Azione 37 del 11 settembre 2023

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MONDO MIGROS

Pagine 6 – 7

SOCIETÀ

Con l’aumento della temperatura del pianeta per molte popolazioni l’unica soluzione sarà migrare

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Abbiamo bisogno di divertirci, seppur senza rischi né conseguenze: una riflessione partendo dal cinema

TEMPO LIBERO Pagina 15

Le date maledette e i nomi tabù

Proponiamo un pensiero di vicinanza ai nati di questo giorno. Compiere gli anni l’11 settembre, soprattutto dopo il 2001, è un po’ come essere stato chiamato Adolfo prima dell’ascesa al potere di Hitler e tenersi addosso quel nome tutta la vita ben oltre la fine della Seconda guerra mondiale: non puoi farci nulla, ma ti porti incolpevolmente addosso le suggestioni automatiche del lato oscuro della storia.

La gente ti guarda e ridacchia: ti chiami proprio Adolfo? Benito? Messalina? Sul serio sei nato (o, in non meno drammatica alternativa: ti sei sposato, farai l’esame, sarai operato) l’11 settembre? E giù battutine e colpetti di gomito. Tornando alla data di oggi, quindi, in alto i calici e fervidi auguri con un plus di sincera solidarietà a chi festeggia un compleanno concomitante con la peggiore tragedia terroristica d’Occidente degli ultimi decenni.

Eppure, ragionando con quel minimo di freddezza che dovrebbe caratterizzare una popolazione mediamente istruita come la nostra, simili accostamenti spuri non dovrebbero esistere. Partiamo dai nomi. Mica perché ti chiami Gesù (o meglio: Jesus, come usa nel mondo ispanico) compi automaticamente miracoli o perché ti chiami Josif deporti di default fette di popolazione da una parte all’altra del Paese, come faceva il tuo omonimo Stalin. Intendiamoci, ogni nome ha o dovrebbe avere un senso intrinseco e una singolare energia, quella della bisnonna Teresa da cui prendi il nome, per esempio. O una sua poetica, se ad esempio ti chiami Fiordaliso, Lauro o Aurora. Tutto questo, nel bene e nel male, contribuisce a forgiare le nostre identità. A volte con effetti comici incalcolabili al momento del parto. Ci sono nomi di persone che all’anagrafe suonano come dolcemente diminutivi: Celestino, Giulietto, Rosina, e da adulti magari pesano 150 chili e superano il metro e novanta. Alla stessa stregua chissà quanti Adolfi si sono rivelati, in fin della fiera generosi, altruisti, dediti all’eroica difesa dei deboli, dei diversi e dei poveri. Nomi e date non devono trasformarsi in prigioni.

La superstizione più radicata, comunque, resta legata ai numeri. Non vorremmo scomodare la Bibbia, che è stata suo malgrado fonte di ispirazione sulla «bontà» o «cattiveria», di certe cifre (a partire dai tredici apostoli,

contando il traditore Giuda attorno al cenacolo). Qualche anno fa si è diffusa la leggenda metropolitana del «Club 27» (anche detto «27 Club» o «Club of 27»), un’invenzione – ahimè – giornalistica intenta a dimostrare che alcuni artisti di prima grandezza, in prevalenza cantanti rock, erano morti «casualmente» all’età di 27 anni. Tra loro, nel breve periodo tra il 1969 e il 1971: Brian Jones, Jimi Hendrix, Janis Joplin e Jim Morrison. Tuttavia, l’espressione fu inventata più di vent’anni dopo, nel 1994, quando qualche topo di redazione si deve essere reso conto che anche Kurt Cobain, frontman dei Nirvana morto il 5 aprile del 1994, se n’era andato a quell’età. Inevitabile, da allora, che ogni volta che un artista lascia il mondo terreno a 27 anni, come Amy Winehouse nel 2011, rispunti quell’antica «maledizione».

L’angoscia dei numeri ti insegue anche nella vita comune. Se arrivi all’improvviso in un albergo con un’unica camera libera, è la 13, o si trova al tredicesimo piano. C’è gente, che anche dopo aver conseguito un master in fisica nucleare, oppone imbarazzati rifiuti o accetta col mal di pancia, stringendo in tasca amuleti a forma di cornetto o avviando inconfessabili macumbe interiori anti-malocchio. Sui voli di alcune compagnie aeree hanno abolito il posto 13. Sospesi tra il Cielo e la Terra si fa molto caso a quel numero lì. Perché avremo anche studiato sotto le insegne illuministiche della dea ragione e delle scienze dure e confideremo nelle protezioni ultraterrene promesse dai libri sacri, ma la superstizione è un gatto selvatico che si infila dappertutto, anche nelle menti apparentemente più razionali dell’universo. Conosco docenti universitari e perfino (rari) prelati che consultano di nascosto gli oroscopi sui rotocalchi, si fan leggere la mano «da una brava», stanno attenti a mettere in terra appena svegli il piede destro per evitare che la giornata parta balorda e ricorrono a guru spirituali poco più attendibili di Wanna Marchi. Del resto, durante il Covid sono risorte ricette da fratacchioni e imbonitori girovaghi dei secoli scorsi, come l’ottimo Aceto dei Quattro Ladroni, usato per curare ogni magagna non solo fisica pure in Ticino. Gratta gratta, sotto la superficie dell’ultra modernità scientifica, la scaramanzia ci mette poco a prevalere sulla razionalità.

ATTUALITÀ Pagina 23

Le votazioni federali si avvicinano. Il bilancio di un quadriennio con più donne e più ecologisti al potere

Auður Ava Ólafsdóttir, tra le più importanti scrittrici islandesi contemporanee, a Babel Festival

CULTURA Pagina 35

In gabbia con terroristi e boss di clan mafiosi

Settimanale di informazione e cultura Anno LXXXVI 11 settembre 2023 Cooperativa Migros Ticino
◆ ● G.A.A. 6592 San t’Antonino
edizione 37
Angela Nocioni – Pagina 28
Keystone

Nostalgia Tour

Dal 21 fino al 30 settembre 2023

PER TUTTI I BAMBINI CAMIONCONCORSOMIGROS

Quest’anno la nostra Cooperativa regionale celebra un importante anniversario: l’8 agosto del 1933 in Piazza Collegiata a Bellinzona apriva infatti il primo supermercato di Migros Ticino. Sono dunque passati ben 90 anni da quel giorno e l’impresa continua a essere al 100% ticinese, con sede a Sant’Antonino, e fortemente radicata nel nostro territorio. Il nostro obiettivo è da sempre offrire alla popolazione del Ticino e Moesano beni e servizi con il miglior rapporto qualità-prezzo, contribuendo al benessere del tessuto economico e sociale dell’intera regione.

Per celebrare degnamente questa importante ricorrenza Migros Ticino ha deciso di restaurare un vecchio camion vendita di sua proprietà, riproponendolo al pubblico splendido splendente in formato originale, in un vero e proprio revival, da giovedì 21 settembre a sabato 30 settembre 2023. Lo storico e affascinante mezzo ripercorrerà in sei tappe i tracciati di un tempo, in giro per le strade del Ticino e del Moesano, con a bordo le chicche gastronomiche del nostro territorio a marchio Nostrani del Ticino e non solo.

Venite a festeggiare con noi: vi aspettiamo a bordo!

Programma delle tappe

GIOVEDÌ 21 SETTEMBRE

GIOVEDÌ 28 SETTEMBRE

VENERDÌ 22

Mugena Parcheggio comunale ore 14.30 – 15.30 StraLugano ore 16.00

VENERDÌ 29 SETTEMBRE

SABATO 30 SETTEMBRE

Prima della partenza:

RINFRESCO OFFERTO presso Migros Centro S. Antonino, dalle ore 9.00 fino alle 11.00

Vittore Posteggio Palestra com. ore 13.00 – 14.00

Mesocco Ex Stazione ore 14.30 – 15.30

San Bernardino Ex Albergo Ravizza ore 16.00 – 17.00

a S. Antonino e Lumino

Migros Mendrisio Campagna Adorna ore 8.00 – 9.00 Riva San Vitale Piazzale a Lago ore 9.30 – 10.30 Rovio Piazza Fontana ore 11.00 – 12.00 Arogno Piazza San Rocch ore 12.30 – 14.00 Melide Via alla Bola ore 14.30 – 15.00
SETTEMBRE Migros Pregassona ore 8.00 – 9.00 Sonvico Piazzale comunale ore 10.00 – 11.00 Cimadera Piazza di giro ore 11.30 – 12.30 Bogno Piazzale nel nucleo ore 13.00 – 14.00 Tesserete Via Fraschina ore 14.30 – 15.00 SABATO 23 SETTEMBRE Prima della partenza: RINFRESCO OFFERTO presso Migros Centro Agno, dalle ore 9.00 fino alle 11.00 Caslano Piazza Chiesa ore 11.30 – 12.30 Novaggio Piazza F. Ferrer ore 13.00 – 14.00
Migros Biasca ore 8.00 – 9.00 Malvaglia Piazza d’armi ore 10.00 – 11.00 Marolta Via Giuseppe Martinoli ore 11.30 – 12.30 Ponto Valentino Via Traversa ore 13.00 – 14.00 Olivone Piazza d’armi ore 14.30 – 15.30
Migros Locarno ore 8.00
9.00 Auressio Paese ore 9.30
10.30 Loco Paese ore 11.00
12.00 Russo Paese ore 12.30
14.00 Crana Piazza ore 14.30
15.00
San
Lumino Via Bertè ore 11.30 – 12.30
Attenzione: il programma e l’itinerario potrebbero subire variazioni. Trovate tutti gli aggiornamenti su migrosticino.ch
In diretta dalle ore 11.45 alle 12.25 ca. e tra le 15.00 e le 16.45 21 settembre Arogno 22 settembre Bogno 23 settembre Novaggio 28 settembre Ponto Valentino 29 settembre Russo 30 settembre Mezzogiorno: San Vittore / Pomeriggio: Mesocco e San Bernardino Album di famiglia con
Fabrizio Casati
SABATO 30.9 Special Guest NOÈ PONTI con sessioneautografi

Incontrarsi tra genitori

Il Tragitto si rivolge a genitori che vogliono condividere esperienze e rafforzare le competenze educative

Il cervello sociale

La neuroscienziata Rosalba Morese studia il comportamento del nostro sistema cognitivo nel virtuale

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Istantanee sui trasporti

Con il nuovo semisvincolo il cuore di Bellinzona sarà finalmente liberato dal traffico di transito?

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Giornaliste in minoranza

In Svizzera la presenza delle donne nei media è ancora bassa e lontana dai posti di responsabilità

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La migrazione non è il problema: è la soluzione

Ambiente ◆ La nostra migliore nicchia ecologica si sta spostando a nord alla velocità di 115 centimetri al giorno

I modelli climatici prevedono che, entro il 2100, il nostro pianeta registrerà un incremento della temperatura compreso tra i 3 e i 4 gradi al di sopra della media preindustriale. Chi è nato in questo decennio sarà testimone di mutamenti climatici radicali e irreversibili, che avranno effetti profondi e duraturi sulle società, alcune delle quali, per motivi ecologici, sicuramente collasseranno – come ha già documentato Jared Diamond per alcune società del recente passato.

C’è chi prova a disinnescare l’allarme prodotto dalle previsioni climatiche, sostenendo che, in passato, il nostro pianeta aveva già conosciuto epoche con temperature anche superiori a quelle previste per il 2100. È vero, ma noi non c’eravamo. Durante il primo Eocene, per esempio, la temperatura media era attorno ai 21 gradi: i poli erano privi di ghiaccio, gli oceani tropicali raggiungevano temperature di 35 gradi, e nell’Artico c’erano palme e coccodrilli. Ci fu anche un periodo, all’incirca 250 milioni di anni fa, tra il Permiano e il Triassico, in cui la temperatura media della Terra si avvicinò a 32° C per milioni di anni. Ma noi non c’eravamo.

La nostra specie si è evoluta in un intervallo geologico iniziato nel Pleistocene e tutt’ora in corso caratterizzato dalla presenza costante di ghiaccio ai poli e sulle vette delle montagne più alte. Migrati in piccoli gruppi dal continente africano circa 65-75’000 anni fa, talvolta i ghiacciai hanno ostacolato la nostra diffusione, altre volte l’hanno favorita – per esempio abbassando il livello dei mari quanto basta da permetterci di raggiungere isole e continenti altrimenti inaccessibili con imbarcazioni primitive. Nel corso della nostra diffusione, abbiamo incontrato altre forme umane che avevano lasciato l’Africa prima di noi, i Neanderthal in Europa e in Medio Oriente, i Denisova in Asia: due specie scomparse, dalle quali abbiamo ereditato geni rivelatisi utili in alcune circostanze. Dal punto di vista dell’evoluzione è da poco che siamo l’unica specie Homo sul pianeta; ciò che dovrebbe indurci a tenere in seria considerazione la possibilità della nostra estinzione.

I discorsi sull’oscillazione delle temperature del pianeta nel passato recente e remoto tendono a omettere un fatto che caratterizza la condizione attuale del nostro pianeta, vale a dire che, presto, saremo in otto miliardi, con la metà della popolazione che vive in soli sette Paesi: Cina, India, Stati Uniti, Indonesia, Pakistan, Nigeria e Brasile. Siccome molte di queste persone vivono in zone che furono, sì, propizie allo sviluppo della nostra specie quando il clima ci era favorevole, circa 2 miliardi di persone dovranno migrare per allontanarsi

da luoghi resi inabitabili con un incremento della temperatura media di 4 gradi. Per costoro, così come sempre fu per la nostra specie, migrare sarà la soluzione.

Un pianeta con una temperatura tra i 3 e i 4 gradi al di sopra della media preindustriale costringerà circa il 25% del genere umano a spostarsi da luoghi resi inabitabili

Un mondo più caldo di 4 gradi centigradi non sarà completamente inabitabile, ma avrà caratteristiche tali da costringere il 25% del genere umano a migrare. La fascia equatoriale, per esempio, sarà inabitabile quasi tutto l’anno a causa dello stress di calore prodotto dall’elevata umidità. Anche le fasce a medie latitudini a sud – dove, per esempio, si trova l’Australia – saranno inabitabili per alcuni periodi dell’anno. A nord, le popolazioni asiatiche si troveranno in estrema difficoltà perché due terzi dei ghiacciai che alimentano i fiumi dell’Asia saranno scomparsi. Nel frattempo, i deserti sahariani si saranno espansi nell’Europa meridionale e centrale. Ciò significa che, quando sarà in pensione chi è nato in questi anni, la

fascia di abitabilità del mondo a nord comprenderà luoghi come il Canada, la Siberia, la Scandinavia e l’Alaska, mentre a sud le pochissime zone abitabili saranno la Nuova Zelanda, la Tasmania, l’Antartide occidentale e la Patagonia. La cartina del nostro pianeta con una temperatura media di soli 4 gradi in più rispetto all’epoca preindustriale fa pensare a quei film distopici dove l’umanità, a causa di cataclismi ambientali, è costretta a vivere solo in zone molto circoscritte. Il nesso tra clima e nuove migrazioni è ormai incontrovertibile. «La maggior parte della popolazione mondiale si concentra intorno al 27° parallelo, che tradizionalmente è la latitudine con il clima più favorevole e la terra più fertile, ma la situazione sta cambiando. Adattarsi al clima significherà inseguire la nostra nicchia via via che si sposta verso nord» – scrive Gaia Vince, l’autrice del recente Il secolo nomade. Il problema è che se le nicchie climatiche si stanno spostando a nord alla velocità di 115 centimetri al giorno, animali e piante hanno la libertà di migrare, ma la maggior parte del genere umano no – costretta com’è dentro il perimetro di una recente invenzione: quella dei confini nazionali.

Per i rifugiati climatici del futuro, molti dei quali saranno interni alle loro stesse nazioni, come gli americani e gli australiani, occorre pensare a nuo-

vi quartieri e a nuove città in grado di ospitarli. Nelle pagine de Il secolo nomade, Gaia Vince descrive i nuovi quartieri che non dovranno più essere i «quartieri dormitorio» che hanno caratterizzato l’espansione delle città europee di fine secolo, ma quartieri vitali, adatti sia alla produzione e al commercio, così come allo svago e al riposo. Menziona alcuni esempi spagnoli e olandesi, soffermandosi anche sull’architettura di case progettate per nuovi migranti che si possono sviluppare modularmente in funzione dell’emergere di nuove esigenze abitative e associative. Questi nuovi quartieri saranno ricchi di vita perché non esclusivamente dedicati al riposo e, soprattutto, densamente abitati perché una popolazione mondiale che potrebbe aver raggiunto il picco di 10,3 miliardi sarà costretta a vivere in fasce più ridotte rispetto alla situazione odierna.

Ma, spingendo lo sguardo più a nord, Gaia Vince descrive le nuove città in Alaska, in Groenlandia, in Scandinavia, in Siberia: città resilienti, adatte agli abitanti dell’Antropocene, che conosceranno grandi cambiamenti anche nelle abitudini alimentari, quando la carne e i latticini saranno ridotti perché non ci sarà più disponibilità di terreni agricoli.

Per l’ampio spettro delle questioni affrontate e per la qualità delle solu-

La lotta contro la desertificazione per preservare i terreni agricoli è già una realtà in queste zone confinanti con il Fiume Giallo nella Regione autonoma cinese di Ningxia Hui. (Immagine satellitare di Planet Labs, wikimedia)

zioni pratiche suggerite per far fronte ai problemi, Il secolo nomade si presenta come una sorta di manuale a uso delle amministrazioni cittadine, tanto che il sottotitolo recita: «Come sopravvivere al disastro climatico». Ma alla profonda conoscenza della letteratura scientifica che dimostra Gaia Vince fa da contrappeso un po’ d’ingenuità politica, che la incoraggia a immaginare la costituzione di organismi politici internazionali in grado di pianificare le migrazioni di massa che verranno: «La questione è se riusciremo a gestire la transazione preparandoci e pianificando in anticipo o se aspetteremo che la gente muoia di fame ed esplodano conflitti: una scelta inconcepibile che metterebbe in pericolo tutti».

Allo stato attuale delle cose, che vede ovunque emergere una politica che si rifiuta di vedere quanto strette siano le relazioni tra le problematiche locali e i problemi globali, ci sarebbe da pensare che epidemie, fame e guerra, ancora una volta, agiranno come una livella; in alternativa, dal momento che il cambiamento climatico in corso è inarrestabile, l’auspicio di Gaia Vince è che già ora gli attori politici cambino la «narrativa sull’immigrazione», mettendo l’accento sul meglio che ha caratterizzato la nostra specie: la capacità di adattamento grazie all’eterogeneità delle culture.

SOCIETÀ ● ◆ Settimanale di informazione e cultura Anno LXXXVI 11 settembre 2023 azione – Cooperativa Migros Ticino 3
Pagina 5 Lorenzo De Carli

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I genitori che condividono esperienze si sostengono reciprocamente

Famiglia ◆ Riprendono gli incontri di Genitorinsieme, un progetto dell’associazione Il Tragitto. Ne parliamo con lo psicopedagogista Pier Carlo Bocchi

Difficoltà e conflitti che incontrano i genitori nella relazione educativa con i figli sono simili in molte famiglie. Meno assodata è la convinzione da parte degli adulti che ragionare insieme sulle esperienze vissute possa aiutare a sviluppare rapporti più sereni nel nucleo familiare. Il progetto Genitorinsieme dell’associazione Il Tragitto agisce proprio a questo livello, offrendo attraverso un ciclo di incontri uno spazio protetto al racconto che diventa occasione per riacquistare fiducia nelle proprie capacità di osservare, capire e trovare soluzioni. Già sperimentata prima della pandemia, l’iniziativa è pronta a riprendere gli incontri a piccoli gruppi per genitori con figli fra i 3 e i 12 anni su sollecitazione di associazioni di genitori, istituti scolastici o altri gruppi interessati. Per capire finalità e modalità del progetto abbiamo interpellato Pier Carlo Bocchi, psicopedagogista, fra gli ideatori e i conduttori del medesimo.

Genitorinsieme propone incontri a piccoli gruppi per mamme e papà con figli fra i 3 e i 12 anni animati da personale con una formazione in campo educativo

Commenti quali «Mandarlo a letto è una sfida impossibile», «Bisogna sempre ripeterle le stesse cose e poi si arrabbia», «Non rispetta le regole e vuole sempre discutere le mie richieste», «Anche le punizioni non servono granché», «Non ascolta nemmeno quello che gli si dice», sono una costante nei racconti dei genitori che hanno già partecipato agli incontri di Genitorinsieme A leggerli uno dopo l’altro possono anche sembrare una sorta di percorso del combattente, ma più che altro – spiega Pier Carlo Bocchi –«guardando da vicino le proprie vicende a volte si finisce per smarrire il senso delle proporzioni e della prospettiva. Affrontando le situazioni quotidiane indirettamente, tramite il racconto degli altri genitori, si può invece scoprire che i problemi sono gli stessi incontrati prima o poi dalla maggioranza delle mamme e dei papà. A variare sono solo il modo e l’intensità con cui si presentano. Tutti i partecipanti al ciclo proposto da Genitorinsieme possono così beneficiare di un supporto per irrobustire le proprie competenze educative. L’apprendimento dall’esperienza costituisce pertanto il principio su cui si basano gli incontri».

Sette tappe per recuperare

le proprie risorse

Genitorinsieme è un progetto dell’associazione Il Tragitto che nelle due sedi di Lugano e Locarno sviluppa

iniziative rivolte all’integrazione sociale e alla relazione educativa genitori-figli. Condivisione di esperienze e sostegno reciproco sono i principi chiave delle diverse attività, promosse all’interno di una rete associativa e istituzionale con il supporto finanziario di enti pubblici e contributi privati. Il progetto Genitorinsieme può essere quindi proposto nel Luganese e nel Locarnese, come pure nel Mendrisiotto, a dipendenza delle richieste. Il ciclo prevede sette incontri animati da un conduttore o una conduttrice, di formazione psicopedagogista o counselor, con esperienza nel campo della prevenzione e della cura educativa.

Quale compito spetta ai conduttori? Risponde Pier Carlo Bocchi: «I conduttori svolgono un ruolo di “contenitore” e non di “dispensatori di sapere”, favorendo la discussione tra i genitori che in questo modo riescono a recuperare le loro risorse, spesso ignorate o smarrite. Tali risorse, quando vengono messe in circolo, recuperate, possono rimettere in moto i processi di crescita della famiglia. Lavoriamo con piccoli gruppi, composti da 8-10 persone, per favorire il confronto e una buona interazione. Va sottolineato che i racconti personali non vengono mai giudicati banali o ritenuti errati, ma degni di considerazione».

Le tematiche che emergono da questi racconti sono legate allo sviluppo del bambino e dell’adolescente,

al ruolo dei rispettivi genitori, come pure a difficoltà puntuali vissute dalle famiglie. Precisa al riguardo il rappresentante di Genitorinsieme: «Fra i temi ricorrenti citerei innanzitutto la gestione dei limiti e dei conflitti, come dimostrano anche i commenti citati in precedenza. I genitori si chiedono inoltre come affrontare i nodi critici dello sviluppo: il disagio scolastico, le difficoltà nell’apprendimento e nello studio, i disturbi specifici dell’apprendimento, la discontinuità emotiva». Vi sono poi altre questioni connesse alla coppia genitoriale: come promuovere la condivisione in questo ambito, come valorizzare il ruolo educativo del padre, come gestire in modo adeguato la separazione dei genitori. Sono aspetti ricorrenti trattati durante la serie di incontri.

Ruoli in via di ridefinizione

Incontri (diurni o serali a seconda delle esigenze) che possono essere organizzati anche in modo mirato su tematiche specifiche come il rispetto delle regole, le emozioni dei bambini, la gestione della rabbia, le domande difficili, la separazione dei genitori. In questi casi il ciclo è limitato a tre o quattro riunioni. Un’altra possibilità riguarda i padri. Spiega il nostro interlocutore: «Abbiamo constatato che la partecipazione dei papà è sovente molto limitata, per questo proponia-

mo anche incontri con la sola presenza dei padri. L’esperienza insegna che per loro in questo contesto è più facile partecipare ed esprimersi». Altre tipologie di incontri possono riguardare i nonni, chiamati nella nostra società a svolgere un ruolo crescente nella cura dei più piccoli, o ancora i genitori di famiglie monoparentali e di famiglie arcobaleno.

I cicli di incontri possono anche essere organizzati su tematiche specifiche oppure per un gruppo di soli padri o di nonni

I cambiamenti che negli ultimi decenni hanno interessato la composizione delle famiglie e i ruoli al suo interno si riflettono anche nell’azione educativa. Rileva al riguardo Pier Carlo Bocchi: «Alle nostre latitudini il numero di figli è diminuito, i padri sono più disposti a prendersi cura della prole, le madri sono chiamate a conciliare carriera e impegni familiari. In questi nuovi contesti sociali i rispettivi ruoli di madre e di padre sono oggetto di ripensamenti e in via di ridefinizione. Un esempio su tutti: se nelle generazioni passate far rispettare le regole era compito soprattutto del padre, oggi a seguito dei cambiamenti citati tale responsabilità dovrebbe essere maggiormente distribuita. Ma non è sempre così.

Di conseguenza succede che il ruolo di guida, indispensabile per la crescita dei bambini, risulta esercitato senza la sufficiente determinazione. Più in generale si può affermare che assistiamo a un riposizionamento dei padri (rispettivamente delle madri) che pur non dimenticando la necessità di mettere dei punti fermi, faticano a trovare una linea d’azione educativa coerente». Lo smarrimento e l’ansia vissuti dai genitori, non così rari negli attuali tempi di cambiamenti e di incertezze, possono inoltre ripercuotersi sullo sviluppo emotivo e affettivo dei figli. Non bisogna infine dimenticare – aggiunge lo specialista – che «i bambini sono persone complete capaci di ragionare, comunicare, collaborare. Basta offrire loro la possibilità di agire in questo senso».

Il progetto Genitorinsieme, molto flessibile in modo da rispondere ai bisogni reali delle famiglie, offre quindi la possibilità di essere accompagnati e sostenuti nella propria attività educativa. È un’occasione per condividere le proprie esperienze, processo irrinunciabile – conclude l’intervistato – «per maturare nuove consapevolezze, tenendo presente che scelte educative adeguate e rispettose non solo aiutano a stare meglio insieme, ma possono prevenire nei bambini e negli adolescenti eventuali difficoltà di sviluppo».

