Azione 45 del 6 novembre 2023

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Anno LXXXVI 6 novembre 2023

Cooperativa Migros Ticino

G.A.A. 6592 Sant’Antonino

Settimanale di informazione e cultura

edizione

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MONDO MIGROS

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SOCIETÀ

TEMPO LIBERO

ATTUALITÀ

CULTURA

Pazienti geriatrici: il Ticino è il Cantone con la percentuale più elevata di persone anziane

C’è chi pensa che i libri bisogna leggerli, per altri invece sono solo oggetti decorativi pregiati

La guerra tra Israele e Hamas potrà essere interrotta solo da tregue, mai dalla vittoria di una delle due parti

La nuova mostra al Museo d’arte di Mendrisio omaggia l’elegante Cubismo di Roger de La Fresnaye

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IA e salute, nuove sinergie

Mattia Pelli

Noi, figli degli Elvezi. Oppure no Simona Sala

Ce lo ricorda perfino l’autoadesivo bianco incollato di fianco alla targa delle nostre auto: al più tardi dal 1848, anno della creazione dello Stato federale, facciamo parte della CH, Confoederatio Helvetica, in onore del popolo degli Elvezi, riscoperti con entusiasmo a partire dal periodo del Rinascimento. Come spiega il Dizionario storico della Svizzera, l’espressione latina Confoederatio Helvetica (scelta per evitare favoritismi di una lingua rispetto a un’altra) compare sulle monete nel 1879, sul sigillo della Confederazione nel 1948 e sul frontone del Palazzo federale a Berna nel 1902. Eppure, nell’immaginario collettivo, che per sua natura nutre e coltiva i miti della fondazione (come ci ha insegnato il caso del «nostro» Gugliemo Tell), la popolazione celtica degli Elvezi, localizzata sull’Altopiano in un periodo tra la fine dell’Età del Ferro (che parte circa dal 900 a.C.) era stata designata per rappresentare l’origine di quello che sarebbe diventata poi – per dirla grossolanamente – la popolazione degli svizzeri.

Poiché l’archeologia, così come la storia, è una scienza in movimento dove molto spesso è impossibile mettere un punto che chiuda qualsivoglia discorso, anche in questo caso è forse giunto il momento di riscrivere, o perlomeno considerare la riscrittura di quella che è stata (anche) la nostra Storia. L’occasione ci è data dal terzo numero del 2023 della rivista «ArCHaeo», dedicata agli Elvezi, poiché, come dichiara il presidente di Archeologia Svizzera (editrice della rivista, scaricabile in open source), nonché Direttore del Museo cantonale di archeologia di Losanna Lionel Pernet, «L’archeologia ha spesso, e a volte suo malgrado, servito la narrazione nazionale rafforzando i miti. Spetta ora all’archeologia smontare questi miti». Ma dove si trova l’equivoco o errore storico? A un certo punto qualcuno è caduto vittima di un Wunschdenken (un utopico pensare) secondo il quale discenderemmo direttamente dai Lacustri vissuti a La Tène (Neuchâtel) nell’Età del

Ferro, sebbene, come rivela sempre la rivista «ArCHaeo», non ve ne siano le prove. Il più antico reperto rinvenuto che rimandi agli Elvezi risale infatti al 300 a.C., e si tratta di un bicchiere riportante la scritta «Eluveiti» in caratteri etruschi. A parlarne in modo più esauriente (o convincente) è però Giulio Cesare nel suo De Bello Gallico, dove ne indica l’habitat «nei luoghi compresi fra il Giura (a ovest), il Reno (a est e a nord) e il Lago Lemano e il Rodano (a sud)». La tribù era divisa in quattro piccoli nuclei, o pagi (tra cui quello dei Tigurini). Il paradosso è costituito dal fatto che gli Elvezi, che si stima si fossero insediati in quello che è il nostro Paese oggi intorno all’80 a.C. nei panni di «immigrati», già nel 58 a.C. erano intenzionati a ripartire. Pur di andare via, furono disposti a distruggere tutto quanto si lasciavano alle spalle, onde evitare di dovere ritornare indietro, e ad affrontare l’esercito romano, come avvenne poi nella Battaglia di Bribacta, con le immense perdite che

ci sono pervenute: lo scontro lasciò scampo solo ai Tigurini. Qual è dunque il messaggio di questi recenti studi? È più politico di quanto si possa pensare, e ce ne dà conferma lo stesso Lionel Pernet quando, nella sua introduzione, afferma come la ricerca delle origini sia «inutile». O meglio, come possa essere arricchente solo se svolta a fini conoscitivi, sulla spinta della fame di conoscenza. Può invece farsi pericolosa (e questo lo aggiungiamo noi) quando si trasforma in strumento di discrimine al fine di attribuire differenze di appartenenza, ancora Pernet: «Noi tutti siamo il prodotto di una successione di popolazioni diverse, come gli strati di un sito archeologico che si depositano uno sull’altro nel corso dei secoli». Questo è un dato di fatto che andrebbe tenuto presente sempre, soprattutto in tempi come questi, dove provenienza ed etnia possono trasformarsi con facilità – e pericolosamente – in arma per battaglie dalla facciata ideologica, ma dal cuore razzista.


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MONDO MIGROS ●

Molte professioni per un mondo in evoluzione

Speciale 90esimo ◆ Un’occhiata dietro le quinte della cooperativa per conoscere i vari campi di attività che permettono all’azienda di ottemperare al proprio mandato Alessandro Zanoli

Percorrere i vari spazi della sede centrale di Migros Ticino a Sant’Antonino è un po’ come inoltrarsi in un labirinto. La nostra guida, in questa esplorazione che vuole darci un’idea concreta delle molteplicità di settori di impiego che qui convivono, è Claudio Paganetti, responsabile del personale nel Dipartimento Risorse umane della cooperativa ticinese. Combinazione vuole che proprio la sera precedente al nostro incontro chi scrive avesse ricevuto una segnalazione da LinkedIn, in cui lo stesso Paganetti annunciava l’apertura di un concorso per una posizione di Social Media Manager da inserire nel Dipartimento di marketing dell’azienda. «In effetti, le procedure di assunzione del personale negli ultimi anni sono molto cambiate», ci racconta Paganetti, «se un tempo si ricevevano ed esaminavano curricula di persone che cercavano lavoro, oggi capita spesso che siamo noi ad andare a cercare candidati interessanti, partendo dalle informazioni raccolte su siti specializzati, come LinkedIn, appunto». «Bisogna dire» continua Paganetti «che lo stesso strumento del curriculum non è più quello di una volta. Chi cerca lavoro oggi deve piuttosto preparare diversi tipi di curricula, accordando di volta in volta le proprie capacità con le mansioni richieste dall’azienda a cui lo invia. E del resto, non esaminiamo più curricula cartacei da anni. Tutto avviene in via digitale». È evidente come la digitalizzazione della società investa tutti i campi collegati con il mercato del lavoro. E il lavoro stesso oggi si indirizza sempre più su mansioni in cui la componente tecnologica e informatica è predominante. Per tornare a Migros Ticino, e all’argomento di questo articolo, occorre dire che il numero delle professioni che vi sono praticate è incredibilmente ampio, e rispecchia in fondo le ripartizioni di mansioni che comportano i vari settori dell’azienda. Vendita, Marketing, Risorse umane, Finanze e Informatica, Costruzioni e Logistica sono i cinque dipartimenti in cui si pianifica l’attività, e ognuno di essi richiede personale specializ-

zato a vari livelli. E di continuo altre necessità e altri bisogni si aggiungono. «Ci sono molte nuove professioni in via di sviluppo, ad esempio tutte quelle legate all’ambito della sicurezza. I contesti sono quelli della sicurezza delle persone, ma anche quella legata ai prodotti, quelle relative alla logistica, eccetera. È un campo vastissimo, in continua espansione».

Accanto alle professioni «classiche», come quelle legate alla vendita, la digitalizzazione apre a mondi nuovi portando grandi cambiamenti La digitalizzazione, dunque, è un nuovo mondo che si apre e rimette in discussione le consuetudini del passato. Pensiamo soltanto al ruolo di quelle che un tempo si chiamavano «cassiere»: «Chi lavora alla cassa oggi» ci spiega Claudio Paganetti «non ha più soltanto il compito di “incassare”, ma lavora quotidianamente a un terminale di computer, registrando il movimento di merce, i buoni Cumulus, e tante altre operazio-

ni di fondamentale importanza per la gestione del magazzino e dell’andamento economico. Il tutto ovviamente senza dimenticare la cortesia e il sorriso, sempre molto importanti! È giusto quindi che si sia adottata la denominazione di “operatrici/operatori di cassa”». Per i clienti dei supermercati, evidentemente, la gamma delle professioni più appariscenti è legata al settore della vendita e della gestione dell’assortimento. Sono questo tipo di collaboratori quelli con cui siamo in contatto quotidianamente. Di fatto però la vita della filiale è regolata da una serie di meccanismi organizzativi che proprio a Sant’Antonino trova la sua spina dorsale. Dallo stoccaggio della merce in arrivo alla preparazione di alcune specialità (come la pasticceria), dalla gestione degli imballaggi che vanno e vengono sui vagoni ferroviari, dalla consegna alle filiali degli articoli necessari, fino allo smaltimento dei rifiuti e degli scarti, tutto è stato organizzato qui ed è gestito da molti collaboratori, in vari settori professionali, alcuni dei quali sono attivi anche la notte. Ai piani superiori della Centrale si

trova quello che chiameremo scherzosamente il «labirinto dei servizi». Visitandone i molti uffici, oltre a ritrovare servizi amministrativi tradizionali (in cui operano specialisti di contabilità, marketing, vendita) si può incorrere in qualche sorpresa. Ci sono architetti d’interni, infatti, che progettano i piani per le nuove sedi: alle pareti del loro ufficio sono appese planimetrie e schizzi che serviranno alla realizzazione di nuovi spazi di vendita. Nel settore del disegno invece si creano e stampano con grandi plotter le insegne e i cartelloni pubblicitari per le varie sedi. Nell’angolo del controllo qualità, due ingegneri alimentari invece provvedono con i loro regolari test a campione a un accurato esame dei prodotti in assortimento. Assolutamente sorprendente invece il lavoro di chi opera nel settore della sorveglianza video: a chi è impegnato al controllo quotidiano degli spazi di vendita può capitare di dover collaborare con la polizia e con gli organi giudiziari (e qui ci sarebbe materia per un altro articolo…). Occorre naturalmente parlare poi dell’importante settore informatico. «Il periodo del Covid ha evidenziato

La lista delle professioni presenti in Migros • • • • • • • • • • • • • • •

Analista Marketing Product Group Manager Project Manager Total Store Facility Manager Responsabile del Personale Responsabile Servizio Immobili Responsabile Servizio Logistica Responsabile Amministrazione HR Responsabile Formazione e sviluppo Responsabile Area gestione filiali Responsabile Sales promotion & Sponsoring Responsabile Servizi Contabili e Controlling Responsabile Servizio Informatica Responsabile Sicurezza lavoro e tutela salute

• Responsabile Acquisti indiretti • Responsabile Comunicazione e Cultura • Responsabile Marketing Ristorazione • Responsabile Qualità prodotti • Responsabile Sorveglianza merce • Assistente amministrativo (vari settori specialistici) • Merchandiser (vari settori mercelogici) • Visual Merchandiser • Informatico • Sistemista IT • Sviluppatore IT • Consulente del personale • Contabile • Decoratore • Poligrafo • Product Manager

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Sorvegliante furti Addetto alla manutenzione Disegnatore edile Autista veicoli pesanti (CE) Impiegato Logistica Meccanico di veicoli pesanti Gerente Sostituto Gerente Responsabile Team Responsabile Merceologico Impiegato Servizio Clientela Venditore banchi a servizio Venditore Mercato Specializzato Venditore negozio Operatore di Cassa Addetto al rifornimento Gerente Ristorante Giornalista Operatore per la promozione dell’attività fisica e della salute

la necessità e l’importanza della tecnologia. Oggi ognuno dei nostri dipendenti lavora su un portatile che gli permette il lavoro da remoto. Organizzare tutto questo ha richiesto un enorme investimento nell’infrastruttura informatica, in modo che ogni collaboratore potesse accedere ai dati centrali, potesse partecipare alle teleconferenze, ma allo stesso tempo che tutti gli standard di sicurezza fossero rispettati. In futuro ci aspettiamo che questa tendenza si evidenzi ancora di più». In conclusione, discutendo con Claudio Paganetti, conveniamo sul fatto che idealmente sarebbe importante che ogni persona potesse esercitare la professione che la appassiona di più. «Capita a volte che qualcuno possa trovare spazio per le proprie inclinazioni. Questo è singolare anche per noi, perché si tratta di persone che alla fine dimenticano persino di chiedere quale sarà il loro stipendio». Il lavoro ideale è quello che si sceglie per passione, è indubbio. Ma anche se non sempre è possibile, va sottolineato come all’interno dell’azienda siano previste varie opportunità di avanzamento e di formazione interna che possono fornire nuovi stimoli e idee sul proprio percorso professionale. La politica aziendale è infatti aperta a questa possibilità. Non a caso uno dei fiori all’occhiello della cooperativa è il marchio «Friendly Workspace», un riconoscimento assegnato a chi mette al primo posto la tutela della salute sul posto di lavoro e l’offerta di opportunità di crescita professionale per i propri collaboratori. Un’idea chiara della molteplicità di professioni presenti a Migros Ticino ce la fornisce anche la lista di posti di tirocinio offerta a giovani: la cooperava forma quasi 60 apprendisti (in crescita di numero) in varie professioni tra cui «Impiegati nel commercio al dettaglio» (in varie merceologie), «Impiegati Logistica», «Impiegati di commercio», «Autisti veicoli pesanti», «Meccanici veicoli pesanti», «Cuochi», «Operatori per la promozione dell’attività fisica e della salute» (Activ Fitness), e altri ancora.


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Senza luce e fuori dal tempo Il curioso caso della Val Bavona, dove, al di fuori di San Carlo, non si è ancora allacciati all’elettricità

Non si rottamano le anime In Giappone si prova dispiacere nel liberarsi degli oggetti, ritenuti esseri animati: piuttosto si ricicla

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L’IA al servizio della sanità Laura Azzimonti dell’Istituto Dalle Molle racconta le opportunità nate dall’impiego della IA nella sanità

Nuova Migros per Ascona Spazi rinnovati e una serie di iniziative per festeggiare la riapertura del centro vendita

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Quando l’anziano diventa «paziente» Geriatria ◆ Invecchiare bene nella psiche e nel fisico è essenziale in ogni momento della vita Maria Grazia Buletti

Il 23% della popolazione ticinese ha dai 65 anni in su, e il 7,5% supera gli 80: siamo il Cantone con la percentuale più elevata di persone anziane. L’aumento della speranza di vita ha prodotto da una parte un balzo in avanti dell’età in cui una persona è considerata anziana, dall’altra un effettivo incremento della popolazione geriatrica, la cui salute presenta fragilità multiple che meritano una presa a carico sanitaria complessa e interdisciplinare.

È certo che la vecchiaia termina con la fine della vita, ma il momento in cui inizia, e il senso che può assumere, non sempre è altrettanto chiaro e uguale per tutti. «Oggi la definizione di anziano non è più quella di un tempo, a causa di un totale cambiamento di paradigma: il 65enne di oggi non è considerato anziano ma al pari di un 45enne di ieri. Perciò la Società geriatrica italiana (SIGG), ad esempio, propone di posticipare di almeno dieci anni l’età cosiddetta geriatrica». Sono le parole del geriatra e specialista di medicina interna alla Clinica Sant’Anna di Sorengo, Florenc Kola: «Oggi la speranza di vita e le sue migliori condizioni hanno spostato molto avanti il limite cronologico; ogni protocollo di cura deve fare i conti con l’individualità di questa condizione che, per ciascuno, può variare parecchio e non può basarsi solamente sul parametro dell’età anagrafica». A conti fatti: «La grande sfida che ci attende nei prossimi anni è lo studio dell’invecchiamento delle persone dal punto di vista biologico, psichico, relazionale e affettivo, che profilerà il medico geriatra come colui che davvero sarà il “direttore d’orchestra” nella presa a carico interdisciplinare di un paziente geriatrico». Imprescindibile il distinguo fra persone anziane e pazienti geriatrici, spiega il medico aggiungendo come le prime si suddividano in una grande varietà di profili, vissuti e situazioni da considerare nella loro unicità, oltre che nel comun denominatore di un ventaglio di elementi. È importante invecchiare bene, prendendosi cura della propria salute psichica, fisica e del contesto sociale: «Privilegiare un’alimentazione equilibrata, svolgere regolarmente un’adeguata attività fisica, avere relazioni sociali appaganti fa bene a corpo e mente e permette di avere risorse per affrontare meglio eventuali malattie».

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Il Canton Ticino ha la percentuale di persone ultra pensionate più alta della Svizzera, eppure oggi il 65enne è considerato al pari di un 45enne di ieri

Il dottor Kola, in merito alle difficoltà cui un anziano si trova a far fronte, spiega che «il 30% della popolazione anziana si trova confrontata con la negazione degli stimoli e lo scarso coinvolgimento sociale, che poi li porta ad amplificare il dolore psicofisico». Emergono così fragilità nuove per rapporto al giovane adulto: «Il giovane si trova ad affrontare situazioni di “mono-problematicità” (un evento professionale, una separazione e via dicendo). L’anziano vive il risultato di tutte le situazioni accumulate nel corso della sua vita, sommate al suo presente: famigliare, contesto sociale, economico e lavorativo». Come dire: «L’anziano ha più chilometri e può arrancare maggiormente a fronte di eventi complessi e problematicità accumulatesi nel tempo». Il paziente geriatrico si riassume con il concetto di eterogeneità: «Implica la presenza di quelle comorbidità che compongono la sua fragilità e la complessità della presa a carico: pensiamo a una ridotta velocità della camminata, alla sarcopenia (ndr: riduzione di massa e forza muscolare), alla difficoltà di praticare attività fisica, alla perdita di peso spontanea,

le cui conseguenze convergono in poche riserve funzionali a fronte di un nuovo imprevisto: se, ad esempio, subentra un’infezione urinaria, si scatenano una serie di modifiche che porteranno ad altri effetti collaterali, e il paziente geriatrico dispone di poche riserve per poterne uscire». Il gruppo di questi pazienti è molto eterogeneo e consta nel 15 % dell’intera popolazione anziana: «C’è chi gioca a tennis, chi è in forma e ancora attivo professionalmente, chi è arzillo e chi nulla di tutto ciò. Al netto di tutto, un anziano performante e in salute sarà meno fragile a fronte di qualsiasi evento patologico da curare». Nella presa a carico del paziente geriatrico la figura del medico geriatra è essenziale: «È il perno della gestione di queste complessità, associate alla già problematica poli-farmacoterapia; è il direttore d’orchestra che coordina i curanti, dal medico di famiglia, al fisioterapista (per il rinforzo muscolare), al nutrizionista (per la malnutrizione), al terapista dei problemi cognitivi, e a tutta la rete del territorio come assistenti sociali, cure a domicilio, ergoterapia. Oltre a prendersi cura del paziente geriatrico con

deficit cognitivi, il geriatra lo accompagna lungo il suo percorso: «Il presupposto non è voler guarire questo paziente, ma accompagnarlo, perché spesso le malattie che lo affliggono non sono guaribili ma curabili». Il dottor Kola stigmatizza il paradigma della nostra società occidentale: «L’equazione malattia uguale guarigione è oramai anacronistica: davanti a una malattia, il paziente geriatrico deve essere assistito nell’ambito del suo contesto globale: sociale, funzionale e cognitivo. Dobbiamo scindere il modo mono-problematico di intendere la malattia, a favore della complessità della multi-comorbidità del paziente geriatrico». Questo, a fronte di dati inequivocabili: «L’invecchiamento di per sé è già il fattore di rischio più importante nello sviluppo di patologie: sappiamo che la prevalenza delle malattie neurovegetative raddoppia ogni 5 anni dopo i 65 anni di età, e dagli 85 in poi abbiamo il 50% di probabilità di avere un disturbo neurocognitivo (una persona su due). Stessa cosa per le malattie tumorali in cui l’invecchiamento risulta essere il fattore principale». Questi pazienti vanno ascoltati:

«La personalizzazione delle cure è importante: è una terapia “sartoriale” che considera ciascuno come individuo, con la propria storia personale, tenendo conto della sua volontà, del suo modo di intendere la vita, e dando ascolto alle prerogative che ritiene importanti per sé». Ed è essenziale favorire, laddove possibile, la permanenza a domicilio invece dell’ospedalizzazione che deve eventualmente essere il più breve possibile: «Restare nel proprio ambiente naturale permette di avere meno complicanze come delirium, meno malnutrizione e meno ipo-mobilità». In tutto ciò, geriatra e medico di famiglia sono due attori coadiuvanti nell’ambito di una presa a carico multidisciplinare, nel rispetto del paziente stesso. Significativo quanto ha affermato il divulgatore Piero Angela: «Resta l’importanza di curare non solo la malattia, l’organismo malato, ma l’uomo, l’individuo che soffre. C’è gente che va dal medico e avrebbe bisogno non di tre pillole al giorno, ma di tre abbracci al giorno. Ed è questo di cui molti sentono il bisogno, non solo negli ospedali, ma anche nella vita».


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Il Circo Knie arriva in Ticino con il suo spettacolo acquatico

Eventi ◆ Quest’anno il Circo Nazionale Svizzero Knie presenterà come novità un grandioso gioco d’acqua illuminato da mille luci colorate, spettacolo unico in Svizzera. L’appuntamento con la storica tenda della famiglia Knie sarà dal 24 novembre al 3 dicembre 2023 nella nuova sede di Via Lugano ad Agno, nei pressi dell’aeroporto e del Centro Migros Agno

Buone notizie per tutti gli amanti del circo, il mitico Circo Knie farà tappa nel nostro Cantone dal 24 novembre al 3 dicembre 2023! Il pubblico potrà ammirare diversi artisti internazionali esibirsi in fantastiche evoluzioni, tra cui l’affascinante spettacolo acquatico in un alternarsi di giochi e colori presentato per la prima volta in Svizzera dalla famiglia Knie. Dalla sensuale performance del Cyr-Wheel alle affascinanti contorsioniste dalla Mongolia, dagli spettacolari salti sul trampolino alle performance del Globe-of-Speed, il nuovo spettacolo Knie offre un incredibile mix colorato di acrobazie per tutte le famiglie. L’8ª generazione del Circo Knie, composta da Ivan, Chanel e Maycol jr., si esibirà in pista con nobili cavalli e bellissimi pony. Sono tra i favoriti del pubblico e la mamma Géraldine Knie è orgogliosa che i suoi figli stiano continuando questa tradizione di famiglia.

Circo Knie per la prima volta ad Agno Con la ristrutturazione dello stadio di Lugano la famiglia Knie ha dovuto cercare un’altra posizione ed è felice di aver trovato una valida alternativa. Ringrazia tutti coloro che, pur di mantenere viva la tradizione circense nel Malcantone, si sono dati da

fare e lo hanno reso possibile. Nella località di Agno il Circo si troverà in Via Lugano vicino all’aeroporto. Gli spettacoli avranno luogo ogni venerdì, sabato e domenica. Nelle vicinanze dell’area del circo si trova un parcheggio pubblico. La famiglia Knie consiglia vivamente di arrivare con i trasporti pubblici perché la zona è ottimamente servita.

La prevendita è aperta I biglietti per il tour di quest’anno sono disponibili da subito sul sito web www.knie.ch, presso Ticketcorner o presso tutti i punti di prevendita autorizzati.

