Azione 43 del 23 ottobre 2023

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Anno LXXXVI 23 ottobre 2023

Cooperativa Migros Ticino

G.A.A. 6592 Sant’Antonino

Settimanale di informazione e cultura

edizione

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MONDO MIGROS

Pagine 4 – 5 ●

SOCIETÀ

TEMPO LIBERO

ATTUALITÀ

CULTURA

Il direttore del Neurocentro della Svizzera italiana fa il punto sulla conoscenza del cervello

Una certa ridondanza di fotografia sta ammazzando la fotografia? Sarà data parola agli esperti di quest’arte

Bande di giovanissimi sempre più fragili e violenti, in Italia come nel Canton Ticino

Carmelo Rifici racconta La pulce nell’orecchio di Feydeau in programma al LAC a novembre

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Keystone

Israele in crisi di credibilità

Lucio Caracciolo

Ecco perché abbiamo vinto tutti Carlo Silini

Che cos’è il lusso? È parlare del risultato delle elezioni in Svizzera mentre fuori il Medio Oriente esplode e il terrorismo internazionale rialza la testa (per non dir dell’Ucraina). Perciò lo facciamo timidamente, consapevoli che le magagne del mondo sono altre. Così, da ieri sera teniamo con discrezione la conta dei promossi e dei bocciati al Consiglio nazionale e a quello degli Stati (per questa Camera ci sarà un eventuale ballottaggio il 19 novembre). Mentre scrivevamo queste righe, eravamo nel limbo tra la zelante compilazione delle schede di voto e l’annuncio dei risultati, senza sapere se il Paese si sarebbe spostato a destra (come previsto), chi se la sarebbe cavata meglio tra i partiti, se il numero delle donne in Parlamento sarebbe cresciuto o diminuito. Gli esperti ora ci spiegheranno se alle urne hanno prevalso le paure o le speranze, se abbiamo votato per lealtà partitica, conoscenza dei candidati, potenza propagandistica o intima convinzione sui temi

«caldi» della cosa pubblica. Se, a fare incetta di voti, sono state più le promesse di ridurre i premi delle casse malati, l’annunciato impegno contro i cambiamenti climatici o le crociate contro l’immigrazione di massa, i tre temi che alla vigilia del voto sembravano preoccupare maggiormente la popolazione. Ogni elezione è un’occasione per guardarsi allo specchio come popolo, scoprire quali idee, giudizi e pregiudizi hanno maggior presa sulle nostre coscienze. O se – con rispetto parlando – lo svizzero medio «se ne freghi», essendo piuttosto indifferente all’agone politico: ce lo dirà il dato sull’astensionismo. Comunque sia andata, votanti e non votanti, trionfatori e asfaltati dell’ultima tornata, credetemi: abbiamo vinto tutti. Non fraintendetemi. Ognuno di noi, osservando l’esatta suddivisione partitica degli emisferi dentro Palazzo federale, a seconda della propria Weltanschauung, stapperà champagne o si

roderà il fegato nel vedere quanto è rappresentato o poco rappresentato nelle due Camere del Parlamento. Non mi riferisco neppure al giochetto tipico del dopo voto, quando alcuni portavoce dei partiti sconfitti si esibiscono in funambolici esercizi d’alta retorica per mostrare che non è andata così male. Del resto, fra i politici, i mea culpa restano merce pericolosa e rara perché, se avessero una logica, dovrebbero precedere le dimissioni. No, abbiamo vinto tutti perché restiamo uno dei popoli più fortunati al mondo. 1. Abbiamo potuto votare. Ci sono Paesi in cui l’esercizio della democrazia è una bugia, i media son sotto i tacchi del regime, la magistratura è di parte, la censura onnipresente e la dissidenza repressa: provate a non votare per Kim Jong-un in Corea del Nord, per dire. 2. Abbiamo potuto votare in modo «limpido». Ci sono regimi ibridi non propriamente ditta-

toriali in cui però avvengono sistematiche pressioni sulla popolazione e brogli elettorali, che svuotano di senso il ricorso alle urne. 3. Soprattutto, abbiamo potuto votare in un contesto pacifico. Ci sono posti in cui questo «privilegio» è reso impossibile dalle guerre. Lì si «vota» col fucile in mano e gli sconfitti finiscono sottoterra (gli esempi trovateli voi: la scelta è amplissima); 4. Abbiamo addirittura potuto permetterci il lusso di non votare (per sfiducia, pigrizia, indifferenza o per le troppe liste sul campo). Indipendentemente da chi li governerà, i non votanti sono certi di non avere niente da perdere. Altrimenti il tentativo di cambiare le cose col proprio piccolo voto l’avrebbero fatto. Davanti alle crisi mondiali, rispetto alle elezioni di ieri possiamo permetterci il lusso di non deprimerci. Piacciano o non piacciano i risultati del voto, da noi ha vinto la democrazia. Di questi tempi non è cosa da poco.


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SOCIETÀ ●

Come imparare a dire no La psicologa Nedra Glover Tawwab spiega l’utilità di stabilire dei confini tra noi e gli altri

Tegna e il suo Castello Il Patriziato ha promosso un progetto di divulgazione e valorizzazione del sito archeologico

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Le bugie dei nostri figli Non tutte le bugie sono negative, alcune sono utili per crescere e sperimentare l’indipendenza

I 60 anni del Coro Scam Nato all’interno della Monteforno per coinvolgere gli operai negli anni si è reinventato

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Cervello, questo (s)conosciuto

Neuroscienza ◆ Cosa sappiamo della materia grigia che sta a monte di corpo, sensi ed emozioni? Maria Grazia Buletti

Un cervello per sempre giovane: chi non ha mai accarezzato questo desiderio? Logico, anche se forse banale, domandarsi se sia solo un’utopia. Abbiamo cercato una qualche risposta valida, affidandoci al direttore del Neurocentro della Svizzera italiana, Alain Kaelin, il quale esordisce prendendosi il tempo di una riflessione comune, e spiegando dapprima la missione divulgativa della Lega svizzera del cervello di cui è vicepresidente: «È nata nel 1995 con la necessità di informare la popolazione su tutto ciò che riguarda la salute cerebrale prima che le malattie e su come mantenere sano il nostro cervello lungo la vita. Fu fondata da neurologi che hanno pure compreso l’importanza della ricerca sul cervello e della sua divulgazione (da noi fra le migliori al mondo) sostenuta con forza dalla Lega svizzera».

È come una città vista da un satellite: se ne ha una visione globale, ma non si coglie quanto accade per strada o nelle case Qualche esempio dei risultati già conseguiti: «Gli importanti progressi fatti nella cura dell’ictus cerebrale, della sclerosi multipla e del morbo di Parkinson dimostrano la giusta direzione della ricerca; d’altronde, la Lega sostiene ad esempio anche gli sforzi per informare la popolazione e migliorare la terapia del morbo di Alzheimer, studi su depressioni, tumori cerebrali e dipendenze». Il cervello è il nostro organo più importante: comanda il corpo, i sensi e le emozioni. Quanto lo conosciamo? Quesito al quale il nostro interlocutore risponde con un sorriso: «In realtà, conosciamo molto e poco. Molto se paragoniamo il nostro sapere a quello di circa 150 anni fa, quando a Parigi il dottor Jean-Martin Charcot fu uno dei primi a indagare le malattie neurologiche in un modo scientifico studiando il cervello dei pazienti deceduti per individuare la regione lesa o toccata secondo i sintomi delle malattie neurologiche manifestati da vivi. Così ha scoperto la sclerosi multipla. Sappiamo invece ancora troppo poco se pensiamo che oggi abbiamo i mezzi per “fotografare” un cervello vivo (risonanza magnetica) o per misurarne la sua attività elettrica (elettroencefalografia), ma con immagini troppo grossolane per poter vedere come sono e come lavorano i miliardi di neuroni e di sinapsi». È come osservare una città da un satellite: «La vediamo nel suo complesso, ma non capiamo cosa succede nelle sue strade e case e non possiamo focalizzare precisamente le attività che vi si svolgono, a causa del livello di granulosità elevato delle immagini, della vi-

Opera di JM Bourgery, 1831-1854. (Erald Mecani)

sione sommaria che non ci permette di vedere la relazione fra i “mattoni” che lo costituiscono e il suo funzionamento globale». Il neurologo è certo che sia una fase transitoria: «Siamo usciti dal Medioevo delle neuroscienze e andiamo verso la comprensione più globale, ma mancano ancora tanti pezzi». Il cervello umano è ancora abbastanza misterioso, non lo possiamo «guardare» nel profondo, ma gli studi sugli animali sono di grande ispirazione: «Sappiamo un po’ di più osservando i modelli animali e le colture di cellule: ad esempio, capiamo bene le strutture nervose semplici dagli studi sulla drosofila (ndr, il moscerino della frutta), ma noi umani siamo molto più complessi ed è molto più

difficile studiare il nostro cervello funzionante». Pure se riuscissimo a vedere i nostri neuroni, sarebbe come aprire una Matrioska: «Hanno miliardi di sinapsi che non possiamo vedere, perché ogni neurone è come un piccolo computer. Sarebbe voler capire un sistema di miliardi di computer che lavorano insieme. I neuroni sono in grado di adattarsi, imparare, quindi oggi ci è molto più facile comprendere questi “mattoni” del cervello rispetto a un tempo. Ma un mattone è solo quel piccolo computer che lavora insieme ad altri miliardi come lui». Tanto resta ancora irrisolto: «Ad esempio, abbiamo la necessità di passare un terzo della nostra vita dormendo, senza sapere ancora perché

tutti abbiamo bisogno di dormire». Un «grande mistero», quello del sonno, chiosa Kaelin: «Ci affascina perché sappiamo che gli animali per sopravvivere ne hanno bisogno, ma continuiamo a non capire perché sia è davvero così necessario». L’aspetto filosofico, ben argomentato anche dal professor Arnaldo Benini, complica le cose: «Il cervello non potrà mai capire sé stesso: esso rimane all’interno di un’autoreferenzialità che gli impedisce di conoscersi alla perfezione, per il fatto che un meccanismo può essere compreso soltanto da un altro più complicato di lui. E non c’è nulla di più raffinato del cervello». Kaelin parla pure di una «fase di transizione» nella quale i progressi delle neuroscienze e quelli tecnolo-

gici «sono nettamente migliorati, ma producono l’impressione errata di riuscire a capire il nostro cervello, cosa dalla quale invece siamo ancora molto lontani». Siamo però in grado di stimolarlo per curare alcune malattie: «Con la stimolazione nervosa profonda, per esempio, possiamo migliorare i sintomi del morbo di Parkinson: un progresso enorme, anche se un elettrodo di un millimetro non può essere selettivo come vorremmo, perché sa stimolare una regione di neuroni molto grande. Ma solo cinquant’anni fa questa terapia non esisteva, anche se è ancora molto grossolana per una struttura così complicata come il nostro cervello». Quindi, oggi si comprendono sempre meglio le malattie che lo affliggono, e ciò permette di capire meglio anche il funzionamento di un cervello sano: «Sono due importanti tipi di ricerca complementari». L’apprendimento cerebrale ha sempre affascinato i ricercatori: «I primi vedevano il cervello come qualcosa di “fisso”, che non si rigenera. Ma se così fosse, come fa il musicista a imparare a suonare uno strumento musicale? Come facciamo a imparare ad andare in bicicletta, e lo sapremo fare tutta la vita, se il nostro cervello fosse davvero così?». In realtà il cervello si evolve, si muove, è «plastico»: «Non smette mai di imparare perché ha una plasticità per tutta la vita, seppur modulata alla conservazione delle nozioni e delle esperienze che ci è necessario acquisire e ricordare. La natura stessa lo ha programmato in modo che all’inizio del suo sviluppo, esso sia molto plastico. Poi, si perde un po’ di questo: non è un errore ma una necessità per il buon funzionamento di un sistema così complesso». Non troppo e non troppo poco, così come di esso sappiamo molto ma non tutto: «Si tratta di un saggio equilibrio, una tensione fra i due poli di plasticità (che permette di evolvere, imparare e in parte riparare) e stabilità (per favorire un funzionamento stabile e una memoria affidabile)». Allora, un cervello sempre giovane è un’utopia! «Le rivoluzioni scientifiche arrivano senza annunciarsi e le scoperte improvvise permettono di fare balzi nella ricerca e nel sapere, ma ancora non sappiamo cosa riusciremo a capire di più». E, conclude Kaelin: «In realtà, dal punto di vista della natura e della vita, l’invecchiamento è un processo naturale necessario, permette la rigenerazione, i cambiamenti da una generazione all’altra, e la fine della vita che, anche se spesso tabù, è necessaria alla vita stessa». Dunque: «Tutti speriamo di invecchiare senza demenza, con un cervello ben funzionante. Però giovane come a vent’anni per il resto della vita, sì: è un’utopia».


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Occhi puntati sulla caldera dei Campi Flegrei Fenomeni ambientali – 2 ◆ Le zone vulcaniche (almeno quelle nei Paesi occidentali) sono attentamente monitorate e ogni piccolo tremore è rilevato e analizzato dai sismografi Sabrina Belloni

Dieci scansioni radar Sentinel1A combinate per mostrare la deformazione del suolo attorno alla città di Napoli, comprese le aree vulcaniche attive dei Campi Flegrei e del vulcano Vesuvio. (ESA)

In alcune aree del pianeta, il terreno sotto i piedi si solleva e si abbassa regolarmente, con ciclicità. In altre zone oscilla e si scuote improvvisamente. Le zone vulcaniche (almeno quelle nei Paesi occidentali) e quelle che si trovano sull’asse tra le placche tettoniche del pianeta dove frequentemente si generano terremoti sono attentamente monitorate, e ogni piccolo tremore è rilevato e analizzato dai sismografi e da altre sofisticate apparecchiature. I centri della protezione civile, gli osservatori, i centri di ricerca studiano i fenomeni sismici e vulcanici da tempo indeterminato e proprio in Italia ha sede l’istituto Nazionale di Geofisica e Vulcanologia più vecchio del mondo.

Il vantaggio dato dall’impiego dei satelliti sta nella fornitura di dati su vasta scala, anche in zone difficilmente accessibili via terra Negli anni più recenti un valido aiuto nel monitoraggio, nell’analisi e nella previsione di eventi futuri, è dato dai numerosi satelliti orbitanti nello spazio, i quali – grazie a una migliore risoluzione spaziale e temporale – consentono di poter valutare gli effetti di un terremoto in modo più puntuale e preciso che in passato, in particolare le deformazioni del terreno e le zone danneggiate. Con riferimento al recente terremoto in Marocco, le immagini

provenienti dal satellite Sentinel-1 dell’Agenzia Spaziale Europea realizzate a intervalli di 12 giorni (in questo caso fra il 30 agosto e l’11 settembre 2023) hanno permesso di rilevare le differenze di elevazione del terreno per quell’intervallo temporale. La tecnica utilizzata per quest’analisi si chiama InSAR, che misura la differenza tra immagini satellitari acquisite in momenti diversi sopra la stessa area e pertanto consente di misurare spostamenti millimetrici anche su aree molto estese. Per quanto concerne i danni e conseguentemente per facilitare le

operazioni di soccorso, gran parte delle informazioni è invece tratta da satelliti commerciali che operano ininterrottamente. Le immagini vengono utilizzate per localizzare le zone più colpite, per identificare strade distrutte e le vie di accesso alternative oppure per definire dove installare gli accampamenti di emergenza, dove accogliere feriti e sfollati. Il vantaggio dei satelliti sta nella fornitura di dati su vasta scala, anche in zone difficilmente accessibili via terra, come è stato nel caso di tanti remoti villaggi marocchini. L’UNOSAT (United Nations Operational

Satellite Applications Programme) è il programma delle Nazioni Unite che in genere analizza immagini satellitari ad alta risoluzione dopo un terremoto. La definizione dello stato di attività di un vulcano e del suo sistema magmatico di alimentazione, delle probabili fenomenologie eruttive e dei tempi attesi per il loro verificarsi, non può prescindere dalla conoscenza della sua storia passata e della sua struttura attuale. Questa conoscenza rappresenta anche il quadro di riferimento per l’interpretazione dei dati rilevati dal sistema di sorveglianza.

vulcanici. Deformazioni dell’edificio vulcanico possono essere prodotte da spostamenti di masse magmatiche in profondità. Alcune deformazioni possono inoltre essere conseguenti a variazioni di pressione dei fluidi nel sistema geotermale connesso con il vulcano. • Variazioni del campo gravitazionale, magnetico ed elettrico. Queste variazioni sono prodotte dall’intrusione del magma o dalla circolazione di fluidi, entrambi caratterizzati da alta temperatura e diversa densità, in rocce solide e relativamente più fredde. • Variazioni geochimiche. La risalita del magma attraverso la crosta terrestre provoca una più intensa migrazione verso la superficie e una

variazione della composizione dei fluidi che alimentano le fumarole e i sistemi geotermici e idrotermali. Questi fluidi possono essere rilasciati dal magma stesso (fluidi magmatici), dalle rocce incassanti riscaldate o per ebollizione di sistemi acquiferi (fluidi idrotermaligeotermici). Tutti i gas emessi sono caratterizzati dalla presenza di vapore acqueo (H2O) e anidride carbonica (CO2) come specie principali; differenze importanti riguardano il contenuto relativo in gas acidi – quali acido cloridrico (HCl), acido fluoridrico (HF), acido solforico (H2SO4) – di cui sono relativamente ricchi i fluidi di origine magmatica e poveri quelli di origine idrotermale-geotermica.

I fenomeni precursori I segnali di una imminente eruzione più comunemente studiati sono: • Sismicità vulcanica. Il movimento del magma o dei gas vulcanici all’interno della crosta terrestre determina la progressiva deformazione delle rocce fino a produrne la fratturazione con rilascio improvviso di energia che si trasmette attraverso la propagazione di onde sismiche. Prima delle eruzioni si osservano anche un tremore quasi continuo, e oscillazioni a periodo più o meno costante (eventi a lungo periodo). Questi fenomeni sono dovuti alle oscillazioni del magma in risalita nel condotto e delle pareti del condotto. • Variazioni nella forma degli edifici

Pertanto, la valutazione della pericolosità di un vulcano è il risultato della collaborazione fra geologia, geofisica, geochimica, storia e sorveglianza. L’evoluzione di un sistema vulcanico da uno stato di riposo fino al momento dell’eruzione implica la risalita del magma da una certa profondità verso la superficie. La risalita del magma causa la variazione di una serie di parametri fisico-chimici sia nel magma sia nelle rocce circostanti, i cui effetti possono essere registrati in superficie. Queste variazioni costituiscono i fenomeni precursori di un’eruzione. La loro evoluzione nel tempo, rilevata tramite i sistemi di sorveglianza, è alla base della previsione a breve temine. Il comportamento passato e lo stato attuale della caldera dei Campi Flegrei indicano che essa è un vulcano ancora attivo e potrà dare eruzioni in futuro. Se un’eruzione avverrà nelle prossime decine di anni, potrà essere di tipo esplosivo (come accaduto in passato) e pertanto la caldera dei Campi Flegrei è ritenuta pericolosa. Oltre 300mila persone vivono all’interno della parte oggi attiva dell’intera struttura, corrispondente alla caldera del Tufo Giallo Napoletano, mentre quelle che vivono nelle sue immediate vicinanze sono più di un milione, senza rilevare i numerosi turisti che visitano l’area in ogni stagione. Per l’alta pericolosità della caldera e per l’intensa urbanizzazione sia al suo interno sia nelle aree limitrofe, il rischio vulcanico è estremamente alto.

azione

Settimanale edito da Migros Ticino Fondato nel 1938 Abbonamenti e cambio indirizzi tel +41 91 850 82 31 lu–ve 9.00–11.00 / 14.00–16.00 registro.soci@migrosticino.ch

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MONDO MIGROS

E che bollito sia!

Attualità ◆ Per gustare un buon lesso non bisogna andare lontano: alla Migros si trova infatti dell’ottima carne di manzo svizzera IP-SUISSE che garantisce un risultato di successo. Tanto più che questa settimana è in offerta speciale

Azione 22% Lesso magro IP-SUISSE in self-service per 100 g Fr. 2.40 invece di 3.10 dal 24.10 al 30.10.2023

La ricetta Lesso con verdure Ingredienti per 8 persone • 1 cipolla • 2 l d’acqua • 2 kg di carne magra per bollito • ½ cucchiaio di sale • 1 cucchiaino di pepe in grani • 4 foglie d’alloro • 600 g di verdura da minestra, ad es. carote, sedano rapa e porro Come procedere

1. Dimezzate la cipolla con la buccia e tostatela in una padella senza grassi con la superficie di taglio rivolta verso il basso.

Quando le temperature si fanno più frizzantine, ritorna quella voglia di piatti fumanti, ricchi di gusto e tradizione che riscaldino cuore e palato. Uno di questi è senz’altro il lesso di manzo, un’intramontabile delizia facile da preparare che alletta grandi e piccoli buongustai. Il lesso è ottenuto dal quarto anteriore dell’animale, principalmente dalla parte più vicina al collo, mentre le parti miste provengono dalla zona del petto. Essendo tagli ricchi di tessuti connettivi, grazie alla lenta bollitura essi si ammorbidiscono e in parte si sciolgono, il che rende la carne particolarmente saporita e tenera. Questa modalità di cottura permette anche di ottenere un gustoso brodo, ottimo per la preparazione di risotti e minestre.

Consigli di preparazione

Manzo IP-SUISSE

Affinché le fibre della carne si rilassino ed essa resti più tenera, è buona norma togliere il lesso dal frigorifero mezz’ora prima della preparazione. Per arricchire l’aroma del brodo si possono utilizzare verdure quali carote, cipolle, sedano e porro. In una pentola capiente riempita d’acqua, immergere le verdure e la carne quando il liquido è in ebollizione, aggiungendo un cucchiaio di sale. Cuocere il lesso a fuoco medio, semicoperto, per ca. due ore, fino a che la carne risulta ben cotta.

La carne contrassegnata con il marchio IP-SUISSE proviene da manzi nati e allevati in Svizzera in aziende certificate secondo le esigenze dei programmi della Confederazione sul benessere degli animali. I bovini sono allevati in un sistema di stabulazione particolarmente rispettoso della specie, dove vivono in gruppo in stalle con luce naturale e lettiera, con la possibilità di muoversi liberamente. Inoltre, possono uscire regolarmente all’aperto al pascolo o in un’area d’uscita nei pressi della stalla.

2. Sciacquate la carne con acqua fredda. Portate a ebollizione l’acqua e immergete la carne. Unite la cipolla, il sale, il pepe e le foglie d’alloro e lasciate sobbollire dolcemente per ca. 2 ore senza raggiungere il punto di ebollizione. Eliminate di tanto in tanto la schiuma che si forma durante la cottura. 3. Nel frattempo, tagliate le verdure a tocchetti di ca. 5 cm e aggiungetele alla carne 30 minuti prima di fine di cottura. Estraete la carne e le verdure dalla pentola. Tagliate la carne a fette sottili perpendicolarmente alle fibre. Accomodatela su un piatto da portata assieme alle verdure e bagnate il tutto con un po’ di brodo di carne. Ottimo da accompagnare con patate lesse ed erba cipollina. Regolate di sale il brodo e servite come entrata.

Mostruosamente buoni

Attualità ◆ Alcune specialità di pasticceria per celebrare la festa di Halloween

Il prossimo 31 ottobre si festeggia la notte più spaventosa dell’anno, Halloween, una ricorrenza di origine anglosassone ormai diffusasi anche alle nostre latitudini, dove i bambini si travestono da mostri e bussano di casa in casa chiedendo dolciumi al motto di «dolcetto o scherzetto». Tra gli articoli legati alla ricorrenza, spiccano anche tre golosissime specialità create appositamente dalla pasticceria Migros, a cui sarà difficile resistere: i biscotti di pasta frolla con cremoso ripieno di cacao e nocciole; le finissime cupcakes con nocciole, crema al mirtillo e all’arancia sanguigna e i moretti a base di soffice pan di spagna con albicocche e ripieno di crema. Oltre a questi dolcetti, per Halloween le maggiori filiali Migros propongono alcuni altri prodotti a tema, come dolciumi, cioccolatini, zucche da intagliare, costumi e articoli decorativi vari.