Informazioni: www.iltragitto.ch

Settimanale di informazione e cultura Anno LXXXVI 11 settembre 2023 azione – Cooperativa Migros Ticino 5 SOCIETÀ azione Settimanale edito da Migros Ticino Fondato nel 1938 Abbonamenti e cambio indirizzi tel +41 91 850 82 31 lu–ve 9.00 –11.00 / 14.00 –16.00 registro.soci@migrosticino.ch
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Barbara Manzoni Manuela Mazzi Romina Borla Natascha Fioretti Ivan Leoni Sede Via Pretorio 11 CH-6900 Lugano (TI) Telefono tel + 41 91 922 77 40 fax + 41 91 923 18 89 Indirizzo postale Redazione Azione CP 1055 CH-6901 Lugano Posta elettronica info@azione.ch societa@azione.ch tempolibero@azione.ch attualita@azione.ch cultura@azione.ch Pubblicità Migros Ticino Reparto pubblicità CH-6592 S. Antonino tel +41 91 850 82 91 fax +41 91 850 84 00 pubblicita@migrosticino.ch Editore e amministrazione Cooperativa Migros Ticino CP, 6592 S. Antonino tel +41 91 850 81 11 Stampa Centro Stampa Ticino SA Via Industria – 6933 Muzzano Tiratura 101’177 copie ●
Redazione Carlo Silini (redattore responsabile)
Sala
Keystone

Catena di valore intersettoriale per i prodotti Ticino regio.garantie

Attualità ◆ «Nostrani del Ticino», il programma di Migros Ticino per la promozione e la vendita di prodotti ticinesi certificati, ha dimostrato come sia possibile posizionarsi attraverso la regionalità e fare tendenza. Anche i ristoratori ticinesi sono sempre più interessati ai prodotti certificati Ticino regio. garantie e stanno estendendo la catena del valore di questi prodotti

Vieni a scoprire le genuine specialità della nostra regione! Fino al 18 settembre ti aspettano numerose promozioni e degustazioni sui prodotti firmati Nostrani del Ticino.

nostranidelticino.ch

I sapori del territorio e le specialità certificate della regione stanno diventando sempre più importanti per i consumatori quando fanno acquisti e visitano i ristoranti. Migros lo dimostra da anni con i «Nostrani del Ticino» e anche molti chef sono sempre più coinvolti. I ristoranti lavorano a stretto contatto con i fornitori locali, acquistando gli ingredienti in loco e, nell’ambito di Ticino a Tavola, trasformano i prodotti regionali certificati in pietanze tutte da gustare.

Regionale è la prima scelta

I partner gastronomici di alpinavera possono ora distinguersi per i loro ospiti in tre livelli, con le cosiddette campane di «bronzo», «argento» e «oro». Hanno il diritto di contrassegnare le specialità regionali certificate dei fornitori nella dichiarazione di origine degli ingredienti nel menu con il marchio di qualità «regio.garantie». In questo modo, l’ospite può vedere quali ingredienti sono stati preparati nella regione. Il consumatore, dopo aver gustato i prodotti al ristorante, li può trovare ogni giorno nell’assortimento dei Nostrani del Ticino alla Migros.

Bontà e tradizione tutte ticinesi

La prossima volta che visitate un ristorante, cercate il sigillo «Regionale è la prima scelta», partner gastronomico di alpinavera. Questo è il riconoscimento più gratificante per i nostri partner gastronomici che si impegnano per la regionalità e la stagionalità nella loro offerta gastronomica. Allora perché non concedersi sempre più spesso questo tipo di ristorante? Nella linea «Nostrani del Ticino» troverete molti dei prodotti da ricreare a casa.

La cooperazione intersettoriale rafforza la catena del valore Dopo i «Nostrani del Ticino» di Migros, alla catena del valore Ticino regio.garantie, si aggiungono altre «perle» culinarie nel paniere dei prodotti regionali. Più attori si uniscono, più i prodotti saranno conosciuti e più potranno essere integrati in diverse realtà quotidiane. In questo modo, i settori possono trarre vantaggio l’uno dall’altro e rafforzarsi a vicenda.

alpinavera.ch

Concorso ◆ I salametti al Merlot sono tra i prodotti cardine del salumificio «I Salumi del Pin» di Mendrisio

Domanda del concorso

Un inconfondibile e caratteristico aroma a cui è impossibile resistere. Non c’è da meravigliarsi se i salametti al Merlot firmati «I Salumi del Pin» siano considerati tra i fiori all’occhiello della produzione del salumificio situato nel centro storico del borgo di Mendrisio. Questa specialità

regionale è fatta con carni selezionate di suini allevati in Ticino seguendo un’antica ricetta tradizionale. La carne macinata insieme al lardo viene addizionata con una miscela di spezie e del buon vino rosso Merlot. Una volta insaccati nel budello naturale, i salametti vengono posti ad asciugare

in celle a temperatura e umidità controllate. Segue la fase di stagionatura, che si protrae per ca. tre settimane. Infine, i salametti sono confezionati in un film microforato che, allo stesso tempo, li protegge dagli agenti esterni ma permette anche di far proseguire la maturazione.

In quale via di Mendrisio si trova la storica sede del salumificio «I Salumi del Pin» di Mendrisio? Per partecipare al concorso inviare una mail a: concorso@migrosticino.ch (oggetto: Salametti Merlot) indicando i propri dati (nome, cognome, indirizzo e telefono) e la risposta corretta. In palio una carta regalo Migros del valore di CHF 100.–. Termine di partecipazione: domenica 17 settembre 2023 Il vincitore sarà contattato per iscritto. Non è prevista alcuna corrispondenza. Buona fortuna! (Il trattamento dei dati avverrà in conformità alla dichiarazione sulla protezione dati: migrosticino.ch/privacy)

Settimanale di informazione e cultura Anno LXXXVI 11 settembre 2023 azione – Cooperativa Migros Ticino MONDO MIGROS 6
Azione 20% Salametti al Merlot, Ticino, per 100 g Fr. 3.80 invece di 4.80 dal 12.9 al 18.9.2023

Riapre la Migros di Cassarate e arrivano i premi

Attualità ◆ Recentemente sono stati consegnati ai tre fortunati vincitori del concorso d’inaugurazione

Lo scorso 27 luglio, dopo tre mesi di lavori di adeguamento del rispetto dei più attuali criteri di sostenibilità e funzionalità, il supermercato Migros di Cassarate ha riaperto i battenti in una veste completamente rinnovata con tanto di stuzzicante Take Away Migros. Per l’importante appuntamento, la clientela ha potuto approfittare per un mese intero di tutta una serie di attività, come sconti speciali su interi settori, omaggi, colazioni offerte e trucca bimbi e palloncini per i piccoli visitatori del punto vendita luganese. Tra le varie iniziative, non poteva naturalmente mancare un grande concorso, che metteva in palio tre ambiti premi sotto forma di una bici elettrica e carte regalo Migros. A seguito dell’estrazione avvenuta lo scorso 16 agosto, abbiamo il piacere di comunicare che i vincitori sono:

1° premio

CENGIZ BUDAK di Paradiso

una bici elettrica Winora Sinius i9 da CHF 2700.–

2° premio

CLARA BERNASCONI di Viganello

buono Migros da CHF 500.–

3° premio

EMANUELE CASANOVA

di Lugano

buono Migros da CHF 100.–

Ci congratuliamo con i tre vincitori e ringraziamo i numerosi partecipanti al concorso!

Knorr. La caccia al sapore.

La premiazione avvenuta negli scorsi giorni presso la filiale Migros di Cassarte: da sin., Emanuele Casanova, il gerente di Migros Cassarate Bruno Gogov, Cengiz Budak e Luce Sala, che ha ritirato il premio a nome dell’amica Clara Bernasconi. (Foto di Oleg Magni)

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L’evoluzione del nostro cervello sociale

Reale vs virtuale – 1 ◆ La scienza comincia a comprendere che l’assegnazione di una funzione umana alla macchina comporta una serie di «perdite» per il nostro sistema cognitivo

«Un signore, che chiameremo Andrea, gioca a Cyberball che consiste nel passarsi la palla con altri due giocatori virtuali (due script nel visore virtuale, anche se egli pensa siano due persone reali in un’altra stanza). A un certo punto, i due giocatori non passano più la palla ad Andrea. Dopo 7 o 8 passaggi in cui viene ignorato dagli altri, egli comincia a sentire un certo disagio perché si sente escluso dal gioco».

La neuroscienziata Rosalba Morese ci spiega perché le nostre risposte a livello cognitivo-affettivo sono diverse nella realtà virtuale

La neuroscienziata, docente e ricercatrice all’USI Rosalba Morese parla di questo esperimento condotto nell’ambito della ricerca delle scienze sociali, votato a sondare il comportamento del nostro cervello quando si rapporta alla realtà virtuale rispetto a quando è immerso nella vita reale. Prosegue spiegando cosa capita ad Andrea dal momento che i due giocatori virtuali lo ignorano ed egli si sente a disagio e prova malessere: due emozioni scatenate dal suo sentirsi escluso: «A livello neurofisiologico si attivano aree cerebrali in condivisione e simili a quelle che si attivano con il dolore fisico (quando ad esempio ci tagliamo o ci facciamo male). Quel disagio ha una base neurofisiologica: la persona si sente male e manifesta risposte comportamentali negative. Per alleviargli questo dolore (social pain), si dà la possibilità a una sua amica di scrivergli frasi di supporto del tipo “Forse è successo perché…”, “Gli altri due si conoscevano già, è normale”. Frasi che Andrea legge sul visore virtuale, votate ad alleviare il malessere, il dispiacere e il senso di esclusione provocati

dall’essere ignorato e dal non sentirsi più parte del gruppo e del gioco stesso». Ora, Morese mette a confronto questa situazione e i suoi sviluppi se fosse vissuta nella vita reale rispetto a cosa capita ad Andrea che sta vivendo una situazione virtuale: «Nella vita reale, l’amica interagirebbe veramente con Andrea, (con la voce, la gestualità e la presenza) e lo consolerebbe dicendogli le stesse frasi che andrebbero a reclutare e attivare nel suo cervello quell’area preposta alla rappresentazione dell’intenzionalità, dei desideri e delle emozioni. Questo gli procurerebbe sollievo dal suo stato di frustrazione per la sua esclusione. Nel caso del gioco in questione, dunque nella realtà virtuale, Andrea legge queste frasi sul visore, ma quella stessa area cerebrale si attiva con fatica e sensibilmente meno, creando per contro una maggiore attivazione delle emozioni negative e amplificando in Andrea l’esperienza negativa di esclusione sociale».

Ciò significa che quando siamo in contrasto con un essere umano reale, il nostro cervello attiva quell’area preposta alle emozioni e al comportamento sociale che ci permette di trovare senso, equilibrio e sollievo dalle situazioni che viviamo come frustranti o dolorose. Invece: «Quando siamo in un contesto virtuale il nostro cervello dispone di poche informazioni, il tipo di stimolo rimane quello visivo (non sociale o immediato come potrebbe essere il timbro della voce, la visione della persona) e questo impatta sicuramente a livello di esperienza umana, come dimostra l’esperimento del gioco condotto con Andrea, perché nel comportamento virtuale non si mettono in atto automaticamente i meccanismi impliciti che solitamente il nostro cervello usa nella quotidianità del mondo reale». In questo modo,

la nostra interlocutrice ci ricorda che la realtà virtuale cambia i nostri contesti, e ciò porta le neuroscienze sociali a indagare cosa accade di diverso a livello cognitivo e affettivo rispetto al vivere nella realtà: «Si tratta di una disciplina relativamente giovane che, con l’ausilio del metodo scientifico delle neuroscienze, studia i processi emotivi, cognitivi, sociali e comportamentali, aiutandoci così a comprendere perché mettiamo in atto determinati comportamenti e spiegandone i processi soggiacenti».

Oggi tutto questo ci serve per provare a capire quali strumenti possiede la nostra mente e come possiamo migliorarli: «Studiamo come rendere più efficaci processi e dinamiche attivi quando stiamo con gli altri e quando interagiamo con l’ambiente». Ma quel che oggi è più interessante, è comprendere cosa succede quando usiamo i dispositivi digitali che sempre più spesso mediano il nostro rapporto col mondo: «I processi cognitivi ed emotivi riguarda-

La mano: umile, silenziosa,

Il nostro cervello si allena in un contesto reale dove recepisce molte informazioni e sollecitazioni, ciò che non avviene quando siamo soli con un dispositivo virtuale. (Pexels)

no le nostre emozioni e i meccanismi di autoregolazione che ci aiutano, ad esempio, a capire le nostre emozioni negative e, di conseguenza, ci fanno sentire frustrati o tristi». La neuroscienziata spiega quindi l’importanza di pensiero, emozione e comportamento che sono tre livelli integrati nei quali l’emozione riveste un ruolo molto importante: «Essa può modulare la nostra motivazione e spingerci all’azione». Parliamo di «cervello sociale»: «Quella sua parte che si attiva quando entriamo in relazione con gli altri e che ci permette anche di gestire situazioni sociali difficili». L’esperimento condotto su Andrea dà adito a serie riflessioni perché dimostra che in una realtà virtuale la nostra risposta a livello cognitivo-affettivo è diversa da quella che daremmo nella realtà: «Il nostro cervello è già un simulatore della realtà: la interpreta sempre; il cervello legge come reale un contesto virtuale perché è fatto in modo tale che qualsiasi contesto lo spinge a fare una sua rappresentazio-

indispensabile

ne. Però in un contesto virtuale il nostro cervello sociale non può attingere alla complessità della realtà».

Ora, ci chiediamo se la tecnologia che tende a semplificarci la vita la stia davvero rendendo migliore, o se stiamo pagando un prezzo tropo alto in cambio della velocità e della semplificazione: «Bisogna rendersi conto del fatto che il nostro cervello si è evoluto nel corso di centinaia di migliaia di anni, in contesti molto diversi da quelli attuali. Però oggi sappiamo che gli strumenti digitali facilitano la vita delle persone. Ma stanno pure innescando dinamiche dall’esito imprevedibile, anche a causa della velocità in cui il progresso digitale si sviluppa, mentre la scienza comincia a comprendere che l’assegnazione di una funzione umana alla macchina comporta una serie di “perdite” per il nostro sistema cognitivo». Soprattutto pensando agli adolescenti bisogna trovare un equilibrio («la loro area del cervello che si occupa del processo di regolazione delle emozioni giunge a maturazione attorno ai vent’anni»): «Il punto non sta nel chiedersi se permettere loro di usare i dispositivi, per quanto tempo, a che età; sarebbe importante capire ed interrogarsi su come questi processi (spiegati dalle neuroscienze sociali e dalla psicologia) cambiano in un contesto digitale, per capire se in meglio o in peggio. Non bisogna dimenticare mai che il nostro cervello è un sistema complesso e si allena in un contesto reale dove recepisce molte più informazioni complesse e dove è maggiormente sollecitato. Cosa che non avviene quando siamo soli, con un dispositivo virtuale. Anche la nostra capacità relazionale va allenata e l’esempio dell’empatia è emblematico: la riscopriamo solo facendo esperienza, stando con le persone nel mondo reale».

Reale vs virtuale – 2 ◆ I prodotti tecnologici pensati per il pubblico lasciano inattive le sofisticate capacità delle mani, quali saranno le conseguenze?

Massimo Negrotti

Sebbene, di per sé, la mano non sia un organo vitale come lo sono il cuore o il fegato, senza l’uso delle mani un essere umano potrebbe sopravvivere ma con ben poca autonomia. Essa, un po’ come il cervello, è un dispositivo naturale general purpose ossia disponibile a mille tipi di azioni diverse fra loro rese possibili dalla capacità di opporre il pollice all’indice e di consentire, quindi, libera prensilità. Anche per questo la mano, fra l’altro, è ai primi posti fra gli organi umani che la robotica cerca di riprodurre. La sua perenne attività, durante la vita quotidiana così come nelle attività professionali, esibisce una flessibilità davvero stupefacente grazie al costante rapporto con il cervello, al quale invia messaggi e da cui riceve comandi. Tuttavia, la sua natura di organo al servizio del cervello, conferisce alla mano uno status non particolarmente elevato come se la sua disponibilità fosse ovvia e poco prestigiosa. Solo di fronte a una sua disfunzione, ci rendiamo conto di quanta parte della nostra esistenza dipenda da essa.

Nel corso della storia il ruolo della mano è però cambiato notevolmente e si va dalla sottovalutazione del lavoro manuale tipico dell’antica Grecia alla sua riscoperta nel lavoro artigiano del Rinascimento, dalla sua centralità nel lavoro scientifico sperimentale dei secoli XVIII e XIX alla sua nuova eclissi nell’epoca attuale, nella quale il lavoro manuale, se non collegato ad attività prestigiose ma tendenzialmente rare, come, per esempio, la chirurgia o l’arte violinistica, non conferisce a chi lo esercita alcun prestigio. Contemporaneamente, però, il prodotto del lavoro artigianale riacquista valore se messo a confronto con quello industriale, eseguito in serie dalle macchine, innescando così una singolare contrapposizione in altri tempi sconosciuta.

C’è inoltre una novità storica, dovuta alla tecnologia, che pone alcune nuove sfide. Si tratta della diffusione dei computer e dei cellulari i quali richiedono alla mano azioni estremamente limitate, normalmente la pressione di un tasto o un’area dello schermo, senza problemi di prensilità.

La ragione d’essere di queste macchine elettroniche è, pressoché sempre, l’elaborazione di informazione e non la manipolazione di cose materiali e da parte sua l’informazione, come un giorno disse Norbert Wiener, fondatore della cibernetica, è informazione

e null’altro. Il risultato è che chi usa un computer o un cellulare può «viaggiare» nel mondo virtuale vivendo situazioni e luoghi i più diversi e interagire con persone o con scenari dinamici di vario genere, ma il tutto solo informazionalmente, senza alcuna interazione con la corrispondente realtà fisica. In certo qual modo siamo di fronte a una riedizione dell’antico primato del lavoro intellettuale, inteso come attività genericamente mentale o speculativa, rispetto a quello manuale che si misura con la realtà del mondo. Di fatto, il prodotto di qualsiasi attività informatica pensata per la distribuzione pubblica – si pensi alle numerose simulazioni interattive di situazioni le più disparate in ambiti quali i processi chimici o astronomici, artistici o letterari, alla enorme quantità di siti Internet, o blog, che si propongono come innumerevoli Speakers’ Corner fino ad arrivare ai diffusissimi e coinvolgenti giochi oggi disponibili – riempie il cervello di virtualità ma lascia del tutto inattive le più sofisticate capacità delle mani e, di conseguenza, non

contribuisce a mantenere e semmai sviluppare la nostra interazione con la reale, complessa e spesso faticosa natura delle cose che ci circondano, al punto che l’antropologo Andre Leroi-Gourhan parla addirittura di una possibile «regressione della mano».

Dunque, se da un lato perdiamo il contatto con la concretezza delle cose, dall’altro non raggiungiamo certo i livelli speculativi del mondo ellenico e della sua filosofia e, così, finiamo per «galleggiare» in un empireo denso di immagini, suoni e testi che non ci forniscono alcuna esperienza diretta. La mano è sicuramente la prima vittima di questo processo perché per diteggiare sulla tastiera – o persino usufruire di comandi vocali – non occorre alcuna speciale abilità manipolativa. Chiunque abbia visto un bambino digitare sullo schermo del proprio cellulare avrà senz’altro colto l’estrema velocità e la notevole precisione con cui le nuove generazioni vi sanno scrivere nomi e numeri. Ma c’è da sperare che non si persuadano che la mano serva solo a quello.

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Bellinzona domani

Istantanee sui trasporti ◆ Come cambierà il traffico regionale con il nuovo semisvincolo?

Alla fine del prossimo anno verrà aperto al traffico il semisvincolo sud di Bellinzona. È stato pensato una ventina di anni fa nell’ambito del Piano dei trasporti del Bellinzonese, di cui costituiva un elemento centrale. Il percorso per la sua realizzazione non è stato privo di ostacoli. Nel 2012 la richiesta del credito per la progettazione definitiva è stata perfino insidiata, senza successo, da un referendum. L’impegno finanziario complessivo, principalmente a carico del Cantone e dei Comuni e, sussidiariamente, della Confederazione, è ragguardevole e ammonta a circa 60 milioni di franchi.

Gli obiettivi essenziali da raggiungere sono stati ben riassunti nell’opuscolo informativo che ha accompagnato il voto referendario: migliorare la gestione del traffico regionale sgravando in particolare Giubiasco e i quartieri a sud di Bellinzona; favorire il trasporto pubblico riducendo i tempi di percorrenza; contribuire a promuovere percorsi pedonali e ciclabili comodi e sicuri. L’opera, destinata principalmente agli automobilisti che devono raggiungere il centro della capitale, permetterà di arrivare in modo più diretto vicino al cuore della città. Una parte degli utenti potrà trovare spazio al posteggio di via Tatti, che offre poco meno di 500 stalli, dai quali si raggiunge il nucleo a piedi in pochi minuti. Chi vorrà invece proseguire in automobile non si illuda di trovare campo libero. Il traffico è infatti nel frattempo cresciuto e la colonna, finora costantemente presente a sud, sarà tendenzialmente in agguato al centro.

Della nuova opera dovranno tuttavia poter beneficiare in modo sostanziale anche i trasporti pubblici e la mobilità ciclo-pedonale, come postulato dai promotori. Ma ciò non è scontato. La grande sfida e la solenne promessa fatta a suo tempo stanno nell’alleggerire dal traffico l’esistente strada cantonale tra Camorino e Bellinzona sud attraverso Giubiasco, oggi gravata da un carico di circa 27’000 veicoli al giorno. Occorre dunque intervenire in modo mirato affinché chi è diretto a Bellinzona usi effettivamente il nuovo percorso autostradale e quello rimanente sulla strada principale all’interno del quartiere di Giubiasco sia contenuto e non debordi sulle vie di quartiere. La rete interna va dunque liberata dal transito e restituita a una vera funzione urbana, in cui i quartieri e le residenze che la contornano ritrovino maggiore quiete e sicurezza e i percorsi pedonali e ciclabili possano essere estesi e, soprattutto, trovare una continuità oggi ancora troppo precaria.

Negli ultimi dieci anni i trasporti pubblici, per i quali Città e Cantone hanno investito moltissimo, si sono preparati all’evento. L’apertura della

galleria di base del Ceneri ha portato a collegamenti ferroviari molto più rapidi con il Sottoceneri e più frequenti con il Locarnese. Il servizio urbano e quello regionale su gomma sono divenuti più frequenti e capillari. Ora è necessario che ricevano lo spazio necessario per diventare anche più veloci e non trovarsi ancora ostacolati dalle automobili. È questo il criterio determinante per la scelta del mezzo di trasporto e quindi per soddisfare una più ampia utenza. Il nuovo semisvincolo costituisce dunque una opportunità da cogliere adottando adeguate misure di accompagnamento di natura trasportistica e urbanistica. Le prime per dosare il traffico all’entrata sud dell’agglomerato, per indirizzarlo sulla nuova opera e per preservare le strade di quartiere da quello indesiderato. Le seconde vanno intese a rivedere e ricomporre gli spazi liberati dal traffico con arredi adeguati per renderli belli e fruibili per chi ci vive.

Operazioni ed esperienze del genere già sono state compiute in Ticino. Ricordiamo l’apertura delle gallerie Mappo-Morettina nel 1996 e Vedeggio-Cassarate nel 2012. La prima ha consentito di circonvallare il centro di Locarno e di Minusio e di recuperare a funzione residenziale in particolare Via Simen a Minusio e Muralto. La seconda ha scaricato le frequentatissime via Besso e via San Gottardo. Il bilancio è positivo ma la pressione del traffico è tornata velocemente a salire. Il ritrovato campo libero può anche generare nuovo traffico. I benefici per le zone inizialmente alleggerite dal carico stradale non sono effettivi e tantomeno duraturi senza misure di accompagnamento. Entrambe le gallerie sono oggi al limite della loro capacità e rendono qualsiasi nuovo intervento mitigatore sulla rete interna dei quartieri più difficile da concretizzare. Il caso del traffico parassitario in transito attraverso la città vecchia di Locarno insegna: mancata l’occasione iniziale di regolarlo con l’apertura della nuova galleria non ha più trovato alcun seguito.

Le misure di accompagnamento non sono dunque meno importanti dell’opera principale. Non solo è fondamentale curarne la preparazione e l’informazione ma determinante ai fini del successo è anche attuarle al momento giusto. Le esperienze condotte finora mostrano che questo non può che coincidere con la messa in esercizio dell’opera principale, di cui sono parte integrante e non un’opzione da attivare successivamente. Il cambiamento di tante abitudini è sempre difficile, prima mentalmente e poi nei fatti. Anche nella mobilità la disponibilità a provare il nuovo che avanza può essere faticosa. Abbracciare nuovi comportamenti è tuttavia più facile in corrispondenza di un grande balzo in avanti.

La grande rotonda sopraelevata del semisvincolo, l’opera sarà finita nel 2024 (Dipartimento del territorio)

12 Settimanale di informazione e cultura Anno LXXXVI 11 settembre 2023 azione – Cooperativa Migros Ticino SOCIETÀ
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Ancora lontane dalla parità

Giornalismo al femminile

– 2 ◆ In Svizzera la

Enrico Morresi

Il giornalismo è una professione in crisi. Il processo di concentrazione dei media scritti in Svizzera (gruppi leader che si appropriano di una testata di giornali regionali o locali senza cambiarne la denominazione) ha ridotto della metà, rispetto agli anni del secondo dopoguerra, le redazioni autonome. Anche il numero dei giornalisti è in forte calo: gli iscritti al sindacato maggiore, Impressum, sono calati di quasi la metà tra il 2002 e il 2022 (da 6096 a 3538). Le scuole di giornalismo segnalano una minore preparazione dei candidati in entrata: meno laureati e laureate. E gli editori della Svizzera tedesca propongono un salario minimo di 4800 franchi mensili: anche sul piano dell’offerta, il giornalismo si vende male.

Tre aspetti ci interessano qui: la quota parte delle donne negli albi professionali, la loro incidenza nell’offerta mediatica, le condizioni di lavoro e di salario offerte. Do per scontato che anche in molte altre professioni le donne stentano ad affermarsi: l’editore Franco Angeli ha appena lanciato un libricino intitolato Donne nella scienza. La lunga strada verso la parità, in cui le autrici ripercorrono la strada in salita verso la parità, che pare tuttavia ancora lontana.

Il numero delle donne attive nel giornalismo segue la curva discendente degli iscritti negli albi professionali, ma resiste meglio al calo (da 1919 nel 2002 a 1315 nel 2022). Gli iscritti all’Associazione Ticinese dei Giornalisti (ATG) sono attualmente 262: 202 uomini e 60 donne. Da uno studio in preparazione presso la ZHAW (l’Alta scuola professionale di Winterthur), al quale collabora la Facoltà di giornalismo dell’Università della Svizzera italiana, si attende un rapporto esteso a tutte le regioni della Svizzera. Ma la condizione di inferiorità delle donne è già oggi testimoniata da varie pubblicazioni.