La stagione dei cachi

Concorso Circo Knie e Migros Ticino mettono in palio 5x2 biglietti per il primo spettacolo del 24 novembre 2023 ad Agno, alle ore 20. Per partecipare al concorso inviare una mail a concorso@migrosticino.ch (oggetto: «Circo Knie») indicando i vostri dati (nome, cognome, e-mail, cellulare, indirizzo postale) entro domenica 12 novembre 2023. Buona fortuna! (Il trattamento dei dati avverrà in conformità alla dichiarazione sulla protezione dati: migrosticino.ch/privacy)

Attualità ◆ Un frutto di origini asiatiche che ci regala gusto e salute per affrontare l’autunno con brio

Con il suo bel colore arancio brillante e il caratteristico sapore zuccherino che ricorda il melone e l’albicocca, il cachi conquista l’attenzione di piccoli e grandi consumatori. Ma c’è di più, questo frutto originario della Cina contiene anche preziose sostanze benefiche per il nostro organismo: è ricco di vitamina C, importante per sostenere le nostre difese immunitarie; vitamina A per la salute degli occhi e della pelle e fibre che aiutano a sostenere le funzioni digestive. Attualmente i reparti frutta Migros propongono cachi provenienti da coltivazioni convenzionali o biologiche nelle varietà persimon, tradizionali (o loto di Romagna, varietà molto diffusa anche nei nostri

giardini), come anche cachi in versione mini.

Consigli di consumo I cachi persimon si possono consumare anche non completamente maturi. Sono sodi, non contengono semi e sono facili da affettare. I cachi tradizionali devono invece essere ben maturi e molli prima del consumo, altrimenti allappano la lingua. Per accelerarne la maturazione, teneteli vicino alle mele e a temperatura ambiente: l’etilene contenuto nelle mele fa infatti maturare prima i frutti. Di entrambe le varietà si può tranquillamente mangiare anche la buccia.


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Una valle fuori dal tempo e senza lampioni

Valle Bavona ◆ Tranne che a San Carlo, negli altri villaggi tuttora non arriva la corrente, eppure le centrali della Valle sono tra le più produttive della Svizzera. «Negli anni ’50 costava troppo allacciarsi alla rete» Mauro Giacometti

La Valle Bavona è al buio. O quasi. Nella dozzina di villaggi (detti terre) che compongono questo lembo alpino che dal Ticino si incunea tra Vallese e Alto Ticino, l’elettricità portata da una tradizionale rete di alimentazione con tralicci o cavi interrati è un optional da oltre 70 anni. E pensare che la Bavona è una delle valli ticinesi più prolifiche per quanto riguarda l’elettricità prodotta dalla forza dell’acqua, ma a eccezione di San Carlo, l’ultima frazione della valle a 950 m/slm, la luce nelle case e nelle stalle dei nuclei che compongono la Bavona arrivava un tempo dalle lanterne a petrolio e dalle candele e oggi dal gas o dai pannelli fotovoltaici. Le condotte realizzate intorno al 1950 dalla società elettrica Sopracenerina (SES) e poi cedute alle OFIMA, le Officine Industriali della Maggia SA, società partnerwerk che tutt’oggi utilizza le forze idriche della Maggia e dei suoi affluenti fino al lago Maggiore per alimentare le sue centrali, producono annualmente 1265 GWh (gigawattora), una delle più importanti quote energetiche del Ticino e della Svizzera. Ma appunto in Valle Bavona, dove ci sono ben tre centrali OFIMA (Robiei, Bavona e Cavergno) nemmeno un watt accende gli interruttori delle abitazioni, che per inciso sono rustici, in parte ristrutturati ma oramai tutte residenze secondarie, case di vacanza o punti di appoggio per allevatori di bestiame e attività agricole e turistiche (affittacamere e ristorazione): i bavonesi doc d’inverno infatti si ritirano sul fondovalle o nel Locarnese.

La Bavona ha sempre vissuto di allevamento, agricoltura e pastorizia, non c’erano molte risorse economiche per sostenere i costi di urbanizzazione «Mentre gli allora Comuni di Cavergno e Bignasco accettarono e rinnovarono la concessione di fornitura elettrica con la SES, che allora distribuiva l’energia, le altre terre della Bavona restarono fuori dagli accordi», ci spiega Fausto Rotanzi, per anni segretario comunale a Cavergno e poi a Cevio dopo l’aggregazione al capoluogo dell’Alta Vallemaggia. Rotanzi, da noi incuriosito, è andato a scartabellare negli archivi comunali e patriziali di Cevio e Cavergno per cercare un documento che certificasse questo «rifiuto» al progresso dei bavonesi ma, a parte qualche accenno alla realizzazione della strada carrozzabile fino a San Carlo per realizzare la centrale elettrica e la funivia, negli atti pubblici non si parla esplicitamente delle motivazioni di questa esclusione dalla «civiltà illuminata». Una scelta ecologista antesignana, quella dei bavonesi quando ancora, negli anni ’50 del secolo scorso era iniziata la corsa all’oro blu e non si parlava certo di tutela dell’ambiente?

Veduta della frazione di Roseto in Val Bavona. (Alain Rouiller)

Non proprio, ci spiega Alfredo Martini, ex sindaco per 20 anni di Cavergno e poi per due anni alla testa dell’Esecutivo di Cevio, quando nel 2006 la Valle Bavona fu aggregata al capoluogo dell’alta Valle Maggia. «La strada carrozzabile della Valle Bavona fu costruita dopo il 1950, in concomitanza con i lavori di realizzazione della centrale idroelettrica di

Robiei. La SES, che allora gestiva la rete elettrica della regione, e quindi le OFIMA, che gestirono la produzione energetica, proposero di realizzare, oltre alla strada, le canalizzazioni per la rete elettrica, ma gli abitanti della Valle Bavona si opposero. Più per motivi economici che altro: la valle viveva di allevamento, agricoltura e pastorizia, non c’erano molte risor-

Sogno primitivo esaltato dal turismo globale Una valle che vive senza elettricità: sogno primitivo nel Terzo Millennio o spopolato museo a cielo aperto? È la domanda che si è posta la France-Presse (AFP), agenzia di stampa francese, in un servizio realizzato all’indomani dell’inserimento della Valle Bavona negli itinerari premiati dal «Travel + Leisure 2022 Global Vision Award Winners». Dunque non solo gli svizzero-tedeschi, che d’estate affittano rustici e case di vacanza in questo sperduto lembo di Alpi ticinesi, ma anche l’Europa e gli Stati Uniti hanno scoperto la peculiarità di una regione che più per necessità che scelta ecologista si

è fermata al Medioevo. Un esempio di «parsimonia energetica» e di «congelamento al passato», in tempi in cui le bizze del clima e i costi di approvvigionamento mettono in crisi le economie globali, esaltato anche da Sylvie Bigar, che ha dedicato alla Valle Bavona un reportage sul «Washington Post». E naturalmente anche l’Italia, che già lanciò le «Maldive a due passi da Milano» parlando della Verzasca, non s’è lasciata sfuggire l’occasione per descrivere sul portale Lifegate l’eccezionalità di una delle valli più selvagge del Canton Ticino «dove non c’è nemmeno un palo della luce».

se economiche per sostenere anche in minima parte i costi di urbanizzazione. I canoni per lo sfruttamento delle acque che alimentavano le centrali elettriche, oltretutto, prendevano più che altro la strada del Cantone o delle partnerwerk delle aziende energetiche svizzero-tedesche, dunque rimaneva ben poca cosa dell’oro blu ai villaggi. Così, tranne che a San Carlo, dove appunto si stava realizzando anche la funivia di Robiei, le altre terre bavonesi scelsero di rinunciare alla realizzazione della rete elettrica, dando ai villaggi quell’immagine di un contesto civilizzato ma “fuori dal mondo” che conserva ancora oggi», ricorda Alfredo Martini. La Valle Bavona era probabilmente già abitata verso l’anno Mille; le catastrofi naturali (alluvioni, frane, scoscendimenti) indussero però i suoi abitanti ad abbandonarla quale residenza stabile. Lungo il fondovalle del fiume, affluente della Maggia, si trovano dodici villaggi posti più o meno a un chilometro l’uno dall’altro. In ordine ascendente si tratta di Mondada, Fontana, Alnedo, Sabbione, Ritorto, Foroglio, Roseto, Fontanellata, Faedo, Bolla, Sonlerto e San Carlo. Sono chiamati «terre», da cui

il nome di «terrieri» per gli abitanti. I nuclei si presentano, generalmente, come gruppi compatti di case e stalle costruite secondo schemi dettati dalle necessità del lavoro quotidiano e dalla configurazione del terreno, con dimensioni modeste, semplicità e funzionalità essenziali. Così presente nei romanzi di Plinio Martini, lo scrittore del quale si celebra quest’anno il centenario della nascita, che ben descrive questi luoghi aspri, all’apparenza inospitali e rimasti praticamente immutati, che testimoniano la continua lotta dell’essere umano per convivere con l’ambiente che lo circonda. La Valle Bavona è iscritta dal 1983 nell’Inventario federale dei paesaggi, siti e monumenti naturali d’importanza nazionale e inserita dal luglio del 1966 nella Legge federale sulla protezione della natura e del paesaggio. Nel 1990 è stata istituita la Fondazione Valle Bavona (www.bavona. ch) che oltre alla gestione del finanziamento degli interventi di salvaguardia e valorizzazione del patrimonio territoriale, si occupa anche di applicare il Piano regolatore – varato nel 1985 – con un ruolo di consulenza e sorveglianza degli interventi.

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La bicicletta e l’arte dell’upcycling Cicli e ricicli ◆ Anche gli oggetti hanno un’anima, secondo la tradizione nipponica

Ho una vecchia mountain bike nell’ingresso di casa, che mi guarda contrariata perché da molto non esco più con lei. Le gomme più che sgonfie sono depresse, la catena immobilizzata da uno strato di polvere. Eppure non mi sognerei mai di rottamarla. Non potrei proprio. Fin da piccola, ho sempre creduto che gli oggetti che ci circondano, non tutti, ma almeno alcuni, abbiano una specie di anima e ogni volta che devo buttar via qualcosa che è stato con me per molto tempo, mi costa una certa fatica. Indagando quella che mi pareva una stranezza infantile, ho scoperto di non essere sola. In Giappone questa credenza si concretizza in un concetto preciso: ), ovvero negli tsukumogami ( gli spiriti che si animano in oggetti particolarmente vetusti (dai cent’anni in su, secondo il folklore tradizionale), e che possono essere buoni se chi ha maneggiato tali oggetti li ha trattati bene, ma anche maligni se, al contrario, li ha maltrattati. Ha a che fare come capita spesso con una leggenda, giacché il termine Tsukumogami rimanderebbe al nome di un oggetto animato (più precisamente a un barattolo da tè) che aiutò Matsunaga Hisahide (il quale all’epoca – siamo nel sesto secolo – ricopriva l’importante carica feudale di daymo) per negoziare la pace con il temuto Oda Nobunaga, condottiero di campagne militari alla conquista del Giappone.

Lasciando per un momento da parte l’indubbio fascino di questa tradizione, il rapporto che abbiamo con gli oggetti è oggi più che mai controverso. Consumiamo tutto alla velocità della luce e lo buttiamo, pronti a cambiare in nome della novità, più che mossi da un effettivo bisogno. Mentre se è vero che nulla si crea, nulla si distrugge, ma tutto si trasforma, è proprio su quest’ultima fase che potremmo concentrarci maggiormente. Per questo sono importanti coloro che si appassionano alla bicicletta sia da un punto di vista di riparazioni meccaniche e strutturali (per salvaguardare l’affetto che lega l’oggetto al proprietario, e anche in vista di un certo risparmio delle risorse), sia dedicandosi al riciclo per questioni ambientali così da favorire l’uso delle due ruote non solo come mezzo di svago o sportivo, ma come mezzo di trasporto in sostituzione delle automobili; soprattutto per gli spostamenti in città. Insomma la bicicletta potrebbe diventare sempre più un vero status symbol, specie in ambiente urbano, con la speranza che vada pian piano a scalfire il primato ora detenuto dalle auto a favore di un ciclismo metropolitano. Andare in bicicletta, il più possibile, come stile di vita, con tutte le ricadute positive che ha sulla salute individuale, l’ambiente e l’economia, nonostante quello che ne dicono alcuni detrattori, aiuterebbe molto il nostro benessere.

Pexels.com

Amanda Ronzoni

Se da una parte è sempre più facile poter usufruire di biciclette oltre che belle, anche perfettamente adatte alle nostre esigenze e persino ai nostri corpi (portamonete permettendo), per pedalare con il massimo livello di confort e sicurezza, dall’altra, come detto si percepisce però un cambiamento della tendenza all’usa e getta, che parrebbe si stia poco a poco invertendo anche in Occidente: qua e là spuntano infatti sempre più negozietti che risistemano vecchie bici (incredibile constatare quanto fossero pregevoli le fatture di 50, 60 anni or sono). Chi porta quella ereditata dal nonno, chi fa risistemare quella in garage da tempo, ma che, come me, non aveva cuore di rottamare.

Da questa attività si può poi passare all’innovazione, innestando su vecchi e nuovi telai ad esempio dei sistemi per la pedalata assistita. Le bici elettriche stanno conoscendo un periodo d’oro: in molti riscoprono il piacere di pedalare, ma sicuramente è necessario stabilire regole precise per il loro utilizzo in sicurezza. Per fortuna, il trend è in crescita e ci sono sempre più officine che offrono servizi analoghi. Tornando agli tsukumogami, non sorprende che nel Paese del Sol Levante, famoso per la modernità estrema e la tecnologia sempre un passo avanti, si indugi invece in pratiche di recupero, più che di riciclo, di vecchi oggetti, secondo un altro concet-

to squisitamente giapponese: il mot), tainai ( ovvero il dispiacere nel vedere sprecato qualcosa, soprattutto se ancora in buono stato. Esistono ospedali per peluche, medici che aggiustano giocattoli rotti, artigiani che si dilettano a recuperare le cose apparentemente più strane all’occhio occidentale. C’è ad esempio una ragazza che recupera vecchie cartelle di scuola. Oggetto iconico in Giappone, le randoseru ) sono degli zainetti in ( pelle piuttosto robusti, che normalmente seguono ogni studente nei sei anni delle elementari. La collezionatrice li smonta con dedizione e trasforma i vari pezzi in altri oggetti: cornici, portafogli, porta chiavi, borse, dando a un oggetto altrimenti non più utile una nuova vita. E poi c’è chi da cinture di sicurezza e airbag, componenti durevoli e purtroppo non riciclate, ricava borse resistentissime per attività all’aria aperta. Alcuni di questi artigiani sono persone in pensione, che dopo una vita dedicata al lavoro, con la dedizione totale di cui i giapponesi sono capaci, si trovano senza far nulla, ma pieni di esperienza e di voglia di fare. E decidono di rimettersi in gioco con attività di questo tipo. Riciclare, rigenerare, ripristinare. Sono concetti che stanno tornando in voga, più per necessità che per moda. Anche da noi. Il Giappone non è poi così lontano. Annuncio pubblicitario

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L’intelligenza artificiale nel futuro della sanità Ricerca ◆ Laura Azzimonti, docente e ricercatrice all’Istituto Dalle Molle, ci spiega come l’IA sia già una realtà al servizio della salute e quale sia il suo potenziale di sviluppo Mattia Pelli

L’Intelligenza artificiale (IA) potrà mai imparare a pensare come noi esseri umani? «Io spero di sì, questa idea mi affascina, ma sarà possibile, forse, soltanto in un lontano futuro». Laura Azzimonti, docente e ricercatrice, dal 2020 responsabile dei progetti «AI in Health and Life Sciences» dell’Istituto Dalle Molle di Studi sull’Intelligenza Artificiale (IDSIA) di Lugano, è una studiosa rigorosa e competente, che però non esita a fare spazio anche alle emozioni quando si definisce «molto ottimista» per l’impatto positivo che l’IA potrà avere sulle nostre vite. E non si tratta di un ottimismo di facciata, dal momento che sta lavorando concretamente all’uso di questa nuova tecnologia in campo biomedico, con progetti già attivi in alcuni ospedali e altri in fase di sviluppo. Del resto l’Istituto Dalle Molle, che celebra i 35 anni dalla sua fondazione, è tra i 10 più importanti centri di ricerca che hanno fatto da apripista per la ricerca attorno alle IA a livello globale: da qui è passato uno come Shane Legg, fondatore di DeepMind Technologies, ora diventato il centro di ricerca di Google dedicato al machine learning. E sempre qui si è cominciato a pensare alle applicazioni delle IA in ambito sanitario, con tra le altre una collaborazione con l’Ente Ospedaliero Cantonale iniziata cinque anni fa. Laura Azzimonti, quali sono i settori in campo biomedico nei quali si sta sviluppando in modo più promettente l’utilizzo delle IA? Sono quattro quelli in cui siamo impegnati: il primo è quello della medicina personalizzata e predittiva, che consiste nel supportare le diagnosi mediche e le previsioni di andamento di una malattia sulla base di grandi quantità di informazioni, integrate con i dati genomici del paziente. Il secondo riguarda la computer vision, cioè le tecniche basate sull’IA che permettono di analizzare immagini e di

Già oggi l’intelligenza artificiale è al servizio della salute. (Freepik)

classificarle in modo automatico, per capire per esempio se ci sono cellule tumorali e aiutare gli istopatologi a individuarle e a contarle, velocizzandone il lavoro. Il terzo è quello dell’analisi dei testi: in questo caso l’esempio è quello delle cartelle cliniche, che grazie a queste tecnologie possono essere «lette» da una macchina, che poi è in grado di estrarre i dati che servono a elaborare dei modelli statistici. Grazie a questa enorme mole di informazioni si possono per esempio prevedere se ci saranno eventi avversi per un paziente nell’uso di determinati medicinali, se sarà necessaria una seconda ospedalizzazione a breve termine o se è da prevedere un peggioramento della malattia. Infine le IA possono essere utilizzate per simulare dei sistemi biologici complessi per verificare per esempio l’interazione tra una nuova molecola e la membrana cellulare per la messa a punto di nuovi farmaci. Uno dei progetti al quale sta lavorando si chiama Spearhead (spearhead-project.ch) e riguarda la lotta alla resistenza dei batteri agli antibiotici, una epidemia silenziosa

che preoccupa molto gli esperti. In che modo l’IA può aiutarci? Secondo l’OMS nel 2050 l’antibiotico resistenza sarà la principale causa di morte e non ci saranno più antibiotici efficaci per combattere batteri fino a qui curabili. Spearhead è un progetto finanziato da Innosuisse, l’Agenzia per la promozione dell’innovazione, e coinvolge un ampio consorzio di istituti di ricerca, aziende e ospedali. In questo contesto l’IDSIA ha messo a punto una piattaforma di consultazione per i medici, che li aiuta nella prescrizione degli antibiotici, basata su una grande mole di dati provenienti dalle cartelle cliniche degli ospedali coinvolti, estratti ed elaborati grazie al ricorso all’IA. In questo modo possono sapere quando è giusto prescriverli e quale antibiotico otterrà il miglior risultato. Ci può fare un esempio concreto? Spesso quando si presume che sia in corso un’infezione delle vie urinarie e di fronte alla necessità di agire in fretta, senza attendere analisi di laboratorio che possono prendere dalle 24 alle 48 ore, il medico prescrive un antibiotico ad ampio spettro che però

non funziona, rendendo necessario il ricorso a un altro antibiotico. In questo modo non si fa che aumentare la resistenza generale dei batteri, capaci di mutare per sopravvivere ai medicinali, che usati in dosi massicce vengono liberati nell’ambiente. Il nostro lavoro mira a evitare tutto questo. L’altro progetto al quale sta lavorando è relativo alla previsione del rischio di pre-diabete (praesiidium. spindoxlabs.com). Anche qui, l’IA come ci può aiutare? Il pre-diabete è una condizione di salute che si riferisce a un livello di glucosio nel sangue superiore alla norma ma non abbastanza alto da essere considerato diabete. Si tratta di una condizione che può anticipare l’insorgenza del diabete di tipo 2 e ne soffrono 541 milioni di adulti. Ma la cosa più importante è che il pre-diabete è reversibile; deve però essere diagnosticato precocemente e correttamente. In questo caso l’IA serve a identificare i pazienti a rischio grazie ai dati che arrivano da molte fonti diverse e a modelli matematici molto complessi. In questo caso qual è il metodo utilizzato? Vengono messi a punto dei modelli digitali del corpo umano, dei veri e propri «gemelli digitali» dei pazienti, integrati anche con i loro dati clinici, che permettono di predirne l’evoluzione. Questo aiuta i medici a prevenire il diabete consigliando i necessari cambiamenti nello stile di vita dei pazienti. È possibile pensare a un futuro in cui la medicina sarà in qualche modo automatizzata? Le faccio un esempio: in collaborazione con l’EOC e una startup ticinese stiamo lavorando a un progetto di telemedicina in ambito oncologico. I pazienti che tornano a casa dopo un ricovero potranno venire seguiti 24 ore su 24 attraverso dispo-

sitivi (smartwatch, fitness band, ecc.) i cui dati vengono monitorati grazie al ricorso a IA. In questo modo i malati sono sempre sotto controllo e si sentono più seguiti, anche se i medici di famiglia non sono sempre disponibili. In caso di parametri vitali problematici, il sistema può lanciare un allarme e fare intervenite direttamente un’ambulanza. Tutto questo pone però il problema dell’automatizzazione della medicina: non si rischia che con l’avvento delle IA la diagnosi e la cura siano demandate sempre più alla tecnologia e che il ricorso al medico sia invece sempre più raro e accessibile magari soltanto ai privilegiati? Io penso che il ricorso all’IA porti principalmente vantaggi. In particolare in campo medico permetterà l’automazione di una serie di mansioni di basso livello, lasciando ai medici maggiore tempo per occuparsi di compiti nei quali l’intervento umano è insostituibile e del rapporto con il paziente. Inoltre attraverso le IA si può gestire e analizzare una mole di dati che un essere umano non è in grado di controllare da solo e ottenere in questo modo un aiuto importante nelle diagnosi. IA che da sole fanno diagnosi: è un futuro possibile? Non nel breve termine. Le IA non sono generaliste, sono pensate per eseguire compiti specifici. È un po’ la stessa preoccupazione nata nell’opinione pubblica attorno a ChatGPT: si tratta di tecnologie che non ragionano da sole, la paura che questi strumenti possano sostituire l’essere umano mi pare ingiustificata. Quello che invece è positivo del dibattito che si è acceso sull’IA è che ha dato una spinta alla riflessione sulla loro regolamentazione. Tutto sta nelle mani degli esseri umani: sono loro che usano e programmano le IA, quindi sono fiduciosa.