In vendita nelle maggiori filiali Migros


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MONDO MIGROS

Pura magia autunnale

Attualità ◆ I crisantemi sono i fiori ideali non solo per onorare i cari defunti in occasione della festa a loro dedicata, ma adornano anche magnificamente le nostre case Alla Migros sono disponibili crisantemi di produzione ticinese

vaso da 12 cm Fr. 4.95 vaso da 15 cm Fr. 7.95 vaso da 19 cm Fr. 9.95

È arrivato l’autunno e con esso anche i fiori per eccellenza della stagione, i bellissimi crisantemi. Nei reparti fiori Migros sono disponibili quelli di produzione ticinese, in diversi colori e grandezze, coltivati in modo sostenibile dall’azienda Rutishauser di Gordola. Associati tradizionalmente alla ricorrenza dedicata ai defunti, grazie alla loro caratteristica bellezza i crisantemi sono tuttavia perfetti anche per abbellire i balconi e i giardini delle nostre case. Esistono decine di varietà di queste piante erbacee che sbocciano proprio in questo periodo dell’anno, quando altre specie sono invece già a riposo. Sono disponibili in molteplici colori e sfumature, dal rosso all’arancio, dal bianco al

rosa, ma la tonalità che più domina è il giallo. Se alle nostre latitudini i crisantemi sono spesso legati a Ognissanti, in altri Paesi il significato che viene loro attribuito è invece di gioia e vitalità, e vengono regalati per celebrare le occasioni più disparate, come matrimoni, compleanni e nascite. Alcuni consigli per gioire il più a lungo possibile del loro caratteristico splendore? Pur essendo facili da curare e resistenti, i crisantemi andrebbero idealmente posizionati in un luogo soleggiato, con almeno sei ore di luce solare al giorno. Il terriccio deve restare umido, ma i ristagni d’acqua vanno evitati. Eliminare regolarmente i fiori appassiti per favorire la fioritura di altri. Annuncio pubblicitario

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SOCIETÀ

Il Vallo di Adriano e la barbarica C’è chi dice no e fa bene

Pubblicazioni ◆ Per non sentirci sopraffatti dalle richieste degli altri dobbiamo stabilire dei confini, come spiega◆laUn psicologa americana Nedra Glover Tawwabmilitare nel suo libro intitolato a dire no che attraversano lo spazio e la storia Reportage impressionante capolavoro di ingegneria costruito lungoImpara aspri saliscendi Enrico Martino, Stefania Prandi testo e foto

Stabilire dei confini tra noi e gli altri non è semplice, però è possibile e salutare. Al contrario, restare in balia dei bisogni di familiari, amici e colleghi può portarci all’esaurimento. Nedra Glover Tawwab, psicoterapeuta americana specializzata in problematiche relazionali, nelle sue sedute quotidiane si focalizza sull’importanza di «proteggersi» dagli altri. Ha anche un profilo Instagram molto seguito, con un milione e mezzo di follower, attraverso il quale condivide pratiche, strumenti e riflessioni sulla salute mentale. Glover Tawwab è partita proprio dalle domande dei follower su Instagram per scrivere il suo libro – diventato bestseller –, appena pubblicato in italiano, intitolato Impara a dire no. L’arte di stabilire dei confini e trasformare la nostra vita (Vallardi).

A volte un semplice no permette di costruire relazioni sane e rapporti interpersonali più equilibrati Quando diciamo di sì, ma vorremmo, invece, affermare il contrario, si legge in questo «prontuario emozionale», ci sentiamo strani; percepiamo che qualcosa non va a livello fisico.

Se agiamo controvoglia, avvertiamo una resistenza interna. Il nostro corpo ci parla in vari modi: con un sospiro che sfugge prima di rispondere al telefono; col desiderio di evitare alcune persone; attraverso una stretta allo stomaco oppure una fitta al collo o alla tempia. In assenza di confini proviamo spesso rancore, collera e frustrazione. Definire il limite tra noi e gli altri non è semplice. Glover Tawwab racconta la storia di Kim, una giovane donna arrivata nel suo studio sentendosi senza forze. Kim la mattina si svegliava esausta, nonostante il riposo notturno. Il senso di fatica era causato dal fatto che si riempiva le giornate, già oberate dagli impegni di lavoro, con favori richiesti da amici e colleghi. Glover Tawwab le ha consigliato allora di riflettere sulla propria situazione: «Conosciamo le istruzioni della sicurezza in aereo, fra cui: “Indossare anzitutto la propria maschera d’ossigeno prima di aiutare altri passeggeri”. Facile? No. Quando siamo preda del nostro impulso a metterci al servizio di chiunque, la prima cosa che facciamo è trascurare noi stessi». Sono molte le persone che si presentano nello studio di Glover Tawwab lamentando di non riuscire a trovare il tempo per tutto. Dopo

Porre dei limiti con le persone care ci può far sentire in colpa eppure a volte è necessario per vivere meglio. (Pexels)

una rapida valutazione, spesso emerge che non sanno ritagliarselo. Anzi, spiega la psicoterapeuta, sembra proprio che si siano dimenticate come fare a prendersi cura di sé. Non riescono a ricavarsi un momento per mangia-

re decentemente, o anche solo cinque minuti per un esercizio di meditazione, ma magari si prendono cura di parenti e amici senza sosta. Se ci troviamo nella condizione di avere più impegni che tempo per svolgerli, e

cerchiamo di inserirne altri nella nostra agenda già strapiena, forse è ora Steel Rig, il Muro che di fermarci. «Ci sforziamo continuamente di fare sempreserpeggia di più, ma quelungo i dirupi, sto va a scapito del nostro benessere». con il lago di Il primo passo perCrag uscire dal vicolo Lough in lontananza; cieco è stabilire degli obiettivi, consotto,che il Vallo siglia Glover Tawwab, per pridi Adriano sul ma ha rischiato varielato volte di trovaroccidentale si con un carico eccessivo da direggere. del Forte Housesteads; Oltre a lavorare come psicoterapeuta sotto,è Priorato e a scrivere libri, infatti, molto attidi Lanercost. La va sui social network,maggior tiene conferenparte ze, registra podcast edell’edificio ha una famiglia della risale pascon figli e un marito.chiesa Il secondo allavogliamo fine del XIII so è domandarsi cosa davsecolo; questi vero e seguire la nostra indole, senza edifici furono lasciare che sia qualcun altroalmeno a decicostruiti, in parte, dere per noi. Poi in base alle con situaziopietre derivate ni è necessario comunicare all’esterno dal Vallo di quali sono i nostri bisogni e desideri. Adriano. Spesso diamo per scontato che chi ci è vicino possa capirci, ma non è affatto così, ribadisce Glover Tawwab. Ci saranno delle persone che non apprezzeranno la nostra voglia di definire limiti chiari e salutari. Dire no non è indolore, ma è importante per non arrivare al burnout. Bibliografia Nedra Glower Tawwab, Impara a dire no. L’arte di stabilire dei confini e trasformare la nostra vita, Vallardi, 2023. Annuncio pubblicitario

Il vecchio muro scolpito per quasi duemila anni dal vento e dalla pioggia scavalla colline, si immerge in una brughiera per riaffiorare improvviso tra le lame di luce di un bosco, una presenza carsica che sembra assorbire l’energia del paesaggio per sfidarne la gravità, e la logica, in un ottovolante di aspri saliscendi che attraversano lo spazio e la storia. Il Vallo di Adriano non è più Inghilterra ma non è ancora Scozia, anche se a nord la terra sembra più selvaggia; ma forse è solo uno stato mentale di chi lo guarda, sottilmente alterato dall’emozione di calcare le stesse pietre su cui camminarono i legionari romani. In realtà a differenza di quello che molti credono il Vallo è all’interno del territorio inglese, anche se ha contribuito a definire i confini dei due Paesi da quando l’impe- ropa, per poi proseguire nell’attuale ratore da cui prende il nome ordinò Medio Oriente fino al Mar Rosso e nel 122 dopo Cristo la sua costruzione da qui tagliare l’Africa del nord fino per «separare i romani dai barbari», le all’Atlantico. tribù ostili dei Pitti che popolavano Diciannove secoli dopo, il Vall’odierna Scozia, un osso duro anche lo deve fronteggiare una minaccia per le legioni romane. più pericolosa e insidiosa dei barbaPer realizzarlo, in soli sei anni, ri: il cambio climatico. «Le torbiere si vennero impiegati circa quindicimi- stanno prosciugando e i resti organici la uomini, tre legioni che affrontarono le sfide di un terreno scelto con attenzione per utilizzarne i vantaggi. Le guarnigioni Il risultato è un impressionante capolavoro di ingegneria militare, PatriIl Vallo era difeso da circa novemila monio UNESCO dal 1987, esteso da uomini con vexillationes in ogni forte, una costa all’altra dell’Inghilterra per reggimenti misti di fanteria e cavalleria ottanta miglia romane, circa centodiche contavano da cinquecento a milciassette chilometri da Solway Firth le uomini. Provenivano da ogni popolo a ovest e Wallsend a est, uno dei tanti dell’impero, dall’Iberia alla Dacia e alla toponimi legati alla sua esistenza, per Siria e comprendevano persino battelpoi prolungarsi verso sud con porti e lieri dell’Iraq nei porti di rifornimento. fortificazioni costiere. I legionari dovevano pagarsi il cibo e Per circa tre secoli, il Vallo di l’equipaggiamento militare che comAdriano diventò il confine più settenDa tutte le offerte sono esclusi prendeva tunica, bracae che arrivatrionale e fortificato del limes romano, gli articoli già ridotti. vano al ginocchio e calzari di cuoio, un gigantesco sistema difensivo esteOfferte valide solo dal 24.10 al caligae. La corazza era a strisce meso per oltre cinquemila chilometri, 30.10.2023, fino a esaurimento dello stock talliche, lorica segmentata, a maglie, dalla costa atlantica della Gran Bretagna al Mar Nero attraversando l’Eu-

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C o n no c i t o st at e protetti per secoli nelle paludi prive di ossigeno rischiano di essere distrutti, e quando accadrà manufatti in legno, pelle e tessuti sepolti in profondità andranno persi per sempre. In aree così sensibili bastano piccoli sbalzi di temperatura per danneggiare irreparabilmente tutto quello che è ancora nascosto sotto i nostri piedi, perché

lorica hamata, o di lamine, lorica squamata per i centurioni, lamelle di metallo che ricordavano lo squame di un pesce. Oltre alla cintura, cingulum, i legionari indossavano un corpetto, subarmalis, tra tunica e corazza, e dei mantelli, dal sagum rettangolare al paenula semicircolare, mentre il paludamentum rettangolare era riservato agli ufficiali. Le armi, oltre a una spada corta, gladium, comprendevano un coltello, pugium, un giavellotto, pilum, e uno scudo, rettangolare, scutum.

meno dell’uno per cento del Vallo è coperte di messaggi in latino, le Vinstato scavato», per l’archeologo An- dolanda Writing Tablets. Sopravvissudrew Birley, direttore degli scavi del te miracolosamente a un incendio e sito di Vindolanda, si tratta di una quasi tutte conservate al British Mucorsa contro il tempo. seum, raccontano la vita lungo il Val«Agendo ora si può fare la diffe- lo e le relazioni con i brittunculi, come renza. I dati raccolti nel prossimo i soldati chiamavano con disprezzo i decennio rivoluzioneranno la no- locali. C’è persino uno dei più antistra capacità di monitorare la salute chi esempi di una donna che scrivedell’archeologia lungo il Vallo e ge- va in latino, un invito di compleanstire gli effetti dei cambiamenti cli- no vecchio di quasi duemila anni, «Ti matici. I dati raccolti potranno forni- aspetto sorella, amata sorella, anima re gli strumenti per prevedere ciò che a me più cara, con auguri di prospepotrebbe accadere e sviluppare strate- rità e salute». gie di gestione per preservare questo «Le Vindolanda Tablets sono la scopatrimonio, così da trasmetterlo alle perta più importante perché le pietre generazioni future». Il professor Bir- non hanno parole, le tavolette inveley sa quello che dice perché proprio ce parlano di sogni, di speranze, di a Vindolanda, uno dei più importan- dolori, di progetti. Da loro possiamo ti siti archeologici romani, migliaia di estrarreLindt informazioni molto più affiCioccolato al latte documenti e oggetti hanno rivelato dabili rispetto ad altri documenti stoextra e al latte & nocciola per la prima volta la vita quotidiana rici perché non vogliono impressiona5× 100 g delle guarnigioni lungo il Vallo. re nessuno o mentire alle generazioni 10.00 invece di 12.50 Giocattoli di legno, scarpe fine- successive» sorride il professor Birley. mente lavorate, equipaggiamenti mi- «Noi cerchiamo nella spazzatura colitari e strumenti di lavoro, tutto un me fanno spesso gli archeologi e domondo sta tornando in vita. I ritro- po cinquant’anni non abbiamo scavavamenti più spettacolari però sono to neanche il quindici per cento del migliaia di sottili scaglie di legno ri- sito ma già oggi la visione tradizio-

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In cammino alla scoperta del Castelliere

Territorio ◆ Il progetto di divulgazione e valorizzazione del sito archeologico del Castello di Tegna è stato promosso dal Patriziato Ne parliamo con gli ideatori Mattia Gillioz e Nicola Castelletti Stefania Hubmann

Un unico sentiero, ma diversi itinerari permettono oggi di vivere un’esperienza immersiva in varie epoche del passato salendo la collina che dal villaggio di Tegna conduce al sito archeologico dell’omonimo castello. Sin dal primo passo ci si può soffermare su testimonianze e curiosità relative a più ambiti, dalla storia all’archeologia, alla geomorfologia. Con quale ausilio? Con la guida di tre personaggi per le famiglie, con quella di un approccio filosofico per agli adulti. Soprattutto con in mano uno dei quattro opuscoli del cofanetto Il Castelliere, principale strumento di divulgazione di un progetto di valorizzazione che porta lo stesso nome.

A caratterizzare il sito archeologico di Tegna è l’imponente fortificazione a pianta quadrata edificata tra il 450 e il 500 d.C. La sperimentazione dinamica nella natura con un supporto cartaceo corrisponde a una precisa scelta degli autori del progetto. Quest’ultimo, promosso dal Patriziato di Tegna e caratterizzato da uno sviluppo progressivo, è opera dell’archeologo Mattia Gillioz e dell’architetto e museografo Nicola Castelletti. Insieme i due professionisti hanno lavorato fin dall’inizio e insieme li abbiamo incontrati per capire il carattere innovativo de Il Castelliere. Attivi nella valorizzazione del patrimonio storico dei rispettivi settori, Gillioz e Castelletti hanno affidato agli strumenti digitali solo il contatto (tramite il sito www.castelliere.ch) e gli approfondimenti. La vera scoperta deve avvenire mossi da una curiosità che coinvolga tutti i sensi e sia soddisfatta in loco. «Con questo approccio – spiegano gli intervistati – abbiamo voluto partire dal sito con l’intento di promuovere l’insieme del territorio. Il progetto, partito nel 2020, è proseguito l’anno seguente durante il mese di settembre con lo scavo archeologico di parte delle vestigia in collaborazione con l’Università di Losanna e la par-

tecipazione di studenti in formazione. Parallelamente abbiamo sviluppato il concetto della valorizzazione, sfruttando così al meglio i risultati della ricerca sul campo». Al fine di raggiungere un pubblico il più ampio possibile, si è sviluppata l’idea degli itinerari in tre direzioni: adulti, famiglie, scuole. Proseguono gli ideatori de Il Castelliere: «Parole in cammino verso il Castello è il leporello dedicato agli adulti e curato da Fabio Meliciani, filosofo della scienza attivo anche quale divulgatore. Sei parole accompagnano e stimolano il visitatore lungo il percorso escursionistico da un lato e quello storico e geologico dall’altro. È un viaggio costellato da cinque tracce riprodotte anche visivamente. Tutti gli opuscoli sono infatti strutturati con una mappa, un testo e un’attività personale. Quello per le persone adulte contiene anche il profilo altimetrico e una linea del tempo». Dagli adulti ai più giovani con i tre personaggi che accompagnano la salita dei bambini (a partire dai 6 anni insieme ai genitori), proponendo attività pratiche e ludiche. Un giovane ragazzo spiega la vita quotidiana di alcuni secoli fa, un antico romano svela i segreti archeologici, per poi risalire fino a 20’000 anni fa con la geomorfologa Giada, specializzata oggi nello studio della superficie terrestre per capirne genesi ed evoluzione. I quattro pieghevoli possono essere acquistati singolarmente (partendo dal sito o presso l’editore Armando Dadò) o nel cofanetto che li racchiude. Un ulteriore set di opuscoli è stato concepito per allievi e docenti delle Scuole Medie in collaborazione con la Divisione della scuola che si è dimostrata molto interessata. Precisa al riguardo Nicola Castelletti: «I contenuti, collegati al Piano degli studi, favoriscono la collaborazione fra gli insegnanti. La scorsa primavera gli itinerari sono stati testati da alcune classi, mentre questa settimana li presenteremo sul posto a diversi docenti nell’ambito di un corso di aggiornamento». I sette opuscoli, inoltre, saranno presto arricchiti da altre pubblicazioni. Mattia

Il cofanetto dedicato al Castelliere contiene quattro opuscoli che propongono diversi itinerari pensati per adulti, famiglie, scuole. (Gilda Giudici)

Gillioz: «A breve sarà disponibile un secondo itinerario per gli adulti che ho dedicato esclusivamente all’archeologia, così come la versione in lingua tedesca degli opuscoli per gli adulti e le famiglie». Lo sforzo profuso nella divulgazione è notevole e mira a suscitare l’interesse per ulteriori ricerche, come conferma anche il presidente del Patriziato di Tegna Adriano Gilà. «Abbiamo iniziato nel 2017 con la pulizia del sito, la messa in sicurezza dei resti archeologici e la posa di pannelli informativi. Per far rivivere il castello occorreva però andare oltre. Con un notevole sforzo finanziario – circa mezzo milione di franchi raccolti dal Patriziato presso enti pubblici e fondazioni private, oltre a una parte di fondi propri – abbiamo promosso questo progetto, auspicando che attiri l’attenzione di nuovi ricercatori e investitori. L’area finora indagata, pari a un decimo di quella rilevante dal punto di vista archeologico, ruota attorno all’edificio a pianta quadrata ubicato al centro della collina. C’è quindi ancora un grande potenziale da sfruttare,

anche perché è possibile condurre studi su diverse epoche essendo l’occupazione della collina accertata fin dalla preistoria». I primi scavi archeologici sul promontorio (a 537 m slm, dislivello di 275 m) risalgono agli anni Quaranta del secolo scorso sotto la direzione dell’architetto Alban Gerster. Riemersero allora i resti in muratura dell’insediamento, come pure numerosi reperti legati alla vita quotidiana. Nel 2015, nella sua tesi di Master in scienze dell’Antichità presentata all’Università di Losanna, Mattia Gillioz ripercorre la storia e i risultati delle indagini archeologiche riguardanti il Castello di Tegna. Per questo motivo il Patriziato, dopo i primi interventi di riordino, lo contatta, auspicando nuove indagini e la valorizzazione di uno dei siti archeologici di maggior interesse del Locarnese, preziosa testimonianza della storia regionale, iscritta nell’Inventario dei beni culturali di importanza nazionale. Riguardo al nome, Castello è il toponimo che figurava sulla cartografia ufficiale fino a poco tempo fa, mentre

Castelliere è il termine più usato con origine nel gergo popolare. A caratterizzare il sito – dando vita anche al nuovo logo ideato dal grafico del progetto Claudio Lucchini – è l’edificio a pianta quadrata situato al centro della collina. «Si tratta – spiega Mattia Gillioz – di un’imponente fortificazione edificata tra il 450 e il 500 d.C., durante gli ultimi decenni dell’impero romano, volta a controllare le vie di comunicazione sull’arco alpino. La ricerca ha fornito nuove preziose informazioni sulla storia del sito. Informazioni che riguardano la sua costruzione, la vita quotidiana, la devastazione dovuta a un incendio, la susseguente ricostruzione fino alla distruzione finale sempre ad opera delle fiamme. I reperti non sono forse eclatanti dal punto di vista visivo, ma molto significativi da quello scientifico, perché permettono di ricostruire la storia del sito e la vita che vi si svolgeva. Ne sono un esempio una forgia per la fabbricazione di attrezzi e chiodi (in relazione al cantiere) e i reperti carbonizzati di alimenti quali frutta, cereali e leguminose». Tornando al progetto di valorizzazione, Nicola Castelletti sottolinea che «grazie agli itinerari, realizzati con l’apporto di un vasto gruppo di specialisti sia per i contenuti che per i testi, quando si giunge alla sommità, fra i resti della fortificazione e con una splendida vista, si dispone già degli strumenti necessari per comprendere il significato e la portata di quest’opera». Come il Castello di Serravalle (vedi «Azione» del 14 agosto), con il dovuto distinguo di epoca e storia ma sempre con il contributo di Nicola Castelletti per quanto concerne la valorizzazione, il Castelliere di Tegna è quindi diventato una meta escursionistica alla scoperta di storie che permettono di risalire molto lontano nel tempo. Questo grazie anche alla visione aperta e lungimirante del Patriziato che ha accordato grande libertà d’azione agli autori del progetto. Informazioni: www.castelliere.ch

Dall’emergenza all’eccezione

Parole verdi 8 ◆ Con questo articolo continua la serie dedicata al nostro rapporto con l’ecologia e la crisi climatica

Supponiamo che queste eccezionali temperature estive di settembre e ottobre (a parte il breve periodo di temporali e grandinate intorno al 20 settembre) siano, oltre che un piacere fisico ed estetico nonché una benedizione per le spese di riscaldamento, anche il segnale, per quanto benevolo, di una svolta malevola, pericolosa. Che questa anticipata estate di San Martino sia un avviso della crisi, anzi della emergenza climatica? E come reagire: con misure blande (di buon senso), forti (di emergenza), fortissime (di eccezione)? Emergenza, eccezione. Sono queste le parole verdi sulle quali intendo soffermarmi. Sembrano semplici ed evidenti, ma sono anche termini tecnici del pensiero filosofico-politico sui quali esiste un’ampia letteratura che assegna a ogni parola significati precisi. Lo stato d’emergenza, in caso di

pericolo pubblico che minacci la vita di una nazione, può prevedere una sospensione temporanea dei diritti civili e politici e delle libertà fondamentali per imporre misure straordinarie. Le richiede l’emergenza climatica? Siamo disposti a subirle? L’eccezione, o più precisamente lo stato di eccezione, studiato soprattutto dal giurista e filosofo politico tedesco Carl Schmitt in un’opera del 1922, Teologia politica, è qualcosa di diverso. Lo stato di eccezione è dispotico e anticostituzionale; in teoria esercita una minaccia nei confronti delle democrazie liberali; sarebbe una cosa rara, eppure, in pratica, negli ultimi vent’anni queste paiono vivere in uno stato d’eccezione permanente, determinato dai metodi della lotta al terrorismo, della gestione delle catastrofi umanitarie, delle modalità per ripianare

Unsplash

Francesca Rigotti

i debiti di stato fino alle misure contro la crisi pandemica. Siamo sulla soglia di uno «scivolamento eccezionalista» che conduce verso regimi illiberali noi ingenui abitanti delle felici democrazie occidentali? Ci serve

uno stato di eccezione per superare – sempre che sia ancora possibile – la crisi climatica, o basta uno stato d’emergenza per intervenire nell’emergenza climatica? Sembra un gioco di parole, ma se è un gioco, è rischioso. Le misure di emergenza non incidono, dicono, sulle procedure democratiche – anche se sospendono garanzie costituzionali e diritti umani fondamentali, determinano derive paternalistiche e autoritarie, favoriscono lo strapotere dell’esecutivo – perché sono procedure, appunto, d’emergenza, semplici modalità di intervento sulla vita sociale. Se non si vuole lo stato di eccezione si accetti, sostengono alcuni teorici, lo stato di emergenza, al quale potrebbero comunque essere sacrificati le libertà e i diritti personali ma anche la separazione dei poteri, l’eguaglianza giuridica degli individui, la

certezza della legge. Gli interventi di emergenza sono compresi nei margini del diritto e della morale ordinari – dicono – e non facilitano lo stato d’eccezione. Anche accettando questa posizione conciliante (emergenza sì, eccezione no) chi garantisce che il prepotere dell’Esecutivo non si incisti, a discapito delle prerogative del Legislativo, nelle democrazie non più così liberali e già profondamente in crisi? Chi assicura che l’emergenza in caso di crisi climatica non faccia semplicemente quello che fa lo stato di eccezione cioè sospendere le garanzie costituzionali inserendo trasformazioni stabili nella gestione politica? Chi garantisce che la muraglia tra stato di eccezione e stato di emergenza non sia, invece che solida e impenetrabile, molto più porosa e bucherellata del previsto?


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Quelle bugie utili per crescere

Il caffè delle mamme ◆ A volte non dire tutta la verità è un modo che i bambini hanno per sperimentare la propria indipendenza e sottrarsi al controllo e al giudizio degli adulti Simona Ravizza

«… E la Fata lo guardava e rideva. – “Perché ridete?”, gli domandò il burattino, tutto confuso e impensierito di quel suo naso che cresceva a occhiate. – “Rido della bugia che hai detto”. – “Come mai sapete che ho detto una bugia?”. – Le bugie, ragazzo mio, si riconoscono subito, perché ve ne sono di due specie: vi sono le bugie che hanno le gambe corte, e le bugie che hanno il naso lungo: la tua per l’appunto è di quelle che hanno il naso lungo”. Pinocchio, non sapendo più dove nascondersi per la vergogna, si provò a fuggire di camera, ma non gli riuscì. Il suo naso era cresciuto tanto, che non passava più dalla porta».

pire che a volte è meglio dire la cosa che non offende gratuitamente invece che la cosa vera. Per fortuna, altrimenti ci ritroveremmo a che fare con dei disadattati sociali. Non farli diventare degli ipocriti sarà poi la sfida seguente.