Sul secondo punto (la parte delle donne nell’offerta mediatica) si diffonde un saggio contenuto nell’edizione 2021 dell’Annuario del Centro di ricerca fög (Forschungszentrum Öff-

delle

nei

è ancora bassa e tre su quattro posti di responsabilità sono detenuti da uomini

Commedie della nostra quotidianità

Libri ◆ Raccolte le opere dialettali di Elsa Franconi-Poretti

Nell’offerta mediatica svizzera le donne producono meno del 25% dei servizi pubblicati (Pexels)

entlichkeit und Gesellschaft) dell’Università di Zurigo. Il contributo di Lisa Schweiger attesta che le donne sono presenti solo per un quarto, l’incidenza complessiva oscilla tra il 22,7% e il 24,8% del totale dei servizi pubblicati. Non si constatano differenze importanti tra le regioni linguistiche: alla RSI il rapporto è del 26%, alla SRF (la Radiotelevisione della Svizzera tedesca) del 25%. Scendiamo ai particolari. Alla RSI le donne producono il 26% delle notizie di politica, il 15% dell’informazione economica, il 25% della cultura. Tornando ai dati che riguardano la Svizzera intera, solo nella categoria human interest – che comprende il sociale, la medicina, la religione – l’apporto femminile raggiunge il 32%. Il resoconto sportivo –come confermava Giancarlo Dionisio («Azione» dell’11 aprile) – «è inequivocabilmente un fenomeno maschile», con eccezioni nello sci e nel tennis. Di recente, in Germania, una partita di calcio commentata da una donna ha sollevato migliaia di proteste. Qualcuno potrebbe ricordare che nel 1946, all’atto della fondazione, all’Associazione ticinese giornalisti sportivi, era-

no iscritti 26 uomini e 0 (zero!) donne. Il mondo è cambiato, ma poco. Se si passa alla proporzione numerica tra gli addetti, l’inferiorità femminile si conferma. Nel 2019 era stata organizzata una giornata di sensibilizzazione sul problema (No women, no news). Dalla sintesi pubblicata da «Edito» – il periodico di Impressum – risultava che nel giornalismo tre su quattro posti di responsabilità sono detenuti da uomini. Fa eccezione la SSR, che ha aderito a una iniziativa della BBC (Chance fifty-fifty) e dove il rapporto è quasi di parità; all’iniziativa ha aderito anche l’editore Ringier. Particolarmente squilibrata si rivela la condizione salariale: le donne guadagnano mediamente il 70% di quanto riconosciuto ai maschi. Famiglia e maternità rappresentano il maggiore ostacolo alla parità. Il 54% delle giornaliste ha infatti meno di trent’anni, le donne sopra i cinquanta e quelle attive nella professione da almeno dodici anni sono solo il 30 per cento; la difficoltà di «mantenersi» nella professione abbracciata da giovani è evidente. Una serie di testimonianze è offerta dal volume Frau macht Medien.

La rinuncia che viene dal basso

Warum die Schweiz mehr Journalistinnen braucht, edito dalla casa editrice basilese Zytglogge. Emergono le circostanze che ostacolano l’assunzione di responsabilità nelle redazioni, cominciando dai pregiudizi sessisti (la parte maschile intervistata li riconosce), per finire nelle insicurezze psicologiche. Il volume attesta un timore delle donne a esporsi al giudizio in un campo «tradizionalmente non loro». Vanno così perdute, talora solo banalmente, occasioni di maggiore ricchezza, varietà, approfondimento che le donne sarebbero disposte a offrire. E sarebbe davvero il colmo se questo dato (peraltro discutibile) venisse letto come un’ammissione di inferiorità. (La prima puntata è uscita il 14.8.23)

Riferimenti

N. Bader, A. Fopp, Frau macht Medien. Warum die Schweiz mehr Journalistinnen braucht, Zytglogge Verlag, Basel, 2020. M. P. Abbracchio, M. D’Amico, Donne nella scienza. La lunga strada verso la parità, Franco Angeli, Milano, 2023, pp. 147.

Mai bütà via nagott!, diceva mia madre, che però predicava bene e razzolava male. Lezione appresa, invece, nella casa che fu di Elsa Franconi-Poretti (1895-1995), ricordata come collaboratrice dei nostri giornali e fautrice del diritto di voto alle donne. Dove fu rinvenuta una vecchia valigia contenente – minuziosamente ordinati e datati –testi dialettali per il teatro radiofonico da lei redatti tra il 1939 e il 1971 per la Radio della Svizzera italiana. Sedici commedie, provenienti da quella raccolta, oggi disponibili in un elegante volume: Una dòna di nòst. Elsa Franconi-Poretti. Sedici commedie dialettali, curato del pronipote Enzo Pelli e stampato da Poncioni, Losone. Quel versante della vita di Elsa Franconi-Poretti corrisponde a un periodo della storia della Radio – gli anni della Seconda guerra mondiale – in cui gli autori di casa furono obbligati a supplire la quasi totale forzata assenza di teatranti e attori italiani. Elsa era stata fatta rientrare da Parigi – dove abitava dagli anni Venti, sposa dell’architetto Giuseppe Franconi, emigrato in Francia dal 1922. Vi sarebbe ritornata alla fine della guerra, per rimanervi fino al 1955. La sua esperienza di autrice dialettale si incrocia dunque con un periodo della storia della RSI che nel volume è ricordato da Nelly Valsangiacomo. Le 16 commedie riprodotte sono contestualizzate nella storia della Radio da Guido Pedrojetta; Franco Lurà sottopone a scrutinio «Il dialetto di Elsa», integrandovi un fitto glossario.

Si tratta dunque di una pubblicazione che guarda oltre la stretta rievocazione biografica, diventa l’occasione di fermarsi a riflettere su quel che era (e poco resta) del dialetto «luganese» che tutti noi si parlava: a casa, a scuola, nelle strade. Perduto? Nel Sottoceneri, purtroppo, in stato pre-agonico. Ed è una perdita evidente: perché non è l’inglese imparaticcio che si sente, purtroppo, anche alla radio e alla televisione, che lo può compensare. / E.M.

Parole verdi – 7 ◆ Con questo articolo continua la serie dedicata al nostro rapporto con l’ecologia e la crisi climatica

Francesca Rigotti

La rinuncia, l’azione volontaria del rinunciare, non gode più di buona fama. A sentirla, vien da scrollare la testa. Sembra una parola pauperistica, rinunciataria appunto, con cui si annuncia un rifiuto. Lo dice l’origine del termine, dal latino re-nunziare, annunciare che ci si ritrae. Anche come parola verde «rinuncia» non piace tanto, fa arricciare il naso. Bisogna affrontare la crisi ecologica e climatica con mezzi possenti e adeguati, pensano in molti, con tutta la tecnologia a nostra disposizione, non rinunciando al benessere e alle comodità.

Eppure nel passato l’idea e la pratica della rinuncia godevano di grande reputazione: il fatto è che oggi prevale il volto negativo della rinuncia, la sua faccia oscura, che evoca perdita, diminuzione, sacrificio. Ma è possibile vedere nella rinuncia un volto positivo, attraente? Farne una vir-

tù, un’arte umana? Noi ci proviamo, nelle nostre poche righe, con l’aiuto del libro fresco di stampa di un filosofo tedesco, Otfried Höffe: Die höhe Kunst des Verzichts. Kleine Philosophie der Selbstbeschränkung (La nobile arte della rinuncia. Piccola filosofia dell’autolimitazione), München, Beck, 2023.

A ben pensarci, tutta la vita in società si basa su una rinuncia: quella alla soddisfazione immediata dei propri bisogni e degli egoismi personali tramite il cosiddetto diritto del più forte. È la famosa idea del «contratto sociale», articolata dal ginevrino Jean-Jacques Rousseau in una formula semplice quanto geniale: «Ciascuno mette in comune la sua persona e ogni suo potere sotto la suprema direzione della volontà generale; e noi tutti in corpo riceviamo ogni membro come parte inseparabile del tutto» (1762). Dov’è qui la rinuncia?

Rousseau lo spiega subito dopo: mettendosi insieme ad altri uomini l’uomo perde molti vantaggi, soprattutto la possibilità naturale e illimitata di

prendere tutto ciò che lo tenta e che può raggiungere; grandi sono però i vantaggi che guadagna, soprattutto la libertà civile e la libertà morale. Inoltre i suoi sentimenti si elevano, la sua anima si innalza, da animale stupido e deficiente diventa un essere intelligente e un uomo. Siamo insomma di fronte a una rinuncia che porta felicità, eudaimonia, come dicevano gli antichi Greci: la vita buona. Persino il filosofo e filologo Friedrich Nietzsche, apprezza la rinuncia come qualcosa che, grazie alla nascita della morale, porta a superare la bestia che vive nell’uomo.

Visti sotto l’aspetto della rinuncia, alcuni comportamenti acquistano nuova luce. La tolleranza, per esempio, possiamo leggerla come rinuncia a imporre ad altri le nostre visioni della vita e della religione. E il lavoro? Certo, il provvedere per-

sonalmente alla propria sussistenza senza delegarla ad altri, quando possibile, richiede rinunce, giacché l’impegno del lavoro è faticoso. Eppure chi la pensa così non si accorge forse di rinunciare anche a un enorme potenziale di libertà e di sviluppo della personalità.

E ora come la mettiamo con la rinuncia di parte delle comodità e del benessere individuali in nome della salvezza del pianeta? È chiaro che rinunce imposte dall’alto e non sufficientemente giustificate umiliano i cittadini degradandoli al ruolo di sudditi obbedienti. E se invece tali rinunce venissero dal basso, non solo, ma non venissero nemmeno vissute come tali? O se addirittura la rinuncia potesse trasformarsi in un piacere particolare, il piacere di essere diversi e sottrarsi alla schiavitù dei gusti della massa?

Settimanale di informazione e cultura Anno LXXXVI 11 settembre 2023 azione – Cooperativa Migros Ticino 13 SOCIETÀ
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Divano MALIN 1599.–invece di 1999.–Lowbard FLEXCUBE 999.–invece di 1249.50 Poltrona SOPHIE 559.–invece di 699.–20% 12.9-25.9.2023 su divani, poltrone e mobili per il soggiorno* (incl. Flexcube) *Offerta valida anche per divani letto, poggiapiedi, pareti-librerie, scaffali, sideboard, cassettoni, tavolini accostabili e da salotto, mobili TV e Hi-Fi nonché assortimento Flexcube (escl. gli assortimenti RELOVED e per bambini così come i mobili per la camera da letto). Offerta valida dal 12.9 al 25.9.2023. In vendita in tutte le filiali Micasa e nello shop online. La riduzione è valida solo per le nuove ordinazioni. Fino a esaurimento dello stock.

Taglio sottile e cottura rapida

Il taglio delle pietanze ne determina i tempi di cottura: alcuni esempi per realizzare piatti nutrienti, gustosi, e soprattutto... veloci

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La Romania che non ti aspetti

Un viaggio nella patria del Conte Dracula e non solo, tra bellezze paesaggistiche inattese e intense storie di vita

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Portarsi addosso chi si ama

Una collana speciale, in cui nascondere la foto delle persone più care: un lavoretto da fare insieme ai più piccoli

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Lo schermo, lo specchio, e l’abisso

Tra il ludico e il dilettevole ◆ Dai film alla spiaggia, alcune riflessioni sull’inesauribile bisogno di divertirsi

Uno schermo non serve solo per schermare, sfruttando una superficie per proteggere, ma sullo schermo – quello cinematografico per esempio – si può anche proiettare. Allora lo schermo diventa una superficie per proiettare immagini, ma non solo: anche noi spettatori, quando guardiamo un film, proiettiamo sullo schermo il nostro mondo interiore, i nostri valori, i nostri desideri, i nostri ricordi e le nostre aspettative. Per questo lo schermo si carica di un valore aggiuntivo, che è quello di riflettere. Come ricorda l’antropologo Marc Augé in Casablanca – un libricino autobiografico ispirato al capolavoro di Michael Curtiz –, un film prende vita nella convergenza di tre sguardi: lo sguardo del regista, lo sguardo del protagonista, e lo sguardo dello spettatore. Oltre a proteggere e proiettare, lo schermo riflette, nel senso che ci restituisce sguardi diversi. Lo schermo è dunque allo stesso tempo protezione, proiezione, e riflessione. Cosa meglio di uno schermo cinematografico può, quindi, riflettere la nostra società, trasformandosi in uno specchio mutevole della nostra epoca?

Dopo esserci occupati, nelle scorse settimane, di scrittori in vacanza e di antropologia del turismo, parleremo di alcuni film proiettati nelle no-

stre sale in queste settimane. In apparenza un documentario e un film sul turismo balneare non hanno molto in comune con un film come Barbie o un blockbuster come Meg 2. Nondimeno, in tutti è presente l’elemento balneare: il filo conduttore sarà quindi, oltre che tematico, legato al medium del cinema. Tutti questi film, poi, riflettono un fenomeno che contrassegna la nostra epoca: la volontà, e forse anche la necessità, di vivere esperienze di puro divertimento senza conseguenze. È un po’ come se le persone cercassero, oggi più che mai, di staccare la spina, di divertirsi senza pensare.

L’imperativo del lasciarsi andare può essere vissuto pienamente solo in un contesto in cui non ci sono rischi, e ci si può abbandonare a divertimenti privi di conseguenze. Come allo zoo o in un safari organizzato, quando le belve sono molto vicine, ma pur sempre a distanza di sicurezza. O come quando si prende parte ai mille passatempi offerti dai villaggi turistici, e si sa già che facendo acquagym e hydrobike non c’è pericolo di farsi male. E anche là dove esistono piscine con le onde artificiali, queste non sono mai troppo alte da insidiare i bagnanti.

Quest’anno, il tema del turismo balneare è stato oggetto di due film

del Locarno Film Festival. Il documentario Vista mare di Julia Gutweniger e Florian Kofler, per esempio, racconta i retroscena di alcune note località balneari sulla costa adriatica italiana. Il film si apre, appunto, con una inquadratura che mostra una vista sul mare. Siamo all’inizio della stagione turistica, le spiagge sono ancora vuote, ma assistiamo al progressivo allestimento di quella gigantesca coreografia che farà da sfondo alla marea di turisti che, a poco a poco, invaderanno quelle stesse spiagge. Lungo tutto il documentario, la cinepresa indugia sui lavoratori che rendono tutto possibile, dall’organizzazione all’animazione, fino a al mantenimento e alla pulizia. Come un cerchio che si chiude, il documentario si conclude con la fine dell’estate, la partenza dei turisti e lo svuotamento delle spiagge: è l’epilogo della stagione balenare.

In Animal, film di finzione presente anch’esso a Locarno che ha fruttato all’attrice Dimitra Vlagopoulou un Pardo per la migliore interpretazione, la prospettiva si inverte: qui la regista Sofia Exarchou decide di raccontare il punto di vista di un gruppo di animatori che, sotto il sole cocente della Grecia, si preparano ad accogliere e intrattenere gli ospiti di un re-

sort all-inclusive. Muovendosi in uno scenario di decorazioni di carta, indossano costumi scintillanti e inscenano spettacoli di ballo per allietare le giornate dei turisti. Come indicano le note di regia che accompagnano il film, Animal mostra dall’interno quella macchina turistica che è l’hotel all-inclusive, invitando lo spettatore a porsi la seguente domanda: «Che cosa significa dover indossare lo stesso costume, interpretare gli stessi ruoli e recitare con la stessa energia e gli stessi sorrisi tutti i giorni?».

L’intrattenimento rassicurante, e le attività di svago senza conseguenze, non sono solo il timbro di fabbrica dei villaggi turistici, ma qualcosa di simile succede anche a chi, al cinema, si rilassa su una comoda poltrona mentre sullo schermo appare la sagoma inquietante del megalodonte di Meg 2. Estintosi circa 3 milioni di anni fa, si suppone che le dimensioni del megalodonte fossero di gran lunga più imponenti di quelle di un normale squalo. La supposizione è d’obbligo, perché le informazioni certe di cui si dispone non sono moltissime: pochi reperti fossili, principalmente i denti (megalodon in greco significa «grande dente»), e pochi altri resti non sufficienti per fornirci dati sul suo intero corpo. Speculazioni scientifiche a

parte, l’esistenza di questa inquietante creatura degli abissi, vero e proprio predatore dei predatori, rimane avvolta da un’aura di mistero, e ciò non fa che alimentarne la leggenda. E quando la leggenda prende a prestito informazioni scientifiche, poi finisce per mescolarle alla finzione. Non ci sorprende più di tanto, dunque, se l’aura leggendaria del megalodonte abbia fornito lo spunto alla realizzazione di un recente blockbuster che affida a Jason Statham il ruolo di protagonista. Se Meg 2 illustra la tendenza all’esagerazione e a un certo gigantismo tipico del cinema di oggi, Barbie, da parte sua, incarna un’altra figura di stile, che è quella dell’ammiccamento (il termine deriva dal latino micāre, «guizzare, scintillare»). Anche Barbie, in fondo, è un divertimento senza conseguenze. Il film sembra mettere, almeno in apparenza, in discussione la società, ma tutto rimane sul terreno dell’immaginario senza che gli spettatori debbano prendersi impegni con la realtà. Tuttalpiù, il film di Greta Gerwig trasmette l’impressione edificante di essere dalla parte giusta, di essere saliti sul treno della contemporaneità; e di poter percorrere in tutta tranquillità le tratte accidentate del politically correct, senza il timore di ritrovarsi dalla parte dei retrogradi.

TEMPO LIBERO ● ◆ Settimanale di informazione e cultura Anno LXXXVI 11 settembre 2023 azione – Cooperativa Migros Ticino 15
Still da Meg 2 (regia di Ben Wheatley), blockbuster attualmente nelle nostre sale. (YouTube)

Taglio sottile, cottura veloce

Gastronomia ◆ I tempi di cottura degli alimenti si possono ridurre sensibilmente a dipendenza di come li si

Oggi vi propongo una tecnica di cottura: tagliare sottile e cuocere rapidamente. Ovvero in 5 minuti. Ovviamente potete implementare o sostituire gli ingredienti a piacere: conta la tecnica. Certo, non tutti gli ingredienti sono adatti, ma la maggioranza lo sono. Le ricette sono creative, come piace a me.

Ossobuco, porcini, cetrioli, salsa verde. Emulsionate 120 g di yogurt bianco intero con 1 cucchiaio di salsa verde. Tagliate a 1 cm di spessore 600 g di ossobuco, battete le fette col batticarne e tagliatele a straccetti. Mondate 8 funghi porcini medi, tagliateli a fettine. Tagliate ad anelli 1 cipollotto. Tagliate a julienne 2 cetrioli e a fettine 4 cetriolini sott’aceto. Scaldate a fuoco medio basso in una casseruola 1 noce di burro con 1 spicchio di aglio, aggiungete la carne, cuocete per 1 minuto, sfumate con vino bianco, levate e tenete in caldo. Aggiungete un poco di burro, i funghi, il cipollotto e 2 cucchiai di soffritto e cuocete per 1 minuto e mezzo, mescolando e bagnando con vino bianco o acqua se necessario. Unite la carne e i cetrioli e cuocete per 30 secondi. Regolate di sale e di pepe e spegnete. Aggiungete i cetrioli sott’aceto e legate con lo yogurt alla salsa verde.

Fesa di vitello, cavolfiore, ananas. Tagliate a 1 cm di spessore 600 g di fesa di vitello, battete le fette col batticarne e tagliatele a straccetti. Mondate e tagliate a fiammifero 200 g di cavolfiore, 100 g di carote e 100 g di sedano. Scaldate a fuoco medio basso in una casseruola 1 noce di burro con 1 spicchio di aglio, unite la fesa e cuocete per 1 minuto, sfumate con vino bianco, levate e tenete in caldo. Aggiungete poco burro, il cavolfiore, le carote, il sedano e 2 cucchiai di soffritto di cipolle e cuocete per 2 minuti, mescolando e bagnando con

vino bianco o acqua se necessario. Unite la fesa e 100 g di ananas tagliato a dadini e cuocete per 30 secondi. Profumate con la buccia grattugiata e il succo di 1 lime o limone, 1 giro di salsa di soia e una grattata di zenzero, solo ora regolate di sale e di pepe e mescolate. Impiattate e servite. Maiale, sedano rapa, datteri. Tagliate 600 g di filetto di maiale a fettine di 1 cm, battete le fette col batticarne e riducetele a straccetti. Tagliate a velo 200 g di cipolle rosse. Tagliate a julienne 200 g di sedano rapa. Denocciolate 8 datteri grossi o 12 piccoli e spezzettateli fini. Scaldate a fuoco medio basso in una casseruola 1 giro di olio evo o di vinacciolo con 1 spicchio di aglio, unite gli straccetti e cuocete per 1 minuto, sfumate con vino bianco, levate e tenete in caldo. Aggiungete un poco del grasso prescelto, le cipolle e il sedano rapa e cuocete 2 minuti, bagnando con vino bianco o acqua se necessario. Unite gli straccetti e i datteri e cuocete per 30 secondi. Regolate di sale e di pepe e spegnete. Profumate con 1 giro di aceto balsamico e servite.

Petto di pollo, fegatini di pollo, melanzana. Tagliate a 1 cm di spessore 600 g di petto di pollo e riducetelo poi a straccetti. Tagliate a fettine 200 g di fegatini di pollo. Affettate 2 cipollotti. Mondate 1 melanzana, tagliatela a fiammifero. Scaldate in una casseruola 1 noce di burro con 1 spicchio di aglio e saltate il petto e i fegatini per 1 minuto e mezzo o poco più, sfumate con vino bianco, levate e tenete in caldo. Unite poco burro, la melanzana e i cipollotti e cuocete per 2 minuti, bagnando con vino bianco o acqua se necessario, poi unite il pollo e i fegatini e cuocete per 30 secondi. Regolate di sale e di pepe e spegnete. Profumate con Worcester e servite.

Per completare l’articolo sul tagliare sottile, vediamo come si fanno 2 ricette di pesce, sempre in 5 minuti di cottura e sempre tagliandolo sottile. Baccalà, zucca, porro, rafano. Sciacquate 600 g di baccalà dissalato e spezzettatelo al meglio. Tagliate a

Ballando coi gusti

Frittata di salame e fave

Oggi vi propongo due semplici frittate, una cotta in forno e una nel microonde.

Ingredienti per 4 persone: 8 uova, fave surgelate g 250, salame tipo cacciatorino g 80, 1 cipolla, 10 foglie di menta fresca, 2 cucchiai di pane grattugiato, 2 cucchiai di pecorino dolce, burro, olio, sale e pepe

Sbollentate le fave in acqua leggermente salata per 2 minuti dal bollore, scolatele e lasciatele intiepidire. Spellate il salame e tagliatelo a fettine. Mondate la cipolla, tritatela e rosolatela in padella con 1 cucchiaio di olio; poi aggiungete le fave, regolate di sale e di pepe e mescolate. Fuori dal fuoco incorporate parte del salame e delle foglie di menta. Sbattete le uova in una ciotola con poco sale e unitevi le fave, il salame, il pane, il pecorino tagliato a fettine e amalgamate. Versate la frittata in una tortiera pennellata di olio e guarnitela con le listarelle di salame rimaste. Scaldate il forno a 170° e cuocete la frittata sino a quando la superficie non sarà marroncina, più o meno 15 minuti. Servite subito guarnendo con le foglie di menta rimaste.

seziona

fettine 1 porro, a fettine 200 g di zucca. Scaldate in una casseruola 1 giro di olio evo o di vinacciolo con 1 spicchio di aglio, unite il baccalà e cuocete per 30 secondi, levateli e teneteli in caldo. Aggiungete olio, il porro e la zucca e cuocete per 2 minuti, bagnando con vino bianco o acqua se necessario. Unite il baccalà e cuocete ancora per 30 secondi. Regolate di sale e di pepe, spegnete. Profumate con erba cipollina tagliata fine con una forbice e macchiate con salsa al rafano. Calamaretti, patate e salsa al curry. Mondate e tagliate a striscioline, le più fini che riuscite a fare, 600 g di calamaretti mondati. Tagliate 300

g di patate a fiammifero. Mondate 1 cipollotto e tagliatelo ad anelli, se volete mettete altrettanto porro o altrettanti cipolla, carota e sedano. Stemperate in yogurt bianco intero 1 cucchiaio, di più o di meno a piacere, di curry in pasta. In una casseruola con 1 giro di olio evo o di vinacciolo con 1 spicchio di aglio rosolate i calamaretti per 1 minuto, sfumate con vino bianco. Unite ancora un poco di olio il porro e le patate e cuocete per 2 minuti, sfumando con vino bianco o acqua se necessario. Regolate di sale, spegnete, arricchite con la salsa al curry stemperata in yogurt, mescolando bene.

Frittatina di erbe e ricotta al microonde

Ingredienti per 2 persone: 4 uova, ricotta g 400, 1 porro, erbe aromatiche a piacere tritate sottili, 3 cucchiai di grana grattugiato, burro g 60, olio, sale e pepe

Mondate il porro, sbucciatelo e riducetelo a rondelle; poi cuocetelo nel microonde con poca acqua e un filo di olio per 10 minuti a 500 watt. Ammorbidite il burro per 1 minuto a 200 watt. In una ciotola sbattete le uova con sale e pepe, unite il grana, la ricotta, il burro morbido, il porro, le erbe e mescolate. Versate il composto in una teglia apposita e cuocete per 15 minuti a 500 watt. Potete prolungare la cottura di qualche minuto se gradite una frittatina più soda. Attendete almeno 4 minuti prima di sfornare e servire.

Settimanale di informazione e cultura Anno LXXXVI 11 settembre 2023 azione – Cooperativa Migros Ticino TEMPO LIBERO 16 Come si fa?
pixabay

Dolce, ruvida Romania!

Itinerari ◆ Un viaggio nel Paese latino più a Est dell’Europa, tra villaggi da fiaba, monasteri misteriosi e contrasti urbani

Vi potete immaginare in Svizzera un tassista che si ferma di botto, scende dalla macchina e si mette a ballare perché vi sta facendo ascoltare musica popolare della sua regione e non può fare a meno di alzare la braccia al cielo e muoversi a ritmo? No, nemmeno io. Per questo le mie vacanze, se posso, le trascorro in qualche Paese dell’Est. Tipo la Romania.

Siamo partiti insieme a Elena, che sta tornando a casa a Bucarest, dal figlio. Ci prestano un appartamento nuovo di zecca che lei ha comperato per lui, ormai trentenne, con un buon lavoro e una fidanzata. Siamo in periferia e questo ci piace. L’appartamento, rinnovato con cura, si trova dentro a un block, come si chiamano questi palazzoni dell’epoca comunista. Contrasto fra dentro e fuori. Noi nostalgici preferiamo il fuori, ma capiamo che per viverci, è meglio dentro.

Bucarest è una sorpresa. Tutta la Romania, in realtà, è una sorpresa.

La capitale è verde, con parchi meravigliosi, laghetti dove noleggiare una barca e provare a remare, giostre tra l’arrugginito e il mondo delle meraviglie, chioschetti dove prendere una buona birra Ursus e un gelato. La città è a strati. Si attraversa con bus, tram o metrò; il biglietto lo si può comperare con un tocco di postcard e in mezzo al traffico ci sono chiesine antichissime salvate come da noi si fa con le piante secolari. Restano palazzi e ville in stile Art Déco, testimoni di quando Bucarest era come Parigi, piena di artisti, università, mossa dai venti fiduciosi di inizio Novecento. Poi l’utopia che si fa strada e piano piano viene corrosa dalla follia umana. Nicolae Ceauşescu nel 1970 compie un viaggio a Pyongyang e si innamora della Corea del Nord. Del potere. Dell’idea di dinastia famigliare. Rade al suolo quartieri interi, esilia nei block migliaia di persone e lascia al freddo il Paese per costruire il secondo palazzo più grande del mondo dopo il Pentagono: Casa del Popolo, l’ha chiamata, come una beffa.