La fonte preservata grazie agli emigranti

Il Ticino nel cybermondo – 2 ◆ In Australia c’è una riserva che custodisce tre sorgenti, una si chiama Locarno Spring Roland Hochstrasser

Nei dintorni di Hepburn Springs in Australia, è ancora possibile imbattersi nel retaggio materiale e immateriale legato al fenomeno migratorio tanto intenso sul finire del XIX secolo. Tra le tante comunità di stranieri che vi hanno contribuito, anche quella dei ticinesi in cerca di una sorte migliore. Se dovessi chiedere a uno dei miei figli di pensare a una destinazione esotica e lontana, quasi certamente la risposta sarebbe l’Australia. Se questo continente ci pare distante oggi, possiamo solo immaginare come lo percepivano i tanti ticinesi che in passato decisero di emigrare. Sulla «Gazzetta Ticinese» del 20 dicembre 1854 un annuncio pubblicitario cerca potenziali emigranti: «Emigrazione nell’Australia, paese delle miniere d’oro, delle lane e de’ vigneti». Il viaggio richiede, secondo quanto si legge nel testo, 80-90 giorni. Nei volumi curati dallo storico Giorgio Cheda, L’emigrazione ticinese in Australia, leg-

go che in realtà la traversata, tutt’altro che romantica e piacevole, poteva durare ben di più, soprattutto per le navi in partenza da Amburgo e Anver-

sa (110-170 giorni). A metà del XIX i cercatori d’oro ticinesi si trasferirono in diverse località di Vittoria in cerca di sistemazioni più sicure. Tra queste, la

Cartolina degli anni Venti: prendendo l’acqua alla sorgente Locarno, Hepburn Springs, Rose Stereograph Co. (State Library Victoria)

regione di Daylesford e in particolare Hepburn. Ancora oggi, in quest’area, il retaggio dei migranti ticinesi, e non solo, sopravvive. Ne sono un esempio la festa che si tiene annualmente a Hepburn, la Swiss Italian Festa, o ancora il colore delle divise dell’Hepburn Springs rugby club, blu e rosse come la bandiera ticinese. Ma le testimonianze sono anche nell’architettura: nei dintorni di Yandoit è possibile trovare costruzioni edificate con tecniche usate nei paesi d’origine. Una di queste è posta sotto tutela statale: si tratta della fattoria costruita da Carlo Gervasoni nel 1859-1860, un complesso di edifici vernacolari realizzati per sostenere attività agricole e vitivinicole, cadute in rovina a partire dagli anni Venti del Novecento. Di particolare rilevanza l’iniziativa di Severino Guscetti, già granconsigliere tra il 1848 e il 1851 e successivamente consigliere di Stato, che permise di salvaguardare le acque minerali di Hepburn Springs, diventate

successivamente una delle principali attrazioni turistiche della regione. Nel dicembre del 1864 promosse un incontro con altri emigranti ticinesi e italiani, i quali inoltrarono una richiesta al governo locale per preservare la fonte dalla progressiva espansione delle prospezioni minerarie e porla sotto tutela dello stato. Grazie alla loro lungimiranza, oggi, la Hepburn Mineral Springs Reserve comprende un edificio storico, le fonti minerali e un parco di 30 ettari. La riserva ha tre fonti principali, Soda, Sulphur e… Locarno, nome ripreso da una fattoria dei dintorni. Malgrado l’esotismo e la distanza geografica anche l’Australia sembra culturalmente un po’ più vicina. In collaborazione con l’Ufficio dell’analisi e del patrimonio culturale digitale, Divisione della cultura e degli studi universitari, Dipartimento dell’educazione, della cultura e dello sport.


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MONDO MIGROS

Riapertura di Migros Ascona: nuova veste per la filiale

Info Migros ◆ Riprende le attività questo giovedì, 9 novembre 2023, completamente rinnovato, il punto vendita Migros di Ascona in Via Muraccio 2. Per l’occasione tre settimane di sconti, omaggi e sorprese per grandi e piccini

Inaugurata nel 1997, dopo alcune parziali migliorie apportate negli anni, questa stimata filiale della zona del Locarnese necessitava di modifiche radicali per restare al passo con i tempi. L’intervento iniziato lo scorso 4 settembre ha quindi permesso un ulteriore significativo passo avanti nel rinnovo della rete di vendita di Migros Ticino. L’investimento totale per questo importante esercizio di quartiere è stato di 2.3 milioni di franchi.

Per sottolineare questa importante riapertura, Migros Ticino ha previsto tre settimane di festeggiamenti I lavori hanno rispettato gli audaci traguardi di sostenibilità ed efficienza energetica stabiliti dalla Cooperativa. Le strutture, interamente ammodernate e all’avanguardia, sono ora caratterizzate dai più alti e innovativi standard Migros. Il precedente riscaldamento a nafta è stato sostituito da un moderno ed ecologico sistema, che combinerà il freddo commerciale a riscaldamento e climatizzazione, re-

cuperando calore dai frigoriferi a gas naturale CO2 di ultima generazione. Anche il nuovo impianto d’illuminazione LED a basso consumo giocherà in favore dell’ambiente. Il supermercato, in grado di servire comodamente tutta la popolazione di Ascona e i numerosi turisti che frequentano la zona Locarnese, si presenta ora nuovo fiammante, con una superficie di vendita di circa 600 metri quadrati. Esso è facilmente raggiungibile da chiunque, sia con i principali mezzi pubblici sia tramite mobilità lenta oppure in automobile, disponendo di un pratico parcheggio esterno per biciclette e di numerosi posti riservati ai clienti Migros nell’autosilo sotterraneo adiacente.

Un assortimento variegato I clienti potranno fare rapidi acquisti, così come una spesa quotidiana o settimanale più ampia. L’offerta di prodotti alimentari si focalizzerà sul fresco e sull’ultra fresco, con il fiore all’occhiello rappresentato dal rinnovato reparto frutta e verdura di nuova

Le numerose iniziative per la riapertura Per enfatizzare questa nuova importante iniziativa di miglioramento, Migros Ticino ha previsto tre settimane di festeggiamenti, con varie iniziative, scontistiche e colorati omaggi: nel programma spiccano la colazione offerta a tutti dalle 08.00 alle 10.00 e l’animazione per i più piccoli – con trucca bimbi e palloncini dalle 10.00 alle 17.00 – proposte sabato 11 novembre.

Orari e contatti di Migros Ascona

concezione. Il reparto non alimentare sarà altrettanto ben fornito e spazierà dai numerosi articoli per la casa fino ad arrivare all’area della cosmetica. Ben rappresentate saranno le linee di prodotto sostenibili e a chilometro zero, quali Migros Bio e Nostrani del Ticino, affiancate da una buona sele-

zione di altri articoli a valore aggiunto. Il negozio sarà dotato di casse tradizionali e, per chi invece va un po’ più di fretta, di pratiche e rapide casse per il self checkout. Un moderno forno per la cottura del pane completerà l’offerta di questo rinnovato negozio Migros.

Il responsabile Giuseppe Di Rienzo e i suoi otto collaboratori, cordiali e ben preparati, sono pronti disponibili per soddisfare ad Ascona i bisogni della clientela con cura e attenzione, in un clima accogliente e famigliare. Orari di apertura Lunedì-venerdì: 8.00-19.00 Sabato: 8.00-18.30 Tel. 091 821 77 00. Annuncio pubblicitario

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Dall’Odissea a Corto Maltese Un viaggio nell’immaginario di Hugo Pratt ma anche nelle terre di poeti ed esploratori, al pari di Giacomo Leopardi e il suo Infinito

Piatti di una tradizione internazionale La quasi totalità degli ingredienti che oggi sono utilizzati nelle nostre cucine provengono da millenni di importazioni

Un omaggio all’autunno Celebriamo la bellezza di questa stagione, realizzando insieme dei suggestivi portacandele per accogliere al meglio l’inverno

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Faux-books, IA, e altri misteri (in)sondabili

Tra il ludico e il dilettevole ◆ La lettura è uno specchio della nostra società, dei suoi cliché, delle sue derive e delle sue paure Sebastiano Caroni

Ricordo in modo distinto una pubblicità di una marca di caffè solubile su una rivista inglese. C’era un tizio, vestito in maniera formale, seduto su una poltrona in una stanza oltremodo spoglia, se non per alcuni oggetti: una tazza di caffè appoggiata su un tavolino, e un libro in edizione hardcover che l’uomo tiene in mano. L’intento è di rappresentare un uomo placidamente assorto nella lettura di un libro, un’espressione di soddisfazione in volto che si riverbera sul prodotto reclamizzato. A dirla tutta, quell’immagine mi risultò subito ingannevole, forzata. Avete presente quando nei cataloghi di vestiti dei grandi magazzini trovate dei ragazzoni che, indossando delle pesanti giacche imbottite, giocano entusiasti una partita di beach volley sotto il sole cocente? Non so se avete mai giocato a beach volley, ma farlo indossando una giacca imbottita sotto la stecca del sole, equivale più o meno a giocare un torneo di street basket con gli scarponi da sci. Nel caso della pubblicità del caffè la forzatura, certo, non era così palese, ma c’erano dei dettagli che ren-

devano l’immagine poco plausibile. I lettori navigati sanno, per esempio, che non è particolarmente piacevole leggere un’edizione hardcover di un libro e che, potendo scegliere, è molto più maneggevole quella economica. Per cui, se un pubblicitario volesse veramente comunicare in un’immagine il piacere della lettura, farebbe meglio a scegliere un’edizione economica, non una hardcover. Queste sono utili, semmai, a chi pensa che il libro sia una sorta di soprammobile che conferisce un’aura di rispettabilità ma che, temo, si guarderebbe bene dal passare ore di piacevole ozio immerso nella lettura. C’è chi pensa che i libri servano a essere letti, e c’è chi, pur non coltivando il passatempo della lettura, non rinuncia al prestigio vicario che la presenza di titoli importanti sembra misteriosamente diffondere nell’aria. Nel 2006, la giornalista del «New York Times» Alex Kuczynski pubblica Beauty Junkies (La bella e la bestia, Elliot, 2008) un libro sul mondo della chirurgia estetica. Durante la ricerca e la raccolta di dati che porta alla pubblicazione, Kuczynski intervista i

professionisti del settore e, improvvisandosi antropologa, sperimenta sulla propria pelle – nel vero senso della parola, è il caso di dirlo – alcune delle procedure particolarmente in voga in quel momento. A un certo punto della sua inchiesta ottiene un appuntamento con un importante chirurgo plastico, che la invita nel suo ufficio. Qui, Kuczynski non può fare a meno di notare che «diversi scaffali sono riempiti di libri finti, i cui dorsi dovrebbero assomigliare a quelli di prime edizioni rilegate in pelle». Sulla scrivania del chirurgo plastico – prosegue la giornalista – «c’è un porta fazzoletti quadrato, con lo stesso tema: i fazzoletti sembrano essere tenuti assieme da vecchie edizioni de Il grande Gatsby, La lettera scarlatta e Vanity Fair. A differenza delle false copertine dei libri, che creano una sorta di villaggio Potëmkin del successo letterario, il porta fazzoletti non ha senso nella sua ovvia falsità. Quale rilegatore del XIX secolo avrebbe strappato i dorsi delle sue prime edizioni per farne un porta fazzoletti?». I falsi libri – che in inglese si chiamano faux-books –, l’avrete capito,

sono degli involucri vuoti che riproducono la copertina di classici della letteratura e che vengono usati come soprammobili. I lettori avveduti, lo sappiamo, non sono insensibili all’estetica dell’oggetto libro, e sanno apprezzare il design di una bella copertina. Dei libri, come abbiamo visto, amano anche la consistenza, lo spessore, l’odore delle pagine. Tenere in mano un libro può essere un’esperienza speciale, e finanche avere un che di sensuale ed erotico. Ma il piacere che il libro può dare rimane, sempre e comunque, essenzialmente quello della lettura, di quell’immersione nei mondi che la scrittura dischiude. E come si fa a leggere un libro vuoto? Quindi, di fronte a dei falsi libri, o faux-books, i lettori smaliziati non possono non riconoscere, e a ragione, un controsenso plateale, uno stratagemma di cattivo gusto, l’indizio imprescindibile di un harakiri intellettuale. Il piacere e l’atto stesso della lettura sono complementari, e in un certo senso speculari, al piacere e all’atto della scrittura. Di recente si è parlato molto di intelligenza artificiale, ChatGPT, di macchine e di creatività. È

chiaro che le macchine intelligenti sono in grado di scrivere un libro, o di realizzare un film. Al tempo stesso, però, continuo a nutrire forti dubbi sul senso ultimo di una simile operazione. Non mi lancerò in una riflessione sulla differenza fra l’intelligenza umana e l’intelligenza artificiale. Non questa volta: ma vi propongo un esperimento mentale. Avete presente il film Fahrenheit 451 di François Truffaut, tratto dal romanzo di Ray Bradbury? Provate a immaginare un remake, interamente realizzato dall’intelligenza artificiale, dove al posto dei classici, vengono bruciati libri scritti interamente da un’intelligenza artificiale. Non vi sembra che ci sarebbe qualcosa di strano, di vagamente assurdo? Non trovate che sarebbe come bruciare dei banali soprammobili, o, tanto per rimanere in tema, dei faux-books? Consigli di lettura Alex Kuczynski, La bella e la bestia, Elliot, 2008 (i passi citati sono stati tradotti direttamente dall’originale in inglese).


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Anno LXXXVI 6 novembre 2023

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TEMPO LIBERO

Viaggio nell’immaginario di Hugo Pratt

Itinerario ◆ Da Ulisse a Corto Maltese: al Museo Civico di Villa Collaredo Mels di Recanati, fino al 7 gennaio 2024, sono in mostra alcune tavole del Maestro di Malamocco Paolo Merlini, testo e foto

Recanati è un luogo estremamente prattiano. Il «natio borgo selvaggio» alto su un colle tra i fiumi Musone e Potenza, somiglia a un vascello con la prua rivolta all’Adriatico e la poppa sui Monti Sibillini. «Volat irreparabile tempus» («Il tempo vola irrimediabilmente») la massima virgiliana – sarebbe stata bene in bocca a Corto Maltese – sottostà all’orologio sulla tolda di questa nave rappresentata dal cortile di Palazzo Venieri che, affacciato a Oriente, guarda il monte Conero. Al di là del promontorio c’è la città «a forma di gomito» (Ankón, l’attuale Ancona) fondata nel IV secolo a.C. dai Greci Dori che sul colle Guasco eressero un tempio a Venere Euplea (la dea della buona navigazione). Lassù in cima alla necropoli del capoluogo pontificio che nel 1556 vide l’Inquisizione condannare al rogo 25 ebrei «marrani» sefarditi – come gli avi di Pratt da parte di madre –, riposano ancora le reliquie di San Ciriaco in un duomo di stile romanico a pianta centrale a croce greca.

L’Odissea è stato il primo libro acquistato dal piccolo Ugo e Ulisse è a tutti gli effetti il marinaio da lui disegnato prima di Corto Partiamo dalla cronaca: il 25 agosto la piccola città marchigiana ha tenuto a battesimo la mostra Da Ulisse a Corto Maltese. Viaggio nell’immaginario di Hugo Pratt, evento organizzato in seno al Recanati Comics Festival, giunto quest’anno alla terza edizione. Fulcro dell’esposizione – resterà aperta fino al 7 gennaio 2024 presso il Museo Civico di Villa Colloredo Mels – sono le 26 tavole integrali dell’Odissea realizzate nel 1963 per il «Corriere dei Piccoli», su testi di Franca Ongaro Basaglia. Ma non finisce qui: la Cong-Pratt – società fondata nel 1983 da Hugo Pratt allo scopo di gestire e promuovere il suo intero patrimonio artistico – ha ripubblicato la storia di Ulisse con i disegni originali, adeguatamente ricolorati per mano di Patrizia Zanotti e dotati di testi nuovi di zecca a cura di Fabrizio Paladini e Marco Steiner. Non risulta che Hugo Pratt abbia mai messo piede a Recanati – Città della Poesia – ma una volta ebbe a dichiarare: «nella letteratura quello che mi tocca maggiormente è la poesia perché la poesia come il fumetto, è sintetica e procede per immagini». Giacomo Leopardi da questo luogo ha segnato la rotta per L’Infinito racchiusa nell’estrema sintesi in quel verso «io

nel pensier mi fingo», formula magica per volare altrove con la fantasia, pratica che riesce bene anche ai divoratori di fumetti. L’Odissea è stato il primo libro acquistato dal piccolo Ugo Prat – questo il vero nome del disegnatore – e Ulisse è a tutti gli effetti il primo marinaio da lui disegnato – Corto Maltese fece il suo esordio solo nel 1967, protagonista de Una ballata del mare salato, pubblicata sul n° 1 di «Sgt. Kirk». Crediamo che per Pratt, Recanati avrebbe rappresentato «la terra dell’Infinito», non una Itaca alla quale tornare. «Heureux qui comme Ulysse a fait un beau voyage» («Felice chi, come Ulisse, ha fatto un bellissimo viaggio») chissà quante volte la nota lirica di Joachim du Bellay avrà risuonato nelle orecchie del nostro che considerava «l’uomo dalla mente dai mille colori» il più astuto dei personaggi omerici, «il primo vero avventuriero, il primo vero viaggiatore» e l’Odissea «un caleidoscopio di tutte le situazioni del romanzo d’avventura». Hugo Pratt, oltre che talentuoso artista e personaggio straordinario è stato un viaggiatore avventuroso animato da una continua ansia di conoscenza, incarnando la figura del perfetto ulisside. La parola Avventura deriva dal latino adventura ossia «ciò che accadrà»; Marco Steiner, amico ed erede spirituale di Pratt, partendo dall’etimologia ha identificato l’immaginario del maestro di Malamocco come quella irresistibile vitalità sprigionata dai suoi disegni che prima ammalia e poi stimola il lettore a inventare a sua volta qualcosa. L’immaginario di Hugo Pratt è fortemente contagioso e così, al cospetto delle numerose opere d’arte della Pinacoteca, immaginiamo che al disegnatore non sarebbe sfuggita la singolare circostanza per la quale – trecento anni prima che Leopardi, dall’ermo colle, gettasse lo sguardo oltre la «siepe, che da tanta parte dell’ultimo orizzonte il guardo esclude» – Recanati diede albergo a un altro artista veneziano. Nel 1506, il pittore Lorenzo Lotto approdò a questi lidi invitato dai Padri Domenicani per i quali dipinse uno dei sui capolavori, Il Polittico di San Domenico. L’imponente pala d’altare – è esposta al piano nobile del Museo Civico di Villa Colloredo Mels, nella stanza adiacente alla mostra di Hugo Pratt – nacque come opera di protesta verso un’ingiustizia perpetrata ai danni dei recanatesi da Papa Giulio II, reo di aver assegnato al papato la giurisdizione sul Santuario di Loreto provocando a Recanati una grave perdita economica.

L’immaginario di Pratt oltre a essere fortemente contagioso, come abbiamo detto, provoca dipendenza: a pensarci bene, anche Giulio II ha qualcosa a che spartire con Ulisse. Il Papa Guerriero – se il personaggio non fosse esistito veramente, lo potevamo pensare partorito dalla feconda fantasia di Hugo Pratt – quando

il 14 gennaio 1506, presso una vigna sul colle dell’Esquilino fu rinvenuto il complesso marmoreo del Laocoonte, in quanto digiuno di storia dell’arte mandò niente meno che Michelangelo a verificarne la provenienza prima di provvedere all’acquisto. «Timeo Danaos et dona ferentes» («Ho paura dei Danai e di coloro che portano do-

ni»), il troiano Laocoonte, veggente e gran sacerdote di Poseidone che insieme ai figli è vittima di Porcete e Caribea – due spaventosi serpenti marini – fa bella mostra di sé nel Museo Pio-Clementino dei Musei Vaticani. L’itinerario espositivo della mostra Da Ulisse a Corto Maltese si completa col racconto per immagini di numerosi personaggi esotici usciti dalla matita di Pratt. «Per spiegare meglio quello che devo a Stevenson dirò che mi ha mostrato come si possa dare a un racconto d’avventura una dimensione poetica: ha influenzato la mia tecnica narrativa nello stesso modo in cui Milton Caniff ha influenzato il mio segno grafico» e la perla nascosta di questa imperdibile mostra di Recanati è proprio un acquerello che ritrae il sacello delle mortali spoglie di Robert Louis Stevenson a Vailima, piccolo villaggio a breve distanza da Apia, città sulla costa settentrionale dell’isola di Upolu nello Stato di Samoa in Oceania… buon viaggio! Informazioni Su www.azione.ch, si trova una più ampia galleria fotografica.


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TEMPO LIBERO

Il mondo intero nei nostri piatti

Gastronomia ◆ Quasi tutti gli ingredienti che oggi coltiviamo in Europa provengono dall’estero

pei hanno portato in tutto il mondo. Dall’India arrivano i polli. I maiali sono, curiosamente, nativi in molti luoghi, dato che sono il discendente domestico dei cinghiali, presenti quasi dovunque nell’Eurasia, addomesticati autonomamente: non sempre c’è un’origine unica. Dalla Mezzaluna Fertile, a parte il grano, sono arrivati gli ovini, il carciofo, la prugna e altri; la mela arriva dall’Asia Centrale, come pure la cipolla. Dall’Africa caffè, anguria e melone (forse). Gigantesca è stata l’importanza dei prodotti americani: patate, mais e pomodoro hanno veramente cambiato l’Europa e il mondo. E anche cacao e tabacco. Senza dimenticare i peperoni e il peperoncino, il tacchino e molti tipi di fagioli. Tutto questo è avvenuto non tanto «per caso» ma perché sollecitato da chiunque avesse il potere in qualsiasi paese. Probabilmente sta nel DNA degli umani il desiderio, anzi la necessità di aumentare la produzione delle piante esistenti e di acclimatare quelle nuove, per combattere l’onnipresente, per millenni, spettro della carestia e della malnutrizione, ed essendoci questa «domanda» i mercanti hanno fatto il resto. Sia chiaro, non tutte le piante hanno avuto un immediato successo: le patate sono state osteggiate a lungo, soprattutto in Italia. Altre invece hanno avuto un’accoglienza immediata, su tutte il peperoncino, che conquistò il mondo in pochi decenni – e perché piaceva, non perché era considerano un battericida (lo è, ma poco, i veri battericidi sono cipolla e aglio, onnipresenti per questo motivo nelle cucine di tutto il mondo). In sintesi, cosa vuol dire? Che la nostra cucina, come le cucine di tutti, è figlia di tutti gli ingredienti del mondo: quale prova di intelligenza e lungimiranza di chi li ha valorizzati.

Come si fa?

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Guardando agli ultimi millenni: quali e quanti sono gli ingredienti importati e acclimatati nel Mediterraneo, per finire poi in Italia e nel resto dell’Europa? Moltissimi, anzi la quasi totalità: a volte erano del tutto nuovi, altre volte avevano la caratteristica di essere più produttivi di quelli precedenti, che venivano così sostituiti: emblematico il caso dei fagioli, già noti ai Romani, ma spazzati via da quelli americani quando arrivarono da noi; oggi, qui sono gli unici sopravvissuti, sebbene rimangano una piccola percentuale del mercato; parliamo dei fagioli dall’occhio. Proviamo a riflettere da dove vengono le piante coltivate oggi dalle nostre parti, pur mettendo già in conto, ovviamente, che non tutti sono d’accordo sulle reali origini delle specie, dato che sono perlopiù rivendicate da più parti. Delle cinque principali, a livello di importanza e di valore in assoluto, il grano anzi i grani, vengono dalla cosiddetta Mezzaluna Fertile, ovvero dal Medio Oriente, in un territorio situato fra il Tigri e l’Eufrate. Il riso, dal sud della Cina. Il mais, dalle Americhe, come pure le patate. L’uva, dal Caucaso. Insomma, questi cinque colossi che hanno messo radici nei nostri terreni sono tutti immigrati. La Cina – da millenni fa fino al secolo scorso – è stata una grande fonte, furono però i popoli che ora chiamiamo mediorientali, a fare da «intermediari», con i loro mercanti. Per dire, sono di origine cinese tutti gli agrumi, diffusisi ai tempi del dominio romano nel Mediterraneo e aree limitrofe; ma anche il sorgo, lo spinacio, la melanzana (anche se forse è indiana), la pera, l’albicocca, lo scalogno, la banana (forse malese) e altre derrate ancora. Anche i bovini, peraltro. E pure la canna da zucchero che, come per il caffè, non si è acclimatata in Europa ma gli euro-

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Allan Bay

Anche oggi vediamo come si fanno due ricette che hanno la caratteristica di necessitare di una sola padella. Petto di anatra in salsa d’arancia (ingredienti per 4 persone). Ungete una padella con un filo di olio e adagiate 1 petto di anatra dalla parte della pelle. Iniziate la cottura a fred-

do e non appena la pelle inizia a sfrigolare cuocete per 4 minuti. Girate il petto sull’altro lato e cuocete per 2 minuti. Levatelo e avvolgetelo in alluminio per alimenti. Mettete nella padella una noce di burro, scaldate e sfumate con Grand Marnier o brandy. Aggiungete mezza arancia tagliata a fettine e il succo della parte rimanente. Portate al bollore, rimettete il petto in padella. Proseguite la cottura per altri 2 minuti, irrorando la carne con il sugo. Regolate di sale e di pepe. Servitelo tagliato a fettine e nappato con la salsa. Cotolette di vitello in carpione (per 4 persone). Per il carpione, mescolate in una ciotola mezzo bicchiere di

acqua calda, 4 cucchiai di olio, 2 cipolle tagliate al velo, l’uvetta, i pinoli, il prezzemolo, 2 cucchiai di aceto e 1 cucchiaino di miele, quindi lasciate riposare. Tagliate a fette 500 g di carré di vitello, battetele leggermente dividetele a metà e passatele nelle uova leggermente sbattute, panatele con cura e friggetele in abbondante burro o olio per 10 minuti, girandole più volte fino a dorarle uniformemente. Scolate e adagiatele su carta assorbente da cucina. Disponete le cotolette in una teglia, regolate di sale e di pepe e irrorate con il carpione. Lasciate riposare almeno 8 ore in luogo fresco prima di servire.

