Azione 42 del 16 ottobre 2023

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Anno LXXXVI 16 ottobre 2023

Cooperativa Migros Ticino

G.A.A. 6592 Sant’Antonino

Settimanale di informazione e cultura

edizione

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MONDO MIGROS

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SOCIETÀ

TEMPO LIBERO

ATTUALITÀ

CULTURA

Derek Bickerton descrive la nicchia ecologica nella quale abbiamo sviluppato il linguaggio

Kevin Gilardoni di Soazza racconta le sue diverse vittorie al Rally Ticino e le sue nuove aspirazioni

I punti salienti dell’ultima legislatura, in attesa delle elezioni federali svizzere del 22 ottobre

Edoardo Perazzi, erede universale di Oriana Fallaci, racconta la giornalista e il Fondo a lei dedicato

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Keystone

Quando odio e paura dilagano

Sarah Parenzo e Federico Rampini

L’algoritmo del male Carlo Silini

In ognuno di noi sonnecchia un individuo pericoloso che, in determinate circostanze, può diventare un mostro. Quando il settimanale che avete fra le mani stava andando in stampa, non c’erano ancora conferme definitive su alcuni degli episodi più efferati che sarebbero successi nell’ambito della guerra scatenata da Hamas contro Israele. Non sapevamo, ad esempio, se nell’attacco dei terroristi contro un kibbutz fossero davvero stati decapitati dei bambini israeliani. O che sorte attendessero gli ostaggi. Ma era già lapalissiano che di orrori ne erano comunque stati perpetrati parecchi. Vien da chiedersi in quale momento un uomo smetta di essere un uomo e cada preda di quello che definirei l’algoritmo del male. Hannah Arendt parlava di banalità del male, che consisterebbe nel volgere lo sguardo all’altra parte, girare le spalle all’ingiustizia, eseguire burocraticamente gli ordini più spietati come se

fossimo macchine per poter poi attribuirne la colpa ai superiori, come è successo nei processi ai nazisti. Ma per certi balzi quantici verso una ferocia maggiorata questa spiegazione non basta. Ho sentito al telefono un caro amico ebreo: «È la terza Shoah», sbotta, «l’unica soluzione è radere al suolo Gaza». Una persona squisita, pacifica, colta, intelligente e di eccezionali qualità morali, invocava lo sterminio del nemico. Ho pensato che una reazione del genere potesse emergere solo da qualcuno che ha l’Olocausto nel sangue. Quando intervisto un sopravvissuto ad una delle troppe guerre che ancora infiammano il pianeta (l’apposita pagina di Wikipedia conta almeno 47 conflitti in corso), mi trovo sempre davanti qualcuno che fino a qualche tempo prima viveva una vita normale, ma a un certo punto si è sentito vittima di aggressioni o ingiustizie così gravi che, potendo, avrebbe voluto

rispondere con una violenza ancora maggiore. Così, oggi, gli abitanti della Striscia di Gaza che da molti anni subiscono soprusi da parte di Israele, non ritengono affatto sproporzionato lanciare 4 mila missili in un giorno contro il nemico provocando centinaia di morti innocenti, né inseguire decine di adolescenti che danzano nel deserto per falcidiarli col mitra, o trasformarli in ostaggi da usare come scudi umani quando verrà il momento di farlo. Viceversa, molti israeliani non ritengono esagerato radere al suolo la Striscia di Gaza, facendo strame, se necessario, anche di donne, vecchi e bambini. O spegnere luce, acqua e gas e interrompere l’erogazione di cibo all’intera popolazione, come in un assedio neo-medievale che si ritorce contro i tagliagole tanto quanto i neonati. Eccolo, l’algoritmo del male. Più lo subisci e più lo fai. L’offesa subita si moltiplica geometricamente nel momento in cui hai l’occasione

di replicare. Il male, qui, non segue la legge del taglione (occhio per occhio, dente per dente), ma quella della vendetta senza limiti. Non c’entra lo «scontro di civiltà» teorizzato da Samuel Huntington. Non è una battaglia tra i figli della Torah e i seguaci del Corano. Semmai, visto che si parla di popoli che costruiscono gran parte della propria identità sulla religione, si tratta di scontro tra opposti tradimenti valoriali delle rispettive civiltà: ci vuole un bel coraggio a macchiarsi di sangue in quel modo in nome di un Dio di giustizia e di misericordia. È quindi uno scontro tra opposte barbarie, un gioco al massacro che non sembra contemplare neppure lo jus in bello, le convenzioni di Ginevra, i diritti minimi indispensabili che valgono anche nei peggiori tempi di tregenda, primo fra tutti l’intangibilità dei civili (e soprattutto dei bambini). Tolti quelli, possiamo anche smettere di definirci umani.


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MONDO MIGROS ●

«Siamo vicini» e «Facciamo del bene» fin dal 1933 Speciale 90esimo ◆ Migros Ticino è promotrice dell’alimentazione sana e del benessere psicofisico della sua clientela Alessandro Zanoli

Un tema molto attuale, oggi, è quello della «responsabilità sociale» delle aziende. Viviamo del resto in un periodo storico in cui la sensibilità e l’attenzione dei consumatori sono rivolte più che mai a problemi di ordine economico, sociale e di salute pubblica. Il concetto potrebbe sembrare un’acquisizione recente, nato sull’onda di discussioni e di preoccupazioni legate all’evoluzione della società dei consumi. La sempre maggiore consapevolezza dei consumatori orienta oggi le loro scelte seguendo tendenze e interessi molto diversi da quelli mostrati anche pochi decenni fa. In questo loro nuovo atteggiamento i consumatori stessi sono molto sensibili ad aspetti legati alla sostenibilità ecologica, alla salute e al benessere. Continuando a seguire la pista di ricerca che l’occasione del 90esimo di Migros Ticino ci offre quest’anno, è interessante notare come il senso di «responsabilità sociale» fosse proprio uno dei motori principali che ha spinto la nostra cooperativa fin dal lontano 1933. E del resto, se la nascita di Migros a livello nazionale corrispondeva senza dubbio a un progetto imprenditoriale commerciale, nell’idea del suo fondatore, Gottlieb Duttweiler, l’azienda doveva sposare il proprio «business plan» alle necessità di una classe lavoratrice confrontata con serie difficoltà economiche e sociali. L’origine della tanto discussa scelta di rinunciare alla vendita di alcolici e di tabacco, ad esempio, era una scelta che rispondeva ai problemi sociali di quell’epoca.

matori con l’offerta di prodotti Bio, di cui fanno parte l’assortimento Demeter e i prodotti a «km zero» della linea «Nostrani del Ticino». (Da notare che già negli anni 50 del 900, Migros aveva lanciato una sua linea ecologica. In seguito, negli anni 70, con il programma «M-Sano» si era creata una linea di prodotti tratti da agricoltura sostenibile. M-Sano è stata abbandonata a fine anni 90, quando Migros ha intensificato la collaborazione con IP-Suisse).

I supermercati, che sono moderne forme di piazza del mercato, devono rispondere a una gamma sempre più vasta di bisogni

Migros Ticino, grazie a frutta e verdura nostrane, sostiene l’economia locale promuovendo al contempo il benessere della clientela; sotto, Activ Fitness è una delle modalità di «cura del benessere» messe in campo da Migros.

L’attività editoriale all’interno di Migros è sempre stata strettamente connessa a interessi commerciali dal chiaro intento etico e comunitario Ma per tornare a Migros Ticino, possiamo trovare enunciati proprio sulle pagine del primo numero di «Azione», dell’8 aprile 1938, alcuni princìpi che mostrano come l’attività editoriale fosse strettamente connessa a interessi commerciali dal chiaro impegno etico e comunitario. «II giornale non è fine a sé stesso», si scriveva in quel primo numero, «ma deve propugnare idee, e soprattutto sostenere pratiche realizzazioni. I problemi dell’agricoltura, dell’artigianato; i bisogni dei produttori e dei consumatori; le condizioni delle nostre valli e dei nostri comuni rurali; il turismo e le aspirazioni dei centri, dovranno essere vagliati profondamente e serenamente». E ancora: «I veri amici dell’agricoltura non sono coloro che di essa hanno continuamente piena la bocca; ma sono i produttori veri e coloro che fanno da tramite tra produttore e consumatore, curando lo smercio dei prodotti, in modo che il produttore abbia il suo equo compenso del suo lavoro, e che gli interessi dei consumatori, che sono poi gli interessi generali del pubblico siano salvaguardati. Nell’unione degli sforzi dei contadini e di chi

cura lo smercio dei prodotti, è da intravvedere un migliore avvenire della nostra agricoltura». Insomma, era chiaro fin da allo-

ra che insediare un’azienda attiva nel settore del commercio al dettaglio in Ticino significava prendere a carico aspetti sociali, economici e di salu-

te pubblica, in fondo, che andavano ben al di là del semplice «business». E proprio per assecondare i bisogni e gli interessi dei suoi clienti con il passare degli anni Migros, da azienda attiva nel commercio al dettaglio, ha esteso il suo impegno anche in campi di attività che non sono più soltanto legati al settore dell’alimentazione ma che rispondono all’interesse generale per la cura di sé e il benessere. Mantenendo fede al suo proposito di offrire alla clientela ticinese beni e servizi al miglior rapporto qualità-prezzo, la cooperativa ticinese è oggi impegnata nel settore dell’attività fisica e sportiva (si vedano i suoi sei centri Activ Fitness attivi nel cantone, e l’offerta dei suoi mercati specializzati SportX) mentre dal punto di vista dell’alimentazione sostenibile, sana e bilanciata, conferma la sua attenzione agli interessi dei consu-

Proprio nel comparto alimentare, inoltre, per assecondare le aspettative di una specifica porzione della sua clientela, è stata creata oggi una linea di specialità che rispetta le esigenze di flexitariani, vegetariani e vegani, mentre al contempo si tiene sempre più conto delle necessità di chi soffre di allergie o intolleranze alimentari. Anche i momenti di relax fanno parte naturalmente del concetto di qualità della vita ed è interessante vedere oggi come già negli anni 30 del secolo scorso Duttweiler, tra i vari aspetti della presa a carico della salute, fosse sensibile al tema del turismo. Questo impegno si concretizza oggi con l’offerta fornita da quattro parchi naturali in varie località della Svizzera (il Parc Pré vert di Bougy-Villars, il Gurten-Park im Grünen a Berna, i «Park im Grünen» di Münchenstein e di Rüschlikon) e della ticinese Ferrovia del Monte Generoso che già nel 1941 Duttweiler volle acquistare per destinarla alle attività di svago della popolazione. La gamma di proposte, nel suo complesso, sostiene le scelte individuali che sono rivolte al mantenimento di un buon equilibrio psicofisico, confermando quindi una vocazione originaria di attenzione alle esigenze della clientela che, come abbiamo visto, è stata affermata nel tempo dalla nostra cooperativa.

Fare del bene facendolo bene, un intento costante Per approfondire il discorso sull’argomento abbiamo pensato di rivolgere alcune domande a Mattia Keller, Direttore di Migros Ticino. Il trend di convergenza tra il settore della vendita al dettaglio e quello della salute si sta evidenziando con sempre maggiore evidenza. Quali sfide richiede questo a un’azienda come Migros Ticino? Il tema della salute è parte integrante della strategia e dei valori del Gruppo Migros. L’intento costante di Migros di «fare del bene» fa convergere i bisogni della clientela, delle collaboratrici e dei collaboratori di Migros Ticino e la salute. La salute in senso lato assu-

me in questo contesto diverse forme. Per i collaboratori di Migros Ticino vorrei menzionare le ottime condizioni di lavoro, le iniziative per conciliare la vita privata e il lavoro, la sicurezza sul lavoro e gli strumenti di lavoro messi a disposizione. Per la salute dei nostri clienti la qualità dei prodotti in vendita nei nostri supermercati è molto rilevante, a partire dall’ampia offerta di prodotti freschi e con una particolare attenzione ai prodotti bio e ai Nostrani del Ticino. Il prezzo attrattivo dei prodotti M-Budget permette inoltre a qualunque economia domestica di accedere a un’alimentazione sana a un prezzo molto interessante. I corsi della Scuola Club Migros e l’of-

ferta dei nostri apprezzati centri Activ Fitness arrotondano l’offerta Migros in favore della salute. Si nota un sempre maggiore presenza nell’offerta di prodotti di tipo vegano-vegetariano. È un trend consolidato a livello nazionale? Sì, il trend è consolidato, ma la domanda per gli articoli «classici» resta preponderante. La sfida più grande è rendere questi prodotti innovativi – mi riferisco soprattutto ai prodotti vegani – più conosciuti, più gustosi e più sani. Dalle palestre di Activ Fitness ai prodotti locali dei Nostrani del Ti-

cino agli integratori alimentari e ai medicinali senza prescrizione medica: i supermercati del futuro diventeranno qualcosa di sempre più multiforme? In altre parole dobbiamo cambiare la nostra concezione di supermercato? I supermercati, per definizione, sono la forma moderna della piazza del mercato. Essi rispondono a una vasta gamma di bisogni. Sono convinto che il supermercato saprà anche in futuro adattarsi ai bisogni della clientela e al quadro normativo. Le aperture domenicali grazie alla modifica della legge sulle aperture dei negozi sono un esempio recente: apriamo con un ottimo riscontro laddove il cliente e il turista evidenziano un bisogno.


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I Campi Flegrei sono sotto osservazione Deformazione del suolo, terremoti e risalita di grandi quantità di gas fanno preoccupare esperti e popolazione

«Ginevra» è tornata nel deserto L’apertura del Salone dell’auto elvetico, edizione 2023, ha avuto luogo a inizio ottobre sulle sponde del Golfo Persico, in Qatar

AdoMani compie dieci anni Il progetto educativo della Fondazione Amilcare coinvolge ragazzi tra i 15 e i 20 anni in esperienze lavorative a corto termine

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Un cervello fecondato dalle parole

Neuroscienze ◆ Derek Bickerton descrive la nicchia ecologica nella quale abbiamo sviluppato il linguaggio

Il divario cognitivo tra umani e non-umani è il tallone d’Achille dell’evoluzione, tanto più in quanto non ci sono primati che, per esempio, parlano un po’ meno bene di noi, stando qualche gradino più in basso nell’ipotetica scala che potrebbe graduare l’accesso a un linguaggio pienamente fluido e a capacità cognitive capaci di mandarci nello spazio. Il proto-umano che, in 2001: odissea nello spazio, lancia in aria il femore col quale aveva difeso il suo pasto a terra, nella sequenza successiva del film di Kubrick è già un astronauta – senza passare da gradi intermedi, quasi a incoraggiare l’ipotesi di un intervento soprannaturale. Alfred Russel Wallace, cofondatore insieme a Darwin della teoria dell’evoluzione per selezione naturale, sentiva con urgenza la necessità di dare una spiegazione a questo problema, chiedendosi perché la nostra specie ha sviluppato una mente di gran lunga più potente di quanto sarebbe necessario per sopravvivere. Una domanda, alla quale anche Darwin faceva fatica a trovare una risposta, ipotizzando che, probabilmente, è stato l’«uso continuativo» del linguaggio a distinguerci progressivamente dagli altri primati. Il tema della nascita del linguaggio – forse perché intrecciato alla nascita della mente e della coscienza, facoltà che contraddistinguono la nostra specie – ha sempre accompagnato la riflessione dei linguisti, che vi si sono avvicinati con metodologie diverse. Pressoché al termine della sua lunga vita, il linguista inglese Derek Bickerton pubblicò la summa della sua ricerca nel volume tradotto presso Adelphi con il titolo: Quello di cui la natura non ha bisogno. Linguaggio, mente ed evoluzione. Si tratta di un’opera impegnativa, sia perché innova profondamente questo campo di ricerca facendo ampio ricorso alle recenti acquisizioni nell’ambito delle neuroscienze e della biologia, sia perché, ricorrendo a una dovizia di riferimenti bibliografici, ogni pagina è in dialogo con la comunità scientifica che si è occupata di questi problemi negli ultimi cinquant’anni – sebbene l’interlocutore di maggior rilievo sia il linguista Noam Chomsky. Bickerton è stato il maggior specialista mondiale delle lingue creole e dei pidgin, da lui studiati in Africa e alle Hawaii. Le lingue creole – come il giamaicano – sono ben strutturate e nascono dalla combinazione di due o più lingue, le quali forniscono loro il lessico. I pidgin, invece, sono degli idiomi anch’essi caratterizzati dalla mescolanza di lingue diverse ma non ancora strutturati dal punto di vista sintattico. In contesti caratterizzati da schiavismo, migrazioni forzate e no, colonizzazioni e relazioni com-

Biswarup Ganguly

Lorenzo De Carli

merciali, nei Caraibi, in Africa e in Oceania, i pidgin hanno sempre preceduto le lingue creole. Il merito di Derek Bickerton è stato quello di aver compreso che, in tutti questi contesti geografici, furono i bambini a trasformare i pidgin in lingue creole, spontaneamente operando in modo da introdurre semplici regole grammaticali di base.

Bickerton ha messo a punto un’interessante teoria sulla nascita delle lingue creole e il ruolo svolto dai bambini Condividendo con Chomsky la convinzione che il genere umano dispone di un piccolo insieme di algoritmi che il linguista statunitense ha chiamato «Grammatica Universale», Bickerton – che nel suo programma di ricerca era orientato dal progetto di dimostrare la natura esclusivamente biologica della nostra disposizione al linguaggio – ha scritto che «il bambino si comporta esattamente come il ragno, il castoro o il pipistrello: il programma biologico che sovraintende a ciò che la specie fa meglio semplicemente si mette in moto da solo, quando viene stimolato

dalle parole pronunciate nell’ambiente circostante». Siccome portatori biologici delle regole fondamentali della grammatica, vale a dire quelle che presiedono alla sequenza degli accostamenti, i bambini sono dei grammaticalizzatori innati, cosicché, sebbene un pidgin non sia la lingua-madre di nessuno, «se acquisito dai bambini, si regolarizza in fretta e sviluppa tutte le risorse di una vera e propria lingua umana». Appurato ciò, l’ambizione di Bickerton rimaneva quella di dare una risposta alla domanda di Wallace: perché siamo dotati della mente che abbiamo, apparentemente così eccessiva rispetto alla necessità degli altri primati? Per l’autore inglese, se è vero che i bambini hanno un programma linguistico innato, così come i ragni sono programmati a tessere tele o gli uccelli a cantare nei modi specifici della loro specie, si tratta di capire quando, nel corso della nostra evoluzione, acquisimmo questa proprietà biologica. Movendo dal presupposto che la nostra specie condivideva con gli altri primati la capacità di attirare l’attenzione degli altri per mezzo di gesti e grida, il concetto fondamentale al quale ricorre Bickerton è quello di «nicchia ecologica». Secondo l’autore

inglese, il processo che ha allontanato la comunicazione umana dai segnali legati agli stimoli tipici degli altri animali fu il «dislocamento referenziale» praticato nella cooperazione che mettemmo in atto quando diventammo saprofagi. Prima ancora di essere cacciatori, infatti, fummo saprofagi. Ben attenti a non essere prede, ci cibavamo della materia organica animale abbandonata dai grandi predatori. Ne è prova il fatto che nel nostro DNA i geni che codificano per l’assimilazione della carne in decomposizione sono apparsi prima di quando divenimmo veri e propri cacciatori, divoratori di carne fresca prima, e cotta poi. Ebbene, per coordinare l’azione cooperativa utile alla saprofagia, cominciammo a usare suoni emessi dall’apparato fonatorio non per fare riferimento a cose del mondo bensì a esperienze condivise dal gruppo e presenti solo nel ricordo comune – uno slittamento dal «fuori» al «dentro» che, appunto, Bickerton chiama «dislocamento». La specifica nicchia ecologica della specie «Homo» fu dunque la saprofagia e l’uso simbolico dei suoni emessi dall’apparato fonatorio. Per spiegare come giungemmo a far evolvere il linguaggio che ci caratterizza come specie, ricorrendo

alle scoperte delle neuroscienze, Bickerton trova la spiegazione nel fatto che le reti neurali nel nostro cervello si consolidano con la ripetizione e che, quindi, nel contesto sociale della saprofagia, l’uso continuativo delle prime proto-parole (come aveva intuito Darwin) consolidò specifiche configurazioni neurali, le quali furono all’origine di una pressione sul nostro genoma, tale da selezionare i geni in grado di codificare per una buona esecuzione delle proto-parole dapprima, e in seguito delle semplici regole di base per il loro accostamento. Non servì altro. «Ciò che sto proponendo è solo questo: una volta che i nostri progenitori abbiano incominciato a parlare, anche soltanto a livello di pre-linguaggio, il loro cervello avrebbe iniziato a elaborare degli schemi per rendere la produzione di frasi un’operazione routinaria». Derek Bickerton ha dato una risposta naturalistica alla domanda di Wallace, mostrando che, sebbene la mente umana sia effettivamente uno sviluppo evolutivo improbabile, è tuttavia stata resa possibile dalla pressione esercitata dalla nicchia ecologica in cui ci trovammo a vivere; il resto ha funzionato un po’ come un dente d’arresto: acquisite certe facoltà, non abbiamo più potuto tornare in dietro.


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MONDO MIGROS

Un tuffo nel cuore lagunare del Chicche casearie d’alta montagna

Attualità ◆ Migros Ticino offre nel suo assortimento diversi formaggi d’alpe DOP ticinesi Valerio Faretti, tecnico casearia e presidente dellafrancese Societànon Ticinese Economia Alpestre (STEA) Reportage ◆ Tra arcipelaghi selvaggi, sabbiedinere e squali, la Polinesia è solodispiagge da sogno, ma anche giungla e luoghi ci spiega perché queste specialità sono tanto buone Lisa Maddalena, testo e foto

Mucche al pascolo su un alpeggio ticinese. Sotto: alcuni saporiti formaggi d’alpe DOP. (Foto di Giovanni Barberis)

Ah, Tahiti, Bora Bora… Solo sentendo questi nomi viene voglia di essere catapultati su una delle tante isole tropicali, per tuffarsi nelle acque cristalline delle lagune (lagoon) brulicanti di pesci e rinfrescarsi con acqua di cocco. Eppure la Polinesia francese è ben più di questo: la cosiddetta «Collettività d’oltremare» appartenente alla Francia è infatti composta da cinque arcipelaghi (gruppi di isole), che in totale contano 118 isole, distribuite su una superficie grande all’incirca come l’intera Europa occidentale. Un’ampia area che ospita solo circa 300mila abitanti: un po’ come se il Ticino venisse spezzettato e poi sparso in mezzo all’Oceano.