Quando Elena l’ha visitata qualche anno fa, ha rivisto passare davanti agli occhi tutto il corteo di morti e sacrifici che ha comportato. Lo stomaco le è rimasto chiuso per giorni.

Le badanti quando tornano a casa, a volte visitano il loro Paese. Ma soprattutto curano i propri genitori, fanno pulizie, vanno a trovare i parenti, conoscono le nuove fidanzate dei figli, portano fiori, dolci e frutta in cimitero, vanno dal dentista. In questo viaggio ne seguiamo tre. Oltre a Elena, c’è Sorina, che viene dal nord del Paese, e Silvia, di Timişoara, quest’anno Capitale europea della Cultura. Ma durante il viaggio conosciamo molte altre persone, soprattutto donne, perché

qui è chiaro che molto succede grazie a loro. Ci sono quelle che sono partite a lavorare per pagare gli studi, gli alloggi, le cure, ai propri cari. Ci sono quelle che vorrebbero tornare ma i figli continuano a chiedere: «Puoi lavorare ancora un anno o due, che mi sistemo?» Ci sono quelle che sono tornate ma non si trovano più: «Come faccio a vivere qui in campagna, che per vent’anni sono stata a Roma?» E quelle invece che non sono mai partite: «Le mie sorelle sono a Londra, i miei genitori sono a Londra, mio fratello è con loro. Sono io l’unica che si sente espatriata».

La Romania è un Paese capace di stupire il visitatore sia per la propria storia sia per la varietà

La seconda tappa del nostro viaggio però la visitiamo da soli. È la Transilvania, che abbiamo scelto perché pensiamo che Dracula sia divertente per i bambini. Invece risulta l’aspetto più deludente di tutto il viaggio. Il castello (impressionante, bellissimo) dove sembra sia nata la leggenda è molto turistico e in realtà ha poco a che vedere con il Conte Vlad. Tutto il resto del territorio, però, è uno spettacolo inatteso. In questa regione, ormai otto o nove secoli fa erano state deportate intere comunità di tedeschi dal Regno

d’Ungheria per popolare queste dolci e verdi colline. In Transilvania si passa così da un borgo all’altro fatto di case dai tetti rossi spioventi, chiese fortificate e birrerie.

Braşov, Sibiu, Sighişoara. Cittadine bellissime, da non perdere. E poi una scoperta nella scoperta: Viscri. Un villaggio dalla storia incredibile, che ci racconta Mihai, il proprietario dell’alloggio in cui soggiorniamo. «Negli anni Novanta, dopo la morte di Ceauşescu, la Romania ha fatto un accordo con la Germania: per ogni rumeno di lingua tedesca che emigrava un compenso veniva pagato al nostro Governo. Tantissimi sono partiti e hanno lasciato indietro interi villaggi abbandonati. Qui a Viscri sono rimaste sei famiglie. Per fare qualcosa hanno restaurato le facciate lungo la strada principale, le hanno ridipinte come dovevano essere una volta, con colori pastello e le decorazioni tradizionali. Poi sono venuti a sapere che il Principe Charles a Sibiu stava finanziando dei lavori di restauro, hanno creato una fondazione e adesso eccoci qui». Viscri è uno dei paesi più belli del mondo, questo è certo (tra l’altro il re oggi è proprietario di una di queste case). Non c’è niente, neanche un’insegna, che possa deturpare questa strada acciottolata bordata di case seicentesche; gli abitanti stanno facendo una petizione per istituire l’obbligo di lasciare le automobili ai margini del

paese. Ora che sono state ristrutturate anche le case dietro le facciate, vari proprietari le hanno adibite a pensioni; gli alloggi sono tutti con mobili e tappeti tipici delle comunità di Sassoni, come venivano chiamati i tedeschi che vivevano qui; la cucina è rustica e casalinga. Molti però sono ancora gli abitanti con una stalla sul retro della casa e la mattina si assiste a una piccola transumanza di giornata. In silenzio, alle sei, i pastori attraversano il paese e chi ha una mucca, delle capre o qualche pecora, le porta fuori in strada e queste seguono il gregge, fino a un pascolo poco distante. Alle otto di sera tornano, e ognuna, manco fosse il pedibus, rientra da sola nel suo alloggio.

Il nostro tassista, Valentin di Braşov, ex campione nazionale di box per tre anni consecutivi, inizia subito a parlare con Mihai della possibilità di portare i suoi ragazzi a fare allenamenti di pugilato qui, in questo ambiente salutare per anima e corpo.

«In Romania», ci dice, «ogni giorno qualcuno costruisce una nuova chiesa, ma per i progetti sociali, la sanità, l’educazione e lo sport, c’è ancora molto da fare».

Il giorno seguente Vali ci porta tra i monasteri della Bucovina, dove in effetti ci riempiamo della spiritualità di queste chiese così tanto affrescate che le nostre amiche di là ci spiegano: «Volevano disegnare tutta la Bibbia su ogni chiesa, per questo gli affreschi

sono anche all’esterno». Un’altra cosa che non sarebbe successa in Svizzera: le amiche di Sorina, che non conoscevo prima di arrivare dalle loro parti, hanno preso libero dal lavoro per portare in giro me e la mia famiglia dalla mattina alla sera, rifiutandosi persino di condividere le spese per la benzina. Oltre che dei monasteri, questa è la terra dei carretti con il cavallo (che i contadini usano per lavoro ma che si possono anche affittare per fare un giro nel bosco), del treno a vapore, delle ciorbe, minestre squisite con carne di pollo o di agnello e verdure.

Finiremo a Timişoara, dopo un lungo viaggio in treno da Est a Ovest; di questa città al confine con la Serbia, ci sorprende l’aria sveglia, culturale, universitaria. Qui gli edifici più belli non sono i sopravvissuti al fascino decadente di Bucarest, ma nemmeno sono messi in mostra come a Braşov: qui sono vivi e basta e hanno dentro il Politecnico, il teatro d’Opera, l’Università. Da qui è partita la rivolta che ha portato alla caduta di Ceauşescu. Silvia e il marito Constantin, che ne hanno fatto parte, ci portano al Museo della Rivoluzione. Sono emozionati, fieri. «Ce l’abbiamo fatta», ci raccontano, ma si rabbuiano presto. «Nel 1989 avevamo tutto per ripartire; la Romania non aveva un centesimo di debito e senza le follie del suo dittatore poteva diventare subito un Paese prospero. Ma velocemente abbiamo capito che siamo stati usati per un colpo di Stato da parte di gente che non voleva il bene del nostro Paese, ma solo il proprio benessere personale. E così si è ricominciato a lottare». Adesso il Paese è ancora corrotto e manca lavoro, ma si sente la fiducia che si sta risollevando. Nella Capitale europea della Cultura 2023, visitare Timişoara con due giovani degli anni Ottanta che lottavano per la libertà e il loro figlio Florin, giovane artista di oggi, che lotta per l’Arte, è un’esperienza che dà voglia di dire: «Mostrateci questo Paese, fateci partecipare, vogliamo vedere cosa succede qui».

Settimanale di informazione e cultura Anno LXXXVI 11 settembre 2023 azione – Cooperativa Migros Ticino TEMPO LIBERO 17
Informazioni Su www.azione.ch, si trova una più ampia galleria fotografica
Piazza Uniri a Timosoara in un’immagine scattata da Florin, in basso, a sin. casa a Viscri, a destra, veduta di monasteri della Bucovina.

COME SI PESCA IL TONNO?

Nel vitello tonnato, nell’insalata nizzarda o sulle tartine: il tonno può essere gustato in molti modi, e grazie al tonno «followfood» lo si può fare anche con la coscienza pulita. Infatti, il tonno «followfood» viene pescato con un metodo di pesca tradizionale e sostenibile, utilizzato alle Maldive già da 900 anni. Ogni pesce viene catturato a mano con un semplice amo su una lunga canna di bambù. Questo metodo evita le catture accessorie di tartarughe, squali o delfini, preserva gli stock ittici e protegge la natura. Inoltre, le aziende locali lavorano il pesce pescato direttamente in loco. Quando acchiapperai un po’ di tonno sostenibile alla Migros?

20x cumulus*

Settimanale di informazione e cultura Anno LXXXVI 11 settembre 2023 azione – Cooperativa Migros Ticino MONDO MIGROS 18
Filetti di tonno MSC FairTrade followfood con peperoncino bio 160 g Fr. 4.50
* Punti Cumulus moltiplicati per 20 dal 12 al 25 settembre
Filetti di tonno MSC FairTrade followfood in olio extravergine di oliva bio 160 g Fr. 4.90 Filetti di tonno MSC FairTrade followfood nel proprio succo 185 g Fr. 4.50
Fidarsi è bene, tracciare è meglio: con il codice riportato su ogni confezione ottieni trasparenza totale in termini di origine, metodo di cattura, trasporto e bilancio ecologico.

Le collane «portami con te»

Crea con noi ◆ Grazie a questi oggetti speciali i piccoli non sentiranno più la nostalgia delle persone amate

Una collana speciale, pensata per l’inizio del nuovo anno scolastico. Tre diversi personaggi, il gatto, il topo e l’orsetto, che nascondono una piccola tasca segreta in cui infilare la foto della mamma e del papà, per averli sempre con sé.

E se tra un gioco e una risata con i compagni della scuola dell’infanzia, il bambino ha un po’ di malinconia di casa, il suo piccolo amico potrà aiutarlo a superare il momento, ricordandogli che le persone a cui vuol bene sono sempre con lui.

Giochi e passatempi

Cruciverba

Dove si trova la più antica università europea?

E come si chiama?

Lo scoprirai a cruciverba ultimato leggendo le lettere evidenziate.

(Frase: 1, 7 – 4, 5, 9)

ORIZZONTALI

1. Elenco di professionisti

4. Un tipo di analisi

9. Infatti in latino

10. Un fiore

11. Dulcis in fundo

12. Vi si impastava il pane

13. Le iniziali della Arcuri

14. Un maschio nel porcile

15. Signore trasteverino

16. Assenza di passioni

18. La vuotano gli scrutatori

19. Lo è il frutto acerbo

21. Osso dell’anca

Stampate e ritagliate il cartamodello. Riportate le varie parti sul pannolenci nei colori scelti, fissatele con 1-2 spilli e ritagliatele. Dal pannolenci rosa, ritagliate dei piccoli cuoricini e andate a ricamare dei teneri nasini ai vostri personaggi.

Ricamate quindi bocche e sorrisi con il cotone da ricamo rosso, poi fissate due perline oro per definire gli occhi e completate a piacere con piccole perle decorative, come per esempio piccoli fiori o cuori.

Unite fronte (animale) e retro (tasca) ricamando i tre lati (laterali e inferiore) a punto festone. Per rifinire al meglio la collana potete ricamare con questo punto anche il lato superiore della tasca in modo che mantenga meglio la forma, specie se avete utilizzato del feltro o del pannolenci molto sottile.

A questo punto stampate le fotografie da inserire in formato 4x5cm, per renderle più robuste potete stamparle su carta spessa (120gr) e laminarle/plastificarle.

Tagliate ca 70cm di cordino elastico, fissatelo con qualche punto sui lati del vostro personaggio e inserite qualche perla decorativa. Chiudete il cordino con dei nodi scorrevoli, o lasciatelo di una lunghezza tale che il bambino possa agevolmente mettere e togliere la collana in autonomia.

Materiale

• Resti di feltro nei colori bianco, marrone, grigio, nero e rosa

• Qualche perlina color oro

• Filo da ricamo rosso e beige

• Forbici

• Cordino elastico per collane

• Qualche perla decorativa

• Stampante per il cartamodello (I materiali li potete trovare presso la vostra filiale Migros con reparto Bricolage o Migros do-it)

I vostri amici «collana, portami con te» sono pronti per accompagnare i vostri bambini durante il nuovo anno scolastico.

Buona scuola a tutti!

Tutorial completo azione.ch/tempo-libero/passatempi

Vinci una delle 2 carte regalo da 50 franchi con il cruciverba e una carta regalo da 50 franchi con il sudoku

22. Tredicesima lettera dell’alfabeto greco

23. È buono in Germania

24. Non conforme alla norma

VERTICALI

1. Nome femminile

2. Articolo spagnolo

3. Le iniziali del Duce

4. Persona che lavora... in punta di piedi

5. Lubrificante

6. Per l’appunto!

7. È scritta... senza consonanti

8. Dolorosa, penosa

10. Nome maschile

12. Unità di misura

13. Il mio francese...

14. Il primo pianto

15. Le iniziali dell’attrice

Rocca

17. La via dei ragazzi di Ferenc Molnar

20. Un goccetto soltanto!

21. Fa bollire il sangue

22. Non valido a Parigi

23. Le iniziali del musicista Allevi

Regolamento per i concorsi a premi pubblicati su «Azione» e sul sito web www.azione.ch

Soluzione della settimana precedente LO SAPEVI CHE… – L’essere umano adulto ha 206 ossa ma da neonato… Resto della frase: …NE HA CIRCA TRECENTO

I premi, tre carte regalo Migros del valore di 50 franchi, saranno sorteggiati tra i partecipanti che avranno fatto pervenire la soluzione corretta entro il venerdì seguente la pubblicazione del gioco. Partecipazione online: inserire la soluzione del cruciverba o del sudoku nell’apposito formulario pubblicato sulla pagina del sito. Partecipazione postale: la lettera o la cartolina postale che riporti la soluzione, corredata da nome, cognome, indirizzo del partecipante deve essere spedita a «Redazione Azione, Concorsi, C.P. 1055, 6901 Lugano». Non si intratterrà corrispondenza sui concorsi. Le vie legali sono escluse. Non è possibile un pagamento in contanti dei premi. I vincitori saranno avvertiti per iscritto. Partecipazione riservata esclusivamente a lettori che risiedono in Svizzera.

Settimanale di informazione e cultura Anno LXXXVI 11 settembre 2023 azione – Cooperativa Migros Ticino TEMPO LIBERO 19
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Viaggiatori d’Occidente

Metti Torino un giorno d’estate

Come si racconta una città? Torino, per esempio. Ci passo quattro giorni di fila e ho quindi modo di osservarla da diversi punti di vista. È ferragosto, come ai tempi del Marcovaldo di Italo Calvino (1963), l’unico a restare in città quando tutti la abbandonano: «Uscì a camminare per il centro, la mattina. S’aprivano larghe e interminabili le vie, vuote di macchine e deserte; le facciate delle case, dalla siepe grigia delle saracinesche abbassate alle infinite stecche delle persiane, erano chiuse come spalti. Per tutto l’anno Marcovaldo aveva sognato di poter usare le strade come strade, cioè camminandoci nel mezzo: ora poteva farlo, e poteva anche passare i semafori col rosso, e attraversare in diagonale, e fermarsi nel centro delle piazze. Ma capì che il piacere non era tanto il fare queste cose insolite, quanto il vedere tutto in un altro modo…». In realtà quest’oggi Torino non è troppo diversa dal resto dell’anno: nel tempo

del turismo urbano, parecchi visitatori stranieri hanno preso il posto dei cittadini per le strade; ma un certo senso di libertà è rimasto, così come la sfida di «vedere tutto in un altro modo». Dicevamo, da dove si comincia? Ogni città ha la sua narrazione ufficiale. Torino è dapprima romana e medievale. Poi, come testimoniano gli imponenti palazzi lungo le sue strade, cresce di dimensioni e diventa sabauda, risorgimentale, persino capitale d’Italia (sia pure per pochissimo tempo). Nel secondo dopoguerra tutto cambia: Torino è allora una fabbrica grigia, il cielo pieno di fumo, gli emigranti dal sud. Infine un ultimo giro di giostra. Torino è l’Olimpiade invernale del 2006 e la sua eredità di servizi, industrie creative, cultura, musei, case editrici, caffè, cioccolato, locali, vita notturna, calcio. Tutte queste città diverse sono inestricabilmente intrecciate l’una all’altra; storie diverse condividono la stessa geografia. E ogni

Passeggiate svizzere

tentativo di fare ordine nella mole imponente di informazioni si rivela velleitario. Meglio allora andarsene in giro senza troppi pensieri? Anche così non è facile. Se a Milano in piazza Duomo non dubiti mai di essere in centro, Torino è più complicata. Piazza Castello, dove si incrociano le vie principali, è il candidato naturale per questo ruolo, ma diversi quartieri hanno una forte identità: la collina con le sue case eleganti, il Quadrilatero, porta Palazzo con il più grande mercato delle pulci d’Europa (Balon), piazza San Carlo, il quartiere multietnico di San Salvario. E poi il Po, naturalmente. Se nella maggior parte delle città il fiume le divide in due parti ben distinte e aiuta quindi a orientarsi, a Torino il Po contiene e circonda la città nel suo abbraccio. Dopo aver esplorato il vecchio zoo abbandonato da anni sulla riva destra, finisco la giornata nei locali dei Murazzi, dall’altra parte. Se-

condo lo stereotipo i torinesi sarebbero rigorosi, seri, squadrati (come la pianta ortogonale della loro città), «falsi e cortesi» (e «la busiarda» è infatti il soprannome del quotidiano locale, «La Stampa»). Ma stasera qui si divertono parecchio.

Torino è sorprendentemente interessante, ma ogni tentativo di trovare un filo rosso, una gerarchia si perde nella varietà di esperienze. Forse ha ragione uno dei suoi scrittori più conosciuti, Giuseppe Culicchia (Torino è casa nostra, Laterza): «Torino è una città diversa a seconda di chi la vive e la osserva, di modo che oltre alla mia c’è anche la vostra. O meglio: ci sono le vostre. Siamo poco meno di un milione, da queste parti, perciò ci sono poco meno di un milione di città differenti».

Il mio ultimo tentativo è con Chiara, artista di strada e lettrice vis à vis Dal 2013 si è ricavata un confortevole spazio circolare in un incavo del Par-

L’orangerie della Fondation Hardt a Vandoeuvres

Per amor delle orangerie, un lunedì di prima mattina in piena estate, sto andando ad ascoltare i sessantanovesimi Entretiens sur l’antiquité classique della Fondation Hardt. A Vandoeuvres, comune prestigioso della campagna ginevrina, le querce secolari predispongono lo spirito a tutto. In particolar modo a Chougny, toponimo esatto dove si trova la fondazione voluta negli anni Cinquanta da un barone errante, considerata oggi un po’ il CERN dell’antichità classica, la concentrazione di querce centenarie è unica in Svizzera.

Accarezzata dalla luce mattinale, dopo un centinaio di passi sulla ghiaietta al numero due del chemin Vert, lungo un vialetto costeggiato da rose, scorgo l’orangerie (480 m) della Fondation Hardt a Vandoeuvres. Il biancore della pietra calcarea, le linee arrotondate, il tocco, agli angoli curvilinei, dei mattoni rossi tipo Fian-

dre, colpiscono subito. A fianco, una serra monumentale con dentro due putti. Da un’altra angolatura, seduto su una panchina nel parco, alle otto e trentaquattro, mezz’oretta in anticipo sul convegno, nel silenzio da studiosi spezzato solo dal getto della fontana e dai cinguettii, assaporo con calma l’orangerie risalente al 1860.

Opera di Samuel Darier (1808-1884), architetto ingaggiato dai proprietari dell’epoca, la famiglia Périer-Ador. Il barone Kurd von Hardt (18891958), nato a Kassel e sepolto qui in giardino, tubercolotico a Davos, lunghi viaggi in Toscana e in Ticino dove abita nel decennio 1938-1948, nel 1950 compra questa tenuta, nota ai tempi come La Chandoleine, per il suo sogno da mecenate. Il cui cardine, dal 1952, è questo convegno di una settimana che riunisce i massimi specialisti al mondo di un certo soggetto. Il lavoro confluisce poi, alla

Sport in Azione

lamento in piazza Carignano. Districandomi dalla folla anonima che passa senza guardare, con gli occhi bassi, mi siedo sul piccolo sgabello e scelgo da un cestino un biglietto con una parola chiave: «Significato». Chiara pesca dal suo carretto colorato un libro e ne legge una pagina per me solo. Sono Le città invisibili di Calvino (ancora lui!) e il cuore in fondo me lo diceva: «Inutilmente … tenterò di descriverti la città di Zaira dagli alti bastioni. Potrei dirti di quanti gradini sono le vie fatte a scale, di che sesto gli archi dei porticati, di quali lamine di zinco sono ricoperti i tetti; ma so che già sarebbe come non dirti nulla. Non di questo è fatta la città, ma di relazioni tra le misure del suo spazio e gli avvenimenti del suo passato … Una descrizione di Zaira quale è oggi dovrebbe contenere tutto il passato di Zaira. Ma la città non dice il suo passato, lo contiene come le linee d’una mano…».

fine, in un elegante tomo rilegato in tela blu e caratteri d’oro. Partendo da La notion du divin depuis Homère jusqu’à Platon, pescando a sentimento tra tutti i temi trattati, potreste leggere sul dorso, per esempio, titoli come Polybe, Le sacrifice dans l’antiquité, Le sanctuaire grec, Callimaque, Les jardins dans l’antiquité. Dal 2008, anno del restauro-adattamento in sala riunioni, è dentro l’ ex orangerie ora maculata dall’ombra proiettata dalle fronde di un vecchio frassino e con la quale sono già entrato in simbiosi, che i sette-otto specialisti prescelti, si sono ritrovati, assieme a un esiguo numero di uditori, a esporre i loro temi e scambiarsi vedute.

Cercando il bagno, nel sottosuolo dell’orangerie per eruditi, scopro una sala-cripta a volte, sostenuta da colonne. Una targhetta dorata, sulla porta, la definisce sala ipostila e indica a che punto qui siano intrippa-

ti con l’antichità. Un sorprendente cunicolo unisce l’orangerie alla serra. Alle nove del ventuno agosto iniziano i colloqui sul tema Gli spazi del sapere nell’antichità introdotti da Jean Terrier, ex archeologo cantonale ora presidente della fondazione. Colpo di scena, tragico: Raffaella Cribiore, eminente papirologa della Columbia University che aveva organizzato gli Entretiens di quest’anno, è morta annegata il tredici luglio a Finale Ligure. Ci alziamo (i sette studiosi seduti ai tavolini disposti a ferro di cavallo e gli altri presenti, tredici in tutto, tra presidenti, ex presidenti, uditori, pseudouditori come me, segretarie, bibliotecarie, console greco) in piedi per un minuto di silenzio. Viene letto un testo in memoria di Raffaella Cribiore, proiettata in un’immagine sul campo, intenta a decifrare, accovacciata in una cripta, alcune scritte funerarie.

Un pizzicotto, un bacio galeotto e il mondo che cambia

Nel 2013, sul podio del Giro delle Fiandre, Fabian Cancellara si appresta a ricevere quale ricompensa il bacio della Miss. Alle spalle della leggiadra fanciulla, Peter Sagan, secondo classificato, allunga la mano e le palpa la natica destra. Il corridore slovacco era già piuttosto noto per i suoi atteggiamenti «goliardici». Era il 1. di aprile, ma non fu uno scherzo. Fu un attimo di blackout. Peter se ne rese conto. Pubblicò le scuse via social. Jaja Leye le accettò senza farne un dramma e la cosa finì lì, senza gogna mediatica. Anzi, una buona parte dei fans si schierò dalla parte del corridore. «È cosa sarà mai ’sto pizzicotto sul sedere? E poi la biondina, dopo il fattaccio, è diventata famosa in tutto il mondo. Tra ospitate e interviste si starà guadagnando un bel po’ di soldini e le toccherà pure ringraziare Sagan».

Dieci anni più tardi le tv di tutto il globo diffondono le immagini del presidente della Federcalcio spagnola, Luis Rubiales, che in occasione della premiazione della Nazionale femminile iberica, fresca vincitrice della Coppa del Mondo, stampa un bacio appassionato sulla bocca della 33enne calciatrice Jennifer Hermoso. Il gesto è plateale. Non può passare inosservato. I due si conoscono, ma la donna non giustifica, anzi afferma di non aver gradito questo «eccesso di zelo» da parte del dirigente. La calciatrice riceve forti pressioni per ritrattare, onde evitare di veder compromessa la sua carriera ad alti livelli. Sonia Gomez, portavoce di «Confluencia Movimento Feminista» annuncia l’invio di una petizione al Governo spagnolo e alla Federcalcio in cui si chiede «che si prendano misure serie, poiché ci sono numerosi casi di donne molestate

dagli allenatori e costrette all’omertà per evitare penalizzazioni».

Anche Rubiales dichiara di aver ricevuto molte pressioni, ma per restare in sella. «Dobbiamo migliorare le nostre libertà, la cosa non è abbastanza grave da farmi rassegnare le dimissioni. C’è un motivo per subire una simile caccia alle streghe? È abbastanza grave per farmi partire? Reputo di no, quindi non mi dimetto».

Ignoro se questo atteggiamento sia figlio di una cultura «machista» ancorata a una Spagna antica, tutta corrida e toreador. Il dissenso comincia però a manifestarsi. I giocatori del Cadice, che milita nella Liga, scendono in campo ostentando uno striscione a sostegno della Hermoso con la scritta: «Siamo tutti Jenni». Dagli spalti si innalzano i cori: «Rubiales dimettiti». Nonostante il polverone, l’UEFA tace. Guarda caso il dirigente iberico è

pure vice-presidente del massimo organo calcistico europeo. In compenso si attiva, con giustificato zelo, la FIFA, il cui presidente, Gianni Infantino, era stato testimone diretto del fattaccio. La sentenza provvisoria comporta tre mesi di sospensione da qualsiasi attività federale. Soprattutto chiama allo scoperto la Federazione spagnola che, a sua volta, dapprima sospende Rubiales, poi ne richiede le dimissioni. La vicenda ha portato alla luce altri fatti inquietanti relativi a festini «hot» con giovani donne durante il picco della pandemia. Ciò nonostante la madre del buon Luis inizia uno sciopero della fame per portare l’attenzione sulle ingiustizie alle quali il figlio sarebbe sottoposto.

