastasse a riconoscerlo come film dell’anno, la luccicosa chioma biondo platino di Barbie sta dominando non solo il mondo del cinema, ma anche quello della musica e della moda.
Da stucchevole bambola con gli occhiali dalle lenti rosa, troviamo sul finale una donna vera in un impensabile abito giallo, omaggio – si specula – alle Suffragette del Kansas
Il rosa è diventato il colore più potente di tutti, capace di aumentare le vendite del 110 percento di un modesto (ma solo per il design, non sicuramente per il prezzo) paio di Birkenstock, e rispolverare la celebre canzone Barbie Girl degli Aqua rilanciandola in cima alle classifi-
che in una versione di Nicki Minaj e Ice Spice. Le decine di collaborazioni con Barbie dimostrano che questa rivoluzione tinta di rosa sta contagiando anche i cuori degli amanti del classico total black. Zara, che fa del marketing il suo mantra quotidiano, non ci ha pensato due volte prima di salire sulla Chevrolet Corvette del successo e lanciare una linea dedicata. Dalla borsa di paglia, perfetta per l’estate, al pigiama in satin con l’iniziale di Barbie ricamata, possiamo considerarla la collaborazione del momento.
Tra vecchi cult risorge anche la Polaroid 600, la Barbie Throwback Instant Film Camera in un tripudio di colori anni 80. Tutto pur di portare un pezzetto di quel mondo ad alto tasso glicemico nella più amara realtà. Ovunque si guardi, lampeggia lo slogan «Pink is the new black». Già la collaborazione di Valentino con Pantone per la collezione PP Pink, il pink carpet della sfilata di Jacquemus in Provenza e la nostalgia della moda Y2K avevano sancito il ritorno dello stile pop delle protagoniste dei film anni 2000. Se vi sono venute in mente almeno due eroine dai set coordinati e amanti della moda, sorpresa, sorpresa…Siete sulla strada giusta! Non è un segreto che Barbie sia ispirato all’eccentrica avvocata Elle Woods in Legally Blonde, che rivendicava un altro colore – il diritto di essere bionda – e alla scanzonata fashionista Cher in Clueless. Un mix di ico-
ne che hanno segnato l’adolescenza di ragazze che, diventate ora donne, si trovano in prima fila nei loro look Barbiecore, mentre osservano Margot Robbie alle prese con la difficile decisione tra una sua vita spensierata in tacchi alti e una più consapevole in Birkenstock. Ma cos’è il Barbiecore? Per chi non avesse avuto accesso a qualsiasi social media, il Barbiecore è il risultato dell’incontro tra la moda anni 2000, conosciuta come Y2K, e l’immaginario sognante di Barbie che ha sedotto la Generazione Z. L’estetica rosa, piena di glitter, accessori a tratti kitsch e acconciature alla Britney Spears impazza dalle strade al red carpet ed è diventata il modo per riappropriarsi della propria femminilità.
Con il quite luxury e il minimalismo che cercano di imporsi, il Barbiecore si alza fiero a sventolare l’insegna dell’eccesso e della finzione. È sfacciato, è camp (termine che designa uno «stile di espressione personale o creativa assurdamente esagerata che spesso fonde elementi di alta cultura con quella popolare») e abbraccia l’atmosfera spensierata di chi non si prende troppo sul serio. E sì, questo trend sconfigge a mani basse tutti gli altri, perché è nei momenti complicati che le persone vogliono staccare la spina vestendosi come uno Stabilo Boss. La stessa costumista Jacqueline Durran, premio Oscar per i Migliori costumi, all’inizio non aveva intuito il potere rivoluzionario del look di
Barbie. Ma, insieme ad una lista infinita di celebrità, sullo schermo c’è una storia fatta di costumi che mette a nudo quale sia il vero motivo per cui Barbie ci tiene inchiodati alla poltrona: il desiderio di Gerwig di mettere in scena quel magico momento in cui le ragazze imparano ad essere donne. Da stucchevole bambola con gli occhiali dalle lenti rosa, troviamo sul finale una donna vera in un impensabile abito giallo, omaggio – si specula – alle Suffragette del Kansas. Un simbolo della volontà di non essere più un freddo involucro di plastica, ma una persona libera nel suo paio di Birkenstock rosa. Perché Barbie può cercare di ignorare il suo senso estetico, ma solo fino a un certo punto.
E mentre girano i titoli di coda del film – nel catartico momento in cui ci rendiamo conto di aver ormai raggiunto l’apice del Barbiecore e che dopo una tale ascesa non può che esserci che una rapida caduta – ci chiediamo che fine faranno tutti quei vestiti e oggetti rosa shocking per i quali ci siamo precipitati ad aprire il portafoglio. Forse finiranno su Marketplace in saldo e il rosa potrà virare in una nuova sfumatura ma il messaggio di Barbie sarà un lascito per le future generazioni e per quelle donne che si sono vestite di rosa non in segno di una frivola debolezza ma di una ribellione pop. E per chi è andato in escandescenze per un film troppo patinato: ricordatevi che il rosa è solo un colore, non può farvi del male!