L’isola più grande della Polinesia è Tahiti e si trova nell’arcipelago della Società, così come la famosa Bora Bora Più o meno quattro su cinque abitanti hanno origini polinesiane e parlano una delle lingue locali, delle quali la più parlata è il tahitiano. Dagli anni Ottanta questa lingua viene insegnata nelle scuole al fine di sostenere la cultura locale. Passeggiando per le isole, gli abitanti salutano tutti con un formaggio d’alpe DOP è ia«Il orana! (yo-rah-nah), il buongiorno un’autentica eccellenza» tahitiano, e con un sorrisone, quale prova dellaValerio loro allegria Farettie accoglienza onnipresente. La tradizione vuole Preseidente STEA che a tutti gli ospiti che arrivano in Signor Faretti, di cosa di occupa la STEA? La Società Ticinese di Economia Alpestre (STEA) è nata nel lontano 1946 e si occupa della valorizzazione dei nostri alpeggi e dei loro prodotti. La nostra associazione di categoria è impegnata del supportare i soci alpigiani nelle diverse attività che comporta la vita sull’alpe, al fine di mantenere alta la qualità del nostro prodotto d’eccellenza, il formaggio d’alpe ticinese. Inoltre, grazie al progetto ormai pronto al decollo «Eccellenze alpestri», è nostro obiettivo far conoscere ancora meglio tutta l’attività alpestre e, soprattutto, mantenere i prezzi a un ottimo livello grazie anche alla can-

un hotel venga consegnata una collana di fiori di tiaré, il fiore nazionale che i locali si pongono sopra l’orecchio come ornamento. Ma attenzione: sempre per tradizione, chi è già sposato o fidanzato dovrà mettere il fiore sull’orecchio sinistro, mentre chi è alla ricerca di un compagno lo indossa sul destro. Il 70 per cento degli abitanti della Polinesia francese si concentra a Tahiti, o più precisamente a Papeete, la capitale. La ville, come viene anche chiamata visto che è l’unica vera città della Polinesia, attira numerosi francesi in cerca di lavoro, in un luogo più vivibile delle metropoli francesi. La mancanza di concorrenza nei lavori che richiedono una specializzazione, di fatto, rende la ricerca di un impiego molto più facile; la maggior parte dei locali non dispone di una formazione adeguata per svolgere compiti più specifici. Infatti, in Polinesia tina affinamento situata presso non èdipossibile specializzarsi in tutti i un’azienda delgiovani luganese. campi, e molti sono costretti a studiare all’estero, spesso finendo per Quali sono le peculiarità dei fortrasferirsi definitivamente. maggi d’alpe? Tahiti è l’isola più grande della PoLa tipicità formaggio d’alpe ti-dellinesia e sidel trova nell’arcipelago cinese DOPcosì è data dalle caratterila Società, come la famosa Bora stiche dalla Moorea, qualità della materia Bora, e pure Raiatea e altre prima, del latte ancora.ovvero Questedalla sonoflora principalmente crudo con la sua ricca biodiversità.cirIl isole montagnose e verdeggianti, prodotto è un risultato di altoche valore condate da barriere coralline fornutrizionale contenenmano piscinee salutistico turchesi attorno all’ite, esempio, gli acidi grassi a ca-da solaadprincipale. Il tipico paesaggio tena corta insomma. (i famosi CLA) benefici cartolina, Ma non cercate per la salute, come anche Omega 3 spiagge bianche a Tahiti: su quest’ie Omega 6. Quali criteri deve soddisfare il formaggio d’alpe per potersi fregiare del marchio DOP? I criteri da soddisfare per potersi fregiare del marchio DOP sono sostanzialmente quattro: l’aspetto esteriore che deve presentare una forma idonea alla conservazione (nota massima 4 punti). L’occhiatura deve essere perfetta, ben ripartita e ridotta (nota massima 4 punti). La pasta deve avere una perfetta consistenza, cremosa elastica e con una struttura normale (nota massima 6 punti). Il gusto e l’aroma devono corrispondere a un sapore dolce, franco e aromatico per il formaggio fresco e pronunciato e saporito per quello maturo (nota massima 6 punti). Inoltre, le forme devono

sola, la maggior parte delle spiagge è costituita da sabbia nera. Per fare escursioni a piedi e perdersi nella giungla, invece, Tahiti è perfetta: numerosi sentieri si snodano tra le montagne, le cui vette più alte superano i duemila metri d’altitudine. Nell’arcipelago della Società troviamo anche l’isola di Maupiti, una delle isole più occidentali della Polinesia francese. Una piccola Bora Bora di cent’anni fa, dove il turismo di massa non è ancora arrivato. A Maupiti c’è solo una strada asfaltata, che in poco più di otto chilometri fa il giro dell’isola. Non ci sono né hotel né resort di lusso: gli alloggi per i turisti consistono principalmente di pensioni familiari e campeggi. Gli abitanti dell’isola vivono ancora di pesca e della produzione di copra, un prodotto del cocco. Le palme da cocco sono coltivate sui motu, isolette piatte e sabbioMigros Ticino, l’isola nel suo se che circondano principale, la cui cima sfiora i quattrocento meassortimento, attualmente tri d’altezza. Ogni famiglia dell’isopropone i seguenti la possiede qualche parcella di terformaggi d’alpe DOP: Prato, reno su un motu. Secondo William, Piora, Pesciüm, Camadra, un abitante di Maupiti, questa è una Fieudo, Cristallina 12 mesi, a fortuna: se un motu appartenesse Sorescia 12 mesi, Grossalp una sola persona, molto probabilmente quest’ultima esiterebbe a 12 mesi, Gorda non 12 mesi venderla qualche e Pioraa16 mesi.imprenditore che ci costruirebbe un resort. Gli isolani di Maupiti vanno fieri della loro essere affinate almeno 60 giorni nelisola, così autentica, e desiderano che la cantina resti tale. dell’alpe, dove sono curate dalle esperte mani delisole, casaro. Come sulle altre qui il pesce abbonda e si mangia tutti i giorni: Quanti ticinesi sogrigliato,formaggi stufato, od’alpe secondo la ricetta no disponibili attualmente? locale, crudo con latte di cocco. Gli Per la stagione appena terminata gli amanti del dolce potranno deliziaralpeggi che varietà hanno ricevuto marsi con una di frutti iltropicali: chio DOP sono stati ben o37.carambobanane, manghi, papaye le, tutto l’anno si trova qualcosa. Chi Quest’anno è statadovrà una buona vuole altri prodotti invecestaavere gione per la la nave produzione di provviste, formagpazienza: che porta gio d’alpe? posta e materiale arriva solo una volta Grazie a condizioni climatiche paralla settimana. ticolarmente favorevoli, quest’anno è Lo stesso vale per l’arcipelago delle stata un’ottima stagione perdifficile quanto e Tuamotu: è estremamente riguarda quantità e qualità. costoso trovare verdure fresche prima dell’arrivo della nave di rifornimento. Come si conserva gusta al meUna volta arrivata, eè si una lunga attesa glio questo formaggio? al supermercato per poter acquistare Per una conservazione del forle provviste. Nessuno ideale vuol rimanemaggio d’alpe ticinese DOP, la re a mani vuote e aspettare il canprostina simodovrebbe carico. avere dai 12 ai 14 gradi Celsius e un’umidità Le isole Tuamotudell’85-95%. sono diverse da

quelle della Società: sono 78 isole che formano uno dei più vasti insieme di atolli al mondo. Un atollo è un’isola corallina circolare, solitamente piat-

ta, che racchiude una laguna interna. Questa è collegata con canali naturali all’Oceano, così da permettere un ricambio d’acqua. Le Tuamotu sono

Dalla Francia all’Asia Gente dai tratti asiatici passeggia con una baguette sotto il braccio? Benvenuti nella Polinesia francese. Essendo un territorio dipendente dalla Francia, qui molte usanze sono state portate dai colonizzatori francesi. E così, ecco che nei supermercati si trovano Camembert, Brie e Roquefort. E che dire delle specialità italiane, o della carne secca grigionese? Tutto pur di far sentire a casa il circa 15% degli abitanti di origini europee (e in particolare, i francesi) stabilitisi qui. Ciò nonostante, la maggior parte dei polinesiani veri e propri sembra preferire il cibo ispirato alla cucina tahitiana e a quella cinese (un altro 10% della popolazione è costituito da persone di origini cinesi). Di solito i locali comprano i pasti già pronti nelle roulotte, ossia camioncini dotati di cucina. Queste vendono piatti ispirati alla tradizione cinese come il Chaomen (simile al Chow Mein cinese) o il riso alla cantonese, ma anche piatti locali come il tonno crudo al latte di cocco, l’uru (frutto dell’albero del pane) gratinato o fritto, oppure diversi pesci in tutte le varianti possibili. Non dimenti-

chiamo i dolci: torta di banana alla vaniglia tahitiana, dolcetti al cocco, firi-firi (ciambelle polinesiane)… Insomma, non si resta di sicuro a pancia vuota. L’unico inconveniente: la maggior parte del cibo venduto nei supermercati deve venir importato. Questo genera costi maggiori, ben più alti che quelli in Francia. Inoltre, non tutto è sempre disponibile. Sulle isole più remote bisogna aspettare per giorni la nave che porta provviste fresche, e su altre esiste un vero e proprio «giro malavitoso» degli alimenti. A Bora Bora, non si può sperare di trovare uova: solo chi conosce il gerente del supermercato avrà infatti la possibilità di racimolarne alcune da portare a casa. Per fortuna il cibo locale cresce e se ne trova ancora in abbondanza: lungo le strade si situano numerose bancarelle che vendono diversa frutta, tuberi come l’uru o il taro, e pesce a volontà. È persino possibile raccattare noci di cocco abbandonate: con un po’ di pazienza e l’attrezzatura giusta, si possono aprire e gustare all’ombra di una palma in spiaggia, sentendosi un po’ come Robinson Crusoe.


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Box doccia in promozione

Attualità ◆ Da OBI S. Antonino, fino al 4 novembre, potete approfittare di uno sconto speciale sull’intero assortimento di cabine doccia del rinomato marchio tedesco Breuer

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Quando la terra trema, all’ombra di un vulcano

Fenomeni ambientali – 1 ◆ La caldera dei Campi Flegrei, in Italia, è da tempo interessata da scosse fino a 4.2 della scala Richter; si tratta più esattamente di uno sciame sismico Sabrina Belloni

Papua Nuova Guinea scosse di magnitudo 6.7; Afghanistan 6.4; Indonesia (in oceano) 6.3; sud-est di Honshu (mar del Giappone) 6.1; Chiapas (Messico) 6.0: sono solamente alcuni dei più recenti fenomeni sismici, occorsi in ottobre a meno di un mese dalle devastanti scosse di magnitudo 6.8 che, l’8 settembre, hanno interessato il Marocco, (3mila morti e 5600 feriti). Più vicino a noi, la caldera dei Campi Flegrei, in Italia, è da tempo interessata da scosse fino a 4.2 scala Richter; si tratta di uno sciame sismico, cioè una lunga sequenza di scosse di lieve e media intensità, aventi una magnitudo simile, che colpisce una determinata zona in un periodo di tempo relativamente breve e in cui non avviene un singolo terremoto di magnitudo predominante.

Il sisma del 27 settembre, di magnitudo 4.2, è stato il più forte registrato nei Campi Flegrei da 40 anni a ora. Nella foto: Parco Nazionale del Vesuvio. (The Dronaut)

Ai Campi Flegrei si registrano fenomeni di bradisismo (ovvero d’innalzamento e abbassamento del livello del suolo), e attività fumarolica e idrotermale Gli sciami sismici non sono il segnale premonitore di terremoti devastanti; in Italia, nei territori dei Campi Flegrei (Campania) e dell’Etna (Sicilia) essi accadono ciclicamente, ma non si verificano spesso dei sismi violenti. In particolare, i Campi Flegrei sono interessati dal bradisismo, che consiste in un periodico innalzamento e abbassamento del livello del suolo; è un fenomeno di origine vulcanica e solitamente la formazione di uno sciame sismico è collegata alla fase di innalzamento. La caldera dei Campi Flegrei è una zona dalla struttura singolare: non un vulcano dalla forma di cono troncato ma una vasta depressione o caldera, ampia circa 12x15 km, ben più estesa del vicino Vesuvio. Nel 1538 si è verificata l’ultima eruzione di magma che, pur essendo fra le minori dell’intera storia eruttiva dei Campi Flegrei, ha interrotto un periodo di quiescenza durato circa 3mila anni; è durata solo una settimana, con l’emissione di 0,025 km3 di magma distribuito in un raggio di circa 1 km intorno al centro di emissione, dando origine al cono di Monte Nuovo, alto circa 130 m; l’eruzione fu preceduta da deformazioni del suolo molto vistose e da attività sismica avvertita fino a Napoli; da allora, l’attività ai Campi Flegrei è caratterizzata da fenomeni di bradisismo, attività fumarolica e idrotermale. L’età di inizio del vulcanismo nell’area flegrea non è nota. I prodotti vulcanici più antichi in affioramento hanno 60mila anni e sono stati prodotti prevalentemente da eruzioni esplosive e solamente poche eruzioni effusive. Solo alcuni degli edifici vulcanici che si formarono in questo periodo più antico sono oggi esposti e si può ipotizzare che l’area vulcanica

attiva doveva essere più ampia dell’attuale caldera, all’interno della quale, negli ultimi 39mila anni, sono stati attivi più di settanta centri eruttivi. La struttura attuale deriva dalla sovrapposizione di due principali episodi di sprofondamento connessi all’eruzione dell’Ignimbrite Campana (39mila anni or sono), del Tufo Giallo Napoletano (12mila anni) e da numerosissimi successivi eventi bradisismici, fra i quali i due maggiori e più recenti hanno avuto luogo nei perio-

di 1969-1972 (il massimo sollevamento del suolo fu di 170 cm) e 1982-1984 (180 cm). Dal 1984 il suolo è stato interessato da subsidenza (abbassamento dovuto al peso dei sedimenti che si accumulano sopra) interrotta da piccoli episodi di sollevamento nel 1987 (7 cm), 1994 (1 cm) e nel 2000 (4 cm). La generale subsidenza della caldera dei Campi Flegrei è testimoniata dai numerosi resti archeologici di età imperiale che costellano, a profondità per lo più comprese entro l’isobata dei

–10 m, il litorale flegreo-napoletano e in particolare quella che fu la città imperiale di Baia, della quale possiamo ammirare i resti che si celano fra le costruzioni più recenti della città di Bacoli e sott’acqua, nel fondale antistante Punta dell’Epitaffio. Giuseppe De Natale (geologo e fisico di fama internazionale, dal 2013 al 2016 direttore dell’Osservatorio Vesuviano, coordinatore del progetto Campi Flegrei Deep Drilling Project e dirigente di Ricerca dell’INGV, l’ISolfatara di Pozzuoli. (Norbert Nagel)

stituto Nazionale di Geologia e Vulcanologia) non cela la preoccupazione per le conseguenze che potrebbero occorrere qualora si avverasse un’eruzione esplosiva. «Il sollevamento del suolo sta aumentando, nel porto di Pozzuoli dal 2006 a oggi la superficie si è innalzata complessivamente di 120 cm. La risalita è l’indicatore che in profondità, tra zero e tre chilometri, c’è una sorgente di pressione, cioè magma o acqua che si sta riscaldando, che spacca anche le rocce e, quindi, determina modesti e frequenti terremoti. L’8 settembre c’è stato il sisma di magnitudo 3.8; il 27 settembre, un altro di magnitudo 4.2, che è stato il più forte finora registrato nei Campi Flegrei da 40 anni ad ora… È un’area densamente abitata e a forte vocazione turistica. Considerando il rischio vulcanico, sarebbe opportuno incentivare la popolazione residente a spostarsi altrove e a trasferire le attività». Il dipartimento locale dell’INGV monitora costantemente, e da decenni, i fenomeni: «Quello che registriamo sono deformazione del suolo, terremoti, degassamento, risalita di grandi quantità di gas», spiega il direttore dell’Osservatorio Vesuviano, Mauro Di Vito. Anch’egli chiarisce che le frequenti scosse di modesta entità sono tra i segnali del bradisismo, cioè di sollevamento lento del suolo che deforma la crosta terrestre per la spinta di gas e di magma profondo, fratturandola e generando i terremoti.

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Da Ginevra al Qatar Motori ◆ Al Doha Exhibition and Convention Center questo mese erano presenti 31 brand automobilistici con 10 anteprime mondiali Mario Alberto Cucchi, testo e foto

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Il Salone dell’auto di Ginevra edizione 2023 ha aperto i battenti sulle sponde del lago Lemano, anzi no. Il GIMS 2023 si è tenuto ai primi di ottobre, ma sulle sponde del golfo Persico, in Qatar. Difficile a credersi anche per noi che lo abbiamo visto con i nostri occhi. Ma cosa c’entra il Qatar con la Svizzera? È «un’opportunità nata nel luglio del 2020, nel mezzo della pandemia» spiega Sandro Mesquita, CEO dell’organizzazione ginevrina. «Mi ha telefonato il Ministro del turismo del Qatar, Akbar Al Baker, e mi ha chiesto se ero interessato a portare il “nostro” Salone in Qatar. In Europa era tutto bloccato mentre lì non si erano mai fermati. Trasportare “Ginevra” nel deserto era una bella sfida. Qui abbiamo avuto la possibilità di creare un qualcosa che prima non esisteva, combinare uno show statico con un’esperienza dinamica» continua Mesquita. «Un nuovo format, per questo lo chiamiamo “festival”, che va oltre il Salone portando le auto anche in pista, in città e nel deserto». L’idea – apprezzata sin da subito – è diventata realtà nel giro di pochi anni da quella telefonata. Al Doha Exhibition and Convention Center (DECC) questo mese erano presenti 31 brand automobilistici con 10 anteprime mondiali e quasi il doppio di nazionali. A queste si è aggiunta la presenza di prestigiose auto d’epoca, tavole rotonde su temi legati all’automotive e una parata di oltre un centinaio di dream cars. Nonostante la penisola arabica sia ricca proprio grazie al petrolio, qui la benzina costa solo mezzo franco al litro, la presenza dei veicoli elettrici è stata numerosa come anche quella dei costruttori cinesi. Chery con i suoi due brand Omoda e Jaecoo a fianco di Lynk & Co. Protagonista anche l’americana Lucid che vorrebbe ripercorrere il successo di Tesla. Gli europei hanno risposto con la grande e lussuosa BMW i7 elettrica in versione bicolore che aveva alle sue spalle la nuova Mini Countryman. Mercedes non è stata da meno con la EQS e l’avveniristica Vision EQXX. Anche se la più ammirata dal pubblico locale sullo stand di Stoccarda è stata la Classe G 63 AMG Cube 4x42. Uomini in tunica bianca l’ammiravano già vedendola tra le dune e poco importa se percorre forse solo quattro chilometri con un litro e costa 300mila franchi svizzeri. Importante lo stand della Lamborghini in cui era presente l’amministratore delegato e presidente

Stephan Winkelmann che ha svelato la Revuelto erede dell’Aventador e il concept elettrico Lanzador che si trovava faccia a faccia con la Porsche Mission X. Quest’ultima è una supercar leggera con porte in stile Le Mans equipaggiata con un sistema di trazione elettrica. Parlando di Supercar che tanto piacciono agli emiri non mancava neppure McLaren mentre è stata rumorosa l’assenza di Ferrari e Maserati. Non è passata inosservata la presenza del gruppo Volkswagen che con due pulmini elettrici id-buzz ha coperto su strada la distanza di circa 8mila chilometri che separano Ginevra da Doha. Sullo stand di Audi ha debuttato il restyling della Q8 di fianco al prototipo della monoposto di F1 che scenderà in pista nel 2026. Importante la presenza dei suv che, da queste parti, si trovano davvero a casa grazie agli ampi spazi disponibili ben diversi dalle strette strade europee. Esposti tutti i modelli Range Rover e Land Rover. Qui la Defender V8 sembra un’utilitaria. Tanto amata tra chi va nel deserto, la Toyota Land Cruiser che è stata mostrata nella sua inedita versione GR-Sport ovvero la sportiva Gazoo Racing, e anche la Nissan Patrol nella sua versione sportiva Nismo. Qui da noi vanno già la Yaris GR e la Juke Nismo, invece in Qatar le versioni equivalenti ma con la taglia da «navi del deserto». Tra le tante novità, la più pazza è la moto volante proposta dalla francese Lazareth. Realizzata con quattro reattori da modellismo, al centro delle ruote si trasforma in un veicolo che sembra uscito dalla serie cinematografica MadMax. «GIMS Qatar non è un esperimento ma è il frutto di un accordo che prevede cinque edizioni nell’arco di dieci anni, ovvero una ogni due anni». Spiega il CEO Mesquita. «Ma questo non annulla l’edizione svizzera che infatti aprirà a Ginevra il prossimo mese di febbraio 2024». Insomma un’opportunità anche per la confederazione che vede il brand «Ginevra» da protagonista negli Emirati Arabi Uniti. «E chissà che per la prossima edizione a Doha non sia possibile anche mangiare una tradizionale fondue» conclude Sandro Mesquita. Intanto i riflettori restano puntati sul Qatar, infatti dopo i mondiali di calcio del 2022, il GP di F1 di domenica 8 ottobre 2023, il Festival ginevrino GIMS in trasferta, è la volta dell’EXPO che si terrà da ottobre a marzo 2024.


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Educare all’autonomia attraverso il lavoro

Giovani in difficoltà ◆ Il progetto AdoMani della Fondazione Amilcare compie dieci anni, pensato per ragazzi tra i 15 e i 20 anni propone attività pratiche di corta durata remunerate. Ce ne parla Patrizia Quirici, vicedirettrice della fondazione Valentina Grignoli

Compie dieci anni il progetto AdoMani, una preziosa iniziativa grazie alla quale la Fondazione Amilcare accompagna i suoi utenti verso un domani più «gestibile». Di che cosa si tratta? Di un avvicinamento dei ragazzi dai 15 ai 20 anni verso un mondo del lavoro accessibile, concreto e utile, adeguato alle loro risorse. L’esperienza è ripetibile ogni settimana per tre giorni, remunerata e gestita da un’équipe di educatori della fondazione. Si tratta di attività che possono spaziare dal giardinaggio allo sgombero, dall’allestimento di mostre ai traslochi, grazie alle quali i ragazzi si sentono utili e spesso riescono a uscire da una spirale di negatività e passività. Il lavoro diventa così strumento di mediazione educativa e può facilitare la costruzione di una relazione,

L’esperienza di Vito «Ho fatto giardinaggio, poi traslochi, pulizie di appartamenti, pittura, sgomberi e lavori nella natura come pulire una spiaggia o togliere felci infestanti. Io ho 18 anni, vivo a casa e sono un utente dello Spazio Ado (centro a Lugano-Besso delle attività diurne della Fondazione Amilcare, ndr.). Lavorare qui mi permette di dare tutto quello che ho per raggiungere un risultato, verificare quanto sono idoneo al lavoro, la mia attitudine e quanto sono dedito. Mi permetterà di lavorare in futuro fuori! La cosa più bella è lavorare a stretto contatto con gli educatori, parlando con loro, diventiamo colleghi. Lavorerei sempre, ma le richieste sono tante e quindi ci sono settimane in cui non si può perché bisogna dare possibilità anche agli altri. Io sono entusiasta, i ritmi sono tranquilli, e le responsabilità ci sono, ma non sono troppe».

permette di acquisire una maggiore consapevolezza delle proprie capacità e risorse, ma anche dei limiti. Inoltre, spostando l’attenzione su un’attività lavorativa, i ragazzi prendono temporaneamente distanza dai problemi e dalle preoccupazioni quotidiane. Per conoscere la realtà di AdoMani più da vicino, abbiamo incontrato Patrizia Quirici, vicedirettrice della Fondazione Amilcare. Innanzitutto, quali sono le problematiche che accomunano gli utenti della Fondazione Amilcare? I ragazzi arrivano da noi perché vivono delle difficoltà in famiglia tali da non permettere più loro di vivere nel nucleo d’appartenenza. Conflitti, maltrattamenti, ma anche trascuratezza o consumo di sostanze. La famiglia è in difficoltà nel sostenere il loro percorso di crescita e i ragazzi si trovano in situazioni di disagio. Chi lavora per AdoMani? Tutti i ragazzi della Fondazione, in tutto una sessantina, tra i 15 e i 20 anni. Proponiamo però AdoMani soprattutto a chi non è inserito in un percorso formativo scolastico o professionale, o che lo è solo in parte, e quindi ha disponibilità in settimana. Questi ragazzi hanno bisogno di essere occupati e sperimentarsi in attività di vario tipo per ritrovare la fiducia in sé stessi, mettersi in gioco per vedere il risultato del proprio lavoro. Si tratta di attività prevalentemente pratiche, in equilibrio tra interno o esterno della Fondazione, per garantire un’esperienza diversificata. Per quale motivo questi ragazzi si trovano fuori dal circuito formativo? Non stanno bene, sono sofferenti per situazioni che vivono e faticano ad avere continuità in un proget-

asi lavoro. Sono attività alla portata di tutti che permettono di sviluppare competenze sociali utili ai ragazzi per il loro reinserimento in altri contesti lavorativi e scolastici. Per integrarsi e avere una vita dignitosa.

Con AdoMani i ragazzi fanno esperienza in diverse attività pratiche alla portata di tutti sviluppando competenze sociali utili e riacquisendo fiducia in sé stessi.

to. Prima di affrontare di nuovo un percorso formativo serve «sistemare» una serie di vissuti, di esperienze, riuscire a essere sufficientemente sereni per investire nuove energie. Ci sono ragazzi che non hanno ottenuto la licenza di scuola media, questo è un primo indicatore di esclusione. Senza è difficile poter accedere a un apprendistato. Poi non hanno fiducia, non solo verso sé stessi ma anche verso il mondo degli adulti. Hanno paura di fallire, non si sentono più capaci, faticano a credere di avere un valore e il diritto ad un posto nel mondo. Sono ragazzi a rischio di emarginazione. Collocati poi in Fondazione, e questo comporta, rispetto ai coetanei, un fattore di criticità. Tornando ad AdoMani, come nasce l’esigenza della sua creazione? Ci siamo resi conto che avevamo tanti ragazzi non più inseriti nei per-

corsi formativi classici e che quindi rimanevamo «incastrati» in una spirale di noia e insoddisfazione non positiva per la crescita e lo sviluppo psicofisico e sociale. Abbiamo sentito la necessità di provare a dare una risposta ai bisogni, attraverso attività di corta durata – il ragazzo può iscriversi anche solo una giornata. Si tratta come detto di attività semplici, concrete, dove è possibile vedere il risultato del proprio lavoro. Con AdoMani proviamo a creare un servizio dove i ragazzi possono iscriversi e lavorare se vogliono, e ricevono un compenso in denaro a lavoro fatto. Un’esperienza molto vicina alla realtà, e funziona! Vediamo che, con questo tipo di formula aperta (ci si iscrive prima a uno e poi a due giorni), sperimentano la puntualità, la costanza, il lavorare in gruppo, il rispetto per il prossimo e verso l’impegno preso. Tutte competenze trasversali fondamentali per qualsi-

Che cosa significa lavorare in un ambiente protetto? I percorsi sono individualizzati, si guarda al ragazzo nella sua globalità, rispetto ai suoi bisogni, le sue risorse e le sue fragilità. Gli obiettivi raggiunti sono quelli di cui hanno realmente bisogno. All’inizio i percorsi sono caratterizzati da un maggior accompagnamento, ma man mano che il giovane acquisisce fiducia si cerca di metterlo sempre di più in una situazione di contesto reale. AdoMani, benché si svolga in un contesto protetto, si propone come vero e proprio datore di lavoro. I ragazzi sono spronati a vivere l’esperienza, a chiedere sempre meno sostegno. Cos’è il lavoro nella nostra società e a cosa può condurre invece l’inattività, secondo lei? Una parte della nostra identità è data dal lavoro che facciamo, attraverso il lavoro ci definiamo socialmente e non solo professionalmente. A causa dell’inattività prolungata nel tempo la persona si perde, prova sofferenza, può ammalarsi. Si sente emarginata, prova sentimenti di inutilità e frustrazione. I ragazzi che non riescono a inserirsi, tendono a entrare in circuiti malsani che li possono portare a non evolvere, a marciare sul posto, a implodere. Sappiamo che è difficile per tutti. A qualsiasi persona si chiede di essere performante, la società ci vuole così. I nostri ragazzi, che partono già svantaggiati a causa della loro storia di vita, fanno ancora più fatica in questo. Ma ci provano, trovano il coraggio e ce la possono fare.