Insomma, Peter Sagan è passato al guado, mentre l’ex presidente della Federcalcio spagnola è ancora alle prese con le rapide di un fiume chia-

Quattro ganci incomprensibili, sul tetto, attorno all’apertura zenitale. Daniel Anderson, co-organizzatore dei colloqui, inizia a esporre il suo testo intitolato Drama in the Classroom; Classrooms on Stage. Dalle grandi vetrate con gli angoli smussati, tre per facciata ma solo tre senza tende, entrano cielo, alberi, fiori. Eleanor Dickey, classicista americana, porta una maglietta a motivo ceramiche attiche a figure rosse. Capto solo qualche parola, ogni tanto; almeno non dormo, come uno in completo grigio, verso le dieci. Anche gli studiosi, comunque, alla proposta di una pausa caffè, mi sembrano risollevati. Lascio andare tutti dentro la villa e mi godo ancora un po’ in silenzio, l’orangerie da fuori. Dove vigilano arance verdi in vasi ricamati di terracotta. Degne di nota le dalie; nascosti si trovano anche dei pomodori marmande.

mato «Emancipazione». Tra i due fatti c’è un decennio. Fatto di lotte, prese di coscienza, rivendicazioni di parità. Le ragazze del calcio ci stanno mettendo del loro in questo percorso lungo, faticoso, a volte estenuante. Il mondo dello sport, in generale, di strada ne deve invece percorrere ancora parecchia, se a premiare i campioni ci sono ancora delle leggiadre fanciulle dalle forme sinuose nascoste da pochi centimetri di tessuto. Alcuni anni fa, in Ticino, una signora che collaborava all’organizzazione di riunioni pugilistiche, riuscì per lo meno ad imporre che le ragazze salissero sul «ring» ad annunciare il susseguirsi dei «rounds» indossando jeans lunghi e non gli abituali «shorts» inguinali. Nessuno fece una piega. Ma forse quella donna era solo una visionaria anticipatrice di una sensibilità che deve ancora crescere.

Settimanale di informazione e cultura Anno LXXXVI 11 settembre 2023 azione – Cooperativa Migros Ticino 21 TEMPO LIBERO / RUBRICHE ◆ ●
di Giancarlo Dionisio
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ATTUALITÀ

Gottardo, il peso economico

Il deragliamento del treno ci ricorda l’importanza della galleria nel traffico delle merci in Europa

Pagina 25

L’assimilazionismo è fallito

La Francia è in crisi, lo dimostrano la ritirata in Africa e le rivolte interne a sfondo immigratorio

Pagina 27

Fra terroristi e mafiosi

Il sardo Enrico Mereu ci racconta la sua vita da carceriere a Torino e sull’Isola dell’Asinara

Pagina 28

Tra onda viola e onda verde: bilancio «a colori» di un quadriennio

Se la luce è un bene raro

I blackout flagellano il Sudafrica mentre i dirigenti locali criticano un certo ambientalismo ipocrita

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Votazioni federali ◆ La Svizzera si avvicina a un momento elettorale cruciale, con le donne che sembrano destinate ad aumentare la loro rappresentanza in Parlamento e il movimento ecologista in difficoltà, nonostante l’urgenza delle questioni ambientali

In queste settimane la campagna elettorale è entrata nella sua fase decisiva. La data delle elezioni, il 22 ottobre, è ormai vicina. I partiti hanno lanciato la volata finale. È il momento di battere forte le grancasse per mobilitare l’elettorato. Infatti, pochi punti percentuali potrebbero fare la differenza tra vittoria o sconfitta, dato che lo scarto tra i partiti è minimo. Sicuramente non vivremo più un’elezione come quella del 2019, quando la domenica del voto ci aveva consegnato un’Assemblea federale più giovane, più femminile e soprattutto più ecologista. I Verdi erano passati dal 7,1 al 13,2%, mentre le donne avevano conquistato il 42% dei seggi in Consiglio nazionale.

L’onda viola ha aumentato la visibilità delle questioni di genere e reso la cultura parlamentare meno maschilista e più inclusiva

Quattro anni più tardi, cosa rimane di quel voto storico, dopo almeno tre crisi: la pandemia, la guerra in Ucraina, l’acquisizione del Credit Suisse da parte di UBS? Nel 2019 ci si chiedeva quali conseguenze avrebbero avuto l’onda verde e viola sulla politica svizzera. Oggi sappiamo che a quelle due ondate ne sono seguite altre, quelle pandemiche, che hanno avuto un impatto devastante sulla vita del Paese. Il Covid-19 ha paralizzato tutto, inclusa l’attività politica a Berna. Entrambe le Camere sono state prese in contropiede. In marzo, durante la prima sessione post-elezione, i membri del Consiglio nazionale e degli Stati sono stati mandati a casa poco dopo essersi riuniti per la prima volta, e prima che le neoelette e i neoeletti potessero ambientarsi, allacciare nuovi contatti e stringere alleanze. Sono seguite sessioni difficili, tenute fuori da Palazzo federale, dietro mascherine e plexiglas. Tali condizioni non sono certo state ideali per soddisfare le attese di chi aveva votato le candidate donne e i partiti ecologisti.

A distanza di quattro anni possiamo affermare che l’ondata viola si è appiattita e ha avuto un impatto limitato. Come sottolinea Isabel Stadelmann, politologa presso l’Università di Berna, in politica il partito è più importante del genere. Lo abbiamo visto, ad esempio, quando il Parlamento ha dovuto decidere sull’innalzamento dell’età pensionabile per le donne. In Consiglio nazionale le rappresentanti femminili hanno votato come i colleghi di partito. Non c’è stata quindi una spaccatura tra i

due generi, come invece è avvenuto nella votazione popolare dove solo il 38% delle donne ha approvato la revisione dell’AVS.

In altre occasioni, soprattutto quando in Parlamento si è dibattuto su tematiche sociali, l’alleanza interpartitica tra donne ha fatto sentire la sua voce. È solo grazie a un voto che ha oltrepassato gli steccati partitici se la revisione del diritto penale in materia sessuale e una nuova definizione di stupro hanno fatto un passo avanti. Le parlamentari hanno promosso anche altri progressi in materia di parità di genere e di diritti, come la creazione di una rete di consulenza per le vittime di violenza o l’approvazione della legge sugli asili nido. Per raggiungere questi risultati, nel corso della legislatura le donne hanno dato vita a varie piattaforme volte a rafforzare il legame tra di loro: hanno fondato la squadra di calcio femminile FC Helvetia, hanno organizzato dopo trent’anni una sessione femminile e le Consigliere agli Stati cenano spesso insieme.

In sintesi si può dire che l’onda viola non ha forse soddisfatto tutte le aspettative, ma ha di certo aumentato la visibilità delle questioni di gene-

re, contribuito a cambiare la cultura parlamentare rendendola meno maschilista e più inclusiva, arricchito il dibattito con un ventaglio più ampio di opinioni, punti di vista e ha allargato l’agenda politica con nuove tematiche, trascurate in precedenza dagli uomini.

E che cosa si può dire dell’onda verde? Chi si aspettava progressi significativi in materia di politica climatica e ambientale è rimasto probabilmente deluso. Dopo i festeggiamenti per un successo storico, le forze ecologiste hanno dovuto fare i conti con alcune cocenti sconfitte. Ad esempio, nel giugno 2021, la revisione totale della legge sul CO2 è stata respinta di stretta misura alle urne, nonostante fosse sostenuta da quasi tutti i partiti. Lo stesso destino è toccato alle due iniziative agricole contro i pesticidi e per l’acqua pulita, affossate da una mobilitazione senza precedenti della popolazione rurale. Inoltre, con il loro forcing a favore dei due oggetti in votazione, le associazioni ambientaliste hanno fatto arrabbiare la lobby agricola che ha chiesto la sospensione della Politica agricola 22+, che prevedeva una maggiore salvaguardia ambientale. Inoltre, l’Unione svizzera dei con-

tadini si è alleata con il mondo economico in vista delle elezioni federali. Privi di un rappresentante in Governo e con il quinto gruppo parlamentare in termini di grandezza, per i Verdi non è certo stato facile influenzare l’agenda politica nell’ultima legislatura. Secondo l’alleanza ambientale, composta dalle organizzazioni BirdLife Svizzera, Greenpeace, Pro natura e WWF Svizzera, la responsabilità dei mancati progressi in ambito ecologico ricade sul Consiglio degli Stati, reo di aver bocciato varie misure a favore dell’ambiente promosse dal Consiglio nazionale: l’ultima in termini di tempo, l’obbligo di installare pannelli solari sugli edifici esistenti. Ad addolcire i vari bocconi amari ci ha pensato, in parte, l’adozione da parte dell’elettorato della nuova Legge sul clima con cui vengono promosse misure volte a raggiungere la neutralità climatica entro il 2050.

Rispetto a quattro anni fa, quando la crisi ambientale fece scendere in piazza migliaia di persone, attualmente altre tematiche dettano la campagna elettorale, come la migrazione, il gender, l’inflazione, l’aumento del costo della vita, la previdenza per la vecchiaia, l’approvvigionamento

energetico. Nonostante un’estate torrida e piogge torrenziali, nonostante il cambiamento climatico continui a essere una delle principali preoccupazioni delle svizzere e degli svizzeri, i Verdi non hanno quindi più il vento in poppa. Stando al barometro elettorale di luglio della SSR, i Verdi perderebbero 3 punti percentuali, scendendo al 10,2%. Un calo di consensi che affosserebbe anche le ambizioni del partito ecologista di ottenere un seggio in Governo.

E le donne sapranno bissare il successo di quattro anni fa? Un traguardo raggiunto grazie anche a una mobilitazione senza precedenti con lo sciopero del giugno 2019. L’obiettivo del movimento «Helvetia chiama!» è la conquista del 50% dei seggi in Parlamento. Per raggiungere questo traguardo, il movimento ha scommesso con i presidenti di partito affinché aumentassero la presenza di donne sulle liste elettorali. E sembra che «Helvetia chiama!» stia vincendo questa scommessa, visto che quasi tutte le compagini politiche l’hanno rispettata. Ma sarà il voto del 22 ottobre a dirci se vivremo di nuovo un voto storico o se sarà la destra conservatrice a vincere.

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L’importanza economica del San Gottardo

Svizzera ◆ Il deragliamento del treno in galleria, lo scorso 10 agosto, contribuisce a ricordare ancora una volta il rilievo del tunnel nel traffico delle merci in Europa. Intanto nei Paesi confinanti si ammassano tonnellate di prodotti pronti per il trasporto

La chiusura della galleria ferroviaria di base del San Gottardo sta suscitando in Svizzera, ma anche in Europa, parecchie preoccupazioni. A parte quelle del turismo ticinese, che conta molto anche sull’arrivo di ospiti dal nord fin verso l’inizio dell’autunno, o dei disagi provocati a coloro che si recano regolarmente nella Svizzera interna, ben più pesanti sono quelle del traffico merci tra il sud e il nord dell’Europa.

L’annuncio delle Ferrovie federali di tempi di risanamento ben più lunghi di quelli previsti all’inizio non ha certo contribuito a ridurre le preoccupazioni. Non a caso le FFS danno la priorità al traffico merci, poiché tanto in Svizzera quanto nei Paesi confinanti si ammassano tonnellate di merci pronte per il trasporto, per il quale è molto difficile trovare alternative. Per il momento, e solo per le merci, si è potuta concordare con l’Italia una deviazione verso il Sempione da un lato e il Brennero dall’altro. Paradossalmente l’incidente contribuisce a ricordare ancora una volta l’importanza del Gottardo nel traffico delle merci in Europa. Altrettanto paradossalmente, l’incidente contribuisce ad aumentare il traffico merci sulla strada, invece di diminuirlo come si sperava proprio con la galleria di base. Tuttavia, la strada non può sopportare un simile aumento del traffico, per cui cresce anche il numero di treni carichi in attesa della riapertura della galleria. Alcune prime cifre significative sottolineano l’importanza del collegamento ferroviario del Gottardo.

Nel 2021 ben 38 milioni di tonnellate di merci hanno attraversato le Alpi svizzere. Di queste, circa la metà ha utilizzato la linea ferroviaria del Gottardo

Nel 2021 ben 38 milioni di tonnellate di merci hanno attraverso le Alpi svizzere, in un senso o nell’altro. Di queste, la metà circa ha utilizzato la linea ferroviaria del Gottardo. Da notare che solo una piccola parte di questi spostamenti è dovuta al traffico interno: in effetti si tratta soltanto del 6% circa del totale, mentre il 16% utilizza la strada. Anche l’import/ export svizzero non è di grande importanza per la ferrovia. La stragran-

de maggioranza del traffico è dovuta al transito. Per quanto attiene a eventuali difficoltà nei rifornimenti, per la Svizzera non si segnalano problemi importanti. La maggior parte delle merci importate in Svizzera passa per i porti del nord: Rotterdam e Anversa e prosegue poi il viaggio verso l’Italia. Per il Ticino il discorso è un po’ più delicato. Ci sono alcuni prodotti che vengono dalla Svizzera e che utilizzano la ferrovia per giungere in Ticino. Alcune ditte di logistica hanno segnalato possibili difficoltà o ritardi dovuti alla scelta obbligata di alternative di trasporto. Per la totalità dei rifornimenti in Svizzera non dovrebbero esserci problemi particolari. Per il Ticino vale però anche il discorso sul traffico sud-nord. Alcune aziende ticinesi, il cui mercato principale è a nord delle Alpi, hanno fatto sapere di chiedere eventuali risarcimenti. Se ne è fatto interprete il presidente dell’Unione svizzera delle arti e mestieri Fabio Regazzi.

Data la situazione, si può facilmente dedurre che i maggiori problemi dovranno essere sopportati dal traffico di transito. Non ci sono infatti alternative che possano supplire al passaggio del Gottardo. È da qui che passa la maggior parte del traffico merci per ferrovia tra nord e sud dell’Europa. Secondo le ultime statistiche dell’Ufficio federale di statistica, dalla galleria del Gottardo sono passate 17,9 milioni di tonnellate di merci. Dal Brennero (ferrovia) 14,9 milioni e dal Sempione 10,4 milioni. Per contro, dalla strada del Brennero sono passate 39,7 milioni di tonnellate di merci, da quella del Gottardo 7,4 milioni, dal San Bernardino 1,4 milioni, dal Sempione 0,9 milioni e dal Gran San Bernardo 0,3 milioni. Come si vede, anche gli altri assi ferroviari e quelli stradali sono già parecchio carichi di traffico e la ricerca di vie alternative è molto difficile. Per quanto concerne la ferrovia, bisogna inoltre tener conto del fatto che il trasporto di container con un’altezza di quattro metri non è possibile ovunque. Per esempio questi treni non possono utilizzare la vecchia galleria del Gottardo. Quindi anche l’alternativa della ferrovia di montagna del Gottardo non potrà essere applicata ai 260 treni merci giornalieri che passavano per la galleria di base. Una parte di questi potrà utilizzare la

L’incidente e la Deutsche Bahn

Lo scorso 10 agosto un treno merci è deragliato nella galleria di base del San Gottardo, provocando ingenti danni difficili da riparare. Non è ancora possibile definire le tempistiche di un ritorno pieno alla normalità. Per ora si procede al recupero dei vagoni ancora nel tunnel (i lavori di sgombero dovrebbero concludersi entro fine mese). Il convoglio – composto da 30 vagoni provenienti dall’Italia e diretti in Germania – era di composizione prevalentemente tedesca. In particolare – scrive la «SonntagsZeitung» – era trainato da due locomotive della Deutsche Bahn. Della decina di vagoni non danneggiati – precisa la testata – otto sono registrati in Germania, uno in Svizzera e uno in Svezia. Conduceva il treno un macchinista delle FFS.

L a Deutsche Bahn, che appartiene interamente allo Stato tedesco, mo -

A partire da quale età

mia figlia può aprire un conto?

nopolizza i servizi ferroviari a lunga distanza e gestisce l’infrastruttura ferroviaria tedesca. Quest’ultima – afferma il nono Rapporto sul settore ferroviario preparato dalla Commissione dei monopoli di Berlino – è attualmente in cattive condizioni. «Viene definita limitata, antiquata e soggetta a guasti e i deficit esistenti si riflettono soprattutto nei ritardi dei treni su vasta scala» (che tra le altre cose non permettono di rispettare le coincidenze). Senza contare gli scioperi e le cancellazioni improvvise. Jürgen Kühling, presidente della citata Commissione dei monopoli, dalle colonne della «Süddeutsche Zeitung» ha sottolineato che sono frequenti i casi di rottura dei mezzi, mentre le nuove regole sul traffico imposte dalla crisi energetica, come la priorità ai servizi merci che trasportano carbone, hanno creato ulteriori problemi. / Red.

galleria del Lötschberg. La BLS che la gestisce precisa però che, in media, il tratto in galleria viene utilizzato da 80 treni merci al giorno, per cui al massimo può accettare un treno in più ogni ora e per direzione. È comunque difficile valutare i danni complessivi che l’economia potrebbe subire. Secondo la Hupac, il maggiore attore del traffico combinato di merci in Europa, il rallentamento di alcune economie si è già fatto sentire nella misura di una diminuzione del 5% dei volumi trasportati rispetto al 2022, mentre si prevede che un 15% circa verrà trasferito sulla strada, e questo già prima della chiusura della galleria di base del San Gottardo. Problemi erano già sorti anche a causa degli aumenti dei prezzi dell’energia, di qualche lacuna nei rifornimenti e nella puntualità delle forniture, per cui un trasferimento sulla strada era già in atto. Trovano così nuova linfa le esigenze di una seconda linea di base attraverso le Alpi. La BLS e la tratta del Lötschberg si stanno preparando.

La consulenza della Banca Migros ◆ Si parte dai 12 anni ma conta soprattutto la «capacità di discernimento» di ogni minorenne

Mia figlia ha 13 anni e vorrebbe versare la sua paghetta su un conto. Può già aprire un conto a suo nome? Quali aspetti bisogna considerare?

Per aprire un conto non esiste un’età minima fissa prevista dalla legge. Piuttosto è fondamentale che i minorenni siano «capaci di discernere» per poter gestire il proprio denaro. La maggior parte delle banche (tra queste rientra anche la Banca Migros) presuppone una capacità di discernimento a partire dall’età di 12 anni e generalmente offre l’apertura di

un conto a partire da questa età. Per la gestione della paghetta sua figlia può quindi aprire un conto privato a proprio nome. A tal fine deve tra l’altro identificarsi online oppure in una succursale con un documento d’identità valido.

Il relativo conto privato si basa sull’avere giacente sullo stesso. Sua figlia può prelevare solo i soldi che vi ha depositato e quindi non corre alcun rischio di indebitarsi. In genere un conto privato di questo tipo prevede anche una carta di debito. In questo

modo sua figlia può prelevare denaro ai Bancomat oppure effettuare piccoli acquisti senza utilizzare contanti. Inoltre tramite il conto è possibile anche effettuare transazioni impiegando l’app di pagamento Twint. Tramite mobile banking sua figlia mantiene sempre sotto controllo le sue finanze. I conti per bambini e giovani presentano in genere diversi vantaggi: da un lato la Banca Migros non addebita commissioni di tenuta per il conto privato Free25 e, dall’altro, i giovani titolari beneficiano di interessi van-

taggiosi sui loro risparmi, con il conto privato Free25 addirittura fino ai 25 anni. A questa offerta si aggiungono altri vantaggi, tra cui gli sconti sugli acquisti e altre agevolazioni.

Suggerimento Se vuole già preparare sua figlia all’indipendenza finanziaria, può aprire un conto di risparmio a suo nome subito dopo la nascita. La facoltà di disporne passa automaticamente a sua figlia non appena compie i 18 anni.

Settimanale di informazione e cultura Anno LXXXVI 11 settembre 2023 azione – Cooperativa Migros Ticino ATTUALITÀ 25
Barbara Leo Consulente alla clientela presso la Banca Migros Il punto dove è deragliato il treno merci nella galleria di base del San Gottardo. Situazione al 6 settembre scorso. (Keystone)

Divertimento per i bambini alla spiaggia di Snorri e gara di scivoli al Wikingløp per i grandi (sotto)

Partecipa e vinci

Domanda

Come si chiama il parco acquatico situato vicino all’Europa-Park?

Partecipa su www.migmag.ch/ rulantica-fr

Da settembre 2023 è possibile partecipare alle estrazioni esclusivamente online. La partecipazione resta gratuita.

Termine d’invio: 24 settembre 2023

Condizioni di partecipazione: www.migmag.ch/ condizioni-dipartecipazione

Tuffati nel mondo acquatico!

I media Migros ed Europa-Park mettono in palio dieci soggiorni di un giorno nel mondo acquatico di Rulantica per tutta la famiglia – due adulti e due bambini – con un ingresso ciascuno del valore di 176 euro

Nelle immediate vicinanze dell’Europa-Park si trova Rulantica, un mondo acquatico unico che offre un fantastico divertimento acquatico al coperto e all’aperto in ogni periodo dell’anno. Insieme al Camp Resort, i sei hotel a quattro stelle di proprietà del parco completano in modo ideale la vacanza breve al parco divertimenti Europa-Park.

Chi desidera immergersi nelle acque a Rulantica, aperta tutto l’anno, troverà numerosi scivoli, una grande piscina a onde e il fiume selvaggio «Vildstrøm».

Nel «Tønnevirvel», un’attrazione speciale per parchi acquatici progettata dall’azienda Mack Rides, gli ospiti si cimentano in una battaglia acquatica in gondole che ruotano nell’acqua cristallina. Dal 2023 «Vikingløp», lo scivolo di

velocità più grande d’Europa, regala ancora più azione. Gli ospiti gareggiano tra loro scivolando su tappeti in otto tubi per una lunghezza di 1500 metri.

Sul lettino o sullo yacht VIP?

Gli ospiti più giovani possono scatenarsi e rinfrescarsi a piacimento sulla spiaggia di Snorri, mentre i genitori si rilassano a pochi metri di distanza nel -

la nuova area «Snorri’s Dune». Nell’ampia area esterna del mondo acquatico di Rulantica ci sono anche numerose altre possibilità per sdraiarsi nel verde e godersi il sole del Sud della Germania. Ancora più relax lo si trova sui divani da spiaggia prenotabili, nonché sulle accoglienti isole da spiaggia, le poltrone da spiaggia e i «Rulantica VIP Yacht». mm

Settimanale di informazione e cultura Anno LXXXVI 11 settembre 2023 azione – Cooperativa Migros Ticino MONDO MIGROS 26
CONCORSO
Immagine: zVg

In piedi il generale Nguema che ha guidato il colpo di Stato del 30 agosto in Gabon. L’ultimo golpe riuscito nella ormai ex Africa francese (Keystone)

L’assimilazionismo è fallito

Francia ◆ La ritirata in Africa condita dalle rivolte interne a sfondo immigratorio è un segno inequivocabile della crisi della République

Il presidente francese Emmanuel Macron ha un’inclinazione a smentirsi. In questo caso il testacoda è clamoroso. Dopo aver fatto fuoco e fiamme contro i golpisti nigerini, trattati da intoccabili in quanto non «legittimi», sottobanco ha ordinato ai suoi militari di trattare il ritiro, non sappiamo quanto graduale e limitato, dalle basi installate nel Paese saheliano. Primo passo verso un «ridispiegamento» strategico della Francia in Africa e nell’Oltremare. In parole povere, buona parte degli avamposti militari piazzati a protezione degli interessi e del prestigio dell’Esagono nell’ex impero verranno chiusi, le missioni ridotte o riciclate.

Dopo gli otto colpi di Stato riusciti (dei falliti si è perso il conto) in tre anni nella ormai ex Françafrique – dall’ultimo, quello del 30 agosto in Gabon, già perno organizzato da Parigi per salvare la fedele famiglia Déby, alla Guinea, dal Mali al Burkina Faso (entrambi doppi) e gli ultimi disastri estivi di Niamey (capitale del Niger) e Libreville (Gabon) – all’Eliseo non restavano alternative. Gli stessi sondaggi di opinione pubblica mostrano che la maggioranza dei francesi favorisce il ritiro da posizioni coloniali oramai insostenibili.

Il trauma di Suez

Questa sconfitta ricorda il trauma della fallita spedizione franco-britannica a Suez, nel 1956, ultimo urrà dei due grandiosi imperialismi. Sull’onda della contemporanea guerra d’Algeria, quel disastro segnò l’inizio della fine della Quarta Repubblica. Questo potrebbe produrre il tramonto della Quinta? Forse. Di certo non c’è un generale de Gaulle che attende in panchina a Colombey-les-deux-ég-

Contro gli «infedeli»

Pakistan ◆ Le minoranze religiose sono sotto tiro

Lo scorso agosto, in Pakistan, 22 chiese sono state date alle fiamme, una novantina di case distrutte e un cimitero è stato vandalizzato. Questa volta non ci è scappato il morto, come quasi sempre succede in queste occasioni, ma solo per caso. Un numero imprecisato di cittadini pakistani di religione cristiana sono stati picchiati e, secondo testimoni, torturati dai «difensori della fede»: centinaia di persone, che a Faisalabad (Punjab) e dintorni hanno scatenato l’ennesima caccia alle streghe, meglio conosciuta come caccia ai blasfemi, mentre la polizia rimaneva a guardare «per non esacerbare ulteriormente gli animi». Il linciaggio questa volta è stato motivato, secondo la ricostruzione delle forze dell’ordine pakistane, da due pagine del Corano strappate e scarabocchiate. I «blasfemi profanatori» del sacro libro avrebbero lasciato le fotocopie delle loro carte d’identità con nome, cognome e indirizzo. Che sono tornate utili al mullah che dal pulpito ha incitato alla punizione dei due cristiani in particolare e dei cristiani tutti: perché, per loro, l’unico sacro libro che non deve essere toccato è il Corano, mentre dare alle fiamme libri sacri e luoghi di culto di altre religioni, così come ammazzare o riempire di botte gli «infedeli» è cosa giusta e auspicabile.

sere severamente punita. Pochi giorni prima delle chiese date alle fiamme, il Parlamento aveva approvato una mozione, l’ennesima, per inasprire le pene per i blasfemi, che nei casi più gravi rischiano la morte. Anche se un paio d’anni fa il Parlamento europeo aveva emanato una risoluzione che chiedeva la revisione dei rapporti commerciali con il Pakistan citando a motivo «l’uso allarmante delle accuse di blasfemia e l’incremento esponenziale degli attacchi contro giornalisti e attivisti». Perché la legge sulla blasfemia, in Pakistan, può essere adoperata contro chiunque e viene usata sia per risolvere liti tra vicini, appropriarsi della terra o delle case di parenti e conoscenti, sia per intimidire e ricattare avversari politici, attivisti, giornalisti, dissidenti.

lises (Alta Marna). La prospettiva di una profonda crisi politica scatenata dalla perdita delle post-colonie e insieme dalle rivolte interne, a sfondo di immigrazione maghrebina e africana, è comunque realistica.

Francofobia galoppante

La Beresina africana colpisce infatti la République in una fase di fragilità accentuata. Incrocio di crisi economica, sociale ma soprattutto culturale. Identitaria. La ritirata africana condita dalle rivolte interne a sfondo immigratorio suona smentita dell’assimilazionismo. Tesi e prassi della Francia nelle colonie, oltre che internamente. Opposta al multiculturalismo di matrice inglese, di cui i francesi temevano, a ragione, gli effetti di separazione nella società metropolitana. Il guaio è che gli stessi effetti, forse moltiplicati, derivano dall’assimilazionismo fallito. L’idea di trasformare popolazioni aliene in cittadini a pari titolo, animata da un’ideologia progressista di fondo illuminista, è restata in parte notevole allo stato ideale. In Francia, ancor più nelle ex colonie. Dove se ne avvertono i rimbalzi diacronici, a più di mezzo secolo dalle indipendenze degli anni Sessanta. Non solo l’assimilazione è fallita, ma ha prodotto una francofobia galoppante nelle Afriche equatoriali e occidentali dove ancora circola il franco Cfa.

