Azione 47 del 20 novembre 2023

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Anno LXXXVI 20 novembre 2023

Cooperativa Migros Ticino

G.A.A. 6592 Sant’Antonino

Settimanale di informazione e cultura

edizione

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MONDO MIGROS

Pagine 2 / 4 – 5 ●

SOCIETÀ

TEMPO LIBERO

ATTUALITÀ

CULTURA

Nel suo ultimo libro lo psicologo Nicola Bruno spiega che cos’è il desiderio e come misurarlo

Il fotografo ticinese Roberto Pellegrini ci racconta il suo rapporto con l’arte e con la realtà

Berna ha riaperto la strada per consolidare la via bilaterale con l’Unione europea

Al m.a.x. museo di Chiasso si può ammirare l’arte di Giovanni Collina ispirata ai Carmina Burana

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Narrare una valle attraverso le mappe

Pietro Montorfani Pagina 15

La lotta al fumo? Questione di naso Carlo Silini

Se ha ragione un curioso articolo online della rivista di divulgazione scientifica «Focus», uscito ventun’anni fa, nella seconda metà del XVI secolo la Turchia era retta da un Pascià talmente salutista che aveva proibito ai sudditi l’assunzione di tabacco e caffè. Stando alla fonte citata, fra le pene previste per i contravventori c’era addirittura il taglio del naso. Logico, quindi, che – per reazione uguale e contraria – alla morte del tiranno la popolazione tornasse a sorbire caffè e a fumare tabacco con l’eccessiva ingordigia di chi ne aveva patito troppo a lungo l’astinenza forzata. Pare che venga da qui il famoso modo di dire (velatamente razzista) «fumare come un turco». Da lunedì scorso, tuttavia, onestà intellettuale imporrebbe di modificarlo con un – per noi – assai poco lusinghiero «fumare come uno svizzero». L’ultimo rapporto del Global Tobacco Index (realizzato dall’Associazione svizzera per la prevenzione del tabagismo), riferito all’anno in cor-

so, ha collocato il nostro Paese all’89esimo posto su 90 in fatto di lassismo nella politica di lotta contro il fumo. Secondo gli autori dello studio, «la Svizzera risulta particolarmente esposta alle manipolazioni dell’industria del tabacco e della nicotina». Sarà che sul territorio elvetico ci sono le sedi principali di tre colossi del settore: Philip Morris International, British American Tobacco e Japan Tobacco International. I nostri politici finiscono sulla graticola dei ricercatori perché, a loro avviso, subiscono supinamente le pressioni dell’industria del fumo nei dibattiti e nei processi legislativi sulla salute pubblica. Un’industria, denunciano, che «prende parte alle discussioni sulle misure di regolamentazione, esercita un influsso sulle persone chiamate a prendere le decisioni e si avvale di numerosi lobbisti per diffondere informazioni tendenziose e promuovere i propri interessi» (in palese contraddizione con la tutela della salute

pubblica). Le accuse sono macigni. La Svizzera permetterebbe all’industria del tabacco e della nicotina di perseguire strategie che vanno dalla manipolazione politica all’occultamento degli effetti nocivi del fumo. Si evocano pure collaborazioni spurie e a dir poco inopportune: Il Politecnico federale di Zurigo, scrivono, starebbe conducendo uno studio sovvenzionato dal Fondo nazionale svizzero per la ricerca scientifica e da Philip Morris (che, aggiungono i ricercatori, avrebbe inoltre regalato 35 mila franchi a due importanti partiti nazionali). Le affermazioni di questa ricerca ci turbano: le autorità potrebbero fare molto di più per contrastare il fenomeno. È vero che sui pacchetti di sigarette in vendita troneggiano immagini terribili (denti neri, polmoni intaccati dal cancro ecc ecc), che dovrebbero scoraggiarne il consumo, ma allo stesso tempo il nostro è uno dei pochi Paesi a non avere ratificato la Convenzione qua-