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Da qualche anno in vari Paesi del mondo si celebra la festa dei nonni, ed è tutto un pullulare di proposte d’acquisto rivolte a figli e nipoti, dagli ambiti floreali a quelli librari. In quest’ultimo settore, la letteratura per l’infanzia la fa da padrona, e siccome in Italia tale festa cade il 2 ottobre (per farla coincidere con la ricorrenza cattolica degli Angeli Custodi), il mese di ottobre vede un’infinità di proposte (o riproposte) di storie per bambini che parlano di nonni. Al di là del fatto che un anziano è una persona a tutto tondo e non dovrebbe essere mai identificato dalla sua funzione di nonno, tanto più in un’epoca come la nostra, ossessionata dal politicamente corretto e dalla condanna assoluta di ogni tipo di stereotipo, trovo incomprensibili, e vagamente irritanti, tutte queste rappresentazioni di nonne con la crocchia, pazienti e sorridenti, e di nonni con le camicie a scacchi e il sorriso bonario. Felici eccezioni ce ne sono, per carità, e cominciano a non essere poche, pertanto colgo l’occasione per segnala-

di Letizia Bolzani

re un romanzo bellissimo in sé, ma che in più mette in scena una straordinaria figura di nonna: lei più che cucinare ama fare gare automobilistiche, e le fa con i lunghi capelli grigi al vento nella sua decappottabile, porta pantaloni zebrati, improbabili paillettes e smalti coloratissimi, è irriverente, ma è anche piena di amore per la sua famiglia. È da lei che il dodicenne Sigge si è appena trasferito con le due sorelline, il cane, due porcellini d’India, una tartaruga, e la mamma, appena separata, in attesa di trovare una nuova sistemazione. C’è molto amore in questa famiglia, dove

magari si litiga ma poi ci si sostiene, ognuno nelle proprie fragilità. E si ride, si ride moltissimo. Sante Bandirali – Gloria Tundo Per mano Uovonero (Da 6 anni)

«Uno sciame di libellule d’argento». Ecco cosa sembravano quelle mani sui tasti del pianoforte. Libellule «che risuonavano di gioia e di lutto, di tormento e di pace», così come la storia che ci viene raccontata. È la storia, vera, del pianista Paul Wittgenstein (1887-1961), fratello del filosofo Ludwig. Erano in otto, i fratelli Wittgenstein, e la loro era una delle famiglie industriali più ricche dell’Impero Austroungarico. Una famiglia frequentata, grazie alla sensibilità della madre Leopoldine, da musicisti come Brahms, Mahler, Clara Schumann, Bruno Walter, un milieu coltissimo, che non poteva che favorire il talento musicale dei ragazzi, pur con la strenua opposizione del padre, che voleva i figli maschi non nell’arte ma in acciaieria. Tre di loro finirono con il suicidarsi, e ciò rende ancora più sorprendente questa storia di resilienza, così permeata di pas-

sione per la vita. Se ce n’era uno che avrebbe potuto arrendersi era proprio Paul, dopo che nel 1914, in guerra, sul fronte orientale, venne colpito e si risvegliò in ospedale, prigioniero dei russi, con il braccio destro amputato. Senza il braccio destro. «E io ero rimasta da sola, a condividere con lui il gioioso ricordo dei passati trionfi e la disperazione di un futuro senza musica, di una carriera amputata, proprio come il suo braccio». Chi racconta questa storia è la mano sinistra di Paul, la quale si trova, grazie alla commovente forza vitale del pianista, a cercare in ogni modo

di «riempire da sola il silenzio della mia perduta sorella». Prigioniero in un campo di internamento in Siberia, Paul trova una cassa di legno abbandonata, vi incide i tasti di un pianoforte, e comincia a esercitarsi. Con ciò che gli resta. Ogni giorno, esercita quella mano sinistra su quel ruvido asse, sempre tenendo accesi passione e desiderio, senza arrendersi, neanche quando sarà di nuovo a casa, in Austria, e potrà nuovamente sedersi a un pianoforte e affrontare il pubblico. Perché lo affronterà, il pubblico, con concerti adattati o scritti appositamente per la mano sinistra, come il celebre Concerto che Ravel scrisse per lui, e come tutte quelle meravigliose esecuzioni che facevano percepire non una mancanza ma «una ricca presenza». La scrittura elegante di Sante Bandirali riesce in poco testo (quello consentito da un albo illustrato) a darci immagini e squarci poetici, sempre filtrati attraverso (e anche questa scelta enunciativa è interessante) la prospettiva narrante della mano sinistra. Una prospettiva quasi tattile, luminosa e dinamica: «Saltando e danzando, sentivo sotto di me l’avorio levigato dei tasti e le schegge della cassa di legno».


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Settimanale di informazione e cultura

Anno LXXXVI 16 ottobre 2023

azione – Cooperativa Migros Ticino

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SOCIETÀ / RUBRICHE

Approdi e derive

di Lina Bertola

Saper attendere

«San Gottardo: tempi d’attesa previsti…»: anche durante l’estate appena trascorsa un vero e proprio mantra informativo ha scandito i ritmi del nostro viaggiare, non solo vacanziero. Poi, a settembre, è arrivata la chiusura della galleria (ora riaperta) e l’attesa si è spostata sui cosiddetti percorsi alternativi. Nel frattempo anche le FFS ci hanno «regalato» un’ora in più, un altro tempo di attesa per arrivare a destinazione. Il traffico ferroviario è stato deviato sulla vecchia linea panoramica, il cui nome è già una promessa di bellezza. Ma l’impazienza di giungere finalmente alla meta ha spesso reso vana la possibilità di assaporare la bellezza del paesaggio. Nell’attesa sempre più spazientita appare difficile prendersi il tempo per attendere l’apparire e lo sparire della bella chiesetta di Wassen, per rivivere quel gioco un po’ infantile del lasciarsi sorprendere che ha accompagnato tante generazioni di piccoli (e grandi) viaggiatori.

Durante un recente viaggio mi è capitato di rivivere proprio queste atmosfere ed è stato bello, non solo ritrovare le improvvise apparizioni della chiesetta, ma anche rivedere papà nel vagone ristorante, intento a tenere sotto controllo i cucchiai dell’immancabile minestra d’orzo, minacciata da continue curve e sballottamenti. Il tempo dell’attesa per arrivare a destinazione mi ha offerto così un viaggio inatteso nel tempo dell’intimità. L’ho vissuto come un dono, ben consapevole del valore di questo tempo-altro, prezioso proprio perché spesso inaccessibile nel nostro vivere quotidiano, sempre più in ostaggio ai ritmi del fare, con le sue accelerazioni che impediscono di riconoscere nell’attesa anche una felice occasione per accogliere esperienze significative. La difficoltà di attendere e il fastidio per l’attesa si manifestano in molti aspetti della nostra esperienza. Basterebbe ad esempio pensare a quan-

do i bambini chiedono alla mamma un regalo e lei magari risponde che sì, lo riceverai per Natale. Grande delusione: siamo ad ottobre, dovrò aspettare un’eternità! Il desiderio, che è un nutrimento dell’attesa, non viene riconosciuto e coltivato nel suo valore: bisogna spegnerlo, o meglio consumarlo il più presto possibile. Tutto ciò, ovviamente, non riguarda solo i bambini, e non solo perché anche i nostri desideri di adulti vengono spesso soffocati nel loro consumo immediato. Oltre ad ostacolare questa intima esperienza, il fatto di non saper attendere tende pure ad impoverire il nostro agire quotidiano. Se l’attesa è considerata sempre e comunque un intralcio, un’indesiderata sospensione, una costante minaccia al nostro essere presenti sulla scena del mondo, performanti ed efficienti, si perde di vista il suo profondo valore esistenziale. Si dimentica che attendere non significa solo aspettare,

Terre Rare

ma significa anche prestare attenzione. Attendere significa in primis volgere lo sguardo verso qualcosa che chiama, che ci interpella e ci chiede di prendercene cura. Un’occasione per sottrarci alla pressione costante dell’agenda che riduce l’attendere a una indesiderata costrizione, a un insopportabile aspettare. Consapevoli di questo suo valore, quando l’attesa sospende il tempo del fare possiamo allora provare a sostare nel tempo dell’essere: quel tempo che, tra l’altro, è venuto a cercare proprio me con il sapore della minestra sul Gottardo. Quando l’attendere si manifesta come attenzione si trasforma in un invito a fare esperienza di noi stessi, a prenderci cura del nostro sentimento di interiorità, ad ascoltare le sue irrinunciabili domande di senso e a dare ospitalità all’altro che è in noi. Allora il tempo dell’attesa non viene più percepito come un vuoto, come una perdita, ma al contrario può diventare il

luogo di un’esperienza di pienezza, di un rivelarsi inatteso di ciò che ci abita e in silenzio ci interpella. L’attendere può invitarci ad accogliere un tempo speciale che tocca la qualità del vivere, un tempo così diverso dal tempo che corre veloce e che del vivere misura la quantità. Una specie di kairos, di «tempo riempito dell’adesso», secondo la felice espressione del filosofo Walter Benjamin, così altro rispetto alla corsa agitata di kronos. In questi momenti l’attesa permette di ricongiungermi con un’esperienza originaria: sentire che ci sono, che sono qui. Sono momenti in cui posso sperimentare quella risonanza con il mondo, così ben descritta da Hartmut Rosa. «Un’apertura – scrive il filosofo – in cui lascio che qualcosa mi tocchi e mi trasformi». Sono momenti che non si possono pianificare ma si producono da sé quando interrompiamo il nostro continuo agitarci in mille attività, e quando impariamo ad ascoltarli.

di Alessandro Zanoli

L’AI usata in modo intelligente ◆

Si è tenuta nelle scorse settimane la nuova edizione della conferenza pubblica del TX-Group, il grande gruppo economico zurighese che ingloba attività di vario genere, tra cui l’editore Tamedia, i siti web Homegate, Autoscout24 e molto altro. L’occasione è stata molto interessante perché ci ha permesso di dare un’occhiata dietro le quinte, per quanto possibile, dell’attività di un’azienda sicuramente molto complessa e, possiamo dire, per molti versi fuori dagli schemi di business tradizionali. Combinazione ha voluto che proprio nei giorni precedenti il presidente di Tx Group, Pietro Supino, fosse a Lugano, invitato per una conferenza dalla Fondazione Moebius. L’occasione era stata davvero rara, e significativa la presenza in sala di un folto gruppo di giornalisti ticinesi, ma anche di editori. Entrambi si aspettavano da Supino risposte e indicazioni

legate all’avvenire dell’informazione e dei giornali stessi, che stanno vivendo una drammatica contrazione di vendite e il cui futuro è incerto. Supino era stato molto chiaro e lineare nel suo ragionamento: la crisi della carta stampata è dietro l’angolo, ha detto, principalmente perché già oggi si può notare come l’industria manifatturiera non si preoccupi più di costruire nuove rotative né programmi informatici evoluti per la stampa di giornali cartacei. Entro pochi anni mancherà quindi tutta l’infrastruttura tipografica e l’informazione sarà costretta a percorrere nuove strade, con evidenza quelle digitali. Tornando comunque alla TX Conference 2023, è stato interessante notare come il programma fosse largamente incentrato proprio sul tema dell’informazione. Diversamente dall’anno scorso, in cui erano state proposte riflessioni interdisciplinari sul tema

Le parole dei figli

dell’intelligenza artificiale (si era parlato di robot e quant’altro), i contributi quest’anno ci sono sembrati focalizzarsi di più sulla pratica giornalistica, per mostrare come l’AI venga implementata nel lavoro delle moderne redazioni. Al centro dell’interesse naturalmente le testate di Tamedia. La nostra impressione personale è stata che questa contestualizzazione abbia reso la discussione molto concreta e utile. Insomma la Tx Group di quest’anno è stata meno glamour e più informativa. In particolare abbiamo apprezzato gli interventi di Dominic Herzog, Chief Data Scientist del TX Group (fa un po’ impressione vedere assegnata a un giornalista una simile carica) e di Désirée Pomper, caporedattrice di «20 Minuten». Il primo ha mostrato come i processi di creazione dell’informazione di oggi non possano più fare a meno di utilizzare le nuove tecnologie.

L’intelligenza artificiale, insomma, è una risorsa che non può essere ignorata. Nell’ottica di un servizio di informazione però è opportuno usare l’AI non per replicare quello che l’uomo fa già, ma per aumentare le possibilità e la prospettiva. In modo molto interessante ha indicato che il percorso da compiere è quello dall’AI all’IA, cioè dall’«Artificial Intelligence» all’«Intelligence Augmentation», cioè all’incremento delle possibilità di utilizzazione, con l’allargamento dello spettro di analisi dell’informazione che la nuova tecnologia permette. Dal canto suo Désirée Pomper ha invece mostrato come una riorganizzazione nella gestione delle notizie all’interno di «20 Minuten» ha portato una concreta inversione di tendenza nel calo di lettori a cui era andato incontro il quotidiano gratuito dopo la pandemia. Oltre a una ride-

finizione nel tono dell’informazione, che era ritenuto troppo negativo e foriero di preoccupazione da parte dei giovani lettori, un elemento di svolta è stata potenziare i servizi giornalistici originali, realizzati da cronisti in loco, anche all’estero. In questo modo si è attribuita maggiore autorevolezza e novità a una testata che veniva percepita come omologata all’informazione generale, d’agenzia. Investire nel lavoro giornalistico: una buona ricetta per i media, in generale? Chissà. Un ultimo appunto, di colore, per segnalare la generale indifferenza verso la chat di discussione offerta ai partecipanti da remoto alla conferenza. Se lo scorso anno vi si erano viste critiche molto vivaci e ostili all’AI e alle sue applicazioni, quest’anno nessun segno di dissidenza. Probabilmente ci siamo tutti abituati, rassegnati all’idea.

di Simona Ravizza

TikTok: termini d’uso e policy privacy ◆

«Sono su TikTok!», scandisce Clotilde, la mia 15enne, quando chiedo «Che cosa stai facendo?», domanda che persevero a rivolgerle nonostante la risposta sia scontata. Sono consapevole di essere come genitore in ottima compagnia. È il motivo per cui avere sempre più informazioni su come funziona il social prediletto dagli Gen Z è per me ormai un chiodo fisso anche nel mio mestiere di giornalista. Di solito questa rubrica ha l’obiettivo di aiutarci a capire il linguaggio degli adolescenti per cercare di decifrare meglio anche i loro pensieri. Stavolta, invece, vorrei che fosse utile per integrare Le parole dei figli con qualche spiegazione dettagliata da parte di noi mamme e papà su come i social siano in grado di leggerci nel pensiero. Un meccanismo che i giovanissimi spesso non conoscono nonostante l’uso assiduo della piattaforma.

Con Il caffè delle mamme abbiamo seguito il social network che oggi conta 1,2 miliardi di utenti unici al mese a livello globale (di cui il 25% con un’età compresa tra i 10 e i 19 anni) fin da quando ancora si chiamava Musical. ly e i due giovani imprenditori cinesi Alex Zhu e Luyu Yang hanno portato milioni di adolescenti a muovere le labbra a ritmo di musica e ballare gesticolando. Dopo l’acquisto dell’agosto 2017 di Musical.ly da parte della cinese ByteDance, abbiamo capito che l’app più amata dagli adolescenti è diventata ormai uno dei loro canali preferiti di informazione sull’attualità. Di qui l’esigenza di metterli in guardia dalle fake news, rilanciando gli allarmi di società indipendenti come NewsGuard che studiano l’affidabilità delle fonti di notizie: spesso il popolare social offre, infatti, ai nostri figli informa-

zioni false e fuorvianti. Adesso facciamoli riflettere sulle condizioni che loro accettano quando creano un account TikTok e spuntano il consenso sui termini d’uso e la policy privacy, che mai nessuno legge. Con i termini d’uso le condizioni principali che vengono accettate sono due, spiegate così da TikTok: 1) «Non devi pagare per l’uso della nostra Piattaforma, ma, in cambio, veniamo pagati da terzi affinché ti possano pubblicizzare o vendere prodotti»; 2) «Quando pubblichi un contenuto sulla Piattaforma (…) altri utenti potranno a loro volta utilizzarlo. Laddove tu decida di rimuoverlo successivamente, copie dello stesso realizzate da altri utenti potranno comunque essere visualizzate sulla Piattaforma». Con l’informativa sulla privacy invece autorizziamo TikTok a raccogliere tutti i contenuti creati: fotografie, video, registrazioni audio, li-

vestream, commenti, hashtag, feedback, revisioni, nonché i relativi metadati (fra cui, quando, dove e da chi è stato creato il contenuto). I testi dei messaggi e i relativi metadati (l’ora in cui il messaggio è stato inviato, ricevuto e/o letto, nonché i partecipanti alla comunicazione). Informazioni sugli acquisti. Ritmi di battitura. Localizzazione. Interessi. A questo punto è bene che i Gen Z siano consapevoli delle conseguenze. Per testarle sul campo a Dataroom del «Corriere della Sera» abbiamo fatto un esperimento con l’aiuto degli esperti informatici di Swascan di Pierguido Iezzi, e di Andrea Rossetti dell’università Bicocca e Stefano Rossetti di Noyb, il centro europeo con sede a Vienna sui diritti digitali. Tre i risultati principali. Uno: in base all’indirizzo Ip che indica il wi-fi a cui io sono collegata, chi è vicino a me

e collegato alla stessa rete riceve pubblicità su Instagram di quello che interessa a me su TikTok. Due: basta una ricerca su Google per fare comparire su TikTok la pubblicità di quello che abbiamo googlato. Tre: basta una ricerca su TikTok che possa farti individuare come possibile gamer per farti comparire sulla piattaforma la pubblicità di una società di videogiochi, la VGP, che ti spinge a giocare sempre di più. Il motivo è che, noi non lo vediamo, ma ogni volta che utilizziamo TikTok, come qualsiasi altro social, si generano migliaia di file di testo con tutte le informazioni di cui sopra che confluiscono in mega server per poi finire alle società di profilazione, che li smistano per farti diventare una «categoria» e usarti poi a loro piacimento per proporti pubblicità, ma anche per sapere per esempio a un colloquio di lavoro i tuoi punti deboli.


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azione – Cooperativa Migros Ticino 15

TEMPO LIBERO ●

Arcipelago polinesiano Isole montagnose e verdeggianti, circondate da barriere e vasche naturali turchesi attorno a Tahiti

Sfiziosa e leggera insalata Lingue di carote di vari colori e ceci croccanti uniti su una crema di tahina per un antipasto variopinto

Pagine 16-17

Pagina 19

L’allegra Duranta erecta Da luglio fino ai primi di novembre è un susseguirsi di nuovi fiori dal colore del mare, simili ai gelsomini

In sella senza cavallo L’hobbyhorse è uno sport che prevede vere e proprie sfide in un contesto considerato «equestre»

Pagina 20

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Per le strade del Ticino (e non solo) a tutto gas

Adrenalina ◆ Pluripremiato vincitore del Rally di casa nella classifica assoluta, Kevin Gilardoni di Soazza pensa già al sesto podio Moreno Invernizzi

Kevin Gilardoni ormai è un habitué del gradino più alto del podio del Rally del Ticino, avendo vinto la gara per tre volte, prima nella sua categoria, poi in quella assoluta addirittura cinque volte, l’ultima delle quali qualche giorno fa. «Vincere sulle strade di casa è sempre qualcosa di speciale; per me è la gara più importante della stagione rallistica», sottolinea il 31enne di Soazza. «Lo è perché queste strade le sento mie e dunque… gioco in casa, lo è anche perché sulle mie spalle ho oltre cento aziende, che rappresento e che voglio ripagare al meglio per la fiducia che ripongono in me e nel mio progetto sportivo. Usando una metafora, per un pilota rossoblù, il Rally del Ticino è come il derby di hockey tra Lugano e Ambrì Piotta: un evento che per taluni vale anche più di un intero campionato. Ciò vale anche per me. È vero che in carriera ho vinto diversi titoli a livello internazionale, ma farlo qui, nelle strade di tutti i giorni, è sempre qualcosa di speciale, quasi unico».

Kevin Gilardoni. (Autipics )

«Non c’è e non ci sarà mai una vittoria facile, perché per riuscirci devi pur sempre portare una macchina al suo limite» E l’impresa, come detto, gli è riuscita ben cinque volte, cosa che fa di lui il più vincente da sempre della competizione rossoblù, al pari di Felice Re. «L’emozione che provi quando sali sul gradino più alto di quel podio non ha eguali. Allo stesso tempo, inevitabilmente, ogni volta che ci sali, poi l’anno seguente ti senti ancora più pressione addosso, e le aspettative nei tuoi confronti, da parte di pubblico, avversari e pure sponsor, aumentano. Di pari passo, aumenta pure l’adrenalina che provi: la gente, a quel punto, è quasi come se si aspettasse la tua vittoria, fermo restando che quella te la devi conquistare sulla strada, metro dopo metro, mantenendo sempre la massima concentrazione, perché basta una sbavatura di troppo per compromettere tutto». Non tutte le conquiste sono peraltro paragonabili, alcune sono più difficili di altre. «Premetto che, al di là di tutto, non c’è e non ci sarà mai una vittoria facile, perché per riuscirci devi pur sempre portare una macchina al suo limite, cosa che non è evidente. Ciò detto, se guardo a queste cinque vittorie, direi che quella più sofferta è stata quella del 2018, quando l’ho spuntata su Giandomenico Basso per la miseria di due decimi di secondo, recuperando nell’ultima prova di 3 km un ritardo di 3,7 secondi». Non importa quante se ne vincono, comunque: come nell’amore, la prima vittoria nel Rally del Ticino non si

scorda mai: «All’epoca correvo ancora con la Clio R3, dunque con la trazione anteriore, con cui avevo già vinto diverse volte ma nella mia categoria. Nel 2016 avevo così deciso di prendere la Hyundai Wrc: prima di allora non avevo mai guidato una 4x4. Al Rally del Ticino sono arrivato quasi acerbo in materia al cospetto di Felice Re. Oltre alla poca conoscenza del mezzo, quell’anno a complicare le cose era stata la meteo, dato che pioveva: non certo l’ideale per chi deve ancora familiarizzare col mezzo. Ma è andata benissimo, al punto che avevo vinto tutte le prove. Questo ha fatto sì che mi innamorassi ancora di più delle 4x4, a cui poi sono sempre rimasto fe-

dele, togliendomi anche parecchie altre soddisfazioni». Una passione per i rally, quella di Kevin Gilardoni, che testimonia l’evoluzione di altri amori: «Premetto che io non nasco come pilota di rally. Ma come appassionato di motori sì. A tre anni montavo già in sella a una moto, pur non avendo mai gareggiato con una due-ruote. A quattro ero già sui go-kart, con cui due anni più tardi ho iniziato ad allenarmi con una certa regolarità sulle piste di Osogna e Magadino. Poi, a 14 anni mi sono messo al volante di una monoposto, sulle piste. Nel 2014 ho deciso di percorrere una strada tutta mia, aprendo una mia azienda che mi ha permesso

di trasferirmi negli Stati Uniti». Dove la passione di Kevin Gilardoni per i motori invece di spegnersi è esplosa: «In America sono stato il primo svizzero a staccare la licenza per correre nelle corse Nascar. Negli Stati Uniti ci sono rimasto in totale due anni, facendo il pendolare da una parte all’altra dell’Atlantico. Parallelamente ho iniziato la mia carriera nei rally, in pianta stabile a partire dal 2015: ho cercato di unire l’utile al dilettevole, visto che quella era l’unica disciplina motoristica in grado di dare la giusta visibilità ai marchi locali nel loro territorio». Ma ovviamente, per poterlo fare nel modo migliore, occorre anche vincere. Cosa che, appunto, Kevin Gilardoni ha dimostrato di saper fare alla perfezione collezionando un successo dietro l’altro al Rally del Ticino. E ora è all’inseguimento del sesto sigillo sulle nostre strade: «Assolutamente sì. Del resto ho già lanciato la sfida sul podio di questa edizione!». Ma veniamo ai fatti: sono diverse le considerazioni da fare quando ci si mette al volante di un’auto da rally, tra le tante vi è la necessità di valutare il fondo: «La superficie ghiacciata è quella più scivolosa e dunque la più rischiosa. Ma molte insidie le presentano pure quelle macchie di umidità che non t’aspetti lungo un tratto generalmente secco e che dunque stai affrontando con coperture da asciutto».