Bisogna prendere atto che la conciliazione fra universalismo e (neo) colonialismo è impossibile. Constatazione dolorosa e che in certa misura spiega la contraddizione dell’Eliseo.

Il fallimento francese sigilla anche la fine dell’utopia eurafricana che era alla base del progetto europeista. Negli anni Cinquanta del Novecento la Francia si era battuta per integrare le

sue colonie – oltre ovviamente ai dipartimenti algerini – nella nascente Comunità europea. Non avendo le risorse per pagarsi l’impero, pensava di poterle estrarre per buona quota dai soci fondatori della Cee, tedeschi in testa. Alla fine, pochi giorni prima della firma dei trattati di Roma (25 marzo 1957), si raggiunse un compromesso per l’associazione (integrazione morbida e limitata) delle colonie. Poco dopo si alzava, irrefrenabile, l’ondata delle indipendenze, fine del progetto Eurafrica in salsa francese.

Berlino e Roma si smarcano

Oggi constatiamo che tedeschi, italiani e altri partner europei che avevano finora sostenuto, anche con modesti contingenti militari, le ambizioni di Parigi in Africa – questione di grandeur – si sfilano apertamente dalla leadership francese. Berlino e Roma non hanno pensato nemmeno per un minuto di valutare le proposte di Parigi che miravano a organizzare un controgolpe immediato. La prospettiva di combattere una guerra neocoloniale nelle Afriche profonde non piace a nessuno. Motivo in più, per Macron, di impostare l’imbarazzata marcia indietro.

L’aspetto più grave per la Francia è però la contrapposizione con l’America. Washington ha accettato da subito di negoziare con i golpisti, quando ancora Parigi tuonava contro gli usurpatori. Realpolitik. Senza intesa con gli americani, le velleità tardo-imperiali della Quinta Repubblica perdono di senso. Lo stesso scenario di Suez, 67 anni dopo. Nevrosi geopolitica, apparentemente incurabile. Intanto russi, turchi e cinesi stanno riempiendo il vuoto francese. Non c’è proprio da festeggiare per noi europei.

Non è la prima volta che succede, e la lista è troppo lunga per essere riportata qui, e di certo non sarà l’ultima. Pochi giorni dopo, difatti, è toccato a cittadini di religione Ahmadi, che sono musulmani ma in Pakistan sono dichiarati «non musulmani» per legge e considerati più blasfemi e infedeli di chiunque. Inutile dire che i politici di ogni partito, tranne quelli del partito islamico del Tehreek-e-Labbaik Pakistan (organizzazione semi-terroristica in realtà, ma in Pakistan il confine è labile) che invece al linciaggio ha partecipato con entusiasmo, si sono affrettati a condannare l’insano gesto con vuote quanto tiepide parole.

D’altra parte erano troppo impegnati a protestare contro la Svezia che si rifiuta di condannare chi strappa o brucia due pagine del Corano. Difatti gli unici due «partecipanti» al linciaggio su cui pende una denuncia sono le due vittime principali. Gli altri, gli assalitori, sono stati presi e rilasciati. Alcuni, mentre gli altri si sono volatilizzati. Le forze dell’ordine del Punjab, quelle stesse che una settimana dopo hanno portato in galera e massacrato di botte i membri del Pashtun Tahafuz Movement che chiedevano giustizia, sono d’accordo con la brigata di incendiari: la blasfemia (sempre e solo quella contro i musulmani di confessione sunnita) deve es-

Tra il 1987 e oggi più di duemila persone sono state accusate di blasfemia e molte, anche se accusate ingiustamente, sono state attaccate dalla folla inferocita o ammazzate a sangue freddo, perfino in tribunale davanti alla corte incaricata di giudicarle. Senza contare il capitolo dolente delle ragazze di altre confessioni religiose rapite, stuprate, convertite a forza all’Islam e poi costrette al matrimonio. Il fatto è che la deriva religiosa integralista è ormai una realtà consolidata e destinata semmai a peggiorare. Alle porte di Islamabad, la tomba dell’assassino dell’ex-governatore del Punjab Salman Taseer, ammazzato per aver parlato contro le leggi anti-blasfemia, è diventata meta di pellegrinaggi. E l’integralismo religioso viene adoperato dal Governo come le famigerate brioche di Marie Antoinette: l’economia è a pezzi, non ci sono posti di lavoro, un Governo di fantocci segue a un Governo di burattini tutti quanti manovrati dall’esercito e dai servizi segreti, i civili vengono giudicati da corti militari, la gente scompare e viene ritrovata morta ai bordi delle strade; giornalisti, professori e attivisti vengono prelevati, minacciati e ammazzati.

La popolazione comincia a mormorare o a cercare risposte? Invece che posti di lavoro, elezioni non truccate e libertà civili, regaliamogli una bella dose di fondamentalismo e mandiamoli a protestare. Non contro il Governo ma contro le minoranze religiose, che sono teste di ponte dei nemici alle porte. O contro l’Occidente islamofobico, colonialista e blasfemo che non soltanto si rifiuta di adeguarsi alle sacre e universali leggi della Sharia mandando a morte i vignettisti di Charlie Hebdo o chi brucia il Corano, ma che minaccia costantemente di tagliare i fondi al «Paese più pericoloso del mondo».

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Chiesa incendiata nei pressi di Faisalabad lo scorso agosto. (Keystone)

In carcere con Totò Riina e i capi delle BR

Italia

Enrico Mereu, ex agente di sicurezza a Torino e all’Asinara, ricorda gli anni bui del terrorismo e della lotta alla mafia

Angela Nocioni, testo e foto

Il generale Carlo Alberto Dalla Chiesa se lo prese, giovanissimo, nel gruppo dei «suoi» 15 agenti di sicurezza nel carcere Le Nuove di Torino per occuparsi dei detenuti delle Brigate Rosse (BR) nella seconda metà degli anni Settanta, anni di piombo tetri dentro e fuori dal «bunker» dove furono rinchiusi anche Renato Curcio e Alberto Franceschini, tra i fondatori delle BR. Di quell’arruolamento di mezzo secolo fa – Enrico Mereu, occhi chiari e sorriso aperto – parla ancora con orgoglio: «Il generale Dalla Chiesa diceva che i sardi gli risultavano essere i meno corruttibili, per questo mi volle con sé».

«Attraverso l’arte sono riuscito a sopravvivere alle atrocità della prigione e a esprimere il dolore che vedevo e che mi contagiava»

Lui, sardo di Nuoro, con nove fratelli e un padre con l’ammirazione per la divisa, artista è sempre stato. Ha sempre disegnato. Sui muri, sui sassi, su quel che gli capitava in mano. Guardia carceraria diventò appena maggiorenne per non dispiacere ai genitori, per mandare i soldi a casa. Oggi dice: «È quel che m’ha salvato. Sono riuscito a sopravvivere alle atrocità del carcere e a esprimere il dolore che vedevo e che mi contagiava. Eravamo tutti in galera, anche noi. Chiunque lavori “dentro” condivide la sorte di chi è carcerato. Può negarlo, comportarsi da carceriere, ma è carcerato pure lui. Avere smesso, essere uscito vivo da lì e poter scolpire il legno, che è quel che preferisco fare ora in questa fase della mia esistenza, è stato come uscire vivo dalla guerra». Mereu accarezza il legno del suo tavolo sospeso sopra lo sciabordio delle onde di Cala Oliva, nell’isola dell’Asinara, a nord della Sardegna. Il mare è ovunque nella sua casa affacciata su cielo e acqua, colma di statue intagliate al

riparo dell’ombroso pergolato d’uva e d’un albero di fichi profumati. All’Asinara è arrivato nel 1980, quando il gruppo di Dalla Chiesa fu sciolto e gli agenti sparpagliati per l’Italia. «A Torino le BR spararono ai miei colleghi Lo Russo e Cutugno. Quando perquisirono le celle dei brigatisti e dissero che in quella di Franceschini era stata trovata la lista con i nomi degli agenti da eliminare, tra cui il mio, io fui mandato qui». È stato a lungo nel carcere-bunker di Cala Oliva costruito per i capi delle BR, dove poi fu rinchiuso il capo della Nuova Camorra Organizzata Raffaele Cutolo e, molti anni dopo, il capo del clan mafioso dei Corleonesi Totò Riina. Lui li ha sorvegliati entrambi. «Sono sempre stato ritrattista e paesaggista, ma ora amo scolpire il legno dei rami spiaggiati», dice Mereu. «Non taglierei mai un albero in vita mia, nemmeno se fosse bruciato. Quando lavoravo in carcere mi portavano rami grossi i colleghi delle pilotine che andavano a rispondere agli sos delle barche nelle Bocche di Bonifacio. Lì spesso trovavano tronchi in mare, li legavano con le cime alla nave pilota e me li portavano». Ora i rami se li trova da sé, tra quelli portati dalle correnti sulle coste dell’Asinara di cui è l’unico residente, l’unico a viverci anche in inverno quando qui ci sono solo capre, asinelli e il maestrale soffia forte.

«Vedo un tronco con un’immagine dentro e cerco di tirarla fuori. Di liberarla dal resto del legno. I fantasmi della prigione mi hanno accompagnato per anni. Ho visto morte, dolore, umiliazione, sofferenza. Mi ha perseguitato l’immagine di un detenuto sgozzato che ho tirato fuori da una pozza di sangue, gli avevano aperto la gola da orecchio a orecchio. Lo vidi, urlai, i colleghi non rispondevano, gli altri detenuti lo guardavano e non lo toccavano. L’ho sollevato, me lo sono messo sulle spalle e l’ho portato in infermeria. S’è salvato. Ho saputo poi che era un confidente di giustizia». Un collaboratore? «Sì, l’avevano

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Mereu non l’ha vista. Non c’era ancora nel 1979 (annus horribilis per la Sardegna, dove vennero sequestrati tra gli altri anche Fabrizio De André e Dori Ghezzi) quando nel bunker di Fornelli i detenuti delle BR e dei Nuclei Armati Proletari riuscirono a devastare le «gabbie» con esplosivo al plastico nascosto nelle macchinette del caffè, le classiche moka.

Fu una rivolta clamorosa che portò al trasferimento altrove dei detenuti brigatisti. «Sono arrivato subito dopo la “Protesta delle caffettiere”, m’hanno mandato qui proprio perché le BR non c’erano più. È stata durissima lo stesso. Il migliore di tutti era il camorrista Raffaele Cutolo. Lo chiamavano “il professore”. Ci spiegava sempre tutto, ci difendeva col direttore del carcere. Gli diceva: dategli almeno qualcosa per coprirsi quando diluvia. Sono sempre zuppi quando piove».

«Il migliore di tutti era il camorrista Raffaele Cutolo. Lo chiamavano “il professore”. Ci spiegava sempre tutto, ci difendeva»

sgozzato per quello». «Ho visto anche tante botte date dalle guardie. Quando c’erano le proteste, poi, succedeva di tutto. Una volta ero a Torino in una trattoria a pranzo con colleghi. C’era un tavolo accanto a noi con uomini che ci fissavano. Noi facevamo finta di nulla, ma sotto il tavolo stavamo già pronti a tirar fuori la pistola. Erano anni terribili quelli. Da quel tavolo si alzò il più grosso, si avvicinò, per fortuna tirò fuori subito il tesserino: Digos, polizia di Stato. Lo mise sotto il

naso di un mio collega. Disse: “Mi riconosci? No? Mi hai rotto il naso e i denti. Non ti faccio niente soltanto perché sei un poveretto”. Era un infiltrato. Durante una protesta, molto tempo prima, le guardie erano entrate a menare i detenuti nella cella dove era stato messo lui. Il mio collega lo aveva preso a ginocchiate mentre lui gli diceva: “Cosa fai? Sono un collega”. Ma il pestaggio è andato avanti, il collega non gli ha creduto». La rivolta più famosa dell’Asinara però

Mereu si illumina. «Nelle varie prigioni in cui sono stato in missione, perché ci mandavano a volte per mesi in posti nel Continente, ho incontrato anche detenuti con grande talento. A Biella ero riuscito ad avviare un corso di pittura. Uno era dentro per traffico di droga, ora dipinge a Dubai. Un altro aveva rapinato banche. Mi ha telefonato da libero anni fa, sta in California. Mi ha detto: sai che il mio quadro che vale di meno me lo comprano a 50mila dollari?». L’ex carceriere ora mostra come usare mazzuolo e sgorbia a ragazzi che arrivano sull’isola e fa arteterapia con bambini autistici. Lo sguardo corre sul tavolo dell’atelier all’aperto su cui sono esposte alcune sculture. «La mia preferita è questa», dice. «È un abbraccio».

Settimanale di informazione e cultura Anno LXXXVI 11 settembre 2023 azione – Cooperativa Migros Ticino ATTUALITÀ 28
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Enrico Mereu tra le sue opere sull’Isola dell’Asinara.

Dove la luce è un bene raro

Reportage – 2 ◆ In Sudafrica i continui blackout costringono chi non è ricco a vivere spesso al buio, mentre molti dirigenti locali sono esasperati dalle incoerenze dell’Occidente che predica l’ambientalismo senza però praticarlo

È sera. Sono arrivato da pochi minuti al ristorante di Città del Capo, in Sudafrica, dove mi attende il primo degli interlocutori che devo intervistare. La luce si spegne, la sala piomba nell’oscurità. Più tardi, sono appena entrato nella mia camera d’albergo a Johannesburg e accade la stessa cosa: buio totale. Mi preoccupo di più quando a spegnersi di colpo sono i semafori e ogni illuminazione stradale, e un incrocio della maggiore metropoli si trasforma in un complicato balletto di auto in cerca di una via di fuga. Ma questi disagi sono davvero poca cosa, in confronto a quel che soffre la maggior parte della popolazione. In albergo o al ristorante, almeno nei luoghi che frequento io –perché li frequenta la nomenclatura black che dirige il Paese – di solito l’oscurità dura poco. Scatta il piano

B, subentrano i generatori autonomi, i gruppi elettrogeni alimentati a diesel. La luce torna. Ad alto prezzo, sia chiaro. Per ogni operatore economico sudafricano che deve fornirsi di un generatore autonomo i costi salgono, far quadrare i conti diventa più difficile. Per non parlare della competitività nazionale: in un mondo dove altri Paesi hanno un’energia regolare e affidabile, chi non ce l’ha retrocede. In quanto alle conseguenze per l’ambiente: i motori diesel dei generatori privati che bruciano gasolio sono molto inquinanti.

Anche in India i ricchi abitano in un mondo protetto dai generatori autonomi, gli altri devono subire gli stop di energia

Sta ben peggio la maggioranza della popolazione, chi non ha i mezzi per pagarsi il piano B cioè i generatori privati di elettricità. La paura che ho avuto io quando il buio è piombato sull’ingorgo stradale notturno, immaginiamola moltiplicata per cento se abiti in una township (quartiere-ghetto) dove spadroneggiano le gang. L’illuminazione pubblica funzionante è uno dei primi ingredienti per la prevenzione della violenza, o quantomeno per cercare di difendersi dalle aggressioni: in Sudafrica è un bene raro. Un altro danno quando manca la luce lo subiscono tutti i ragazzi e le ragazze: come li fai i compiti a casa, quando studi sui libri di testo, se dopo il tramonto ti trovi nell’oscurità?

Conosco bene un altro Paese dove i blackout elettrici colpiscono con spietata frequenza: è l’India. Anche in India esistono due Nazioni. I ricchi abitano in un mondo protetto dai generatori autonomi, i gruppi elettrogeni che scattano appena manca la corrente dalla rete principale. Gli altri devono subire lunghe interruzioni dell’energia. C’è però una differenza fondamentale. L’India ha un sistema energetico che rincorre la crescita parallela della popolazione più numerosa del pianeta (nel 2023 ha sorpassato la Cina, sfiora il miliardo e mezzo di abitanti) e dell’economia (nel 2023 il Pil indiano è cresciuto più di quello cinese). Il boom dei consumi energetici indiani non è stato compensato, finora, da un adeguato potenziamento nella capacità di generare energia. E comunque l’India partiva con un settore energetico arretrato. La carenza di elettricità è un handicap an-

che per l’India, però ha delle spiegazioni almeno in parte rassicuranti, legate alla difficoltà di star dietro al pachiderma che corre. La crisi elettrica sudafricana non ha quelle attenuanti. Il Sudafrica trent’anni fa aveva un’industria energetica moderna, tanto da esportare corrente nei Paesi vicini. Ai tempi di Nelson Mandela la utility elettrica nazionale, Eskom, era un fiore all’occhiello per il Pae-

La terra del futuro

«Il nostro futuro si giocherà in Africa», si legge sulla copertina di La speranza africana. La terra del futuro concupita, incompresa, sorprendente l’ultimo saggio del nostro collaboratore Federico Rampini, in uscita il 19 settembre per Mondadori. «È il baricentro demografico del pianeta: lì si concentrerà la crescita della popolazione in questo secolo, mentre la denatalità avanza altrove. Un’altra sfida riguarda le materie prime, in particolare materiali strategici nella transizione verso un’economia sostenibile: dei minerali e metalli rari indispensabili per i pannelli solari o le auto elettriche vengono estratti in Africa». Quel Continente

se. Dopo di allora il Sudafrica non ha avuto un boom economico neppure lontanamente paragonabile a quello indiano. Il collasso della utility non è causato da una forsennata crescita dei consumi; all’apparenza è misterioso. Appena scavi in cerca di spiegazioni, trovi delle cause turpi. È anche un’opportunità per esaminare delle sfide planetarie – cambiamento climatico, transizione energetica –

immenso con diversità enormi – dice l’autore – viene descritto «come l’origine della “bomba migratoria” che si abbatterà su di noi. (…) come la vittima di tutti gli appetiti imperialisti e neocoloniali: quelli occidentali o la nuova invasione da parte della Cina. Fa notizia solo come luogo di sciagure e sofferenze (…)». Ma ora si impone una nuova narrazione, contro gli stereotipi. L’Africa «non è solo sofferenza e fuga, come dimostra la sua straordinaria vitalità culturale (…). La diaspora brilla per le eccellenze (…). Esiste un protagonismo africano». Rampini – attraverso la struttura del reportage – ce lo racconta.

nell’ottica di una Nazione rappresentativa del Grande sud globale.

«Questo è uno dei fallimenti dello Stato – mi dice David Makhura, ex governatore del Gauteng (la provincia di Johannesburg) che oggi dirige la formazione quadri dell’African National Congress – perché trent’anni fa quando andammo al potere abbiamo lanciato l’elettrificazione di tutti i villaggi, ma non abbiamo investito nel futuro del Paese, non abbiamo costruito nuova capacità di produzione. La crisi elettrica è uno dei macroscopici insuccessi del mio partito. Ci siamo preoccupati solo dell’equità, cioè di dare a tutti l’accesso alla rete, come se fosse irrilevante produrla a monte, l’elettricità. Non abbiamo visto arrivare la grande urbanizzazione che ha ingigantito i consumi nelle città e nelle loro periferie». Dopo questa autocritica, il leader politico si lancia in un’arringa contro il nostro ambientalismo. «Non possiamo pensare il futuro solo in termini di fonti rinnovabili. Voi venite a dirci: puntate tutto sulle energie pulite. È impossibile. Significa andare al collasso finale del nostro sistema. L’Occidente non può metterci di fronte a questo tipo di diktat: elettricità pulita o niente». A che cosa si riferiscono i sudafricani quando parlano di «diktat» dell’Occidente? Al fatto che l’ambientalismo dottrinario si è diffuso a tal punto da diventare il credo ufficiale dei grandi prestatori: governi Usa e Ue, istituzioni internazionali come la Banca mondiale. Perfino a Wall Street la grande finanza americana ha abbracciato il nuovo pensiero unico Esg (iniziali di Environmental social and governance) per cui spesso i banchieri si rifiutano di finanziare progetti d’investimento che non siano considerati «verdi». L’accesso ai finanziamenti occidentali può essere compromesso, se un Paese emergente non obbedisce ai nuovi criteri. Il cui arbitrio è assoluto. Agli occhi degli africani colti, che sanno guardare oltre le apparenze e la propagan-

La township di Soweto, Johannesburg. (Wikimedia) Sotto, linee elettriche vicino alla centrale a carbone Lethabo di Eskom, Johannesburg. (Keystone)

da, la nostra infatuazione per l’auto elettrica è discutibile: sanno di quali materiali è composta una batteria elettrica, visto che in parte vengono estratti dal loro sottosuolo, con processi che comportano abbondanti emissioni di CO2

«Non possiamo pensare il domani solo in termini di fonti rinnovabili. Significa andare al collasso finale del nostro sistema»

Molti dirigenti sudafricani che ascolto nel corso del mio viaggio sono esasperati dalle incoerenze di Paesi molto più ricchi del loro, che predicano l’ambientalismo senza praticarlo. Qui ha fatto scalpore il dietrofront della Svezia nel 2023: il Governo di Stoccolma ha dichiarato che un sistema energetico basato al 100% sulle rinnovabili non è realistico. La Germania, dove i Verdi sono al Governo, quando è scoppiata la guerra in Ucraina e sono state varate le sanzioni contro la Russia, ha ricominciato a comprare carbone per le sue centrali proprio qui in Sudafrica. Anche sul tema del cambiamento climatico, purtroppo, per il Sudafrica il modello non siamo noi, è Pechino. «I cinesi – dice Makhura – investono nelle energie rinnovabili in base ai loro tempi e alla loro agenda di priorità. I cinesi sono pragmatici. Non ci fanno discorsi stupidi sulla necessità di fare immediatamente scelte drastiche, non ci esortano a ripudiare di colpo l’energia meno costosa. I cinesi sono diventati leader mondiali nelle energie rinnovabili, ma continuano ad aprire anche nuove centrali a carbone, proprio ora, mentre noi due stiamo parlando. Le nostre luci devono essere accese. Non chiedete proprio a noi di incamminarci verso una transizione al buio, verso un vostro astratto ideale».

Per leggere la prima puntata del reportage sul Sudafrica si rimanda all’edizione del 28 agosto scorso: Quei diamanti neri che depredano il Sudafrica.

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Il Mercato e la Piazza

Quando l’aumento del debito pubblico è virtuoso

Attualmente la gestione delle finanze cantonali è, da noi, orientata verso un contenimento della spesa. L’obiettivo è di raggiungere la parità nel conto economico entro il 2025. Da quattro anni a questa parte, però, le finanze del Canton Ticino stanno vivendo un periodo particolarmente turbolento. Secondo noi il grado di torbidità può essere misurato dai cattivi valori del risultato annuale del conto economico e dall’aumento del debito pubblico. A preoccupare l’opinione pubblica è sempre l’andamento del debito pubblico specie quando il nuovo indebitamento sembra non voler cessare di crescere. Vediamo le cifre. Nel 2016 il debito pubblico era pari a circa 1940 milioni di franchi. Fino al 2019 è restato su questi valori. Poi, dal 2019 al 2022, è aumentato di quasi il 22% superando la barra dei 2 miliardi. Alla fine dell’anno scorso, infatti, era pari a 2290 milioni di franchi. Molti let-

Affari Esteri

tori penseranno che la ragione di questa evoluzione non possa essere che un fatto eccezionale: la pandemia di Covid e gli impegni finanziari supplementari generati dalla stessa. Può darsi che sia così, ma ci sono altri Cantoni che, più o meno nello stesso periodo, sono riusciti a ridurre in modo sostanziale il loro debito pubblico. Per esempio il Canton Argovia, che aveva un debito pubblico di 2350 milioni nel 2016, è riuscito a ridurlo fino a 1721 milioni alla fine del 2022. Si tratta di una riduzione del 26% in 6 anni. Il Covid dunque non ha indotto dappertutto il medesimo aumento del debito pubblico. Ci sono stati Cantoni, come per l’appunto Argovia, che pare abbiano saputo far fronte alle spese straordinarie della pandemia utilizzando le entrate ordinarie, senza dover ricorrere a un nuovo indebitamento. Sono evidentemente esempi da studiare e, se possibile, da imitare. Intanto, però, la

gestione finanziaria del Canton Ticino è quella di un’azienda che, se non intervengono decreti autoritari di taglio delle spese o la manna della Banca nazionale, non riesce a far quadrare i conti con le sue entrate. Nel periodo 2017-2021 il Cantone ha avuto bisogno in media ogni anno di una cinquantina di milioni dagli istituti di credito per finanziare la sua spesa. Intendiamoci: l’aumento del debito pubblico non è regolare. Di solito il suo ciclo è influenzato dall’andamento degli investimenti. Quando il Cantone investe molto, il debito pubblico conosce un forte aumento che però si sminuisce nel tempo. Questo andamento può essere definito come virtuoso perché in un caso del genere l’aumento del debito pubblico serve a finanziare infrastrutture e strutture necessarie alla comunità cantonale. L’impennata del debito pubblico ticinese degli anni 2019-2021, dovuta unicamente all’au-

Ritratto del nuovo ministro della Difesa ucraino

La prima volta che Rustem Umerov, neoministro della Difesa ucraino, ha varcato la scena internazionale è stata appena dopo l’invasione della Russia in Ucraina, in quelle settimane concitate in cui il blitz dei tre giorni di Vladimir Putin è fallito, s’è scoperto che la difesa di Kiev era ben più resistente rispetto alle aspettative, ma ancora si sperava che il conflitto non dovesse prolungarsi a lungo. Umerov, ex imprenditore tataro poco più che quarantenne eletto in Parlamento nel 2019 con il partito riformista Holos, era nella delegazione ucraina che incontrò i russi in Bielorussia per il primo e quasi l’ultimo negoziato diretto tra i due Paesi. Non ci fu alcun risultato, Umerov non si sentì bene, qualcuno sospettò un avvelenamento, la storia finì lì. Da allora il ministro della Difesa, che lascia la guida dell’Agenzia delle privatizzazioni, ha lavorato ad altre trattative più fruttuose (e semisegrete): lo

Zig-Zag

scambio dei prigionieri. L’unico tavolo di discussione con qualche risultato è stato questo. Sono stati scambiati molti prigionieri, è vitale per il Governo ucraino riuscire a portare a casa i propri soldati perché il trattamento nelle prigioni russe è disumano e perché ogni liberazione fa bene al morale. L’ultima all’inizio dell’estate, gestita proprio da Umerov, ha avuto un guizzo in più: sono tornati in Ucraina i comandanti del Battaglione Azov che avevano guidato la resistenza di Mariupol nell’acciaieria, cosa che non è piaciuta al Cremlino che aveva acconsentito allo scambio a patto che questi combattenti restassero in Turchia. Questi, tornati in patria, hanno cominciato arruolamento e piani per tornare al fronte. Chi conosce Umerov, soprattutto membri della comunità tatara che è molto attiva in Ucraina perché vede ripetersi in Crimea la propria storia atroce di oppressione, dice che è un

Frontalieri sans frontières

Lo scorso mese l’Ufficio federale di statistica (Ustat) ha annunciato che alla fine del secondo trimestre i frontalieri in Ticino erano 79’181, l’1,4% in più rispetto ai primi tre mesi del 2023, ma con una variazione del 3,5% rispetto allo stesso periodo dello scorso anno. A livello di media e di politica la notizia è stata digerita senza particolari sottolineature, analogamente a quella di sei mesi prima. Allora, a inizio febbraio, un roboante titolo sul «Corriere del Ticino» mi aveva per un attimo convinto che finalmente qualcuno si fosse svegliato: Siamo seduti su una polveriera, si leggeva infatti in prima pagina, e avevo pensato che fosse il lancio di un articolo sui dati relativi ai frontalieri in crescita, appena letto sul sito online dello stesso quotidiano luganese.