Ballando coi gusti

Oggi, due gustosi piatti a base di un onnipresente ingrediente: il petto di pollo.

Straccetti di pollo in agrodolce in vaso

Pollo al cartoccio con gamberi e lime

Ingredienti per 4 persone: 500 g di petto di pollo – 1 gambo di sedano, 2 carote piccole – 1 cipolla media – 1 foglia di alloro – 1 cucchiaio di capperi sott’aceto – una manciata di uvetta ammollata e strizzata – vino dolce – concentrato di pomodoro – zucchero di canna – miele – olio – aceto – sale.

Ingredienti per 4 persone: 500 g di petto di pollo – 16 code di gamberi mondate – 2 lime – 1 peperoncino secco – zucchero – burro – olio – sale.

Tritate sottilmente tutte le verdure. Tagliate il petto di pollo a listarelle, poi battetele con un batticarne. Scaldate l’olio in una casseruola, aggiungete le verdure e rosolatele per 4 minuti. Unite le listarelle di pollo, 2 cucchiai di vino dolce, 1 cucchiaio di miele, 1 punta di concentrato di pomodoro stemperato in poca acqua, 2 cucchiai di aceto e 1 cucchiaio di zucchero di canna e mescolate. Suddividete il composto in 4 vasi, chiudeteli e proseguite la cottura a bagnomaria in forno a 160°C per 30 minuti. Servite accompagnando con riso pilaf.

Tagliate il petto di pollo a fettine. Mettetelo in una ciotola e copritelo con una miscela composta da 3 cucchiai di olio, il succo di 1 lime, ½ cucchiaino di sale, ½ cucchiaino di zucchero. Lasciate a marinare in frigorifero per almeno 2 ore. Sciacquate i gamberi sotto acqua corrente fredda e asciugateli con carta da cucina. Preparate 4 fogli di carta da forno e spennellateli con olio. Adagiate in ognuno ¼ del pollo marinato sgocciolato e 4 gamberi. Terminate con poco burro e peperoncino sbriciolato. Chiudete ogni cartoccio e cuocete in forno a 210° per 10 minuti. Servite il cartoccio aperto e decorato con fettine di lime.


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Per una calda luce d’autunno

Crea con noi ◆ In onore della stagione realizziamo degli originali portacandele utilizzando tondi di betulla, chiodi e filati Giovanna Grimaldi Leoni

Materiale

L’autunno è la stagione che ci porta colori caldi e atmosfere accoglienti. Complici le giornate che si fanno più corte, ci invitano a rallentare e goderci l’atmosfera casalinga. Ecco un tutorial per creare dei portacandele partendo dai tondi di betulla, ispirati alla bellezza e ai toni di questa stagione. Procedimento Procuratevi dei tondi in legno. Possono essere di qualsiasi tipo ma per questo tutorial useremo il legno di betulla. Potete autoprodurli oppure acquistarli già pronti. Nel primo

di girate sottosopra il tondo in legno e, appoggiandolo su una superficie, controllate che i chiodi abbiano tutti la stessa altezza. Se così non fosse regolatela. Scegliete i filati tono su tono. Potete usare un filato diverso per ogni porta candela oppure mischiarli a piacimento. Lasciando 15 cm di agio iniziate a costruire l’involucro. Girate il filato attorno al chiodo, quindi passate a quello successivo, sempre facendo fare al filato un giro completo attorno ai singoli chiodi. Procedete così fino a ricoprire tutta l’altezza dei chiodi fissati. Quando completate l’ultimo giro, lasciate 15cm di agio e tagliate il filo. Portate l’inizio e la fine del filato verso l’interno e annodateli. A questo punto potete tagliarli oppure usare la parte lasciata in eccesso per creare un fiocco decorativo.

caso, passateli anche con la carta vetrata per rendere la superficie liscia. Potete tagliarli di altezze diverse, l’importante è che il piano sia ben livellato. Piantate i chiodi tenendoli a circa 0,5 mm dalla circonferenza. Per ogni tondo calcolate 8-10 chiodi equidistanti. Potete prendere le misure o, se avete buon occhio, fissare il primo chiodo, poi quello diametralmente opposto. Successivamente, proseguite dividendo in quarti e in ottavi. Una volta fissati tutti i chiodi assicuratevi che siano ben fermi. Quin-

Giochi e passatempi Cruciverba

Lo strumento più costoso al mondo, venduto per 45 milioni di dollari è una… È stato realizzato da … Il suo nome è… Ed è stato venduto… Termina la frase risolvendo il cruciverba e leggendo le lettere evidenziate. (Frase: 5, 10, 9, 1, 6)

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Scoprite i 3 numeri corretti da inserire nelle caselle colorate.

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25. Lieve soffio 27. Preposizione articolata 29. Strenne 30. Nome femminile VERTICALI 1. Composto di elementi diversi 2. In coppia con Tristano 3. Un armo del canottaggio 4. Prima moglie di Giacobbe 5. Due vocali 6. Il suo latte si avvicina molto a quello materno 9. Un Matt attore

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Decorate a piacere con materiale naturale, e completate inserendo il vasetto in vetro, con il lumino o la candela scelta. Vi auguriamo piacevoli atmosfere autunnali. Tutorial completo azione.ch/tempo-libero/passatempi

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11. Trasmette immagini 13. Sono in posizione verticale 14. Si ripetono nei compleanni 15. Aquila a Londra 16. Così è a volte la sorte 17. Canta «Come te nessuno mai» 19. Ha scritto «Il postino suona sempre due volte» 21. Sigla di insegnamento a distanza 23. Prefisso che vuol dire vino 26. Articolo 28. Nel pomeriggio e nella sera

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ORIZZONTALI 1. Trasgredita, profanata 7. Avversione mista a rancore 8. Tribunale della Santa Sede 9. Preposizione 10. Andato... per Cicerone 11. Il «de» olandese 12. L’osteria meno seria 13. Fermarsi, trattenersi 18. Reagisce con la base 20. Chiodo inglese 22. Teseo fu uno dei suoi re 24. Un anagramma di già

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Regolamento per i concorsi a premi pubblicati su «Azione» e sul sito web www.azione.ch I premi, tre carte regalo Migros del valore di 50 franchi, saranno sorteggiati tra i partecipanti che avranno fatto pervenire la soluzione corretta entro il venerdì seguente la pubblicazione del gioco. Partecipazione online: inserire la soluzione del cruciverba o del sudoku nell’apposito formulario pubblicato sulla pagina del sito. Partecipazione postale: la lettera o la cartolina postale che riporti la soluzione, corredata da nome, cognome, indirizzo del partecipante deve essere spedita a «Redazione Azione, Concorsi, C.P. 1055, 6901 Lugano». Non si intratterrà corrispondenza sui concorsi. Le vie legali sono escluse. Non è possibile un pagamento in contanti dei premi. I vincitori saranno avvertiti per iscritto. Partecipazione riservata esclusivamente a lettori che risiedono in Svizzera.


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TEMPO LIBERO / RUBRICHE

Viaggiatori d’Occidente

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di Claudio Visentin

In sella per la Trans dinarica o tutti a Bodø? ◆

Anche nel programmare le prossime vacanze ritorna sempre la vecchia storia della cicala e della formica. Per le cicale – gli inguaribili ottimisti – non è mai troppo tardi e sognano occasioni imperdibili o last minute che saranno disponibili ancora a maggio e giugno. Ma per gli altri – i pianificatori ansiosi – la fine dell’anno in rapido avvicinamento è già troppo tardi; di certo le offerte migliori se ne saranno andate e si starà peggio pagando di più. Per questi ultimi, tuttavia, c’è un ulteriore dilemma, specie per chi era abituato ai ritorni estivi: stessa spiaggia stesso mare, anno dopo anno, sole, sabbia e ozio. Infatti nelle ultime due estati le ondate di calore sono state intollerabili, con temperature ben sopra i 40°C in luglio. E poi incendi quasi ovunque, zanzare, meduse, mancanza d’acqua. Certo la vicinanza del mare aiuta ma, se non puoi uscire fino alle

cinque del pomeriggio e la notte è un inferno, la libertà promessa dalla vacanza si trasforma in una sorta di trappola; e allora meglio starsene a casa. E così, per la prima volta in oltre mezzo secolo, le statistiche rilevano nuovi orientamenti. Per esempio BBC Travel indica nel luglio 2019 il mese con più arrivi in Italia (9’255’000 visitatori stranieri), un recupero quasi completo nel 2022 (9’064’000), seguito però da una flessione in luglio 2023 (8’748’000). Certo le ragioni possono essere diverse. L’Italia ha accusato i media stranieri di interessata disinformazione. E si potrebbe chiamare in causa la crisi, la disorganizzazione in molti settori del turismo, la guerra eccetera. Tuttavia, secondo una ricerca di European Travel Commission, un significativo 10% di turisti è meno interessato ai tradizionali soggiorni estivi nel Mediterraneo; e un soli-

do 5% ha già spostato le sue vacanze in autunno. Inoltre l’8% ha indicato specificamente gli «eventi meteorologici estremi» come la principale preoccupazione per i viaggi in Europa. Meglio dunque lamentarsi meno e organizzarsi di più, sia sul fronte della mitigazione sia con politiche a lunga gittata. Chi invece alla classica vacanza stanziale preferisce i viaggi può attingere al calendario culturale. Per esempio nel 2024 Bodø, in Norvegia, sarà la prima Capitale europea della cultura a nord del Circolo polare artico. Tra gli stravaganti eventi previsti, un falò di mezza estate, un festival della libertà, un concerto in una grotta sommersa e un’opera lirica sullo stoccafisso. A Bodø si affianca Bad Ischl-Salzkammergut, in Austria, già conosciuta per le sue miniere di sale (ma ora «La cultura è il nuovo sale», recita lo slogan).

Infine la terza capitale è Tartu, di cui sin qui poco o nulla si sapeva. Ma non pensate al rigore nordico: il palazzo del municipio della seconda città dell’Estonia è rosa e nella piazza antistante c’è la statua del bacio. In occasione dei cinquant’anni dal primo grande viaggio del suo fondatore, Tony Wheeler, Lonely Planet propone cinquanta mete di tendenza. Potreste considerare la Mongolia, che ha recentemente allentato le restrizioni sui visti, o il Benin, la patria spirituale del vudù. Tra le città, naturalmente la Parigi delle Olimpiadi 2024 o la fluviale Manaus, la principale metropoli amazzonica alla confluenza di fiumi immensi nel mezzo di una foresta infinita. Potrebbe incuriosirvi anche la Trans dinarica, il primo percorso ciclabile che collega tutti i Balcani occidentali in 80 tappe e 3364 km attraverso Slovenia, Croa-

zia, Bosnia-Erzegovina, Montenegro, Albania, Macedonia del Nord, Kosovo e Serbia. Tourism Review si è spinta ancora oltre proponendo le «Cinque destinazioni meno visitate». Sono tutte nel Pacifico: le isole Marshall, Niue, Kiribati e la Micronesia. Ma il primo posto spetta all’isola-Stato di Tuvalu, il Paese con meno visitatori al mondo: solo 3.700 all’anno, nonostante le splendide lagune e le barriere coralline. I pochi turisti e la bellezza della natura sono ottime ragioni per andarci ma ce n’è anche un’altra: entro il 2100 Tuvalu potrebbe essere il primo Paese al mondo a essere sommerso per effetto del cambiamento climatico. E questo ci riporta al nostro punto di partenza e ci ricorda che forse la scelta delle prossime vacanze non dovrebbe proprio essere in cima alle nostre preoccupazioni.

Passeggiate svizzere

di Oliver Scharpf

L’Uto-Kino a Zurigo

rossa deviano, a metà del loro tragitto, in lievi oscillazioni elettrizzanti. E il trattino, tra Uto e Kino, è una stellina appena percettibile. Il neon bianco ritorna, sottolineando l’insegna e oltre, contornando tutto il perimetro sotto della pensilina e focalizzandosi poi verso la porta d’entrata, formando tre triangoli convergenti. La triangolarità è ripresa nei vetri e nel legno della porta art déco. È presente anche nel marcapiano che corre sopra l’insegna luminosa: una rimarchevole linea tobleronica scolpita nella pietra. Seguendola fino all’angolo con

Martin Walder

Un magnifico cinema morente mi aspetta, stasera, nel Kreis drei, quartiere di Zurigo noto anche come Wiedikon. A passo digressivo, tipico delle prime vere sere d’autunno, dalla stazione raggiungo in non so quanto, l’Uto-Kino (412 m). Il cui nome al neon, al tre della Kalkbreitestrasse, è illuminato dal diciannove novembre 1927. I titoli dei film in sagex già valgono il viaggio. Nelle vetrinette, cinquantuno lettere ritagliate a regola d’arte nel polistirene espanso, compongono i tre film in programma: The Unlikely Pilgrimage of Harold Fry, Rose, Beyond Tradition. In un colpo d’occhio, così, una sera a fine ottobre, attraverso questo semplice lavoretto super efficace, alla faccia di un mondo rimbesuito dall’ipertecnologia, viene ridonata dignità alla manualità perduta. L’insegna al neon rosso, rigato di bianco, per un fan come me, provoca gioia estrema: una rarità, è a caratteri western. Il contorno bianco lungo le sei lettere della scritta

Sport in Azione

la Elisabethenstrasse, ecco il pezzo forte: illuminato dal neon blu sottostante di un’altra più piccola insegna, c’è un enorme mascherone grottesco. Sbozzato nella pietra sempre tenendo a mente il leitmotiv triangoli, c’è un po’ di tutto, in questa espressione: furore, malinconia, sdegno, magia. Se come architetto è saltato fuori un certo Fritz Fischer di cui si sa molto poco, nessuno sa niente dell’autore di questa meraviglia segreta. Un mascherone postfuturista che personifica, secondo alcuni, lo spirito dei boschi dell’Uetliberg. La montagna-collina sullo sfondo di Zurigo, nota anche amichevolmente come Uto e che fa parte di questo quartiere. Altri tirano in ballo la divinità egizia Uto, per via dell’egittomania tra i cinema d’epoca spesso chiamati Luxor. In realtà, forse, i mascheroni appartengono solo a sé stessi, vivono una vita propria, misteriosa, sono divinità da strada, in simbiosi con lo stupore dei passanti.

Ultima minuzia, all’entrata di questo cinema western-espressionista: al limitare della vetrinetta con i particolarissimi titoli dei film in cartellone, catturo due sagome vuote a forma di diamanti. Al loro interno, un filo di neon, spento, forma delicati triangoli stellari. Sprofondato tra le poltrone rosso vermiglio di questo storico cinema operaio – il più vecchio cinema zurighese ancora in vita, almeno fino alla prossima primavera – in penombra, i manifesti originali di Ieri, oggi, domani (1963) e La romana (1954), mi sembrano già vestigia. Sophia Loren e Gina Lollobrigida, ultime dive di un mondo svanito, lanciano uno sguardo protettore nella sala dove sul soffitto, due ghiribizzi al neon mimano ventilatori da saloon. Harold Fry, quieto pensionato inglese, un mattino, a colazione, oltre ai toast, trova sul tavolo, in verticale, una lettera di una sua amica persa di vista. È in un ospizio, ha il cancro, sta per morire. Uscito per imbucare la

goffa lettera di risposta, Harold Fry, per via anche delle parole di una ragazza con i capelli blu in un negozietto dove era entrato a prendere il latte, alla fine decide di non tornare a casa. E incamminarsi, così su due piedi – dopo aver annotato in fretta, in matita, sulla busta, «wait for me» – verso l’ospizio dove si trova Queenie Hennessy, convinto che finché è in cammino non morirà. La trama iniziale di questo incredibile pellegrinaggio imprevisto dal Devon a Berwick-upon-Tweed, il cui protagonista è lo straordinario attore Jim Broadbent, mi ricorda subito un po’ quella del racconto Sentieri nel ghiaccio (1974) di Werner Herzog. In mocassini, Harold Fry, oltre alla fatica, dovrà fare i conti con i sensi di colpa che riaffiorano attraverso i flashback del figlio, lettore di Milton perduto in una spirale dolorosa di birra e pasticche. Non un capolavoro, ma un film commovente e ilare che ti cambia la vita.

di Giancarlo Dionisio

Il coraggio di dire no ◆

Lo scorso mese di agosto, Swiss Olympic ha avviato uno studio di fattibilità per verificare l’ipotesi di riportare i Giochi Olimpici invernali in Svizzera, 82 anni dopo l’edizione disputata a St. Moritz nel 1948. Al sondaggio lanciato dal nostro massimo organismo sportivo, il 56% degli intervistati ha risposto affermativamente. La notizia è passata quasi inosservata. Tuttavia, poche settimane dopo, Swiss Olympic è tornata alla carica, conscia del fatto che se c’è un paese in grado di allestire un’edizione invernale dei Giochi, ad alta sostenibilità economica e ambientale, è proprio la Svizzera. Si tratterebbe di un’edizione diffusa. Inaugurazione nella capitale olimpica Losanna, chiusura in quella federale a Berna. Gli eventi sportivi sarebbero distribuiti su dodici siti sparsi nel paese. «C’est l’argent qui fait la guerre» («Sono i soldi che fanno

la guerra»). Questo detto vale molto spesso anche per gli eventi sportivi. In mancanza, per ora, di una candidatura ufficiale, non circolano cifre. Tuttavia, se dovessimo ipotizzare il budget di un’eventuale edizione CH 2030, saremmo di certo nettamente al di sotto di quanto hanno speso coloro che hanno organizzato le recenti edizioni. Ad esempio, quella di Sochi 2014, in ossequio alla celebrazione della grandeur di Vladimir Putin, con i suoi 51 miliardi, guida nettamente la classifica degli spendaccioni. Di quell’avventura sono rimaste le macerie delle cosiddette cattedrali nel deserto. Segue Pechino 2022. In Cina hanno dichiarato 3,8 miliardi. Da inchieste indipendenti è risultato che in realtà il bilancio era dieci volte superiore. In sostanza, la Svizzera riuscirebbe a spendere poco e a chiudere in atti-

vo, accompagnata da robusti sponsor stimolati dalla sua credibilità. Certamente, le sue responsabilità se le deve assumere anche il Comitato Internazionale Olimpico. Con i tempi che corrono, il desiderio di ecumenismo, che suggerisce di portare i Giochi ovunque, deve sottostare a criteri rigorosi di sostenibilità finanziaria e ambientale. Senza perdere di vista i fondamentali aspetti politici. I delegati dovrebbero urlare il loro no granitico a paesi e regimi che schiacciano le minoranze e calpestano i diritti umani. Sotto questo profilo, il nostro Paese può rimanere sereno. Si sa che il prossimo anno a Parigi sono attesi oltre 15 milioni di visitatori, per assistere a un’edizione estiva che dovrebbe costare attorno agli 8,8 miliardi di euro. Si sa anche che la previsione relativa all’impatto ambientale parla di 1,6 milioni di ton-

nellate di CO2, circa il 60 % in meno rispetto a Londra 2012 e Rio de Janeiro 2016. Quindi è possibile fare meglio e tornare su cifre più rispettose. La Svizzera potrebbe essere un esempio virtuoso. Trovo legittimo che Swiss Olympic ci creda. Con un’industria alberghiera fiorente, due aeroporti internazionali, una buona rete ferroviaria, costi e impatto ambientale potrebbero senza dubbio essere da record. Tredici delle quattordici discipline in programma disporrebbero già delle adeguate infrastrutture. Mancherebbe solo uno stadio per il pattinaggio di velocità, per il quale si ipotizza una collaborazione con un paese confinante. Proprio come potrebbe accadere per le gare di bob, skeleton e slittino nell’edizione 2026, prevista a Milano-Cortina d’Ampezzo, che potrebbero svolgersi proprio a St. Mo-

ritz. In Italia si grida allo scandalo, anche se è comprensibile che non si vogliano investire 34 milioni per il ripristino dell’infrastruttura di Cesana che, terminate le Olimpiadi di Torino del 2006, è stata dismessa. Per poter assistere di nuovo a dei Giochi Olimpici in Svizzera si dovrà dapprima passare sui banchi del Parlamento dello Sport, il prossimo 24 novembre. Poi si andrà verosimilmente verso una consultazione popolare. Se il popolo svizzero risponderà affermativamente, potremo fungere da esempio, magari da modello vincolante. Se invece griderà un chiaro no, dovremo avere il coraggio di richiedere a Swiss Olympic di non più inviare i nostri atleti a manifestazioni che ricalcano le modalità nefaste di Sochi 2014. Se non lo facessimo, saremmo verginelli da una parte, complici dall’altra.


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ATTUALITÀ ●

Gli errori degli Stati Uniti L’America di Biden ha sottovalutato l’Iran che sostiene le milizie jihadiste e incoraggiato la connection finanziaria tra il Qatar e Hamas

Quelle scintille tra India e Canada Tra i due Paesi resta alta la tensione dopo l’uccisione di un membro di organizzazioni separatiste Sikh nei pressi di Vancouver

Più contadini in Parlamento Le elezioni hanno visto l’avanzata dell’influente lobby dei contadini a Berna. Come inciderà questo balzo sulla politica futura a Palazzo?

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Palestinesi in fuga da Gaza City. La forza di difesa israeliana dovrà occupare e controllare la Striscia, nel frattempo ridotta a un cumulo di rovine. (Keystone)

Una continua lotta per la sopravvivenza

Hamas/Israele ◆ La guerra è asimmetrica e potrà essere interrotta solo da tregue, mai dalla vittoria finale di una parte o dell’altra Lucio Caracciolo

La guerra fra Hamas e Israele è asimmetrica. Un’organizzazione di massa che persegue la «liberazione della Palestina» anche ricorrendo al terrorismo nelle sue forme più efferate contro lo Stato della Nazione ebraica. L’asimmetria non è solo nelle strutture, nei mezzi e nei modi, ma nel traguardo perseguito durante lo scontro. Israele vuole distruggere Hamas perché quel gruppo islamista vuole distruggerlo. Non ci riuscirà proprio perché non è uno Stato ma un gruppo jihadista. Il cui scopo è sopravvivere a qualsiasi battaglia per continuare nello «sforzo» (jihad). Orizzonte religioso, atemporale. Si possono ammazzare migliaia di terroristi, ma trattandosi di gente al servizio di una causa questa troverà altri adepti disposti a proseguirla. Così come lo Stato ebraico si considera in lotta continua per la sopravvivenza. Questa sequenza infernale lascia prevedere un conflitto che potrà essere interrotto solo da tregue, mai dalla vittoria finale di una parte o dell’altra. A meno che una non decida di suicidarsi. Chi può sconfiggere Israele oggi? A ben guardare so-

lo Israele. Non certo i palestinesi, divisi in vari gruppi e milizie, privi di un soggetto che possa rappresentarli a un eventuale tavolo di pace. Quanto agli Stati arabi, chi più chi meno hanno da tempo smesso di credere nella causa palestinese, ammesso l’abbiano mai sposata. Sono invece interessati a stabilire rapporti economici, commerciali e tecnologici con Israele. E a comprarne alcuni sistemi d’arma con cui farsi la guerra fra loro (per esempio il Marocco, armato da Gerusalemme, contro l’Algeria, rifornita soprattutto dai russi). Pare che il principe ereditario saudita Mohammed bin-Salman, vero capo del suo Paese, abbia commentato la guerra di Gaza ripromettendosi di ristabilire il prima possibile il negoziato oggi sospeso con Israele per un’intesa a largo spettro. Quanto ai palestinesi: «Ma che ci hanno fatto con tutti quei soldi che gli abbiamo regalato?». L’unica certezza, finora, è che dopo il 7 ottobre e indipendentemente dall’esito comunque non decisivo della guerra in corso, Israele è più debole. Perché la questione palestinese che aveva pensato di chiudere con

il ritiro da Gaza e la chiara spaccatura fra Hamas e Autorità Nazionale, incentivata da tutti i Governi israeliani e da Netanyahu in particolare, è tornata a occupare i media e a mobilitare parti rilevanti dell’opinione pubblica, in tutto il mondo. Potrà essere un fuoco di paglia. Probabile. Ma per ora è un fatto. Che spezza il finora riuscito tentativo di Tel Aviv di impedire qualsiasi compromesso con i palestinesi. Come a suo tempo affermato dal generale Gershon Hacohen, l’uomo che gestì lo sgombero dei coloni ebraici da Gaza, nel 2005: «Dobbiamo dire la verità. La strategia di Netanyahu è di impedire l’opzione dei due Stati. Sicché sta volgendo Hamas nel suo più stretto partner. Pubblicamente Hamas è nemico. In segreto, è alleato». Prima del 7 ottobre la manutenzione di Gaza era garantita da copiosi flussi di denaro provenienti dal Qatar e consegnati a Hamas dai servizi segreti egiziani, dopo che gli israeliani ne avevano controllato il passaggio. Dopo il massacro di israeliani perpetrato da Hamas e da gruppetti di terroristi appartenenti alla parte più san-

guinaria della galassia salafita – Stato islamico compreso – il patto è saltato. Se mai riuscisse a spianare Gaza e a sottrarla alla morsa di Hamas, Israele dovrà trovare un regime per tenere in vita quel che resterà della popolazione gaziana. Operazione difficile. Nel frattempo Tzahal, la forza di difesa israeliana, dovrà fare ciò che in questi 18 anni aveva evitato: occupare e controllare la Striscia, nel frattempo ridotta a un cumulo di rovine.