E poi c’è la velocità in relazione al percorso: «A mio modo di vedere chiunque può ambire a sedersi sul sedile del guidatore di una vettura di rally in gara, ma solo in pochi riescono a spingere determinate macchine al loro limite. C’è chi lo fa per passione, chi lo fa per diletto e chi lo fa per professione: tre ambiti completamente differenti che di riflesso implicano anche tre approcci completamente differenti. Non c’è un modo giusto o sbagliato di guidare, ma non deve mai mancare la passione. Il rally, in fondo, è uno sport… autodidattico: su qualsiasi strada ognuno può allenarsi a prendere mentalmente nota delle caratteristiche del percorso, le stesse che poi, in gara, ti legge il navigatore». Se non avesse fatto il pilota di rally, d’altro canto, Kevin Gilardoni nella vita avrebbe fatto «in ogni caso il pilota: è qualcosa che fa parte del mio Dna fin dalla nascita in pratica. Basti pensare che a pochi mesi facevo già… il volante con il piatto!». Alla domanda in merito alla paura al volante, Kevin Gilardoni è determinato: «No, non ne ho mai avuta, ma molte volte senti quella scarica di adrenalina che ti corre lungo la schiena. I pericoli, sulle strade ci sono, e a nessuno piace esservi confrontato faccia a faccia. Ecco perché cerco di lasciarmeli alle spalle il più velocemente possibile».


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Un tuffo nel cuore lagunare del

Reportage ◆ Tra arcipelaghi selvaggi, sabbie nere e squali, la Polinesia francese non è solo spiagge da sogno, ma anche giungla e luoghi spe Lisa Maddalena, testo e foto

Ah, Tahiti, Bora Bora… Solo sentendo questi nomi viene voglia di essere catapultati su una delle tante isole tropicali, per tuffarsi nelle acque cristalline delle lagune (lagoon) brulicanti di pesci e rinfrescarsi con acqua di cocco. Eppure la Polinesia francese è ben più di questo: la cosiddetta «Collettività d’oltremare» appartenente alla Francia è infatti composta da cinque arcipelaghi (gruppi di isole), che in totale contano 118 isole, distribuite su una superficie grande all’incirca come l’intera Europa occidentale. Un’ampia area che ospita solo circa 300mila abitanti: un po’ come se il Ticino venisse spezzettato e poi sparso in mezzo all’Oceano.

L’isola più grande della Polinesia è Tahiti e si trova nell’arcipelago della Società, così come la famosa Bora Bora Più o meno quattro su cinque abitanti hanno origini polinesiane e parlano una delle lingue locali, delle quali la più parlata è il tahitiano. Dagli anni Ottanta questa lingua viene insegnata nelle scuole al fine di sostenere la cultura locale. Passeggiando per le isole, gli abitanti salutano tutti con un ia orana! (yo-rah-nah), il buongiorno tahitiano, e con un sorrisone, quale prova della loro allegria e accoglienza onnipresente. La tradizione vuole che a tutti gli ospiti che arrivano in

un hotel venga consegnata una collana di fiori di tiaré, il fiore nazionale che i locali si pongono sopra l’orecchio come ornamento. Ma attenzione: sempre per tradizione, chi è già sposato o fidanzato dovrà mettere il fiore sull’orecchio sinistro, mentre chi è alla ricerca di un compagno lo indossa sul destro. Il 70 per cento degli abitanti della Polinesia francese si concentra a Tahiti, o più precisamente a Papeete, la capitale. La ville, come viene anche chiamata visto che è l’unica vera città della Polinesia, attira numerosi francesi in cerca di lavoro, in un luogo più vivibile delle metropoli francesi. La mancanza di concorrenza nei lavori che richiedono una specializzazione, di fatto, rende la ricerca di un impiego molto più facile; la maggior parte dei locali non dispone di una formazione adeguata per svolgere compiti più specifici. Infatti, in Polinesia non è possibile specializzarsi in tutti i campi, e molti giovani sono costretti a studiare all’estero, spesso finendo per trasferirsi definitivamente. Tahiti è l’isola più grande della Polinesia e si trova nell’arcipelago della Società, così come la famosa Bora Bora, e pure Moorea, Raiatea e altre ancora. Queste sono principalmente isole montagnose e verdeggianti, circondate da barriere coralline che formano piscine turchesi attorno all’isola principale. Il tipico paesaggio da cartolina, insomma. Ma non cercate spiagge bianche a Tahiti: su quest’i-

sola, la maggior parte delle spiagge è costituita da sabbia nera. Per fare escursioni a piedi e perdersi nella giungla, invece, Tahiti è perfetta: numerosi sentieri si snodano tra le montagne, le cui vette più alte superano i duemila metri d’altitudine. Nell’arcipelago della Società troviamo anche l’isola di Maupiti, una delle isole più occidentali della Polinesia francese. Una piccola Bora Bora di cent’anni fa, dove il turismo di massa non è ancora arrivato. A Maupiti c’è solo una strada asfaltata, che in poco più di otto chilometri fa il giro dell’isola. Non ci sono né hotel né resort di lusso: gli alloggi per i turisti consistono principalmente di pensioni familiari e campeggi. Gli abitanti dell’isola vivono ancora di pesca e della produzione di copra, un prodotto del cocco. Le palme da cocco sono coltivate sui motu, isolette piatte e sabbiose che circondano l’isola principale, la cui cima sfiora i quattrocento metri d’altezza. Ogni famiglia dell’isola possiede qualche parcella di terreno su un motu. Secondo William, un abitante di Maupiti, questa è una fortuna: se un motu appartenesse a una sola persona, molto probabilmente quest’ultima non esiterebbe a venderla a qualche imprenditore che ci costruirebbe un resort. Gli isolani di Maupiti vanno fieri della loro isola, così autentica, e desiderano che resti tale. Come sulle altre isole, qui il pesce abbonda e si mangia tutti i giorni: grigliato, stufato, o secondo la ricetta locale, crudo con latte di cocco. Gli amanti del dolce potranno deliziarsi con una varietà di frutti tropicali: banane, manghi, papaye o carambole, tutto l’anno si trova qualcosa. Chi vuole altri prodotti dovrà invece avere pazienza: la nave che porta provviste, posta e materiale arriva solo una volta alla settimana. Lo stesso vale per l’arcipelago delle Tuamotu: è estremamente difficile e costoso trovare verdure fresche prima dell’arrivo della nave di rifornimento. Una volta arrivata, è una lunga attesa al supermercato per poter acquistare le provviste. Nessuno vuol rimanere a mani vuote e aspettare il prossimo carico. Le isole Tuamotu sono diverse da

quelle della Società: sono 78 isole che formano uno dei più vasti insieme di atolli al mondo. Un atollo è un’isola corallina circolare, solitamente piat-

ta, che racchiude una laguna interna. Questa è collegata con canali naturali all’Oceano, così da permettere un ricambio d’acqua. Le Tuamotu sono

Dalla Francia all’Asia Gente dai tratti asiatici passeggia con una baguette sotto il braccio? Benvenuti nella Polinesia francese. Essendo un territorio dipendente dalla Francia, qui molte usanze sono state portate dai colonizzatori francesi. E così, ecco che nei supermercati si trovano Camembert, Brie e Roquefort. E che dire delle specialità italiane, o della carne secca grigionese? Tutto pur di far sentire a casa il circa 15% degli abitanti di origini europee (e in particolare, i francesi) stabilitisi qui. Ciò nonostante, la maggior parte dei polinesiani veri e propri sembra preferire il cibo ispirato alla cucina tahitiana e a quella cinese (un altro 10% della popolazione è costituito da persone di origini cinesi). Di solito i locali comprano i pasti già pronti nelle roulotte, ossia camioncini dotati di cucina. Queste vendono piatti ispirati alla tradizione cinese come il Chaomen (simile al Chow Mein cinese) o il riso alla cantonese, ma anche piatti locali come il tonno crudo al latte di cocco, l’uru (frutto dell’albero del pane) gratinato o fritto, oppure diversi pesci in tutte le varianti possibili. Non dimenti-

chiamo i dolci: torta di banana alla vaniglia tahitiana, dolcetti al cocco, firi-firi (ciambelle polinesiane)… Insomma, non si resta di sicuro a pancia vuota. L’unico inconveniente: la maggior parte del cibo venduto nei supermercati deve venir importato. Questo genera costi maggiori, ben più alti che quelli in Francia. Inoltre, non tutto è sempre disponibile. Sulle isole più remote bisogna aspettare per giorni la nave che porta provviste fresche, e su altre esiste un vero e proprio «giro malavitoso» degli alimenti. A Bora Bora, non si può sperare di trovare uova: solo chi conosce il gerente del supermercato avrà infatti la possibilità di racimolarne alcune da portare a casa. Per fortuna il cibo locale cresce e se ne trova ancora in abbondanza: lungo le strade si situano numerose bancarelle che vendono diversa frutta, tuberi come l’uru o il taro, e pesce a volontà. È persino possibile raccattare noci di cocco abbandonate: con un po’ di pazienza e l’attrezzatura giusta, si possono aprire e gustare all’ombra di una palma in spiaggia, sentendosi un po’ come Robinson Crusoe.


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lontano Oceano Pacifico

erduti, da esplorare per conoscere tradizioni, usi e costumi

Le montagne di Bora Bora raggiungono quasi i settecento metri d’altezza. A sinistra, Maupiti vista dall’aereo. A destra, il Lagoon Bleu sull’atollo di Fakarava.

WorkAway in una famiglia di Bora Bora Bora Bora, la «Perla del Pacifico», è una destinazione che non ha bisogno di presentazioni. I suoi bungalow sull’acqua, la laguna cristallina e i paesaggi lussureggianti hanno affascinato i cuori dei viaggiatori di tutto il mondo. Mentre molti sognano di concedersi il lusso dei resort, noi abbiamo scelto un percorso diverso per sperimentare l’essenza di Bora Bora: un’avventura WorkAway con una famiglia locale. Esplorando la piattaforma WorkAway, abbiamo trovato un annuncio di una famiglia desiderosa di condividere la propria vita quotidiana con viaggiatori come noi, in cambio di qualche ora di lavoro al giorno; un’occasione che si è trasformata in tre settimane gratuite su un’isola da sogno!

Molte delle bellezze della Polinesia sono nascoste sott’acqua, e per vederle bisogna uscire e andare al largo

una meta prediletta dai subacquei: gli appassionati di immersioni e di apnea vengono qui a frotte per osservare i più svariati tipi di pesci, mante, coralli e i gruppi di centinaia di squali che si radunano in determinati periodi dell’anno. Oltre al turismo, anche qui i locali si sostentano con la produzione di copra, che viene regolarmente spedita a Tahiti per produrre il monoi, l’olio di cocco infuso con fiori di tiaré. Pure la produzione delle famose perle nere tahitiane rappresenta

una parte importante dell’economia locale. Gli allevamenti di ostriche si trovano su vari atolli, così come gli atelier dove si possono comprare queste perle particolari dalle sfumature e forme diverse. Oltre agli arcipelaghi della Società e delle Tuamotu, in Polinesia francese si trovano gli arcipelaghi delle Marchesi, delle Gambier e delle Australi. Sono quelli meno visitati, perché più distanti dalla capitale, con voli aerei irregolari e molto costosi. Ma ciò

non significa che non valga la pena visitarli: artisti come Paul Gauguin e Jacques Brel hanno trascorso molto tempo alle Marchesi, dove hanno scelto di essere sepolti alla morte. Basta avere un bel po’ di tempo, denaro, oppure una barca a vela a disposizione, e anche questi luoghi potranno venir scoperti. Informazioni Su www.azione.ch, si trova una più ampia galleria fotografica.

Dopo la prima notte avvolta da un caldo tropicale (il ventilatore c’è, ma è troppo rumoroso), facciamo colazione sulla terrazza affacciata sulla laguna. Chissà quando ci capiterà di nuovo una situazione simile: la sensazione di essere sperduti su un’isoletta in mezzo al Pacifico è difficile da descrivere. Ed eccoci qui a iniziare una nuova giornata, mangiando cocco e frutti della passione raccolti in giardino. Le ore seguenti sono dedicate alle pulizie, a varie riparazioni in casa e ad aiutare con la gestione della pensione. Bisogna essere disponibili per le eventuali richieste degli ospiti, che possono richiedere consigli su cosa visitare sull’isola o dettagli sugli orari d’apertura dei due supermercati. Dopo un pranzo veloce, si parte per l’esplorazione: abbiamo infatti a nostra disposizione una piccola barchetta a motore per uscire sul lagoon a visitare i più bei giardini di corallo o i luoghi ideali per avvistare mante e squali. Questa è la parte migliore della giornata, perché molte delle bellezze del-

la Polinesia sono nascoste sott’acqua, e per vederle bisogna uscire al largo. Come un polinesiano che in Svizzera gioirebbe di vedere camosci e aquile in montagna, noi esultiamo al passaggio di piccoli squali e mante di 3-4 metri di larghezza. Quando il tempo è ventoso e il mare agitato, ripieghiamo sulle escursioni. C’è un auto che possiamo usare liberamente; presto da rottamare, ma per ora ancora funzionante. Con essa ci muoviamo con facilità sull’isola, non che si possa andare molto distante, visto che il giro di Bora Bora in auto dura 45 minuti. Ci permette però di accedere velocemente alle partenze dei sentieri escursionistici. Sebbene definirli tali ci pare un po’ esagerato, visto che per la maggior parte della camminata sembra di nuotare nella giungla e scivolare sul fango. Sforzi che vengono pienamente ricompensati da viste mozzafiato: decine di sfumature di turchese del lagoon, montagne costituite da speroni rocciosi e altre isole all’orizzonte. Scendendo, ci rallegriamo al pensiero di farci una nuotata rinfrescante. Il clima tropicale non è per tutti! Siamo noi a cucinare la cena per la famiglia (fa parte dei compiti richiesti per lo scambio). Dato che entrambi i genitori (un francese e una polinesiana) lavorano fino a tardi, sono ben contenti di trovarsi un bel piatto pronto tornando a casa. Considerato il tempo di cucinare che abbiamo finalmente a disposizione – cosa non scontata nella vita di tutti i giorni – lo facciamo con calma e passione: lasagne, gratin di uru (frutti di pane polinesiani), pesto fatto in casa. È un piacere rendere contenti i padroni di casa. Va detto che vivendo con la gente del posto si imparano molte cose: con la famiglia abbiamo potuto parlare di diversi temi, come la politica polinesiana dal loro punto di vista, le usanze locali e le feste tradizionali, così come di storia e fatti recenti. Ci hanno mostrato i sentieri per raggiungere le cime dell’isola più nascoste, e con il figlio dodicenne abbiamo imparato a usare l’arpione per pescare sott’acqua.


sono ora disponibili presso Migros!

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TEMPO LIBERO

Ricetta della settimana - Insalata di carote colorate con ceci ●

Ingredienti

Preparazione

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Piccolo pasto Ingredienti per 4 persone

1. Tagliate le carote per il lungo a striscioline di circa 1 mm di spessore con una mandolina o un pelapatate. Salate e mescolate bene.

I membri del club Migusto ricevono gratuitamente la nuova rivista di cucina della Migros pubblicata dieci volte l’anno. migusto.migros.ch

500 g di carote di vari colori sale 4 c di succo di limone 4 c d’olio d’oliva 4 c di tahina 2 c d’acqua pepe 1 vasetto di ceci da 330 g, peso sgocciolato 220 g 1 cc di miscela di spezie orientali crescione o germogli per guarnire

2. Per la salsa, mescolate la metà del succo di limone con la metà dell’olio d’oliva. Mescolate in seguito la tahina con il resto del succo di limone e l’acqua in modo da ottenere una crema densa. Regolate di sale e pepe. 3. Scolate i ceci, risciacquateli con acqua fredda e fateli sgocciolare bene. Mischiateli con il resto dell’olio e le spezie e distribuiteli su una teglia foderata con carta da forno. Infilate la teglia nel forno spento, accendete il forno ventilato a 200 °C e cuocete per 25-30 minuti. Mischiate il tutto una volta durante la cottura. 4. Mescolate le carote con la salsa. Distribuite la crema di tahina nei piatti e accomodateci sopra l’insalata. Guarnite con i ceci ancora caldi e il crescione. Consiglio utile: sostituite la tahina con lo yogurt o un’alternativa allo yogurt. Preparazione: circa 35 minuti; cottura in forno: circa 25-30 minuti. Per persona: circa 9 g di proteine, 25 g di grassi, 19 g di carboidrati, 330 kcal.

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Caccia aperta alla Duranta erecta

Mondoverde ◆ Anche nota come il Fiore del cielo, sembra essere arbusto difficilissimo da trovare Anita Negretti

Durante la mostra «Orticolario» di Cernobbio di qualche anno fa, era ottobre, notai l’esposizione di un vivaista toscano che esibiva molti cespugli dall’allegra fioritura lilla-azzurra. Erano così belli da essere in grado di attrarre lo sguardo di molte persone. Incuriosita anche io, come gli altri, ho chiesto che piante fossero, non avendole mai viste prima: si trattava di va-

ri esemplari di Duranta erecta – anche nota come il Fiore del cielo, e il colore ne spiega la ragione. Da luglio fino ai primi di novembre è un susseguirsi di nuovi fiori dal colore del mare, simili a quelli del gelsomino, fiori peraltro che sono deliziosamente e delicatamente profumati di vaniglia. Sono bastate queste informazioni per innamorarmene su-

Fiori di una Duranta erecta con i frutti. (Dijaxavier)

bito, sebbene in quel momento avessi mani e braccia già colme di vasi e vasetti acquistati in precedenza da altri espositori, e nemmeno lo sguardo più supplichevole rivolto al mio compagno e alle mie figlie, già carichi loro di mie piante, li convinse ad aiutarmi a prenderla per portarla nel mio eden privato! Così ho salutato quella Duranta che consideravo già mia e sono tornata a casa, ma già nel corso della settimana successiva ero pronta a cercarne un esemplare in vivai e garden della zona. In realtà, dopo quasi tre anni, non ne ho nemmeno una e i motivi sono due: sembra impossibile trovarla (o non è conosciuta o è andata a ruba) e, informandomi meglio, ho letto che necessita di temperature miti, dove non si scende sotto i -3/-4 °C. Potrei osare, ma non è facile trovare un angolo del giardino esposto in pieno sole, riparato dalle altre piante, adatto a ospitare questo bel arbusto sempreverde. Molto usato in Sud Italia per creare siepi, riesce ad allontanare i malintenzionati grazie alle sue spine appuntite che compaiono sui fusti più adulti della chioma. Chioma composta da foglie ovato-lanceolate, con il margine dentato, dal bel colore verde chiaro, che diventa viola scuro durante tutto l’inverno. Il cespuglio raggiunge i due metri di altezza

Un esemplare di Duranta erecta. (Horologium)

e produce lunghi rami flessibili e arcuati, simili a quelli delle spiree. Esiste anche la varietà a fiore bianco, a cui seguono le bacche autunnali color giallo, molto attrattive; anch’essa, però, non tollera il gelo. Amano terreni soffici e ben drenati, e soffocano invece in quelli compatti e argillosi. Le annaffiature dovranno essere

regolari, evitando periodi di seccume. La Duranta può essere coltivata anche in vaso, soluzione ideale per le nostre altitudini, dove può accadere che vi siano punte di gelo che possono compromettere la vita di questa bella pianta. Quindi, anche per quest’anno, la mia personale caccia alla Duranta è aperta. Annuncio pubblicitario

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Con cavallo o senza? Questo è il dilemma

Nuovi sport ◆ Ogni anno, trecento praticanti su diecimila attivi nel mondo, corrono in Finlandia per contendersi il titolo di campione di Hobbyhorse

Gli ostacoli possono essere diversi, e talvolta non sono fisici. Quando ci si ritrova da soli ad affrontare situazioni difficoltose, un buon rifugio potrebbe trovarsi in un sentimento, magari coltivato e tenuto vivo da una passione che pratichiamo. In tale riflessione potrebbero riconoscersi alcuni dei tanti atleti che praticano l’Hobbyhorse. Anche detto Hobbyhorsing, è una disciplina sportiva che prevede vere e proprie sfide in un contesto considerato «equestre» date le specialità nelle quali ci si può esprimere (ovvero il dressage e il salto a ostacoli). Tuttavia ci permettiamo di notare che l’assenza dell’animale potrebbe farci pensare all’Hobbyhorse più come a una variante dell’atletica o, in un certo senso, anche dell’attrezzistica, visti i movimenti che vengono eseguiti dopo aver familiarizzato con un attrezzo. Ma veniamo allo sport in sé: l’Hobbyhorse prevede in pratica una corsa a ostacoli con un cavalluccio di pezza, il cui dorso è rappresentato da un bastone che viene trattenuto dalle gambe dell’atleta. Stessa modalità vale per le figure del dressage che richiedono grande eleganza nei movimenti, non più di un cavallo, ma della pseudo-amazzone, che in buona sostanza lo sostituisce nelle fatiche. Potrebbe strappare un sorriso amaro ai cavallerizzi, l’intento del-

la divulgazione mediatica che lo promuove appunto come sport equestre. Ma è certo che l’idea dei praticanti dell’Hobbyhorse non è screditare o svalorizzare e nemmeno sostituire l’importanza del rapporto secolare che si è instaurato tra uomo e cavallo, e che trova buona espressione nei reali sport equestri. Certo, una sensibilità estremamente ambientalista pare difendere il ruolo dell’Hobbyhorse quale degno sostituto di una disciplina che alcuni vedono come «sfruttamento» dell’animale, essendo a tutti gli effetti uno sport cruelty free (privo di crudeltà). Vista l’esponenziale sensibilizzazione al tema, non risulterebbe una novità compiere una scelta basata su un criterio di questo genere.

Il rischio Ma se da una parte permette alle nuove generazioni di apprendere tale cosiddetta sostenibilità vegana (che non prevede l’utilizzo animale, ndr), dall’altra – a fronte di ben diversi vantaggi e valori – si corre il rischio di perdere l’importante legame uomo-animale: l’equitazione con un vero cavallo prevede una forte dedizione dell’uomo per prestare tanta cura non solo nell’allevamento, ma anche nella preparazione per le gare. È infatti in-

dubbio che il rapporto uomo-cavallo non sia replicabile in questo contesto. Laddove però alcuni vedono dei limiti, altri vedono delle possibilità. Nonostante possa discostarsi da attività più tradizionali, e al di là di ambizioni e divertimenti, l’Hobbyhorse offre la possibilità soprattutto ai giovani di mettersi da una parte in gioco e dall’altra di creare comunità. Il movimento che sta nascendo, come confermato dal magazine online «Ohga», permette ai praticanti di «confrontarsi, supportarsi e proteggersi a vicenda», al fine di vivere la passione per l’Hobbyhorse in libertà e senza pregiudizi. Valori che vengono di conseguenza trasmessi agli atleti. Nara Arlin, già atleta in competizione per nove volte, afferma che «solo il cielo rappresenta il limite» e che quando «sale in sella» al suo cavallo, ogni tipo di confine viene a mancare. La caparbietà ha permesso a Nara di superare anche la derisione che ex compagni di scuola le hanno rivolto fermandosi al pregiudizio; non ha mai smesso di praticare ciò che continua a farla sentire bene con sé stessa. Premesse, le sue, che fanno capire quanto le ambizioni – come in tutti gli sport – sono in grado di far dimenticare anche i momenti di sacrificio e allenamento. Questa disciplina ha iniziato a

Giochi e passatempi Cruciverba

A Utqiagvik in Alaska, quando il sole tramonta il 18/19 novembre, segue una lunga… Troverai il resto della frase leggendo, a cruciverba ultimato, le lettere evidenziate. (Frase: 5, 2, 13, 6)

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Scoprite i 3 numeri corretti da inserire nelle caselle colorate.