Mi sbagliavo: caratteri cubitali e «polveriera» erano riferiti a un allarme, un po’ meno importante, dell’Associa-

zione degli inquilini per un ipotetico rialzo degli affitti. Titolo e articolo sui lavoratori insubrici comparvero il giorno dopo: misero taglio basso in prima pagina (un enigmatico Lavoratori frontalieri, Ticino sul podio, come se fossimo in gara con Uri, Svitto e Untervaldo…) e rimando a un’analisi, per la verità assai simile a un atto notarile, del frontalierato in Svizzera. Sei mesi dopo, oltre a ricordarmi l’equivoco di quei due titoli, l’annuncio che il numero dei frontalieri rasenta le 80’000 unità mi riporta alla mente anche una lettera inviata anni fa a un nostro Consigliere di Stato, sempre a proposito dei frontalieri, ma riguardante piuttosto i tanti imprenditori, o presunti tali, che senza remore o con giustificazioni sempre più di routine continuano a reclutarli in Ticino. Al magistrato, cavalcando la mia congenita ingenuità, proponevo un calmiere per un mercato del lavoro che, ol-

mento della spesa corrente determinato dalla pandemia di Covid, era invece preoccupante proprio perché aveva ridotto di molto i mezzi per finanziare gli investimenti.

Ora, i risultati della gestione 2022 sembrerebbero indicare che una svolta è in atto. Il debito pubblico del Cantone, è vero, è cresciuto ancora di un po’ più di 90 milioni. Ma la spesa corrente non è aumentata che di un milione di franchi. Questo significa che il Cantone ha ripreso a indebitarsi per finanziare gli investimenti. Nel consuntivo dello scorso anno gli stessi sono infatti cresciuti del 25% rispetto al 2021. Ci si può chiedere come abbiano fatto i responsabili delle finanze cantonali a ottenere questa svolta nell’evoluzione del debito pubblico, dal poco desiderabile al virtuoso. Adottando quella che io, un tempo, avevo definito la «Strategia Generali», dal nome del consigliere di Stato che per primo, a memoria

mia, l’aveva adottata facendo uscire le finanze del Cantone, in un paio d’anni, da una situazione di forte crisi, nella prima metà degli anni Ottanta dello scorso secolo. Questa strategia si basa su una prudente sottovalutazione dei ricavi che obbliga, nel preventivo, a procedere a una riduzione significativa della spesa. Nonostante questa riduzione, il risultato d’esercizio preventivato resta però largamente negativo, giustificando così i tagli alla spesa. In realtà, poi, i ricavi aumentano molto al di là di quanto iscritto nel preventivo. Pur non riuscendo a ridurre la spesa nella misura immaginata, le previsioni preoccupanti consentiranno comunque di contenerla nei valori dell’anno precedente. E così il risultato d’esercizio risulterà, come di fatto è successo l’anno scorso, largamente migliore di quello stimato, consentendo al Cantone di ritrovare i mezzi necessari per rilanciare gli investimenti.

uomo carismatico e dialogante, efficace e rassicurante. Sembra perfetto per il ruolo che Volodymyr Zelensky gli ha chiesto di ricoprire, il ministero più strategico in tempi di guerra. Non c’è soltanto la gestione del fronte, ma anche quella delle forniture e ancor più del rapporto con gli alleati. La sostituzione di Oleksij Reznikov, amato dai partner occidentali, a causa di uno scandalo di corruzione (che non coinvolge il ministro ma il ministero e che però Reznikov ha gestito male) sembrava un brutto colpo al Governo di Kiev, per di più in un momento in cui si ammonticchiano insofferenze per la controffensiva lenta. Umerov sembra una risposta promettente e i tentativi di screditarlo con video di dubbia veridicità e speculazioni sulla sua ricchezza da imprenditore delle telecomunicazioni – un oligarca? – indicano che forse è davvero la persona giusta. Di certo, dal punto di vista strategico e

culturale, la scelta di Zelensky è rivoluzionaria. Umerov è nato in Uzbekistan, figlio di una delle famiglie tatare che il regime sovietico ha deportato dalla Crimea in Asia centrale; è rientrato negli anni Novanta ed è diventato imprenditore e attivista per i diritti della comunità tatara. Nell’ufficio a Kiev della Crimea Platform, l’iniziativa voluta dalla presidenza ucraina per lavorare al reintegro della penisola occupata e annessa dai russi nel 2014, ci sono libri e documenti che raccontano com’è la vita sotto l’occupazione e come i tatari cercano di sopravvivere all’oppressione russa. Un esempio: il tasso di mobilitazione in Crimea rispetto alla popolazione totale è più elevato che nel resto della Russia, perché c’è un’evidente e perversa volontà di Mosca di arruolare ucraini per mandarli a combattere contro altri ucraini. La comunità tatara, che prima rappresentava l’80% della popolazione della

penisola, e ora è meno della metà; resta però molto attiva, indomita quasi e organizza la propria dissidenza pur in mezzo a pericoli enormi – sparizioni, torture, processi sommari – mostrando la propria volontà di tornare sotto il Governo di Kiev e aiutando la riconquista. La Crimea Platform è nata proprio per gestire questa dissidenza prima dell’invasione su larga scala della Russia ma anche per organizzare il reintegro, la ricostruzione amministrativa-istituzionale della penisola. La nomina di Umerov porta con sé la volontà della liberazione della Crimea dall’occupazione russa oltre a essere un esempio della natura multiculturale dell’identità ucraina. «Non c’è scritto tataro sul passaporto ucraino», dicono alla Crimea Platform. È Putin a essere ossessionato dalle etnie. In Ucraina si vive da secoli in una logica di mescolanza, è anche in opposizione a quest’idea che Mosca l’ha attaccata.

tre a condizionare salari ed economia cantonale, da decenni sta guastando il nostro tessuto sociale. Ovviamente il ministro interpellato aveva gentilmente liquidato la mia proposta ritenendola impraticabile, se ben ricordo, perché in conflitto con leggi, norme e accordi.

Cosa chiedevo in quella lettera? Un poco diplomatico e utopico decreto governativo: dal 1. gennaio (retroattivo) tutte le aziende e gli enti del secondario, del terziario o del parastato versano un tributo erariale di 1000 franchi annui per ogni frontaliere occupato. Prendere o lasciare insomma. Facile il raccolto: un tale contributo assicurerebbe allo Stato nuove entrate tra i 60 e i 70 milioni di franchi annui che Governo e dipartimenti potrebbero ridistribuire garantendo priorità a mercato del lavoro, formazione dei giovani, promozione economica ecc. Lo «strumento» consentirebbe

però al dipartimento interessato anche un monitoraggio del corpaccione del frontalierato, segnalando ai preposti dell’amministrazione possibilità o necessità di interventi – magari preventivamente e senza attendere i soliti dati federali – per calmierare o interrompere abnormi domande di assunzioni di frontalieri per produzioni prive di valore aggiunto, come pure in settori delicati del parastato in cui una già forte presenza di frontalieri comporta risvolti sociali e politici.

In altre parole è forse il momento di iniziare a pensare a come porre fine al deleterio laissez-faire (lasciate fare) prima giustificato o tollerato con l’alibi della manovalanza o per «lavori che il ticinese non vuol più fare» e poi proseguito anche nel terziario senza più freni o limiti, se si escludono i periodici «al lupo, al lupo» di chi cavalca questo fenomeno per al-

tri fini e scopi. Oggi da questo ampliato e prolungato frontalierato sans frontières derivano ombre e un progressivo aumento di un mortificante squagliamento in ambito sociale, soprattutto perché in definitiva obbliga i giovani a scelte occupazionali ed esistenziali sempre più difficili. Qualcuno insiste ancora nel difendere la positività di un’economia cantonale che, tutto sommato, si muove. Dimentica però che il nostro è un convoglio che prosegue sbuffando su binari in continua manutenzione e con vagoni sempre più di seconda e terza classe. La conferma giunge dai dati di un nuovo documento digitale che l’Ustat ha presentato a inizio agosto sul panorama del lavoro ticinese: a fine giugno nei 243’000 posti di lavoro erano occupati 178’000 residenti e 80’000 frontalieri (di cui un 67% nel terziario). Se non è una polveriera…

Settimanale di informazione e cultura Anno LXXXVI 11 settembre 2023 azione – Cooperativa Migros Ticino 31 ATTUALITÀ / RUBRICHE ◆ ●
di Paola Peduzzi
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di Ovidio Biffi
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Qualcosa

Da Gutenberg all’IA

Protagonista della mostra al m.a.x. museo di Chiasso, Orio Galli racconta la sua grafica

Pagina 37

Se lo sguardo è moderno La Fondazione Rolla ospita le fotografie di Albert RengerPatzsch e Ruth Hallensleben

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Una sontuosa Anna Bolena Grande successo al LAC per la nuova produzione operistica di Diego Fasolis e Carmelo Rifici

Pagina 41

Bellezza e mistero delle isole letterarie

Al festival di Venezia Focus sull’immigrazione e la commedia nell’ottantesima edizione della rassegna italiana

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Intervista ◆ Auður Ava Ólafsdóttir, tra le più importanti scrittrici islandesi contemporanee, sarà ospite di Babel Festival

Classe 1958, di casa a Reykjavík, di formazione storica dell’arte, in passato direttrice del Museo dell’Università d’Islanda, oggi tra le più importanti voci letterarie islandesi, Auður Ava Ólafsdóttir sarà a Babel sabato 16 settembre alle ore 18.00 sul palco del Teatro Sociale insieme al suo traduttore Stefano Rosatti. Filo conduttore di questa edizione del Festival di traduzione (si inaugura venerdì 15 settembre alle 18:30 con Tommaso Soldini all’Antico Convento delle Agostiniane di Monte Carasso) sono le isole letterarie e linguistiche che da sempre emergono e ci affascinano come luoghi fisici e mentali. Ci sono le isole remote dell’atlante immaginario di Judith Schalansky (Bompiani), c’è l’isola deserta nel mare atlantico di Robinson Crusoe o Rokovoko – l’isola immaginifica di Moby Dick. Ci siamo noi, isole interiori – ognuna con la sua storia e le sue sensibilità – legate le une alle altre.

Di isole, lingue e traduzioni ci parla Auður Ava Ólafsdóttir in questa intervista.

Nel suo romanzo La vita degli animali (Einaudi, 2021), primo volume di una trilogia che a inizio 2024 proseguirà con il titolo Eden, esordisce con la parola più bella votata dagli islandesi nel 2013. Ljósmóð, sostantivo di sette lettere che mette insieme due parole: madre e luce. Partiamo da qui.

L’idea l’ho avuta qualche anno fa. Volevo scrivere della luce, del suo significato in un mondo buio. Ho pensato allora che la protagonista dovesse essere un’ostetrica, una madre di luce (mother of light), una madre che porta luce, che dà luce.

La immaginavo essere una sorta di esperta del comportamento umano e del significato, dell’importanza della luce in un mondo scuro. Da qui sono partita e per questo ad aprire il primo capitolo c’è la scena di una nascita, la venuta al mondo di un essere umano tutto nudo e indifeso.

Questa immagine ci conduce al cuore della sua riflessione: il rapporto tra l’essere umano, la natura e gli altri animali.

Di tutti gli animali l’uomo è il più fragile e allora nel romanzo mi chiedo: com’è possibile che l’essere più debole diventi l’animale più pericoloso, avido ed egoista?

Chi vive nei Paesi nordici è particolarmente sensibile alla luce. Perché?

Chi vive così a nord dell’Europa come noi islandesi con i lunghi inverni e le estati luminose sviluppa una grande sensibilità alla luce. Stando ai racconti di mia madre, la prima pa-

rola che ho pronunciato puntando il dito verso il cielo è stato «luce». La luce a cui guardavo era l’aurora boreale. Ora, se da autrice vuoi scrivere un romanzo sulla luce, devi pensare al suo contrario, al buio. Cosi ho pensato che il racconto dovesse avere luogo nei giorni più bui dell’anno, quelli che precedono il Natale. Il modo migliore per capire la luce è nel momento in cui ne hai di meno.

Come se non bastasse, la sorella della protagonista che lavora per la stazione meteo preannuncia l’arrivo di una eccezionale ondata di maltempo.

Uno degli effetti dell’avidità e dell’ignoranza dell’uomo è proprio la crisi climatica che stiamo vivendo. In quanto essere umano mi sento responsabile, porto il peso della colpa per la situazione in cui ci troviamo.

Da scrittrice, quello che più mi interessa è capire come potremo sopravvivere. Non sono interessata alla fine ma a pensare modi e forme di sopravvivenza. E come in tutti i miei libri anche qui cerco di mettere in luce nuovi aspetti della natura umana e animale insite in ogni individuo.

Nel romanzo ci racconta di come il momento della nascita e l’esposizione alla luce sia per l’essere

umano il più grande shock della sua vita.

Nel tempo ci dimentichiamo quanto sia difficile per i neonati abituarsi a tenere gli occhi aperti e abituarsi alla luce. A ricordarcelo è la nostra ostetrica che nel romanzo ha una sua profonda saggezza e di tanto in tanto dispensa pillole di filosofia, talvolta piuttosto eccentriche (ride). I bebè li considera dei mammiferi fragili e indifesi, i più deboli tra tutti gli animali. Ma proprio nella fragilità risiede la forza dell’essere umano che per volare come gli uccelli ha inventato gli aerei, per vedere al buio ha inventato l’elettricità…

Protagoniste nel suo romanzo sono le donne, c’è un profondo legame tra loro e la natura, nella loro sensibilità risiede la nostra speranza per il futuro?

Noi donne pensiamo alla comunità, gli uomini sono più egoisti. Io stessa sono una madre e condivido questa esperienza con i personaggi del romanzo. Ora mentre parliamo guardo fuori dalla finestra oltre la strada verso il vecchio cimitero di Reykjavík, una vista che durante la pandemia, quando ho scritto il libro, mi accompagnava costantemente. Non potevo viaggiare, così ho scritto di luoghi, esperienze che sentivo vicine.

Nel romanzo c’è questa immagine sublime dell’ostetrica che recita poesie alle donne mentre partoriscono… Recita poesie e racconta storie. E come si usava fare una volta – per farle rilassare e aiutarle a superare il dolore – fa ascoltare loro le voci e i suoni delle balene. I cetacei compaiono in tutti i miei libri ma in questo romanzo hanno un significato particolare: le balene sono l’unico animale che quando partorisce in mare ha bisogno di un’ostetrica. La seconda balena ha il compito di portare il cucciolo appena nato – nascono mettendo fuori per prima la coda – in superficie altrimenti soffocherebbe.

Perché una collega definisce l’ostetrica una «cittadina del mondo»?

Rivolge un complimento a una donna che pur senza viaggiare ha visto orizzonti differenti e lontani, ha compreso risvolti e profondità della vita che solo pochi colgono. Quando vivi su un’isola come la nostra, lontano dagli altri Paesi parlando una lingua che pochi comprendono, viaggiare è una necessità fondamentale per conoscere altri orizzonti.

Il romanzo riflette anche sulle difficoltà della vita quotidiana quando arriva un figlio…

L’esistenza di noi esseri umani è complicata. È complicato essere una donna, una madre. Siamo pieni di paradossi, siamo abili a complicarci la vita quando basterebbe concentrarci sul presente e sulle nostre necessità primarie come mangiare, dormire… Ci dimentichiamo delle cose che davvero contano. Gli animali in questo sono più bravi e se ci pensiamo, tornando al discorso iniziale, loro insieme al mondo naturale, non hanno bisogno di noi per sopravvivere mentre noi abbiamo bisogno di loro per non morire.

Nella vita «l’unica certezza è l’incertezza» ci dice un personaggio nel romanzo…

Paragono l’esistenza umana al tempo islandese che è caotico, imprevedibile, cambia continuamente. Il romanzo per contro mi aiuta a dare una struttura, a creare un insieme organico, a calmare e organizzare i pensieri calmando anche il lettore. È come se i due – autore e lettore – si prendessero per mano per attraversare insieme il caos della vita dandogli un senso.

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Dai caratteri di Gutenberg al precipizio dell’IA

Incontri ◆ Protagonista fino all’8 ottobre della mostra al m.a.x. museo di Chiasso, Orio Galli racconta la sua grafica

Fra gli obbiettivi primari del m.a.x. museo vi è la conoscenza di quel settore dell’arte contemporanea da sempre legato alla committenza che si colloca tra invenzione artistica e professionalità, tra Grafica d’Arte e Graphic design, e niente come questa esposizione lo realizza. Gli oltre 300 pezzi esposti documentano l’iter creativo e professionale di Orio Galli, nato nel 1941, dalle prime ricerche degli anni 60 alle opere dell’età matura. Ritroviamo nelle ultime sale decine di imperdibili e famosi manifesti pubblicitari, come ad esempio Ticino terra d’artisti realizzato per l’Ente ticinese del Turismo nel 1984 e tradotto in molte lingue, o la caffettiera del Caffè Moretto del 1970, gli stampati ufficiali per la Confederazione elvetica e molto altro ancora. Il linguaggio espressivo di questo artista nasce da una felice fusione tra il rigore progettuale di scuola svizzera e l’irruenza creativa pittorica latina. Un altro aspetto della sua produzione (e della sua personalità )

è visitabile alla Biblioteca Cantonale di Lugano: sono vignette e scritti satirici (Galligrammi d’Orio). Con lo stesso processo creativo che usa con le forme geometriche, con le linee e il colore, Galli scompone e ricompone anche la parola scritta in nuovi giochi e in sempre diversi significati, l’aforisma gli è congeniale, e come nella comunicazione visiva realizza divertendosi continue immagini. Non solo nelle opere ma anche nel suo discorso l’urgenza espressiva è inarrestabile, spesso è al servizio dell’indignazione e dell’appassionato spirito critico con il quale vuole avvertirci di ciò che vede con chiarezza.

Grafico, pittore, illustratore, calligrafo e disegnatore satirico… ma non ama essere definito artista, perché mai?

Perché la definizione di artista mi suona troppo elitaria e astratta. Staccata dalla realtà di un mestiere che ti deve pur dar da mangiare attraverso una manualità, che è comunque sempre arte del fare; possibilmente bene: «a regola d’arte».

Quando ha capito che la grafica sarebbe stata la sua strada?

Intorno ai dodici anni, vedendo i manifesti affissi dove c’era l’Ospedale della Beata Vergine, oggi sede dell’Accademia di Architettura; il mestiere del grafico in Ticino era ancora sconosciuto, per cui dovetti optare per un apprendistato di vetrinista. Le prime opere che mi hanno affascinato sono state quelle di Herbert Leupin, Donald Brun, Celestino Piatti, Hans Falk, Alois Carigiet.

Lei è tornato in Ticino dopo un lungo soggiorno di formazione a Zurigo, e nel 1968 hai aperto lo studio come professionista indipendente, quali possibilità si offrivano a chi operava nel tuo campo in quegli anni?

Innanzi tutto ho dato nella Svizzera interna gli esami di grafico avendo già un certificato federale in una professione affine (decoratore vetrista).

Sono dunque stato il primo ticinese a ricevere un diploma in questo mestiere dalle nostre autorità cantonali. Ma poi non è stato assolutamente semplice trovare all’inizio clienti e lavoro nel nostro cantone. In questo ho avuto anche il sostegno e l’incoraggiamento di mia moglie che conosceva il settore essendosi formata a Zurigo come assistente.

Diceva che chi, come lei, è nato agli inizi degli anni Quaranta ha vissuto un incredibile cambiamento culturale e esistenziale. Come lo descriverebbe?

Un caso, una coincidenza generazionale che mi ha offerto occasioni e possibilità uniche... anche in una piccola e marginale regione com’è il Canton Ticino. Forse perché sono salito, certe volte anche al volo, su alcuni treni che ho visto passare.

Oggi in Ticino cosa è cambiato?

Oggi tutto è completamente cambiato, soprattutto da quando la «globalizzazione» ha concentrato quei pochi centri economico-decisionali nelle grandi città, e la «digitalizzazione» ha facilitato e ridotto di moltissimo il tempo di alcune operazioni. Nel contempo sono para-

Le nuove povertà

dossalmente sorte infinite scuole che offrono però possibilità di lavoro solo a quei pochi privilegiati che accedono all’insegnamento, o alla RSI che è un’azienda «fuori mercato».

Ritiene fondamentale la pratica della calligrafia…

La grafia che tutti hanno imparato a scuola è una base propedeutica formidabile per il movimento ergonomicamente corretto della mano con matita, penna, pennello. Purtroppo oggi un po’ alla volta tutto ciò si sta smarrendo. Perdendo un patrimonio storico, culturale, artigianale, etico, estetico… Per un grafico queste conoscenze stanno alla base dell’uso e del disegno dei caratteri «a stampa» (informativi). E di una loro applicazione più espressiva attraverso il «lettering». La mia riscoperta e riproposta della calligrafia («galligrafia») soprattutto creativa e emozionale non deve essere intesa in chiave sentimental nostalgica, semmai come valorizzazione di alcune componen-

ti essenziali della fisicità dell’essere umano, come sapersi muovere, saper godere, riflettere, pensare, che un uso prevalentemente tecnocratico del computer è andato distruggendo.

Come descrive il lavoro nel quale opera da 50 anni?

Era un lavoro che richiedeva soprattutto capacità manuali. Dalla metà alla fine del secolo scorso ho vissuto la mia carriera professionale in corrispondenza del passaggio dall’analogico al digitale. Una coincidenza storica incredibile: dai «caratteri mobili» di Gutenberg (1450 circa) ai Chips e al nulla degli anni 2000. Mentre oggi stiamo precipitando nell’IA. Ma qui siamo arrivati non solo alla fine di un mondo (di un modo di fare e pensare) ma alla fine dell’uomo. Della sua umanità.

«Il nulla degli anni 2000» non è un termine eccessivo?

Mi sembra che nessuno realizzi che siamo nel mezzo di un mutamento

antropologico micidiale. Veniamo da un percorso tecnologico in cui avevamo pur sempre la ruota, i caratteri mobili della scrittura, la macchina a vapore, un’evoluzione che oggi si è fatta verticale. Ma adesso il virtuale mette in discussione il nostro cervello, ci viene tolta la possibilità di decidere e pensare, la macchina sta diventando dominante a livello mentale.

In questo non si ritrova?

Insomma, io ancora appartengo al tempo della manualità. Quello della matita, della penna, del cacciavite, della tenaglia e del martello… Strumenti che fino a qualche decennio fa venivano ancora trasmessi di padre in figlio, e da figlio a nipote. Altro che «civiltà dei consumi»! Mentre oggi lo strapotere della tecnocrazia ti farebbe anche mangiare i «social» cambiando la loro programmazione e inventandone dei nuovi, tra la sera e la mattina. Certo, la mia, nella società di oggi appare come una posizione donchisciottesca. Anche se di questo anacronismo credo di essere consapevole. Preferirei comunque morire con questa consapevolezza piuttosto che con una mente distrutta dalla follia dell’Intelligenza Artificiale.

Si può cambiare qualcosa?

Non molto, ti dicono: «Questo è il progresso, non serve opporsi». Ma allora perché non mettere in discussione il concetto stesso di progresso? In passato era un processo lineare e oggi diventa verticale, siamo ignoranti nel senso etimologico del termine, è in discussione il nostro stesso essere e per questo si tende a rimuovere il problema e non lo si avverte. I grandi filosofi dove sono spariti? Non sentite più nessuna voce... Umberto Eco parlava di apocalittici e integrati, con un gioco di parole; io parlerei di… «disintegrati». Non so se forse la filosofia potrà salvarci.

Dove e quando Orio Galli, Grafica e grafismi, m.a.x. Museo, Chiasso. Fino all’8 ottobre. Ma-do 10.00-12.00 / 14.00-18.00. www.centroculturalechiasso.ch

Feuilleton ◆ Il romanzo a puntate di Lidia Ravera per «Azione». Sul nostro sito www.azione.ch sono disponibili quelle precedenti

Tom aveva imboccato Ponte Garibaldi e si stava dirigendo verso via Arenula. Aveva il passo deciso di uno che sta andando a un appuntamento. E doveva essere in ritardo, perché aveva aumentato la velocità.

Anche Betta prese a camminare più svelta, rischiando, perché marciava sui sette centimetri di tacco degli stivaletti blu, scelti nella speranza di incontrare il vecchio.

Senza fermarsi Tom estrasse dalla tasca della giacca il cellulare, digitò senza rallentare, tenne il telefono premuto contro l’orecchio, senza parlare.

Betta guardò il suo, di cellulare, sperando che suonasse.

Le sarebbe piaciuto scoprire che lui stava chiamando lei, senza sapere che li dividevano pochi passi. Avrebbe corso fino a raggiungerlo, l’avrebbe abbracciato da dietro.

No, non era a lei che stava telefonando. Contemplò, per un attimo, lo schermo immobile e muto. Perse il ritmo del passo, quando rialzò gli occhi Tom stava entrando in una agenzia della Deutsche Bank.

Certo, pensò con un tuffo al cuore: è lì che lavora la tipa che gli ha garantito il fido, il prestito o quello che era. La sessantenne ancora bella, biondagrigia naturale e tanto intelligente.

Si chiese se aspettarlo fuori, far irruzione nella banca o tornarsene a casa.

Decise che se ne sarebbe andata, ma non subito.

Per poter sostare accanto all’ingresso dandosi un tono prese a digitare messaggi. Scrisse a Sara: «Amore mamma psyc. Formaggio frigo». Poi incominciò a far scorrere i contatti memorizzati. In ordine alfa-

betico. Ada Adele Barbara. Ecco, a Barbara avrebbe potuto mandare un messaggio: era stata con lei alla Memè Perlini.

Si erano simpatiche.

Betta era nettamente più bella, Barbara più brava.

Era finita a fare teatro per ragazzi in uno scalcinato ex oratorio della circonvallazione gianicolense, non era esattamente Broadway, ma Barbara era il tipo che una mano te la dava, se avevi bisogno.

Stava scrivendo concentrata: «Ehi, mi dicono che la tua Biancaneve è super… c’è per caso un settenano per me?»

Dovevi essere spiritosa. Sempre. Soprattutto quando chiedevi aiuto. «Che ci fai tu qui?»

La voce era la voce di Tom, e in effetti Tom era davanti a lei.

Solo.

Betta arrossì. Scelse il registro aggressivo, come sempre quando non aveva voglia di dare spiegazioni:

«Ti ha dato buca la biondogrigia?»

«Che… ci… fai… tu... qui?»

Scandire le parole, ripetere la domanda.