dro dell’Organizzazione Mondiale della Salute (OMS) sulla lotta al tabagismo. Naturalmente viviamo in uno stato di diritto e sarebbe liberticida una politica proibizionista come quella del Pascià turco di cinque secoli fa (che poi ottiene effetti contrari). Ed è vero che ognuno è libero di farsi del male come preferisce: assumendo sostanze tossiche, consumando scatolate di farmaci, tracannando litri di alcol, pippando quotidianamente quantità industriali di sigarette e affini. Ma la nostra classe politica non può ignorare che in Svizzera il consumo di tabacco causa 9500 decessi l’anno, pari a 26 al giorno e al 14% di tutti i decessi (fonte: Ufficio federale della sanità pubblica). Colpa di chi fuma? Solo in parte. Chissà quanti dei nostri rappresentati a Berna, se fossero vissuti nella Turchia del XVI secolo, avrebbero ancora un naso da soffiare, ora che si affacciano i primi sintomi dei raffreddori invernali.


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MONDO MIGROS

La Federazione delle cooperative Migros ridimensiona l’Amministrazione

Info Migros ◆ L’Assemblea dei delegati della Federazione delle cooperative Migros (FCM) ha deciso chiaramente di ridurre il numero dei membri dell’Amministrazione da 23 a 13. I circa 100 delegati presenti hanno inoltre approvato le basi per la costituzione della nuova società Migros Supermercati SA (MSM SA). Si è discusso anche dell’adeguamento dell’età di pensionamento dei collaboratori Migros alle nuove disposizioni di legge sull’AVS L’Amministrazione della Federazione delle cooperative Migros (FCM) ridurrà il numero dei suoi membri da 23 a 13 a partire dal 1° luglio 2024. Lo ha deciso a Zurigo sabato 11 novembre 2023 l’Assemblea dei delegati della FCM. «L’Assemblea dei delegati approva e sostiene gli sforzi dell’Amministrazione a favore di una maggiore agilità ed efficacia, in modo da potersi adeguare più velocemente agli sviluppi del mercato», afferma Marianne Meyer, presidente dell’Assemblea dei delegati. Oltre alla presidente dell’Amministrazione e a due rappresentanti del personale, l’organo in futuro dovrà comporsi di altri cinque membri esterni e di cinque membri delle cooperative regionali. Il presidente della Direzione generale FCM parteciperà alle sedute con voto consultivo.

Una nuova SA, la garanzia della varietà svizzera e un adeguamento dell’età di pensionamento alle disposizioni AVS In questo modo, ogni Cooperativa regionale disporrà in futuro di un/a rappresentante o in seno all’Amministrazione della Federazione delle cooperative Migros (FCM) o al Consiglio d’amministrazione della futura Migros Supermercati SA. Ursula Nold, presidente dell’Amministrazione FCM, sottolinea: «La riduzione dei membri dell’Ammini-

strazione della FCM riflette la chiara visione per cui un organo che agisce in modo agile può contribuire con maggiore efficacia allo sviluppo futuro del Gruppo Migros».

I delegati si schierano a favore della varietà svizzera Oltre all’esperienza e alla competenza, la composizione dell’Amministrazione FCM deve tenere conto delle diversità regionali. I delegati hanno quindi stabilito nello statuto che almeno uno dei membri esterni deve provenire dalla Svizzera francese o italiana. Così facendo, si è tenuto conto di una richiesta avanzata durante l’Assemblea dei delegati straordinaria di settembre. Per via della scadenza del proprio mandato, i seguenti quattro membri lasceranno l’Amministrazione FCM alla fine di giugno 2024: Hans A. Wüthrich, Dominique Biedermann, Paola Ghillani e Jean-René Germanier. Inoltre, Marianne Janik ha deciso di lasciare l’Amministrazione al termine del suo mandato per far posto a un nuovo membro esterno proveniente dalla Svizzera italiana o francese.