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21. Succedono per legge 22. Famoso 23. Custodisce segreti VERTICALI 1. Disabilità visiva 2. Nome femminile 3. Il nome dell’attore Frassica 4. Un’onda a San Siro 5. Mi seguono in comitiva... 6. Dispensati da un dovere 9. Frammento di pietra

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11. Un anagramma di «astro» 13. Una salsa con i pinoli 14. Campo nazista 15. Ognuna delle due cavità superiori del cuore 16. Esperimento, saggio 17. Pronome dimostrativo 18. Fa trascendere 19. Operette poetiche 20. Simbolo chimico del manganese 21. Le iniziali della conduttrice Isoardi

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ORIZZONTALI 1. Magliette senza maniche 7. Cantieri con l’architetto 8. Si prepara verso sera 9. Nel caso in cui… 10. Infossatura del polmone 11. L’ultimo Silvestro 12. Pronome personale 13. Impasto per frittelle 16. Limpidi, trasparenti 17. Fatto con giunchi intrecciati 18. Il principe di Borodin 20. Formato da più elementi diversi

Sudoku

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diffondersi senza sosta dal 2002. Ha preso il via in Finlandia (secondo la Federazione locale oggi sono circa diecimila i praticanti) e, a poco più di quattro ore da Helsinki, ogni anno si tiene la più grande competizione al mondo nel suo genere: la Finnish Hobbyhorse Championship di Seinäjoki, che nel 2024 si terrà il 15 giugno. A livello mondiale, il modello adottato dalla nazione scandinava rappresenta il riferimento anche per le competizioni internazionali. Mo-

dello per il quale sono stabilite regole chiare. Infatti, nelle gare ufficiali, lo show jumping (salto a ostacoli) e il dressage (trotterellare con un ritmo e movimenti specifici) vengono valutati secondo linee guida precise, che hanno l’obiettivo di garantire criteri comuni e prestabiliti. Per citarne alcuni: nel percorso a ostacoli, non bisogna mai mollare la presa dal cavalluccio, né toccare le aste poste come ostacoli mentre si esegue il movimento. La pena in quest’ultimo caso consiste nella sottrazione di punti dalla classifica finale. Bastone lungo o bastone corto? Dipende tutto da ciò che si vuole fare; se l’intento è andare al trotto, conviene optare per quello più lungo, così da «avere più spazio», come spiega un’atleta in un’intervista rilasciata a un giornalista televisivo. Mentre, se ci si deve sollevare da terra, «meglio più corto per essere più comodi». Tra i vantaggi di questo sport, in fondo, c’è anche la comodità: è ben più facile portare questo modello di «destriero» in ogni parte del mondo; che sia in treno, in auto o in bus… . Benché sia in forte espansione, l’Hobbyhorse probabilmente non cavalcherà interi palinsesti televisivi, ma potrà regalare emozioni e aiutare tante persone che sceglieranno di praticarlo.

Vinci una delle 2 carte regalo da 50 franchi con il cruciverba e una carta regalo da 50 franchi con il sudoku

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Paula Kutvonen

Alessandro Cristallo

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Soluzione della settimana precedente CONOSCERE I GUFI – I gufi non possono muovere gli occhi perché… Resto della frase: …NON HANNO I BULBI OCULARI SFERICI

C A N T O N I H A N O N O R I B U O I A N T A B I L B A O C U S N A L C I O S P O R C A R I H O R O S I M F L O P P O E B R A N I I A R O C A

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Regolamento per i concorsi a premi pubblicati su «Azione» e sul sito web www.azione.ch I premi, tre carte regalo Migros del valore di 50 franchi, saranno sorteggiati tra i partecipanti che avranno fatto pervenire la soluzione corretta entro il venerdì seguente la pubblicazione del gioco. Partecipazione online: inserire la soluzione del cruciverba o del sudoku nell’apposito formulario pubblicato sulla pagina del sito. Partecipazione postale: la lettera o la cartolina postale che riporti la soluzione, corredata da nome, cognome, indirizzo del partecipante deve essere spedita a «Redazione Azione, Concorsi, C.P. 1055, 6901 Lugano». Non si intratterrà corrispondenza sui concorsi. Le vie legali sono escluse. Non è possibile un pagamento in contanti dei premi. I vincitori saranno avvertiti per iscritto. Partecipazione riservata esclusivamente a lettori che risiedono in Svizzera.


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ATTUALITÀ ●

Chi ci guadagna dal conflitto? Lo scontro tra Israele e Hamas mette l'Occidente in una posizione di difficoltà e favorisce Mosca

Svizzera verso il voto I punti salienti dell’ultima legislatura, in attesa delle elezioni federali del 22 ottobre

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Ancora nubi all’orizzonte Le previsioni congiunturali per il 2024, la lotta all'inflazione e le politiche monetarie

Il voto in Baviera e Assia Considerazioni sullo stato di salute della politica tedesca e sul futuro del Governo Scholz

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Dopo gli attacchi di Hamas gli israeliani si sono riversati negli ospedali di Tel Aviv per donare sangue. (Keystone)

Il trauma come collante nazionale

Medio Oriente ◆ Sono bastate poche ore dall’inizio della tragedia perché la società israeliana, da mesi sull’orlo di una guerra civile, si ricompattasse. Mentre la leadership politica continua a dimostrare di non essere all’altezza del proprio compito Sarah Parenzo

Il dramma che si è abbattuto su Israele sabato 7 ottobre è probabilmente il più spaventoso dalla fondazione dello Stato ebraico e l’impatto psicologico sulla società è di proporzioni inestimabili. La percezione di vulnerabilità, l’esposizione diretta o secondaria a massacri mai visti prima d’ora, il suono delle sirene, la minaccia di un’estensione del conflitto sul fronte nord, l’angoscia per il destino degli ostaggi e per l’incolumità dei soldati, per non parlare dei lutti infiniti e destinati a moltiplicarsi, stanno logorando il sistema nervoso anche degli israeliani più temprati. Se non bastasse, alcune comunicazioni della protezione civile, per altro successivamente smentite, hanno seminato il panico causando l’assalto dei supermercati e ordinando alle persone di chiudersi nei rifugi temendo il peggio. Con l’insorgere della crisi, i servizi di salute mentale si sono prontamente attivati per supportare la popolazione e prevenire, per quando possibile, l’insorgere del disturbo post traumatico da stress. Le linee di pronto soccorso emotivo sono state subito potenziate in diverse lingue, le casse sanitarie offrono agli assicurati fino a tre ore di tera-

pia gratuita e i terapeuti lavorano senza tregua, anche come volontari fuori dalle ore di lavoro: tutti devono prendersi cura del proprio benessere emotivo. Secondo la scienza, infatti, gli israeliani sono attualmente esposti in massa al cosiddetto acute stress disorder che caratterizza il lasso di tempo che va dalle 48 ore al mese successivo all’inizio dell’evento traumatico. In base alle statistiche, circa il 50% è passibile di sviluppare il disturbo post traumatico e, prima si interviene in termini di tempo, maggiori sono le possibilità che il sistema riesca a reagire e a superare l’evento vissuto in prima persona o come testimoni. Il dolore, l’angoscia e la paura che in misura più o meno intensa toccano tutti, dopo gli attacchi di Hamas, hanno comportato un’attivazione del sistema simpatetico e dell’amigdala che, avvertendo uno stato costante di pericolo, rilasciano incessantemente ormoni come l’adrenalina, il cortisolo e l’insulina, mentre il cuore pompa più velocemente per far arrivare il sangue al cervello e agli arti. Accanto a percezioni fisiche, come tachicardia o formicolii, in simili situazioni l’in-

dividuo sviluppa meccanismi di difesa che possono includere anche il rifiuto o l’indifferenza rispetto alle immagini degli orribili massacri che vengono continuamente riproposte dai media o dai social. Spesso simili reazioni generano sensi di colpa e l’errata percezione di assenza di empatia, tuttavia è fondamentale comprendere che si tratta di processi assolutamente normali e fisiologici, sui quali è possibile e necessario agire prontamente.

Allarga il cuore la mobilitazione dei civili israeliani impegnati senza sosta in ogni sorta di volontariato Lo scopo degli interventi è quello di aiutare il cervello a convalidare ed elaborare le informazioni sotto il profilo cronologico e causale, attivando così la corteccia pre-frontale e il sistema parasimpatico. In tal modo si aiuta il soggetto a uscire dalla percezione di impotenza e catastrofe imminente, sviluppando invece resilienza, idoneità, sicurezza, senso di appartenenza,

valori e soprattutto la speranza. Accanto all’ascolto empatico e alle parole si utilizzano tecniche corporee, di respirazione e di contatto fisico, ma soprattutto si cerca di stimolare esperienze di creatività, divertimento, spontaneità, curiosità e gioco, non solo nei bambini, ma anche negli adulti. Le ricerche dimostrano infatti che le famiglie del sud di Israele in grado di superare meglio il trauma sono proprio quelle con maggiore tendenza alla giocosità. Una volta recuperato il controllo è fondamentale passare all’azione, essere attivi e sentirsi utili a sé stessi, ai propri cari, alla collettività. E le occasioni non mancano. Accanto alla risposta di massa dei riservisti alla chiamata alle armi, allarga infatti il cuore la mobilitazione dei civili impegnati senza sosta in ogni sorta di volontariato. Ognuno contribuisce come può e c’è solo l’imbarazzo della scelta. Basta accedere a social e piattaforme digitali per trovare liste infinite che includono iniziative di ospitalità, trasporto di persone e soldati, servizi di baby-sitting per bambini e animali, donazioni di sangue, raccolte di fondi e di beni di pri-

ma necessità, assistenza agli anziani, invio e preparazione di cibo. Nei punti di raccolta vengono recapitati e imballati torce, pile, carica batterie, capi di abbigliamento, biancheria intima, cibo in scatola, acqua, prodotti per l’igiene personale, coperte e materassi. Il bilancio della prima settimana vede dunque il popolo d’Israele forte, unito e solidale più che mai, ma soprattutto sembra reggersi da solo sulle proprie gambe, dal momento che la leadership politica, anche dopo la formazione del Governo di unità, continua a dimostrare di non essere all’altezza del proprio compito. Forse solo un trauma di simili proporzioni poteva ricompattare una società che fino a pochi giorni prima sembrava letteralmente implodere intorno alla questione della riforma giudiziaria, ma anche a futili discussioni sulla celebrazione delle preghiere secondo il rito ortodosso. La guerra tuttavia si prospetta lunga e faticosa, con il rischio di logorare anche gli animi e i corpi più resilienti, forse la pace sarebbe più economica in termini di risorse umane ma, oggi più che mai, sembra una prospettiva alquanto impopolare.


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ATTUALITÀ

Chi ci guadagna dal conflitto?

Israele/Hamas ◆ Un primo bilancio vede l’Occidente intero in difficoltà, Mosca in una situazione migliore, Pechino in bilico fra benefici geostrategici e pericoli energetici immediati Federico Rampini

La formazione di un Governo di unità nazionale in Israele, l’appoggio determinato degli Stati Uniti con l’invio delle prime munizioni, i negoziati per aprire un corridoio umanitario verso l’Egitto che consenta l’evacuazione di civili da Gaza, sono solo alcuni degli sviluppi recenti di una guerra che ha già superato gli orrori di tutte quelle che l’hanno preceduta in Medio Oriente. Ciò che più conta sono le sofferenze umane, destinate a crescere visto che tutti sembrano prevedere un conflitto di lunga durata. È inevitabile chiederci anche quali ripercussioni potrà avere questa guerra su di noi e sul resto del mondo. Un primo bilancio vede l’Occidente intero in difficoltà, Vladimir Putin in una situazione migliore, la Cina in bilico fra benefici geostrategici e pericoli energetici immediati.

Un altro 11 settembre Quello che è stato definito «l’11 settembre israeliano», potrebbe provocare sull’America un effetto simile (anche se su scala più ridotta) all’11 settembre 2001. Cioè risucchiare nuovamente l’attenzione e le risorse strategiche di Washington verso un Medio Oriente nel quale avrebbe voluto impegnarsi meno, per concentrarsi sulla sfida con la Cina. Le stragi di Hamas, poi quel che la popolazione palestinese subisce e subirà a Gaza, mettono a repentaglio la triangolazione Usa-Israele-Arabia che doveva stabilizzare l’influenza esterna della diplomazia americana in Medio Oriente, e costruire un cordone israelo-sunnita per contenere l’Iran. Tutte le crisi internazionali inoltre fanno risalire alla superficie delle divisioni politiche interne: la politica estera Usa è strattonata da correnti che vanno dalla destra isolazionista alla sinistra filo-palestinese.

Vulnerabilità dell’Europa L’Europa molto più degli Stati Uniti è vulnerabile su due fronti: l’islamismo interno e la dipendenza energetica. La guerra Israele-Hamas riaccende l’animo filo-palestinese di vari segmenti delle sinistre europee, ma soprattutto può rilanciare le tensioni con le minoranze musulmane immigrate. Dalle banlieues francesi alle comunità islamiche nel Regno Unito, dai turchi in Germania agli afgani in Svezia, e così via: l’odio per Israele ha una base sociale forte in Europa. Sul fronte economico, bisogna evitare gli scenari apocalittici: l’11 settembre 2001 ebbe un impatto molto inferiore ai timori, ci fu una mini-recessione, presto dimenticata. Le conseguenze geopolitiche furono enormi, quelle sull’economia trascurabili. La questione energetica però potrebbe creare dei problemi agli europei. Mentre l’America è autosufficiente in energie fossili, l’Europa dopo la chiusura dei rapporti con la Russia è tornata a dipendere dal suo fianco meridionale e sud-orientale. Un intensificarsi della guerra può creare interruzioni di forniture dal Medio Oriente, soprattutto se un giorno questo conflitto dovesse allargarsi in qualche modo in direzione del Golfo Persico. Putin per adesso vince su tutta la linea. La guerra in Ucraina passa in

Il dolore, la disperazione colpiscono in ugual modo sia da parte palestinese sia da parte israeliana in questa guerra dai risvolti geopolitici inquietanti. (Keystone)

secondo piano. Gli arsenali di armi e munizioni americane, già molto assottigliati, ora devono venire in soccorso anche a Israele il che significa che la parte riservata a Kiev subirà qualche sacrificio (peraltro era già contestata da un’ala del partito repubblicano). Un Occidente che deve dividere la propria attenzione politica e le proprie risorse militari su più fronti, è meno solido nel contrastare la Russia. Anche sul fronte energetico Mosca ha tutto da guadagnarci: qualsiasi tensione nelle forniture mediorientali verso il resto del mondo, può creare nuovi sbocchi per le esportazioni di greggio e gas naturale russo. Vista da Pechino la situazione è più complessa. La Cina è il massimo importatore mondiale di energie fossili. Ha un interesse strutturale alla stabilità in Medio Oriente e nel Golfo Persico, anche se dopo l’invasione dell’Ucraina ha aumentato in modo considerevole i suoi acquisti dalla Russia. Se sorgessero problemi nei flussi di approvvigiona-

mento sarebbe un danno per l’economia cinese che già naviga in cattive acque. La crisi in Medio Oriente è anche un insuccesso per la diplomazia cinese che di recente aveva mediato tra Arabia saudita e Iran per la riapertura bilaterale delle rispettive ambasciate. Nel lungo periodo però Xi Jinping non può che rallegrarsi se l’America torna ad essere invischiata in Medio Oriente e di conseguenza abbassa la guardia nell’Indo-Pacifico. La questione iraniana merita la massima attenzione. Dopo l’11 settembre 2001 l’America di George W. Bush affermò un principio: l’equivalenza tra i terroristi e i Governi o gli Stati che li appoggiavano. Una Nazione colpevole di aver protetto e foraggiato Al Qaeda meritava lo stesso tipo di castigo dell’organizzazione terroristica che aveva materialmente organizzato gli attentati. Fu così che l’America andò in guerra in Afghanistan, per punire e rovesciare il regime dei talebani che aveva dato ospitalità e sostegno a Osama Bin Laden e ai suoi uomini.

Intanto in Svizzera «Il Consiglio federale condanna con la massima fermezza gli atti terroristici perpetrati da Hamas contro civili in Israele dalla Striscia di Gaza e riconosce la legittima volontà di difesa e sicurezza nazionali di Israele». Si legge sul comunicato stampa diffuso dopo la seduta dell'11 ottobre (lo si trova sul sito www.admin.ch). L’Esecutivo federale inoltre «chiede l’immediato rilascio delle persone prese in ostaggio da Hamas e la fine immediata delle violenze, e ribadisce che la popolazione civile deve essere protetta e il diritto internazionale umanitario rispettato in ogni momento». Ma si fa un passo in più: «Il Consiglio

federale è del parere che Hamas debba essere classificato come organizzazione terroristica» e ha incaricato la task force per il Medio Oriente – ampliata ad hoc – «di esaminare le opzioni giuridiche per bandirla». A differenza dell'Unione Europea, gli Stati Uniti o il Regno Unito, la neutrale Svizzera non ha finora mai dichiarato Hamas un’organizzazione terroristica. La Confederazione, infatti, non ha un vero e proprio elenco terroristico nazionale e applica solo le sanzioni del Consiglio di sicurezza delle Nazioni Unite, il quale non designa ancora il gruppo islamista come terrorista. / Red.

Il ruolo dell’Iran Se davvero questo è stato «l’11 settembre d’Israele», Netanyahu dovrebbe colpire non solo Hamas, ma anche l’Iran che lo ha armato e guidato? Le prove del sostegno iraniano per adesso vengono maneggiate con cautela dal Governo Netanyahu e dall’Amministrazione Biden. Si capisce perché. Israele non è l’America, non sarebbe saggio impegnarsi in una guerra su troppi fronti dopo la terribile batosta subita. L’Iran non è l’Afghanistan, la sua potenza militare è assai superiore ed è vicinissimo ad avere armi nucleari, se non le ha già. Questo obbliga a porsi la domanda: che cosa vuole l’Iran? Quale calcolo strategico ha spinto il regime degli ayatollah a dare il suo sostegno e la sua regìa alla più feroce delle offensive di Hamas? Perché adesso?

Amicizie pericolose Dopotutto, in tempi recenti da Teheran erano giunti segnali di tipo diverso. Con la mediazione diplomatica della Cina, il Governo iraniano aveva ristabilito relazioni diplomatiche con l’Arabia saudita, la rivale storica numero uno. Con il recente accordo per liberare ostaggi americani dalle carceri iraniane, in cambio dello scongelamento di 6 miliardi di dollari bloccati dalle sanzioni, Teheran aveva perfino segnalato un inizio di distensione con l’Amministrazione Biden. Alla luce di queste mosse era parso che la teocrazia sciita volesse uscire dal suo isolamento, per inaugurare rapporti più normali con i propri vicini e con l’Occidente. I tragici eventi di Gaza contraddicono quella lettura. O almeno costringono ad aggiungervi delle importanti correzioni. Noi di solito ci occupiamo dell’I-

ran per denunciare gravi abusi contro i diritti umani, soprattutto contro le donne, perpetrati dal regime. Ma parlare di «isolamento» di Teheran è una nostra distorsione. L’Iran ha continuato a rafforzare le sue relazioni economiche, finanziarie e militari con Cina e Russia: in quel mondo, sempre più antagonista all’Occidente, non è isolato anzi è un membro rispettato e riverito. La Cina lo ha sponsorizzato come nuovo membro dei Brics in occasione dell’allargamento di quel club di Paesi emergenti. Non sono mai cessate le forniture di petrolio iraniano alla Cina, e i due Paesi fanno un uso crescente del renminbi in sostituzione del dollaro (che è proibito all’Iran con le sanzioni). È noto inoltre il ruolo dei droni iraniani negli attacchi russi contro l’Ucraina.

L’asse israelo-sunnita L’Iran, oltre a favorire i propri alleati, ha un interesse strategico proprio in questa vicenda. L’accordo che veniva dato imminente, per il riconoscimento diplomatico d’Israele da parte dell’Arabia saudita, va sabotato ad ogni costo perché può consolidare un asse israelo-sunnita, un cordone sanitario anti-Iran. Di più: quell’accordo stava maturando in una triangolazione con gli Stati Uniti, che avrebbero offerto come compenso al principe saudita Mohammed bin Salman (MbS) una protezione militare, e perfino una cooperazione in campo nucleare. Di recente MbS ha definito «inaccettabile» che l’Iran diventi una potenza nucleare. Poiché è chiaro che l’Iran sta per diventarlo, se non lo è già, Riad vuole pareggiare il conto. Ora lo spettacolo delle vittime civili tra i palestinesi quando l’esercito israeliano inizia l’occupazione di Gaza, renderà più difficile per MbS riconoscere lo Stato d’Israele. L’Iran per adesso è riuscito nei suoi piani.


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I punti salienti dell’ultima legislatura

Svizzera ◆ I temi che hanno scaldato gli animi durante il quadriennio in attesa dell’appuntamento elettorale del 22 ottobre Roberto Porta

Il riassunto di una legislatura, balzando da una lettera all’altra dell’alfabeto, iniziando dalla A come astensionismo. Questo è lo spauracchio di chi ha a cuore il buon funzionamento del nostro sistema democratico. Quattro anni fa la partecipazione alle elezioni federali si fermò al 45%, in calo di oltre tre punti rispetto al 2015. L’altra faccia di questa medaglia si chiama «mobilitazione». Ai partiti ora il compito di giocare al meglio questa carta, nella volata finale verso le elezioni federali del 22 ottobre.

Quella che sta per concludersi sarà ricordata come la legislatura della pandemia. Sotto: Credit Suisse. Il suo tracollo ha portato il sistema bancario e finanziario internazionale sull’orlo del baratro. (Keystone)

B come banche Il tracollo di Credit Suisse ha portato il sistema bancario e finanziario internazionale sull’orlo del baratro. La data del 19 marzo di quest’anno rimarrà nella storia del nostro Paese, con l’annuncio, quel giorno, del passaggio della banca nelle mani di UBS. Da allora tanto lavoro per il CEO Sergio Ermotti, chiamato a tornare in sella alla nuova UBS, ma anche parecchie questioni ancora da chiarire, anche a livello politico. Il Parlamento ha messo in campo una propria commissione d’inchiesta, per analizzare le decisioni prese dal Consiglio federale, dalla Banca nazionale e dalla Finma, l’autorità di sorveglianza sul settore. Ma anche per capire come mai, nell’autunno scorso, l’allora consigliere federale e ministro delle Finanze Ueli Maurer non diede l’allarme, malgrado Credit Suisse si trovasse in grave affanno già in quelle settimane.

C come Covid La legislatura in corso era iniziata con un fatto decisamente inedito, la sospensione della sessione primaverile del marzo 2020 a causa della prima improvvisa ondata pandemica. Un’emergenza in cui il Consiglio federale ha più volte dovuto far leva sul diritto d’urgenza, con Parlamento e Cantoni che perlomeno inizialmente si sono ritrovati ai margini del processo decisionale. Un periodo segnato da chiusure e restrizioni. E dai dati statistici pubblicati ogni giorno: con il numero di contagi, di ospedalizzazioni e purtroppo anche le cifre delle persone decedute. Quella che sta per concludersi sarà senza dubbio ricordata come la legislatura della pandemia.

D come dittatura La pandemia ha portato anche questo, la Svizzera è stata paragonata ad una dittatura. Lo ha fatto diverse volte l’UDC, il primo partito elvetico, e lo hanno fatto i movimenti No Vax, a causa delle restrizioni e dell’appli-

sto su più livelli. C’è il tema della natalità e delle politiche in favore delle famiglie. Su questo punto il Consiglio nazionale ha varato un pacchetto di aiuti pari a 700 milioni di franchi, per agevolare l’accesso agli asili nido. Ora tocca al Consiglio degli Stati, che però potrebbe essere meno generoso. C’è poi il tema dell’immigrazione di forza lavoro, in particolare dall’Unione europea. E della carenza di personale in diversi settori della nostra economia. E c’è poi il capitolo dei profughi e della politica di asilo, tra chi ritiene che la situazione sia tutto sommato sotto controllo e chi invece parla di caos. Con la Svizzera che ha ormai raggiunto i 9 milioni di abitanti. Tutto questo mentre una persona su 5 ha ormai più di 65 anni di età. Tra le città svizzere Lugano è quella in cui vive la proporzione maggiore di anziani, quasi il 23% degli abitanti è in età AVS.

S come stallo o U come UE cazione del diritto d’urgenza. Eppure per ben tre volte i cittadini e le cittadine svizzere sono stati chiamati alle urne per decidere il destino della Legge Covid, approvata per tre volte di fila. L’ultima nel giugno scorso.

zi del gas e dell’elettricità. Pesante anche l’aumento dei premi delle casse malati, in modo particolare per l’anno in corso e per il prossimo.

tacchi compiuti in territorio israeliano lo scorso 7 ottobre. Anche qui da soppesare ci sono argomenti legati alla neutralità.