Scaricare la rabbia. Non dire la verità. La verità è che Noemi è sparita. Non ha dato più segni di vita.

E allora hai dovuto andare a cercarla sul posto di lavoro ed è stato imbarazzante, umiliante, inutile.

C’era, ma non l’ha ricevuto.

La dottoressa è occupata, si scusa.

Betta notò che Tom aveva un’espressione scura, tesa.

Decise di confessare, ma scelse il suo tono da bambina. «Ti ho pedinato.»

«Sei completamente cretina?»

Betta provò a sorridere:

«La aspetti fuori? Si sta incipriando il nasino? Dove andate a pranzo?»

Tom la guardò, a lungo, severo, come per misurare una sua imperdonabile colpa, poi le voltò le spalle e incominciò a camminare, a lunghe falcate furiose, verso casa.

Betta dovette correre per raggiungerlo.

Il tacco dello stivaletto di sinistra si piantò in un affossamento della pavimentazione, torcendole con violenza una caviglia.

Urlò: «Fermati stronzo, mi sono fatta male!»

Tom si fermò, rallentando progressivamente il ritmo dei passi come per inerzia. Tornò indietro adagio. Si chinò su sua moglie che era seduta in terra, gli occhi lucidi di lacrime. (42 – Continua)

Settimanale di informazione e cultura Anno LXXXVI 11 settembre 2023 azione – Cooperativa Migros Ticino CULTURA 37
Orio Galli, Caffè Moretto, 1970. (Stampa offset; collez. m.a.x. museo, Chiasso, Foto Prestampa Taiana SA)

L’inizio di un linguaggio fotografico moderno

Mostre ◆ Albert Renger-Patzsch e Ruth Hallensleben protagonisti alla Fondazione Rolla

L’attuale esposizione alla Fondazione Rolla presso l’ex-Kindergarten di Bruzella, in Valle di Muggio, aperta fino a inizio ottobre, offre l’occasione di vedere dal vivo due interessanti autori tedeschi della prima metà del Novecento, Albert Renger-Patzsch e Ruth Hallensleben.

Due campioni ed esponenti della Nuova Oggettività e di un approccio verso la realtà che cercava di rompere con gli approcci pittorialisti del passato

Il primo più noto, la seconda immeritatamente più sconosciuta, accomunati dal fatto di essere campioni ed esponenti della Nuova Oggettività e di un approccio verso la realtà con il mezzo fotografico che voleva rompere con le tradizioni precedenti. La Neue Sachlichkeit metteva da parte i tardi echi del pittorialismo, troppo lontani dallo spirito del tempo, così come alcune sperimentazioni avanguardistiche. Indipendentemente dal soggetto, la ripresa è rigorosa e sobria, estremamente dettagliata nei particolari e scevra di ogni abbellimento. Un modo di procedere che secondo le intenzioni degli autori avrebbe permesso di arrivare all’essenza dell’oggetto dando all’immagine una nuova dignità estetica.

Con il contemporaneo August Sander, protagonista indiscusso del ritratto, Albert Rengen-Patzsch (1897-1966) condivide la centralità nella fotografia tedesca della prima metà del Novecento, segnatamente negli anni della Repubblica di Weimar. Tra le sue molte decine di pubblicazioni, il suo manifesto può essere indicato in Die Welt ist schön del 1928. Il libro contiene cento immagini di

un’amplissima gamma di soggetti –alcuni presenti anche in esposizione. Naturalmente, trovandosi nel cuore della Valle della Ruhr, ad Essen per la precisione, frequenti sono le riprese dei soggetti industriali, fabbriche e macchinari.

Vera e propria riscoperta da parte della Fondazione Rolla con una delle poche monografie a lei dedicate, Ruth Hallensleben (1898-1977), da

parte sua, non sembra temere il confronto con il più noto collega che tra l’altro apprezzava molto il suo lavoro. L’autrice è capace di produrre immagini di estrema qualità, sembrando al contempo essere più sensibile ai temi domestici, alle riprese di interni. Affiancate le une accanto alle altre, le quaranta fotografie d’epoca dei due autori creano un fitto e stimolante dialogo lungo le pareti dello spazio espositivo. Delle immagini scattate e stampate tra gli anni Venti e Sessanta si scoprono parallelismi formali o tematici, insoliti contrasti e accostamenti ironici.

Ne risulta un processo espositivo che ha l’effetto di offrire alla singola immagine, o coppia di immagini, una rinnovata lettura. Così come originale è la lettura che ne fornisce Urs Stahl, per un ventennio direttore della Fondazione Svizzera della Fotografia, nel consueto libretto che accompagna la ventunesima mostra della Fondazione.

Ma perché queste immagini – risalenti a quasi un secolo fa – sono così importanti e apprezzate, tanto da diventare oggetto di culto e collezionismo? Di fatto esse costituiscono l’inizio, la nascita di un linguaggio fotografico moderno che presenta un singolare parallelismo temporale con la straight photography americana. Questi autori tedeschi e i contemporanei dall’altra sponda dell’Atlantico,

tra cui Walker Evans in prima fila, aiutarono il mezzo fotografico a fare un passo decisivo verso un linguaggio proprio, senza guardare altrove nel mondo delle arti, ma indagando sulla propria capacità e sulle propria specificità.

A tutto questo, verso gli anni Ottanta si guarda con rinnovato interesse. I coniugi Bernd e Hilla Becher, fotografi e insegnanti, ne trarranno elementi che trasporteranno al loro stile di produzione seriale di panorami industriali nonché procedure che trasmettono agli allievi della loro scuola di fotografia di Düsseldorf, dalla quale come è noto nasceranno tra i maggiori fotografi presenti sulla scena attuale (Andreas Gursky, Thomas Struth ed altri).

Insomma, un approccio preciso, freddo e oggettivo, oggi attualizzato anche attraverso il colore, capace di esercitare un’importante e perenne influenza su ciò che si intende come fotografia contemporanea.

Dove e quando

Albert Renger-Patzsch – Ruth Hallensleben. A dialogue Fondazione Rolla, Bruzella. Fino al 5 ottobre 2023. Orari: domenica 17 settembre, dalle 14.00 alle 18.00; domenica 8 ottobre dalle 10.00 alle 18.00. Altri giorni su appuntamento. Entrata libera.

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Da sinistra fotografie di Albert Renger-Patzsch e Ruth Hallensleben (Fondazione Rolla)

L’antica Rocca di Angera e l’arte contemporanea

Mostre ◆ L’Ala Scaligera del castello di proprietà dei Borromeo ospita una collettiva di quindici autori internazionali

Abbarbicata su uno sperone di roccia che domina la sponda meridionale del Lago Maggiore, la Rocca di Angera è una delle fortificazioni medievali della zona meglio conservate. Il castello, che ebbe un’importanza strategica sia dal punto di vista militare sia da quello commerciale, fu dapprima proprietà della casata dei Visconti, per poi essere acquistato nel 1449 dai Borromeo, a cui ancora oggi appartiene. Questo imponente fortilizio affianca al nucleo più antico, costituito dalla torre quadrata eretta alla fine del XII secolo da cui si gode una meravigliosa vista che abbraccia i monti e le sponde del lago, altri quattro corpi di fabbrica risalenti a epoche differenti: il palazzo conosciuto come Ala Viscontea, addossato alla torre, l’Ala dei Borromeo, l’Ala Scaligera e la Torre di Giovanni Visconti.

Il complesso è stato oggetto di restauri che l’hanno reso anche sede del Museo della Bambola e del Giocattolo

Negli ultimi anni la Rocca di Angera, che consigliamo come meta per una gita fuori porta in questi scampoli d’estate, è stata oggetto di restauri che le hanno restituito il suo originario splendore e che l’hanno resa sede di un Museo della Bambola e del Giocattolo tra i più grandi d’Europa. Ultimo in ordine di tempo è stato l’intervento conservativo che tra il 2015 e il 2017 ha coinvolto l’Ala Scaligera, la residenza che nel XIII secolo Bernabò Visconti fece erigere in onore della consorte Regina della Scala, adibendone le belle sale affrescate a uno spazio dedicato a esposizioni di arte contemporanea.

Proprio qui è allestita in questo periodo una mostra dal titolo Oltre il buio, una rassegna che arriva dopo tre anni di chiusura del luogo dovuta alla pandemia e che si fa portatrice della voglia di ritornare a valorizzare una cornice antica facendola interagire con il presente. Ecco allora che la luce si pone come concetto chiave dell’esposizione, non solo quale simbolo di rinascita e di rigenerazione dopo un momento di stasi e di oscurità, ma anche, andando al di là della contingenza, quale elemento che da sempre accompagna l’esistenza umana definendo la relazione dell’uomo con la natura e con l’arte. Era al chiarore generato dal fuoco che gli uomini preistorici realizzavano dipinti e incisioni rupestri all’interno di caverne buie. Con l’invenzione della luce artificiale, poi, tutto si è evoluto: «La luce è stata un’ossessione dell’umanità e il luogo dove siamo è il frutto di un periodo, il Medioevo, in cui il paesaggio luminoso era costruito con scelte che imponevano la quantità di luce, le occasioni, gli edifici e le persone da illuminare, anche in funzione del loro ruolo sociale», scrive Alberto Salvadori, curatore della mostra, «La luce costruiva anche la sera, costruiva le occasioni di vita. Nel Medioevo la notte crepitava di vita e di fiamme accese. La luce artificiale è l’effetto speciale nato nel Medioevo. Con la luce artificiale nascevano anche i grandi cicli pittorici, le decorazioni parietali e i dipinti per i luoghi sacri».

La rassegna di Angera coinvolge il visitatore in un viaggio che tratta il tema della luce interpretandolo

come una sorta di crescita, di espansione del suo potenziale concettuale. La luce assume così il significato di elemento fondante per la convivenza dell’umanità con l’ambiente circostante e per l’espressione artistica dell’uomo. Elevando ancor più questo pensiero, la luce diventa poi metafora del bisogno dell’essere umano di vedere oltre il visibile naturale, oltre la realtà, per scorgere ciò che è nascosto e imperscrutabile: un lume interiore che rischiara ciò che è misterioso.

Il percorso della mostra si sviluppa su tre livelli radunando ventiquattro opere realizzate da quindici artisti di varie nazionalità rappresentati dalla Galleria Franco Noero di Torino. Si tratta di lavori che spaziano dall’installazione ambientale alla pittura, dalla fotografia al video, e che creano una serie di richiami alla storia della

Rocca di Angera, al suo passato e alla sua identità di castello nobiliare, in un delicato equilibrio tra architettura e paesaggio, tra natura e artificio.

La mostra si sviluppa su tre livelli radunando ventiquattro opere di quindici artisti rappresentati dalla

Galleria Franco Noero

Incontriamo l’opera che apre l’itinerario espositivo ancora prima di varcare la soglia dell’edificio. Sulla facciata esterna della costruzione duecentesca è appesa A Painting of a Bird #004 dell’artista svedese Henrik Håkansson, una grande tela di juta in cui è stato inserito un ramo sporgente che può essere interpretato come un supporto e rifugio per gli uccelli così come una

Accanto a loro è stato collocato il lavoro intitolato Submerged light di Jason Dodge, in cui una lampadina è completamente immersa nell’acqua contenuta in un secchio. Come molte delle opere dell’artista americano, anche questa parla di assenza, di mancanza, di inattuabilità: la lampadina è incapace di adempiere alla sua funzione, la sua è una luce impossibile.

Proseguendo nel percorso ci colpisce l’installazione di Mike Nelson Not Titled Yet, del 2021, in cui l’artista britannico accatasta del legname da ardere in mezzo alla sala espositiva, insieme a grossi sassi e a strumenti delle attività agresti, come la falce. In questo rude assemblaggio, che richiama la faticosa vita rurale, la luce viene evocata dai tronchi utilizzati per fare fuoco mentre la natura viene rappresentata nella sua fragilità di elemento strappato al proprio contesto abituale.

A quest’opera ci sembra faccia eco, al primo piano, quella di Lothar Baumgarten, artista tedesco noto per affrontare temi legati al paesaggio e che derivano dai suoi viaggi compiuti tra i Nativi dell’America del Nord e del Sud. Nell’installazione dal titolo [Arché]_(Ark), iniziata negli anni Sessanta e conclusa nel 2016, sopra un mucchio di rami è stato posto in equilibrio precario il modello ligneo di un casetta ricoperta di piume colorate: frutto dell’esplorazione di culture distanti dalla nostra, questo lavoro ci racconta come in fondo ogni consorzio umano sia mosso dai medesimi intenti.

meridiana. Luogo accogliente o strumento di misurazione del tempo basato sul sole, questo lavoro dall’intenzionale ambiguità sintetizza i temi che si sviluppano nella rassegna: la luce in rapporto all’uomo e l’uomo in rapporto alla natura, con un ammiccamento al fortilizio che si configura come un ambiente sicuro per l’essere umano proprio come il ramo per i volatili.

L’indagine sulla luce prosegue con Mark Handforth, autore americano presente ad Angera con Miami Avenue 2019 e con Orange reds (datata 2018): la prima è una scultura luminosa dall’estetica minimalista realizzata con alluminio, legno e luce fluorescente; la seconda, altrettanto essenziale, un’opera in cui torna uno degli elementi cari all’artista, la candela, la cui cera colata ricopre un oggetto e lo altera, omaggio, in questa sede ancor più riuscito, all’illuminazione del passato.

Alcuni lavori si relazionano alla storia del territorio, come l’installazione di Jim Lambie, che utilizza i sacchetti per la distribuzione delle patate All’ultimo piano ci accolgono opere più ludiche in cui i contenuti cardine della mostra si mescolano a richiami alla rocca e alla famiglia Borromeo, come nel disegno di Pablo Bronstein, dove il Teatro Massimo dell’Isola Bella (monumento unico nel suo genere, abbellito con statue mitologiche, decorato con conchiglie e sormontato da un grandissimo unicorno che punta verso il cielo) viene rappresentato nel tipico stile immaginifico dell’artista. Altri lavori, poi, si relazionano alla storia del territorio e alla vita contadina di chi vi abitava, come l’installazione di Jim Lambie, che utilizza i sacchetti per la distribuzione delle patate, prodotto prosaico simbolo del pesante lavoro villereccio, trasformandoli in una scultura ironica dalle tinte pop. Infine c’è spazio anche per opere, come quella di Francesco Vezzoli, che aprono a una riflessione più profonda sulla memoria, sul passato, sull’esperienza intima del ricordo. Temi che legano il suo Self-Portrait as a Greek God, una piccola statua antica reclusa in una gabbia dorata, a un luogo pregno di storia come la Rocca di Angera e, più in generale, al concetto di bellezza. Quella bellezza che solo una luce potente, questa volta intesa come scintilla interiore, può scoprire e apprezzare anche oltre il visibile.

Dove e quando Oltre il buio. Rocca di Angera, Angera (Varese). Fino al 1 ottobre 2023. Orari: dalle 10.00 alle

Settimanale di informazione e cultura Anno LXXXVI 11 settembre 2023 azione – Cooperativa Migros Ticino CULTURA 39
17.30. Per informazioni: www.isoleborromee.it
Sopra: Rocca di Angera, Ala Scaligera, Opere di Robert Mapplethorpe e di Lothar Baumgarten (© Andrea Rossetti). Sotto: Galleria Franco Noero, Opera di Francesco Vezzoli (© Andrea Rossetti)

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Dal letto al trono, dal trono al patibolo

Anna Bolena ◆ Grande successo al LAC per la nuova produzione operistica di Diego Fasolis e Carmelo Rifici

Innanzi tutto occorre ringraziare Diego Fasolis per la scelta del titolo di questa terza e nuova produzione operistica del LAC, andata in scena lunedì 4 settembre con repliche fino a domenica 10, la prima coproduzione con tre teatri dell’Emilia Romagna e dunque fortunatamente destinata a vita più lunga delle precedenti.

L’opera di Gaetano

Donizetti su libretto di Felice Romani

è bellissima e sontuosa ma poco nota al grande pubblico

Anna Bolena di Gaetano Donizetti su libretto di Felice Romani è opera bellissima, sontuosa, inaugurale, e tuttavia poco nota al grande pubblico, nonostante i pregevoli allestimenti che si sono susseguiti dopo la riscoperta di questo capolavoro andato in scena la prima volta nel 1830, poi rimasto in repertorio per tutto il secolo (qualcuno ne ricorderà la citazione in Piccolo mondo antico di Antonio Fogazzaro) ma poi dimenticato fino appunto alla riproposta nel 1957 alla Scala con Maria Callas, sotto la bacchetta di Gavazzeni e la regia di Luchino Visconti.

La vicenda riguarda l’ultimo scorcio di vita dell’infelice regina, ormai archiviata dal re in favore della sua dama di compagnia Jane (qui Giovanna)

Seymour e dunque destinata al patibolo. Enrico VIII vuole liberarsene e, per trovare un appiglio, richiama a corte il di lei precedente e ancora innamorato Riccardo Percy, mentre la nuova futura regina è contesa tra ambizione e rimorso. Ambiziosa è anche l’intelligente Anna Bolena, per la quale il trono ha avuto più interesse del vero amore con Percy. «Due donne che si servono del letto per arrivare al trono e un uomo che usa il trono per arrivare al letto», così il non dimenticato regista Graham Vick ebbe a riassumere l’intero dramma.

Carmelo Rifici ci trasporta in uno spazio fuori del tempo, oscuro e claustrofobico, alimentato da bagliori corruschi, quasi una proiezione delle cupe passioni che agitano i protagonisti. Lo asseconda assai bene in questo intento la scena girevole di Guido Buganza, che offre alla regia infinite possibilità di movimenti e declinazioni: si entra, si esce, si chiudono e aprono porte, lo spazio segue il dipanarsi della storia, personaggi e coro – che Rifici muove con maestria – sembrano rincorrersi in un labirinto senza sbocco. Fuori del tempo sono anche i costumi di Margherita Baldoni evocanti un lontano Rinascimento, privati dello sfarzo dell’epoca e vicini a una essenzialità più contemporanea e forse borghese. La vicenda regale ha infatti una dimensione familiare e i personaggi sono colti nell’intimo delle lo-

ro pulsioni estreme. Ciò è evidente sia nella disperazione di Anna (Carmela Remigio, una delle massime interpreti di questo ruolo oggi), più donna che regina, sia nella sensuale volgarità espressa da Enrico (Marco Bussi, debuttante nel ruolo, e già lo fa suo con un taglio quasi inedito), o nella fresca passionalità di Percy (il tenore Ruzil Gatin che ci regala acuti da togliere il fiato a lui e a noi). Ma tutto il cast si fa notare, e Arianna Vendittelli è una Giovanna bifronte, di sicuro impatto,

mentre Paola Gardina disegna uno Smeton intensamente espressivo. Il potere è il vero motore della vicenda, lo vediamo trasparire nella brutalità di Enrico, nella macelleria dei carnefici che torturano e uccidono, nelle mura che soffocano. L’idea stessa di regalità, se emarginata dai ruoli principali in favore di una dimensione privata e viscerale, trova rifugio nella bella idea registica di portare in scena la straordinaria figura della figlia di Anna Bolena e di Enrico, colei che di-

venterà forse la più importante sovrana della storia occidentale, Elisabetta I, qui bambina in abiti regali, muta presenza all’inizio e alla fine del dramma. E la lettera che la madre le consegna poco prima di salire al patibolo è un passaggio di testimone: quella regalità non completamente espressa nel breve periodo di regno di Anna troverà modo di esprimersi pienamente nel glorioso regno di Elisabetta.

Alla testa dei Classicisti (già Barocchisti), che suonano strumenti storici, e del Coro della RSI, Diego Fasolis ha offerto una direzione potente, ardente e rigorosa fin dalla splendida sinfonia d’apertura, quasi un invito al pubblico a seguirlo in un’avventura meravigliosa, appena cominciata. Perché proprio di questo si tratta: con Anna Bolena Lugano si avvia a diventare polo di produzione operistica che intende profilarsi con allestimenti di titoli attraenti ma non scontati e regie «rispettose del libretto e della musica» (sono parole dello stesso Fasolis) senza però volgersi a una tradizione stantia, ma al contrario rinnovandola con l’occhio della contemporaneità, come accaduto finora con Rifici. È un progetto di chi sa costruire e guardare lontano, la città di Lugano deve esserne fiera. Anna Bolena si appresta a proseguire il cammino nei teatri di Reggio Emilia, Piacenza e Modena, in quest’ultimo programmata per il 23 e 25 febbraio 2024.

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La piccola Elisabetta, figlia di Anna Bolena ed Enrico VIII, futura regina d'Inghilterra in una scena della produzione operistica di Fasolis e Rifici Anna Bolena. (© LAC - Masiar Pasquali)
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Il cinema vince sulla politica (e ci si diverte)

Venezia ◆ Nell’ottantesima edizione della rassegna italiana focus sull’immigrazione e risate per le commedie

Lo sciopero degli attori americani ha condizionato l’80° Mostra del cinema di Venezia ancor più di quanto avvenuto nel Festival di Locarno, dove le star pesano un po’ meno. Dopo le prime giornate di disorientamento e di film un po’ deludenti, l’attenzione è però tornata alle opere. Il concorso per il Leone d’oro, ricco di titoli (ben 23) e meno di varietà geografica (Italia, Stati Uniti e Francia erano predominanti), ha proposto pochi colpi al cuore. Spicca «Io capitano» di Matteo Garrone, che è già nelle sale ticinesi, un’avventura e un romanzo di formazione per il sedicenne senegalese Seydou. Un lavoro, del regista de «L’imbalsamatore», «Gomorra», «Reality» e «Dogman», che conferma che, a parità di tema, il cinema vince sulla politica. Anche se forse la giuria non sarà stata d’accordo (la premiazione è avvenuta dopo la chiusura di Azione), ci auguriamo che Damien Chazelle (cineasta di «La La Land» e «Babylon») e gli altri non abbiamo preferito «Green Border» di Agnieszka Holland sempre riguardante una storia di immigrazione alle porte dell’Europa.

Se l’italiano ne fa una fiaba nera visivamente impressionante, la polacca («Europa Europa», «Poeti all’inferno», «In Darkness») mette in scena con forza ma troppo manicheismo, criticando duramente il Governo polacco per come (non) accoglie chi prova ad attraversare il confine con la Bielorussia. Una è militante e sentimentalmente ricattatoria, l’altro è essenziale, preciso come una freccia e capace di emozionare senza artifici, guardando l’emigrazione non come un problema da gestire ma come un sogno e una sfida. Seydou ha lavorato mesi col cugino Moussa per mettere via i soldi necessari per il viaggio verso l’Europa: ambisce a diventare un cantante e «firmare gli autografi ai bianchi» e non lo spaventano le notizie sugli affogamenti attraversando il Mediterraneo.

Ottenuto «il beneplacito dei morti», senza dirlo alle madri, i due adole-

scenti partono per affrontare un percorso che si è già visto in tanti film, da «Lamerica» a «Tolo tolo», ma mai così. Garrone evita la cronaca, toglie il superfluo e si concentra sul percorso pericoloso di due ragazzi che inseguono un sogno altrove. Il titolo «Io capitano» si chiarisce al termine della visione e illustra bene la parabola del protagonista, in cui non mancano gli incubi, i miraggi e le magie: la traversata del deserto è un capolavoro e pure l’ultima parte è meravigliosa, sostenute da una colonna sonora perfetta.

Dopo le prime giornate, marcate come previsto dallo sciopero degli attori americani, sono emersi titoli importanti

La potenza del cinema emerge pure in «La bête – The Beast» del francese Bertrand Bonello con una al solito bravissima Léa Seydoux. Un film un po’ debitore da David Lynch, che forse pecca di eccessiva lunghezza e qualche compiacimento, ma è visionario e ardito. Il regista accosta due storie interpretate dagli stessi interpreti (l’altro è George MacKay), in due momenti diversi: una Parigi allagata nel 2044 e una Los Angeles investita da una scossa di terremoto nel 2014. Amore, arte, ansia per quel che può accadere, intelligenza artificiale e cambiamenti della società, tra paura e fascinazione.

Dal Giappone il thriller sottile e inquietante «Evil does not exist» di Hamaguchi Ryusuke (rivelatosi a Locarno nel 2015 con «Happy Hour» e affermatosi con «Drive My Car») sugli impatti negativi del turismo. In una località di montagna, le persone prendono acqua alle sorgenti nella foresta e una bambina impara a conoscere gli alberi, ma una società di comunicazione ha un progetto di investimenti per incassare i sussidi per il Covid e non intende tener conto delle esigenze locali. Un film lontano dall’eleganza del precedente, fatto

di piccole cose, di misteri e di difesa di quel poco di incontaminato che è rimasto.

Sempre in gara, buoni i tre film biografici americani «Ferrari» di Michael Mann con Adam Driver nel ruolo di Enzo Ferrari, «Maestro» di e con Bradley Cooper su Leonard Bernstein e «Priscilla» di Sofia Coppola, ritratto smussato e quasi senza contrasti di Priscilla Presley cresciuta nel cono d’ombra, protettivo fino a un certo punto, del grande Elvis.

Nella sezione fuori concorso, in chiave di commedia, è arrivato il meglio della Mostra chiusasi sabato. Merito soprattutto dell’irresistibile commedia gialla sentimentale «Hit Man» di Richard Linklater. Linklater che tra la «Trilogia dell’alba», «Boyhood» e tanti altri ha costruito una filmografia impeccabile, ha superato il pur ottimo Woody Allen di

«Coup de Chance» sul suo terreno. Gary è un anonimo professore di filosofia a New Orleans e un bravo informatico che collabora come infiltrato di polizia. Un giorno sostituisce un collega dal compito delicato: fingersi sicario e, per prevenire gli omicidi, incontrare i potenziali mandanti per incastrarli. Sorprendentemente efficace alla prima uscita, è confermato e, presentandosi come un assassino di nome Ron, incontra la bellissima Madison, che vorrebbe far uccidere il marito, e riesce a dissuaderla. Quando i due si incontrano tempo dopo, iniziano una relazione sentimentale, senza che l’uomo riveli la propria identità. Gli eventi accelerano in un crescendo irresistibile di colpi di scena, dialoghi esilaranti, protagonisti eccellenti come la rivelazione Adria Arjona e Glen Powell e scene memorabili. Oltre a trovare l’amore, si

tratta di individuare i veri sé stessi.

Temi che tornano, oltre agli immancabili capricci del caso, nel film di Woody Allen, che azzecca una trovata degna di «Match Point». Siamo a Parigi e l’incantevole Fanny Moreau (un nome che è tutto un programma), che lavora in una galleria d’arte, si imbatte nello scrittore Alain conosciuto ai tempi del liceo. Nonostante il matrimonio di lei, anche qui nasce un rapporto finché prevale la gelosia, ma «la vita è un miracolo».

Ospiti bislacchi, un crescendo di disastri e fuochi d’artificio sono gli ingredienti della commedia ritmata «The Palace» del novantenne Roman Polanski. È il capodanno del 2000 in un hotel di lusso a Gstaad e niente andrà come previsto: tra «Vacanze di Natale», «Hollywood Party» e «Triangle of Sadness» ci si diverte assai.

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