I delegati sostengono la costituzione di Migros Supermercati SA In un altro punto all’ordine del giorno, i circa 100 delegati presenti han-

no approvato le basi per la costituzione della nuova società Migros Supermercati SA. Ciò richiederà la modifica dei contratti tra la FCM, le Cooperative e la futura MSM SA. A partire da metà novembre anche i comitati competenti delle Cooperative regionali decideranno in merito. Con la nuova società, Migros intende offrire i propri prodotti e servizi in modo più efficace lungo l’intera catena del valore. «I delegati ritengono che Migros Supermercati SA rappresenti un passo giusto e importante per rafforzare il core business di Migros a vantaggio della clientela», afferma Marianne Meyer.

Migros adegua l’età di pensionamento alle disposizioni AVS svizzere I delegati della FCM hanno inoltre deciso – con riserva di ulteriori lavori da parte dei vari organi – di innalzare gradualmente l’età di pensionamento fino alla nuova età di riferimento di 65 anni, in linea con la riforma pensionistica AVS 21. Attualmente l’età di riferimento per tutti i collaboratori assicurati presso la Cassa pensioni Migros è di 64 anni. Grazie a questo adeguamento, a partire dal 2028 non si applicherà più il precedente periodo

di transizione con una rendita sostitutiva AVS Migros e tutti i dipendenti riceveranno una rendita AVS direttamente al raggiungimento dell’età di riferimento prevista dalla legge. L’integrazione attuale data dalla rendita Migros sostitutiva dell’AVS non sarà più valida. Le generose prestazioni del 2° pilastro rimangono invariate e vanno a beneficio di tutti i pensionati, indipendentemente dall’età di riferimento. Tutti i collaboratori assicurati presso la Cassa pensioni Migros possono usufruire dell’età di pensionamento flessibile. Esiste infatti la possibilità di andare in pensione a partire dall’età di 58 anni.

Un sostegno concreto all’integrazione

Impegno Migros ◆ Attraverso il programma «ici. insieme qui.» saranno finanziati 83 progetti di integrazione in tutta la Svizzera con 729’750 CHF – le iniziative riceveranno contributi tra i 1000 e i 25’000 CHF Con «ici. insieme qui.» Impegno Migros presta un aiuto diretto a singole persone o gruppi che hanno presentato un progetto di integrazione da realizzare nel loro quartiere o Comune. In un processo articolato in due fasi, tra i 274 progetti inoltrati da ogni regione del Paese la giuria composta da sette membri ne ha selezionati 83. In base alle necessità, i progetti saranno sostenuti con importi compresi tra 1000 e 25'000 CHF o con un coaching professionale. La varietà dei progetti è grande: a Lucerna, le due organizzazioni no-profit Genossenschaft Zeitgut e HelloWelcome organizzano soluzioni abitative tandem. Anziani e immigrati creano una comunità abitativa per risparmiare sui costi, sfruttare meglio lo spazio abitativo e sfuggire all’isolamento. L’iniziativa Ama-K Bro, a

Ginevra, rivolge il suo progetto di riciclaggio di mobili a giovani dai 18 ai 25 anni che hanno lasciato la scuola, la formazione o la famiglia e danno una seconda vita ai mobili vecchi. A Viganello (TI), con «DanceQweenz» l’associazione infoclic (infoklick.ch/ svizzera-italiana/) organizza laboratori di danza per ragazze dai 9 ai 20 anni con background migratorio e coetanee della regione con l’obiettivo di promuovere lo scambio interculturale (i progetti sostenuti in Ticino sono in tutto 13). Oltre alla Commissione federale della migrazione CFM, i promotori nonché membri della giuria del programma di sostegno «ici. insieme qui.» lanciato nel 2021 dall’Impegno Migros sono la Conferenza dei delegati cantonali, regionali e comunali all’integrazione (CDI), la Conferen-

azione

Redazione Carlo Silini (redattore responsabile) Simona Sala Barbara Manzoni Manuela Mazzi Romina Borla Natascha Fioretti Ivan Leoni

za svizzera dei servizi specializzati nell’integrazione (KoFI) e la Conferenza tripartita. Angela Zumbrunn, responsabile del progetto presso la Direzione Società e cultura della Federazione delle Cooperative Migros, gestisce il programma di sostegno che completa nel