N come neutralità

O come onda

F come fuga di notizie

L’attacco russo all’Ucraina ha riaperto nel nostro Paese la discussione sulla portata della neutralità elvetica. Un dibattito non solo interno, visto che diversi Governi di Paesi a noi vicini hanno sollevato dubbi sulla posizione della Svizzera, in particolare per quando riguarda il divieto della riesportazione di armi e la caccia agli averi degli oligarchi russi che vivono nel nostro Paese. Un tema che occuperà Governo e Parlamento anche nella prossima legislatura, in arrivo sul tema anche un’iniziativa popolare targata Unione Democratica di Centro. A ciò si aggiunge la recente decisione da parte del Governo di volere considerare terroristico il movimento islamista Hamas, dopo i barbari at-

L’onda verde e quella viola. Nel 2019, alle elezioni federali, il partito ecologista ha visto aumentare la sua forza di oltre il 6%, mentre quello dei Verdi liberali ha fatto registrare un incremento del 3%. Mai prima di allora il fronte verde era riuscito a intascare un successo elettorale di questa portata. Per quanto riguarda la presenza femminile, invece, dal 2019 le donne occupano 95 dei 246 seggi che compongono le due Camere del Parlamento svizzero, un primato storico.

Altro argomento legato alla pandemia, con il passaggio di informazioni tra il servizio stampa del consigliere federale Alain Berset e la redazione del «Blick», che è riuscito più volte ad anticipare le notizie sulla lotta alla pandemia che il Governo avrebbe poi comunicato in conferenza stampa. Per chiarire quanto capitato attorno a questo flusso di informazioni sono in corso delle inchieste, anche parlamentari. Certo è che Berset si è ritrovato a dover fare i conti con i suoi colleghi in Consiglio federale. Nel gennaio di quest’anno proprio lui, da presidente della Confederazione, ha dovuto provvisoriamente abbandonare la riunione settimanale del Governo per permettere ai suoi colleghi di affrontare la questione. Cose che non si erano mai viste prima a Palazzo federale. C’era una fiducia da ristabilire.

P come popolazione Il dato demografico è sempre più al centro del dibattito politico. E que-

La legislatura che sta per concludersi ha visto la Svizzera, con l’allora presidente della Confederazione Guy Parmelin, andare a Bruxelles per dire in sostanza «grazie e (forse) arrivederci», l’accordo quadro non può essere accettato dal nostro Paese. Era la primavera del 2021. La bozza di quell’accordo, che avrebbe dovuto dare un futuro alle relazioni bilaterali, veniva così cestinata, troppe le divergenze interne sulla portata di quel documento per il nostro Paese, tra perdita di sovranità, ripresa dinamica del diritto europeo e concessioni nel controllo del mercato del lavoro, per citare solo alcuni dei nodi che non si era riusciti a sciogliere. Da allora si sono aperte delle trattative a livello tecnico che dovrebbero portare nei prossimi mesi alla definizione di un mandato negoziale vero e proprio per quelli che potremmo chiamare i «Bilaterali 3». Ma la sensazione è appunto quella dello stallo: i temi irrisolti di allora continuano ad esserlo anche oggi.

V come votazioni Nel corso degli ultimi anni a livello nazionale si è votato su ben 37 temi, tra iniziative e referendum. Ne citiamo solo 2, forse le più importanti. La riforma dell’AVS, che porta l’età di pensionamento a 65 anni per le donne ma che garantisce al primo pilastro una maggiore stabilità finanziaria. E la bocciatura della legge sul CO2, voluta per accelerare la transizione verso le energie rinnovabili. Temi di cui di certo sentiremo parlare anche nella prossima legislatura. E qui arriviamo alla Z come generazione Z. È il futuro, tutto da scrivere…

I come inflazione Per anni è stata vicina allo zero ma in questa legislatura è riapparsa anche lei, l’inflazione. Un rincaro più contenuto rispetto a quanto si è visto nei Paesi a noi vicini – oggi siamo all’1,6% – anche se in alcuni ambiti si è dovuto fare i conti con diverse impennate davvero vertiginose dei prez-

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Congiuntura: altre nubi all’orizzonte

Economia ◆ Nella lotta contro l’inflazione la Federal Reserve e la Banca Nazionale Svizzera si fermano, mentre la Banca Centrale Europea continua ad alzare i tassi di riferimento. Intanto l’economia rallenta Ignazio Bonoli

Le previsioni congiunturali per il prossimo anno non sono per nulla incoraggianti. Secondo il KOF, il Centro di ricerca congiunturale del Politecnico federale di Zurigo, il Prodotto interno lordo (PIL) in Svizzera dovrebbe crescere dell’1,3% nel 2024. La stima è inferiore a quella di tre mesi prima, che valutava una crescita dell’1,6%. La situazione dovrebbe ancora peggiorare negli ultimi mesi di quest’anno e scendere allo 0,8%. La Banca Nazionale Svizzera (BNS) si attendeva un certo rallentamento, per cui ha sospeso i suoi interventi al rialzo sui tassi di riferimento, pur facendo sapere che avrebbe comunque seguito con particolare attenzione l’evoluzione dei prezzi. Nelle previsioni del KOF, il tasso di inflazione nella media mensile dovrebbe essere del 2,2% quest’anno e scendere all’1,8% nel 2024. Anche queste previsioni sono state ritoccate rispetto rispettivamente al 2,3% e all’1,6% di tre mesi fa.

La BNS comincia a pensare di non aumentare il costo del denaro in modo da non accentuare il rallentamento dell’economia. (Keystone)

Secondo il KOF, il PIL in Svizzera dovrebbe crescere dell’1,3% nel 2024 ma il dato dovrebbe ancora peggiorare In sostanza, la BNS comincia a pensare di non aumentare il costo del denaro in modo da non accentuare il rallentamento dell’economia. Lo fa anche in considerazione di quanto sta avvenendo in Europa. Infatti la Germania, che è il maggior importatore di prodotti svizzeri, vede che la sua economia non cresce in questi mesi della seconda metà dell’anno. Anche altri Paesi si trovano nella stessa situazione, poiché la Germania sta pian piano perdendo la sua funzione di locomotiva dell’economia europea. Tuttavia la Banca Centrale Europea (BCE) ritiene ancora troppo alto il tasso medio di inflazione (4,3%) per poter cambiare politica e fermare l’aumento dei tassi di riferimento. Non così gli Stati Uniti, nei quali la Federal Reserve Bank (FED) ha deciso un momento di pausa nell’aumento dei tassi direttori. Le banche centrali sono comunque molto prudenti negli interventi di politica monetaria, poiché hanno visto come la precedente fase di interessi molto vicini a zero abbia provocato un’ondata inflazionistica, contro la qua-

le sono ora chiamate a combattere. Nel frattempo gli stessi metodi di calcolo del tasso inflazionistico sono un po’ ovunque messi in discussione. Nei consumatori è sempre più presente l’impressione che i prezzi salgano molto di più di quanto indichi il tasso ufficiale di rincaro. Per esempio, in Italia, il tasso di inflazione, a fine agosto, era del 5,3%, di un punto percentuale superiore alla media europea. Ma poi l’aumento del cosiddetto «carrello della spesa» è stato di parecchio superiore: 8,3%, anche se in leggera diminuzione rispetto al 9,4% di un anno prima. Si prevedono però aumenti (anche stagionali) dei prezzi per l’energia, per cui i dati sull’inflazione potrebbero risalire leggermente negli ultimi mesi dell’anno. La situazione sembra invece migliore negli Stati Uniti, dove l’indice della cosiddetta core inflation (depurata delle componenti volatili dell’energia e degli alimentari) è aumentato solo dello 0,1%, il minimo dallo scorso novembre e inferiore anche allo 0,2% previsto. Sull’arco dell’anno, l’indi-

ce americano è salito del 3,9%, cioè con la crescita più lenta dal settembre del 2021, rispetto al 4,2% precedente. Questi dati hanno, in sostanza, giustificato la posizione della FED di un momento di attesa, ma della prosecuzione dei rialzi dei tassi direttori fino al raggiungimento dell’obiettivo di meno del 2% di inflazione annua. Sulla stessa linea si è mossa anche la Banca Nazionale Svizzera, che però potrebbe fare anche di meglio, dato che l’obiettivo è già stato raggiunto dal mese di agosto, con l’1,6% e sostanzialmente confermato con l’1,7% di settembre. Anche per la Svizzera il dato core è sceso in settembre all’1,35%, essenzialmente proprio grazie a un rallentamento (-0,5%) mensile dei prezzi dei generi alimentari. La BNS si riserva però la possibilità di procedere anche attraverso lo strumento valutario, cioè con la vendita sul mercato di parte delle enormi riserve accumulate nel tempo per la difesa contro una troppo forte rivalutazione del franco. Per esperienza si sa, però, che la

politica monetaria si ripercuote sull’economia con un certo ritardo, per cui la BNS attende di vedere i prossimi risultati della lotta attuale contro l’inflazione, prima di prendere la decisione di un ulteriore aumento dei tassi di interesse. Non esclude perciò un aumento probabilmente prima della fine dell’anno. La prudenza è dettata anche da aumenti di prezzi già in atto o prevedibili, come le pigioni, o i prodotti energetici e anche le tasse, tra cui la tassa sul valore aggiunto (IVA) a partire dal prossimo anno.

In Svizzera un elevato tasso di cambio del franco è un fattore importante per contrastare la cosiddetta inflazione importata In Svizzera è però evidente che un elevato tasso di cambio del franco è un fattore importante per contrastare la cosiddetta inflazione importata. In particolare quella media dei Paesi dell’Unione europea o di sin-

goli Paesi, tra i quali anche l’Italia. Questa misura viene attuata con la vendita sui mercati monetari internazionali di parte delle riserve della Banca Nazionale. Così si riduce anche il bilancio della banca che è oggi molto gonfiato, così come le riserve di divise. Così facendo si riducono le quantità di franchi sul mercato e se ne fa aumentare il valore (in pratica il tasso di cambio). La BNS osserva però con attenzione anche le liquidità del sistema bancario svizzero. La crisi del Credit Suisse ha evidenziato la necessità di fornire liquidità alle banche in difficoltà momentanea. La fornitura di liquidità, riservata finora alle banche sistemiche, viene estesa a tutte le banche, che possono ottenerla anche contro i crediti ipotecari. L’ampiezza di questo mercato in Svizzera, che riduce la liquidità operativa delle banche, giustifica eventuali interventi eccezionali, dato che normalmente l’ottenimento della stessa è subordinato a specifiche preparazioni di tipo giuridico e operativo, che richiedono tempi più lunghi. Annuncio pubblicitario

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Inesorabile spinta a destra

Germania ◆ Considerazioni sullo stato di salute della politica tedesca e sul futuro del Governo dopo il voto in Baviera e in Assia Marzio Rigonalli

La febbre elettorale è riemersa in Germania con due elezioni regionali, in Baviera e in Assia. Trattasi di due importanti Länder dei sedici che formano la Germania. La Baviera è la regione più grande del Paese e la seconda per numero di abitanti. Probabilmente è anche la più ricca e accoglie numerose aziende note sul piano internazionale, come Siemens, Adidas o BMW. Divide con la Svizzera una parte del suo confine meridionale. L’Assia è situata a nord-ovest della Baviera. La capitale è Wiesbaden, ma la sua città più importante è Francoforte sul Meno, che viene considerata la capitale economica della Germania e ospita la Banca Centrale Europea. I due Länder s’inseriscono tra i principali poli economici del Paese e rappresentano un quinto dell’elettorato tedesco. I risultati scaturiti una settimana fa consentono di trarre alcune conclusioni sullo stato di salute della politica tedesca, nonché delle sue principali alleanze e delle sue componenti. La coalizione semaforo, ossia l’alleanza tra i socialdemocratici (SPD), i Verdi e i Liberali (FDP), al Governo a Berlino, è emersa come la principale vittima. I tre partiti hanno perso terreno nelle due regioni. Il cancelliere Olaf Scholz ed il suo partito sono scesi all’8% in Baviera ed al 15% in

Assia, numeri troppo bassi per la formazione che guida l’alleanza di Governo nazionale. I Verdi hanno dovuto accontentarsi del 15% in Assia e del 14% in Baviera, facendo in questa regione, un po’ meglio dei socialdemocratici. Quasi da incubo, infine, il risultato dei liberali del ministro delle finanze Christian Lindner. In Baviera non hanno raggiunto il 5%, limite necessario per poter entrare nel Parlamento regionale: in Assia ci sono riusciti, ma con pochi voti sopra al 5% e perdendo la metà delle preferenze che avevano ottenuto cinque anni fa. Nessuna delle tre formazioni, dunque, è riuscita a difendere le posizioni che aveva prima dell’8 ottobre. Il Governo di Olaf Scholz ha delle attenuanti, certo, che sono i vari problemi che deve affrontare, come il rallentamento dell’economia, l’inflazione alta, l’aumento dei costi dell’energia e la forte immigrazione. Sono problemi che richiedono soluzioni difficili e che non aumentano la popolarità dei responsabili politici. Il risultato elettorale delle due regioni arriva ora come un richiamo, come un campanello d’allarme, di cui il Governo federale dovrà tenere conto nelle sue future scelte politiche. Una seconda considerazione riguarda il buono stato di salute dei conservatori (CDU e CSU), ossia

della principale forza di opposizione. In Assia, dove i conservatori governano da 24 anni, la CDU si è avvicinata al 35% ed ha superato del 7,6% il risultato che aveva raggiunto cinque anni fa. In Baviera, la CSU governa dal 1957 e la recente elezione non ha scalfito questa posizione dominante. Il partito di Markus Söder ha ottenuto il 37% dei voti, limitando la perdita allo 0,2%. Il dato più sorprendente dell’elezione in Baviera è l’emergere di forze sulla destra della CSU. Per decenni questo spazio non è stato occupato. L’elettorato ha seguito più volte la volontà di Franz Joseph Strauss, storico leader della CSU, presidente della Baviera e più volte anche ministro del Governo federale. Strauss sosteneva che non potevano esserci partiti democraticamente legittimati alla destra della CDU/CSU. Oggi questa regola non è più valida e la spinta a destra è palese. Alla destra della CSU ci sono due formazioni: i Freie Wähler (Liberi Elettori), un partito conservatore che ha raggiunto il 15,8% e che governa la regione con la CSU, e l’AfD (Alternative für Deutschland). Chi sarà il candidato dei conservatori alle prossime elezioni federali? Per ora nessun nome si è imposto. I due potenziali pretendenti non sembrano raccogliere sufficienti consensi. Il presidente della CDU, Friedrich

Alice Weidel e Tino Chrupalla, co-presidenti di AfD, partito di estrema destra che ha ottenuto il 14,6% dei voti in Baviera e il 18,4% in Assia. (Keystone)

Merz, non gode dell’appoggio di tutto il suo partito, ed il presidente della CSU, Markus Söder, non ha ottenuto un risultato elettorale sufficientemente brillante da proiettarlo verso la cancelleria federale. Un’ultima considerazione tocca l’avanzata nelle due regioni dell’estrema destra. L’AfD ottiene il 14,6% in Baviera e il 18,4% in Assia. Nel primo caso ha progredito del 4,6%, nel secondo caso del 5,3%, rispetto a cinque anni fa. In Assia è diventata il secondo partito dopo la CDU, ma almeno per ora, non riuscirà a far parte del Governo regionale. L’Afd ha così ottenuto un risultato che non aveva mai raggiunto fin ora in un Land occidentale. È la prova che l’estrema destra sta estendendo i suoi consensi al di fuori delle sue tradizionali roccaforti della parte orientale del Paese, che sono il Brandeburgo, la Turingia e la Sassonia. È anche la conferma, perlomeno indiretta, dei sondaggi che vengono pubblicati periodicamente. Secondo

queste inchieste, in caso di elezioni nazionali, l’AfD supererebbe il 20% delle preferenze e si collocherebbe in seconda posizione, dietro ai conservatori della CDU e davanti ai socialdemocratici del cancellere Scholz e ai Verdi. Sono dati che racchiudono tanti dubbi e molte incertezze sui possibili futuri scenari politici e, data l’importanza della Germania in Europa, che possono avere ripercussioni anche in altri Paesi. Il cancelliere Scholz e il suo Governo sono giunti a metà del loro mandato. Il prossimo test elettorale è previsto in giugno, quando si terranno le elezioni europee e alcune elezioni regionali. Le elezioni politiche federali si terranno nel 2025. Nei prossimi due anni possono ancora succedere molte cose, forse suscettibili anche di modificare la situazione attuale. Intanto però l’attuale alleanza di Governo naviga in acque difficili e non le sarà facile sopravvivere e uscirne senza subire troppi danni. Annuncio pubblicitario

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CULTURA ●

Xanti Schawinsky a Locarno Tra i maggiori esponenti del Bauhaus, Casa Rusca omaggia una figura dal percorso internazionale ma legata al nostro territorio

Un saggio racconta il Premio Strega Nel suo nuovo lavoro Gianluigi Simonetti mette a nudo – tra pregi e difetti – il prestigioso premio letterario italiano

Bilancio della rassegna FIT Alla ricerca di un’espressione identitaria coniugata al femminile il FIT – da poco concluso – ci lascia con un’immagine poliedrica

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Tutto quel che non sapevamo su Oriana Fallaci

Intervista ◆ Edoardo Perazzi, suo erede universale, racconta i nuovi materiali del Fondo Fallaci ora disponibili al pubblico Blanche Greco

Una giornalista che non si fermava davanti a nulla: per intervistare l’ayatollah Khomeini nel 1979, accettò d’indossare il chador e persino di contrarre un matrimonio temporaneo sciita. Ma com’era davvero? Era una belva assetata di sangue. Aveva un carattere molto forte, ruvido. Stare con lei era come avere accanto una bomba innescata pronta ad esplodere. Era sempre concentrata e lucida sia sul lavoro che con i famigliari e gli amici, non c’era spazio per

una conversazione faceta, o superficiale, questo non vuol dire che non fosse spiritosa, simpatica, affettuosa, però dovevi sempre pensare a quello che dicevi perché lei faceva così. Aveva un coté romantico e femminile di grandissima dolcezza, però le sue aspettative erano molto alte e con lei ti sentivi sempre sotto esame. Fu Oriana a mettere fine all’intervista con Khomeini togliendosi di colpo il chador, gesto che lo mise in fuga. Ma pochi mesi dopo la ritroviamo in Libia sotto la tenda con Muammar Gheddafi per un’altra famosa intervista. Cosa la spingeva? Determinazione e serietà. I suoi reportage dalla guerra del Vietnam li faceva andando in elicottero in prima linea, mentre i suoi colleghi aspettavano al bar dell’hotel d’intervistare i soldati che tornavano dal fronte. La guerra sarebbe finita solo nel 1975, Oriana nel 1969 ad Hanoi, chiese d’incontrare il generale Giáp – era l’incubo degli americani e il sogno di ogni giornalista – e lui accettò di parlarle. Tempo dopo affascinato da quell’intervista «impossibile», Henry Kissinger le concesse un colloquio. Sono interviste belle da leggere, ma l’ascolto dei nastri ti dà un’altra percezione di quegli incontri. Come mai? Perché dal tono della voce si scopre quanto Oriana potesse essere seducente, o estremamente aggressiva; oppure, come nell’intervista a Berlinguer, diretta simpatica, confidenziale. Con i militari in Vietnam invece era quasi affettuosa, mentre la sua intervista con Ariel Sharon, a casa di questi in Israele, sembra un lungo duello tra due pistoleri. Si sente lei che cerca di farlo parlare, ma lui è sfuggente come un’anguilla, finché irrompe nella registrazione la voce infuriata della domestica che li butta letteralmente fuori dalla sala da pranzo perché si era fatto tardi e lai «doveva lavorare» e i due si profondono in scuse. Ma Oriana ha intervistato anche molta gente dello spettacolo, Totò, Fellini, Paul Newman, Alfred Hitchcock, Anna Magnani, Ingrid Bergman… Lei era molto legato a Oriana, la vedeva spesso? Ho passato molta parte della mia vita da adulto con lei, che per me era una figura di riferimento quasi maschile perché io sono cresciuto senza padre, infatti se n’era andato di casa che avevo cinque anni e perciò ero molto affezionato a mio nonno Edoardo, papà di Oriana e a Oriana stessa. Inoltre ho studiato in America e quando potevo andavo a trovarla. Subivo il suo fascino, mi lasciavo maltrattare e comandare, magari

Wikipedia

«Tutti i miei libri sono scritti in prima persona generalmente e hanno comunque uno sfondo biografico. Non dicono solo la mia altezza (un metro e cinquantasei scarsi), e il mio peso che oscilla tra i 42 e i 43 chili. La gente quando mi conosce rimane sorpresa da tanta pochezza. E io allargo le braccia e dico “Tutto qui”». Finisce così una delle biografie di Oriana Fallaci (1929-2006, ritratta nella foto), scritta di suo pugno, in cui questa giornalista, corrispondente di guerra e «scrittore», famosa, temuta e rispettata che ha vissuto ai quattro angoli del mondo, sembra guardare indietro ai fatti salienti della propria vita con soddisfazione, ironia ed una certa sorpresa per come gli avvenimenti, le persone e le sue stesse scelte l’avevano resa straordinaria. Ma chi vuole conoscere più da vicino il Soldato semplice dell’Esercito Italiano Oriana Fallaci (si era guadagnata questo titolo sul campo a quattordici anni, nel 1943 quando a Firenze aiutava suo padre partigiano a far passare i prigionieri inglesi e americani in fuga, oltre le linee tedesche) d’ora in poi non dovrà andare a Boston, o alla Rizzoli a Milano, ma potrà accedere al Fondo Fallaci custodito all’Archivio Storico del Consiglio Regionale della Toscana e alla Sala Fallaci della Biblioteca Pietro Leopoldo a Firenze, la sua città, da lei tanto amata, che finalmente l’accoglie con gli onori dovuti ad una figlia illustre. Chi lo desidera potrà ascoltare la voce di «quella donna», come diceva l’ayatollah Khomeini riferendosi a lei, perché oltre ai suoi libri, agli articoli, alle fotografie, ai reportage dalla guerra del Vietnam e sulle missioni aerospaziali, ci sono anche i materiali preparatori e i nastri delle sue mitiche interviste ai grandi personaggi del XX secolo oltre alle lettere e ai documenti legati ad Alexandros Panagulis (poeta greco perseguitato dal regime dei Colonnelli) con il quale ebbe la storia d’amore raccontata nel romanzo Un uomo. Abbiamo parlato di Oriana Fallaci con Edoardo Perazzi, nipote prediletto e suo erede universale, che si è molto speso per la creazione del fondo e che «dall’Oriana» ha preso anche l’altezza e soprattutto il gusto per le iperboli.

aspettando con ansia che si decidesse a raccontarmi qualcosa dei suoi amici astronauti delle missioni Apollo. Perché tu non potevi chiederle niente, altrimenti ti mandava a quel paese. Alle volte avevo l’onore e la responsabilità di assistere mentre rileggeva ad alta voce i suoi pezzi, o brani del libro che stava scrivendo. Aveva una bella voce, roca, ruvida, ma molto musicale e se l’effetto di quanto aveva scritto non le piaceva, era capace di rifare un paragrafo, un’intera pagina, o addirittura tutto l’articolo. Era scontenta di sé stessa? Era una secchiona e una maniaca perfezionista. Basta vedere le bozze delle sue opere. All’epoca non c’era il computer, lei scriveva a macchina e poi correggeva, tagliava con le forbici le frasi, o i paragrafi che le piacevano e li incollava su una nuova pagina. I suoi dattiloscritti, sono delle opere d’arte piene di correzioni, riscritture, «appiccicature», perché lei lavorava così. Quando mi sposai era già molto malata e non potendo intervenire mi mandò la registrazione di una sua lettura dal Cantico dei Cantici di po-

chi minuti, che ascoltammo in Chiesa. Un pensiero che mi commosse. Dopo la sua morte, tra le sue carte ne ritrovai le varie stesure e le diverse registrazioni. Quel regalo le era costato almeno tre mesi di lavoro. E le interviste come le preparava? Era meticolosa fino all’ossessione. siccome internet all’epoca non c’era, Oriana per settimane telefonava, scriveva, mandava telegrammi a tutti coloro che potevano raccontarle, o svelarle qualcosa in più. Raccoglieva montagne di materiale e scriveva le domande su un quadernetto. Le interviste sono belle perché ci sono anche i suoi dubbi, le sue impressioni personali e, nelle introduzioni in cui contestualizza il momento storico, il luogo e il personaggio, non lesina i commenti graffianti, a volte di una crudeltà così azzeccata da risultare uno spasso e un capolavoro. D’altronde aveva iniziato questo mestiere facendosi largo in un mondo di uomini, inventandosi un modo di scrivere diretto e aggressivo. Era questa la sua arma più potente per stare sempre sulla scena, passando

dal cinema alla guerra, alla politica. Da Firenze, a Milano, a Roma e poi a New York, Los Angeles, Hanoi.… Negli ultimi anni della sua vita i suoi libri e le sue tesi radicali scatenarono critiche e contestazioni tali da oscurare il suo valore e il nome stesso di Oriana Fallaci, ma adesso le cose stanno cambiando? Nelle Università americane sono anni che Oriana viene studiata per la sua tecnica di scrittura. Adesso che a Firenze un Fondo con tutti i materiali che la riguardano diventa accessibile a studenti e ricercatori, ci sarà modo di riflettere sulla sua figura ed i suoi scritti. Inoltre tra non molto dovrebbe uscire una mini serie televisiva su Oriana (alla quale ho collaborato anch’io), sui suoi primi anni di carriera, quando si fece mandare in America dal giornale «L’Europeo» millantando di riuscire ad intervistare la diva del momento: Marilyn Monroe! Non la incontrò mai, ma ebbe uno straordinario successo raccontando come non ci fosse riuscita e fu l’inizio dei suoi viaggi e del capitolo più importante della sua vita.