Prove di libertà

Esistono anche bugie pericolose: sono quelle che i nostri figli ci dicono per compiacere le nostre aspettative La morale della favola di fine Ottocento di Carlo Collodi attraversa i secoli: le Avventure di Pinocchio insegnano ai bambini a non dire bugie che vuol dire anche rispettare le regole e non disobbedire. Ma noi genitori siamo davvero convinti che le bugie dei figli siano sempre da condannare? A Il caffè delle mamme l’interrogativo si pone con forza dopo l’ultimo articolo di settembre per «Azione» dedicato al tema del dialogo: il consiglio degli esperti è di parlare molto con i figli fino a 12 anni quando sono disposti ancora ad ascoltarci, per poi vivere in qualche modo di rendita durante il periodo complesso dell’adolescenza quando varrà di più la parola degli amici. In questo contesto, intervistando Tomaso Vecchi, professore ordinario di Psicologia cognitiva e sperimentale e vicerettore dell’Università di Pavia, io ho sentenziato: «Il dialogo da instaurare con i figli deve poi essere sincero! Non devono dirci bugie e noi a nostra volta dobbiamo

avere il coraggio della sincerità». Sono stata gelata da una sua considerazione: «In realtà ci sono anche bugie utili per crescere». Così al Caffè ci è venuta la curiosità di capire con l’aiuto di Vecchi quali sono le bugie utili e perché non sono da condannare.

La sincerità dei bambini Le bugie possono essere il risultato di un’evoluzione mentale e sociale del bambino che impara a prendere in considerazione anche i sentimenti altrui, facendo entrare in gioco l’empatia. Non la conosce ancora Enea, il 10enne di noi #7infamiglia, che riceve un regalo per il compleanno e dice in faccia: «Non mi piace!». Lui che gioca

con un amichetto ospite in casa nostra e a domanda ammette con semplicità: «Non sei tu il mio migliore amico!». Ancora lui che chiede al 21enne se vorrà essere il suo padrino per la cresima dell’anno prossimo: «Ma solo se tuo fratello, il mio preferito, sarà ancora a studiare negli USA». A chiunque di noi capita prima o poi di fare i conti con verità imbarazzanti spiattellate dai figli, conseguenza del fatto che ai bambini insegniamo (giustamente) a non mentire e che, al tempo stesso, i bambini piccoli non sono capaci di mentire. È una sincerità che contrasta con le nostre bugie di ordinaria sopravvivenza davanti alle quali capita spesso di essere redarguite: «Mamma, non è vero!». Ecco, con lo sviluppo, anche Enea imparerà a ca-

Ci sono bugie che servono ai figli per affermare a sé stessi la propria identità rispetto a quella di noi genitori. A Il Caffè delle mamme ci fanno riflettere a tal proposito le parole dello scrittore Fabrizio Sileo, già vincitore del Premio Andersen per la letteratura dei ragazzi e autore di recente de Il libro bugiardo (ed. Uovonero, 2022): «Nel bambino la bugia è spesso un atto di autonomia e libertà, una riaffermazione dell’Io. Si mente per vari motivi, ma soprattutto per sperimentare la propria indipendenza e sottrarsi al controllo e al giudizio degli adulti. Credo che ridare ai nostri bambini occasioni di mentire, di essere liberi, di esplorare, di mantenere segreti, sia estremamente educativo, anche per noi adulti, dal momento che ci è sempre più difficile. Forse crescere significa proprio questo, dire: questa cosa l’ho fatta io, l’ho decisa io e per me va bene così, anche se non la dirò a nessuno».

Le bugie degli adolescenti Ci sono bugie che è meglio che gli adolescenti ci dicano perché significa che sono consapevoli che hanno superato un limite e che sarebbe stato meglio non farlo. Altrimenti sarebbe tutto lecito, cosa che spingerebbe il ragazzo ad alzare sempre di più l’asticella della trasgressività. Esempio: se nostro figlio a 16 anni ci dice una bugia per nasconderci che la sera precedente si è ubriacato vuol dire che ha ben presente che è una cosa sbagliata

da fare. La speranza è che tenderà a farla il meno possibile.

Le bugie insidiose Ci sono invece bugie pericolose: sono quelle che i figli ci dicono per compiacere le nostre aspettative. Per capirne i rischi prendiamo da Wikipedia il caso estremo, magistralmente raccontato da Emmanuel Carrère nel romanzo-verità L’avversario: il 9 gennaio 1993 Jean-Claude Romand, ritenuto fino ad allora uomo mite e affettuoso con i familiari, uccide la moglie e i due figli. Il giorno successivo uccide anche i suoi genitori; infine incendia l’abitazione e cerca senza successo di suicidarsi. L’inchiesta giudiziaria svelerà che per 17 anni Romand ha mentito alla sua famiglia, affermando di essersi laureato in medicina e di lavorare come ricercatore all’Oms a Ginevra. Le stragi sono da attribuire al desiderio di evitare la vergogna che sarebbe derivata dalla scoperta delle sue menzogne.

Le bugie dei genitori E noi genitori, invece, fino a che punto dobbiamo/possiamo essere sinceri con i figli? Vecchi è netto: «Più che dire bugie, se un bambino è piccolo e non ha gli strumenti per capire, possiamo omettere un pezzo di verità. Ma le bugie minano la sua fiducia in noi, poi estremamente difficile da riconquistare». Ne La vita è bella di Roberto Benigni, Guido Orefice, deportato insieme alla sua famiglia in un lager nazista, cerca di proteggere il figlio Giosuè di 5 anni dagli orrori dell’Olocausto, facendogli credere che tutto ciò che vedono sia parte di un fantastico gioco in cui dovranno affrontare prove durissime per vincere un meraviglioso premio finale. Ma questa è drammaticamente un’altra storia. Annuncio pubblicitario

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La voce degli operai e degli amici della montagna Anniversari ◆ Nato all’interno della Monteforno per consolidare lo spirito di gruppo dei lavoratori il Coro Scam compie 60 anni e non smette di sorprendere il suo pubblico Sara Rossi Guidicelli

Proprio a sessant’anni il Coro Scam sta vivendo una nuova primavera. Si sta rimettendo in gioco, si rinnova e respira a pieni polmoni una boccata di aria fresca. Un coro virile, creato nel 1963 direttamente dentro le officine della Monteforno, la famosa acciaieria leventinese, in cui lavoravano all’epoca quasi mille operai (diventati proprio mille negli anni Settanta). E per amalgamare tutti quegli operai, che arrivavano dal Ticino e soprattutto da varie regioni dell’Italia, per creare gruppo e valorizzare ogni voce singola, era nata la Società Corale Aziendale Monteforno. Era stata l’infermiera Lina Grassi ad avere l’idea per prima e così avevano chiamato un Maestro di coro, che li aveva riuniti tutti in una sala prove di Giornico. Ben presto una quarantina di persone usciva dal fragore dell’acciaieria, dal caldo soffocante del laminatoio, scendeva dalle gru, si allontanava dai rottami di ferro che venivano colati a 2000 gradi e andava a cantare. Tutto a spese della Monteforno: le prove, i concerti, le tournées. Era un investimento per l’unione dei lavoratori, per dare un’immagine all’esterno della fabbrica, e per legare ancora di più gli operai all’azienda. La Valle li adorò subito; il Ticino li accolse ben presto e le terre d’origine degli operai li invitarono a esibirsi. All’inizio degli anni Ottanta, il Coro Scam andrò addirittura in Egitto a portare i canti alpini e l’Ave Maria in lingua sarda; nel 1982 fu invitato al Quirinale a Roma da Sandro Pertini per il suo compleanno e cantò Bella ciao emozionando il presidente partigiano; poi iniziò ad aprirsi a nuovi cantori, pescati anche fuori dalla fabbrica. Già dalla metà degli anni Ottanta, iniziarono i licenziamenti che svuotarono piano piano una bella e variegata parte della Leventina. Nel dicembre del 1994, la tragica chiusura, considerata da molti ingiusta e criminosa: la Monteforno era in attivo,

Per i suoi 60 anni il Coro Scam si è esibito in uno spettacolo speciale all’Auditorio Stelio Molo della RSI a Besso. (Nicolas Joray)

ma per motivi di concorrenza interna, fu chiusa e gli operai restarono a casa. O meglio: molti di loro se ne tornarono da dove erano venuti: Sardegna, Sicilia, Campania, Lombardia, Piemonte, Spagna, Turchia, Polonia.

Negli anni 90 il coro sopravvisse alla chiusura della Monteforno, oggi è diretto dal Maestro Andrea Cupia Ma il Coro Scam è sopravvissuto, aprendosi e rinnovandosi. Ha mantenuto il nome, diventando però Società Corale Amici della Montagna.

Dopo il Maestro Raimondo Peduzzi era arrivato il Maestro Giotto Piemontesi, professionista diplomato Conservatorio, e da una decina di anni è stato assunto Andrea Cupia, musicista poliedrico con al suo attivo una lunga e intensa attività di direzione musicale. «Lavorare con lui è molto stimolante», mi raccontano alcuni coristi, «quando facciamo le prove sentiamo che esige da noi un impegno molto grande, ma sempre alla nostra portata. Ci fa crescere, ci interessa; le stesse canzoni ora le eseguiamo con più rigore, più colore. È una grande opportunità per noi». Mi raccontano che essere parte di un coro è molto meglio di giocare in una squa-

dra sportiva, «perché qui, più si è, meglio è. Non c’è competizione tra noi, soltanto complicità». Il coro, con componenti che arrivano da tutto il Ticino, dai Grigioni e persino dall’Italia, continua a riunirsi una volta alla settimana e a partire regolarmente per ritiri di «full immersion» dove si concentra dalla mattina alla sera sulla propria voce, la respirazione e la postura. I membri, che hanno dai 21 agli 89 anni, spesso sono invitati fuori casa (Ticino, altri cantoni svizzeri, Germania) per un concerto in chiese, sale da concerto o palestre. Partecipano anche a concorsi internazionali dedicati ai cori. «Notiamo che fuori dal Ticino la gente ha un’al-

tra cultura dell’ascolto, molto più attenta che qua da noi», fanno notare i cantori. Il repertorio è cambiato negli anni, senza tralasciare la tradizione alpina e legata alle guerre del Novecento (cioè i canti creati apposta per i cori virili), ma aggiungendo altre proposte, che spaziano dalla canzone leggera, italiana o internazionale, a classici del rock e ad altri generi di musica moderna. Quest’anno, per il suo sessantesimo compleanno, il Coro Scam si è esibito in una specialissima serata insieme con Italian Harmonists, un ensemble di cantanti della Scala, uniti in un gruppo che fa spettacoli musicali con accompagnamento di pianoforte. Insieme hanno presentato questa primavera all’Auditorio Stelio Molo della RSI uno spettacolo musicale, raffinato, ironico e divertente che prende in giro l’uomo inteso come figura maschile. «Questa è una nuova era che si inaugura, anche se il Coro continuerà con il suo repertorio e le sue esibizioni», commenta il Maestro Cupia, «ma ora sappiamo che siamo in grado anche di fare qualcosa di diverso, qualcosa che ha sorpreso noi e il pubblico, qualcosa di bello, insieme con dei professionisti, molto espressivo, ritmato, che ha richiesto un anno di prove per raggiungere il livello canoro e di precisione che dovevamo ottenere». Ce l’hanno fatta e chissà che non si riproporrà l’occasione di rivedere questo spettacolo o magari altri di questo genere. Sabato 18 novembre invece, ci sarà un’altra serata speciale per sentirli: a Faido, nella palestra delle Scuole, festeggeranno il loro anniversario dei sessant’anni insieme ad altri cinque cori, per ripercorrere con vari canti e voci diverse le sei decadi della loro esistenza. Informazioni www.coro-scam.ch Annuncio pubblicitario


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TEMPO LIBERO ●

La vulnerabilità del Vallo di Adriano Il muro, scolpito da quasi duemila anni di vento e pioggia, scavalla colline che oggi rischiano di far perdere le tracce dei suoi segreti

Tra safari sudafricani e sobborghi storici Dal 10 al 19 marzo 2024 Hotelplan porta i lettori di «Azione» in tour da Città del Capo a Johannesburg

Crea con noi Halloween si avvicina, ecco un facile tutorial per realizzare delle lanterne che renderanno l’atmosfera davvero spaventosa

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Composizione di immagini simili di Ma.Ma. (Manuela Mazzi)

Quel che abbonda si svaluta

Fotografia ◆ Al termine della rubrica dedicata ai consigli utili per gli appassionati dell’arte dell’immagine, una riflessione prima di dare la parola ai fotografi di casa Stefano Spinelli

Cos’è la fotografia, come si è sviluppata, come affrontarla praticamente, quali sono gli specifici strumenti e tecniche, che punti di vista concettuali adottare, in che modo elaborare un progetto, come definire contenuti e forme con cui presentarlo, sono alcuni dei temi che hanno scandito fin qui la serie di articoli della nostra rubrica. Argomenti vari, con l’intento di sollecitare nel lettore una riflessione riguardo a una pratica che oggi – dovuto in parte ai continui e notevoli progressi tecnologici ai quali è soggetta la fotografia e alla facilità con cui di questa possiamo avvalerci – risulta spesso essere, purtroppo, banalizzata.

Disponiamo di strumenti sempre più potenti che usiamo però solo per riempire gli spazi vuoti di un’iperattiva quotidianità Una ridondanza di fotografia sta ammazzando la fotografia. Non è, il mio, uno sguardo pessimista, è solo una presa d’atto. Del valore che poteva avere una fotografia, fosse anche solo venti o trent’anni or sono – non in termini economici, che è tutt’altra

storia, ma per il senso di verità che poteva ancora veicolare, o per il carico affettivo e di memoria con cui ciascuno di noi la rivestiva –, nell’odierna saturazione d’immagini, di quel valore resta ben poco. Conseguenza di una banale regola: quel che abbonda si svaluta. Gli sviluppi tecnologici hanno semplificato tutto quel che riguarda la produzione di un’immagine – al punto che oggi, con l’intelligenza artificiale, per «fare» una fotografia non abbiamo neppur più bisogno di un apparecchio fotografico, basta un computer… –, ma non c’è stata nel contempo una conseguente e necessaria socializzazione alla comunicazione, visiva e non solo. È paradossale: pur avendo a disposizione strumenti sempre più potenti e – se solo li utilizzassimo con proprietà e discernimento – capaci di elaborare analisi, riflessioni, pensiero critico, poetico, filosofico e sociale, finiamo invece per considerarli quasi solo come dispositivi di cui far uso per rassicurare le nostre sempre più fragili identità o per riempire ludicamente i momenti vuoti della nostra iperattiva quotidianità. La logica strumentale, della produzione e del consumo di massa,

soggetta allo sviluppo delle macchine, alla loro pervasività, con tutta evidenza costringe vieppiù la riflessione umanistica in spazi sempre più angusti e poco frequentati. E la fotografia, se la consideriamo nella sua dimensione sociale, come pratica collettiva, riflette in pieno questo stato di cose. Con ciò non voglio dire che non esistano più spazi dove trovare eccellenza, in forma di immagini potenti, capaci di trasmettere profondità e bellezza. Cercando bene, li troviamo. In internet, ma ancora meglio, dal vivo, in musei, gallerie e altri spazi espositivi, anche in pubblicazioni cartacee di qualità. In quegli spazi, troverete la storia della fotografia – importante da conoscere se vogliamo capirne la sua attualità – e anche, possibilmente, dell’ottima fotografia contemporanea. In sintesi, tale è stato il senso del mio scrivere questa serie di articoli, proposti in primo luogo agli appassionati di fotografia, ma anche a un pubblico più vasto, che magari di fotografia aveva poche o nessuna nozione: cercando di affrontare la fotografia tanto nei suoi aspetti tecnici e formali come pure nelle sue potenzialità comunicative e di lettura del

presente; stimolando una riflessione verso questo mezzo; suggerendone possibili piste di approfondimento. Tutto ciò, naturalmente, con la parzialità che il ragionare su uno strumento tanto complesso come questo impone se vogliamo rispettare gli spazi ristretti della pagina a disposizione. La fotografia è comunque di per sé materia così vasta, viva e, per certi versi, sfuggente da frustrare il tentativo di rinchiuderla in discorsi troppo definitivi. Forse anche in ciò sta il suo fascino: in questa sua capacità di rinnovarsi e adattarsi come linguaggio agli orizzonti in continua trasformazione di una realtà che richiede mezzi sempre più raffinati per essere pienamente colta, intesa ed elaborata. Sono stati, questi miei, dei contributi prettamente soggettivi, fondati sulle personali conoscenze pratiche e teoriche della materia fotografica. Ritengo sia giunto ora il momento di dare una svolta a quei discorsi che potrebbero diventare – se già non lo sono diventati – ridondanti e dunque, alla lunga, inutili e tediosi. Per questo motivo, dalla prossima puntata questa rubrica verrà dedicata al racconto di altrui esperienze.

Prospettive Si tratterà, in altre parole, di raccogliere attraverso una serie di interviste la narrazione del fare di altri fotografi. Di come affrontano la loro pratica professionale, i loro soggetti privilegiati; di come riflettono sull’attualità di questo strumento, di quel che è stato e quel che potrebbe divenire, secondo le prospettive che l’oggi suggerisce loro. Il nostro intento non sarà, dunque, quello di tratteggiare un ritratto esauriente del loro percorso, ma di questo coglierne alcuni sprazzi, significativi, delineandone le problematiche, le sfide e le soluzioni da loro adottate al fine di risolverle al meglio. Ci avvarremo della testimonianza di professionisti attivi nel nostro territorio, specializzati, quando è il caso, in uno specifico settore d’azione. E di più o meno lunga navigazione: diciamo – se vogliamo porre un’ipotetica asticella – dai cinquant’anni in su. Un criterio, questo, certamente discutibile, ma che ci permetterà di scremare un potenziale bacino così vasto da porre altrimenti dei seri problemi di selezione.


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Il Vallo di Adriano e la barbarica m

Reportage ◆ Un impressionante capolavoro di ingegneria militare costruito lungo aspri saliscendi che attraversano lo spazio e la storia a c Enrico Martino, testo e foto

Steel Rig, il Muro che serpeggia lungo i dirupi, con il lago di Crag Lough in lontananza; sotto, il Vallo di Adriano sul lato occidentale del Forte di Housesteads; sotto, Priorato di Lanercost. La maggior parte dell’edificio della chiesa risale alla fine del XIII secolo; questi edifici furono costruiti, almeno in parte, con pietre derivate dal Vallo di Adriano.

Il vecchio muro scolpito per quasi duemila anni dal vento e dalla pioggia scavalla colline, si immerge in una brughiera per riaffiorare improvviso tra le lame di luce di un bosco, una presenza carsica che sembra assorbire l’energia del paesaggio per sfidarne la gravità, e la logica, in un ottovolante di aspri saliscendi che attraversano lo spazio e la storia. Il Vallo di Adriano non è più Inghilterra ma non è ancora Scozia, anche se a nord la terra sembra più selvaggia; ma forse è solo uno stato mentale di chi lo guarda, sottilmente alterato dall’emozione di calcare le stesse pietre su cui camminarono i legionari romani. In realtà a differenza di quello che molti credono il Vallo è all’interno del territorio inglese, anche se ha contribuito a definire i confini dei due Paesi da quando l’imperatore da cui prende il nome ordinò nel 122 dopo Cristo la sua costruzione per «separare i romani dai barbari», le tribù ostili dei Pitti che popolavano l’odierna Scozia, un osso duro anche per le legioni romane. Per realizzarlo, in soli sei anni, vennero impiegati circa quindicimila uomini, tre legioni che affrontarono le sfide di un terreno scelto con attenzione per utilizzarne i vantaggi. Il risultato è un impressionante capolavoro di ingegneria militare, Patrimonio UNESCO dal 1987, esteso da una costa all’altra dell’Inghilterra per ottanta miglia romane, circa centodiciassette chilometri da Solway Firth a ovest e Wallsend a est, uno dei tanti toponimi legati alla sua esistenza, per poi prolungarsi verso sud con porti e fortificazioni costiere. Per circa tre secoli, il Vallo di Adriano diventò il confine più settentrionale e fortificato del limes romano, un gigantesco sistema difensivo esteso per oltre cinquemila chilometri, dalla costa atlantica della Gran Bretagna al Mar Nero attraversando l’Eu-

ropa, per poi proseguire nell’attuale Medio Oriente fino al Mar Rosso e da qui tagliare l’Africa del nord fino all’Atlantico. Diciannove secoli dopo, il Vallo deve fronteggiare una minaccia più pericolosa e insidiosa dei barbari: il cambio climatico. «Le torbiere si stanno prosciugando e i resti organici

protetti per secoli nelle paludi prive di ossigeno rischiano di essere distrutti, e quando accadrà manufatti in legno, pelle e tessuti sepolti in profondità andranno persi per sempre. In aree così sensibili bastano piccoli sbalzi di temperatura per danneggiare irreparabilmente tutto quello che è ancora nascosto sotto i nostri piedi, perché

Le guarnigioni Il Vallo era difeso da circa novemila uomini con vexillationes in ogni forte, reggimenti misti di fanteria e cavalleria che contavano da cinquecento a mille uomini. Provenivano da ogni popolo dell’impero, dall’Iberia alla Dacia e alla Siria e comprendevano persino battellieri dell’Iraq nei porti di rifornimento. I legionari dovevano pagarsi il cibo e l’equipaggiamento militare che comprendeva tunica, bracae che arrivavano al ginocchio e calzari di cuoio, caligae. La corazza era a strisce metalliche, lorica segmentata, a maglie,

lorica hamata, o di lamine, lorica squamata per i centurioni, lamelle di metallo che ricordavano lo squame di un pesce. Oltre alla cintura, cingulum, i legionari indossavano un corpetto, subarmalis, tra tunica e corazza, e dei mantelli, dal sagum rettangolare al paenula semicircolare, mentre il paludamentum rettangolare era riservato agli ufficiali. Le armi, oltre a una spada corta, gladium, comprendevano un coltello, pugium, un giavellotto, pilum, e uno scudo, rettangolare, scutum.

meno dell’uno per cento del Vallo è stato scavato», per l’archeologo Andrew Birley, direttore degli scavi del sito di Vindolanda, si tratta di una corsa contro il tempo. «Agendo ora si può fare la differenza. I dati raccolti nel prossimo decennio rivoluzioneranno la nostra capacità di monitorare la salute dell’archeologia lungo il Vallo e gestire gli effetti dei cambiamenti climatici. I dati raccolti potranno fornire gli strumenti per prevedere ciò che potrebbe accadere e sviluppare strategie di gestione per preservare questo patrimonio, così da trasmetterlo alle generazioni future». Il professor Birley sa quello che dice perché proprio a Vindolanda, uno dei più importanti siti archeologici romani, migliaia di documenti e oggetti hanno rivelato per la prima volta la vita quotidiana delle guarnigioni lungo il Vallo. Giocattoli di legno, scarpe finemente lavorate, equipaggiamenti militari e strumenti di lavoro, tutto un mondo sta tornando in vita. I ritrovamenti più spettacolari però sono migliaia di sottili scaglie di legno ri-

coperte di messaggi in latino, le Vindolanda Writing Tablets. Sopravvissute miracolosamente a un incendio e quasi tutte conservate al British Museum, raccontano la vita lungo il Vallo e le relazioni con i brittunculi, come i soldati chiamavano con disprezzo i locali. C’è persino uno dei più antichi esempi di una donna che scriveva in latino, un invito di compleanno vecchio di quasi duemila anni, «Ti aspetto sorella, amata sorella, anima a me più cara, con auguri di prosperità e salute». «Le Vindolanda Tablets sono la scoperta più importante perché le pietre non hanno parole, le tavolette invece parlano di sogni, di speranze, di dolori, di progetti. Da loro possiamo estrarre informazioni molto più affidabili rispetto ad altri documenti storici perché non vogliono impressionare nessuno o mentire alle generazioni successive» sorride il professor Birley. «Noi cerchiamo nella spazzatura come fanno spesso gli archeologi e dopo cinquant’anni non abbiamo scavato neanche il quindici per cento del sito ma già oggi la visione tradizio-


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minaccia del clima distruttivo

cavallo tra Inghilterra e Scozia

nale di un mondo diviso tra romani e britanni, o tra uomini e donne, è completamente superata. Vindolanda era un forte ma anche un insediamento dove viveva chiunque avesse qualche relazione con l’esercito (donne e bambini): c’erano più soldati in città che nelle caserme, sposati o no perché chiunque si trovava una compagna o un compagno. Nella Britannia romana c’erano trentacinquemila soldati, ma la comunità militare comprendeva ottantamila persone, uomini, donne, bambini, schiavi e servitori che spendevano e arricchivano l’impero senza che l’imperatore dovesse pagare tutti. La nostra sfida è comprendere questo modello economico perché il Vallo di Adriano era certamente una barriera, ma a un livello più sofisticato perché serviva a controllare chi andava dove e a fare cosa. I romani avevano creato una zona militare profonda quasi centocinquanta chilometri, una situazione che ricorda la zona cuscinetto tra le due Coree. Lungo il Vallo possiamo imparare molto di più che in ogni altra frontiera romana, non perché non esistano altrettante evidenze altrove ma perché in quest’area abbiamo il vantaggio di un lavoro sistematico di conservazione».

Sycamore Gap. L’albero del sicomoro era un’icona associata al Vallo di Adriano, ed era pure ritenuto l’albero più fotografato d’Inghilterra, almeno fino al 28 settembre 2023, quando è stato ritrovato abbattuto, forse da un sedicenne.