La strategia di Netanyahu è di impedire l’opzione dei due Stati. Sicché sta volgendo Hamas nel suo più stretto partner L’ideale per Israele sarebbe trasferire almeno il grosso degli abitanti di Gaza sopravvissuti alla guerra nel deserto del Sinai, sotto formale autorità egiziana. Il generale al-Sisi, presidente dell’Egitto, non ne vuol sentir parlare. Perché teme che dalla Striscia si infiltrino nel Sinai già sufficientemente instabile manipoli dei Fratelli Musulmani, ideologizzati da Hamas.

I suoi peggiori nemici. Piani per il trasferimento di palestinesi nel Sinai esistono da almeno vent’anni, ma l’Egitto li ha sempre rifiutati. La «Grande Gaza» proposta da alcuni strateghi israeliani, titolo della formula appena descritta, è restata lettera morta. Ma se la guerra inasprisse, la pressione dei disperati gaziani potrebbe essere tale da diventare incontrollabile. Certamente Gerusalemme non farebbe nulla per trattenerli. Intanto la guerra sta provocando riallineamenti e virate in tutta la regione. La più importante finora è la svolta pro Hamas e contro Israele della Turchia. Gerusalemme e Ankara hanno coltivato in passato, sia pur sottotraccia, importanti rapporti di collaborazione, specie di intelligence. Dopo che Erdogan, spinto dalla piazza e dall’emozione, si è schierato con i «liberatori» di Hamas, non è possibile continuare in questa intesa sotterranea. Espressa in forte chiave anti-occidentale. È il primo Paese schierato con Hamas, considerato organizzazione terroristica dagli altri. Interessante eccezione. Quanto provvisoria?


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ATTUALITÀ

La crisi mediorientale dilania il Labour

Gran Bretagna ◆ Il conflitto tra Israele e Hamas scalda gli animi in un Paese multietnico dove la convivenza tra comunità è difficile Cristina Marconi

Nel momento in cui tutto sembrava andare per il meglio per lui – sondaggi favolosi, consenso talmente saldo da permettere di parlare di Brexit – sul cielo di Keir Starmer, capo del Partito Laburista britannico (Labour Party), si sono addensate pesanti le nuvole del conflitto in Medio Oriente: non chiede un cessate-il-fuoco e la sua posizione è considerata troppo tenera nei confronti di Israele, soprattutto dopo che alla radio ha gestito male la domanda-trabocchetto in cui gli si chiedeva se qualunque risposta in seguito agli attacchi di Hamas fosse legittima. Con quattro milioni di musulmani nel Regno Unito, molti dei quali tradizionalmente elettori laburisti, la situazione è complessa all’interno del partito dove molti esponenti anche di alto profilo, come il sindaco di Londra Sadiq Khan, si sono espressi a favore di un cessate-il-fuoco: 60 deputati e 250 consiglieri, di cui 30 hanno presentato le dimissioni. Starmer, con un certo ritardo, ha dichiarato di comprendere le ragioni di chi lo chiede, ma che non pensa che sia una soluzione perché lascerebbe Hamas imbaldanzita e con tutti gli strumenti per perpetrare nuovi attacchi. Quando è uscito da Chatham House, il think tank dove ha tenuto il suo discorso, la sua macchina è stata presa d’assalto dai manifestanti pro-Palestina. Nel Paese si respira una for-

te aria pre-elettorale e Starmer aveva ogni ragione per sperare di andare il prima possibile alle urne. In vantaggio rispetto ai Tories indeboliti da quasi 14 anni di Governo nonostante diversi premier (Cameron, May, Johnson, Truss e Sunak), il congresso del Labour a Liverpool era stato un successo, una consacrazione, sia per il leader sia per la sua cancelliera in pectore Rachel Reeves, convincente nella sua difesa della crescita economica, e non del taglio delle tasse o dell’aumento del debito, come unico strumento per rilanciare un Paese in stallo e bisognoso di sicurezze. Poi la stella di Reeves ha preso un brutto colpo quando il «Financial Times» ha scoperto che il suo libro sulle donne che hanno fatto la storia dell’economia conteneva interi passaggi copiati da Wikipedia e da altre fonti non dichiarate. Starmer si è ritrovato impantanato in una questione che scuote il partito nel profondo, come provato dal fatto che la sua prima dimostrazione di leadership vera l’aveva data facendo una lotta senza quartiere all’antisemitismo che aveva preso piede nel partito sotto la guida di Jeremy Corbyn, il cui ex addetto stampa era davanti a Chatham House a protestare contro la macchina di Starmer. «L’unica soluzione credibile», ha spiegato il leader laburista dopo una serie di consultazioni con i membri

Keir Starmer, capo del Partito Laburista britannico. (Keystone)

del suo partito e dopo aver modificato il testo del suo intervento in modo da renderlo più compassionevole e attento alla sensibilità degli elettori musulmani, «è una tregua umanitaria» per permettere agli aiuti di raggiungere i civili, visto che «un cessate-il-fuoco congela il conflitto nel momento in cui si trova» e «gli attacchi sono ancora in corso. Gli ostaggi che dovrebbero venire rilasciati sono ancora lì. Hamas sarebbe rafforzata e inizierebbe immediatamente a preparare nuovi atti di violenza». Starmer nega che la questione mediorientale stia «dilaniando» il partito. Sulle questioni fondamentali, ossia la necessità di porre fine alle sofferenze della

popolazione di Gaza e il raggiungimento della soluzione dei due Stati, c’è accordo, «anche se c’è una differenza di visione su come deve essere realizzata». Il suo elettorato è diverso da quello dei conservatori, dove il premier Rishi Sunak ha potuto espellere un deputato, Paul Bristow, sostenitore del cessate-il-fuoco senza pensarci due volte. Nel Labour finora è stato sospeso dal partito parlamentare il deputato di Middlesbrough Andy McDonald per aver pronunciato lo slogan «dal fiume al mare» durante una manifestazione filopalestinese, sebbene – ha cercato di spiegare – nel contesto di una «pacifica» coabitazione tra israeliani e palestinesi. Star-

mer ha chiesto ai deputati laburisti di essere attenti al linguaggio, dicendo che il principio della responsabilità collettiva verrà preso «estremamente sul serio». In città multietniche come quelle inglesi la convivenza tra le comunità è difficile: immagini della polizia che toglie le foto dei bambini rapiti da Hamas dalla saracinesca di una farmacia di Edgware, a Londra, hanno suscitato orrore e la spiegazione di Scotland Yard, ossia che le immagini siano state rimosse per evitare di esacerbare le relazioni tra musulmani ed ebrei, ha suscitato molta indignazione, anche perché questa premura nella de-escalation non ha riguardato gli inni antisemiti durante le manifestazioni filopalestinesi. Il farmacista aveva retwittato dei post pesantemente antisemiti, invocando l’aiuto di Iran e Hezbollah contro gli «sporchi animali». Come risposta erano stati affissi sul suo negozio i poster dei bambini rapiti, suscitando chiamate preoccupate di residenti della zona. E infatti il sindaco Sadiq Kahn ha chiesto ai manifestanti pro-Palestina, che stanno portando avanti varie forme di protesta, di considerare la sensibilità di tutti. «Magari non state facendo niente di illegale, ma pensate a come questo può essere percepito dagli ebrei londinesi», ha spiegato. «Alcuni di loro sono intimoriti, alcuni sono spaventati». Come se fosse normale. Annuncio pubblicitario

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ATTUALITÀ

Gli errori di Joe Biden

Medio Oriente ◆ Gli Stati Uniti hanno sottovalutato l’Iran che sostiene le milizie jihadiste e hanno incoraggiato la connection finanziaria tra il Qatar e Hamas. Intanto, in America, si scontrano le correnti filo-israeliana e filo-palestinese Federico Rampini

La politica estera sembrava un punto di forza per il presidente americano Joe Biden. Le cose si sono guastate il 7 ottobre 2023 con l’attacco di Hamas che ha fatto strage di civili israeliani. Quello che è stato definito «l’11 settembre israeliano» potrebbe provocare un effetto simile all’11 settembre 2001 che colpì al cuore l’America. Cioè risucchiare nuovamente l’attenzione e le risorse strategiche di Washington verso un Medio Oriente nel quale avrebbe voluto impegnarsi meno, per concentrarsi sulla sfida con la Cina. Le stragi di Hamas, poi le vittime nella popolazione palestinese, mettono a repentaglio la triangolazione Usa-Israele-Arabia che doveva stabilizzare l’influenza americana in Medio Oriente, e costruire un cordone israelo-sunnita per contenere l’Iran. Le crisi internazionali inoltre accentuano le divisioni politiche interne: la politica estera Usa è strattonata da correnti che vanno dalla destra isolazionista alla sinistra filo-palestinese.

Il presidente americano Joe Biden e, sotto, istantanea da Jabalia, Striscia di Gaza. (Keystone)

Le stragi di Hamas, poi le vittime nella popolazione palestinese, mettono a repentaglio la triangolazione Usa-Israele-Arabia Aver sottovalutato l’Iran è uno degli errori che rimarranno incollati alla reputazione di Biden, un politico che ha sempre vantato la propria esperienza internazionale. Centinaia di terroristi di Hamas furono addestrati in Iran prima della carneficina di civili israeliani. Aggiungiamo il flusso di armi iraniane verso la Cisgiordania, le milizie jihadiste sostenute da Teheran e basate in Libano, Siria, Yemen, che hanno intensificato i lanci di missili e droni non solo sul territorio israeliano ma anche contro i militari americani in Medio Oriente. Questo è l’ultimo capitolo di una trappola iraniana dalla quale l’America non riesce a liberarsi. Washington ha oscillato fra l’uso del bastone o della carota, senza successo. Il tentativo «soft» perseguito da Barack Obama, cioè l’accordo sul nucleare, è rimasto un piano incompiuto e avvolto da mille dubbi sulla sua reale efficacia, prima ancora di essere bocciato da Donald Trump. Quell’accordo secondo i critici offriva generosi benefici a Teheran, in cambio di limiti e controlli inadeguati sulla costruzione della bomba atomica. La stessa illusione di rabbonire la teocrazia sciita ha spinto Joe Biden a promettere sei miliardi di dollari a Teheran in cambio di qualche ostaggio americano: per la Casa Bianca doveva essere un passo verso ulteriori accordi, l’avvio di una de-escalation e forse un rallentamento dei piani nucleari di Teheran. Intanto i pasdaran della rivoluzione islamica stavano addestrando Hamas in vista dell’assalto. Biden si apprestava a completare l’operazione iniziata sotto Trump con gli accordi di Abramo. Dopo il riconoscimento di Israele da parte di Emirati, Bahrein, Marocco e Sudan nel 2020, il gran finale doveva includervi l’Arabia Saudita. Sarebbe nato un asse tra Israele e le leadership arabe moderate, modernizzatrici e sempre più laiche. Uno scopo era neutralizzare l’Iran. Biden, Netanyahu e il principe saudita Mohammed bin Salman

non avevano previsto la ferocia della reazione iraniana. Un altro errore che pesa sulle spalle di Biden (anche se l’origine risale a Barack Obama) è l’aver incoraggiato la connection finanziaria tra il Qatar e Hamas. Il Qatar è stato per anni il principale fornitore di capitali a Hamas, ma ha svolto questo ruolo con il consenso degli Stati Uniti e di Israele. L’ambasciatore del Qatar a Washington ha ricordato l’antefatto di quella connection. «L’ufficio politico di Hamas nel Qatar – ha detto – venne aperto nel 2012 dopo una richiesta da Washington per stabilire linee in-

dirette di comunicazione con Hamas. Quell’ufficio è stato spesso usato negli sforzi di mediazione, per aiutare nella de-escalation di conflitti in Israele e nei territori palestinesi». Non a caso gli americani si sono avvalsi della mediazione del Qatar per la liberazione di alcuni ostaggi nelle mani di Hamas. Altra conferma implicita: la Casa Bianca e il Dipartimento di Stato americani affermano di avere avviato insieme con il Qatar un «riesame» della decisione di ospitare i vertici di Hamas a Doha. Non si è trattato quindi di una pressione dell’Amministrazione Biden sul Qa-

Atrocità che colpiscono Gaza Mercoledì scorso il Ministero della sanità della Striscia di Gaza, gestito da Hamas, ha dichiarato che oltre 9 mila persone sono state uccise dall’inizio della guerra, il 7 ottobre. Di queste, più di 3700 erano bambini. Altri 32’000 palestinesi sarebbero rimasti feriti. Intanto l’Unicef ha lanciato un appello: «Questa non può diventare la nuova normalità. I campi profughi, gli insediamenti per gli sfollati interni e i civili che li abitano sono tutti protetti dal Diritto internazionale umanitario. Le parti in conflitto hanno l’obbligo di rispettarli e

proteggerli dagli attacchi». Dal canto suo il capo degli affari umanitari dell’Onu, Martin Griffiths, ha denunciato il bombardamento del campo profughi di Jabalia che ha provocato centinaia di morti, definendolo «l’ultima atrocità che ha colpito gli abitanti di Gaza». Nella Striscia – ha aggiunto – i combattimenti sono entrati in una fase ancora più terrificante, con conseguenze umanitarie sempre più spaventose. «Il mondo sembra incapace, addirittura riluttante, ad agire per porre fine a questa guerra». / Red.

tar perché cessi di sostenere quell’organizzazione terroristica, bensì di un dialogo bilaterale per rivedere una scelta che a suo tempo fu fatta di comune accordo. La decisione rievocata dall’ambasciatore qatarino risale al 2012: a metà del secondo mandato di Barack Obama, con Biden vicepresidente. Gli Stati Uniti fecero un calcolo improntato al pragmatismo: serviva avere un canale di contatto indiretto con Hamas, benché la sua natura di organizzazione terroristica fosse pubblicamente sancita e condannata da Washington. È evidente però che anche Obama-Biden sottovalutarono il pericolo, giocarono con il fuoco senza prevedere la terribile forza distruttiva che si sarebbe scatenata. Con la guerra in Medio Oriente, non solo la politica estera ha smesso di essere un punto di forza per Biden, ma ha fatto esplodere una divisione in seno al suo partito, tra la corrente filo-israeliana e quella filo-palestinese. Ricordo l’incidente di Harvard, la più prestigiosa di tutte le università americane. In questo tempio del sapere nelle prime ore dopo la mattanza di civili israeliani da parte di Hamas, trenta associazioni studentesche firmarono un documento che legittimava il terrorismo, non spendeva una sola parola per condannare le sue stragi (incluse le uccisioni di bambini), anzi proclamava che «il regime israeliano è l’unico responsabile per la violenza». Chiamate in causa, le autorità accademiche dopo molte esitazioni si limitarono a precisare che quel testo non esprimeva una posizione ufficiale dell’ateneo. Il caso-Harvard non era isolato. A Berkeley, California, un documento di «sostegno incondizionato» ad Hamas – e non una parola di cordoglio per le sue vittime – ha riunito cinquanta associazioni studentesche. Alla Columbia University di New York un gruppo di iscritti ha festeggiato il massacro di civili come una «storica controffensiva». Episodi analoghi sono accaduti in altre università di élite sulle due coste degli Stati Uniti. La vastità del consenso pro-Hamas, con punte di aperto antisemitismo e una totale assenza di

condanna per le stragi di civili israeliani, ha sorpreso solo chi non conosca il clima ideologico che regna in quei campus. Il problema è che a Harvard, Columbia, Berkeley, si forma la nuova classe dirigente americana… e questa generazione viene allevata da anni nella ostilità verso l’Occidente. L’ultima tragedia del Medio Oriente sta provocando un divorzio tra due componenti storiche della sinistra americana: la comunità Jewish progressista, e l’ala radicale pro-Hamas che domina nei campus universitari oltre che in altre fazioni come il movimento dell’estremismo antirazzista Black Lives Matter. Una manifestazione di questo scisma coinvolge i grandi donatori, essenziali per il buon funzionamento delle università di élite. Tra i mecenati che finanziano generosamente l’accademia americana, è ben rappresentata la comunità ebrea. Questa, almeno in alcuni suoi esponenti di punta, prende le distanze dagli atenei che hanno ospitato e avallato manifestazioni pro-Hamas nonché episodi di aperto anti-semitismo. La spaccatura oppone alcune delle constituency storiche della sinistra democratica Usa. Il caso dei ricchi mecenati è solo un aspetto. Anche nel mondo della cultura e dello spettacolo la spaccatura è evidente, per esempio con le spietate critiche lanciate da un re della satira televisiva come Bill Maher agli studenti privilegiati che tifano per Hamas e non hanno speso una parola di cordoglio per i bambini israeliani uccisi. Il newyorchese Maher incarna un concentrato di constituency della sinistra storica: di padre cattolico irlandese, e madre ebrea ungherese, nel suo album di famiglia confluiscono due comunità che sono dei pilastri dell’elettorato democratico sulla East Coast. Nella campagna elettorale del 2024 una parte della sinistra filo-palestinese – i giovani dei campus, i Black più radicali – potrebbero disertare il campo democratico e votare per candidati indipendenti come Robert Kennedy Jr o Cornel West. Col rischio di far ri-vincere Donald Trump, grande amico di Benjamin Netanyahu.


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ATTUALITÀ

Se allevi serpenti nel tuo cortile…

India-Canada ◆ La tensione tra Nuova Delhi e Ottawa resta alta dopo l’uccisione di un cittadino di origine indiana vicino a Vancouver. Si tratta di Hardeep Singh Nijjar, membro di organizzazioni separatiste Sikh sostenute dal Pakistan e dalla Cina Francesca Marino

L’India espelle lo scorso 19 ottobre, citando ragione di reciprocità numerica nel numero di diplomatici dei rispettivi Paesi, quarantuno diplomatici canadesi minacciando di altrimenti revocare loro l’immunità diplomatica. Immediatamente il premier canadese Justin Trudeau, a favore di telecamere, invoca presunte violazioni della Convenzione di Vienna (confondendola all’inizio con la Convenzione di Ginevra sui prigionieri di guerra) chiedendo alla comunità internazionale di intervenire per scongiurare il pericoloso precedente. La comunità internazionale, affaccendata in faccende di rilievo ben maggiore, ancora una volta esprime caute dichiarazioni di facciata e sostanzialmente lascia da solo Trudeau a uscire dal ginepraio in cui lui e il suo Governo si sono andati a cacciare.

Proteste della comunità Sikh a fine settembre, a Vancouver, dopo l’uccisione di Hardeep Singh Nijjar. (Keystone)

Lo scorso 18 settembre, parlando in Parlamento, Justin Trudeau ha accusato l’India di aver ammazzato «un cittadino canadese su suolo canadese» Lo scorso 18 settembre difatti, parlando in Parlamento, Trudeau accusava formalmente l’India di aver ammazzato «un cittadino canadese su suolo canadese». Il cittadino in questione sarebbe Hardeep Singh Nijjar, ammazzato il 18 giugno scorso da due sconosciuti nel parcheggio di un «gurudwara», la porta del Guru (un tempio) Sikh a Surrey, vicino a Vancouver. Un cittadino definito dalla stampa canadese «un idraulico» e dalla stampa estera via via «un attivista», un insegnante nel «gurudwara», fino ad arrivare a «un religioso». Hardeep Singh Nijjar non era nulla di queste cose, visto che aveva a suo carico diversi mandati di cattura dell’Interpol, era sulla «no fly list» sia degli Stati Uniti sia del Canada e la rete è piena di sue foto mentre imbraccia (e adopera) un mitra. Ma questi sono dettagli. Trudeau, ben oltre un mese dopo, non ha ancora fornito alcuno straccio di prova delle pesanti accuse rivolte verso il Governo indiano. Continua a parlare di «forte probabilità che ci sia un possibile collegamento diretto tra la morte di Nijjar e i servizi segreti indiani», e a citare in

ogni momento la questione talmente a sproposito da essersi guadagnato il dubbio onore di diventare un «meme» sui social media. Nijjar era più che un terrorista, un criminale: indagato in India per traffico di droga, omicidio e traffico di esseri umani. Ma era membro, come molti criminali comuni che hanno chiesto e ottenuto asilo e/o cittadinanza all’estero, del cosiddetto Khalistan Movement e di Sikh for Justice: organizzazioni fuorilegge in India, i cui componenti dichiarano di battersi per una patria dei Sikh e per la «liberazione del Punjab» e che regolarmente dichiarano di essere per questo motivo perseguitati. Ma i conti non tornano: le organizzazioni di cui sopra in India non hanno seguaci né sostenitori. E, curiosamente, i patrioti liberatori di cui sopra chiedono la liberazione non dell’antico regno del Punjab, quello di cui era a capo il maharaja Ranjit Singh e che aveva Lahore come capitale, ma del solo Punjab indiano. Perché i signori

di cui sopra e i loro movimenti sono finanziati e sostenuti dal Pakistan e dalla Cina con il solo scopo di creare tensioni in India.