modo ideale le attività della Confederazione, dei Cantoni e dei Comuni: «Molte iniziative non hanno neanche bisogno di somme ingenti per dare un contributo importante alla coesione sociale. Spesso a mancare sono le risorse finanziarie di modesta entità, ad esempio per pagare l’affitto di un

luogo di incontro comune, acquistare libri per l’infanzia o i biglietti del bus per le persone che vivono in centri per richiedenti asilo situati in zone distanti». «Grazie ai progetti sostenuti finanziariamente da Impegno Migros, le persone migranti possono impegnarsi, fare rete a livello locale e acquisire esperienze preziose», afferma Hedy Graber, responsabile Direzione Società e cultura della Federazione delle cooperative Migros. «E in tal modo si rafforza anche la coesione sociale nel nostro Paese». Ulteriori informazioni sui progetti sostenuti www.ici-gemeinsamhier.ch/it/progetti

Settimanale edito da Migros Ticino Fondato nel 1938 Abbonamenti e cambio indirizzi tel +41 91 850 82 31 lu–ve 9.00–11.00 / 14.00–16.00 registro.soci@migrosticino.ch

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Salute: il piede diabetico È una grave complicanza del diabete mellito di tipo 2, fondamentale è la prevenzione

La memoria nell’era digitale Il professor Frédéric Kaplan parla del futuro della conservazione dei dati e del progetto Time Machine

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Le torbe della Vallemaggia I granai su pilastri unici in tutto il Ticino potrebbero entrare a far parte di una rete internazionale

Giovani e salute mentale Ragazzi tra i 16 e i 22 anni si raccontano liberamente nei videopodcast La salute vien parlando

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La matematica del desiderio

Intervista ◆ Secondo lo psicologo Nicola Bruno si può misurare l’intensità del desiderio, sentimento che regola e decide molti dei nostri comportamenti, con una formula «semplice» e adatta a tutte le situazioni Stefania Prandi

Nicola Bruno, come definisce il desiderio? Per me è il desiderio è quel sentimento interno, quello stato mentale che orienta i nostri comportamenti, dai più banali e quotidiani fino alle scelte più importanti della nostra vita. Quando al supermercato scegliamo un prodotto da mettere nel carrello, è perché sentiamo più forte il desiderio verso quel prodotto rispetto agli altri nello scaffale. Nel momento in cui decidiamo se accettare una nuova offerta di lavoro, o di continuare con il nostro impiego attuale, è perché percepiamo più forte il desiderio verso una prospettiva futura rispetto all’altra. Il desiderio è ciò che viene da dentro, e guida i nostri comportamenti verso il mondo esterno. Credo che debba essere distinto dall’attrazione che, invece, dipende da qualcosa che viene dal di fuori, dagli oggetti, dalle persone, dagli eventi, e che in qualche modo ci cattura e ci attrae verso queste cose. La psicologia dell’attrazione è una cosa diversa da quella del desiderio. Qual è la formula per misurare il desiderio? La formula è questa: la sensibilità (cioè il cambiamento a livello sensoriale oppure la desiderabilità di una prospettiva futura) è inversamente proporzionale all’intensità dello stimolo. Questo significa che se, ad esempio, guadagno mille franchi al mese e mi danno cento franchi in più al mese, percepisco immediatamente la differenza, e l’aumento è molto desiderabile. Se, invece, il mio stipendio è di diecimila franchi al mese, cento franchi rappresentano un cambiamento impercettibile, e l’aumento è molto meno desiderabile. Possiamo misurare il nostro desiderio o quello degli altri? Proviamo il nostro desiderio in prima persona, quindi lo conosciamo. La sfida è misurare il desiderio altrui, perché non possiamo entrare nella mente delle altre persone (o degli altri animali non umani). Possia-

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Il desiderio ci accompagna nella nostra quotidianità. È un sentimento con un’intensità capace di regolare e decidere molti dei nostri comportamenti, dai più banali fino alle decisioni cruciali della nostra vita. La legge del desiderio di Nicola Bruno, docente di Psicologia generale all’Università di Parma, racconta la storia dell’idea che ha reso possibile la misurazione matematica di questo sentimento. Una formula aritmetica «semplice» e applicabile agli ambiti in cui sono in gioco le scelte, piccole o grandi che siano.