Oltre l’avvicendarsi di scenografiche colline di rocce magmatiche che a nord precipitano sulle brughiere Proprio mentre il dottor Birley sta per annunciare l’improrogabile ora del tè ai volontari, che ogni anno arrivano da tutto il mondo per partecipare agli scavi, una scarpa riemerge nell’entusiasmo generale dalla torba a pochi metri di distanza, intatta dopo quasi duemila anni. Ancora oggi però «il più importante monumento costruito dai romani in Britannia», come lo ha definito English Heritage, riserva molte altre sorprese, e persino enigmi inquietanti molto diversi dall’immagine ideale di una civiltà. Proprio a Vindolanda, non molto tempo fa, gli archeologi hanno scoperto la sepoltura clandestina di un bambino, o di una bambina, fra gli otto e i dieci anni sotto una caserma romana. Anche se è difficile fare supposizioni, questo ritrovamento fa pensare a qualcosa di drammatico perché le mani erano legate e non c’erano vestiti vicino allo scheletro. Le testimonianze più importanti si trovano però tra Walltown e Sewingfields Crags dove il Vallo segue il Whin Sill, un avvicendarsi di scenografiche colline di rocce magmatiche che a nord precipitano sulle brughiere. Altrove invece lunghi tratti sono ridotti a poche povere pietre sparse, perché solo nel 1830 John Clayton, un collezionista di Chesters, iniziò a comprare terreni per impedire che i contadini continuassero a utilizzarlo come cava, e finanziò scavi e restauri pubblicizzando il Vallo in tutta l’Inghilterra. Era l’inizio della travolgente fama del «Grande Muro dei Pitti» come lo ribattezzò Rudyard Kipling nei suoi racconti per ragazzi che avevano come protagonista Puck of Pook’s Hill, un folletto che conosceva i segreti di queste colline. Molto più recentemente lo scrittore americano George Martin ha ammesso di essersi ispirato al Val-

lo di Adriano per la Barriera, la fortificazione di ghiaccio, neve e pietra di Game of Thrones (Il trono di spade) attraendo una nuova fauna di visitatori. Presente nel videogioco Total War e segnalato come luogo sacro nei siti dei neodruidi, il Vallo è diventato anche una location di Robin Hood, principe

dei ladri grazie a Kevin Costner che gigioneggia davanti a un iconico sicomoro (oggi scomparso) diventato l’albero più fotografato del Regno Unito. Sono solo gli ultimi capitoli, per ora, di quello che originariamente doveva chiamarsi Vallum Aelium, da Aelius nome della famiglia di Adriano.

Dopo soli venticinque anni dalla sua costruzione i romani decisero di spostare il confine ancora più a nord su una linea difensiva più corta, il vallo Antonino, ma la feroce resistenza dei Pitti li convinse rapidamente a ritirarsi sulla vecchia frontiera. Paesaggi spettacolari, importan-

La macchina da guerra romana Lungo 117 km, 80 miglia romane, il Vallo di Adriano era scandito da quattordici forti principali, ottanta minori e due torri di avvistamento ogni terzo di miglio. Oltre al muro vero e proprio prevalentemente di pietra, alto circa cinque metri e spesso fino a tre che diventavano sei nei tratti in terra, il Vallo era rafforzato da un fossato irto di pali appuntiti, da una strada militare che collegava i forti e permetteva di raggiungere rapidamente qualsiasi punto e da un profondo terrapieno, il Vallum. I forti, a pianta rettangolare, variavano nelle dimensioni a seconda dell’impor-

tanza della guarnigione, uno schema ripetuto con lievi differenze lungo tutto il limes che proteggeva i confini dell’impero. Un fossato e un muro intervallato da torri proteggevano il perimetro e ogni lato aveva una porta protetta da due massicce torri. All’interno c’erano il quartier generale, principia; il praetorium dove risiedeva il praefectus castrorum, cioè il comandante; le caserme; un ospedale; magazzini e latrine, generalmente sotto le mura, mentre i bagni erano esterni alle fortificazioni. Nel granaio venivano conservate le derrate alimentari per affrontare i rigidi in-

verni o eventuali assedi, e nel Vicus, l’insediamento civile, vivevano le famiglie dei soldati, spesso ausiliari che ufficialmente non potevano sposarsi. In questi villaggi cresciuti spontaneamente intorno ai forti abitavano anche mercanti, artigiani e prostitute, attratti dalle paghe dei soldati. C’erano anche templi dedicati a divinità romane, locali e persino orientali che rispecchiavano le differenti religioni di soldati provenienti da tutto l’impero perché i romani erano molto tolleranti a patto che non venissero messi in discussione l’ordine sociale e l’imperatore.

ti siti archeologici, la sfida di un terreno e di una meteorologia difficili, sono molti i motivi per camminare lungo i centotrentacinque chilometri dell’Hadrian’s Wall Path, un sentiero pubblico che attraversa l’Inghilterra da una costa all’altra. «Prima del 2003, se volevi vedere il Vallo dovevi pagare perché ai farmers interessano solo i soldi» ride Les Gibson nel suo B&B ricavato da una vecchia stazione telefonica a poche centinaia di metri dal Vallo. Molti completano il percorso in una settimana e i più esperti viaggiano da ovest verso est, «meglio avere la pioggia e il sole del pomeriggio alle spalle piuttosto che in faccia». Lungo il percorso i metal detectors sono illegali e c’è un galateo da seguire, evitando di camminare in fila indiana per non creare trincee che lasciano esposte le fondamenta o calpestando dossi che potrebbero nascondere testimonianze archeologiche. Nonostante queste precauzioni il Vallo di Adriano, sopravvissuto ai barbari, rischia di soccombere davanti ai numeri del turismo perché il solo sito di Housesteads attrae oltre centomila visitatori l’anno. Ogni forte racconta storie diverse, sono le pietre ancora incise dalle ruote dei carri, il tollerante pantheon religioso di divinità celtiche e romane che convivono felicemente sugli altari militari del museo di Senhouse o le mura di un mithraeum dedicato al dio Mitra, di origine orientale ma estremamente popolare fra i soldati romani. Nel forte di Birdoswald, la capacità di inclusione dell’impero riaffiora dalle iscrizioni lasciate da soldati di origine dacia un tempo nemici, guerrieri fedeli ma anche orgogliosi delle proprie origini. La mancanza di stalle nel forte di Chesters ha rivelato una cavalleria formata da discendenti di barbari abituati a vivere in simbiosi con i loro cavalli, mentre Arbeia, un porto romano sul fiume Tyne, impiegava battellieri provenienti dal lontano fiume Tigri nell’attuale Iraq. Nel grande forte di Housesteads, l’antica Vercovicium, impeccabili volontarie di English Heritage glorificano la «latrina romana meglio conservata del Regno Unito», sebbene la prima cosa che viene in mente guardandola è che di latrine con vista su spettacolari brughiere da fine del mondo ce ne sono poche. Un paesaggio perfetto per evocare l’inestricabile groviglio di nebulose verità e solide leggende nate quando un tappeto d’erba iniziò a ricoprire forti e mura dopo la ritirata romana del 410 dopo Cristo. Quasi certamente molti forti continuarono a essere occupati da comunità di soldati e britanni romanizzati fino al sesto secolo prima di essere travolti da nuove invasioni; un tempo sfumato e remoto di cui fa parte anche la leggenda di re Artù che, per alcuni, sarebbe stato in realtà un comandante di cavalleria romano. Forse proprio un millenario DNA di multiculturalità è il senso più profondo di questo mondo di torba, pietra e antiche presenze dove si sale, si scende e si risale all’infinito tra uno scroscio di pioggia che scivola giù dalle nuvole e la repentina apparizione di un fortino romano. Informazioni Su www.azione.ch, si trova una più ampia galleria fotografica.


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è un Paese destinato a un futuro di pacifica e armoniosa convivenza tra le molte etnie e culture che storicamente vi hanno abitato. Il viaggio si terrà dal 10 al 19 marzo 2024.

Cognome Via

Il programma di viaggio 1. Ticino - Malpensa – (Cape Town) Città del Capo In torpedone fino a Malpensa e partenza per Città del Capo via Francoforte. 2. Città del Capo (30 km) Trasferimento in hotel. Visita della città. Risalita sulla vetta della Table Mountain, dalla cui sommità durante le giornate più limpide è possibile ammirare uno scenario di rara bellezza. 3. La Penisola del Capo (160 km) Visita della Penisola del Capo. Dalle aree residenziali alla baia di Hout Bay. Breve escursione in barca per ammirare la colonia di otarie. Dalla Riserva Naturale del Capo di Buona Speranza si giunge alla sommità di Cape Point per ammirare il luogo virtuale dell’incontro dei due oceani. Si continua verso Simons Town, sede della Marina

Tagliando di prenotazione

NAP sudafricana. Sulla spiaggia di Boulder, si ammirerà la colonia di pinguini. 4. Il regno dei vigneti Giornata alla scoperta della romantica regione dei vigneti con degustazioni vini e pranzo incluso. Quindi, visita del tipico Museo di Stellenbosch, uno dei più antichi centri sudafricani fondato nel 1679. 5. Città del Capo / Soweto / Johannesburg (110 km) Volo per Johannesburg. Visita della famosa township, sobborgo di Soweto, luogo dove si mossero i primi passi alla lotta contro l’apartheid. Visita dell’Hector Pieterson Memorial, la Chiesa Regina Mundi e la Mandela House. 6. Johannesburg / Parco Kruger (410 Km) Visita al famoso Parco Kruger, una

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TEMPO LIBERO

Le lanterne di Halloween

Crea con noi ◆ Con pochi materiali di riciclo e un po’ di fantasia otterrete effetti spettrali per una serata davvero spaventosa Giovanna Grimaldi Leoni

Materiale

Halloween si sta avvicinando, quindi è tempo di tutorial «spaventosi». Eccone uno che vi permetterà di trasformare le confezioni di Tetra Pak e i tappi delle bottiglie in fantastiche lanterne a forma di mostro, Frankenstein o zucca, perfette per illuminare la vostra festa. Un tocco davvero speciale? Ve lo possono dare i colori luminescenti

Lasciate asciugare e se non dovesse essere abbastanza coprente passate una seconda mano. Stampate e ritagliate i cartamodelli (li trovate su www.azione.ch), appoggiateli sulle confezioni utilizzandoli come degli stencil e con una matita riportatene il disegno. Con un taglierino, procedete all’intaglio delle parti che devono essere rimosse. Rifinite pitturando a contrasto i dettagli, aggiungete i denti al mostro, le viti a Frankenstein e con la colla a caldo fissate al posto degli occhi dei tappi di bottiglia. Ritagliate un rettangolo sufficientemente grande dalla carta velina colorata (o in alternativa dalla carta da forno) e fissatelo dall’interno.

o reattivi alla luce UV. Per un effetto ancora più sorprendente! Procedimento Tagliate la parte superiore dei tetrapak e rimuovete la pellicola superficiale stampata dalla confezione. Con i colori acrilici pitturate tutta la superficie. Verde per Frankenstein, viola per il mostro e arancione per la zucca.

Idea in più: inserite qualche dettaglio dipinto

Giochi e passatempi Cruciverba Come si chiama l’albero nella foto? Dove si trova? Cosa provoca mangiare i suoi frutti? Troverai le risposte risolvendo il cruciverba e leggendo le lettere evidenziate. (Frase: 10 – 5, 10 – 2, 5)

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6. Consuetudine di un popolo 7. Gare col lazo 8. Un gas 10. Un tessuto 13. Pronome relativo 14. Corrono sull’asfalto 16. Forma di energia trasmissibile 18. Il verbo di Bacco 19. Raggi radioattivi 20. Ha un carattere esplosivo 22. Il cantante Rosalino Cellamare 24. Due quinti di cento

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VERTICALI 1. Grave malattia 2. Si dice per incoraggiare ed esortare 3. Combinazioni, coincidenze 4. Andata alla latina 5. Lettera dell’alfabeto greco

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19. Bellezza d’altri tempi 21. Valoroso guerriero 22. Rio senza fine 23. Dopo il bis 24. Unitamente 25. Nome femminile

Tutorial completo azione.ch/tempo-libero/passatempi

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ORIZZONTALI 1. Isola del Mar d’Irlanda 3. Prendono in giro la vita 9. Due gocce d’olio 10. Elementi del poligono 11. La chiave di violino 12. Tagliata 14. Tutt’altro che fitti 15. Precede gli altri 16. Oggetto semplice che serve per spaccare 17. Stato federato degli USA 18. Panini farciti cinesi, al vapore

con i colori acrilici reattivi alla luce UV o luminescente per un effetto al buio ancora più «spettrale».

Sudoku Scoprite i 3 numeri corretti da inserire nelle caselle colorate.

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(I materiali li potete trovare presso la vostra filiale Migros con reparto Bricolage o Migros do-it)

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Soluzione della settimana precedente CURIOSITÁ DAL MONDO – A Utqiagvik in Alaska, quando il sole tramonta il 18/19 novembre, segue una lunga… Resto della frase: … NOTTE DI SESSANTASETTE GIORNI C E C I T A

A D E L E

N O T T I L I N A S O S A P A S T E R S C E S T O M I S T O N O T O D

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Regolamento per i concorsi a premi pubblicati su «Azione» e sul sito web www.azione.ch I premi, tre carte regalo Migros del valore di 50 franchi, saranno sorteggiati tra i partecipanti che avranno fatto pervenire la soluzione corretta entro il venerdì seguente la pubblicazione del gioco. Partecipazione online: inserire la soluzione del cruciverba o del sudoku nell’apposito formulario pubblicato sulla pagina del sito. Partecipazione postale: la lettera o la cartolina postale che riporti la soluzione, corredata da nome, cognome, indirizzo del partecipante deve essere spedita a «Redazione Azione, Concorsi, C.P. 1055, 6901 Lugano». Non si intratterrà corrispondenza sui concorsi. Le vie legali sono escluse. Non è possibile un pagamento in contanti dei premi. I vincitori saranno avvertiti per iscritto. Partecipazione riservata esclusivamente a lettori che risiedono in Svizzera.


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TEMPO LIBERO / RUBRICHE

Viaggiatori d’Occidente

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di Claudio Visentin

Tutti ‘sti turisti che son di troppo a chi li diamo? ◆

«Questi turisti a chi li do? Non li vuole più nessuno!». Così pensavo scorrendo le ultime notizie sulla stampa internazionale, selezionate dai miei studenti all’USI. Anche dai luoghi più esotici si levano lamentele, come nel caso delle isole Galapagos, nell’Oceano Pacifico. Distante quasi mille chilometri dal Sudamerica, questo arcipelago ha sviluppato una straordinaria varietà di specie animali e vegetali. Non a caso proprio sostando in queste isole nel 1835, durante il suo viaggio intorno al mondo a bordo del brigantino Beagle, Charles Darwin intuì i primi fondamenti della teoria dell’evoluzione. L’arrivo del turismo organizzato nel 1969 ha trasformato in profondità le Galapagos, aprendo al mercato un’economia di sussistenza e superando rapidamente i limiti della sostenibilità ambientale. Per questo si fanno sempre più stringenti le richieste di

limitare il turismo rivolte al governo dell’Ecuador, padrone di queste terre. Negli stessi giorni anche il vicino Perù ha annunciato la sospensione delle visite ad alcune parti della sua principale destinazione turistica, la cittadella inca di Machu Picchu, Patrimonio dell’umanità UNESCO dal 1983. Quattromila visitatori al giorno (nonostante i 2490 metri di altitudine) sono davvero troppi e le mura degli antichi templi mostrano segni di erosione. Non va meglio alle Hawaii. West Maui ha già riaperto ai turisti dopo i terribili incendi di agosto, le tante morti e la distruzione della città di Lahina. Molti nativi però stanno ancora lottando per tornare alla normalità e hanno criticato la scelta: «Il nostro dolore è ancora troppo recente». Ma le Hawaii dipendono quasi interamente dal turismo internazionale (tre milioni di visitatori l’anno per una

Passeggiate svizzere

spesa di oltre cinque miliardi di dollari) e l’alternativa è semplicemente la povertà. Sono lontani i tempi prima del colonialismo, quando l’economia di sussistenza sfamava i nativi e lasciava tempo libero per il surf. Qualche esempio più vicino a noi? Era il 23 marzo 2008 quando nella vetrina della farmacia Morelli, in campo San Bartolomeo, fu acceso il «contatore dei veneziani»: un monito permanente contro lo spopolamento della città. Ebbene pochi giorni fa, per la prima volta, il numero di posti letto disponibili nel centro storico (49’693) ha superato quello dei residenti (49’304). La discesa di questi ultimi è inesorabile, dai 175mila del 1951. «Ci sentiamo come stranieri a casa nostra» racconta un attivista. «Ogni tanto vedo un veneziano per la strada e ci salutiamo da lontano, ma a parte questo siamo circondati da turisti». Si aggiungono poi gli escur-

sionisti: nei giorni di punta quarantamila visitatori si riversano in città, tanto che dal prossimo anno sarà richiesto un biglietto d’ingresso di cinque euro. Ma a quel punto sarà davvero difficile distinguere la città da un parco a tema… Per evitare di fare la stessa fine, Firenze ha dichiarato guerra agli affitti brevi, seguendo l’esempio di New York, Barcellona e Amsterdam. Nel centro storico saranno vietati nuovi affitti su piattaforme online (e il Governo annuncia provvedimenti simili su scala nazionale). Ancora nel 2016 Airbnb gestiva poco meno di seimila appartamenti a Firenze, ora sono più che raddoppiati. Nel frattempo la competizione dei turisti ha fatto aumentare gli affitti di oltre il 40%. Anche storie di successo vanno a finire male. Negli ultimi quindici anni il turismo portoghese ha prosperato grazie ai pensionati stranieri, attrat-

ti da numerose agevolazioni fiscali e dal clima mite. Migliaia di francesi, britannici e italiani si sono stabiliti a Lisbona o nelle località balneari dell’Algarve. Ma presto sono emersi diversi problemi, a cominciare dalle tensioni con gli altri Paesi dell’Unione europea, irritati dalla perdita di entrate fiscali. Inoltre il costo delle case (nuove o in affitto) è aumentato dell’80% e molte famiglie portoghesi non possono più permettersi un’abitazione adeguata. Per questo, dal 1. gennaio 2024 sarà sospeso il regime fiscale agevolato (al momento i pensionati pagano un’imposta del 10% soltanto e fino al 2020 l’esenzione era totale). Queste notizie che rimbalzano dai diversi continenti inevitabilmente interrogano anche noi. Abbiamo abbastanza turisti? Dovremmo smettere di promuovere la nostra destinazione prima che sia troppo tardi?

di Oliver Scharpf

Il ponte di Maillart sulla gola della Salgina ◆

L’altro giorno, spaccando legna all’alba, mi è tornata in mente la similitudine con i levrieri di una citazione sui ponti di Maillart. La ritrovo, si tratta di una frase posta in esergo al comunicato stampa del MoMA di New York in occasione della mostra – da giugno a ottobre del 1947 – Robert Maillart: Engineer. Senza questa citazione di Sigfried Giedion non mi sarei neanche messo in viaggio: «I ponti di Maillart sembrano saltare sopra fiumi e abissi con l’eleganza e rapidità dei levrieri». «Alcuni ponti di Maillart sono entrati nella lista dei pellegrinaggi mondiali da compiere prima di morire» è invece la frase di Jacques Gubler che mi accompagna incamminandomi appena sceso alla stazioncina di Schiers. Paesino grigionese semidimenticato nel fondovalle, sulla sponda destra del Landquart. Dove s’immette lo Schraubach, torrente tutto matto

il cui corso risalgo. Un impianto antiquato di betonaggio, montagne di ghiaia fluviali, cataste di legna ovunque, non un’anima viva, sono gli elementi del paesaggio-arte povera da queste parti. Fino al sentiero che sale di petto nel bosco. Sulla scelta di quale ponte, tre dei quali (Salginatobel, Aarburg, Vessy) sono i più gettonati secondo Gubler, non c’è stata, per una volta tanto, ombra di dubbio. Non per niente questo ponte verso il quale mi sto inerpicando tra faggi e abeti bianchi, a fianco della Salgina invisibile che sento solo scorrere, appare etereo tra una parete di roccia e l’altra, sulla copertina della prima edizione (1949) del libro di Max Bill su Maillart. Dove ho letto che i suoi ponti «sono sostenuti da questa audacia di concezione e questo rigore di idee che li fanno passare dal materiale allo spirituale, dalla tecnica alla visio-

Sport in Azione

ne estetica». Intravedo qualcosa, tra gli alberi, dopo una cinquantina di minuti a buon passo da Schiers, sul cui territorio comunale si trova ‘sto benedetto ponte che ora si mostra un po’ di più ma non troppo. La visuale, alla fine, scegliendo la via del bosco lungo l’antica mulattiera, non è poi così ottimale visto che si arriva talmente vicino che manca uno sguardo totale. Anche se ora, al cospetto del ponte di Maillart sulla gola della Salgina (798 m), impressiona, da vicino, lo slancio iniziale della campata in beton armato chiaro che balza per novanta metri, a novanta metri di altezza. Progettato da Robert Maillart (1872-1940), ingegnere svizzero innovatore e prolifico la cui fama artistica però è piuttosto postuma, costruito dall’impresa Prader, grazie a una centina in legno-capolavoro di Richard Coray (1869-1946), costruttore magistrale di opere svanite, que-

sto plurielogiato ponte che collega Schuders a Schiers, vede la luce nel 1930. Scendo giù per toccare i piloni snelli a lamelle giganti: tutto è immacolato, tenuto benissimo, nessuna tag né niente a intaccare questo ponte ad arco a tre cerniere eletto monumento mondiale, al pari dunque della tour Eiffel per esempio, nel 1991 dalla American Society of Civil Engineers fondata nel 1852. Ritorno su e percorro, nonostante non ci siano parapetti e perciò per me è un’impresa, in centosettantadue passi decisi, domenicali, vertiginosi, tutto il ponte lungo centotrentatré metri che però così si perde di vista. Deluso un po’ dalle visuali possibili, sulla strada di ritorno, mai la stessa dell’andata, in direzione Pusserein, ecco che forse una panchina, giù in un prato a ridosso del bosco, apre uno squarcio serio. E infatti, sedendomi sulla panchina di legno,

la distanza è quella giusta e qualcosa all’altezza della citazione dei levrieri scatta. La bellezza del ponte è così pura grazie anche al contesto di soli boschi intorno. Ora capisco un po’, per tre secondi circa, perché nel comunicato stampa della mostra al MoMA si tirava in ballo pure Oiseau dans l’espace (1923) di Brancusi. Picnic quasi punitivo oggi, a base di una pera e un paio di carote. D’un tratto, un’occhiata di sole a metà ottobre all’una e uno, acuisce la chiarezza del calcestruzzo. I boschi della Prettigovia, ancora molto verdi, al di là della presenza di conifere varie, mostrano qua e là, appena appena, le prime screziature autunnali. Alcuni pellegrini passeggiano sul ponte a proposito del quale, sempre Sigfried Giedion, in Spazio, tempo e architettura (1941) scriveva qualcosa riguardo al salto, le rocce e la «serena inevitabilità dei templi greci».

di Giancarlo Dionisio

È solo una questione di cultura ◆

Nel 1980, quando esplose il caso del Totonero, che comportò numerose squalifiche e retrocessioni nel calcio italiano, nessuno dell’attuale Banda Scommesse – per intenderci Zaniolo, Fagioli, Tonali e associati – era già nato. Il trionfo azzurro nella Coppa del Mondo del 1982, in Spagna, aveva spazzato via tutte le nubi. Di quella triste e squallida vicenda delle scommesse illecite, affiorava di tanto in tanto un pallido ricordo, soprattutto negli sfottò rivolti dai tifosi rivali alle nobili decadute, costrette a recitare sui palcoscenici della Serie B. Più di duemila anni or sono, nel De Oratore, Cicerone scriveva: «La storia è testimone dei tempi, luce della verità, vita della memoria, maestra di vita, messaggera dell’antichità». Vero, a condizione che la storia la si studi, la si soppesi, la si metta in relazione con le vicende del presente. Stando al bubbone esploso nel calcio italia-

no negli scorsi giorni, sembra proprio che l’insegnamento della storia non sia passato. Il fatto che i ragazzi coinvolti non fossero ancora nati nel 1980 non giustifica la gravità dei loro comportamenti. Mi sono fatto l’idea che queste derive siano figlie della noia e del vuoto esistenziale che sovente imprigiona questi giovani milionari. Credo che l’ingaggio corrisposto a Tonali da parte del Newcastle sia il più elevato: sette milioni di euro a stagione, più due di bonus. Una bella somma per un 23enne che da quando ne ha sei vive di calcio. Come dire che, conti alla mano, questi ragazzi non sarebbero confrontati con l’imprescindibile necessità di arrotondare il salario. Anni fa, a Cervia, durante un meeting per sportivi e imprenditori, ebbi l’occasione di assistere a una conferenza di Alberto Zaccheroni. Il tecnico, che allora sedeva sulla panchina del

Milan, rivelò che i suoi ragazzi erano impegnati per un’ora e mezza al giorno per cinque giorni, oltre alla partita della domenica. In totale nove ore di «lavoro» settimanale. Una situazione aberrante. Giovani di vent’anni, ricchi, famosi, coccolati, viziati da pubblico e media, in balia del vuoto assoluto. Qualcuno, un’esigua minoranza, ne approfitta per studiare. Altri rivolgono lo sguardo al futuro e si preoccupano di investire oculatamente i loro guadagni. Molti cercano invece di arrabattarsi per impiegare il tempo. Play Station? Lettura della stampa sportiva? Festini? Fidanzate e fidanzatine collaterali? Scommesse, lecite e illecite? Oppure tutte le varianti messe insieme? È gigantesca la tentazione di attribuire solo ai giocatori le responsabilità di questo nuovo scandalo scommesse. Ma sarebbe un atteggiamento iniquo. Sono adulti, quindi le colpe

maggiori è giusto che ricadano su di loro. Tuttavia, il mondo del calcio nella sua globalità si dovrebbe porre delle domande. È giusto lasciare dei giovani senza formazione, da soli, con praterie di tempo libero e montagne di denaro a disposizione? O nella migliore delle ipotesi in balia di squali travestiti da impresari? Non sarebbe opportuno proporre suggerimenti su come impiegare tempo e soldi in modo adeguato? Una fetta di responsabilità credo che la dobbiamo assumere anche noi rappresentanti dei media. Il più delle volte, il nostro atteggiamento è tutt’altro che propositivo, complice la nostra smania di creare nuovi eroi da osannare, o demoni da condannare. Spesso utilizzando come strumento le nostre domande vacue dei dopo-partita, che propongono stimoli e riflessioni, anche se il termine mi suona iperbolico, che si clonano di domenica in dome-

nica, e non vanno mai oltre l’applicazione di un modulo di gioco, l’analisi di un presunto errore, o la celebrazione di un gesto tecnico spettacolare. Se fossimo degli sparring partners più curiosi, più disposti a scavare nell’animo degli interlocutori senza scadere nel pettegolezzo, più stimolanti nel porre questi ragazzi di fronte alle responsabilità che derivano dal loro ruolo ritenuto socialmente prestigioso, più attenti nel porli in relazione con tutto quanto accade nel mondo, buono o gramo che sia, probabilmente saremmo co-protagonisti di un utile e benefico processo di trasformazione. Il calcio è un gioco meraviglioso, coinvolgente, emozionante. Ma se tutte le sue componenti non si daranno una mossa, se non contribuiranno a costruire un futuro fatto da uomini maturi per uomini maturi, rischia veramente di sprofondare sotto le macerie delle sue derive.