Intervista ◆ Non solo cinema, Marco Solari ama anche la letteratura e con disinvoltura cita a memoria i versi di Dante o di Cervantes. «Il l’abile manager del Film Festival di Locarno che è passato da un budget di 4 milioni a uno di 17,2 milioni di franchi. È un uomo di importanti
Natascha FiorettiUn Marco Solari sorridente ci accoglie al Palacinema di Locarno nei giorni caldi del Festival. C’è anche un bellissimo ficus lyrata con le sue foglie di violino baciato dal sole. Nelle culture orientali il ficus è simbolo di accoglienza, riconoscenza e rispetto. Questo, in particolare, esprime anche positività per il futuro. «La pianta emana vibrazioni – dice il presidente – e in tono scherzoso aggiunge: però le prende anche». E allora devono essere positive perché il ficus è in ottima forma, pare sorridere anche lui. Proprio come il presidente Solari nelle fotografie che dal 2000 ad oggi lo ritraggono con le tante personalità passate al Festival. Sorride agli artisti, lo vediamo accanto a Faye Dunaway nel 2013, a Jane Birkin nel 2016, ai politici – Doris Leuthard nel 2010 – o anche al cancelliere tedesco Gerhard Schroeder ospite della 59esima edizione. Il sorriso, quello aperto, che attraversa gli occhi, è un’attitudine alla vita che molto spesso viene insegnato anche dall’esperienza.
Sorride così spesso anche nella vita privata?
Parto dall’idea che chi sta attorno a me deve star bene. La vita è breve, bisogna coglierne ogni secondo, darle un senso e io lo trovo nel dare agli agli. Questo il senso della vita, nel piccolo come nel grande: dare agli altri, far piacere agli altri, accoglierli, metterli a proprio agio. Tutti possiamo dare quel minimo di calore, accennare un sorriso.
L’esperienza ha contribuito a farla sorridere?
Quando ancora ventenne studiavo a Berna espressi a mio padre il desiderio di andare all’Università a Ginevra per studiare scienze sociali. «Se te ne vai – mi disse – dovrai pagarti tu gli studi». Erano gli anni Sessanta, non era difficile trovare lavoro ma ebbi anche grande fortuna perché mi presero alla Kuoni. Così iniziai a viaggiare molto, ad accompagnare le persone, un po’ come avevo fatto a Berna guidando i gruppi per la città spiegando la cattedrale, le vergini folli, le vergini sagge…Andai in Asia, ne ero innamorato, erano tempi splendidi –non era tutto americanizzato come oggi – e il sorriso lo incontravi ovun-
que. Quell’esperienza mi ha insegnato il valore di far stare bene le persone, di andare incontro all’altro.
Quel sorriso ha poi avuto modo di coltivarlo lungo tutta una vita professionale a partire dalla sua direzione all’Ente del Turismo, carica acquisita nel 1972.
Entrando in quella funzione automaticamente metti su il sorriso, così è stato in occasione del Settecentesimo per il quale nel 1991 sono stato delegato del Consiglio Federale svizzero. In fondo in quel ruolo il mio compito era quello di dispensare ottimismo. Poi il sorriso mi ha sempre accompagnato internamente nei rapporti con i colleghi quando sono stato ai vertici di Migros, come amministratore delegato, e poi vicepresidente della Direzione ge-
nerale della Ringier. E poi al Festival dove è sempre stato determinante, perché il Festival è un’impresa e dunque all’interno vigono rigore e severità assoluta, ma con chi ti sta attorno e ti dà il massimo non puoi non sorridere.
Il sorriso è incontro. Pensando al Festival, al dietro le quinte, agli addetti al settore, quali sono gli incontri che l’hanno colpita?
Ho avuto sempre un rapporto molto spontaneo con chi andava a pulire la piazza alle quattro del mattino. Come piccolo segno di amicizia l’ultima sera abbiamo invitato tutti gli operai della Città di Locarno. Poi ho sempre apprezzato gli incontri spontanei, la gente che ti viene incontro in Piazza Grande e con poche parole ti scalda il cuore.
Dunque conta il sorriso ma anche l’attenzione per le persone?
Se devo assumere una persona anche ad alti livelli faccio sempre una cosa (e non ho mai fatto un’eccezione!): vado a mangiare con lui o con lei e osservo. Il modo di parlare, di mangiare certamente, ma soprattutto osservo come tratta il cameriere. E lì so tutto. Mi sono capitate due o tre occasioni in cui ho detto «questo è bravissimo, ha fatto tutti gli assesment però non può trattare un cameriere con quell’arroganza e con quella prepotenza». E non l’ho preso.