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CULTURA

Una retrospettiva per Xanti Schawinsky

Mostra ◆ Tra i maggiori esponenti del Bauhaus, i lavori dell’artista basilese naturalizzato statunitense sono ospitati a Casa Rusca Alessia Brughera

Sono gli anni Venti del Novecento, quando, come molte altre personalità del mondo della cultura dell’epoca, Alexander «Xanti» Schawinsky inizia a frequentare il territorio locarnese attratto dalla forza catalizzatrice del Monte Verità. Qui, l’artista, nato a Basilea nel 1904 e considerato una delle figure più importanti del Bauhaus, trascorre i mesi estivi insieme a Walter Gropius, Marcel Breuer e László Moholy-Nagy, altri maestri legati alla scuola tedesca che hanno rappresentato il punto di riferimento per i movimenti d’innovazione nel campo del design e dell’architettura.

York University e il City College; infine il ritorno in Europa nel 1961, dove si muove tra la Germania, l’Italia e la Svizzera pur con numerosi soggiorni nella Grande Mela. L’ampio raggio di azione dell’artista e il suo confrontarsi con stimoli differenti traspare bene dalle opere selezionate per la mostra locarnese, incentrata soprattutto sulla produzione degli anni Sessanta e Settanta. Tra le serie che più colpiscono per lo spirito innovativo che le ha generate ci sono le Eclipses, i cui primi esperimenti risalgono agli anni Quaranta. Schawinsky stropiccia della carta per poi ricomporla e dipingerla utilizzando l’airbrush, dando vita a paesaggi pittorici scaturiti sia dal caso sia dal controllo della composizione.

La rassegna ospitata negli spazi del Museo Casa Rusca diventa un omaggio a una figura dal percorso di vita internazionale rimasta sempre molto legata al nostro territorio «Facciamo il bagno nudi nel lago», annota Schawinsky in un suo manoscritto: per l’artista la regione che circonda il Monte Verità diventa un mondo alternativo, luogo di incontro intellettuale e rifugio a stretto contatto con la natura per spiriti liberi e riformatori come lui. Schawinsky soggiorna assiduamente sul Lago Maggiore fino al suo esilio negli Stati Uniti nel 1936. Le sue permanenze sulle sponde del Verbano rincominciano poi agli inizi degli anni Sessanta, quando fa ritorno in Europa dividendosi, fino alla propria morte, tra il Ticino e New York. Quanto Schawinsky amasse queste località lo dimostra il fatto che nel 1966 si costruì una casa a Oggebbio, comune italiano poco distante da Locarno, utilizzandola come residenza secondaria e atelier nonché come base da cui seguire la sua intensa attività espositiva che lo vide coinvolto nell’ultima mostra da vivo nel 1979, anno della sua scomparsa, presso la Galleria Flaviana di Locarno. La rassegna dedicata a questo importante artista svizzero ospitata negli spazi del Museo Casa Rusca di Locarno diventa quindi un omaggio a una figura dal percorso di vita internazionale rimasta sempre molto legata al nostro territorio, avendolo eletto per tutta la sua esistenza a luogo di creazione e di scambio culturale. Nato da una famiglia di commer-

Schawinsky ha l’attitudine a concepire il processo artistico come una continua sfida ai limiti fisici e concettuali

Xanty Schawinsky, Incontro III, 1968, dalla serie Eclipses. (Courtesy of the Xanty Schawinsky Estate)

cianti ebreo-polacca, Schawinsky è stato pittore, designer, fotografo e scenografo. Una visione limitata della sua opera ha fatto sì che ancora oggi venga inserito nella storia dell’arte del XX secolo soltanto per le sue idee sulla riforma del teatro, associando il suo lavoro a quello di Oskar Schlemmer, suo docente presso il Bauhaus. Ben più ampio però è il respiro del suo percorso creativo, capace di rapportarsi alle principali correnti del modernismo europeo e americano nel periodo che precede e che segue il secondo conflitto mondiale, rappresentando così lo scambio transatlantico di tendenze artistiche di quel momento storico. Già all’età di vent’anni, come ben spiegato in un saggio del catalogo della mostra di Locarno dal suo curatore, Raphael Gygax, Schawinsky si muove nei diversi contesti culturali europei con quella flessibilità che si rispecchia anche nella sua pratica artistica, contrassegnata da una vera e

propria «gioia della sperimentazione». Da quando la pittura, negli anni Quaranta, diventa il suo principale interesse, Schawinsky si distingue per il carattere processuale e performativo del proprio lavoro, affrontando la dissoluzione dei confini tra i vari mezzi espressivi e concentrandosi sul procedimento di formazione dell’opera. Spontaneità, assenza di regole rigide e abbandono dei mezzi convenzionali sono solo alcuni dei requisiti importanti della sua produzione artistica, che nel 1969 si prende la briga di scrivere un saggio, intitolato About the Physical in Painting (Sulla fisica nella pittura), in cui far confluire tutte le sue idee a riguardo. «La totalità può essere avvicinata attraverso una maggiore mobilitazione delle risorse del corpo e la scelta o l’invenzione di nuovi strumenti», sottolinea l’artista. Al pari della sua aspirazione a un «teatro totale», nella pittura Schawinsky punta a sfruttare opportunità ancora inutilizzate, ponendo l’accento sul

processo intellettuale e progettuale dell’opera: il fare arte diventa così un percorso, un rituale, piuttosto che la realizzazione di un prodotto finito. Scorrendo la biografia di Schawinsky si evince come la sua esistenza sia stata pregna di esperienze importanti, il cui filo conduttore è da rintracciare proprio nella ricerca continua di approcci inediti alla creazione: la frequentazione del Bauhaus, non una semplice scuola ma il simbolo di un modus operandi e di uno standard di vita che l’artista fa propri; la permanenza dal 1933 al 1936 a Milano, dove Schawinsky si afferma come grafico pubblicitario di successo; l’esilio negli Stati Uniti e l’insegnamento al leggendario Black Mountain College nella Carolina del Nord, culla delle sue prime forme di «happening» che sarebbero state fondamentali per un altro affiliato della stessa istituzione, John Cage; il trasferimento nel 1938 a New York per lavorare come grafico e docente di pittura presso la New

Della fine degli anni Cinquanta sono i suoi lavori più sorprendenti, i Track Paintings, realizzati dall’artista guidando con l’automobile prima sul colore a olio e poi sopra tele distese a terra, così che gli pneumatici possano lasciarvi tracce accidentali sovrapposte tra loro. Legati alle dottrine del Bauhaus in materia di geometria e ottica sono i quadri Sphere Paintings risalenti agli anni Sessanta, tra i più interessanti dell’artista. Qui Schawinsky apre la superficie dell’opera alla terza dimensione usando veli di garza dipinti fissati al telaio, in modo da creare, grazie alla loro trasparenza, spazi pittorici caratterizzati da stratificazioni e mescolanze di colore. Come gli altri cicli, anche questo testimonia l’attitudine di Schawinsky a concepire il processo artistico come una continua sfida ai limiti fisici e concettuali, ricorrendo a metodi per l’epoca rivoluzionari che spesso non vennero compresi davvero a fondo nemmeno dai suoi colleghi. Dove e quando Xanti Schawinsky: Pittura processuale, Museo Casa Rusca, Locarno. Fino al 5 novembre 2023. Orari: ma-do e festivi 10.00-16.30. www.museocasarusca.ch Annuncio pubblicitario


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CULTURA

Anatomia del Premio Strega

Saggio ◆ Nel suo nuovo lavoro Gianluigi Simonetti mette a nudo – tra pregi e difetti – il prestigioso premio letterario italiano Roberto Falconi

Perché Walter Siti ha vinto il Premio Strega con Resistere non serve a niente, il suo romanzo meno suo, e non avrebbe mai potuto vincerlo con Troppi paradisi (men che meno con Scuola di nudo; lasciamo perdere con Autopsia dell’ossessione)? È una delle questioni su cui si interroga Gianluigi Simonetti nel (sin dal titolo) felicissimo Caccia allo Strega. Anatomia di un premio letterario.

La prima parte del saggio analizza le trasformazioni dei premi letterari in generale e dello Strega in particolare Lo scopo del libro è chiaro: ricostruire alcune tendenze di una parte della narrativa italiana più recente deducendole dall’osservatorio specifico del Premio Strega degli ultimi vent’anni. Altrettanto chiara è la tesi: i premi non vanno agli scrittori più bravi, ma, «nell’ipotesi più favorevole», a quelli che intercettano meglio la sensibilità del proprio tempo: il gusto della giuria e del pubblico, gli interessi degli editori. La prima parte del saggio analizza le trasformazioni dei premi letterari in generale e dello Strega in particolare, senza che questo implichi di ripercorrere le chiacchiere e i pettegolezzi (spesso molto fondati) che da sempre accompagnano il verdetto: dalle manovre dei grandi gruppi editoriali alle beghe tra scrittori che hanno vinto o perso per un solo voto di scarto. Il problema, dice Simonetti muovendo da

alcune cruciali acquisizioni de La letteratura circostante, è che ormai lo Strega garantisce un «bottino di capitale sociale» che il vincitore può investire in attività più o meno laterali rispetto al libro premiato: reputazione nel proprio giro di riferimento, cooptazione nel sistema dei media, firmacopie, traduzioni, trasposizioni dell’opera su altri vettori. Insomma, lo Strega diventa l’emblema di quella «festivalizzazione della letteratura» per cui contano sempre di più la contiguità (tra lettore e libro e tra libro e persona fisica dell’autore) e la contestualità (la capacità di un’opera e di un autore di integrarsi in sistemi esterni al campo letterario). La conseguenza è che ormai, come ha ironicamente scritto Alfonso Berardinelli, «il romanzo italiano oggi esiste perché c’è il Premio Strega»; cioè si riconfigura e si appiattisce sul gusto di un pubblico medio (ma molto largo, e quindi molto redditizio) alla ricerca di «nobile intrattenimento». Di racconti in cui la ricerca di letterarietà (spesso velleitaria se non d’accatto) si somma a qualche mezzuccio a buon mercato per sedurre il lettore (montaggi ben congegnati, tinte forti). La destabilizzazione stanca, chi scrive e chi legge: meglio allora scrivere e leggere un romanzo che confermi nei propri sistemi valoriali e nei propri orizzonti di aspettative (politicamente corretti, vagamente progressisti), ma con l’illusione di uno sguardo problematico sul Mondo. Insomma, quella letteratura del «neo impegno» su cui si è recentemente soffermato proprio Walter Siti, costruita su stereotipi incapaci di qualsiasi scavo. Aggiungo, restando in

zone sitiane: per raccontare, anche con dovizia di particolari fattuali, le storie di Filippo Addamo e di Ruggero Freddi sarebbe bastato qualche bravo giornalista; per indagarne gli abissi ci voleva La natura è innocente. Ecco allora che nella seconda parte Simonetti analizza in sei microsaggi altrettanti romanzi, cinque vincitori dello Strega negli anni Zero e Le assaggiatrici di Rosella Postorino, un’incursione al Campiello utile a dimostrare che alcune tendenze dell’ultima narrativa si sono ormai diffuse a tal punto da smussare anche le differenze tra i vari premi. Ora, se insistere anche qui sulle pochezze de La solitudine dei numeri primi e di Non ti muovere mi pare francamente ingeneroso, val forse la pena di notare come Simonetti – sempre con argomenti inattaccabili e senza guardarne dall’alto in basso i lettori – non consideri poi chissà quanto riuscito nemmeno M. Il figlio del secolo («sembra ispirarsi principalmente a Game of Thrones»). Lo dico perché ho l’impressione, forse mi sbaglio, che siano semmai i lettori di Scurati, per qualche motivo, a guardare dall’alto in basso chi legge Giordano o Mazzantini. Non è quindi un caso, tornando a ciò che dicevo in entrata, che Walter Siti abbia vinto lo Strega con un romanzo ammorbidito rispetto ai precedenti, ma solo all’apparenza più vicino ai gusti di un pubblico largo nella scelta dei temi (malavita e finanza) e dell’istanza narrativa (abbandono della prima persona). Operazione che potrebbe in realtà costituire una metariflessione proprio sulla genesi di

Cesare Pavese riceve il Premio Strega nel 1950 da Maria Bellonci. (Keystone)

un libro scritto su commissione (e Siti tornerà ironicamente sulla questione in Bontà, che secondo questa prospettiva può essere allora letto come un paratesto di Resistere non serve a niente). Non mancano pertanto, nella medietà (mediocrità) generale sin qui descritta, felici controesempi, né tra chi ha vinto lo Strega (Starnone, Trevi), né tra chi vi ha sempre girato alla larga (Mari, Trevisan). Nella terza parte del saggio Simonetti mi pare che rintuzzi in anticipo le eventuali riserve sui criteri che lo hanno guidato nella scelta dei sei romanzi di cui sopra; di averli cioè utilizzati per dimostrare una tesi precostituita. Le acquisizioni delle analisi puntuali sono infatti verificate sulle cinquine delle ultime sei edizioni dello Strega, con risultati che con-

fermano costanti e tendenze in atto. Ne concluderei due cose, entrambe molto belle e non scontate, visti i tempi che corrono. La prima: a differenza di quel che fa certa critica vagamente autoreferenziale, Simonetti parla di libri e non di sé (o, meglio, rivela sì qualcosa di sé, ma parlando seriamente dei libri degli altri, come peraltro fa anche il più asettico dei filologi). La seconda: la prospettiva di Simonetti non è blandamente descrittiva, ma saldamente critica. Lo era anche ne La letteratura circostante, vale la pena di ricordarlo. Bibliografia Gianluigi Simonetti, Caccia allo Strega. Anatomia di un premio letterario, Nottetempo, Roma, 2023. Annuncio pubblicitario

Cooper, splendido Maestro

Netflix ◆ A novembre arriva il film diretto e interpretato da Bradley Cooper

Maestro, il film interpretato e diretto da Bradley Cooper su Leonard Bernstein, prossimamente su Netflix, è stato presentato in anteprima alla Mostra del Cinema di Venezia. È stato una specie di viaggio omaggio, perché ricordiamo bene come il celebre direttore d’orchestra e compositore americano amasse molto Venezia. Ci venne l’ultima volta nel 1982 per celebrare il centenario della nascita Igor Stravinskij: dirigeva la Sinfonia di salmi con l’Orchestra della Scala nella Basilica dei Santi Giovanni e Paolo. Tutto lo incantava di Venezia: incurante dell’assalto costante dei cacciatori di autografi o di gente che gli voleva semplicemente parlare (a cui non riusciva a dire di no), personaggi che lo braccavano ovunque, davanti all’Hotel Danieli e alle prove, sguazzava deliziandosi del timbro delle ciacole, delle grida segnaletiche e degli scambi verbali dei gondolieri, dell’orchestrina del Caffè Florian che suonava la barcarola dei Contes d’Hoffmann di Offenbach, dello sciabordio della laguna sulla lancia che lo portava ad omaggiare la tomba di Stravinskij sull’isola di San Michele. Allora la popolarità di Bernstein come direttore d’orchestra era ben maggiore di quella del compositore. Oggi è vero il contrario, il compositore conosce un largo riconoscimento critico che in vita, e soprattutto in patria, era spesso messo in discussione, perfino ridotto ai minimi termini dal-

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Giovanni Gavazzeni

la violenza della propaganda politica (Bernstein fu un coraggioso paladino di tutti i diritti civili fin dai tempi della Grande Depressione). Martin Scorsese e Steven Spielberg che Bernstein ammirava molto (alla proiezione di E.T. venne richiamato dalle maschere perché singhiozzava troppo rumorosamente) sono co-produttori di questo film che racconta una storia d’amore lontana dai riflettori del successo, quella fra Bernstein e Felicia Montealegre Cohn, attrice e pianista cilena allieva di Claudio Arrau, una donna che visse a fianco del golden boy musicale realizzando il loro sogno americano, una famiglia. Il film è come visto dalla delicata prospettiva dei tre figli nati dalla relazione tra un uomo dalla sensualità travolgente e una

donna di grande intelligenza e ironia. Nell’intimo però un tarlo devastante ha divorato Bernstein: il rimorso che il cancro di sua moglie Felicia (interpretata da una splendida Carey Mulligan) fosse dovuto al dolore per averla lasciata a metà degli anni Settanta per un uomo, dopo essersi progressivamente aperto ad una vita sessualmente molto attiva, non più tenuta fuori dalla famiglia. Il film tratta senza sbavature un argomento delicato e complesso, facendo capire che quella di Lennie&Felicia fu un’autentica e complicata storia d’amore, e non, come malignamente narrato, un matrimonio in bianco perché Bernstein diventasse il primo direttore nativo americano della Filarmonica di New York durante l’epoca della Commissione McCarthy, passata alla storia come Caccia alle streghe. Straordinaria la somiglianza fisica di Cooper con Bernstein nelle varie età. Ottimi i consigli su come imitare il gesto inimitabile di Bernstein impartiti a Cooper da Yannick Nézet-Séguin, attuale direttore stabile della Metropolitan Opera di New York e della Philadelphia Orchestra, che volle diventare musicista guardando le famose Bernstein in TV. La voce di Cooper, seppure non profonda e sensuale come l’originale, mista di nicotina, enfisema polmonare e whisky on the rocks, è piuttosto verosimile: un altro dei pregi di questo film fatto con sentimenti non posticci.

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Contratto Indeterminato (80-100%)

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Mansioni principali è responsabile dei processi d’elaborazione salariale, dalla contabilizzazione al controllo; coordina l’attività del suo team di lavoro (gestione e suddivisione dei compiti); si occupa della gestione amministrativa di tutti i collaboratori (assicurazioni, assegni famigliari, gestione tempo di lavoro, ecc…); analizza, verifica e applica le diverse disposizioni legali e contrattuali; sviluppa reporting, statistiche e gestisce il cockpit con i principali indici HR; partecipa attivamente a progetti nel proprio settore e a livello nazionale; lavora a stretto contatto con l’HR Manager, interagendo giornalmente con i responsabili HR e di altri dipartimenti; mantiene le relazioni con enti esterni (cantone, assicurazioni); allestisce il budget del personale in collaborazione con i responsabili di settore; offre supporto tecnico specialistico ai vari partner interni all’azienda. Requisiti richiesti formazione di livello superiore con specializzazione in materia di gestione in risorse umane e/o assicurazioni sociali; esperienza di almeno 5 anni nella gestione di sistemi retributivi complessi; conoscenza approfondita delle disposizioni legali in ambito di contrattualistica del lavoro e delle assicurazioni sociali; ottime conoscenze dei principali applicativi informatici, tra cui SAP; padronanza della lingua tedesca parlata e scritta; spiccate capacità organizzative, dinamismo e spirito d’iniziativa; buone doti relazionali e comunicative, anche in pubblico. Candidature da inoltrare entro il 5.11.2023, collegandosi al sito www.migrosticino.ch, sezione «Lavora con noi» - «Posizioni disponibili».


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È ora di rompere le noci 2

Le noci forniscono preziosi acidi grassi insaturi, proteine e sali minerali e sono quindi un’aggiunta sensata alla dieta. Tutto quello che c’è da sapere sulle noci bio

Noci bio

Testo: Edita Dizdar, Nina Huber

NOCI

1

Cibo spaziale

Importanti sostanze nutritive

Le noci hanno più calorie delle patatine. Tuttavia forniscono anche acidi grassi insaturi e preziose fibre, parzialmente anche molte proteine, come nei pistacchi e nelle mandorle. Inoltre contengono magnesio e ferro, soprattutto gli anacardi. Anche la pellicina delle noci contiene importanti nutrienti.

30 metri

La noce è una delle tre varietà di frutta secca più apprezzate alla Migros. Gli alberi possono raggiungere i 30 metri di altezza e un tempo crescevano dove oggi si trova la Siria. Oggi prosperano, tra l’altro, negli Stati Uniti, in Cina e in Svizzera. Da noi vi è una specialità particolarmente apprezzata: la torta di noci grigionese, che è ora disponibile in qualità Bio Suisse e con il marchio della Gemma. Viene prodotta a 1400 metri di altitudine nell’azienda familiare La Conditoria di Sedrun (GR) ed è quindi un’autentica torta di noci grigionese.

Da oggi con il marchio della Gemma Bio Suisse: Torta di noci dei Grigioni, bio 300 g Fr. 8.95

Per esempio

Sebbene la noce di pecan sia imparentata con le noci e abbia valori nutrizionali simili, è botanicamente classificata come drupa. Il suo sapore è più delicato rispetto a quello della noce. Il pecan selvatico è originario del Texas e, essendo ricco di acidi grassi insaturi e proteine, è arrivato persino nello spazio, come cibo fresco per gli astronauti americani. La Migros si rifornisce di noci di pecan bio dal Messico e dagli Stati Uniti.

N O CI PEC A N

A C A G IÙ

Formaggio vegano

L’anacardo, o noce di acagiù, è la noce più popolare tra la clientela Migros. In realtà non è una noce, ma il seme di un falso frutto. A differenza di altri semi, non cresce al centro del frutto, ma all’esterno. Le noci di anacardi bio della Migros sono anche certificate con il marchio Fairtrade. Gli standard di Fairtrade forniscono una rete di sicurezza per i piccoli agricoltori, che possono vendere i loro prodotti a prezzi garantiti e quindi migliorare in modo sostenibile il loro futuro. L’anacardo tropicale è originario del Brasile e oggi viene coltivato soprattutto in Costa d’Avorio e in Vietnam. Con gli anacardi si può ottenere una purea adatta alla preparazione di creme. Inoltre, servono come base per le alternative vegane al formaggio e come sostituto del latte nella salsa béchamel.

Le noci bio provengono da piantagioni gestite in modo biologico: non vengono utilizzati fertilizzanti o pesticidi chimici di sintesi. Pertanto, la resa è solitamente inferiore a quella dei consueti alberi da frutta a guscio. Anche la conservazione presenta delle differenze rispetto alla coltivazione convenzionale. Non è consentito l’uso di gas chimici di sintesi contro i parassiti. Le eventuali larve e uova sono invece eliminate privandole dell’ossigeno.

3

Mangiare frutta secca è semplice

Vuoi mangiare più noci? È facile! Al mattino sono ottime tritate nel müesli o nel pane proteico con le nocciole. All’ora di pranzo, la pasta viene affinata con il pesto di rucola con pistacchi. Alla sera, gustati una vellutata piccante di patate dolci e arachidi. Per uno spuntino, prendi una manciata di noci (da 20 a 30 grammi). Trovi tutte le ricette su migusto.ch.


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MONDO MIGROS

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Come mantenere la freschezza più a lungo Le noci non sgusciate e intere si conservano per diversi mesi. Si consiglia di conservarle in un luogo fresco e buio. Versa i gherigli di noce sgusciati delle confezioni iniziate in un barattolo e conservali in un luogo fresco (da 10 a 18 gradi) o in frigorifero. Se hanno odore di muffa o di rancido, non mangiarli. Controlla regolarmente le confezioni aperte. Le noci possono essere congelate senza problemi.

N O C C IO L E S PA G N O L E T T E

P IS TA C C H I

La più antica d’Europa In una variante della fiaba dei fratelli Grimm, classico natalizio per eccellenza, tre nocciole portano fortuna a Cenerentola. È la noce più antica d’Europa e già presso i Greci era parte integrante del menu. Oggi le nocciole sono coltivate principalmente lungo la costa turca del Mar Nero. Da qui proviene l’80% della produzione globale.

Prelibatezze regali

Gli alberi di pistacchio amano i terreni aridi, quindi non sorprende che siano originari del Medio Oriente. Sono tra le più antiche piante coltivate e, dal punto di vista botanico, non sono noci ma drupe. In passato i pistacchi erano considerati una prelibatezza regale e in seguito uno spuntino da viaggio popolare sulle rotte commerciali. Tra i Paesi importanti per la coltivazione ci sono oggi l’Iran, gli Stati Uniti e la Turchia. I pistacchi bio della Migros provengono principalmente dagli Stati Uniti.