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ATTUALITÀ ●

Lezioni dalla guerra Taiwan guarda al conflitto in Medio Oriente e alla guerra russoucraina con preoccupazione

La Polonia sceglie l’Europa Come interpretare i segnali che emergono dal recente voto dei polacchi

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Giovani fragili e violenti In Italia inquieta il fenomeno delle baby gang dedite a risse, danneggiamenti, furti e non solo

Reportage dalla Scandinavia Da Oslo, Norvegia, fino al confine con la Russia: le storie di chi teme di fare la fine degli ucraini

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Quando Hamas e alleati hanno travolto la gabbia di Gaza, e invaso le aree israeliane contermini, di fronte avevano pochi e impreparati soldati israeliani. (Keystone)

La crisi nera dello Stato di Israele

L’analisi ◆ Il 7 ottobre Tel Aviv si è fatta trovare scoperta e ha subìto una delle più gravi sconfitte della sua storia, ecco perché Lucio Caracciolo

Il dato strategico più importante che sta emergendo dalla guerra a Gaza e dintorni è la crisi di credibilità e deterrenza dello Stato di Israele. Una volta depositata la polvere delle propagande e contropropagande oggi dominanti, sarà questo il fattore decisivo per il futuro del Medio Oriente e dell’area mediterranea. Se Israele cessa di essere una potenza, o addirittura uno Stato, tutta l’equazione regionale muta. Il fallimento dell’intelligence e delle forze armate israeliane di fronte all’attacco di Hamas, avvenuto lo scorso 7 ottobre, è il segno più recente ed evidente di questa crisi. Sarà bene ricordare come Israele è finito in questa trappola. Il Governo di Benjamin Netanyahu aveva ricevuto molteplici segnalazioni di un’imminente operazione in grande stile da parte di Hamas, la principale forza palestinese che regge la Striscia di Gaza. Nonostante questi avvertimenti, Israele si è fatto trovare completamente scoperto e ha subìto una delle più gravi sconfitte della sua storia, oltre che uno dei più sanguinosi massacri di sempre. Quando Hamas e alleati hanno travolto la

gabbia di Gaza e invaso le aree israeliane contermini, di fronte avevano pochi, sparuti e impreparati soldati israeliani. Il grosso e il meglio delle forze armate dello Stato ebraico era schierato in Cisgiordania, in un rapporto più o meno di dieci a uno rispetto ai reparti stanziati intorno a Gaza, e (meno) sul fronte libanese. Perché? La ragione tattica consiste nel fatto che, per la festa del Sukkot, ci si aspettava uno scontro violento tra coloni israeliani in Giudea e Samaria (Cisgiordania) e i palestinesi locali. Questa strana divisione delle forze armate derivava da una realtà di fatto che verrà a galla quando Israele, come ha promesso, a guerra conclusa scaverà intorno alle ragioni di tale fallimento. Esistono infatti in Israele almeno due forze armate. Una, quella regolare, con la catena di comando ufficiale, sia pure piuttosto mal funzionante. L’altra, altrettanto regolare ma utilizzata a fini propri dagli ultra-estremisti del Governo Netanyahu, rappresentati in modo speciale da Itamar Ben-Gvir e Bezalel Smotrich. Due esponenti esplicitamente razzisti, convinti che si debba prima o poi – meglio prima

che poi – annettere direttamente tutti i territori «autonomi» palestinesi fino alla Valle del Giordano in quanto sono parte di Israele. In base a questa priorità, che strideva con l’urgenza di difendere lo Stato ebraico dalla «operazione speciale» di Hamas in preparazione a Gaza, le truppe israeliane si sono trovate in condizione svantaggiata e asimmetrica rispetto alla minaccia terroristica. Ma questo è solo il segnale attuale e militare di una crisi molto più profonda. La cui radice sta nella tribalizzazione della società israeliana, denunciata nel 2015 dall’allora presidente Reuven Rivlin in quello che è ormai passato alla storia come «il discorso delle tribù». Rivlin, esponente del Likud non esattamente sintonico con Netanyahu, aveva lanciato un allarme strategico sul futuro del Paese. La sua tesi, confortata dai fatti, era che la società israeliana si stava sfarinando e tendeva a dividersi in quattro tribù tra loro più o meno incompatibili: gli arabi israeliani, gli ultraortodossi (haredim), i sionisti religiosi moderati, i sionisti laici. Quattro realtà parallele che convivono, non sempre s’incrociano, spesso si trova-

no in conflitto all’interno dello Stato ebraico. Quel che è peggio, ciascuna di queste tribù segue un percorso educativo proprio. In particolare, gli arabi e gli haredim hanno dei curricula scolastici assai diversi da quelli della componente laica o religiosa più classica e moderata. Il che significa non solo produrre dei compartimenti stagni che si riflettono nella distribuzione territoriale (ogni tribù ha il suo spazio privilegiato, anche all’interno di una singola città), ma perdere il senso della Nazione. Questa è la premessa della crisi politica che scuote Israele dall’inizio del 2023 e che ha prodotto una spaccatura verticale sulle riforme istituzionali volute da Netanyahu: la messa sotto tutela della Corte suprema, considerata un bastione delle sinistre, che intendeva rovesciare i risultati delle elezioni, quindi la prevalenza delle destre. E insieme l’esaltazione del Potere esecutivo. Fin qui poteva apparire una crisi politica come se ne vivono in varie parti del mondo. La specificità israeliana consiste nel fatto che questo scontro si nutre della tribalizzazione e della crescente incomprensione reci-

proca tra i principali gruppi etnoculturali ebraici o meno e produce una miscela esplosiva. Miscela che è esplosa tragicamente con la carneficina del 7 ottobre e con la reazione israeliana che contraddice tutti i canoni finora seguiti dagli strateghi dello Stato ebraico: guerre brevi, protezione dei propri cittadini ostaggi del nemico, azioni dinamiche imprevedibili. Insomma, quello che si può permettere uno Stato piccolo, con pochi abitanti, circondato da nemici presunti o effettivi, ma molto efficiente, molto armato, molto motivato. Quel che oggi sembra mancare. Siamo ancora nell’occhio del ciclone, nessuno può prevedere come e quando si concluderà questa fase di scontro acuto e, soprattutto, se si allargherà ad altri territori e ad altri Paesi. Ma quando nella regione, avendo più o meno scampato il pericolo, si faranno i conti con questo evitabilissimo conflitto, non si potrà fare a meno di un esame di coscienza spietato sulle ragioni strutturali di quello che molti considerano solo uno specifico fallimento dell’intelligence e delle forze armate israeliane.


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ATTUALITÀ

Le lezioni delle guerre combattute altrove

Prospettive ◆ Taiwan guarda al conflitto in Medio Oriente e alla guerra russo-ucraina con crescente preoccupazione Giulia Pompili

La grande Moschea di Taipei, capitale di Taiwan, è a due passi dalla biblioteca della città, si affaccia su uno dei parchi più belli di un quartiere centralissimo, quello di Da’an, residenziale e anche particolarmente caro. È stata costruita subito dopo la guerra civile cinese, e rinnovata negli anni Sessanta grazie a un contributo dell’Iran e della Giordania e un prestito della Banca di Taiwan. È qui che la comunità musulmana ha di recente organizzato un ritrovo per raccogliere fondi per la Palestina. A Taiwan ci sono circa cinquantamila musulmani, e quelli che si raccolgono in questo luogo, per parlare della guerra in Medio Oriente, dicono che è giusto condannare la violenza ma il conflitto va messo in prospettiva: non si può considerare solo l’attacco di Hamas di sabato 7 ottobre. Anche l’imam della moschea di Taipei, Abdullah Cheng, ha spiegato: «Nessuno vuole sostenere Hamas con questo evento», ma la mappa e la bandiera della Palestina esposti sono «un simbolo dell’annosa questione della regione e della necessità per il popolo palestinese di raggiungere la pace e resistere all’oppressione».

Pechino ha atteso molto tempo prima di fare il primo comunicato sull’attacco di Hamas contro Israele L’Asia orientale tutta guarda al conflitto in Medio Oriente con preoccupazione: la distanza geografica non è una scusa per ignorare certe dinamiche, anzi. Il Governo della Repubblica di Cina, il nome formale di Taiwan, come gran parte del mondo occidentale, ha condannato l’attacco di Hamas contro Israele, ma sull’isola che la Repubblica popolare cinese rivendica come proprio territorio, anche se il Partito comunista cinese non l’ha mai governata, la guerra in Medio Oriente è diventata motivo di allarme. «La Cina parla della soluzione dei due Stati per risolvere la

questione tra Israele e Palestina, strano che la sostenga per tutti tranne che per noi!», dice Chia-hao, che ha quarant’anni e fa il manager in una compagnia telefonica. Pechino, che non ha mai escluso l’uso della forza per conquistare Taiwan, ha atteso molto tempo prima di fare il primo comunicato sull’attacco di Hamas contro Israele: prima ha parlato di «preoccupazione» per la situazione, invitando le parti «a mantenere la calma e a porre immediatamente fine alle ostilità», e poi, dopo le pressioni internazionali, ha fatto sapere di «opporsi agli atti che danneggiano i civili» e che «le azioni di Israele sono andate ben oltre l’autodifesa». La Cina non ha mai menzionato Hamas nelle sue dichiarazioni e mai il terrorismo islamico, ma per una ragione di opportunità diplomatica: la guerra in Medio Oriente è l’ennesima occasione per la leadership di Pechino, che sta cercando di avere un ruolo sempre più influente nella regione per proteggere i suoi interessi, per svalutare e screditare l’influenza occidentale e americana. Per Taiwan è tutta un’altra storia. Qui la guerra d’invasione dell’Ucraina da parte della Russia è stata studiata con attenzione, giorno dopo giorno, e adesso succede lo stesso anche con quella in Medio Oriente. La pioggia di missili di Hamas che ha bucato le difese di Israele – i satelliti e lo scudo antimissile Iron Dome – è una lezione da imparare, dicono funzionari della Difesa di Taipei. A rileggerla oggi, quella copertina di «The Economist» che nel 2021 definiva l’isola asiatica su cui abitano 24 milioni di persone «il posto più pericoloso della Terra», fa un po’ sorridere: a Taiwan nessuno si aspetta un’imminente invasione da parte della Cina, ma quello che è successo, da poco più di un anno e mezzo, è che è cambiata la consapevolezza, anche tra i taiwanesi. «L’invasione della Russia e l’attacco di Hamas ci hanno fatto capire che la guerra esiste, è una opzione concreta e bisogna essere preparati», dice Lia, trentadue anni, dipendente

Riservisti si addestrano durante una visita della presidente Tsai Ing-wen in una base militare taiwanese. (Keystone)

di una multinazionale. Il Governo ha cambiato la legge sulla leva obbligatoria, passata da tre mesi a un anno, e sull’addestramento dei riservisti. Ma, come dimostra Israele, il primo problema di Taiwan sono i missili: la Cina ha già mostrato di saper accerchiare l’isola militarmente e ha dispiegato batterie di missili a medio raggio sulla costa più vicina a Taiwan. «Fino a un paio di anni fa evitavamo di parlare esplicitamente di preparazione a un eventuale attacco per non rischiare di avere un effetto psicologico sulla popolazione», ci spiega un ex funzionario del ministero della Difesa di Taipei. Ora la strategia è cambiata e il discorso pubblico a Taipei è molto più esplicito. Di recente il parlamentare del partito di maggioranza, il Partito democratico progressista, Wang Ting-yu,

ha presentato un’interrogazione al ministro della Difesa Chiu Kuo-cheng portando alla luce un problema: i cittadini sanno dove devono rifugiarsi in caso di attacco missilistico o aereo? Da qualche mese l’Esecutivo ha rilasciato una app che si scarica sullo smartphone che serve a individuare il bunker antiaereo più vicino. Ma non è stata un gran successo. Allora si è passati ai cartelli stradali: i bunker sotterranei hanno iniziato a essere segnalati esplicitamente, e sono quasi sempre in corrispondenza con le fermate della metropolitana, ma si sta procedendo anche all’individuazione dei luoghi dove costruirne degli altri, soprattutto nelle grandi città, e alla tecnologia per rendere la rete di comunicazione resiliente. Alla fine di luglio per la prima volta nella sua storia Taiwan ha condotto un’esercitazione militare in caso

di attacco aereo in cui la popolazione ha dovuto partecipare attivamente: un modo per aiutare le persone a familiarizzare con il percorso da fare fino al bunker. «Sono tutte lezioni che stiamo apprendendo dalle guerre che, purtroppo, si stanno combattendo altrove», spiega l’ex funzionario. Ma c’è un altro elemento che mostra l’unicità della situazione tra Cina e Taiwan: Pechino non ha mai escluso l’uso della forza per «conquistare» Taiwan, ma allo stesso tempo i due Paesi sono strettamente connessi a livello commerciale e, nonostante il clima teso, non esiste odio tra le due popolazioni ormai divise da più di settant’anni e lontanissime. Questo il leader Xi Jinping lo sa. Un altro conflitto non conviene a nessuno, e solo l’odio può essere la miccia per scatenare l’ennesima guerra. Annuncio pubblicitario

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ATTUALITÀ

In Polonia spira un vento nuovo

Dopo il voto ◆ Le elezioni hanno dato un segnale forte: il Paese torna a guardare all’Europa e il futuro appare meno grigio Cristina Marconi

Mosca e Budapest da una parte; Berlino e Bruxelles dall’altra. Al momento di scegliere la direzione al termine di una campagna elettorale tesissima, la Polonia ha preferito la seconda, dando uno storico segnale di vitalità democratica in un Paese pericolosamente in bilico e regalando al mondo una delle poche notizie confortanti di queste settimane nere, soprattutto in seguito alla vittoria dei populisti in Slovacchia. Dopo otto anni di Governo con un marcato penchant sovranista e autoritario, la forte propaganda governativa si è scontrata con una mobilitazione senza precedenti. I partiti di opposizione capeggiati da Piattaforma civica di Donald Tusk, ex premier ed ex presidente del Consiglio Ue, hanno ottenuto risultati brillanti, lasciando l’uomo forte di Varsavia, Jaroslaw Kaczyński, alle prese con un tracollo: il suo partito, Diritto e Giustizia, PiS, rimane il primo, ma ha perso molto terreno e non sembra in condizione di creare alleanze sufficienti a garantirgli la maggioranza, che invece Tusk ha in mano nonostante le mille difficoltà.

A mobilitarsi sono stati soprattutto i giovani tra i 18 e i 29 anni, con un particolare coinvolgimento delle donne Partiamo dai dati: l’affluenza alle urne è stata enorme, oltre il 74%, più alta che nel 1989, quando i polacchi mandarono a casa il Governo comunista addirittura prima della caduta del muro di Berlino. E a mobilitarsi sono stati soprattutto i giovani tra i 18 e i 29 anni, più ancora degli ultrasessantenni, con un particolare coinvolgimento delle donne, a cui sono state riservate molte delle politiche più proibitive, in particolare in materia riproduttiva. Nel Paese dal 2021 l’aborto è legale solo in caso di stupro o di pericolo immediato per la salute della donna, ma sono medici e infermieri a rischiare il carcere. Il PiS ha preso il 35,38% dei voti e ha perso 41 seggi in Parlamento, fermandosi a 194, troppo pochi per contare su un’alleanza con l’ultradestra del Partito della Confederazione, che ha 16 seggi. Per governare ce ne vogliono infatti 231 e Tusk, che ha preso il 30,7%, ne ha 157, che uniti ai 65 di Terza via, partito di

Donald Tusk diventerà premier? (Keystone)

centrodestra che ha brillato in queste elezioni, ai 26 della sinistra di Lewica lo portano a 248. Anche il Senato è sotto controllo della coalizione, con 65 dei 100 seggi.

Il voto è stato definito democratico nonostante la pesante propaganda antieuropeista e filogovernativa Al di là dei dati, piuttosto eloquenti, è stata l’energia con cui la società polacca si è spesa per cercare di voltare una pagina molto pesante della storia del Paese a rappresentare il segnale più positivo. Agli osservatori Osce che hanno vigilato sull’andamento

del voto, definito democratico nonostante la pesante propaganda antieuropeista e filogovernativa, brillavano gli occhi raccontando delle lunghe file al freddo davanti alle urne, di pizze condivise, di thermos caldi portati dai vicini. Mentre a Varsavia Tusk ha preso il 60% dei voti, grazie anche al sindaco Rafal Trzaskowski, vedette dell’ala liberale di Piattaforma civica, nelle campagne ha inciso la scelta di molti elettori di muoversi in modo strategico, contando sul fatto che in Polonia i cittadini possono votare anche in posti diversi da quelli dove hanno la residenza. Per mettere sotto scacco il partito di Kaczyński in molti hanno percorso lunghe distanze. Pure i polacchi all’estero si sono dati da fare, con 600mila registrati al voto, os-

sia il doppio rispetto agli anni passati. Inoltre il PiS aveva voluto legare le elezioni a un referendum con quattro quesiti, riguardanti la sicurezza alle frontiere, l’immigrazione illegale, l’età pensionabile e la proprietà straniera delle società nazionali. Non hanno raggiunto il quorum del 40%. Kaczyński è «un’antologia del risentimento», secondo la definizione del saggista e giornalista britannico Timothy Garton Ash. Sopravvissuto al fratello Lech, con cui formavano un’inossidabile coppia politica dopo i trascorsi da bambini star nel firmamento cinematografico polacco degli anni del comunismo, ne ha portato avanti la visione ultraconservatrice da quando il gemello è morto nell’incidente aereo di Smolensk in

cui nel 2010 perse la vita buona parte della classe dirigente del Paese. Nemici della comunità LGBTQ+, i fratelli Kaczyński erano convinti sostenitori della necessità che la Germania risarcisse i danni arrecati a Varsavia durante la Seconda guerra mondiale. La loro è una visione che ha radici lontane – Lech era stato ministro con Walesa, era una delle menti di Solidarność prima che l’anticomunismo diventasse sovranismo reazionario – e che non può tramontare in modo scorrevole. Kaczyński non sta mollando la presa facilmente, nonostante abbia annunciato inizialmente di non avere la maggioranza per governare. Dalla sua ha il fatto di poter contare su vari gangli della macchina statale, piena di lealisti del PiS, a partire dal presidente della Repubblica Andrzej Duda, in scadenza nel 2025, passando per il governatore della Banca centrale finendo con un bel po’ di giudici della Corte costituzionale nominati dal Governo. E in particolare Duda, che ha il potere di veto e può bloccare l’azione di un Governo Tusk, il quale non avrebbe il 60% per poterlo aggirare, darà comunque il mandato al leader di PiS per fare un Governo, essendo il primo partito. A dicembre, se come sembra il tentativo andrà a vuoto, sarà Tusk a diventare premier. Politico di vastissima esperienza e solidi appoggi internazionali, premier dal 2007 al 2014 Tusk sarebbe però a capo di una coalizione non semplicissima, che conterrebbe sia i liberali, gli agrario-nazionalisti, sia la sinistra. La campagna elettorale è stata fatta in nome di un concetto generale e non di un programma dettagliato. «La Polonia ha vinto, la democrazia ha vinto», ha detto il sessantaseienne, che vuole riportare il Paese sulla via dell’Unione europea, con tanto di sblocco di fondi legato alle contestatissime riforme giudiziarie. Ma ognuno dei partiti della coalizione ha fatto campagna per conto suo e ora questioni come l’aborto e soprattutto il sostegno all’Ucraina, con cui è in corso una disputa sul grano, si preannunciano come scogli da superare. Mentre la vicina Ungheria continua a rimanere un baluardo dell’autoritarismo, i Polacchi sembrano felici di distinguersi, ora come trent’anni fa, lanciando un messaggio a tutte le destre europee: una stagione sta per finire, si torna a respirare.

«Il solo risparmio conviene ancora?»

La consulenza della Banca Migros ◆ Risparmiare è diventato più interessante dopo la svolta dei tassi dell’anno scorso ma sui conti privati gli interessi sono ridotti

Ho accumulato più di 20’000 franchi sul mio conto privato. È ragionevole tenerli lì o finirò per perderci? Dalla svolta dei tassi dell’anno scorso, il risparmio è ridiventato più interessante. In media, la clientela bancaria beneficia di un tasso d’interesse superiore allo 0,6%, in alcuni casi anche di interessi oltre l’1%, ma questo vale solo per il patrimonio sui conti di risparmio. Se invece il denaro si trova su un conto privato, gli eventuali interessi sono molto più ridotti: molte banche continuano a mantenere tassi d’interesse

Amalia Pons, consulente alla clientela presso la Banca Migros ed esperta di tematiche d’investimento.

zero. È quindi consigliabile lasciare sul conto privato solo la somma necessaria per il traffico dei pagamenti quotidiano e mensile e trasferire il resto su un conto di risparmio, tenendo però a mente che per gli averi di risparmio le banche stabiliscono dei limiti di prelievo e dei termini di disdetta. Ciò vuol dire che si possono prelevare immediatamente soltanto importi fino a una determinata cifra (ad esempio 30’000 franchi) e che occorre disdire anticipatamente per gli importi di maggiore entità, altrimenti vengono addebitate delle commissioni.

In linea di massima, oltre al conto privato è opportuno disporre anche di una riserva di denaro sul conto di risparmio, che le consente da un lato di raggiungere obiettivi di risparmio a breve termine, e dall’altro lato di affrontare spese impreviste. Allo stesso tempo, evita il rischio di perdita di capitale a breve termine, come nel caso di investimenti di capitale come azioni o obbligazioni. Tuttavia l’inflazione erode i suoi depositi di risparmio, cosicché nel lungo periodo lei effettivamente finisce per perderci. Eviti quindi di accumulare trop-

po denaro sul conto di risparmio. Su questo conto, a seconda della situazione personale e degli impegni finanziari, ogni economia domestica dovrebbe mantenere una «riserva di emergenza» di tre-sei salari mensili. Consiglio Chi vuole costituire un patrimonio nel tempo dovrebbe investire una parte dei risparmi in azioni o obbligazioni, ad esempio tramite fondi. Investiti a lungo termine, questi titoli offrono rendimenti più elevati.


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ATTUALITÀ

Giovanissimi sempre più fragili e violenti

Italia ◆ Un profondo malessere si traduce nel proliferare di baby gang dedite a risse, danneggiamenti, furti e rapine ma non solo

A fine settembre a Canazei, fascinosa località turistica della Val di Fassa, in Trentino, dodici ragazzi hanno devastato dopo un party la casa di vacanza di una famiglia bolognese: con metodo sono stati distrutti arredi, suppellettili, sanitari, pavimenti, infissi. I responsabili, all’epoca dei fatti minorenni, se ne sono vantati sui social e hanno postato video e foto della bravata. In tal modo i carabinieri li hanno individuati e le vittime hanno potuto chiedere 130mila euro di danni. I ragazzi sono figli d’imprenditori, di politici locali, di professionisti: quella che un tempo si sarebbe definita la media borghesia. Mentre a Calvenzano, in provincia di Bergamo, un gruppo di dodicenni-tredicenni ha preso di mira una fattoria specializzata nell’allevamento di bovini da latte. Si sono arrampicati sui teli, che coprono il fieno: li hanno squarciati, poi hanno liberato le mucche dalle stalle e danneggiato l’impianto elettrico di un trattore. Infine hanno sversato una latta di olio esausto, cui è stato dato fuoco. Quando sono intervenuti i carabinieri hanno sostenuto che si fosse trattato di un gioco.