Torniamo agli incontri: quelli importanti che l’hanno arricchita, dai quali sono nate amicizie o ci sono state subito delle affinità, quali sono? È una domanda difficile. Se vado in-
Festival ◆ La bellezza e l’intensità dei film in bicromia che hanno caratterizzato
Nicola FalcinellaSe Barbie da settimane riempie le sale cinematografiche dominando i botteghini a suon di rosa, il 76° Festival di Locarno ha risposto con il bianco e nero dei suoi film più belli. Solo una coincidenza, ma forse una rivincita per la troppo spesso bistrattata bicromia del cinema delle origini. Se tante volte i potenziali spettatori reagiscono con «ah, ma è in bianco e nero», accompagnato da un timbro di delusione, è tempo di superare gli insensati pregiudizi, come pure quelli sulle durate ritenute eccessive. I due film che si elevano sul resto
della competizione sono in bianco e nero e durano intorno alle tre ore. Si tratta del filippino Essential Truths of the Lake di Lav Diaz e del romeno Do Not Expect Too Much From The End Of The World di Radu Jude. Due autori già premiati a Locarno - Diaz vinse il Pardo nel 2014 con From What Is Before – che si stagliano nel panorama internazionale odierno: se parlassimo di montagne potremmo inserire entrambi fra i 14 Ottomila della terra o quasi. Così (ora che ne scriviamo non conosciamo ancora gli esiti finali della manifestazione) auspichia-
mo che finiscano nel palmarès finale, ai piani nobili, soprattutto Jude che ha sfornato un film che rasenta il capolavoro. Diaz non usa il colore e non se ne sente la mancanza nel suo cinema: il suo nuovo lavoro, per la cronaca relativamente breve rispetto alle pellicole da sette o otto ore che l’hanno reso famoso, è un poliziesco anomalo che si intreccia, per ambientazione e personaggi, con il precedente A Tale of Filipino Violence presentato neanche un anno fa a Venezia. Un film straziante, ma forse non privo di spe-
ranza, sulle Filippine messe alla prova dalla natura (i terremoti e i vulcani) e prostrate da decenni di violenze sistematiche. Il tenente protagonista, dalla dirittura morale e animato da un profondo senso di giustizia sociale, indaga sulla scomparsa nel nulla di una modella e attrice, Esmeralda, solo una delle troppe donne sfruttate e abusate, lottando con tutte le sue forze fino allo sfinimento.
Radu Jude segue le odissee quotidiane di Angela, autista di Uber e addetta al casting di una casa di produzione che collabora con società
dietro nel tempo penso al barone von Thyssen che mi ha aperto un mondo. Grazie alle sue conoscenze ho incontrato i personaggi più inimmaginabili. Era un’amicizia? Non credo. Era simpatia, per me l’amicizia è qualcosa di più profondo, i legami rimasti dai tempi adolescenziali, due o tre sono le vere amicizie, il resto sono rapporti privilegiati. Ricordo con immenso piacere quello con Flavio Cotti, lui «pipidino», io liberale e bisogna dire che sovente trattava i liberali meglio dei pipidini stessi. Però non bisognava deluderlo. I nostri percorsi professionali si sono incrociati spesso – io ero direttore quando lui era presidente all’ETT, io delegato al Consiglio federale quando lui era Consigliere e poi mi propose di diventare ambasciatore a Roma ma io rifiutai perché ai tempi ero alla Migros. Tra noi c’e-
straniere, che corre senza orari nelle strade di Bucarest. Una vita così stressante che si addormenta ai semafori e l’unica evasione sembrano i video assurdi che posta sui social. Una delle tante trovate del regista è inserire nel film quasi una alter ego della donna, un’altra Angela protagonista di un film degli anni ‘80, questo a colori: queste immagini fanno insieme da flash-back, ricordo, specchio fino a un incontro rivelatore. Jude racconta lo sfruttamento capitalistico, gli incidenti sul lavoro, quelli che restano ai margini della società (ma
ra un rapporto stretto che da fuori, in parte anche nel mio partito, guardavano con una certa diffidenza. Per me il rapporto con Flavio Cotti era una questione personale, era così e andava accettato.
Volgiamo lo sguardo all’interno del team del Festival. Intanto è vero che si danno tutti del tu mentre Marco Solari è «il Pres» e le si da sempre del lei?
È una mia scelta. Se qualcuno arriva e mi da del tu immediatamente reagisco malissimo, non lo sopporto. Sarà una questione generazionale ma è soprattutto una questione di rispetto. Io non do mai a nessuno del tu, mai. Il tu paternalistico da me non esiste. Cioè: quando io sento che il tu ad un certo punto mi arriva spontaneo allora dico a quella persona «d’ora in poi ci si da del tu». Ma per quella non è sempre facile.
Guardando al suo team e in particolare ai sei direttori artistici che nei suoi 23 anni di Festival hanno contribuito a farlo crescere, è vero che non le piace contornarsi di yes man/woman?
Per me è importante che le persone abbiano qualcosa da dire. Ho avuto intorno a me sempre persone ribelli che mi dicevano la verità in faccia perché la peggior cosa che ti può succedere è avere intorno a te una corte. Non ho mai voluto persone che mi compiacessero perché a quel punto perdi di vista la verità, non cresci più e ti adagi.
Pensando ai tanti ruoli che ha avuto e continuando a porre l’accento sull’importanza della relazioni umane: sono cambiati i codici tra le persone?
Certo, il mondo è cambiato completamente. L’ho visto nel rapporto con gli sponsor. Nello sponsoring le relazioni si basano sul rispetto, sulla fiducia, sulle persone soprattutto. Ricordo ancora quando all’Università volevano insegnarmi che «Strategy comes before structure, structure before people». No Signori! Tutta la mia vita ho imparato che è sempre e solo una questione di persone, è la persona che fa la differenza. Poi per me nelle relazioni conta una certa forma, non sopporto la volgarità, l’insulto, la violenza verbale.
che il regista evidenzia al rallentatore), usando in pari grado il ragionamento e la commozione: impossibile non restare travolti dalla sequenza senza sonoro delle croci poste ai lati di una strada in ricordo dei morti vittime di incidenti. Nell’immagine in pagina una scena del film, la scritta sotto l’orologio dice: «è più tardi di quanto pensi».