Per esempio

Da oggi con il marchio della Gemma Bio Suisse: Yogurt alla nocciola, bio 180 g Fr. –.90

Per esempio

5

Lo spuntino per studenti per eccellenza 17° secolo: un popolare mix di frutta secca consisteva di uva sultanina e mandorle. Queste ultime venivano da lontano, erano costose e accessibili solo agli ambienti più ricchi. Questo includeva tutti coloro che potevano permettersi il privilegio di studiare. Molti credevano che le mandorle aiutassero a contrastare l’ubriacatura.

Bastoncini integrali alle nocciole, bio 270g Fr. 3.95

Le arachidi, o spagnolette, non provengono dalla Spagna, ma dalla regione andina del Perù e del Brasile. Oggi in Svizzera ci riforniamo principalmente da Israele e dall’Egitto. Ma furono gli spagnoli a portarle in Europa alla fine del XVIII secolo. Le arachidi crescono sotto terra e non sono noci. Dal punto di vista botanico si tratta di legumi; sono quindi più simili ai fagioli. Non sono commestibili se non sono tostate. Anche quelle che compriamo nel guscio vengono prima tostate in Turgovia. Perché San Nicolao porta le spagnolette? Non lo sappiamo con esattezza, probabilmente perché le arachidi sono nutrienti e in passato potevano aiutare i bambini a superare bene l’inverno. Ma hai già notato anche tu che dividendo a metà una spagnoletta compare un piccolo San Nicolao con cappuccio e barba?

Per esempio Frutta secca e noci miste, bio 200 g Fr. 3.20

M A NDORLE

Rosacea

L’imbroglio delle spagnolette

I mandorli in fiore incantavano anche Vincent van Gogh. Non c’è da stupirsi: sono belli da vedere e appartengono alla famiglia delle Rosacee, come le mele e le albicocche. Sapevi che le mandorle non sono vere e proprie noci, ma semi? Probabilmente originarie dell’Asia, oggi sono coltivate anche in altre parti del mondo, tra cui gli Stati Uniti e il Mediterraneo. Le mandorle bio della Migros sono coltivate nel sud della Spagna secondo lo standard Bio Suisse e sono tra le tre varietà di frutta secca preferite dalla clientela. Poiché gli alberi hanno bisogno di molta acqua e questa preziosa risorsa scarseggia in questa regione, viene utilizzato un sistema di irrigazione a goccia. Inoltre, circa la metà dell’acqua impiegata viene riutilizzata. Per proteggere il terreno dall’evaporazione, viene coperto con

La variante moderna: Berry, Nut & Soybean Mix, bio 170 g Fr. 4.95

pietre ed erba. Ciò aumenta l’efficienza e riduce il consumo di acqua. A differenza della ben nota mandorla dolce, la mandorla amara non è adatta a essere consumata cruda. Se la si ingerisce, nello stomaco si forma dell’acido cianidrico tossico, ma la cosa positiva è che è talmente amara che la si risputa automaticamente. Ciononostante, questa varietà di mandorle è utilizzata nell’industria alimentare, ad esempio nel marzapane o negli amaretti. Il riscaldamento durante il processo di produzione fa evaporare completamente la sostanza in questione.

Per esempio Da oggi con il marchio della Gemma Bio Suisse: Mandorle bio 200 g Fr. 4.60

M A C A DA M IA

Campione di esportazione

È chiamata la «regina delle noci» perché l’impegnativa coltivazione e lavorazione la rendono la noce più costosa al mondo. L’albero di macadamia è originario dell’Australia. Mentre gli aborigeni australiani lo conoscevano da tempo, gli emigranti europei lo scoprirono solo a metà del XIX secolo. Grazie al suo sapore intenso di noce e alla sua consistenza burrosa, la noce di macadamia è diventata un prodotto di esportazione di grande successo. Oggi queste noci sono coltivate alle Hawaii, in Sudafrica e in Brasile, tra gli altri luoghi. Per cani e gatti, il consumo può portare a problemi di salute come febbre, debolezza, tremori muscolari o vomito.

6

Uso secondario dei gusci di noce

Riutilizzali invece di buttarli via! Grazie al loro contenuto di sostanze nutritive, i gusci di noce triturati sono ottimi nel compost destinato alla concimazione. Tritati grossolanamente, si possono anche mescolare al terriccio delle piante d’appartamento. Se vuoi pacciamare le aiuole del giardino, utilizza i gusci interi. Se ti piace il bricolage, con i gusci delle noci puoi creare piccoli animali; i topi sono particolarmente facili da realizzare. I gusci possono anche essere riempiti con resti liquidi di candele, compreso uno stoppino corto. Le piccole luci possono galleggiare e faranno bella mostra di sé in una bella ciotola sul tavolo. E se ti piacciono i trattamenti di bellezza, puoi preparare uno scrub esfoliante con gusci di noce tritati in un robot da cucina e mischiati al gel doccia.


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CULTURA

FIT, un viaggio tra originalità e trasgressione

Spettacoli ◆ Un bilancio della trentaduesima edizione del Festival Internazionale del teatro che si è appena conclusa Giorgio Thoeni

Il Festival Internazionale del Teatro alla ricerca di un’espressione identitaria teatrale contemporanea coniugata al femminile si è da poco concluso lasciando un’immagine diversificata. Fra oscillazione del gusto e originalità dell’offerta, salvo qualche valida eccezione, non abbiamo avuto l’impressione di una vera e propria ricerca unitaria. D’altronde era comprensibile. Rimanere per il terzo anno consecutivo sul tema di genere avrebbe comportato qualche stanchezza. Solo alcuni spettacoli, infatti, hanno risposto alle domande di fondo poste da Paola Tripoli nell’editoriale della 32esima edizione appena conclusa sulle scene luganesi del LAC e del Foce. Ma dovendo tracciare un bilancio sulle proposte in cartellone evitando noiosi elenchi, l’impressione che ne abbiamo tratto si concentra maggiormente su quelle produzioni dove il lavoro drammaturgico si è in qualche modo identificato con gli interrogativi posti nella premessa che ha accompagnato il programma del Festival e sostanzialmente attorno al rapporto fra scena, spettatori e attori, su che cosa resta del dispositivo scenico, sul corpo e il suo potere di rappresentazione, sulle narrazioni che scardinano il luogo comune. Ebbene, questa volta, più che nelle altre edizioni, ci siamo trovati a un bivio. Da un lato ci è stata indicata la

Nella foto Roberta Bosetti in Alcune cose da mettere in ordine. (© Festival Internazionale del Teatro)

via verso un’apparente trasgressione formale, dove il corpo è al centro di una parola rarefatta, imprigionata nei segni e vettore di significati subliminali, potenti. L’esempio più significativo ci è giunto da Demain est annulé, un’avvincente e originale coreografia della basilese Tabea Martin per la danzatrice neocastellana Tamara Gvozdenovic. La potremmo definire una sfida lanciata al pubblico elencando i processi che portano al rifiu-

La musica è vita

Concerto ◆ Torna la rassegna Effetto Voce «Siamo un gruppo corale attivo dal 1989 che cura e promuove la musica corale nelle sue diverse espressioni mettendo insieme voci e generi differenti» racconta Massimo Brenchio, presidente di Vox Nova, il gruppo corale diretto da Roberta Mangiacavalli che sabato 21 ottobre alle 20.30 canterà nella Chiesa parrocchiale di Bioggio. «Per noi è un gradito e importante ritorno dopo tre anni di fermo dovuti in gran parte agli effetti della pandemia. Saremo noi di Vox Nova ad aprire la serata con due brevi brani e poi – nello spirito della rassegna – seguirà il gruppo corale torinese Vox Viva, una realtà molto giovane composta da trenta elementi e diretta da Dario Piumatti». Versatilità espressiva, ricerca di discorsi musicali innovativi che dialogano con pagine di letteratura classica, sacra, rinascimentale e contemporanea ma anche brani di raccolta popolare, musica leggera e musica antica: tutto questo connota lo spirito e il programma di Vox Nova. L’idea del gruppo corale formato da quindi-

ci cantori è quella di mettere insieme eperienze diverse che proprio in virtù della loro diversità possano dar vita a sonorità originali, composite e arricchenti non solo per chi canta ma anche e soprattutto per chi ascolta. In questo quadro confluiscono assieme formazioni di vario genere che promuovono ad esempio lo swing, il jazz e la musica leggera. Un vero e proprio viaggio musicale, un mosaico di suoni che nella sua originalità trova una trama comune. Effetto Voce, la rassegna corale annuale – che giunge quest’anno alla sua quinta edizione – è proprio l’occasione per condividere questo progetto musicale portato avanti con passione e competenza come si evince anche dal percorso formativo della sua direttrice. Roberta Mangiacavalli si dedica da tempo alla vocalità e ai suoi molteplici aspetti con un’attenzione particolare per una certa «trasversalità» nelle aree musicali. / Red.

to delle convenzioni, allo scontro fra pensiero comune e ribellione attraverso parole-chiavi, concetti sprayati sulla scena e accompagnati da suoni e mezze frasi. Una performance intensa, faticosa, esemplare, dove l’affermazione e la sua contraddizione vengono messe in gioco in un esercizio continuo fra tensione e abbandono, fra la consapevolezza del gesto e la sua fisicità, fra l’occupazione dello spazio e la

sua ridicolizzazione nella sua fittizia limitazione. L’altra direzione è quella rappresentata dalla parola scritta, meditata, costruita fra indagine e letteratura, dove l’attore è al centro di una narrazione che trasporta lo spettatore nel labirinto di sensazioni che scoprono zone dell’inconscio. E siamo ancora nel solco della tradizione dove a vincere è la qualità della scrittura e la sua interpretazione: non si inventa nulla.

Due sono gli spettacoli emersi in tal senso. Alcune cose da mettere in ordine di Rubidori Manschaft regista e autrice di un testo scritto a quattro mani con Angela Demattè, è Elogio della vita a rovescio di Daria Deflorian. Soggetto del primo spettacolo – un progetto lungo, meticoloso, a tratti doloroso – è la vecchiaia, la memoria, la consapevolezza del declino. Un processo documentato con decine di interviste e coronate da un’espressione drammaturgica resa da una intensa Roberta Bosetti. Con Daria Deflorian ci siamo invece trovati lungo il tracciato di tre storie incentrate sulla sorellanza, uno dei temi più raccontati dalla scrittrice coreana Han Kang in un’osmosi a corrente continua. Sullo sfondo, la violenza e in scena la giovane e brava Giulia Scotti. Una nota di merito anche per la scelta degli spettacoli per i più piccoli. In particolare vogliamo segnalare Famiglie de La Baracca/Testoni di Bologna: un dispositivo semplice e geniale per raccontare senza parole con l’ausilio di manichini come possono nascere famiglie tradizionali o diverse. Una nota anche per Je suisse (Or Not) di Camilla Parini, lavoro delicato e sensibile. In un pesante costume di orso bianco, Camilla lascia che ogni spettatore diventi silenzioso lettore di una statica performance e testimone della ricerca di identità. Annuncio pubblicitario

Dolce Halloween!

Il gruppo corale Vox Nova al completo che si esibirà sabato 21 ottobre. (© Vox Nova)

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CULTURA / RUBRICHE

In fin della fiera

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di Bruno Gambarotta

«Paga lei la chiamata?» ◆

Per fare gli auguri ai cugini che vivono a Buenos Aires apriamo una video chiamata con la sola attenzione ai fusi orari per non svegliarli nel cuore della notte. Per i nostri nipoti ci troviamo nella più scontata quotidianità. Se ricordo che quando avevo la loro età per telefonare a un numero anche solo fuori dal mio Comune dovevo chiedere il collegamento a un centralino, fanno solo finta di credermi. Mi viene in aiuto un piccolo libro pubblicato molti anni fa e che ho conservato. Pubblicato nel 1993, ma la raccolta rievoca episodi risalenti ad anni prima. Il titolo Storie di ordinaria fonia fa il verso a Storie di ordinaria follia di Charles Bukowski. L’ha scritto Annabella Di Vita, una simpatica e spiritosa signora che ha pensato bene di raccogliere i dialoghi più divertenti e curiosi, frutto di una vita di lavoro come addetta a un centralino telefonico. Fra i tanti ca-

pitoli ce n’è uno ricco di trovate involontarie dedicato alle prenotazioni con pagamento a carico del destinatario. Qualche esempio. «Signorina, vorrei una comunicazione da addebitare al recipiente» inteso come ricevente, naturalmente. In un altro dialogo l'impiegata domanda: «Paga lei la chiamata?» Risposta: «No, paga il ricevitore». Qualche esempio fra le richieste tassative. «Vorrei fare una telefonata con la spesa rivoltata indietro». «Signorina, vorrei fare subito una rovesciata in Svizzera». «Vorrei parlare col Kuwait, con pagamento all’avversario». «Signorina, vorrei una comunicazione pagata dal destinatore». «Una chiamata con scarico in Svezia». L'impiegata: «Paga lei la chiamata?». Risposta: «No signorina, la faccia pagare al destino!». Sempre le centraliniste domandano: «Paga lei in Italia?» «No, gliela faccia scontare a loro». Oppure: «No, signorina, faccia pagamen-

to vicendevole». «Vorrei una collect per New York». Domanda: «Come si chiamano le persone in America?». La risposta è ovvia: «Ma americani, signorina!». Altro dialogo: «Signorina, vorrei fare una chiamata con pagamento in Austria». Domanda: «Da dove sta chiamando?». Risposta: «Da un cassonetto pubblico, in mezzo alla strada». Altro capitolo è il Nuovo atlante geografico che si rifà ai nomi di fantasia dati ai vari Paesi con cui gli utenti chiedono di essere collegati. Abbiamo così gli «Emirati Arabi Uniti» che a scelta possono diventare gli «Evirati Arabi». L’Arabia Saudita di volta in volta diventa «Arabia Esaurita» o «Rabbia Esaudita» a scelta. «Signorina vorrei sapere se sarebbe possibile parlare, tramite voi, con i Bermuda». Anche il servizio informazioni riserva delle belle sorprese, come in questo dialogo: «Signorina, mi può

cercare il numero di mio fratello a Dublino?» «Sì, signora, mi dica nome, cognome, indirizzo» «Il nome è …. Salvatore. L’indirizzo non me lo ricordo più ma è facile: arrivati all'aeroporto, lei prende la strada più larga, continua per un po’ e poi gira due volte a destra. Vedrà subito un cancello grigio: lì abita mio fratello». A volte qualcuno spera che le centraliniste siano delle veggenti. Annabella Di Vita riporta il seguente dialogo. Impiegata: «Mi spiace signora, ma il numero non risponde». Signora: «E lei non può dirmi se i miei amici sono a casa?» «No, perché non mi risponde nessuno». Signora: «Ma non risponde perché non vogliono rispondere o perché non sono in casa?». «Signorina, vorrei fare una chiamata per il Portogallo». «Lei da dove chiama?» «Da mia sorella». «Ma da dove esattamente?». Risposta: «Da una poltrona della sala d'ingresso».

In nessun altro ambito della vita quotidiana c'è una rivoluzione così rapida e radicale come nel settore della telefonia. Però alla domanda se rimpiango quel tempo non so cosa rispondere se non allineando storie di quegli anni. Per il primo viaggio di Paolo VI a Gerusalemme nel Natale 1963 i quotidiani mobilitarono le loro migliori firme. Dino Buzzati nella sua prima corrispondenza per il «Corriere della Sera» descrisse l'affannosa ricerca di un telefono ad Amman dal quale dettare il suo pezzo a un dimafonista in redazione. Se non trovavi un telefono la tua fatica era stata vana. Negli anni '60 lavoravo come cameraman negli studi Rai di Torino: se nei giorni di riposo era prevista la «reperibilità», questa veniva compensata: ero tenuto, ovunque mi trovassi, a stare in prossimità di un telefono. Adesso risultare irreperibile è considerata colpa grave. Devi giustificarti.

Pop Cult

di Benedicta Froelich

Le ombre lunghe sugli YouTuber e i loro canali ◆

Nelle ultime settimane un nuovo, ennesimo scandalo ha scosso alle fondamenta il mondo dei cosiddetti YouTuber (creatori di contenuti sulla celebre piattaforma online), stavolta sotto forma del chiacchieratissimo arresto di una figura controversa quale Ruby Franke – mamma di sei pargoli originaria dello Utah e, fino all’anno scorso, orgogliosa responsabile del seguitissimo canale Eight Passengers, poi da lei stessa eliminato in seguito all’insorgere di svariate polemiche relative a possibili abusi nei confronti dei figli. Purtroppo, il dubbio si è tramutato in certezza quando due dei bambini della Franke sono stati scoperti in evidente stato di malnutrizione, con profondi segni di legacci intorno ai polsi; sevizie in cui avrebbe giocato un ruolo chiave la psicologa Jodi Hildebrandt, con la quale la Franke gestiva un nuovo canale YouTu-

be, stavolta incentrato sulla terapia personalizzata. E poiché si sa che, quando si tratta di condanne, la giustizia americana non fa certo sconti, al momento la Franke rischia almeno trent’anni di prigione per maltrattamenti su minori. In realtà, quanto accaduto a Ruby Franke è solo l’ultimo di una lunga serie di scandali che ha colpito i famigerati family vlogs, ovvero quella branca di canali tematici (ospitati sui principali social network internazionali) dedicati alla vita quotidiana all’interno di famiglie, perlopiù americane, le cui dinamiche, emozioni e fatti personali vengono ossessivamente analizzati e raccontati dai genitori stessi, attratti – al pari di migliaia di colleghi trasformatisi dall’oggi al domani in YouTuber professionisti – dalla prospettiva di guadagni stellari, da ottenersi tramite le visualizzazioni degli utenti e

le sponsorizzazioni pubblicitarie. In realtà, già da diversi anni, i rari commentatori provvisti di maggiore lucidità (o, semplicemente, meno obnubilati dall’avidità) hanno fatto notare come, dal punto di vista etico, quest’attività ponga alcuni gravi quesiti – uno su tutti, la lesione della privacy derivante dalla mancanza – per i minori coinvolti, dell’esplicito consenso a essere continuamente filmati e «documentati» alla stregua di fenomeni da baraccone; e, come il caso della Franke (e molti altri) hanno dimostrato, dietro le allegre ed enfatiche scenette di affiatamento famigliare si cela spesso l’ombra del sopruso o, nel migliore dei casi, del bieco sfruttamento degli ignari e giovani virgulti. Del resto, in un mondo in cui i cosiddetti influencer guadagnano qualche milione di franchi l’anno semplicemente mostrando la loro bella faccia dallo

schermo di un computer, la tentazione di approfittare di qualsiasi cosa si abbia sottomano per convertirlo in un facile e lucroso successo mediatico è tale da far sì che in pochi vi sfuggano. Forse, però, il vero dilemma risiede altrove, e affonda le radici nell’antropologia moderna, assillando i sociologi fin dalla nascita degli stessi social network: al di là del fattore economico, qual è la molla che spinge l’uomo comune ad avvertire la necessità prevaricante di sbandierare pubblicamente ogni aspetto della propria vita privata, anche il meno lusinghiero? In un’epoca in cui tanto parlare si fa di privacy e dati sensibili, cosa ci spinge a convertirci volontariamente al genere di scellerato esibizionismo che, a sua volta, scatena il voyeurismo altrui? Soprattutto, a che pro osservare i protagonisti di turno mentre, intenti a

osannare o maledire in modo artificioso ogni minimo accadimento delle loro movimentatissime vite, mostrano con orgoglio agli spettatori esistenze perfette quanto artefatte, traboccanti di coniugi adoranti, case magnifiche, macchine di lusso e viaggi costosi? Eppure, c’e stato un tempo in cui l’opinione pubblica pareva scandalizzarsi davanti al morboso e gratutito sfoggio di sentimenti privati che caratterizzava la cosiddetta «TV spazzatura»; oggi, invece, questo ridicolo teatrino sembra non suscitare in noi alcuna reazione, essendo divenuto, di fatto, la norma. Un’ulteriore dimostrazione di come la bussola morale dell’essere umano possa essere ormai alterata, o addirittura annullata, a seconda delle mode e necessità del momento. E forse è questo che, più di ogni altra cosa, dovrebbe davvero farci paura.

Xenia

di Melania Mazzucco

Nnamdi, nato per essere un sarto e non un calciatore ◆

A sedici anni, mentre langue – sfiduciato e depresso – in un centro di accoglienza per minori non accompagnati in attesa di conoscere il suo destino, uno degli operatori gli regala un paio di scarpini da calcio misura 46 e una maglietta della Juventus. Pensa di fare una cosa buona e giusta, perché Nnamdi è molto alto per la sua età, è atletico e nero, e dunque l’operatore dà per scontato che sia portato per lo sport e che in esso possa trovare il suo riscatto e perfino la sua fortuna. Del resto l’equivoco lo ha alimentato lo stesso Nnamdi, che quando, dopo lo sbarco, è stato interrogato, si è dichiarato vittima della tratta dei baby calciatori africani e convinto a venire in Europa col miraggio di un contratto da professionista. Qualcuno deve avergli detto che è un buon modo per ottenere lo status di rifugiato. Così Nnamdi

comincia ad allenarsi con la primavera della squadra locale. Viene accolto con entusiasmo. Un metro e novantatré, fisico statuario: sarà di sicuro un campione. Invece Nnamdi non sa colpire il pallone, non ha mai giocato nemmeno nelle pozzanghere della periferia di Lagos, e si aggira imbambolato per il campo. Gli adolescenti suoi compagni prima lo incitano, poi pensano sia scemo o traumatizzato dalle guerre e dalle violenze che lo hanno costretto a lasciare il suo Paese (si è appurato che viene dalla Nigeria), infine, esasperati, finiscono per sfotterlo. Nnamdi subisce senza reagire, come impermeabile agli insulti. L’allenatore non si capacita che un africano mostri tanta poca attitudine per lo sport. Non riesce a immaginare che possa avere altri interessi. Artistici, intellettuali. L’allenatore è una

brava persona, si ritiene accogliente e inclusivo e lo è. Ignora di essere vittima di pregiudizi. Negli spogliatoi Nnamdi, ormai ribattezzato Nando, non parla con nessuno e sta in disparte. Lo scoprono a ricucire la maglietta strappata da una trattenuta. Svelto, abile come una donna. Lo subissano di epiteti ingiuriosi. Un giorno si presenta all’allenamento con la maglietta rosso granato e i calzettoni a strisce diagonali. L’effetto estetico è armonioso. Ma la tintura l’ha improvvisata con lo smalto e i pennarelli del centro di accoglienza, quindi un po’ stinge per il sudore, un po’ si scrosta come intonaco. Comunque non è consentito cambiare la divisa. Nnamdi obietta che i colori della società (un banale grigio cemento con una banda scarlatta) sono tristi, e anche se la squadra dovesse iniziare a vincere – è in zona play out – un ti-

foso non sarebbe mai attirato a vestire come i suoi giocatori. Non seguiva il calcio, è vero, però le magliette dei campioni – anche se false – le vendevano pure nella sua città. Impazzavano quelle del Brasile, verdi e oro. Viene fuori che Nnamdi ha passato l’infanzia ad aiutare la nonna sarta a tagliare pezze di stoffa e imbastire vestiti. Ha una squisita capacità di abbinare i colori. Alla fine abbandona il campo, ma gli fanno disegnare la divisa della squadra per la nuova stagione. Lo iscrivono a una scuola di moda, che però non riesce a finire perché in classe si annoia. E poi non ha sedici anni, come ha dichiarato per non essere espulso, ma diciotto, e comunque anche a sedici anni non sarebbe più un bambino, ma un uomo, e deve lavorare per mandare soldi alla famiglia, a Lagos. Così firma un contratto di apprendistato con Ja-

smine, una sarta marocchina, che disegna tessuti e li fa stampare in una fabbrica di Napoli. I più belli sono di Nnamdi. Poco dopo la sposa. I loro vestiti di nozze ottengono centomila like su Instagram, e cominciano a venderli online. Devono assumere altri dipendenti. Hanno già due figli. A sei anni il maggiore viene invitato alla scuola di calcio. Nnamdi ha rinunciato a spiegare che un africano può avere successo anche senza essere un calciatore. Lo iscrive, perché così fan tutti. Alle partite il sabato pomeriggio gli altri genitori gli chiedono in quale squadra giocava, prima. Serie B? 2a divisione inglese? Nnamdi serafico si vanta di avere segnato per le Super Eagles alle qualificazioni della Coppa d’Africa. Se non si fosse rotto i legamenti crociati, ora sarebbe famoso come Osimhen. E non riesce a reprimere un sorriso.


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Prodotti freschi e pronti

Pronto in tavola in un attimo

LO SAPEVI? I Fiori alla zucca bio sono facili e veloci da preparare. La pasta, con un contenuto di zucca del 31%, è prodotta in Svizzera secondo severe direttive biologiche. Il prodotto è stagionale e quindi disponibile nelle filiali più grandi solo da settembre a febbraio.

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