Ad amplificare i reati dei giovanissimi sono i social media capaci di offrire un palcoscenico perenne alle loro gesta A Milano le feste organizzate all’esterno degli edifici scolastici dagli studenti dei due più prestigiosi licei scientifici, il Volta e il Leonardo da Vinci, sono state interrotte dall’irrompere di baby gang con spray urticante, tentativo d’impossessarsi di cellulari, orologi, catenine seguito da tafferugli, feriti, ambulanze, intervento della polizia a sirene spiegate. Sempre a Milano sono stati arrestati un quindicenne e un sedicenne per aver rapinato, pistola in pugno, un minimarket a «Chinatown». Si erano fatti consegnare l’incasso di giornata, circa 800 euro, ma il titolare li aveva inseguiti bloccandone uno. Quello con l’arma era riuscito a fuggire perdendo dalla tasca parte della refurtiva. Quando l’hanno ammanettato era in giacca e cravatta. Entrambi figli di famiglie straniere benestanti, ex allievi di un istituto privato internazionale con rette mensili da migliaia di euro. Purtroppo non sono casi isolati, almeno in Italia. Un team di esperti di polizia, carabinieri, guardia di finanza, polizia penitenziaria

e dell’Università Cattolica di Milano, in collaborazione con il Ministero dell’interno e il Dipartimento di giustizia minorile del Ministero della giustizia, ha prodotto il primo studio approfondito sul malessere giovanile, che si traduce nel proliferare di bande dedite a promuovere zuffe violentissime. Servono per marcare il territorio oppure, molto più semplicemente, per vendicare uno sguardo di troppo. Com’è capitato a Roma di recente. Più di quaranta ragazzi si sono ritrovati al parco di via Collegentilesco per darsele di santa ragione con mazze, bastoni, cinghie dei pantaloni usate come armi improprie. Erano quasi tutti minorenni, alcuni latinos, figli di sudamericani che abitano a est della capitale italiana, altri romani delle baby gang che fanno su e giù per i convogli della metro. Sono spuntati pure alcuni coltelli, nascosti su un bus di linea, dentro il quale una parte dei ragazzi ha continuato ad affrontarsi. Secondo gli Uffici di servizio sociale per minorenni (Ussm) il 94% è colpevole di risse, il 77% di furti e rapine, il 64% di bullismo, il 45% di disturbo alla quiete pubblica. E non è finita: il 67% dei ragazzi compie atti vandalici, il 62% spaccia sostanze stupefacenti, il 46% è dedito alle estorsioni. Spiccano i casi di violenza sessuale: un terzo delle vittime sono minorenni e il 67% dei violentatori ha un’età compresa tra i 14 e i 17 anni. E a colpire sono la mancanza di pentimento e l’indifferenza nei confronti di quante hanno subito il sopruso, quando non scatta il tentativo di coinvolgere chi ha patito l’abuso sostenendone una partecipazione attiva. Nel giudizio di Stefano Delfini, a capo della Direzione di analisi criminale interforze del Ministero dell’interno, «la crescita delle risse tra i minorenni è un fenomeno sempre più preoccupante da non sottovalutare. Tra le cause che hanno determinato l’intensificarsi di questi episodi c’è anche il Covid, che ha impedito la partecipazione dei ragazzi alle attività sportive e ha accentuato il bisogno di “sfogarsi” in vere e proprie lotte tra bande organizzate». Le città più esposte sono Milano, Torino, Genova: in prima fila gli stranieri di seconda generazione, i quali, come già capitato in Francia, faticano a integrarsi e spesso rimangono in bilico tra il Paese d’origine dei genitori e quello che li ha accolti. Da qui la tentazione di trovare nuovi vincoli d’appartenenza con l’adesione a una banda. Un caso a parte Napoli, dove

Unsplash

Alfio Caruso

la camorra esercita un’attrazione quasi irresistibile per l’80% della popolazione giovanile e spesso, ahinoi, rappresenta agli occhi di questi ragazzi l’unico ascensore sociale disponibile. A differenza del resto d’Italia, nella città partenopea si registra una diffusione delle armi perfino tra i quattordicenni, che crescono con il mito del

pistolero pur non avendo visto un film western. Sono un esercito quasi invisibile: crescono convinti che lo scopo della vita sia guadagnare a qualsiasi costo e che scappare dai percorsi normali di crescita acceleri l’avvicinamento all’età adulta. Il serbatoio ideale di manodopera per i boss e per i loro accoliti.

Ad accentuare e amplificare i reati dei giovanissimi sono i social media capaci di offrire un palcoscenico perenne a queste gesta. Quasi mai scatta la riprovazione, spesso anzi scatta il desiderio di emulare, di stupire, di conquistare quella notorietà, che non fa alcuna differenza tra il Bene e il Male. Allora vengono messe online aggressioni scaturite pure da atteggiamenti innocui come una sigaretta negata, una risposta affrettata. Tuttavia, i casi che più inquietano sono legati al bullismo, con la crescita esponenziale dell’elemento femminile, e alle forme di vendetta online a sfondo sessuale. Sullo sfondo il progressivo sfaldamento della scuola e della famiglia. La prima non solo fatica ormai da un ventennio a fornire un’istruzione in grado di favorire l’accesso al lavoro, ma denuncia anche problemi con l’educazione. D’altronde che cosa fare con studenti che portano armi in classe, che sparano con la pistola a pallini contro l’insegnante o che lo prendono a pugni? Fino all’altro ieri per costoro non era neppure prevista la perdita dell’anno scolastico, non parliamo poi di espulsione. In ogni caso la creatura troverà accaniti difensori in mamma e papà, i primi ad avere insegnato che esistono solo i diritti, mentre i doveri riguardano esclusivamente gli altri. Annuncio pubblicitario

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Cosa succede nel Canton Ticino? Il fenomeno della violenza che ha come protagonisti giovanissimi è sempre più diffuso anche alle nostre latitudini. Lo confermano i dati della Magistratura dei minorenni ticinese diffusi qualche mese fa: in totale gli incarti aperti nel 2022 sono stati 1284, quasi 300 in più rispetto al periodo 2011-2021, con 904 condanne (un record). In dettaglio, sono diminuiti i reati legati agli stupefacenti e aumentati quelli relativi al codice della strada. Si registrano meno reati contro l'integrità fisica delle persone ma più reati contro il patrimonio, in particolare furto e danneggiamento. Riguardo agli autori, la magistrata dei minorenni Fabiola Gnesa aveva dichiarato ai media: «Non si

tratta solo di ragazzi provenienti da famiglie con situazioni complicate. Noto una generale fragilità, nascosta da un apparente senso di onnipotenza. Servirebbero più strutture ed effettivi per aiutare chi delinque...». Ricordiamo che in Svizzera si può essere ritenuti penalmente responsabili già dall’età di 10 anni ma fino al compimento dei 15 anni non è possibile essere multati, tantomeno condannati a una pena detentiva. La pena più frequente, per i minori di 15 anni, è l’ammonimento. Si può inoltre essere obbligati a partecipare a un corso, a svolgere lavori di utilità pubblica o in rari casi a trascorrere un periodo in un foyer. / Red.

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«Non ci fidiamo dei nostri vicini: ci attaccheranno?» Reportage ◆ Da Oslo, Norvegia, fino al confine con la Russia: le storie degli scandinavi che temono di fare la fine degli ucraini Angelo Ferracuti, testo e foto

Trent’anni fa io e mio padre Mario iniziammo a parlare di un viaggio da fare insieme sulla «Strada blu», quella che parte da Mo i Rana nel nord della Norvegia, attraversa la Lapponia svedese arrivando nella regione dei laghi finlandesi fino in Carelia, e dopo 1200 chilometri finisce a Joensuu al confine con la Russia. Lui, che era un supermaratoneta, e aveva marciato di notte e di giorno per 48 ore nella pista di atletica del Coni di Ascoli Piceno il 19 maggio 1985 facendo 302 chilometri, avrebbe corso mentre io avrei raccontato questa sua nuova avventura seguendolo in camper. Continuammo a parlarne per molti anni ipotizzando anche un percorso di massima, fantasticando su quei luoghi costellati di laghi, fiumi e ghiacciai, grandi tundre di abeti e betulle, ma alla fine non partimmo mai. Restò per sempre la nostra memorabile avventura incompiuta. A cinque anni dalla sua morte ho deciso che avrei fatto da solo quel viaggio e, a metà settembre, sono volato davvero a Oslo. Ho fatto gli ultimi acquisti nella capitale norvegese, una vista al Parco di Vigeland o Parco delle sculture (dell’artista Gustav Vigeland), sono salito su una corriera che mi ha portato a Trondheim, poi ho viaggiato fino a Mo i Rana, ero già arrivato al Circolo polare artico.

In Scandinavia si sono tenute le esercitazioni Arctic Challenge 2023: 2700 soldati, 150 aerei militari, gli eserciti di 14 Paesi Ancora più a nord si trova Treriksröset, la triplice frontiera tra Russia, Norvegia, Svezia e Finlandia, sul Lago Goldajärvi. Naturalmente la guerra russo-ucraina ha cambiato moltissimo la politica militare dei tre Paesi nordici, e proprio in Scandinavia lo scorso maggio si sono tenute le esercitazioni Arctic Challenge 2023: 2700 soldati, 150 aerei militari, gli eserciti di 14 Paesi. «Putin ha intrapreso la guerra contro l’Ucraina con il chiaro obiettivo di avere meno Nato – ha sentenziato il segretario generale dell’Alleanza, il norvegese Jens Stoltenberg, ex leader del Partito laburista Arbeiderpartiet – e sta ottenendo esattamente il contrario». Il presidente russo ha «convinto» anche i membri del Partito socialista di sinistra SV, che appoggia il Governo di centrosinistra dall’esterno senza farne parte, una volta molto ostile alla Nato, ad avvicinarsi all’Alleanza. Lo ha confermato Ingrid Lorentzen Kildal, la segretaria cittadina che ho incontrato nell’albergo dove alloggiavo a Mo i Rana, una donna bionda, timida e sorridente: «Personalmente sono molto contenta che la Norvegia faccia parte della Nato. Nel mio partito la grande maggioranza è a

Strada blu in Norvegia. Sotto: Ingrid Lorentzen Kildal. In basso: Giuseppe Nencioni e Rolf Hugoson; una casa in Svezia.

favore (una volta non era così, a marzo la direzione ha votato in questo senso, ndr.) ma alcuni sono contrari. Siamo quasi al nord, in questa zona non c’è un senso di pericolo, ma più ti avvicini al confine e più la paura cresce, anche se la maggioranza della gente non pensa che il conflitto si estenderà, che la Russia attaccherà, o almeno lo spera». Così, con una piccola Toyota con cambio automatico noleggiata, sono partito per il mio viaggio, immaginando che mio padre corresse lungo i margini di quelle strade paradisiache, la sua andatura potente e lo sguardo fiero. In certi tratti ho visto piccole città nella regione di Trondelag (la cui capitale è Trondheim), zone residenziali con villette in legno, chiese in stile gotico con a fianco il cimitero di lapidi bianche, superate le quali si tornava dentro una natura incantata di abeti e betulle. A Umea, in Svezia, avevo appuntamento con Rolf Hugoson, professore di Scienze politiche esperto in diplomazia e conflitti armati, un uomo alto e sorridente, gli occhiali da vista con la montatura classica, e con il suo collega Giuseppe Nencioni, un italianista. «Quando il conflitto in Ucraina è cominciato – ha raccontato Hugoson – ho tenuto un discorso qui nella Piazza grande. Era tutto stranamente

surreale, la gente partecipava, ma per noi che studiamo questi eventi tutto era già cominciato nel 2014 con l’invasione della Crimea. Ho provato un senso di vergogna per non aver reagito prima. Non ho paura di questa guerra, la Svezia e la Finlandia sono storicamente unite da sempre. Duecento anni fa erano un solo Paese. Durante la Seconda guerra mondiale non eravamo neutrali, anche se la Svezia non combatteva c’era un aperto traffico di armi per supportare la Finlandia. E anche se dopo non stavamo nella Nato era chiaro che se ci fosse stato un conflitto saremmo stati dalla parte dell’ovest, con la Norvegia, con la Danimarca», ha sottolineato, «e sono felice che tutto l’Ovest sia unito contro la Russia per fermare l’aggressione di un dittatore pericoloso come Putin». Nencioni, che è anche uno studioso di storia, ha aggiunto: «La Russia è il tradizionale nemico da sempre. Con la guerra del 1804 la Finlandia è stata presa dagli Zar… La Svezia è stata sempre vista come un pericolo: lungo le sue coste negli anni Ottanta c’erano i sottomarini sovietici che facevano spionaggio». Poi mi ha spiegato che il popolo svedese è tendente alla razionalità, al controllo dei propri sentimenti, «quindi il pericolo si sente ma c’è anche un Governo, ci sono le alleanze, c’è un esercito. Se gli Stati Uniti e l’Europa continueranno ad aiutarla, l’Ucraina può combattere per quanti anni vuole, la Russia no, vediamo». Hugoson ha detto: «Sarà una nuova Corea, alla fine la Crimea sarà russa, l’Ucraina entrerà nell’Unione europea e la ricostruzione sarà un grande business per tutti». Sul traghetto per Vaasa (Finlandia) ho preso posto in una poltroncina rivolto verso il suonatore di piano bar che cantava su un piccolo palco della sala. Attorno a me ci saranno stati cinque o sei tavoli occupati da gente con un bicchiere incollato alle mani,

poco interessata alla sua musica. Così il musicista è sparito, lasciando spazio a una colonna sonora di brani registrati, tra i quali Riders On The Storm dei Door’s, ma anche Alabama Song (Whisky Bar). Dagli oblò si scorgevano le acque scure e agitate e del golfo di Botnia, il mare infinito intorno, che stavamo attraversando e il cielo color piombo. Sceso dal traghetto ho proseguito per Kuopio, attraversando una zona agricola di fattorie, lunghi stradoni che tagliavano la tundra artica. A mio padre sarebbero piaciuti quegli spazi sconfinati, la libertà di correre tra cielo e terra.

Al confine c’era un’aria di desolazione, solo poche automobili in entrata verso la Russia; nel senso inverso la strada era deserta Lì ho incontrato Liisa Taskinen, la presidente del Partito comunista finlandese, l’unico che si è opposto all’entrata nell’Alleanza atlantica. «L’attacco russo all’Ucraina – ha affermato – ha creato paura nella gente a causa della nostra storia in Finlandia, perché molti pensano che saremo il prossimo bersaglio e che la Nato sia necessaria per proteggerci. Noi nel Partito comunista non la pensiamo così, l’Alleanza atlantica non ci proteggerà ma renderà di nuovo la Finlandia un bersaglio». Secondo Taskinen bisogna avviare il prima possibile dei negoziati, «è fondamentale in questo processo la partecipazione dell’Europa che dovrebbe far sentire di più la sua voce». Qualche chilometro ancora e sono arrivato a Joensuu, una città turistica che si trova vicino al confine con la Russia. È nota soprattutto per via delle stazioni sciistiche e ha una grande estensione. Una larga strada trafficata a quattro corsie porta da Onttola dove alloggio verso il centro, che non è al-

tro che una grande piazza senza storia con il palazzo del municipio in fondo, da una parte, e quello del teatro dall’altra. In mezzo baracchini di street food con kebab gestiti da magrebini e turchi, e ragazze russe che vendono funghi freschi, finferli e porcini, oltre a edifici con dentro piccoli centri commerciali. Henrietta Macrì, padre italiano e madre finlandese, che di professione fa l’interprete e promuove il turismo, mi ha confessato: «C’è molto timore, non ci possiamo fidare dei nostri vicini, chissà cosa succederà domani, se ci attaccano o no, abbiamo sempre diffidato della Russia anche per ragioni storiche, però abbiamo fiducia nello Stato finlandese, nel nostro esercito», qui tra i giovani se ne parla molto, e poi ci sono molti profughi ucraini, «ho fatto lezione anche nei garage ai bambini rifugiati, ho incontrato donne che vivono qui senza i mariti che invece stanno combattendo». Invece i suoi amici russi che vivono a Joensuu hanno i parenti dall’altra parte del confine che «sono per Putin, vittime della propaganda, delle fake news, non riescono a spiegare loro come stanno veramente le cose». Una volta invece venivano molti russi in vacanza, «venivano a fare shopping, a comprare le pellicce, hanno costruito anche molte ville che adesso sono disabitate, e i turisti sono scomparsi». In un bar ho incontrato Jere Nuutinen, un ragazzo vestito elegante del Partito di centro finlandese e presidente del Consiglio comunale, di orientamento liberale. «Questa è una città di 76’000 abitanti», ha esordito. «Molte di queste persone sono di lingua russa, tra le due parti di Carelia c’è sempre stato un rapporto molto forte. Mia nonna e altri parenti vivono dall’altro lato della frontiera; prima della guerra venivano a trovarci, adesso non è più possibile». Ha detto che la situazione è sotto controllo: «I nostri militari sono schierati, non abbiamo paura, però bisogna seguire gli sviluppi della guerra, perché con Putin non si sa mai cosa può succedere, e comunque le truppe russe che stavano al confine sono state spostate nel teatro di guerra ucraino e l’entrata nella Nato ci mette in una situazione di maggiore sicurezza». Ha spiegato che prima molti erano a favore della neutralità, ma dopo l’inizio della guerra la situazione è completamente cambiata. «I politici europei dovrebbero pensare di più che questa guerra ha avuto delle conseguenze economiche molto pesanti per noi. La chiusura delle frontiere è stato un disastro, ha aggravato la situazione. Bisogna sviluppare dei nuovi traffici, dei nuovi commerci con i Paesi europei». La frontiera con la Russia si trova a Nirala, a sessanta chilometri da Joensuu. L’ho raggiunta attraversando una strada che tagliava una tundra di abeti alti dalle chiome giallastre e betulle; l’incanto di colori che in questo autunno pieno dal verde virano al giallo, al rosso e all’arancio sui tronchi. Al confine c’era un’aria di surreale desolazione, solo poche automobili in entrata verso la Russia; nel senso inverso la strada era deserta, qualche tempo prima il Governo aveva vietato l’ingresso dei veicoli con targa russa. Oltre il confine c’è la Russia e una guerra che ha già provocato la morte di 100’000 persone tra militari e civili, c’è l’ignoto e la Nazione che il premio Nobel per la letteratura Svetlana Aleksievič ha definito impietosamente: «Era il Paese che leggeva di più. Ora ascolta solo la propaganda e manda i suoi figli a uccidere e razziare».


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Settimanale di informazione e cultura

Anno LXXXVI 23 ottobre 2023

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azione – Cooperativa Migros Ticino

ATTUALITÀ / RUBRICHE

Il Mercato e la Piazza

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di Angelo Rossi

Le due realtà dell’inflazione ◆

L’altro giorno al supermercato ho fatto notare alla collaboratrice che stava facendo la revisione delle rimanenze che i prezzi dei prodotti aumentavano di settimana in settimana. «Dica pure di giorno in giorno», mi ha risposto di sottecchi. In effetti, quello che stiamo vivendo dall’inizio dell’anno, è un periodo di generalizzazione dell’inflazione. Mentre nel 2022 l’aumento dei prezzi si concentrava nel settore energetico, ora tocca i prodotti di tutti i settori. Che i prezzi aumentino lo constatate voi stessi confrontando quanto spendevate per l’alimentazione nell’ottobre di due anni fa e quest’anno. Ma l’insieme dei prezzi cresce molto meno: lo prova l’evoluzione dell’indice dei prezzi al consumo che, in settembre, segnalava un aumento pari all’1,7% rispetto al settembre dello scorso anno. Ci sono dunque due realtà inflazionistiche? Sì, da un lato c’è l’inflazione che viene

misurata dall’indice dei prezzi al consumo. E dall’altra c’è l’inflazione, con tassi più elevati, che tutti noi sperimentiamo, nella nostra veste di clienti del supermercato, inquilini, automobilisti e consumatori di vari prodotti e servizi. Sorprende poi constatare che mentre la prima inflazione sta diminuendo – almeno per il mese di settembre rispetto al mese di agosto – la seconda continui ad aumentare. L’inflazione ufficiale è in diminuzione dappertutto. In Europa era pari al 5,3% nel mese di luglio 2023 contro un 8,9% del luglio 2022 (dati Eurostat). Il rincaro annuale non è uguale in tutti i Paesi. In testa alla lista c’era, quest’anno, la Turchia con un tasso di inflazione pari al 48%. Altre Nazioni con tassi di inflazione elevati – tra il 10 e il 20% – erano l’Ungheria, la Serbia e la Polonia. In coda alla classifica veniva invece il Belgio (+ 1,7%). Con il 2,1% la Svizzera si trovava – in

luglio del 2023 – al terzultimo posto. Era dunque una delle Nazioni europee nelle quali l’inflazione si era ridotta al minimo. Le cause di questa diminuzione della pressione inflazionista sono facili da trovare: dall’anno scorso a quest’anno l’aumento dei prezzi dell’energia si è contratto molto. In qualche caso, nonostante la guerra in Ucraina e la politica restrittiva dell’OPEC, l’Organizzazione dei Paesi esportatori di petrolio, si sono registrate diminuzioni di prezzo dei vettori energetici. Di conseguenza l’indice dei prezzi al consumo, nel quale il consumo d’energia ha un peso importante, ha visto il suo tasso di aumento annuale diminuire. Ma accanto a questa inflazione «ufficiale», c’è quella che registra ognuno di noi quando, ad esempio, si reca a fare la spesa. Quest’ultima ha due componenti. Da un lato la crescita dei prezzi dei prodotti nelle loro

confezioni tradizionali: come la bottiglia di olio d’oliva da un litro che è passata da 14,60 franchi a 16,60 (+16% circa). Dall’altro invece c’è l’aumento dei prezzi che è dovuto alla riduzione della quantità venduta al vecchio prezzo. A questo proposito si parla di «riduflazione» o «sgrammatura». Per poter fare un confronto sull’aumento dei prezzi dei singoli prodotti e servizi occorrerebbe avere a disposizione una statistica aggiornata dei prezzi che entrano a comporre il paniere tipo che serve per il calcolo dell’indice dei prezzi al consumo. Per il momento una lista di prezzi aggiornata di questo tipo non è disponibile; disponiamo delle variazioni dei prezzi del paniere nel caso di altri Paesi. Prendiamo il caso della Spagna che nel luglio 2023 aveva il medesimo rincaro annuale della Svizzera, ossia il 2,1% (dati Eurostat). Nonostante il tasso medio di rincaro fosse basso, le

variazioni annuali dei prezzi dei beni alimentari come l’olio di oliva, lo zucchero, il riso, le patate, la carne di maiale e il latte in Spagna erano superiori al 15%. È probabile che, anche nel caso della Svizzera, a un tasso di aumento annuale dell’indice dei prezzi al consumo relativamente basso possa corrispondere un largo ventaglio di aumenti di prezzo con tassi di aumento molto più alti per prodotti di largo consumo. Che questi incrementi non influenzino l’evoluzione del tasso medio dell’indice dei prezzi al consumo è dovuto alla poca importanza della spesa alimentare nel totale della spesa delle nostre economie domestiche. Questo spiega perché oggi il consumatore sente il rincaro in modo più profondo di quanto sia in grado di registrare l’indice dei prezzi al consumo. C’è dunque un’inflazione misurata dalla statistica ufficiale e una che invece si sente direttamente.