I componenti del Khalistan Movement e di Sikh for Justice dichiarano di battersi per una patria dei Sikh e per la «liberazione del Punjab» Che c’entra il Canada? La comunità Sikh locale è molto numerosa ed è, per Justin Trudeau, essenziale. Il suo Governo è mantenuto in vita da un partito che ha a capo un sostenitore del Khalistan Movement. Che è forte, guarda caso, dove c’è anche una forte comunità pakistana. In Canada, in alcune zone degli Stati Uniti, in Inghilterra e anche in Italia. Dove si trova la più grossa comunità Sikh europea dopo quella inglese e dove, da qualche anno, cominciano ad arrivare, già armati di petizioni redatte da un avvocato,

ragazzi che si dichiarano perseguitati dall’India perché membri del Khalistan Movement. Risultato: un paio d’anni fa anche a Roma, come negli Stati Uniti o in Inghilterra, la locale ambasciata indiana è stata vandalizzata (a San Francisco è stata data alle fiamme). Anche in Italia nei «gurudwara» appaiono cartelli minacciosi più o meno inneggianti all’assassinio di Indira Gandhi a opera dei Sikh e manca poco perché appaiano anche nei templi locali i cartelli presenti nei «gurudwara» canadesi: «wanted», ossia ricercati, con le facce dei locali diplomatici indiani e la taglia sulla loro testa, come nel Far West. Intanto di recente a Pordenone una fazione Sikh ne ha inseguita un’altra con spade e bastoni ferendo il capo dell’Unione Sikh Italiana per il controllo sul locale «gurudwara». E a Novellara, in provincia di Reggio Emilia, qualcuno tirava tre molotov contro la casa del vicepresidente della stessa associazione. In Svizzera vivono circa 600 sikh ed esistono quattro «gurudwara» a Dän-

iken (SO), Langenthal (BE), Bassersdorf (ZH) e Ginevra (vedi www. haus-der-religionen.ch/sikhs). E non si sono registrati problemi. Mentre in Inghilterra dei gentiluomini del Khalistan Movement inscenavano una protesta a Londra davanti a Downing Street invitando il primo ministro Rishi Sunak (di origine indiana) a bere dalle bandiere indiane inzuppate di urina di mucca. Nel 1985 i patrioti del Khalistan hanno fatto esplodere il volo Kanishka da Toronto a Mumbay con 329 persone a bordo, continuano a fare strage in India di politici punjabi contrari alla loro ideologia e a scatenare risse e violenze un po’ in tutto il mondo. Hillary Clinton ha detto una volta: se allevi serpenti nel tuo cortile non puoi aspettarti che mordano soltanto i tuoi vicini. Chiudere gli occhi davanti a criminali comuni, terroristi e fiancheggiatori di terroristi solo perché attaccano qualcun’altro non è mai una buona idea. Trudeau dovrebbe pensarci bene, e anche noi. Annuncio pubblicitario

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Settimanale di informazione e cultura

Anno LXXXVI 6 novembre 2023

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azione – Cooperativa Migros Ticino

ATTUALITÀ

Più contadini in Parlamento

Svizzera ◆ Oltre all’avanzata dell’UDC, le ultime elezioni federali hanno rafforzato il settore agricolo, sollevando vari interrogativi su come l’influente lobby rurale inciderà sulla politica futura a Palazzo Luca Beti

Stivali verdi che arrivano quasi al ginocchio, una blusa azzurra e in testa un cappellino dell’UFA (azienda attiva nel settore dei mangimi). Un abbigliamento che forse non susciterebbe grande stupore in Consiglio nazionale, sicuramente meno rispetto all’entrata goliardica di Giuliano Bignasca che nel 1995 fece il suo ingresso a Palazzo federale brandendo un bastone ricurvo. Le recenti elezioni ci hanno infatti consegnato un Parlamento con una forte rappresentanza agricola. Il rinnovo delle Camere si è tradotto in un aumento di parlamentari legati al mondo contadino, un risultato che si deve anche all’avanzata dell’UDC. «I contadini hanno pianificato queste elezioni quasi in sordina», afferma Claude Longchamp, politologo, analista e fondatore dell’Istituto di ricerca gfs.bern. «Per incrementare la loro presenza a Berna, hanno fatto in modo che molti politici appartenenti al ceto agrario fossero inseriti nelle liste dei partiti borghesi, aumentando così le loro probabilità di essere eletti».

La Camera del popolo è diventata più anziana, più rurale e più maschile. La rappresentanza femminile è scesa dal 42% al 38,5% Se nella legislatura precedente i contadini erano una ventina, attualmente sono più di trenta. La Conferenza delle parlamentari e dei parlamentari contadini ne conta al momento 35, cifra che potrebbe aumentare di altri quattro dopo il ballottaggio per gli Stati. Inoltre circa un centinaio di parlamentari fanno parte del Club agricolo dell’Assemblea federale. L’appartenenza al primo gruppo è riservata a chi è davvero attivo nel settore primario, mentre l’adesione al Club è aperta a chiunque ha una certa affinità con il mondo agricolo. La piattaforma smartvote.ch ha calcolato che un deputato su dieci del nuovo Consiglio nazionale è contadino, e circa uno su sette ha legami con il settore agricolo. La lobby agricola continuerà quindi ad avere un forte influsso a Berna? «Nella prossima legislatura, i contadini democentristi cercheranno di dettare l’agenda politica, soprattutto nei gruppi parlamentari», spiega Longchamp. «Tuttavia sarà ancora l’Alleanza del centro a decidere qua-

Se nella legislatura precedente i contadini erano una ventina, attualmente sono più di trenta. (Keystone)

li proposte saranno discusse nelle due Camere. Ricordo però che i contadini hanno subito anche una parziale sconfitta alle recenti federali: il direttore dell’Unione svizzera dei contadini, il liberale radicale Martin Rufer, che avrebbe dovuto sostituire Jacques Bourgeois in Parlamento, non è stato eletto, una mancata nomina che indebolisce la lobby agricola». Il voto del 22 ottobre ha, almeno in parte, modificato il volto del Parlamento. Se le elezioni del 2019 ci avevano consegnato un Consiglio nazionale più giovane, più femminile e decisamente più verde, le ultime non si sono limitate a un mero intervento di «belletto». Complessivamente, la Camera del popolo è diventata più anziana, più rurale e più maschile. La rappresentanza femminile è scesa dal 42% al 38,5%. L’onda viola si è attenuata: dei 200 parlamentari, solo 74 sono donne, nonostante non si siano mai viste così tante candidate sulle liste elettorali. E ciò grazie alla scommessa lanciata da «Helvetia chiama!» ai presidenti dei partiti. L’obiettivo

del movimento femminile era la conquista del 50% dei seggi in Parlamento. Secondo Cloé Jans dell’Istituto demoscopico gfs.bern, lo scivolamento a destra del Parlamento ha avuto importanti ripercussioni sulla presenza femminile. L’UDC, la grande vincitrice, è il partito che storicamente promuove meno le donne in politica. Le prospettive per il Consiglio degli Stati sono un po’ più rosee. Anche se i risultati non sono ancora definitivi, poiché in molti Cantoni si andrà al ballottaggio, ci sono buone possibilità che la quota femminile nella Camera alta venga mantenuta o addirittura aumentata. È anche grazie all’ottimo risultato dell’UDC se il mondo agricolo può festeggiare. Dieci degli undici neoeletti sono membri del partito guidato da Marco Chiesa. Dei 35 parlamentari contadini in Consiglio nazionale e in Consiglio degli Stati, 22 sono democentristi, tre verdi, otto dell’Alleanza del Centro, uno del PLR e uno dell’Unione democratica federale. Come abbiamo già sottolineato, il fronte agrico-

lo esce rafforzato dal recente rinnovo, non da ultimo grazie all’alleanza denominata «Prospettiva Svizzera» tra rappresentanti del mondo agricolo e associazioni economiche (Economiesuisse, Unione svizzera degli imprenditori e Unione svizzera delle arti e mestieri).

Occhi puntati su mercoledì 13 dicembre, quando si terrà l’elezione del nuovo membro del Consiglio federale e del cancelliere I primi risultati di questa collaborazione si sono già visti con una maggiore mobilitazione dell’elettorato nelle aree rurali del Paese. Secondo lo «Schweizer Bauer», l’organo ufficiale dei contadini, la popolazione agricola si è recata alle urne per esprimere il suo malcontento verso i tagli ai contributi diretti, la politica agricola, gli attacchi delle associazioni ambientaliste e l’imposizione, percepita come paternalista, sulle scelte alimentari del singolo. Gli analisti si chiedono

se «Prospettiva Svizzera» sia stato un accordo estemporaneo per la campagna elettorale o se l’unione tra «Gülle und Geld» (in italiano, colaticcio e denaro), così etichettata dalla sinistra, continuerà anche in futuro. «Questa collaborazione sarà sicuramente molto importante in occasione delle votazioni popolari», dice Longchamp. «Da una parte i contadini sono in grado di mobilitare l’elettorato, dall’altra le associazioni economiche sono pronte a finanziare le campagne in vista del voto. Insieme avranno un considerevole influsso sulle tematiche economiche». Per Longchamp, tuttavia, tale alleanza non avrà un grande peso sulle decisioni in Parlamento. Sull’importanza della lobby contadina avremo una prima conferma durante la prossima sessione, quella invernale. All’ordine del giorno ci sono due questioni: la prima concerne la proposta dal Consiglio federale di ridurre i contributi diretti all’agricoltura nel preventivo 2024. Sul medio termine, per il quadriennio 2026-2029 il Governo propone un risparmio di oltre 300 milioni di franchi rispetto al precedente periodo 2022-2025. La seconda è l’iniziativa per la diversità che sarà trattata insieme a un controprogetto indiretto. La votazione popolare è prevista nel 2024, un oggetto che potrebbe accentuare il divario tra campagna e città, una spaccatura già emersa nel 2021 con le iniziative su pesticidi e acqua pulita. E che aria tirerà in Parlamento lo capiremo anche mercoledì 13 dicembre, in occasione dell’elezione del nuovo membro del Consiglio federale e del cancelliere. «A mio avviso, la lobby agricola è tendenzialmente sopravvalutata», sostiene Longchamp. «Tra le candidate e i candidati del PS, nessuno corrisponde al profilo ideale dei contadini, e tra i Verdi nessuno ha concrete chance di essere eletto e di scalzare un esponente del PLR». Secondo molti politologi, il settore agricolo è stato invece determinante nell’elezione di Elisabeth Baume-Schneider, preferita alla basilese Eva Herzog. Le probabilità che un candidato verde venga eletto in Consiglio federale sono minime. Non ci dobbiamo quindi aspettare colpi di scena, ma non possiamo escludere che i contadini facciano valere la loro influenza per lanciare un segnale d’avvertimento a PLR e PS.

Che vantaggi ha un conto comune?

La consulenza della Banca Migros ◆ Esistono due varianti di conto comune, con «firma congiunta» o «firma disgiunta» Il mio partner e io conviviamo da poco e desideriamo aprire un conto comune. Quali sono i vantaggi e gli svantaggi? Il conto comune consente a una coppia di gestire spese ed entrate della propria economia domestica tramite un solo conto, il che offre una migliore panoramica delle finanze e fa anche risparmiare tempo. Per fare un confronto: se si utilizzano due conti individuali, per ciascuna spesa bisogna prima chiarire chi si assume i costi; successivamente, l’altra persona deve trasferire la sua quota con un’operazione separata. Con il conto comune questo

Barbara Leo, Consulente alla clientela presso la Banca Migros

non è necessario: a prescindere da chi effettua l’acquisto, tutte le spese per l’economia domestica vengono addebitate su questo conto. A tale scopo, la banca rilascia a ciascun partner almeno una carta di debito e, su richiesta, anche una carta di credito. Come titolari del conto i due partner hanno uguali diritti e possono visionare tutte le spese ed entrate correnti. Oltre alle spese per gli acquisti giornalieri è possibile, ad esempio, dividere comodamente i costi relativi all’affitto dell’appartamento, all’elettricità e all’assicurazione mobilia domestica, addebitandoli sul

conto comune. Questo aspetto rende il conto comune particolarmente vantaggioso anche per le comunità abitative. Se volete aprire un conto comune, presso molte banche avete la possibilità di scegliere tra due varianti: il conto con «firma congiunta» oppure quello con «firma disgiunta». Nel conto con «firma congiunta» è necessaria l’approvazione dell’altro titolare per la maggior parte delle operazioni bancarie. Questa variante protegge in misura elevata da scoperti e dall’abuso del conto; per la sua scarsa flessibilità, tuttavia, è perlopiù adatta ad associazio-

ni anziché a comunità abitative o a una coppia. Nel conto con «firma disgiunta» i due titolari possono disporre del conto indipendentemente l’uno dall’altro; questa variante è quella preferita dalle coppie perché entrambi possono prelevare l’intero avere in qualsiasi momento, la fiducia reciproca è quindi un presupposto necessario. Consiglio Raccomandiamo alle coppie di mantenere i rispettivi conti singoli e di trasferire sul conto comune degli importi fissi tramite un ordine permanente.


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ATTUALITÀ / RUBRICHE

Il Mercato e la Piazza

di Angelo Rossi

Cosa muove le intenzioni degli elettori ◆

E così l’UDC ha vinto! E un poco anche il PS. I Verdi hanno perso e un poco anche i liberali-radicali. Lo dimostrano i risultati delle elezioni federali del 22 ottobre. «Già lo sapevamo!», i commenti dei più il giorno dopo. Le elezioni per il Parlamento elvetico sono come le attuali gare di formula uno che riportano sul podio sempre lo stesso vincitore. Ma si tratta di una valutazione sbagliata. Come dimostrano i risultati dei sondaggi, susseguitisi durante l’ultimo anno, le variazioni delle quote dei partiti sono infatti mutate, anche di molto, nel corso della campagna elettorale. Ci siamo limitati a considerare l’evoluzione delle variazioni delle quote dei partiti dall’elezione del 2019 all’ottobre del 2022. In seguito abbiamo tenuto conto di cosa è successo durante la campagna elettorale, dividendo la stessa in due fasi: dall’ottobre del 2022 al luglio di quest’anno, la prima, e dal

luglio 2023 alla data dell’elezione, la seconda. Se le elezioni federali si fossero tenute un anno fa, nell’ottobre del 2022, il guadagno maggiore lo avrebbero realizzato i Verdi liberali con un +1,5%. All’altro estremo, la perdita maggiore l’avrebbero subita i Verdi con un – 1,5%. Un anno fa il PLR avrebbe conseguito un guadagno pari all’1,3%, l’UDC uno pari allo 0,5%, il Centro e il PS una perdita pari allo 0,5% e l’insieme dei piccoli partiti avrebbero perso uno 0,8%. Questa graduatoria dei guadagni e delle perdite si è radicalmente trasformata dall’ottobre del 2022 al luglio del 2023, durante la prima parte della campagna elettorale. Così, in luglio, al primo posto figurava già l’UDC che avrebbe conseguito un guadagno di quota pari all’1,5%. Al secondo posto, in luglio, figurava il PS che invece di perdere conseguiva un guadagno di quota pari all’1%. Anche il Centro e i Verdi liberali guadagna-

Affari Esteri

vano (+0,5%). La quota dei piccoli partiti non mutava mentre i perdenti erano il PLR con un -0,5% e i Verdi con una diminuzione pari al 3%. Dal mese di luglio al momento delle elezioni, in ottobre, la graduatoria dei guadagni e delle perdite non è praticamente mutata. La sola eccezione è costituita dai Verdi liberali che perdevano due posizioni, nella classifica per importanza delle variazioni, e dal conglomerato dei piccoli partiti che invece ne guadagnavano due. Quello che è cambiato, nel corso degli ultimi quattro mesi della campagna elettorale, è la consistenza del guadagno, rispettivamente della perdita di quota nel totale dei voti. Mentre l’UDC, il PS e il conglomerato dei piccoli partiti guadagnavano ancora qualche punto percentuale, gli altri partiti lo perdevano. Da luglio a ottobre il guadagno maggiore lo realizzava l’UDC con un +0,8%, mentre il tonfo mag-

giore lo subivano i Verdi liberali con un -0,7%. Queste variazioni delle quote nel corso della campagna elettorale dimostrano in primo luogo che, contrariamente all’opinione riportata all’inizio dell’articolo, i risultati delle elezioni federali non sono pronosticabili con molto anticipo. In secondo luogo provano che i mezzi investiti e le azioni promosse durante la campagna elettorale contano, eccome! Se per l’UDC il trionfo elettorale e per i Verdi la perdita di voti apparivano molto probabili già un anno fa, il PS un anno fa non poteva certo guardare con ottimismo alle elezioni. Un anno fa i Verdi liberali e il PLR sarebbero stati tra i vincitori delle elezioni mentre il Centro avrebbe visto la sua quota diminuire. Dunque la campagna elettorale è stata importante per acquisire, o non perdere, elettori sia nella fase d’ avvio, meno intensa, sia in quella finale, più combattuta. Precisiamo infine che, du-

rante la campagna elettorale, i partiti si battono per conquistare i voti degli elettori che cambiano scheda. E se li contendono mettendo l’accento su uno piuttosto che su un altro problema di attualità. Sotomo, un gruppo di ricercatori di Zurigo, si è interessato nella sua inchiesta postelettorale proprio alle motivazioni che hanno portato questi «voltamarsina» a cambiare partito. È così risultato che gli elettori mobili, che hanno scelto l’UDC, lo hanno fatto soprattutto perché non erano d’accordo con l’attuale politica migratoria. Quelli invece che hanno votato il PS erano preoccupati per il continuo aumento dei premi delle casse malati. Questi due temi risulterebbero essere, secondo Sotomo, quelli che hanno dominato le scelte di partito durante le ultime elezioni. I problemi legati all’equilibrio ecologico e al cambiamento climatico invece non hanno avuto un impatto importante.

di Paola Peduzzi

Ultra trumpiano, inesperto, ambiguo ◆

Mike Johnson è il nuovo speaker del Congresso americano: ha 51 anni, è un conservatore e ha una carriera da parlamentare molto breve, essendo stato eletto la prima volta nel 2016. Molti hanno ironizzato sul fatto che quando il suo nome è emerso nella corsa per diventare speaker – una corsa molto rapida e livorosa – siano corsi su Google per capire di chi si trattasse. È significativo che, dopo averlo capito, lo hanno scelto comunque: nel suo curriculum c’è quasi esclusivamente una grande fedeltà a Donald Trump e al trumpismo, compreso il sostegno alla sciagurata pretesa che Joe Biden non abbia vinto le elezioni del 2020 e che sia un impostore che occupa la Casa Bianca. È altrettanto significativo che, dall’altra parte dell’Atlantico, stiamo qui a discutere della figura dello speaker del Congresso, che è come in tutti i Parlamenti il negoziatore in capo, la persona che deve trovare i compro-

messi necessari per far funzionare le assemblee rappresentative. Non è certo la prima volta che uno speaker non riesce a costruirlo, questo compromesso, e non è una caratteristica esclusivamente americana, ma la scelta di Johnson è in questo senso abbastanza unica. È senza esperienza né dimestichezza dei meccanismi parlamentari ed è stato scelto proprio perché è un «outsider», definizione amata dal trumpismo che spesso coincide con la mancanza di competenza, e perché è leale al trumpismo. In sintesi: i compromessi con Johnson saranno ancora più difficili. L’elezione del nuovo speaker coincide con due appuntamenti importanti per il dibattito americano: il budget che evita il tanto temuto shutdown – la sospensione delle spese correnti – e il grande pacchetto da 105 miliardi di dollari richiesto dalla Casa Bianca per sostenere la difesa di Israele, dell’Ucraina e di Taiwan. Per quel che riguarda il budget, erava-

mo in questo stesso punto a settembre, quando il predecessore di Johnson, il repubblicano Kevin McCarthy, aveva raggiunto un accordo dell’ultimo minuto con i democratici per evitare lo shutdown ed è stato poi sfiduciato proprio per aver osato – uno speaker! – aprire il dialogo con l’altro partito con l’obiettivo di evitare una misura che ricade sugli stipendi dei dipendenti pubblici americani. Johnson riparte da qui, ha tempo fino al 17 novembre per trovare i voti. Si è aggiunto il pacchetto sul sostegno agli alleati internazionali che unisce, per volere presidenziale, l’Ucraina e Israele, che è stato attaccato dai terroristi di Hamas. Biden dice che l’America è una superpotenza, è in grado di gestire due crisi (anche di più) allo stesso tempo e di dare tutto il sostegno necessario per sconfiggere la Russia e Hamas. Per Biden è un’unica lotta democratica e liberale su fronti diversi

e spinge perché sia combattuta con lo stesso impegno, contemporaneamente. Per molti repubblicani invece Israele va difeso a ogni costo ma l’Ucraina no, quindi gli aiuti a Israele vanno dati subito e quelli per l’Ucraina possono attendere. Le posizioni sono più sfumate di così, e ci sono anche parecchi repubblicani che il pacchetto completo lo voterebbero oggi stesso per ragioni magari diverse da quelle di Biden, ma con lo stesso obiettivo ultimo di difesa democratica. Ci sono poi gli ambigui, come lo stesso Johnson: dice di essere a favore degli aiuti all’Ucraina ma ha voluto sfaldare il pacchetto unico proponendo una legge di aiuti soltanto per Israele, a Kiev si penserà dopo. I democratici, che sono per la grande maggioranza a favore di Israele, non possono che votare gli aiuti, ma sanno che in questo modo cadranno nella trappola di chi, come Johnson, vuole separare gli aiuti a Kiev. Non è infat-

ti una questione tecnico-procedurale e nemmeno una di urgenze: è che la difesa dell’Ucraina è per molti una fissazione di Biden e come tale va utilizzata politicamente contro di lui. Per di più, considerata l’inesperienza di Johnson, è difficile pensare che riuscirà a contrastare le pressioni dei trumpiani che vogliono affossare gli aiuti all’Ucraina. In questo scontro politico entrano anche altri elementi – nel pacchetto da 105 miliardi è compreso uno stanziamento per la difesa del confine sud dell’America – ed è plausibile pensare che anche da parte democratica sia necessario un compromesso. Ma quel che Mike Johnson (uno che pensa di essere stato scelto perché lo ha voluto Dio) e molti repubblicani sottovalutano non è solo il fatto che non aiutare Kiev significhi una vittoria di Putin, ma che il declino del modello Usa sia, per il partito dell’eccezionalismo americano, una contraddizione pericolosa.

Zig-Zag

di Ovidio Biffi

Cyberuntori e virus ideologici ◆

Ricordate il teatrale arrivo di Elon Musk alla sede principale di San Francisco di Twitter, battezzato X per personalizzare la sua acquisizione? Reggeva tra le mani un lavandino e annunciava che avrebbe stasato il social media. Un anno dopo, con il sempre più magmatico flusso del suo social e senza porre limiti ad abusi, contaminazioni, inquinamenti e disinformazione, Musk riesce solo a suscitare disorientamenti, perplessità e scandali. Dice bene Matt Navarra, stratega e commentatore di social media: «Non abbiamo visto Twitter morire ma l’abbiamo visto degenerare, deteriorarsi, diventare meno utile, meno prezioso e più tossico». Il risultato è che ora anche X (oltretutto potenziato dalle centinaia di satelliti Starlink che Musk fa ruotare attorno alla Terra) figura come arma negli arsenali ideologici di dittature, populisti ed estremisti che lo utilizzano con

altri social per diffondere disinformazione falsando avvenimenti, uccidendo la verità e diffondendo odio. Il fenomeno, dapprima circoscritto a livello di interferenza nelle campagne elettorali, in Occidente si è molto sviluppato ai tempi della pandemia di Covid, quando movimenti no-wax ed estremismi di destra l’hanno utilizzato per tentare di avviare una forma di bio-terrorismo (secondo il Geneva Centre for Security Policy, gruppi neo-nazisti spesso infiltrati nei cortei di chi osteggiava i vaccini arrivarono sino a suggerire ai propri membri «se siete infetti, trasformatevi in armi biologiche umane»). Adottata dal regime di Putin per giustificare le sue «operazioni speciali» in Ucraina, l’arma del web viene ora fotocopiata ed esibita anche dal terrorismo islamico contro Israele: per inondare i social media di brutalità e immagini scioccanti, servirsi della disinformazione per domi-

nare l’attualità e impedire di accertare la verità, come pure per fomentare gli «ismi» più odiosi. Pensiamo alla recente «caccia all’ebreo» utilizzata sui social per alimentare l’antisemitismo. Tecniche e artifizi di questa disinformazione sfruttano principalmente il fattore velocità con cui i social media diffondono in pochi secondi e in tutto il mondo notizie e immagini false. Al contrario, chi deve accertare e denunciare la menzogna per ristabilire verità e responsabilità incontra difficoltà spesso insormontabili, bisognose di tempi lunghi. Difese contro simili armi? Sin dai primi segnali registrati con il Coronavirus, diverse organizzazioni, come Interpol ed Europol, si erano attivate per controllare e combattere il parallelo fenomeno dei «cyberuntori», rafforzando poi negli ultimi tempi le attività di identificazione e monitoraggio sulle varie piattaforme digitali sino a intimare rimozioni

di canali e pubblicazioni online. Con l’invasione dell’Ucraina si è però passati a livelli ancora più alti, rendendo così inevitabile che Governi, eserciti e servizi di sicurezza affrontassero con decisione questo fenomeno (anche i movimenti estremisti, il terrorismo islamico sfruttano queste tecnologie). Una singolare e importante conferma l’ho reperita in una delle ultime inchieste curate da Milena Gabanelli sul «Corriere della Sera» in cui si ipotizza che all’origine dell’effetto-sorpresa della strage del 7 ottobre possa esserci l’uso di canali analogici che avrebbero consentito ai terroristi di aggirare i controlli digitali e i rilevamenti sonori dell’intelligence israeliana. Più chiaro, come misura di difesa, l’intervento della procuratrice generale di New York Letitia James che, dieci giorni dopo l’attacco di Hamas contro Israele, ha inviato un’ingiunzione a Google, Meta, X,

TikTok, Reddit e alla piattaforma video Rumble chiedendo loro quali misure avessero intrapreso per fermare la diffusione di contenuti «che incitano all’odio incoraggiando la violenza contro persone e istituzioni ebraiche e musulmane». Pessimista la scrittrice e attivista canadese Naomi Klein secondo la quale – pur aumentando le attività di identificazione, monitoraggio e rimozione del flusso online di terroristi ed estremisti – è inutile pensare di risolvere il problema trattando i social come le altre aziende di telecomunicazione e sperare di sottoporli a obblighi di legge. A configurare la pericolosità di questi «virus ideologici» basta un semplice dato: nei giorni seguenti la strage perpetrata da Hamas la piattaforma TikTok ha ammesso di aver cancellato più di 500 mila video e live streaming anti-semiti già condivisi milioni di volte.