mo calcolare il desiderio utilizzando i metodi della psicofisica, basati su modelli matematici e su esperimenti in cui si misura la capacità di discriminare fra stimoli presentati in maniera controllata. Da dove nasce l’idea del suo libro? Ho visto in libreria che Il Mulino aveva una collana intitolata «formule per leggere il mondo». Io sono uno psicologo sperimentale e un neuroscienziato cognitivo e ho pensato che sarebbe stato interessante aggiungerci un contributo sulla legge di Weber, la formula da cui ha avuto origine la psicofisica. Mi è venuto in mente che la legge di Weber è, in senso lato, la legge del desiderio, il principio fondamentale che ci consente di misurare l’intensità delle nostre sensazioni interne e, dunque, la forza che orienta i nostri comportamenti. Che cos’è la psicofisica? La psicofisica è il settore della psicologia scientifica che si occupa dei

metodi per misurare le sensazioni. Nella definizione del padre della psicofisica, Gustav Theodor Fechner, la psicofisica studia le relazioni funzionali fra l’intensità degli stimoli fisici, come una luce, o un peso, e le sensazioni che evocano a livello psicologico. Fechner fondò la psicofisica a metà dell’Ottocento, a partire da una semplice osservazione che aveva riportato un altro fisiologo dell’università di Lipsia, Ernst Weber. Fechner battezzò questa osservazione «La legge di Weber», ed è la formula sulla copertina del mio libro. Perché la psicofisica è importante? La nascita della psicofisica ha avuto un ruolo considerevole nello sviluppo della psicologia scientifica perché ha consentito di sviluppare metodi quantitativi per misurare gli stati mentali (ossia cose come le credenze, intenzioni, emozioni, desideri e percezioni). Ma l’interesse della disciplina non si ferma qui: le idee di Fechner, infatti, furono anticipate di quasi un secolo da Daniel Bernoulli,

un grande matematico, nel contesto dei problemi di economia. La storia della psicofisica si intreccia, perciò, con quella dell’economia, e nel nostro secolo un grande psicologo sperimentale, Daniel Kahneman, ha ricevuto il premio Nobel proprio per la sua teoria dei comportamenti di scelta economica che deriva, per molti aspetti, dalla tradizione della psicofisica. Nella teoria di Kahneman non vengono misurate le sensazioni evocate dagli stimoli che provengono dall’ambiente fisico, ma le sensazioni (di piacere o di dispiacere) evocate da prospettive future nell’ambiente sociale. Comunque, l’idea di base è la stessa, la legge di Weber. La legge del desiderio, appunto. Lei scrive: «Spesso le decisioni importanti nelle nostre vite hanno questa struttura: restare o andarsene». Verso cosa propendiamo, in genere, e perché? Molte decisioni importanti della nostra vita hanno questa struttura e la teoria del prospetto di Kahneman,

che deriva dalla tradizione psicofisica, ci dà alcuni strumenti importanti. La propensione verso la scelta di restare o andarsene dipende, appunto, dal desiderio che proviamo per l’una o l’altra. Quale delle due prevarrà dipenderà da molti fattori e grazie alla teoria di Kahneman oggi ne comprendiamo alcuni. Ad esempio, la maggior parte di noi ha una avversione nei confronti delle prospettive rischiose e una preferenza verso le opzioni sicure. La tendenza ad evitare il rischio, spesso, ci fa propendere verso la decisione di restare, talvolta con conseguenze negative. Penso, ad esempio, alle persone che rimangono intrappolate in relazioni tossiche e non riescono a uscirne perché l’incertezza sul futuro pesa più degli aspetti negativi certi del rapporto. Questo fenomeno è ben spiegato dalla formula matematica che descrive come la sensazione di soddisfazione verso un’opzione futura cresca in maniera non lineare con l’aumentare del valore monetario di quella opzione.