In&Outlet

di Aldo Cazzullo

Quando la pace è un sogno impossibile ◆

La tragedia del Medio Oriente ha un colpevole, Hamas. Qualsiasi discorso non può che cominciare con la condanna del massacro di civili israeliani: un crimine contro l’umanità che niente può giustificare. Non giustificare però non significa rinunciare a capire, che è fondamentale per evitare che i massacri si ripetano. Israele ha ucciso di volta in volta i capi di Hamas: due solo nel 2004, lo sceicco Yassin e Rantissi. Ma Hamas nominava un capo ancora più spietato. Ora Israele è convinta a eliminare Hamas per sempre. Ma è come se Hamas avesse teso una trappola: «Volete Gaza? Venite a prendervela». A gestire la crisi è il leader più longevo della storia di Israele. Nello stesso tempo, è un leader debole e screditato, almeno agli occhi di metà della popolazione. Israele non riesce a vivere né con né senza Benjamin Netanyahu. Quando divenne premier nel 1996

in America c’era Clinton, in Germania Kohl, in Francia Chirac, in Russia Eltsin, in Egitto Mubarak. I suoi colleghi sono quasi tutti morti. Lui nel 1999 perse le elezioni contro Ehud Barak, l’ultimo premier laburista, capo di un partito che aveva fondato lo Stato ebraico e ora in pratica non esiste più. Con Barak è morto il sogno della pace: Israele la considera impossibile, e l’unico leader cui la maggioranza relativa dell’unica democrazia del Medio Oriente fino all’altro giorno era disposta ad affidare la propria protezione resta il fratello di Yoni Netanyahu, l’eroe di Entebbe. Nel 2019 andai a un comizio di Netanyahu e intervistai suo fratello minore, Iddo, che raccontò la morte del maggiore, Yoni, capo e unica vittima del raid israeliano che liberò gli ostaggi di Entebbe (Uganda): quattromila chilometri di volo radente notturno per sfuggire ai radar, il dittatore Amin Dada costret-

Il presente come storia

to alle dimissioni. Dopo la morte del primogenito, Bibi e Iddo lasciarono l’America e si arruolarono nell’esercito israeliano. Sono cose che vanno conosciute, per capire e valutare. L’unico vero leader alternativo a Netanyahu emerso in questi anni è Benny Gantz, ex capo di Stato maggiore, ora entrato al fianco di Bibi nel Governo di solidarietà nazionale. Gantz in passato ha fatto a Israele la promessa più rivoluzionaria: la normalità. Ma Israele non pensa e non sente di vivere tempi ordinari. Netanyahu vive in una campagna elettorale permanente: in questi anni ha stretto la mano a tutti i suoi compatrioti. Ha seppellito politicamente l’ostile Obama, ha flirtato con Trump – che ha portato l’ambasciata americana a Gerusalemme – e ora si confronta con Biden, che lo scongiura di lasciar perdere l’invasione di Gaza. Netanyahu è amico di Putin. Dialoga con Al Sissi. Si con-

fronta con Erdogan e con la dinastia saudita. È rispettato dai cinesi, temuto dagli ayatollah, detestato da gran parte della stampa del suo Paese. Non è un uomo di pace, ogni volta che oscilla nei sondaggi rilancia assicurando che con lui non ci sarà mai uno Stato palestinese e che presto annetterà almeno un terzo della Cisgiordania; ma non ha mai scatenato una guerra (l’ultima, l’invasione del Libano, fu decisa da Ariel Sharon e condotta dal suo successore Olmert). Netanyahu, cresciuto negli USA, fino all’altro ieri è stato percepito come un leader adatto al mondo globale e nello stesso tempo come il più affidabile difensore della terra, dell’identità, degli interessi del popolo di Israele. E questo ha indotto ancora molti a perdonargli l’uso spregiudicato del potere, della propaganda, financo del nemico alle porte. Più che da quello palestinese, Israele è accerchiata dal nemico iraniano, che

prepara l’atomica e nel frattempo arma, addestra, finanzia Jihad e Hamas a sud, Hezbollah a nord, il regime di Assad a est. Ma – nonostante questo, o proprio per questo – metà Israele non si era mai sentita così al sicuro come con Netanyahu. Ora tutto questo è stato infranto dall’attacco di Hamas. Cui difficilmente Netanyahu sopravvivrà politicamente. Comunque vadano le cose a Gaza. Anche i palestinesi sono divisi. Hamas con l’attacco del 7 ottobre ha voluto lanciare un messaggio: «I veri nemici di Israele siamo noi». In Cisgiordania c’è un leader anziano, Abu Mazen, che ha 88 anni e da tempo non convoca elezioni nel timore di perderle. Se davvero Hamas resistesse all’attacco israeliano diventerebbe più forte di prima. E questo non possono permetterselo né gli israeliani, né i palestinesi che ancora credono, se non nella pace, in una prospettiva politica per il proprio popolo.

di Orazio Martinetti

Amori e disamori ferroviari

Com’è noto, le principali arterie che attraversano il Cantone, prima la rete viaria e poi la ferrovia, hanno determinato il destino della regione, nel bene e nel male (più nel bene che nel male, a conti fatti, anche se non mancano le zone d’ombra, le delusioni e le decisioni vissute come discriminazioni). Le implicazioni che ne sono derivate sono molteplici, da quelle geopolitiche (la scelta del tracciato) a quelle economico-finanziarie, al centro fin dall’Ottocento di ricorrenti ansie per la salute delle casse dello Stato e per il timore che le richieste del Cantone cadessero nel vuoto. Sappiamo anche come la ferrovia del Gottardo, inizialmente in mani private, sia stata all’origine di malumori e proteste, e non solo perché applicava tariffe maggiorate per superare le tratte di montagna da Biasca ad Amsteg. Per ridurle furono necessarie reiterate ed energiche «rivendicazioni», anche quando l’eser-

cizio fu assunto dalla Confederazione nella prima decade del Novecento. Ripetute petizioni e manifestazioni sulla piazza federale accompagnarono anche la seconda grande rivendicazione: la galleria stradale sotto il massiccio. Anche qui si dovette alzare la voce per smuovere dal torpore le autorità federali: «Il problema del San Gottardo – esclamò Bruno Legobbe nel 1957 durante un’assemblea della Nuova Società Elvetica – deve essere risolto al più presto: con Berna o senza Berna, con Berna o contro Berna». La terza rivendicazione – AlpTransit – è stata meno osteggiata, anche perché sostenuta da un doppio voto popolare, in una fase in cui urgeva trasferire il traffico pesante dalla strada alla ferrovia (un’esigenza condivisa da tutte le principali forze politiche). Rimane, per ora, a mezz’aria la quarta rivendicazione, ovvero il completamento della linea veloce da Lugano alla fron-

tiera, e anche oltre, lungo l’asse che porta a Milano. Mugugni e arrabbiature a parte, l’opinione pubblica considera il sistema ferroviario elvetico un bene di famiglia. Tuttavia il trasporto su rotaia – di viaggiatori e di merci – non è privo di insidie ed imprevisti, come si è visto con il recente deragliamento nella galleria di base. Rimane comunque più sicuro del traffico veicolare nel computo delle vittime (241 morti in incidenti stradali nel 2022). L’ultimo grande disastro sulla linea ferroviaria del Gottardo avvenne nel 1924 alla stazione di smistamento di San Paolo, presso Bellinzona: nello scontro tra due treni perirono quindici persone. Le cronache narrano anche di disgrazie avvenute ai passaggi a livello e nel corso di lavori di manutenzione. La sicurezza è da sempre al centro delle preoccupazioni dei ferrovieri e dei loro familiari. Un’esigenza acuita dal transito su suolo el-

vetico di convogli – carri e locomotive – appartenenti a compagnie estere. Argomento non nuovo: già nel 1950, durante una conferenza internazionale tenutasi a Lugano, uno dei temi in discussione fu «l’esame della possibilità di applicare norme uniformi circa la circolazione dei carri ferroviari privati sulle reti ferroviarie delle varie nazioni». Come si sarà capito, sono numerosi gli addentellati per chi si accinga ad illustrare gli aspetti sociali dell’impresa ferroviaria, un sistema di comunicazione che fin dalla sua sferragliante irruzione nel piccolo e isolato Ticino ha rimescolato e gerarchizzato i rapporti tra territori e ceti sociali. La dorsale autostradale è recente, conta pochi decenni di vita; la ferrovia invece è ultrasecolare se prendiamo come termine di confronto l’apertura, nel 1882, del tunnel tra Airolo e Göschenen. La sua costruzione ha portato nelle valli ticinesi migliaia di operai italiani, un’im-

migrazione che al confine s’incrociava con quello dei contadini dell’arco alpino in partenza per la California. Successivamente la ferrovia ha creato un gran numero di posti di lavoro, sia nelle stazioni, nei depositi e nelle officine, sia nel comparto del personale viaggiante. Con le poste e l’esercito, ha favorito la formazione di un corposo ceto medio, in cui anche la donna, prima relegata tra le pareti domestiche, ha potuto trovare un suo spazio e intraprendere così un percorso di emancipazione. E pure i figli, che hanno potuto accedere agli studi superiori, dal liceo all’università. Lavoro, solidarietà, promozione sociale, senso di appartenenza a un’impresa corale, ma anche disgrazie, incidenti e deragliamenti. Una futura, complessiva storia sociale delle nostre ferrovie non potrà non tener conto di tutti questi aspetti, dalle ripercussioni economiche ai risvolti cultural-linguistici.


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Anno LXXXVI 23 ottobre 2023

azione – Cooperativa Migros Ticino 35

CULTURA ●

Il giovane Giacometti Una mostra ripercorre la vita dell’artista dagli anni del liceo a Schiers fino ai primi anni parigini

Diritti umani al centro I film da non perdere questa settimana alla decima edizione del Film Festival Diritti Umani

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L’importanza di Clara Lonzi Claudia Durastanti, curatrice della collana La Tartaruga, racconta la pensatrice e poeta femminista

La rivoluzione musicale Uno sguardo su TikTok, il social media che sta rivoluzionando la diffusione e l’ascolto della musica

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Georges Feydeau e la meraviglia del caos

Intervista ◆ Carmelo Rifici presenta La pulce nell’orecchio, il suo nuovo spettacolo in programma al LAC il 7 e l’8 novembre Sabrina Faller

La prima domanda che sorge spontanea a chi ha seguito il percorso di Carmelo Rifici è: perché ha scelto Feydeau? Perché a me interessano molto le sfide. Il mio percorso è sempre stato costellato da sfide letterarie e drammaturgiche, che mi hanno portato a scoprire nuove possibilità. Ho messo in scena testi di Lagarce in passato, che erano commedie e in qualche maniera rubavano da Molière, da Feydeau. Però non mi era ancora capitato di andare sulle grandi commedie del passato e, dato che mi sono accorto di quanto in questi anni ho lavorato su testi che scavavano nella profondità degli abissi dell’animo umano, ho pensato che anche la comicità ha i suoi abissi osservati da un altro punto di vista e che quindi era giunto per me il momento di accostarmi a quella drammaturgia per vedere se riuscivo a coglierne degli aspetti interessanti e soprattutto che possano riguardare il nostro presente. Si dice che la comicità di Feydeau sia un meccanismo perfetto e come tale vada rispettato se si vuole che funzioni. Comicità di battuta, di situazione, di gesti e movimenti. Si può non rispettare? Noi ci creiamo delle aspettative su un testo, ma queste aspettative non si sa bene da chi siano state costruite: dalle università? Dalle accademie? Da un modo di guardare al teatro? Dal conservatorismo dello sguardo? Il mio percorso viene da tutt’altro. Quindi dal mio punto di vista il tradimento più grosso rispetto a un testo è quello di pensare di portarlo come un museo sul palcoscenico, perché dobbiamo pensare che un autore, quando scrive un testo, lo scrive per la propria società, con le regole di quella società e soprattutto per disarmare o distanziarsi o ribaltare quelle regole, e quindi cosa obbliga noi a fare un lavoro museale su quel testo? L’importante è che quello che si rispetti sia l’intenzionalità del testo, la vocazione di quel testo, l’obiettivo di quel testo. E questo credo di avere abbastanza competenze per com-

prenderlo, dopo tanti anni di lavoro. Poi se mi si chiede se la cosa funzionerà o meno, quello è il bello del teatro. Lo vedremo soltanto quando andremo in scena. Dietro la facciata comica Feydeau propone una satira sociale, mettendo alla berlina la società a cui appartiene. Immagino che ne abbia tenuto conto nel suo allestimento. Ovvio. Quello c’è e non si può cambiare. Abbiamo una comicità che nasconde il piano della satira e della critica e poi c’è la regia che di solito va oltre e si chiede se il piano della satira e della critica, che è quello che viene di solito individuato dal pubblico e da chi studia un testo, invece nasconda qualcos’altro, qualcosa che sta ancora più sotto. Secondo me sì, questo testo o comunque questo spettacolo tende a mostrare qualcosa di più interessante. Il testo sfiora la morte più volte. C’è un personaggio abbastanza matto, uno spagnolo che cerca una sola cosa all’interno dello spettacolo: che qualcuno muoia o che qualcuno si porti a letto sua moglie, ma non per una specie di pruderie erotico-sessuale che è invece la trappola in cui casca il pubblico. In realtà lui cerca la morte di qualcuno. Ma non c’è un motivo per cui questa morte viene cercata. E allora bisogna capire: qual è la cosa importante? Il desiderio di morte o come viene risolto sul palcoscenico? È come viene risolto sul palcoscenico. Fondamentalmente i personaggi di questa commedia non possono morire. Lì inizia il lavoro interessante del regista. Perché non possono morire? Perché il genere commedia lo evita o perché il genere commedia ha all’interno del suo meccanismo un antidoto al male? È come se facesse un’azione terapeutica, disinnescasse il male. Vuole depotenziare il male che nella tragedia trova il suo compimento come possibilità catartica, e quindi in qualche modo, per evitare che il pubblico lo desideri, lo propone. Per depotenziare quel male, quel desiderio diabolico che l’uomo porta dentro di sé, la commedia crea, attraverso un’altra strada, un’azione catartica. Questo è l’esperimento che cerchiamo di fare senza togliere questa vocazione di Feydeau alla superficie, a non andare dentro. Ma quel dentro esiste? Questa è la domanda che mi sono posto e quindi anche la domanda se la commedia non è altro che il ribaltamento della tragedia con le stesse identiche funzioni catartiche rispetto al compito del pubblico di liberarsi di qualche cosa di ombroso, che dentro c’è e che continua a suggerirci di non essere dei buoni cittadini o delle buone persone, perché il teatro ha quella funzione, liberare quel tipo di ombra.

© LAC - Foto Studio Pagi

Si prova in questi giorni La pulce nell’orecchio di Georges Feydeau, un classico del teatro comico, con la regia di Carmelo Rifici (nella foto), curatore di traduzione, adattamento e drammaturgia insieme a Tindaro Granata, nuova produzione del LAC e del Piccolo Teatro di Milano, che vedrà la luce il 7 novembre, con replica l’8. In palcoscenico cubi bianchi e rosa e un armadio a due ante, colpiti dalla luce dei fari. Nel silenzio ovattato collaboratori e assistenti si muovono senza rumore. Un’intervista con Rifici schiude nuovi orizzonti sul teatro di regia, è quasi un’avventura.

Uno degli aspetti che più sembrano interessarle è il linguaggio. «La pulce nell’orecchio è una farsa sul linguaggio, o meglio una farsa di linguaggi» dice lei. Ci spieghi meglio. C’è una battuta molto bella del dottore, che credo sia il personaggio più vicino a e nello stesso tempo antitetico a Feydeau. Camillo, personaggio chiave della commedia, ha il palato perforato e quindi non riesce a pronunciare le consonanti, può parlare solo con le vocali, e questo sembra un difetto. Il dottore viene a correggere questo difetto con un apparecchio. Dice una frase che sembra semplicemente legata all’utilizzo dell’apparecchio, ma in realtà è la metafora del testo, e dice: come mai a noi manca (manca a Camillo, ma utilizzo il plurale) la facoltà di parlare? Nella volta costruita all’interno dell’uomo, qualche cosa è andata persa. È andato perso un palato su cui le parole dovrebbero rimbalzare e tornare indietro con un significato. Quando questa volta scompare – questa volta è l’ordine fondamentalmente – le parole cominciano a smarrirsi

nei condotti interni dell’umanità fino a cogliere i lati più oscuri, perdersi, creare caos. Che cos’è questo parlare, però? Questa è la domanda interessante. Questo linguaggio, in cui ci fa sprofondare il dottore, sembra ricreare l’ordine – un ordine che torna alla fine, come in tutte le grandi commedie – ovvero loro si perdono, si perdono nei loro desideri, nella loro voglia di trasgressione, e poi tornano all’ordine grazie alla parola. Ma questo ordine non torna. Perché? Perché secondo me quello che ci suggerisce Feydeau è che non è la parola logica, razionale, che rimbalza dal palato, che fa tornare l’uomo nell’ordine, perché proprio quel personaggio, Camillo, che quando non ha la parola è un personaggio poetico, comico, malinconico, cioè un personaggio veramente empatico, quando poi mette l’apparecchio diventa grigio, sterile, noioso, burocratico. Quindi è come se Feydeau ci dicesse sì, è vero che la parola rimette tutto in ordine, ma è vero che quell’ordine è triste, è poca roba rispetto alla meraviglia del caos.

Feydeau scrive La pulce nell’orecchio nel 1907. Siamo in piena Belle Epoque, pochi anni dopo scoppierà la Prima Guerra mondiale in un’Europa che a tempo di valzer o di cancan sta danzando sull’orlo dell’abisso. Si percepisce questa tragedia incombente nel suo allestimento? Qua entra il mio desiderio di rispettare un tabù che mette Feydeau: di sfiorare la tragedia ma non entrare nella tragedia. Questo non significa che non ci sia nel testo. Il testo ha questa potenza. Infatti, come ho detto prima, sfiora la morte più volte e lo fa però senza obiettivi politici o sociali. È un sentore. Più che legato all’attività geopolitica del mondo, quindi, è il sentore esistenziale che Feydeau avverte come una pulsione di morte che va curata. E questo io lo avverto oggi fortemente. Informazioni L'intervista continua ed è disponibile in versione integrale sul nostro sito www.azione.ch


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CULTURA

L’origine della vocazione artistica di Giacometti

Mostre ◆ Ritratto dell’artista da giovane è l’omaggio che il Museo d’arte dei Grigioni dedica al pittore e scultore bregagliotto Elio Schenini

È con un esplicito richiamo a Joyce e al suo Ritratto dell’artista da giovane, che Stephan Kunz e Paul Müller hanno deciso di titolare la mostra che il Bündner Kunstmuseum di Coira dedica agli anni giovanili di Alberto Giacometti. Un richiamo, quello al romanzo di formazione joyciano scritto tra il 1914 e il 1915, che ci pare particolarmente azzeccato, perché riassume perfettamente l’impostazione di un’esposizione, che, a differenza di altre organizzate in passato, non si propone di mettere in relazione l’opera matura dell’artista con quelle degli esordi per cercare, attraverso suggestioni analogiche più o meno fondate, elementi di continuità tra opere spesso molto distanti cronologicamente tra di loro. In questo caso, invece, i curatori si sono soffermati esclusivamente su quel decennio che parte all’incirca alla metà degli anni Dieci e arriva appena oltre la metà degli anni Venti, per illuminare con ampiezza di esempi e materiali il precoce manifestarsi della passione artistica e la rapida conquista di un’assoluta padronanza degli strumenti espressivi da parte del maggiore e più talentuoso dei quattro figli avuti da Giovanni Giacometti e Annetta Stampa. In questo racconto che va sostanzialmente dagli anni del liceo a Schiers

Giacometti al cinema Giovedì 26 ottobre esce nelle sale ticinesi il documentario I Giacometti: una straordinaria famiglia di artisti della Val Bregaglia a cura di Susanna Fanzun, presentato in anteprima alle Giornate di Soletta e al Locarno Film Festival. La regista engadinese segue le orme dei Giacometti e accompagna il pubblico in un viaggio alle origini della loro creatività. Dipinti magistrali accompagnati da schizzi, lettere personali, testimonianze d’epoca e immagini mozzafiato di paesaggi alpini che portano nel cuore di questa straordinaria famiglia.

fino ai primi anni parigini, quando Alberto completa la propria formazione scultorea con Antoine Bourdelle all’Académie de la Grande Chaumière, i ritratti e in modo particolare gli autoritratti hanno un ruolo centrale. Partendo dal primo ancora incerto autoritratto del 1914, realizzato all’acquarello quando l’artista aveva solo tredici anni e arrivando agli oli dei primi anni Venti – si vedano quello a mezzo busto del 1920 conservato alla Fondazione Beyeler e soprattutto quello a figura intera del 1921 conservato al Kunsthaus di Zurigo, vero e proprio capolavoro del periodo giovanile – possiamo osservare come, ancora giovanissimo, Alberto abbia iniziato a considerarsi e a rappresentarsi come un artista. Nello sguardo scrutatore e serio con cui osserva se stesso allo specchio in alcuni disegni del periodo di Schiers, traspare la determinazione e la dedizione con cui, poco più che adolescente, Giacometti affronta la scelta di diventare un artista, prendendo su di sé l’impegno della propria formazione. L’emergere di questa vera e propria «vocazione» artistica si nutre di una pratica costante, a cui Alberto si dedica in ogni momento libero dagli impegni scolastici, come testimoniano, oltre agli autoritratti, anche la fitta serie di ritratti, i cui soggetti includono in primo luogo i suoi famigliari, ma anche compagni di scuola e abitanti della valle. Nei disegni, negli acquarelli, negli oli e nei primi timidi esperimenti scultorei di questo periodo, in cui compaiono spesso i fratelli Bruno e Diego, la sorella Ottilia e la madre Annetta, possiamo osservare come Alberto vada via via affinando e precisando il proprio linguaggio pittorico, che, ovviamente, e non potrebbe essere altrimenti, si sviluppa in stretto dialogo con il modello rappresentato dall’opera paterna. E così nell’intimo e raccolto milieu familiare e scolastico che queste opere tratteggiano possiamo seguire la maturazione stilistica di Alberto in un percorso che ripercorre passo passo le orme paterne e nel quale si intrecciano, amalgamandosi in una formulazione sempre più autonoma e

Alberto Giacometti, Autroritratto, 1920, Fondation Beyeler, Collezione Beyeler. (© Succession Alberto Giacometti / 2023, ProLitteris, Zürich)

consapevole, la precisione minuziosa e analitica del disegno, la frammentazione divisionista delle pennellate e la libertà estrema della materia cromatica secondo la lezione dei fauves. Più dell’assiduo studio dell’arte del passato attraverso i libri e i primi viaggi in Italia, più degli studi iniziati e presto interrotti alla scuola d’arte di Ginevra, a causa dalla nostalgia di casa, è dunque il continuo confronto con l’opera del padre l’elemento essenziale che caratterizza la formazione artistica di Alberto Giacometti. Ed è un confronto che si materializza in una serie di dipinti e disegni «gemelli» che padre e figlio realizzano, spesso dipingendo fianco a fianco e affrontando lo stesso soggetto, tra il 1918 e il 1919, quando Alberto abban-

dona il liceo per assecondare la propria vocazione. In questi dipinti appare chiaro che il giovane artista è ormai in grado di misurarsi alla pari con il padre, anche se non ha ancora trovato la sua strada. Ed è proprio il padre, che in questi anni lo segue, lo consiglia e ne osserva con attenzione e affetto l’evoluzione artistica, come testimoniano i numerosi ritratti che gli dedica, ad aiutarlo a trovarla, incoraggiandolo nella sua scelta di indirizzarsi verso la scultura. C’è, probabilmente, in questa scelta di Alberto, la necessità di allontanarsi dal modello paterno, di non proseguire in un confronto che avrebbe potuto diventare scontro oppure annientarlo. E anche Giovanni probabilmente capisce che per il figlio sia meglio staccarsi da lui

e quindi lo aiuta a trasferirsi a Parigi e ad iscriversi all’accademia dove insegna Bourdelle, scultore che era stato uno dei più stretti collaboratori di Rodin e che lui apprezza particolarmente. A rappresentare emblematicamente questa nuova fase è un quadro dello stesso Giovanni, Lo scultore (Alberto e Annetta) del 1923, in cui la tensione dello sguardo di Alberto che scruta intensamente la madre mentre ne sta modellando il busto condensa perfettamente la spinta insopprimibile a superare l’abisso incolmabile che separa l’artista dal soggetto che gli sta di fronte, vero e proprio eidos dell’opera giacomettiana. Nel 1927 al termine della sua formazione accademica, mentre si avvia a diventare una figura di spicco della scena surrealista parigina, grazie ad un nuovo linguaggio in cui si mescolano spunti diversi, dall’antica scultura egiziana, al cubismo analitico fino all’arte extraeuropea, Alberto Giacometti afferma la definitiva conquista della propria indipendenza artistica realizzando una serie di teste del padre. In un progressivo processo di astrazione, le quattro sculture in bronzo, marmo e granito che chiudono la mostra di Coira appaiono al contempo come un omaggio alla figura paterna da cui la sua vita e la sua arte hanno avuto origine e come una rivendicazione della propria autonomia. Mentre i tratti del volto di Giovanni Giacometti si appiattiscono, per poi trasformarsi in sottili graffi sulla superficie e infine scomparire quasi definitivamente nell’ultimo blocco di marmo in cui i piani del viso sono appena abbozzati, Alberto afferma con forza la propria individualità artistica, riconoscendo però al padre il merito di averlo aiutato, con il suo insegnamento e il suo esempio, a diventare altro da lui. Dove e quando Alberto Giacometti, Ritratto dell’artista da giovane, Museo d’arte dei Grigioni, Coira, fino al 19 novembre. Ma-do 10.00-17.00, gi 10.00-20.00. www.kunstmuseum.gr.ch

Le nuove povertà

Feuilleton ◆ Il romanzo a puntate di Lidia Ravera per «Azione». Sul nostro sito www.azione.ch sono disponibili quelle precedenti Lidia Ravera

E guardò sua moglie e sua figlia, sedute a tavola, zitte e composte ad ascoltarlo. Erano i due blocchi di cemento che gli avrebbero impedito sia di galleggiare che di naufragare e magari salvarsi all’ultimo minuto, grazie a qualche comportamento estremo. Farsi prestare dei soldi e poi sparire. Partire per qualche località esotica di quelle dove vivi con tre dollari alla settimana. Posto che esistano davvero, al di là dalle cene in cui se ne parla, come di possibili palingenesi. Svaligiare una banca, strappare la borsetta a una signora anziana che ha appena ritirato i soldi della pensione. Betta si riscosse da quello che sembrava un silenzio post traumatico e si rivolse a Sara: «Non ti preoccupare, tesoro, papà è di cattivo umore perché la signora della banca non gli ha dato i soldini per fare il suo film e allora esagera. Ma va tutto bene». Si alzò, con una smorfia di dolore.

E scolò la pasta. Non c’erano più barattoli di pelati, l’avrebbero condita con l’olio. Tom, seguendo i passi claudicanti di sua moglie, percepì, nitidamente, il peso del blocco di cemento, si sentì trascinato verso il fondo. «Ma certo», disse, «continuiamo a raccontarci balle…» «Ti spiace se ne parliamo io e te senza coinvolgere la bambina?» «La bambina ha il diritto di sapere». «La bambina ha il diritto di essere lasciata in pace. Non è sua la responsabilità di mantenere la famiglia!» Betta si accorse di aver gridato. Sara si mise le mani sulle orecchie. Premendo forte. Si scusarono tutti e due. Il padre e la madre, quasi contemporaneamente. Flic e floc, pensò Sara, ricordando un vecchio gioco che le aveva insegnato la nonna. Quando due persone dicono le stessa parola si fa «uno due tre flic» o floc.