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Settimanale di informazione e cultura

Anno LXXXVI 6 novembre 2023

azione – Cooperativa Migros Ticino 33

CULTURA ●

I versi di Forugh Farrokhzaˉd Lindau dà alle stampe un’antologia lirica dedicata alla più importante poetessa iraniana del Novecento

L’editore gentile Un ricordo di Ernesto Ferrero che ha vissuto e raccontato la cultura italiana del secondo Novecento

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Una testa dura Garzanti pubblica la traduzione di The Call, il romanzo femminista del 1924 di Edith Ayrton Zangwill

Percussione mon amour Intervista a Gregorio Di Trapani che con il Lugano Percussion Ensemble suonerà all’Asilo Ciani

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Il Cubismo lirico e raffinato di Roger de La Fresnay Mostre ◆ Barbara Paltenghi Malacrida, direttrice del Museo d’arte di Mendrisio, racconta la retrospettiva dedicata all’artista Alessia Brughera

«La Fresnaye è un pittore che ti sconvolge, capace di creare opere cubiste e al contempo ritratti naturalistici» Chi è «il nobile cubista» Roger de La Fresnaye? Questa definizione suggerisce una doppia lettura della nobiltà del pittore francese: quella della sua persona e quella della sua arte. Il padre, capitano d’artiglieria, appartiene all’aristocrazia normanna, la madre all’alta borghesia lionese. Roger de La Fresnaye cresce in un ambiente rigido e conservatore. Disegna con il compasso, conosce il latino, ascolta Wagner e Debussy, legge Nietzsche. È un uomo colto, affascinante e distinto. Condizione per avere una rendita economica è arrivare alla maturità. Ci arriva e a questo punto comunica ai suoi genitori che vuole fare il pittore, una scelta comunque nobile per chi, come lui, è stato educato alla bellezza. La Fresnaye è blasonato ma è anche molto dotato per il disegno e per la pittura. È un artista dalla grande duttilità espressiva, elegante e ricercato. Nobile, dunque, anche nel dipingere. Come mai, nonostante sia stato una figura di spicco del Cubismo, La Fresnaye non viene ricordato tra i suoi esponenti più noti? Innanzitutto La Fresnaye è un artista molto patriottico. Il tricolore francese è presente spesso nei suoi dipinti e a fine guerra, in una prospettiva più europeista, questo aspetto lo ha penalizzato. Il fatto poi che fosse nobile, con una serie di privilegi, dopo il secondo conflitto mondiale non ha giocato a suo favore. Un altro motivo è l’eterogeneità della sua produzione: La Fresnaye è un pittore che ti sconvolge, capace di creare opere cubiste e al contempo ritratti naturalistici. Il mercato non ama gli artisti che hanno più stili contemporaneamente ma apprezza chi rimane sempre riconoscibile. La Fresnaye è stato un cubista importante ma ha

subìto le critiche di uno dei padri fondatori del movimento, Apollinaire, che lo ha adorato fino a un certo punto e poi ha iniziato a parlarne malissimo poiché lo reputava troppo poco radicale e troppo ornamentale. C’è inoltre un motivo più pratico. Nei musei l’arte contemporanea sta da tempo occupando sempre più spazio e per questo le avanguardie vengono sacrificate. I curatori devono fare una rigida selezione degli artisti da esporre e purtroppo quelli «minori» vengono spesso tralasciati. Del Cubismo, ad esempio, troviamo solo Picasso e Braque. Non bisogna dimenticare, infine, che La Fresnaye muore molto giovane, nel 1925, appena quarantenne, dopo aver preso la tubercolosi al fronte. La malattia rende i suoi ultimi anni di vita una vera agonia e lo esclude da tutti i fermenti in atto in quel periodo. Com’è nata l’idea di dedicargli una mostra? Mi sono innamorata di questo artista a Parigi, nel 2019. Ero a casa di un collezionista privato per vedere alcune opere di André Derain. A un certo punto ho notato due splendide nature morte di La Fresnaye. Spiccavano per la loro eleganza. Poi al Centre Pompidou ho visto la tela Le Prestidigitateur del 1921-22, un vero capolavoro. Mi sono chiesta come fosse possibile che un pittore tanto talentuoso non fosse molto conosciuto. Così ho deciso di dedicargli una mostra. Questa rassegna di Mendrisio è il frutto di una ricerca durata due anni. Ci siamo occupati non solo della produzione pittorica di La Fresnaye ma anche dell’illustrazione, ambito per lui importante. Abbiamo contattato tutti i musei francesi, tutti quelli svizzeri e tutte le case d’asta. Queste ultime, in particolare, ci hanno aiutato tanto, perché numerose opere dell’artista sono passate da Christie’s o Sotheby’s. I musei francesi ci hanno prestato molti lavori. Dal Centre Pompidou, ad esempio, ne sono arrivati ben dieci. L’ultima mostra su La Fresnaye è stata fatta a Le Mans vent’anni fa, la penultima nel 1950 a Parigi. Tra l’altro non esisteva nessuna pubblicazione in italiano su questo pittore: la prima è il nostro catalogo. In che modo è cubista La Fresnaye? Il movimento cubista ricerca un certo rigore, un certo ordine. Pur guardando all’antico, è qualcosa di estremamente moderno che rivela un approccio matematico alla rappresentazione. Detto ciò, nessuno impedisce a un artista di elaborare questa visione dandone una versione più delicata, decorativa e ornamentale. È proprio quello che fa La Fre-

© Centre Pompidou, MNAM-CCI, Dist. RMN Grand Palais, Foto Philippe Migeat

Figura difficilmente classificabile tanto per la sua vita privata quanto per la sua arte, Roger de La Fresnaye è un pittore che sorprende per versatilità e raffinatezza. Uomo dalla vasta cultura e dai modi squisiti, ha interpretato il Cubismo alla sua maniera, realizzando opere di ricercatezza formale e armonia cromatica. Il Museo d’arte di Mendrisio ospita una retrospettiva a lui dedicata, la prima organizzata in Svizzera e in ambito culturale italiano. Ne parliamo con Barbara Paltenghi Malacrida, curatrice della rassegna.

snaye. Il suo cubismo è lirico, raffinato, elegante. La Fresnaye è parte integrante della corrente cubista: nel 1911 espone al Salon des Indépendants, nel 1912 partecipa alla mostra della Section d’Or, la più importante esposizione sul Cubismo mai organizzata, e nel 1913 è presente all’Armory Show di New York. Inoltre è uno dei teorici del movimento. I cubisti sono tantissimi, circa settanta, e hanno stili molto diversi tra loro. Pensiamo ad esempio a Delaunay. Questo pittore è un cubista solare e infatti La Fresnaye rimane molto colpito dai suoi lavori. Quello che ci preme far capire con questa mostra è che il Cubismo non è un mondo rigido, chiuso, ma un universo variegato, con decine di declinazioni. Come si sviluppa la mostra? Nel percorso espositivo abbiamo voluto documentare l’evoluzione di La Fresnaye nelle varie iconografie. È quindi un allestimento tematico e cronologico insieme. A inizio rassegna le opere testimoniano i primi anni parigini dell’artista. La Fresnaye lascia la sua tenuta, un castello meraviglioso nell’entroterra di Lione, per andare nella Ville Lumière. Quando vi arriva fa la scelta più classica e si iscrive all’École des Beaux Arts. Presto però capisce che il fermento è altrove e fa il grande salto

andando all’Académie Ranson, dove ha come docenti Maurice Denis e Paul Sérusier, discepoli di Gauguin. Per lui è la rivelazione. Da qui in poi la svolta simbolista è evidentissima. Emblematica in questo senso è la tela dal titolo Maria Zimmern, del 1909, con il taglio da stampa giapponese, la linea sinuosa dell’Art Nouveau e i colori tipici dei Nabis. Proseguendo nel percorso troviamo una sala dedicata al paesaggio. La Fresnaye è un pittore aperto a molte suggestioni: le prende e le lascia, ma gli servono tutte per costruirsi una sua identità. Ci sono poi le nature morte, vere e proprie messe in scena dove gli oggetti arrivano a essere scolpiti dalla luce, e i nudi, dove «l’audacia tranquilla» del pittore lo porta a realizzare l’opera maestra La vie conjugale, del 1912-13. Seguono i lavori del suo «periodo d’oro», gli anni 1913 e 1914, di cui presentiamo la versione su carta della celebre tela La conquête de l’air esposta al MoMA di New York, dipinto che Apollinaire aveva definito perfetto. Abbiamo poi dedicato una sezione proprio alle opere su carta realizzate dall’artista al fronte mentre il dopoguerra del pittore è all’insegna di un ritorno all’ordine. L’artista respira male e non riesce a stare in piedi. In mostra abbiamo l’ultimo olio su tela da lui eseguito, un paesag-

gio alla Poussin del 1922. Durante la malattia dell’artista muore anche suo padre, presenza ingombrantissima. È adesso che La Fresnaye inizia a dipingere uomini nudi e ritratti del suo compagno Jean-Louis Gampert, pittore svizzero conosciuto ai tempi dell’Académie Ranson. Questa relazione non era mai stata esplicitata prima. E poi c’è la sala dedicata al Cubismo… Non poteva mancare. Mentre La Fresnaye dipinge anche altro, continua a realizzare opere cubiste. Il lavoro più significativo è a mio parere Le Prestidigitateur del 1921-22 (nella foto), l’olio che tanto mi aveva colpito al Centre Pompidou qualche anno fa. Qui ci sono i piani sovrapposti a delineare il volto, due apostrofi che ricordano le nuvole molto amate da La Fresnaye, i fogli a disegnare i panneggi. E poi i dadi e le carte. È un’opera onirica, surrealista: il pittore sta morendo e dà vita a una realtà utopica, leggiadra e armoniosa. Dove e quando Roger de La Fresnaye. Il nobile cubista. Museo d’Arte Mendrisio. Fino al 4 febbraio 2024. Orari: ma-ve 10.00-12.00 / 14.0017.00; sa-do e festivi 10.00-18.00. Informazioni: museo.mendrisio.ch



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I versi di Forugh Farrokhzaˉd per le donne iraniane Poesia ◆ Lindau dà alle stampe un’antologia lirica dedicata alla più importante poetessa iraniana del Novecento

Non è un caso che a un anno dalla morte di Mahsa Amini – la ventiduenne arrestata nel settembre del 2022 dalla polizia morale di Teheran e morta in circostanze mai chiarite – l’editore Lindau pubblichi Tutto il mio essere è un canto, un’ampia antologia dedicata all’opera di Forugh Farrokhzād (1935-1967), disegnata per noi da Ledwina Costantini, considerata in Iran la più importante poetessa del Novecento. «È (…) doveroso ricordare», scrive infatti la curatrice Faezeh Mardani nella sua nota introduttiva, «che questo volume va in stampa mentre le impavide donne iraniane continuano a rivendicare i propri diritti, per un presente di libertà e di pace».

Con Tutto il mio essere è un canto Lindau propone uno sguardo a volo d’uccello sull’intera produzione della scrittrice È probabile che pochi, qui, conoscano la dolorosa storia della Farrokhzād, il cui impetuoso talento si espresse attraverso la poesia – sua principale vocazione – nella traduzione, nel cinema e nel teatro. Nata nella capitale da un militare e una casalinga, Forugh Farrokhzād apparteneva a una numerosa famiglia dell’antico quartiere di Amiriyye. Su iniziativa del padre, lei e le sue sorelle si appassionarono alla lettura quando

nel paese la maggioranza delle donne non era ancora alfabetizzata. Ebbe una formazione scolastica orientata all’arte e iniziò a comporre versi in adolescenza. Poi, il primo decisivo evento: a sedici anni, fra lei e suo cugino – il caricaturista Parviz Shapoor, molto più grande di età – sboccia un amore improvviso. Nonostante il diniego paterno, i due si sposano e hanno un bambino ma, molto presto, la vita matrimoniale si dimostra incompatibile con l’animo e le aspirazioni della scrittrice, «visto che le convenzioni culturali della società iraniana esigono una totale dedizione al marito e alla famiglia». Costretta a scegliere fra la letteratura e il focolare, Forugh Farrokhzād eleggerà la prima come «centro della sua vita» pagando un prezzo durissimo: dopo il divorzio, per legge perderà il diritto a vedere il figlio per il resto della sua esistenza. Considerata una «poetessa del peccato» perché incline a mettere a nudo i propri sentimenti reconditi (nel 1955 esordisce con la sua prima silloge, Prigioniera), in conseguenza a questi eventi la Farrokhzād sprofonda in uno stato depressivo, al quale segue un ricovero in ospedale psichiatrico. Successivamente, escono altre raccolte: Il muro (1956) e Ribellione (1958), con le quali si guadagna l’attenzione dei letterati dell’epoca. Al contempo si interessa di arti visive e, soprattutto, di cinema attraverso il suo secondo grande incontro amoroso: quello con lo scrittore e

Ledwina Costantini

Daniele Bernardi

cineasta Ebrāhim Golestān, grazie a cui approderà a un’intensa attività di montatrice, attrice, sceneggiatrice e, anche, di regista (il suo unico film, La casa è nera – 1962 – ottenne il primo

premio al Festival di Oberhausen). Purtroppo però il cammino di Forugh Farrokhzād è destinato ad arrestarsi presto: mentre è alla guida della sua jeep per le strade di Teheran, nel

1967 la poetessa perde la vita in un incidente. È il 13 febbraio e ha superato da poco i trenta. Alcuni anni prima era uscita la sua ultima e più importante raccolta, Un’altra nascita. Con Tutto il mio essere è un canto Lindau propone uno sguardo a volo d’uccello sull’intera produzione della scrittrice, non soffermandosi unicamente sulla poesia ma dando spazio anche a lettere d’amore e interviste (queste ultime davvero interessanti). In appendice, inoltre, si trovano pure alcuni componimenti di altri autori a lei dedicati. Rispetto ad altre edizioni, la raccolta contiene anche le poesie giovanili della scrittrice, «assai rappresentative della sua precoce ed esplosiva vocazione di (…) artista a tutto tondo», ed è proprio menzionando una di queste che invitiamo il lettore ad accostarsi alla sua opera. «Un giorno arriverà la mia morte: / uno tra questi amari e dolci giorni / un giorno vuoto come tutti gli altri / un’ombra d’ogni oggi e d’ogni ieri. // Oscuri anfratti i miei occhi, / gelidi marmi le mie guance, / un sogno mi coglierà d’improvviso / svuotandomi dal grido di dolore. // Sul mio quaderno lentamente scivoleranno / le mie mani liberate dall’incanto della poesia. / Ricorderò che un tempo, come fiamma, / mi scorreva la poesia nel sangue delle mani». Bibliografia Tutto il mio essere è un canto, Forugh Farrokhzaˉd, Edizioni Lindau, Torino, 2023.

Il Landesmuseum parla italiano

Mostre ◆ Un viaggio attraverso l’italianità in Svizzera tra le sue diverse origini e le sue numerose espressioni. Stefano Vassere

La scelta delle voci proiettate sul muro del museo ha il merito di testimoniare le possibili forme di lingua e di atteggiamento culturale Gran parte degli sforzi di chi si occupi di queste tematiche riguarda la necessità di stabilire alcuni distinguo in merito alla diffusione dell’italiano in Svizzera, fenomeno che ha finito per produrre modi diversi di parlare: se dagli immigrati italiani arriva un certo tipo di varietà (o più varietà, perché ogni italiano che giunge in Svizzera arriverà da un posto diverso e magari non parla nemmeno l’italiano ma il dialetto), altri modi di articolare l’italiano saranno generati dai ticinesi e dai grigionesi e ancora diverso sarà l’italiano usato nelle amministrazioni federali, o quello portato da immigra-

ti recenti e più attuali, o ancora quello della televisione italiana guardata a Schlieren o a Brugg. La scelta delle testimonianze proiettate sul muro del Landesmuseum ha un indubbio e probabilmente inedito merito: quello di testimoniare insieme tutte queste possibili forme di lingua e di atteggiamento culturale. Come nel caso un po’ estremo di Pierre di Sion, che dice che «non si è mai sentito trattato come un italiano» e che quando va in Italia gli manca «l’ambiente del Vallese»; e lo dice in francese, rappresentando quella sorta di italianità senza lingua molto frequente soprattutto nei fenomeni di emigrazione geograficamente molto lontani. Poi c’è la condizione curiosa di Addei, che è somala e sta a Friburgo, e porta in Svizzera un’italianità già esportata in Africa; e, ritrovatasi in Svizzera quasi per caso, incontra di nuovo questa lingua facendo amicizia con studenti ticinesi. Rosanna di Zurigo, testimone di una tradizione solida e di grande dignità, quella delle Colonie libere e dell’immigrazione impegnata e consapevole, ha parole secche e di denuncia: verso i mancati ricongiungimenti, le baracche, gli scolari messi nelle classi speciali solo perché non conoscevano la lingua locale, il rifiuto assoluto e un po’ sofisticato dello Schwyzerdütsch, e però l’amore per la città di accoglienza. Lara di Jona rappresenta un ulteriore fenomeno foriero di variazione linguistica e culturale, una ulteriore tipologia: la nascita in Svizzera

da genitori migranti, il rientro in Italia con la famiglia dove va a scuola e all’università e lavora un po’, il ritorno in Svizzera a insegnare l’italiano: una specie di catena potenzialmente

disorientante e che genera una (re)integrazione particolare, perché Lara fa anche in Svizzera quasi tutto in italiano, ormai: musica, giornali, televisione, lingua. Tutto. E dice, soprat-

© Nebelspalter

La mostra Esperienze della Svizzera – Italianità, in corso al Museo nazionale svizzero, è come si usa dire piccola ma molto densa, consistendo di fatto nella platea di un’ampia proiezione a muro e in una bacheca elettronica che permette di accedere a documentazione generale a proposito della diffusione della nostra lingua nel Paese (ad esempio la vignetta raffigurata qui a lato del «Nebelspalter» del 10 novembre 1917 che mostra la divisione della Svizzera lungo il confine linguistico all’inizio del XX secolo).

tutto: «Oggi gli italiani sono amati!». Perché questo è un altro fattore: dopo gli anni e i decenni che abbiamo conosciuto, gli italiani sono oggi finalmente quasi ammirati, complici i poteri morbidi, la moda, la cucina, le arti, forse il calcio e un paio di campionati del mondo. È, per concludere, decisamente originale la testimonianza di Sacha, che a Berna dirige una importante istituzione storica. Secondo lui tutto quello che deve fare uno del Grigioni italiano nel resto della Svizzera «è estremamente più difficile» e che negli anni degli studi e dell’impegno successivo per la causa ha «dovuto imparare a celebrare l’italiano». L’italianità in Svizzera (come quasi tutto, in Svizzera) ha origini infinite e forme a volte tortuose, e forse la migliore parabola simbolica è quella di Sandro di Ginevra: girava con una bicicletta che portava una bandierina italiana, ma a quei tempi sembra fosse proibito da chissà quale autorità; e allora la piccola insegna era stata sostituita da quella del cantone di Neuchâtel, che ai colori del tricolore affianca, come in una specie di destino grafico, una minuscola croce svizzera. Dove e quando Esperienze della Svizzera – Italianità, Museo nazionale svizzero, Zurigo. Fino al 14 gennaio 2024. Ma-me 10.00-7.00, gio 10.00-19.00, ve-do 10.00-17.00. www.landesmuseum.ch


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CULTURA

Ernesto Ferrero, intellettuale d’altri tempi

In memoriam ◆ L’editore gentile che per diciotto anni guidò il Salone del libro di Torino ci ha lasciati la scorsa settimana

Ernesto Ferrero era un intellettuale d’altri tempi. Come editore, amava i suoi autori, li coccolava, discuteva con loro, regalava suggerimenti e idee, era in qualche modo al loro servizio, fossero best seller o no. Aveva imparato da Giulio Einaudi a valutare i libri al di là dei possibili risultati di mercato, anche se poi toccò anche a lui, come direttore editoriale, sorvegliare i bilanci. Ai suoi autori chiedeva il coraggio della novità e non la ripetizione dei codici che già avevano successo. Aveva imparato da Italo Calvino, cui succedette nel 1963 in Einaudi, il lavoro di ufficio stampa, promuovendo i libri presso i giornali non con metodi di marketing ma vantandone i reali pregi stilistici dopo averli letti con attenzione. Era cresciuto in quella officina culturale torinese in cui, diceva, tutti erano «operai al servizio della rifondazione civile della società». L’unico non operaio era l’editore, il principe Giulio che avrebbe trovato il suo grande ritrattista proprio in Ferrero e nel suo memoir I migliori anni della nostra vita, assoluto capolavoro della memorialistica culturale, pubblicato da Feltrinelli nel 2005. Su questa linea il più recente Album di famiglia, altra meravigliosa galleria di profili di maestri, padri e fratelli elettivi, compagni di viaggio. Nessuno meglio di Ferrero ha saputo raccontare, dall’interno, la cultura italiana del secondo Novecento, e

la sua lettura andrebbe consigliata nei licei per far capire ai giovani il fascino irresistibile del lavoro intellettuale. Nato a Torino nel 1938, Ferrero era uno degli ultimi rappresentanti di una generazione di editori-intellettuali che hanno creduto nell’editoria di cultura come motore della vita civile di un intero paese. Era un uomo elegante, gentile, dal sorriso dolce e dal rigore assoluto quando si parlava di libri. Non amava l’approssimazione e la cialtroneria, esercitava l’ammirazione e la gratitudine per quei maestri con cui aveva a che fare abitualmente nelle riunioni settimanali del mercoledì in via Biancamano, la sede dello Struzzo (il celebre marchio einaudiano): quei consulenti si chiamavano Venturi, Contini, Levi, Bobbio, Calvino, Cases, Segre, Manganelli… Erano il massimo che poteva offrire la cultura italiana e non solo italiana. Non è retorica, è una constatazione che dimostra con quale impegno veniva costruito un programma editoriale che era un progetto civile. Forte di una lunga e variegata esperienza interna, Ferrero pilotò la nave di Einaudi negli anni impervi della crisi per trasferirsi poi alla Bollati-Boringhieri, in Garzanti e infine alla Mondadori. Lasciata l’editoria, per diciott’anni, fino al 2016, è stato il direttore del Salone del Libro, pure lì navigando in acque non sempre tranquille. Il suo equilibrio e la sua calma

erano una garanzia che dava sicurezza anche istituzionale. Ma soprattutto erano la lungimiranza, la competenza, il mestiere a farne un’autorità del mondo dei libri. Un mondo che conosceva anche come autore, essendo scrittore di romanzi storici che mescolavano ricostruzione documentaria e invenzione, in una prosa cristallina, precisa e insieme immaginifica. Con N. Ferrero vinse il Premio Strega nel 2000: è il romanzo degli ultimi trecento giorni di Napoleone sull’Isola d’Elba, narrati con scrupolo e ironia dal bibliotecario dell’imperatore, Martino Acquabona. Già nel 1980 aveva esordito nella narrativa con Cervo Bianco, che evocava la storia fantasmagorica di Edgar Lapiante, un istrionesco impostore, che spacciandosi per capo indiano nel 1924 mandò in delirio gli italiani. Quella vicenda, riscritta, ritornò con un titolo nuovo: L’anno dell’indiano. Ferrero era affascinato dall’avventura, come il suo amico e maestro Calvino. Era attratto anche dal grottesco, come dimostra il suo amore per Carlo Emilio Gadda, su cui pubblicò una monografia nel 1972, affascinato com’era dalla varietà dei linguaggi (fu anche studioso dei gerghi della mala quattrocentesca). Era uno studioso, un cronista, uno storico, un critico e un narratore. Abitava nel palazzo torinese in cui aveva abitato Emilio Salgari e al «padre degli eroi» dedicò

Keystone

Paolo Di Stefano

un romanzo corale, Disegnare il vento, affresco di un’epoca che stava conoscendo le automobili, il cinema, i primi aerei. Era un ricercatore curioso, Ferrero, che nella storia andava scoprendo eroi tanto avventurosi da sfidare l’impossibile, l’estremo, il mostruoso (anche Barbablù è stato uno dei suoi personaggi). Era un viaggiatore anche lui, tra i generi letterari. Il saggista restò fedele ai «suoi» Primo Levi e Calvino, protagonista di Italo, il suo ultimo libro (uscito poche settimane fa sempre da Einaudi): dove troviamo, grazie alla penna delicata e incisiva di Ferrero, lo scrittore più ritroso della letteratura

italiana ravvicinato e quotidiano come mai l’avevamo visto. A questo lavoro, così ricco e molteplice, giocato su più piani – operativo, artigianale (il mestiere del libro lo è), critico e creativo – si aggiungeva la sua stessa avventura impossibile, forse la più ardita: quella del traduttore. Non un traduttore qualunque, ma il traduttore di Céline, dove tutti i linguaggi, le invenzioni e i gerghi confluiscono e confliggono. Come diceva Primo Levi, chi esercita il mestiere di traduttore dovrebbe essere onorato in quanto si adopera contro la maledizione di Babele. Anche questo onore è giusto tributare a Ernesto, amico gentile. Annuncio pubblicitario

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MONDO MIGROS

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Una chiamata alle armi al femminile

Pubblicazioni ◆ Una testa dura, romanzo femminista britannico del 1924 è uscito in italiano per Garzanti Federica Alziati

Premessa personale ma non superflua: mi sono imbattuta per caso nel romanzo di Edith Ayrton Zangwill, in una delle peregrinazioni da pomeriggio estivo tra i banchi di una libreria ligure. Per innegabile affinità caratteriale, il titolo, Una testa dura, non poteva che attirare la mia attenzione, e così la suffragetta ritratta a figura intera in copertina. In aggiunta alla lotta per il riconoscimento del diritto di voto alle donne, il retro di copertina dispiegava inoltre la questione del ruolo femminile nel mondo delle scienze, presentando la protagonista come «una scienziata che deve proteggere il suo amore per la conoscenza».