Pure il terzo big in gara Nuit obscure – Au revoir ici, n’importe où di Sylvain George usa il bianco e nero e lambisce le tre ore. Un documentario nella città di Melilla, enclave spagnola in Marocco, in passato luogo cruciale (si vede la casa dove abitò Francisco Franco giovane ufficiale a inizio carriera) e oggi tappa di tanti giovani che si fermano di passaggio diretti in Europa ma vi restano bloccati come in un limbo. George osserva da posizioni privilegiate e incredibili, usando e alternando abilmente
Ma, nella sostanza, come è cambiato il rapporto con gli sponsor?
Una volta prendevi il telefono e dicevi «Caro collega, caro direttore, ho un bellissimo progetto…». Oggi con una nuova generazione di manager che vengono da fuori o hanno studiato all’estero e che non hanno una certa sensibilità politica, una certa conoscenza della storia del Ticino, di come funzionano i delicati equilibri di questa nostra Svizzera, è diventato difficilissimo. In passato ho sempre spiegato agli sponsor che investire nel Festival non era soltanto una questione di marketing ma innanzitutto una questione culturale, investire aveva un’importanza politica (in tedesco c’è una parola molto precisa per questo: Staatspolitisch) perché rafforzava la Svizzera italiana (che veniva da trecento anni di povertà, senza identità e con i confini provvisori) e dunque anche la Confederazione. Oggi i miei argomenti hanno meno fortuna soprattutto quando come la scorsa settimana una segretaria alla quale ho chiesto di passarmi il direttore mi ha chiesto il CV. Lì mi son proprio detto «Marco è il momento di andare». C’è una generazione che vuole un nuovo carnet di indirizzi e di relazioni e qui siamo al tema di Maja Hoffmann.
Cogliamo la palla al balzo: cosa vuole dirci?
Il Festival ha contribuito a dare sostanza al Ticino, a togliergli questo complesso di inferiorità di cui parlavamo. Lascio un Festival che ha raggiunto una dimensione e un’importanza internazionale e che ora ha bisogno di un cambio di paradigma e di una presidente che le sue relazioni se le gioca tra San Francisco, New York, Singapore…Il mondo corre, se restiamo fermi entro due o tre anni questo diventa un festival turistico, al massimo un festival di nicchia. E invece deve ambire a crescere ancora.
Durante la sua presidenza il Festival ha avuto sei direttori artistici. Può darci una definizione per ognuno?
Irene Bignardi è stata un ciclone femminile, ha portato un femminismo di alta classe, nella sua squadra c’erano soltanto donne. Io ero l’unico uomo al Festival. Frédéric Maire era la forza tranquilla, uomo carismatico con grande capacità oratoria. Poi c’è Oli-
vier Père, le gentil provocateur, le sue erano provocazioni intelligentissime, il professore di filosofia prestato alla Berlinale, Carlo Chatrian e infine la ribelle innovativa, Lili Hinstin, che è stata capace di sorprendere con idee nuove. Giona A. Nazzaro invece è il più grande cinefilo che io conosca.
La si associa al Festival ma lei ha sempre avuto un ruolo importante anche negli Eventi Letterari Monte Verità. Che cosa è per lei la letteratura?
Per me la parola è più importante dell’immagine, la letteratura è più importante del film. Il film mi entusiasma, non potrei fare il presidente se non fossi interessato al cinema, ma la letteratura che porta alla solitudine in fondo corrisponde ancora di più al mio carattere. Ho passato una vita a dover far contente le persone e la letteratura rappresenta per me quel luogo in cui ritirarmi con gioia enorme.
I libri li legge in lingua originale?
Sono figlio di tre culture, quella tedesca imparata a scuola, quella italiana da autodidatta e quella francese all’università, e ho l’abitudine a leggere in parallelo. Al momento intorno al letto ci sono una dozzina di libri…
Quindi?
Sono davanti alla biblioteca da disperato! (Ride). Tornando alla domanda iniziale, per i libri è come per i film, devo vederli in lingua originale. La traduzione – se fatta da un uomo di altissima cultura può essere arricchente, pensiamo a Proust tradotto da Raboni, a Montaigne tradotto dalla Garavini o a Shakespeare tradotto da Schlegel. Ma non può sostituire l’originale.
A questo punto esce il Marco Solari che non ti aspetti che con passione cita l’incipit del Don Chisciotte della Mancia «En un lugar de la Mancha…»
Qui c’è dentro tutta l’hispanidad! E questa non si può tradurre.
Una lettura che di recente l’ha affascinata?
In nome della parresia devo dirle che sono le opere di Céline, uomo abominevole ma, linguisticamente parlando, sublime.
regista de La marcia dei pinguini ha ritirato il Locarno Kids Award, espressione di una sezione in crescita, con le immagini della maestosità e della fragilità dell’Antartide, con una fotografia che lo mostra come fosse la prima volta (solo per un momento appaiono le sfumature azzurre del ghiaccio). È un film di viaggio personale, coinvolgente e mai retorico, che parla di scoperta e meraviglia e anche dell’ossessione di Jacquet per il Polo Sud nel quale ha viaggiato per oltre trent’anni.
la vicinanza e la distanza. Se i migranti verso l’Europa sono stati raccontati in tanti modi, raramente li si è visti così.