Non le veniva in mente altro. Si sedettero tutti e tre a tavola. Le penne rigate erano insipide. Tutti aggiunsero sale alle penne rigate. L’ultima a servirsi fu Betta, lo sparse con un gesto largo, da cuoco televisivo. «E voilà …una spolverata di tartufo…una noce di burro rancido…» Sara continuò il gioco: «…mantecato con vera cacca di pipistrello, su un letto di bucce di patata…» Risero, madre e figlia, e continuarono a giocare fino a quando anche Tom fu costretto a ridere. Per non essere tagliato fuori. La sera, a letto, a bassa voce, Betta chiese a Tom se, per favore, poteva accompagnarla alla festa a cui l’aveva invitata il vecchio. «Non questo sabato, l’altro». «L’hai rivisto?» chiese Tom, senza aggredirla. Dopo quel pranzo miserabile era

uscito, era stato fuori tutto il pomeriggio, ed era tornato con tre bistecche e una bottiglia di vino. La provenienza era stata svelata da Esther, con una telefonata inopportuna. «Vi è piaciuta le cena?» Sara ringrazia la nonna. E Sara aveva ringraziato. Tutti e tre, come per un tacito accordo, si erano dedicati con puntiglio, per tutto il giorno, ad attività virtuose. Sara aveva studiato invece di guardare serie teen sul suo iPad, Betta era rimasta incollata al computer per ore, cercando, nel ventre disordinato della rete, occasioni di incontro. Opportunità, agganci. Aveva scritto decine di adorabili commenti su tutti i blog di tutte le attrici che aveva sfiorato, di tutti i registi con cui aveva scambiato due parole o uno dei suoi famosi sorrisi seduttivi. Con tutti gli sceneggiatori che le avevano confessato quanto fosse av-

vilente confezionare i prodotti indegni richiesti dal Mercato. E quanto la loro pazienza fosse arrivata al limite. Tanto che presto avrebbero aperto un bistrò con sala cinema, presto, subito, appena avessero trovato qualcuno che ci metteva i soldi. Si era obbligata ad essere spiritosa in ogni messaggio, brevi o lunghi che fossero, perché soltanto un uso massiccio dell’autoironia ti metteva in salvo dal cattivo odore che emana dalla malasorte. Ne era uscita stremata, ma ottimista. Tom aveva ottenuto almeno questo, mettendo a verbale, davanti alla figlia, la situazione in cui si trovavano: una ovattata solidarietà fra disperati, come se un medico coscienzioso avesse rivelato che erano malati tutti e due, che la malattia era incurabile e che rimanevano loro poche settimane di vita. (43 – Continua)



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CULTURA

Dieci anni di Film Festival Diritti Umani

Cinema ◆ «Non è un traguardo, ma un nuovo punto di partenza» dice Antonio Prata della sua rassegna in pieno svolgimento Nicola Mazzi

Mai come oggi i diritti umani stanno vivendo un periodo di fragilità e vengono attaccati da più parti (vedi regimi totalitari, guerre, ma anche minacce che arrivano dalle nuove tecnologie). Ecco perché l’edizione dell’omonimo Film festival, organizzato a Lugano proprio in questi giorni – è iniziato il 19 e termina sabato 29 ottobre – è un momento fondamentale di riflessione, dibattito e confronto. Una rassegna cinematografica (ma non solo) giunta alla decima edizione, che sottolinea l’anniversario proponendo diverse novità. Anzitutto ha introdotto un concorso internazionale al quale partecipano otto film provenienti da diverse parti del mondo, scelti tra più di cento opere giunte al comitato di selezione. In secondo luogo, la manifestazione è passata da cinque a dieci giorni; infine, sono state potenziate le sedi di proiezione, con il cinema LUX Art House di Massagno, che si aggiunge alle storiche sale del Corso e dell’Iride.

Una rassegna che sempre di più tende a coinvolgere la città e il resto del Cantone attraverso molti eventi collaterali Come ha spiegato il direttore Antonio Prata: «Il decimo anniversario del festival non è un traguardo, ma un nuovo punto di partenza con maggiore esperienza e consapevolezza». Una rassegna che sempre di più tende a coinvolgere la città e il resto del Cantone attraverso molti eventi collaterali come il Caffè dei diritti, un bar del Quartiere Maghetti nel quale sarà possibile chiacchierare con lo staff e i protagonisti del festival. Ma anche con le due esposizioni all’ex asilo Ciani: Noi e gli altri: dal pregiudizio al razzismo e I am AI dedicata all’intelligenza artificiale. Detto ciò, ovviamente, al centro della manifestazione resta sempre il cinema: il vero e proprio nucleo del

Film Festival Diritti Umani (FFDUL). Ecco perché vogliamo proporre delle riflessioni su alcune opere che vengono proiettate in questi giorni. A cominciare da Another Body, un documentario che parla di una deriva dell’Intelligenza Artificiale. Il film segue una studentessa che cerca giustizia dopo aver scoperto in rete alcuni video porno fasulli con le sue sembianze. Attraverso video diari, il film conduce lo spettatore nel mondo della ragazza evidenziando un problema sociale che sta diventando sempre più urgente: la costruzione di un’identità virtuale altra, di un me fasullo che ha il mio viso, ma un corpo di qualcun altro. Un fatto che mette sul tavolo problematiche giuridiche, oltre che psicologiche e sociali. Dal punto di vista cinematografico è interessante anche per un altro aspetto. La ragazza, usando lo stesso strumento per il quale è stata vittima, e cioè l’IA, modifica i tratti del suo viso per proteggere la propria privacy. In questo modo l’immagine vista dagli spettatori non è la sua, ma appunto quella di un fake. Il film è in programma la sera di mercoledì 25 ottobre al Corso (in replica il 26 alle ore 13.30 all’Iride) a cui seguirà una conferenza sul tema con due esperti: Paolo Attivissimo e Bruno Giussani. Un altro documentario che ci interessa segnalare è In the Rearview del regista polacco Maciek Hamela, presentato per la prima volta a Cannes, nella sezione indipendente Acid. La pellicola racconta l’esperienza del regista durante i primi mesi dell’invasione russa in Ucraina. Hamela acquistò un paio di furgoni per portare in Polonia i rifugiati ucraini, soprattutto donne, bambini e anziani, che scappavano dalla guerra. Maciek – che ha aiutato in questo modo più di 400 civili – filma queste persone all’interno del veicolo e si fa raccontare le loro storie, le loro speranze e quello che hanno lasciato a casa. E mentre loro parlano, dai finestrini possiamo osservare le macerie di un Paese in guerra: ponti distrutti, carri

Un’immagine del film 19 della regista iraniana Manijeh Hekmat. (© FFDUL)

armati pronti per un’altra battaglia ed edifici squarciati dalle bombe. Un’opera compatta, toccante e carica di significato con la quale il regista vuole trasmettere al pubblico l’esperienza devastante di diventare un rifugiato e che «chiunque, in qualsiasi Paese, possa immaginarsi in uno di questi sedili del furgone». L’ultimo film del quale vogliamo parlare è 19 della regista iraniana Manijeh Hekmat. Venerdì 27 ottobre la stessa autrice riceverà il Premio Diritti Umani al cinema Corso. Per il direttore Antonio Prata si tratta di «un’artista che, attraverso il cinema, ha intrapreso un viaggio resistente e tenace nella creatività e nella ricerca, nella vita e nella morte, nell’amore e nella guerra. Un percorso politico ma anche pieno di immaginazione, in cui la regista, nonostante le tante difficoltà non smette mai di sognare, di rin-

correre un futuro migliore e libero per sé e per il suo popolo». Il film – tra l’altro giudicato «inappropriato» dal ministro della cultura iraniana e che ha quindi subito censure – sarà proiettato dopo la premiazione e ci immerge nella mente di Mitra, una pittrice iraniana, che entra in coma dopo essere stata contagiata dal virus Covid. Seguendola sullo schermo, scopriamo la sua vita ma anche l’evoluzione di un’intera società. La voce off, che accompagna il film come un flusso di coscienza è un intenso commento alle immagini. Quelle di una donna che vive isolata nel suo appartamento durante il lockdown e prima della malattia, ma anche quelle di una bambina (grazie a immagini d’archivio) durante feste, matrimoni ed eventi che ha vissuto decenni prima. È molto interessante la messa in relazione dei due tempi

(presente e passato) nel quale si alternano la solitudine di una donna sola e destinata alla morte e la gioia di una ragazzina che corre e gioca in mezzo alla gente. Come ha spiegato anche la stessa regista: «Il film racconta tutti i dubbi della mia generazione, la paura e i timori che abbiamo vissuto per tutta la vita. In questi tempi difficili per il nostro mondo ho deciso di guardare indietro per vedere cosa abbiamo fatto e cosa abbiamo rovinato». Da notare che durante il festival si potrà vedere (sabato 28 ottobre dalle 15.45 all’Iride) anche Women’s prison, il suo primo film (2002) che descrive la rivolta in un carcere femminile di Teheran. Dove e quando Film Festival Diritti Umani, Lugano. Fino al 29 ottobre. festivaldirittiumani.ch Annuncio pubblicitario

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CULTURA

«Ci vorrebbe più ecologia del linguaggio»

Intervista ◆ Claudia Durastanti, curatrice della collana La Tartaruga, racconta Carla Lonzi, pensatrice e poeta femminista Laura Marzi

«Per me c’è qualcosa di intrinsecamente femminista nell’evitare la logica del consuma e dimentica»: abbiamo incontrato Claudia Durastanti, scrittrice, traduttrice, responsabile dal 2021 de La Tartaruga, la prima casa editrice femminista fondata nel 1975 da Laura Lepetit e adesso acquisita da La nave di Teseo. Con lei abbiamo indagato il grande successo che sta avendo la ripubblicazione di Sputiamo su Hegel e altri scritti il primo dei testi della pensatrice e poeta femminista Carla Lonzi, voce fondamentale in Italia e in tutto il mondo occidentale, avanguardia assoluta del movimento che si sviluppò negli anni ’70.

Credo nelle collane femministe o nei progetti che lavorano sulle autrici in maniera meno istantanea, più stratificata, con il desiderio di accogliere varianze nella scrittura di un’autrice, mescolando storia e sorpresa Ha ancora senso una collana femminista nel panorama dell’editoria italiana e perché? È una domanda che mi sono posta sin da quando ho ricevuto l’incarico di curare le nuove uscite della Tartaruga, ed è una domanda che mi pongo ancora. La «nuova» visibilità delle scrittrici appartenenti alla nostra storia nei cataloghi delle case editrici mainstream a volte mi pare oscillare tra moda, cinismo e senso del dovere. Ed è chiaro che operazioni del genere hanno vita molto breve, sono scelte effimere dimostrate dal fatto che spesso si adotta una scrittrice da riscoprire e poi la si abbandona a sé stessa, senza fare scelte di lungo periodo sulle sue opere, recuperando anche testi più laterali o marginali ma che alla lunga completano la voce di un’autrice, come invece fanno le case editrici più piccole e con meno mezzi. Credo dunque nelle collane femministe o nei progetti che lavorano sulle autrici in questa maniera meno istantanea, più stratificata, con il desiderio di accogliere varianze nella scrittura di un’autrice, mescolando storia e sorpresa. La Tartaruga tende ad acquisire più opere di un’autrice, e aspira a seguirla nel tempo, o a recuperarne il sommerso. Ho ereditato questa impostazione, e per me c’è qualcosa di intrinsecamente femminista nell’evitare la logica del consuma e dimentica. Come siete arrivate alla decisione di ripubblicare tutta l’opera di Carla Lonzi? Era una fantasia di lungo corso, e credo che molti episodi, conversazioni o incidenti della mia vita da lettrice mi abbiano portato ad accumulare gli indizi necessari per arrivare a fare una proposta editoriale, accolta subito con molto entusiasmo dall’editrice Elisabetta Sgarbi, che tiene molto a Lonzi anche nel suo ruolo di critica d’arte. La nuova edizione del libro prova a far risuonare la sua voce senza apparati critici, una scelta della curatrice Annarosa Buttarelli che ho condiviso subito, per liberare Lonzi dalle gabbie in cui spesso viene rinchiusa

Claudia Durastanti, classe 1984, nata a New York, scrittrice e traduttrice italiana con cittadinanza statunitense.

perché questo consola e appaga certe cose che vogliamo pensare o sapere di lei. E invece Lonzi ci smonta continuamente, attraverso testi di natura diversa, emanati dalle varie fasi della sua vita. Questa pubblicazione non cancella la genealogia e la storia di Rivolta Femminile, ma risponde all’idea che un testo possa avere vite diverse nel corso del tempo. E anche qui, ho ragionato molto: Lonzi e la fondatrice della Tartaruga Laura Lepetit entrarono in conflitto proprio sull’esistenza di un’editoria femminista «di mercato», era corretto pubblicarla in questa serie? In copertina c’è un’opera di Carla Accardi, intima amica e sodale di Lonzi prima della rottura e fondatrice insieme a lei di Rivolta Femminile. Era un atto travisato ricongiungerle? Ma studiando e amando la vita di Lonzi ci si rende conto che il conflitto è ovunque, e questo doppio tradimento mi pare se non altro un fatto storico, ed è importante che venga esplicitato. Vi aspettavate il successo in termini di vendita di Sputiamo su Hegel? Come se lo spiega? Siamo alla quinta edizione, è sempre in ristampa, libraie e librai mi dicono che lo tirano fuori e: «puff, sparisce». Mi fa sorridere quest’immagine, per questo la riporto! Un po’ me l’aspettavo, perché credo che abbiamo prestato ascolto a chi esprimeva questa mancanza verso l’opera di Lonzi nelle librerie. Era tutto lì: questa edizione non esisterebbe senza il movimento sotterraneo e duraturo di lettrici di varie fasce d’età e percorsi femministi che l’hanno tenuta letteralmente in vita, in forme diverse. Dalla circolazione del pdf, alle fotocopie, ai regali tramandati tra generazioni, alle traduzioni amatoriali, al mercato nero, a quello folle della speculazione su ebani, in forme benigne e altre (poche) più maligne. Mi piace molto l’idea che culto e clandestinità si siano intrecciati in maniere spontanee per riportare al visibile. È una riedizione guidata dal basso, se ha senso. Che cosa del femminismo della differenza di cui Lonzi è stata ideatrice in qualche modo e precursora

è ancora attuale e necessario e cosa è invece datato? Quando si parla di Lonzi oggi sembra che ci sia quasi paura di tirare in ballo uno dei capisaldi del suo pensiero sulla differenza perché potreb-

be portare in territori scivolosi. Ma la posizione di Lonzi è netta, chiara e lapidaria: la donna si muove su un altro piano dell’esistenza. È fondamentale recuperare questo pensiero, in un momento di femminismo mainstre-

am che fatica a liberarsi dalle scorie del femminismo empowered di stampo angloamericano che ha prodotto molti danni nell’inseguire retoriche politiche, modelli di crescita e forme del potere dannosissime, tendenzialmente maschili. Nella mia lettura, il rifiuto del potere e della crescita che si basa sull’oppressione come massima affermazione personale sono due nuclei importantissimi del pensiero femminista della differenza, e sono posizioni attualissime. Per quel che riguarda la questione datata, a volte si dimentica che Lonzi utilizzava la parola patriarcato in maniera molto precisa, tagliente; temo che a volte la si stia annacquando utilizzandola in maniera indiscriminata. Ci vorrebbe più ecologia del linguaggio. Cosa possiamo aspettarci per il futuro da La Tartaruga? Mi piacerebbe che La Tartaruga sperimentasse di più con vari generi letterari. In tal senso uscirà Cursed Bunny, una raccolta di racconti dell’autrice coreana Bora Chung che inietta i suoi racconti horror, weird e grotteschi di teoria femminista in una maniera appassionata e divertente. Ma non escludo la pubblicazione di un romance o di un noir smantellati e decostruiti, nella Tartaruga che immagino ci deve essere sempre la poesia, o la rottura. Annuncio pubblicitario

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Alla metà del XIX secolo, un tipografo parigino con l’animo dell’inventore, Édouard-Léon Scott de Martinville, si domandò come mai la riproducibilità della stampa e delle immagini non potesse essere elaborata per i suoni. Creò uno strumento, poi chiamato fonoautografo, con cui eseguì la prima «registrazione» di un brano musicale. Ideato studiando l’orecchio umano, il fonoautografo era però più simile a un sismografo che a un registratore audio. L’epoca della riproduzione musicale vera e propria iniziò nel 1877 con l’invenzione del fonografo da parte di Thomas Alva Edison. Si può dire che da allora la musica come espressione artistica è interconnessa alla tecnologia grazie a cui viene riprodotta e ascoltata, in un connubio che sta vivendo in questi anni l’ennesima evoluzione. La nuova frontiera si chiama TikTok. Il social network nato nel 2016 in Cina consente la condivisione di video; oggi ha circa un miliardo di utilizzatori mensili, la metà dei quali ha meno di 30 anni. La musica sta alla base del successo crescente che la piattaforma ha avuto. I video che gli utenti condividono devono essere brevi e immediatamente accattivanti e le canzoni sono un elemento fondamentale di questa attrattiva. TikTok oggi è il luogo che definisce l’essenza della pop music ed è considerato uno strumento cruciale per la promozione musicale. La cantante francese Jain nel 2015 ottiene al suo debutto un ottimo successo con l’album Zanaka. L’artista diventa popolare in particolare in Francia e Svizzera anche trascinata dal singolo Makeba, dedica-

to alla leggendaria cantante africana Miriam Makeba. All’inizio dell’estate di quest’anno però una serie di episodi incredibili cambia la storia di questo brano. L’americano Phil Stringer arriva all’aeroporto di Oklahoma City per imbarcarsi su un volo diretto a Charlotte. Il volo viene rimandato e, a uno a uno, i passeggeri desistono preferendo altri voli. Phil però resiste in aeroporto fino a quando, con 18 ore di ritardo, l’aereo arriva al gate. Non senza stupore, Stringer si trova a essere l’unico passeggero. Ne approfitta per raccontare l’avventura sul suo profilo di TikTok. E sceglie come colonna sonora Makeba di Jain. La storia del passeggero solitario diventa virale, ma diventa virale anche la canzone che la accompagna. Quasi istantaneamente è riproposta da migliaia di video di TikTok e Instagram. Ad agosto il social network la proclama la canzone dell’estate essendo stata riutilizzata da più di 5milioni di utenti. Il brano ritorna nelle programmazioni radiofoniche e trova una nuova vita anche nei servizi di streaming, superando su Spotify i 230milioni di ascolti e i 245milioni su Youtube. Ma Makeba è solo l’ultimo caso-studio di brani rinati o lanciati grazie ai video su TikTok. La carriera del country rapper americano Lil Nas X è nata dal successo Old Town Road, partito proprio dal social network. Altri artisti come Doja Cat, Jack Harlow, Lizzo, ma anche gli italiani Måneskin sono diventati fenomeni globali grazie alla condivisione della loro musica nei video della piattaforma. L’industria musicale non può più prescindere da questo ecosistema: si corteggiano gli

influencer, si creano sfide e concorsi, si lanciano eventi pensati per i social e si crea musica particolarmente immediata, ritmata e adatta per essere impiegata in spezzoni che di solito durano meno di un minuto. Ma, ci si chiede, come fanno i cantanti a guadagnare da una canzone virale?. TikTok retribuisce gli artisti non tanto in base alle riproduzioni del brano, ma in base al numero di video che impiegano la musica dello stesso, un sistema forse non particolarmente remunerativo. Tuttavia la popolarità si riflette sui numeri di riproduzioni su piattaforme come Spotify o Apple Music che generano profitti. Anche qui i soldi non sono moltissimi: un milione di stream frutta 5mila dollari o poco più. Più appetibili sono i diritti d’autore provenienti da usi diversi della canzone come la trasmissione in radio o in eventi pubblici. L’obiettivo massimo però è che il brano venga utilizzato per uno spot pubblicitario o come commento musicale in una serie o in un film. In questo caso si avvia una trattativa privata che, per i brani di successo, può arrivare anche a cifre a 6 zeri. E qui sta forse il futuro del business musicale. In un universo sempre più immateriale in cui il pubblico è formato da utenti che non solo ascoltano, ma «usano» le canzoni, la nuova frontiera del mercato è acquistare in massa i cataloghi musicali degli artisti più disparati. Le canzoni sono considerate come azioni, asset class, e si utilizzano poi i social per rivitalizzare il loro successo e monetizzare l’investimento. Assistiamo alla fine di un’epoca, ma anche all’inizio di una nuova rivoluzione musicale.

Il pianoforte nel Novecento non è più stato lo strumento principe che nel secolo scorso aveva dominato le sale da concerto, si può dire addirittura tranquillamente che nel catalogo delle opere di qualsiasi compositore ottocentesco le composizioni pianistiche occupavano un posto rilevante. Strumento romantico per eccellenza, nel senso che all’inizio del secolo (con Beethoven, Weber, Schubert, Chopin, Schumann) servì a individuare le corde dell’ineffabilità e alla fine ad abbandonarsi al florilegio di dolcezze e di languori proibiti, esso fu quasi rifiutato dagli innovatori del Novecento, probabilmente per la sua evidente compromissione con un’estetica ritenuta superata. Nella musica di Schönberg il pianoforte occupa una minima parte, Alban Berg gli riservò una sonata e nulla più, Webern gli assegnò una sola anche se celebre composizione (le Variazioni op. 27). Diverso il discorso di Béla Bartók e in una certa misura anche di Stravinsky; tuttavia se ci limitiamo al settore più radicale della musica moderna, quello espressionista-dodecafonico appunto, non possiamo non costatare un’emarginazione evidente del pianoforte. La tendenza è confermata dall’avanguardia del dopoguerra, tutta rivolta alla scoperta di un suono nuovo, di combinazioni strumentali capaci di cancellare la memoria di timbri già uditi: la musica degli anni Cinquanta è infatti soprattutto musica per gruppi orchestrali. L’eccezione più vistosa è rappresentata dalla serie dei Klavierstücke di Stockhausen, composizioni che oltretutto rappresentano un nodo cruciale nello sviluppo dell’avanguardia; eppure c’è da chiedersi se il compositore tedesco si sarebbe dedicato a simile composizione se non avesse potuto contare sull’abilità interpretativa dei fratelli Kontarsky. Spesso nella musica contemporanea è successo che la presenza di un interprete (si pensi solamente al flauto di Severino Gazzelloni e alla voce di Cathy Berberian) abbia condizionato in larga misura l’attività compositiva di determinati musicisti. Il pianoforte ad esempio è rispuntato nell’esperienza di Luigi Nono, il quale è dovuto arrivare ai cinquant’anni per rendersi conto che un simile strumento poteva diventare addirittura veicolo di accenti rivoluzionari. Ma – Nono stesso lo ammise – a questa evidenza non sarebbe giunto senza l’amicizia con Maurizio Pollini a cui è dedicato appunto Sofferte onde serene (per pianoforte e nastro magnetico) e la cui responsabilità nella composizione del brano, a detta dello stesso Nono, sarebbe pari a quella del compositore stesso. Nessuna di queste considerazioni valgono per la musica dei compositori francesi, per i quali il ricorso al pianoforte è stato un’operazione scevra di pregiudizi. Nel suono pianistico, per molti aspetti tanto diverso di Olivier Messiaen, Pierre Boulez e

Gilbert Amy, ci sembra addirittura di poter individuare una matrice comune che va ben oltre la stessa rivendicata appartenenza all’avanguardia postweberniana. Se accostassimo questi autori a Debussy (nella foto) ci renderemmo conto di quanto la scoperta dei valori timbrici «impressionistici» sia un retaggio della musica francese. Il discorso in verità andrebbe articolato, per cui le ascendenze di un linguaggio coloristico quale quello di Messiaen nella ricerca di sonorità esotiche più che a Debussy rimandano a Ravel. Lo stesso Ravel non sarebbe comunque esistito senza Debussy, per cui i conti tornano comunque. Senza considerare che, in prospettiva più estesa, a questo discorso sarebbe possibile recuperare il nome di Gabriel Fauré, a indicare come le radici di una concezione «impressionistica» del pianoforte in Francia affondino in tempi lontani. Ciò che conta rilevare soprattutto, considerando che è passato piu di mezzo secolo dalla Terza Sonata di Boulez, è il fatto che le intenzioni a cui l’autore diede allora preminenza con il trascorrere del tempo sembrano offuscate da un diverso senso. Se la Terza Sonata contò allora per la scelta di strutture aperte in un discorso che, rimanendo astratto, escludeva per definizione ogni presenza dell’individuale e del privato, in un ascolto a posteriori essa suona irrimediabilmente diversa nella limpidezza delle sonorità pianistiche.

Wikipedia

Pixabay

Tendenze ◆ Come TikTok influenza il mercato e cambia le modalità d’ascolto Musica ◆ L’influenza dell’arte di Debussy

È il fantasma di Debussy quello che determina il significato di questa musica, in una concezione che parte dall’astratto per trovare corrispondenze con il mondo del reale. Non è certo la penna di Boulez che ha voluto questo, ma è innegabile che all’ascolto oggi è impossibile sottrarsi al fascino di sonorità distillate e compiaciute nel loro sgorgare, che stimolano la nostra memoria nel ricordo di emozioni impalpabili che la storia della musica ha già conosciuto. Come dire: il cane si morde la coda. Sì, ma in senso non spregiativo, poiché se l’esperienza contemporanea ha un senso, ormai questo non è più da cercare nell’aspetto di emancipazione a ogni costo dalla tradizione, ma in un rapporto che grazie a questa sia capace di ritrovare una prospettiva più durevole. Annuncio pubblicitario

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