Dettaglio di copertina, illustrazione di un’attivista del movimento di emancipazione femminile nato per ottenere il diritto di voto alle donne.

«Edith Ayrton Zangwill nasce a Tokyo, Giappone, nel 1874. Discendente da una stirpe di scienziati sostiene il movimento per il suffragio femminile» A quel punto è scattata nella mia mente un’associazione immediata con il bestseller della scorsa estate, Lezioni di chimica di Bonnie Garmus uscito per Rizzoli l’anno scorso (Laura Marzi ne ha parlato sul numero 27 di «Azione» del 2022 ): amara vicenda di discriminazione e riscatto di una donna di scienza nel contesto accademico americano del secondo dopoguerra. E al richiamo mnemonico è subentrato, tocca ammetterlo, il sospetto che il tema – pur sempre sacrosanto – degli spazi di partecipazione femminile nel consesso scientifico stesse diventando un genere di consumo agostano, un appuntamento prevedibile quanto certi film trasmessi in

televisione soltanto tra giugno e settembre. In sintesi, avevo apprezzato la scrittura tagliente e molto brillante di Bonnie Garmus e temevo che questo nuovo ritrovato femminista si rivelasse un’operazione commerciale di copia conforme del successo dell’anno precedente. Mi sbagliavo. E il risvolto di copertina, fino a quel punto trascurato, era lì a provarlo: «Edith Ayrton Zangwill nasce a Tokyo, Giappone, nel 1874. Discendente da una stirpe di scien-

ziati, aderisce alla Women’s Social and Political Union e sostiene il movimento per il suffragio femminile…». Lungi dall’essere un prodotto editoriale confezionato ex novo secondo canoni di genere prestabiliti, il libro che mi rigiravo tra le mani acquisiva la dignità di testimonianza autentica di un’epoca pionieristica per le battaglie al femminile di qualsivoglia natura. A chi, come me, avesse ignorato finora l’autrice, una breve ricerca potrà confermare che Edith Ayrton coniu-

gata Zangwill, cittadina britannica di famiglia ebrea, fu una vivace attivista e piuttosto prolifica narratrice, il cui romanzo più famoso, The Call (1924), è liberamente ispirato alla vita della matrigna Herta Ayrton, distintasi per i suoi studi in campo fisico-ingegneristico e per il sostegno alla causa del suffragio universale. Tutto torna, insomma, eccetto la traduzione del titolo: dall’originario The Call a Una testa dura, da un’idea astratta a una caratteristica ben evidente (e nient’affatto negativa) della protagonista. Peccato, perché il concetto di «chiamata» o meglio ancora di «vocazione» racchiude perfettamente in sé un aspetto fondamentale dell’opera. A dispetto di una scrittura non particolarmente raffinata e di una gestione della narrazione a tratti sommaria a tratti macchinosa, il romanzo vanta due pregi che lo rendono meritevole di lettura. Si è già detto del suo valore di documento epocale, che permane intatto al di là delle tendenze editoriali e commerciali che ne hanno ora favorito la riscoperta e la riproposizione al pubblico italiano e internazionale. Il secondo è proprio la convergenza, nell’intimo della giovane protagonista, di una rigorosa mentalità scientifico-analitica (corroborata da anni di indefesso lavoro in un laboratorio casalingo) e di una passione politico-civile sempre più imperante a scapito di ragionevolezza e prudenza, che s’impone infine come vocazione assoluta. Nella Londra d’inizio Novecento, Ursula Winfield è una donna razionale, focalizzata sull’obiettivo di far accettare a familiari e colleghi uomini le sue ambizioni di scienziata: non comprende, dapprincipio, i metodi di

protesta estremi o scandalosi adottati dalle suffragette, che rischiano a suo parere di compromettere le aspirazioni femminili in diversi altri ambiti.

In un contesto eccezionale, Ursula riconosce la necessità di abbracciare uno stile di vita fuori dalla norma Con malcelato snobismo intellettuale sostiene addirittura che, a giudicare dalla realtà del suo tempo, il diritto di voto, dissociato da consapevolezza e lungimiranza, non abbia giovato neppure agli uomini. Eppure, la sua predisposizione all’analisi la induce a non giudicare definitivamente senza aver sperimentato, ad ascoltare i dibattiti delle militanti, a leggere con attenzione le loro pubblicazioni. E così il rigore delle convinzioni pregiudiziali inizia a incrinarsi, sopraffatto dalla progressiva, inarrestabile adesione a una causa che assorbe ogni energia vitale, ogni altro legame o sentimento. In un contesto eccezionale, Ursula riconosce la necessità di abbracciare uno stile di vita fuori dalla norma; finché un evento altrettanto straordinario – lo scoppio della Grande Guerra – rimette in discussione le sue scelte e priorità. Dalla nostra apparente «normalità» possiamo – credo – trovare il tempo per lasciarci interpellare da questa singolare figura e dalle donne d’eccezione che l’hanno ispirata. Bibliografia Edith Ayrton Zangwill, Una testa dura, Garzanti, Milano, 2023. Annuncio pubblicitario

Musica classica a Mendrisio Nell’ambito della mostra Roger de La Fresnaye. Il nobile cubista appena inaugurata al Museo d’arte di Mendrisio di cui parliamo a pag. 33 di questo numero di «Azione», sabato 11 novembre alle 18:30 si terrà il concerto-spettacolo che vede protagonista il flautista italiano, Davide Formisano (nella foto). Accompagnato da Alberto Magagni al pianoforte e in collaborazione con la compagnia teatrale ExNovo, Formisano suonerà pagine di Ravel, Debussy, Bozza, Messiaen. Un repertorio tutto al francese, dunque, in perfetta armonia con l’esposizione, i suoi temi e le sue tele. Si tratta di un evento che si inserisce in una più ampia rassegna di musica classica inaugurata quest’anno che ha segnato un bel successo di pubblico e porta il nome Concerti dei Serviti. Una prima con la quale il Dicastero Museo e Cultura di Mendrisio ha voluto promuovere la musica classica in un luogo originale e di grande ispirazione come quello del complesso conventuale di S. Giovanni proponendo da giugno ad oggi cinque appuntamenti di grande spessore con musicisti di fama internazionale. I primi tre concerti hanno avuto luogo nella Chiesa di S. Giovanni. Ad aprire le danze è stato il violoncellista Enrico Dindo con pagine di Bach, poi è stata la volta degli strumentisti della Scala Teatro di Milano che han-

Youtube

Concerti ◆ Il flauto di Davide Formisano chiude la rassegna Concerti dei Serviti

no fatto risuonare Le quattro stagioni di Vivaldi e infine il Trio d’archi d’eccezione composto dal violinista belga Marc Bouchkov, il violista italiano Alfredo Zamarra e la giovane violoncellista mantovana Miriam Prandi che ha suonato pagine di Beethoven e di Schubert. Dalla Chiesa al Chiostro dei Serviti, la rassegna lo scorso settembre ha visto protagonista Sergey Tanin, classe 1995, definito «il pianista che viene dal freddo», dal docufilm biografico della radiotelevisione svizzera, tra i più promettenti pianisti della sua generazione ha incantato tutti suonando Beethoven, Schubert e Liszt. E ora a chiudere questa prima fortunata edizione sabato prossimo

sarà il flauto di Davide Formisano nel grande salone del Museo d’Arte di Mendrisio. La direttrice del museo Barbara Paltenghi Malacrida, ideatrice e promotrice del progetto, amante della musica classica con molti contatti nel settore che le hanno permesso di mettere insieme un programma polifonico di spessore, non intende fermarsi qui. «Con il nostro museo produciamo cultura visiva ma perché – mi sono detta – non produciamo anche una stagione di teatro, di danza, di poesia o di musica?». Certo ci vorrebbe un teatro, ma gli spazi del museo e del complesso conventuale di S. Giovanni hanno dimostrato come le buone idee – anche spinte da budget contenuti – possono avere gambe, sostanza e gradimento del pubblico. «Resto convinta che una città, una popolazione si identifica culturalmente nelle proprie istituzioni. Così è nelle grandi città, così avviene anche nel piccolo. Quindi ho deciso di produrre una stagione istituzionale, finanziata attraverso il ricavo dei biglietti e il sostegno di uno sponsor». / Red. Dove e quando Concerti dei Serviti, Concertospettacolo con Davide Formisano, sabato 11 novembre alle 18.30 Museo d’arte di Mendrisio. www.museomendrisio.ch

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Settimanale di informazione e cultura

Anno LXXXVI 6 novembre 2023

azione – Cooperativa Migros Ticino

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CULTURA

Il fascino primordiale delle percussioni Incontri musicali ◆ Intervista a Gregorio Di Trapani, membro del Lugano Percussion Ensemble Alessandro Zanoli

Per essere un ensemble così particolare, la vostra attività sembra molto intensa… Il nostro intento sarebbe quello di realizzare un disco ogni anno. Possiamo contare sul sostegno della RSI, che ci garantisce una produzione di alto livello, e da parte di Pro Helvetia. Poi all’attività discografica affianchiamo un programma di concerti molto ricco. Siamo stati in Bolivia, Giappone, Finlandia, Venezuela, Romania, Italia, USA, Germania e in Francia. In pochi anni il numero delle esibizioni è aumentato considerevolmente. Nel 2023 siamo partiti con una tournée che porta in giro un bellissimo progetto: uno spettacolo in cui proponiamo brani scritti da compositori internazionali per sei percussioni soliste e orchestra. La prima esecuzione si è tenuta addirittura al Biwako Hall con la Osaka Symphony Orchestra, la notte di San Silvestro. Gran parte dell’interesse che suscitate è caratterizzato, immaginiamo, proprio dall’originalità dell’organico di sole percussioni… Le percussioni sono, tutto sommato, uno strumento molto giovane e quindi in un certo senso, dal punto di vista del panorama popolare, tutto da scoprire. D’altro canto i brani stessi nel programma sono abbastanza suggestivi. Ognuno di noi si presenta con un set di percussioni molto vario e multiforme. Sono sei postazioni abbastanza particolari. Immagini la scena: sei percussionisti, con dietro l’orchestra, con marimba e altri strumenti inusuali proprio di fronte; lo strumento stesso dà spettacolo. Spesso i brani sono molto virtuosi e l’imponenza e il volume delle percussioni prende allo stomaco di chi ascolta. Travolge! È difficile trovare compositori che scrivano per un ensemble così complesso? Anche da questo punto di vista il compositore stesso deve tenere presente la particolare situazione del-

animaleschi. La «body percussion» è lo strumento primordiale, rispetto ad altri tipi di espressione strumentale: flauti, trombe, violini sono già in una dimensione diversa. Spesso il concerto contemporaneo è ritenuto un po’ ostico… Certo, ci sono pregiudizi sulla musica moderna, i nostri brani sono iper-contemporanei ma occorre dire che scegliamo compositori che abbiano anche un occhio sul pubblico, sulle sue aspettative. È un atteggiamento fondamentale, che ci spinge a differenziarci dagli «avanguardisti» classici. I nostri brani passano dall’etnica alla «body percussion», facciamo suonare matite sul tavolo. Sono tutte sorprese che sconvolgono le aspettative, piacciono addirittura ai bambini e ai critici di musica che di solito seguono la musica classica

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«Diversi anni fa quando ero studente ho fatto un’esperienza bellissima con un sestetto di percussioni (nella foto l’ensemble al completo) nato al Conservatorio della Svizzera Italiana. Dopo anni di lavoro mi hanno chiamato per una produzione in Iran dove ho suonato con dei miei colleghi percussionisti veramente in gamba. Alcuni li conoscevo già e con altri abbiamo stretto amicizia. Questa amicizia si è trasformata in voglia di condividere progetti. Io avevo voglia di mettermi in gioco con un sestetto di percussioni». Parte da qui l’intervista con Gregorio Di Trapani, dalle origini del Lugano Percussion Ensemble che dal 2017 ad oggi ha vissuto un crescendo incredibile. «Ancora prima che nascesse la denominazione ufficiale del gruppo eravamo stati invitati più volte al festival di Marta Argerich, e registrato con lei per la Deutsche Grammophon. Abbiamo aperto i corsi estivi di musica contemporanea di Darmstadt da solisti con la Basel Sinfoniette; siamo stati invitati in Giappone da solisti con l’Osaka Symphony Orchestra e di recente in Venezuela dall’Orchestra Municipal de Caracas». Fra le tante esperienze l’ensemble ha realizzato un primo disco con la casa discografica Stradivarius e ne usciranno presto altri due.

la percussione. I compositori con i quali collaboriamo stanno al gioco, progettando situazioni esecutive originali e stimolanti. Tutto lo spazio della sala diventa luogo di una performance: una cosa che ha anche aspetti visivi interessanti. La forma della sala e la disposizione del pubblico ci portano a trovare di volta in volta delle nuove soluzioni per allestire i nostri set-up per dare al pubblico il massimo dell’ascolto e della visibilità.

che piacciono sempre. La percussione classica aveva una funzione coloristica, di abbellimento. È stato Stravinski che le ha dato un ruolo diverso, fondamentale e autonomo nel discorso musicale. I compositori di oggi scrivono con un’altra idea, tenendo conto della dimensione della performance. L’idea dell’impatto visivo dell’esibizione sta diventando

importante anche nella musica classica; sempre più spesso anche gli orchestrali curano il loro apparire. La percussione, in questo senso, è avvantaggiata dal punto di vista visivo. Considerando che nelle orchestre ogni sezione di strumenti rappresenta quasi una tribù con particolari caratteristiche, noi percussionisti siamo forse quelli più «istintivi»,

Quando si potrà ascoltarvi dal vivo? Saremo in Ticino il 16 novembre, all’Asilo Ciani di Lugano, con alcuni brani accompagnati dalle immagini live di Roberto Mucchiut. Il progetto Sensitive Darkness invita ad un viaggio sensoriale, dal buio verso la luce stuzzicando i sensi del pubblico. Informazioni www.lpensemble.com Annuncio pubblicitario

Quindi per l’interpretazione del vostro repertorio la collaborazione con i compositori è fondamentale? Certo, a volte loro pensano proprio di scrivere cose specifiche, studiate per il nostro gruppo. A noi in particolare interessa la nuova musica e quindi collaboriamo con compositori contemporanei svizzeri, italiani e di altri paesi. Cerchiamo di far interagire le loro idee con le nostre potenzialità, le loro esigenze con le nostre. Un esempio ben riuscito di questa collaborazione è ad esempio lo spettacolo Light percussion, creato per esaltare la timbrica di alcuni strumenti molto piccoli e per avere comunque un risultato di impatto, come se fossero percussioni più grandi. È un’idea molto originale, in cui si cerca di far stare tutti gli strumenti in una valigia, come si trattasse di musica portatile. Per questo specifico «format» abbiamo un serie di brani scritti appositamente per noi da compositori come Mathias Steinauer, Giacomo Platini, Luca Staffelbach, Lars Heusser, Antonio Accursio Cortese e molti altri. È una cosa che sta piacendo molto, che sta funzionando, grazie alla quale possiamo esaltare un aspetto del colore della percussione. In un brano ad esempio si usano solo metalli, in un altro legni, in un altro ancora pietre. Non ci sono vere melodie, ma si tratta di una melodia timbrica e ritmica molto particolare. D’altro canto occorre considerare che le percussioni hanno sempre un fascino, per così dire, molto tribale. Sì, c’è un importante aspetto anche nella componente ripetitiva delle sequenze percussive. Non per niente ricorriamo anche a brani storici di compositori come Steve Reich, alla sua Musica per pezzi di legno. In effetti la percussione ha un suo minimalismo fondamentale, e sono pezzi

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Anno LXXXVI 6 novembre 2023

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CULTURA

La Rondine e l’eleganza della scrittura pucciniania Opera ◆ All’Opernhaus di Zurigo grande successo di pubblico e di critica per l’opera del compositore toscano

La Rondine è un lavoro di Giacomo Puccini assai raramente rappresentato e di cui è conosciuta al grande pubblico soprattutto l’aria del I Atto Chi il bel sogno di Doretta. Il compositore aveva in un primo tempo accettato la proposta di scrivere un’operetta da parte del Carltheater di Vienna, ma convinto che il genere non gli fosse congeniale, aveva presto cambiato idea, optando per una commedia lirica leggera.

Interessante l’allestimento sul piano visivo, con un’efficace guida delle dramatis personae da parte di Christof Loy Ciò che ne risultò, grazie anche al libretto di Giuseppe Adami su una bozza di Alfred Maria Willner e Heinz Reichert, fu una caleidoscopica composizione con qualche momento ritmico tipico di operetta e musical, dall’impianto drammaturgico vivace, ma non troppo vigoroso, e con sviluppi e situazioni appena accennate, ma comunque non prive di spessore. La Rondine fu poi varata a Monte Carlo nel 1917, ma nonostante il successo della prima, in seguito non riuscì mai a sfondare, forse per la trama senza struggenti colpi di scena. Eppure la storia della protagonista, che qui non vogliamo rac-

contare, non è meno interessante di quella della Dama delle Camelie o di Violetta della Traviata, ancorché con un finale molto diverso. La Rondine è stata in cartellone all’Opernhaus di Zurigo fino a fine ottobre (tornerà nella prossima stagione) per la direzione musicale di Marco Armiliato (che avevamo intervistato sul nr. 40 di «Azione» del 2022) e la regia di Christof Loy. Una produzione zurighese che mette in evidenza l’eleganza della scrittura pucciniana con tutti gli effetti timbrici e lirici di una partitura, nella quale è possibile cogliere accenni ad altre opere di Puccini, a Richard Strauss e al suo Rosenkavalier, quest’ultima opera molto amata dal compositore toscano. Armiliato offre una lettura complessivamente senza retorica de La Rondine che ne sottolinea però la pregevole sonorità, ogni nuance stilistica, e quel cromatismo peculiare che esalta le atmosfere frivole ed eleganti della trama. Impeccabile l’esecuzione dell’orchestra Philarmonie Zürich – guidata dal Maestro con mano ferma – sempre attenta a non coprire le voci degli interpreti seguendo il Maestro dall’inizio fino all’acceso finale. Ottima anche la prestazione dell’omogenea compagnia formata da interpreti dalla robusta vocalità e sempre in grado di cogliere e restituire il messaggio dell’opera interpretata. Su tutti campeggia Ermonela Jaho nel ruolo

di Magda (nella foto in un momento dello spettacolo), la Rondine che non ama essere messa in gabbia. Il soprano albanese vanta, oltre al bel timbro e ad un registro acuto tutt’altro che opaco, un’intensa musicalità tradotta in un fraseggio incisivo, ma sempre misurato, e in una grande capacità di differenziare. La Jaho padroneggia inoltre la parte con un’ottima presenza scenica e una grande naturalezza nei gesti e negli atteggiamenti: convincente quando per amore di Ruggero lascia Rambaldo e una facile e dorata vita di mantenuta, e ancor di più quando, poco dopo, da donna libera e in grado di autodeterminarsi – e proprio come una rondine – se ne vola di nuovo via. L’affianca il tenore Benjamin Bernheim nel ruolo di Ruggero che, se non le è pari scenicamente, non le è da meno vocalmente. Il tenore esibisce infatti un corposo strumento vocale lungo tutta l’estensione che il suo non facile ruolo richiede. All’altezza anche Sandra Hamaoui nella parte di Lisette: soprano agile e convincente ma, soprattutto, con una marcata e intrigante verve teatrale. Juan Francisco Gatell presta al poeta Prunier una voce interessante, usata sapientemente a seconda della situazione, Bravi anche Vladimimir Stoyanof nella parte di Rambaldo, Andrew Moore in quella di Périchaud e tutti gli altri. Sul versante musicale resta ancora da dire della prestazione di alto livello,

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per precisione ritmica e di intonazione, fornita dal Chor der Oper Zürich, come di consueto magistralmente preparato da Ernst Raffelsberger. Interessante l’allestimento sul piano visivo, con un’efficace guida delle dramatis personae da parte di Christof Loy. Il regista è sempre attento a misurare atteggiamenti, posture e mimica. Giuseppe Adami non è Hugo von Hofmannsthal, ma Puccini è Puccini. Loy si avvale della scenografia di Etienne Pluss, del suggestivo Light Design di Fabrice Kéb-

our, dei costumi sartoriali di Barbara Drosihn e delle adeguate coreografie di Thomas Wilhelm. Una scenografia essenziale, ma eloquentemente articolata nei tre differenti luoghi d’azione: l’elegante interno della casa di Magda, il locale notturno parigino, una terrazza con vista. La nuova produzione zurighese de La Rondine è un evento artistico da ricordare anche per la grande affluenza di pubblico attento e entusiasta che ha richiamato. Si replica la stagione prossima. Annuncio pubblicitario

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