Dell’ondata in bianco e nero fa parte anche il documentario Voyage au Pole sud – Antarctica Calling di Luc Jacquet, presentato in Piazza Grande. Il
Il Festival di Locarno è però sinonimo di novità e scoperta, così del concorso, segnaliamo il portoghese Baan di Leonor Teles, con la sua ricerca di identità, e l’ucraino Stepne di Maryna Vroda in un mondo di anziani che non hanno ancora chiuso i conti con l’Urss. La necessaria quota di cinema indipendente americano è coperta dalla buona commedia nera Lousy Carter di Bob Byington.
Come sta accadendo per l’industria cinematografica in generale anche a Locarno c’è un’apertura sempre maggiore verso pellicole inclusive, aperte alla diversità che non temono di raccontare e rappresentare la complessità umana e di genere. Che si tratti di film sui tormenti dell’adolescenza, di storie di donne libere e personaggi queer ribelli o ancora di comunità nomadi dove diventare adulti in totale autonomia, le voci dissidenti hanno marcato a fuoco l’ultima edizione del Locarno Film Festival. Numerosi infatti sono stati i film selezionati che hanno saputo raccontare storie di eroi e anti eroi assetati di esperienze comunitarie che si scostano dal modello eteropatriarcale.
Tra queste ritroviamo Patagonia, il film potente e toccante del giovane regista italiano Simone Bozzelli (nella foto) presentato al Concorso internazionale. Giovane speranza del cinema italiano contemporaneo, Simone Bozzelli è stato scoperto dal pubblico e dalla critica grazie ai cortometraggi Amateur e J’ador, presentati alla Settimana della critica di Venezia e Giochi, selezionato nel concorso Pardi di domani del Locarno Film Festival, senza dimenticare il videoclip dei Måneskin I Wanna Be Your Slave Patagonia mette in scena Yuri e Agostino, una coppia improbabile di amici-nemici, amanti e rivali che si nutre di piccoli momenti di tenerezza vissuti all’interno di una comunità di outsiders che ha scelto di vivere al ritmo della musica techno. Il primo lungometraggio di Bozzelli si insinua sotto pelle, tocca nel profondo con la forza devastante di un uragano. I personaggi che mette in scena rifiutano ogni via di fuga normativa, non si scusano per il fatto di essere violentemente diversi, al contrario si nutrono delle piccole rivoluzioni del quotidiano esibendo con fierezza le cicatrici che hanno sul corpo e le esperienze di vita che marcano per sempre.
Anche Of Living Without Illusion, della giovane regista svizzera Katharina Lüdin, è incentrato su una relazione tossica che di dipendenza che si autoalimenta. Il suo primo lungometraggio possiede una strana e disperata forza distruttiva che si insinua in una relazione d’amore ormai diventata campo di battaglia. Sebbene Merit e Eva, le due protagoniste di Of Living Without Illusion, si consumino mutualmente, Lüdin non le giudica, ne osserva da vicino le reazioni evidenziandone i punti d’ombra ma anche riconoscendo il coraggio delle
loro scelte. In bilico tra violenza e ricerca ossessiva di tenerezza, Merit e Eva si distruggono per poi ritrovarsi, cercano di tracciare la loro strada basandosi su regole che, benché insensate, appartengono a entrambe.
Ad affrontare senza tabù una relazione che si prende gioco delle norme sociali ci ha pensato anche Claudia Rorarius con il suo Touched. Storia crudele ma magnetica come il canto di una sirena, Touched narra il rapporto d’amore tormentato tra l’infermiera sovrappeso Maria e il suo paziente disabile Alex. In modo pressoché coreografico, Rorarius mette in scena un desiderio che si ribella alle norme sociali basandosi esclusivamente sulle sensazioni brucianti che legano due esseri che si riconoscono nella diversità. Decisamente non convenzionale è anche la relazione tra l’omicida seriale Mads Lake e la sua psicoterapeuta Anna Rudebeck, protagonisti dello struggente e lynchiano What Remains dell’artista cinese Ran Huang. Con inquietante poesia Huang riesce a trovare la luce anche nei luoghi più bui della mente umana. Improntati sugli scombussolamenti dell’adolescenza sono invece Excursion di Una Gunjak – regista originaria della Bosnia Erzegovina – e La morsure del giovane regista francese Romain de Saint-Blanquat. Sostenuto da un cast di attori alle loro prime armi, Excursion mette in scena un’adolescente che, innamorata di un ragazzo più grande racconta ai suoi compagni di classe di aver fatto sesso con lui. Invischiata sempre più in bugie che pesano come macigni, Iman inventa di essere rimasta incinta diventando così la protagonista di una vera e propria caccia alle streghe. Excursion è la storia di una ragazza libera che sfida con coraggio le regole assurde della società nella quale vive. Con La morsure torniamo invece indietro nel tempo, negli sfavillanti anni Sessanta, tra le mura di un collegio gestito da suore fanatiche nel quale due (anti)eroine moderne danno il via alla loro personale rivoluzione. Decise a vivere intensamente la loro gioventù, Françoise e Delphine non intendono piegarsi alle restrizioni imposte alle ragazze della loro epoca, al contrario, spinte da una sete d’esperienza che non le abbandona mai, si addentrano nel buio della notte come se il domani non esistesse.
Liberi e coraggiosi, questi film partecipano alla costruzione di narrazioni alternative che sfidano la pericolosa tendenza attuale alla normalizzazione.
«Il pres», come lo chiamano i suoi collaboratori, non è soltanto importanti letture che con il sorriso dà valore alle relazioni umaneKeystone YouTube
Mickey Rourke, Faye Dunaway, Glenn Close, Sandra Bullock, Ryan Gosling, Jeremy Irons, Nicolas Cage, Samuel L. Jackson, Meryl Streep ma anche Charles Bukowski e i Pink Floyd. Sono solo alcuni dei nomi con i quali Barbet Schroeder ha lavorato nel corso della sua lunga e luminosa carriera. Nato il 26 agosto del 1941 a Teheran, figlio di una dottoressa tedesca e di un geologo svizzero, da ragazzo fino al divorzio dei suoi genitori ha vissuto anche in Colombia. Poi all’età di 12 anni, seguì la madre a Parigi. Incontrandolo sai di essere davanti a uno di quei registi che hanno fatto la storia del cinema e che hanno creato immaginari che ancora oggi restano impressi nella memoria di chi è cresciuto negli anni 80 e 90. Il mistero Von Bulow, ma soprattutto Il bacio della morte e Inserzione pericolosa o anche il più recente Formula per un delitto sono film, anche di genere, di sicuro valore che gli hanno pure valso una nomination all’Oscar. È un uomo di cinema a 360 gradi Barbet Schroeder perché, oltre a essere regista, è anche produttore e attore. Infatti, nel 1963 ha fondato (insieme a Éric Rohmer e Pierre Cottrell) la sua casa di produzione Les Films du Losange, che ha contribuito all’esplosione della Nouvelle Vague. E come attore ha fatto alcuni camei nei film dei suoi colleghi di quel movimento e di amici come Tim Burton.
«Quando incontrai Ricardo per la prima volta nel 1982, nel suo appartamento al settimo piano senza ascensore di Neuilly, ne fui molto impressionato e da quel momento diventammo amici»
In questa edizione del Locarno Film Festival, Barbet Schroeder è arrivato per presentare, fuori concorso, il suo ultimo progetto intitolato Ricardo et la peinture. Un documentario sull’opera e la conoscenza enciclopedica della storia dell’arte di Ricardo Cavallo, un artista di origine argentina che dal 1976 vive in Francia. Alla prima mondiale di Ricardo et la peniture, sul palco de La Sala, il direttore della rassegna
Giona A. Nazzaro, gli ha consegnato un Pardo a sorpresa, per la sua carriera e per quello che rappresenta (la foto ritrae il momento). Un riconoscimento meritato che rende omaggio a un personaggio di primo piano a livello mondiale. L’indomani abbiamo avuto il piacere di intervistarlo. Maglietta e pantaloni neri, sorriso simpatico, arriva accompagnato dal suo produttore Lionel Baier (anche lui regista, tra i più apprezzati della sua generazione). Da Buenos Aires alla Bretagna, passando per Parigi, il documentario ci immerge nella storia dell’arte e ci fa scoprire la vita semplice e umile di un uomo davvero fuori dagli schemi e con un’unica e grande passione: la pittura. Un’arte che, tra le altre cose, trasmette gratuitamente agli allievi della scuola del suo paese. Ricardo et la peinture è la storia di una passione viscerale e simbiotica tra un pittore e la sua arte. Il film parla di Ricardo Cavallo, ma probabilmente anche di Barbet Schroeder e del suo amore per il cinema, che a 82 anni continua ancora a fare.
Signor Schroeder, come ha conosciuto Ricardo e che cosa l’ha attirato in lui?
Dopo il divorzio dei miei genitori, quando andai a vivere a Parigi con mia madre, conobbi Karl Flinker, un gallerista d’arte che divenne un po’ il mio padre spirituale. Qualche anno più tardi, conoscendo la mia passione per l’arte, mi disse di aver incontrato uno dei pittori più geniali mai esistiti e me lo presentò. Quando incontrai Ricardo per la prima volta nel 1982, nel suo appartamento al settimo piano senza ascensore di Neuilly, ne fui davvero molto impressionato e da quel momento diventammo amici. Regolarmente lo incontravo e quando mi recavo a Parigi andavamo a visitare musei. Ogni volta che passavamo del tempo insieme mi dicevo che mi sarebbe piaciuto fare un film su di lui, ma non c’è stato mai il tempo perché il lavoro a Hollywood era davvero impegnativo. Finalmente, un paio di anni fa gliene ho parlato e abbiamo iniziato a progettarlo e poi a realizzarlo.
Di quanto tempo ha avuto bisogno per realizzare questo film? È stato un lavoro molto libero, in amicizia e con una piccola troupe che lo ha seguito. Siamo stati sul set per tre settimane riprendendolo a casa sua, nel nord della Francia. Ma abbiamo girato anche a Parigi e in altri luoghi a lui cari. Non eravamo per nulla stressati dai tempi, lo abbiamo fatto con piacere e con la gioia di stare insieme.
L’idea di fare un parallelismo con la storia dell’arte le è venuta in modo naturale?
Sin dall’inizio avevo in mente il titolo: Ricardo et la peinture e quindi parlare della storia dell’arte era del tutto naturale. Del resto, lo conosco molto bene e so la sua immensa conoscenza della storia dell’arte e dei pittori. Un aspetto che emerge molto bene dal filmato, dove spiega in modo chiaro e semplice alcuni quadri significativi di diversi artisti.
Come giudica il suo modo di dipingere?
Lui ha sempre basato il suo stile sull’immaginazione creativa, e con gli anni ha ampliato la sua pittura anche nello spazio realizzando dipinti sempre più grandi. Per questo e per una ragione pratica ha iniziato a realizzare quadri divisi in molti pic-
coli pezzi. Tutto ciò si è sviluppato in modo enorme durante gli ultimi anni. A casa mia, a Losanna, ho il suo più grande dipinto che raffigura la città di Parigi. Sono lavori complessi, che chiedono anche qualche anno di tempo per realizzarli, ma sono davvero incredibili. Ha dedicato la sua vita completamente al lavoro, non ha fatto altro che lavorare con costanza e con passione ai suoi dipinti, alle sue opere.
Perché la scelta di mostrare, in alcuni momenti, la troupe mentre sta girando?
È uno dei vantaggi che si hanno quando si girano i documentari. A mio giudizio mostrare il dietro le quinte, il lavoro della troupe, fa emergere meglio l’atmosfera nella quale abbiamo lavorato, oltre a sottolineare anche la personalità del protagonista. A volte ci sono anche io nel film, non mi piace molto esse-
re inquadrato, ma alla fine abbiamo tenuto quelle scene, realizzate grazie all’uso di più macchine da presa, perché generavano una sorta d’intimità e una bella atmosfera che si è creata tra noi e Ricardo e che spero arrivi anche agli spettatori.
Non possiamo terminare l’intervista senza chiederle di Hollywood. Che esperienza è stata?
Da sempre sono stato un estimatore dei film americani e sin dal primo film More, del 1969 con musiche dei Pink Floyd, ho cercato di trovare la strada per attraversare l’oceano e appena ne ho avuto la possibilità sono andato a Hollywood. Là ho cominciato con alcuni documentari e poi sono passato alla fiction. In particolare, ricordo con piacere Barfly su Charles Bukowski con Mickey Rourke, dal quale poi partimmo per girare The Charles Bukowski Tapes, una serie dedicata al famoso scrittore. Mi ricordo che quella vissuta a Hollywood fu un’epoca di grande lavoro perché, oltre a essere regista ero anche produttore. Altro aspetto al quale ho sempre tenuto è stato quello di avere l’ultima parola sui miei film, il famoso final cut, che non è semplice da ottenere negli USA. Per questo tutti i film che ho girato in America sono lavori ai quali tengo particolarmente e non sono stati deturpati dagli Studios.
«Bambini, fate cose nuove!» è un’esortazione di Richard Wagner in una lettera a Franz Liszt del 1852. E proprio questa frase è stata scelta per dare un titolo al Festspiel Open Air, il concerto all’aperto con cui si è pre-inaugurato il festival di Bayreuth la sera del 24 luglio. Nel parco del Festspielhaus è stato allestito un palco per l’orchestra e il direttore Markus Poschner, che insieme ai solisti Daniela Köhler, Magnus Vigilius e Olafur Sigurdarson, presenti in differenti produzioni del festival, hanno proposto una serie di brani musicali di autori diversi, da Wagner a Verdi, da Kurt Weill agli Aerosmith, davanti al pubblico accorso numeroso con sedie, tovaglie da picnic, coperte.
Fare cose nuove sembra essere l’imperativo e l’obiettivo del teatro di regia che la direttrice artistica Katharina Wagner persegue con il suo mandato
Una festa per dare il via alla manifestazione che ogni anno porta wagneriani appassionati nella piccola città della Baviera settentrionale, un concerto offerto gratuitamente e apprezzato dai più. Fare cose nuove sembra essere l’imperativo e l’obiettivo del teatro di regia che la direttrice artistica Katharina Wagner persegue con il suo mandato – senza dimenticare che il teatro sulla collina verde nasce con il crisma della sperimentazione impresso dallo stesso Wagner.
La nuova produzione di quest’anno, Parsifal, diretta dal regista americano Jay Scheib, ribadisce questa tendenza alla «novità» presentandosi innanzitutto come spettacolo da fruire attraverso gli occhiali A/R (Augmented Reality), che permettono di vedere cose non presenti in scena e di allargare la propria visuale ai lati, sopra e sotto, ma che possono essere d’intralcio alla visione dello spettacolo dal vivo. Se si considera poi che, per una questione di costi, solo 330 spettatori su quasi 2000 possono vedere lo spettacolo attraverso gli occhiali A/R, c’è da chiedersi quale sia il senso dell’operazione. Ma per chiarire meglio la funzione degli occhiali, è bene riconnettersi all’idea registica di Jay Scheib, non facile da ricostruire se non si è letto il programma di sala. Nella vicenda narrata da Wagner, il Graal è oggetto di culto, in particolare per la comunità che lo custodisce e ne rinnova i salutiferi effetti attraverso la ripetizione del rito dell’ultima cena di Gesù. Il re di questa comunità, Amfortas, è caduto in peccato carnale con Kundry nel giardino del mago Klingsor, il quale gli ha rubato la lancia che ferì Cristo sulla croce, provocandogli una ferita insanabile. La comunità aspetta dunque l’arrivo di colui che recupererà la sacra lancia per riportare ordine e armonia, Parsifal.
Nella visione di Scheib si tratta di una comunità di minatori che lavorano per estrarre un minerale prezioso, il cobalto, con cui si producono batterie per cellulari, macchine elettriche e molto altro, generando una montagna di rifiuti. Il tema dell’inquinamento ambientale è centrale nello spettacolo: siamo bombardati, noi che portiamo gli occhiali A/R, da una quantità di spazzatura, bottiglie e sacchetti di plastica, batterie usate, elettrodomestici che piovono sulle nostre lenti, venendoci incontro minacciosamen-
te, e siccome gli occhiali ampliano la visuale, possiamo vedere sotto di noi una pianura arida senza elementi vitali, se non una povera volpe che volge lo sguardo su tanta desolazione. Una natura snaturata dal nostro consumismo tecnologico. Dal momento che il cobalto è il Graal, ne consegue che il Graal non è cosa buona, perciò Parsifal libera la comunità da questa schiavitù gettando per terra e distruggendo il blocco di cobalto che ha fra le mani.
Il progetto del regista si realizza attraverso le scene di Mimi Lien con un primo atto tutto blu, un elemento verticale che ricorda la stele di 2001 odissea nello spazio, e un elemento che scende dall’alto in forma di aureola evocando altro cinema di fantascienza. Il coloratissimo giardino di Klingsor è una visione kitsch degli anni Settanta con fanciulle hippie, e manciate di fiori che cascano davanti alle nostre lenti impedendoci di assistere al duetto fra Parsifal e Kundry. Naturalmente gli occhiali si possono togliere, se si vuole assistere allo spettacolo dal vivo senza l’ausilio della «realtà aumentata», e quello che ho visto fare – e ho fatto io stessa – è stato mettersi e togliersi gli occhiali a seconda delle scene e dei propri desideri. Nel terzo atto compare una macchina che è una via di mezzo tra una scavatrice e un carrarmato. I colori sono sempre molto forti, l’estetica è di stampo americano, pop. Lo spettacolo è stato fischiato alla «prima», ma non sono mancati gli applausi per gli interpreti: per Andreas Schager, saltato nella produzione all’ultimo momento in sostituzione di Joseph Calleya infortunato. Un Parsifal ragazzo in pantaloni corti rossi, che offre un’interpretazione convincente e carica di passione. Lo stesso si può dire di Elina Garança, Kundry dalla voce potente e vellutata, vera interprete e forte presenza scenica (purtroppo insaccata nei brutti costumi di Meentjie Nielsen), così come il grande Georg Zeppenfeld, che è Gurnemanz, in pareo giallo e scarponi da montagna, irretito dall’alter ego di Kundry, quasi il regista volesse dissacrare il personaggio in ogni modo. Ebbene, questo magnifico interprete riesce a mantenere nobiltà ed eleganza, perché è proprio questo che la sua voce e la sua presenza trasmettono.
Poschner rinnova il successo dell’anno precedente, e davvero la sua conduzione è carica di pathos
Pablo Heras-Casado, applaudito con calore e simpatia, non ci ha consegnato un Parsifal indimenticabile, ma certamente apprezzabile. Ho assistito anche al Tristan und Isolde che l’anno scorso ha visto salire sul podio a sorpresa il nostro Markus Poschner, a seguito di una serie di sostituzioni dovute a malattia. Spettacolo che ha accontentato critica e pubblico, sobrio ed essenziale nelle scene eleganti di Piero Vinciguerra, con impianto unico e diversamente elaborato nei tre atti, un ovale che diventa piscina, giardino, non-luogo in cui si riverberano le passioni dei due protagonisti. Tristano è l’americano Clay Hilley, che lo scorso anno «salvò» il Ring sostituendo Stephen Gould a ventiquattro ore dalla prima, e che in effetti è apparso più convincente nel ruolo di Sigfrido. Isolde è l’inglese Catherine Foster, già Brünnhilde nel Ring
di Castorf e ora anche in quello di Schwarz, voce efficace ed espressiva. Il momento migliore per i due amanti è il duetto del secondo atto, morbido, quasi sussurrato, ben risolto sul piano scenico. La vera sorpresa è alla fine, con il Liebestod, quando dal fondo della scena emerge una coppia anziana e Isolde si mette da parte indican-
do l’amore domestico in alternativa all’amore straordinario di Tristano e Isotta. Siamo lontani da Wagner, ma il pubblico non protesta, anzi applaude, dimostrando che, con un’estetica gradevole, si può far accettare una lettura poco ortodossa. Poschner rinnova il successo dell’anno precedente, e davvero la sua conduzione è carica di
pathos e nel contempo in equilibrio con le voci dei cantanti, coinvolgendo il pubblico in un crescendo dal lirismo del secondo atto alla drammaticità del terzo. L’anno prossimo a Bayreuth assisteremo a una nuova produzione di Tristan und Isolde, che vedrà sul podio Semyon Bychkov. E intanto il festival continua fino al 28 agosto.
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