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MONDO MIGROS

Il regalo perfetto è Nostrano

Attualità ◆ Anche quest’anno, in modo facile e intuitivo, potrai comporre online il tuo cesto regalo con prodotti gastronomici ticinesi. Un’idea semplice e genuina che farà la gioia di ogni buongustaio

I prodotti regionali sono sempre più richiesti e popolari, vuoi per la loro sostenibilità ambientale e sociale, vuoi per la loro valenza economica per il territorio in cui vengono prodotti. Da 18 anni Migros Ticino valorizza i prodotti provenienti dalla filiera produttiva ticinese grazie alla sua linea contrassegnata con lo specifico marchio dei Nostrani del Ticino. Negli anni questo assortimento di generi alimentari si è costantemente sviluppato e ampliato, arrivando a contare oggi ben oltre 500 specialità appartenenti a tutte le categorie merceologiche. Dai latticini ai formaggi, dalla carne ai salumi, dalla panetteria alla pasticceria, dalla frutta e verdura ai prodotti convenience, passando per le bibite e fino ai condimenti… ogni settore è ben rappresentato dalla presenza di prodotti a km zero ticinesi. Tutti i prodotti Nostrani del Ticino devono sottostare ai criteri del marchio di qualità «Ticino regio.garantie» che ne attesta la regionalità e tracciabilità, la cui vigilanza è affidata all’associazione Alpinavera che raggruppa specialità dei cantoni Ticino, Grigioni, Uri e Glarona. Per potersi fregiare del marchio i prodotti devo essere almeno all’80% a base di ingredienti regionali (100% per quelli non composti) e la loro produzione deve generare almeno 2/3 del valore aggiunto nella regione di riferimento.

Sul sito nostranidelticino.ch/cesti-regalo abbiamo selezionato per te una cinquantina di prodotti nostrani ideali da regalare, suddivisi nelle categorie bevande, dolci, salumi e alimentari. Che si tratti di sciroppi, gazose, tisane, biscotti, pancetta, prosciutto crudo, salame al merlot, miele, confetture, condimenti o farine… ognuno troverà gli spunti giusti per comporre un fantastico e genuino cesto regalo natalizio.

Il cesto regalo dei Nostrani del Ticino è disponibile in tre formati diversi, piccolo (5 articoli), medio (10 articoli) e grande (15 articoli). Seleziona sul portale quello che preferisci e componilo con gli articoli prescelti in modo facile e intuitivo. Una volta terminato, effettua il pagamento tramite carta di credito e dopo pochi giorni potrai ritirarlo nella filiale Migros di tua scelta.

I cesti dei Nostrani del Ticino sono confezionati in collaborazione con la Fondazione Diamante, un’impresa sociale che dal 1978 promuove l’inclusione di persone in situazione di handicap sia in ambito lavorativo sia abitativo. Distribuita capillarmente su tutto il territorio ticinese, la Fondazione Diamante, grazie al numero di collaboratori, ai rapporti commerciali e alla varietà di attività realizzate, è un importante attore economico della realtà cantonale. Da oltre trent’anni è attiva all’interno della centrale di distribuzione Migros di S. Antonino, dove lavorano dodici persone a beneficio di una rendita di invalidità, collaborando in diversi ambiti di attività: dalla pulizia alla gestione della posta interna, dalla logistica al riciclaggio dei materiali. Un progetto che offre un importante contributo all’inclusione sociale.

nostranidelticino.ch

Una settimana di offerte sensazionali

Attualità ◆ Nei Centri Agno e S. Antonino fino a sabato 25 novembre ti aspettano fantastiche offerte da non lasciarsi sfuggire

Fino a sabato 25 novembre, il Centro Agno e il Centro S. Antonino si immergono pienamente nell’atmosfera del Black Friday, che cade proprio venerdì 24 novembre, per proporre ai visitatori tante fantastiche offerte in numerosi negozi dei due centri commerciali. Insomma, un’imperdibile occasione per portarsi avanti con i regali di Natale approfittando di prezzi davvero imperdibili. Ti aspettiamo!

Perché Black Friday? Il Black Friday è un’attività di origini statunitensi che cade l’ultimo venerdì di novembre e il giorno successivo al Ringraziamento (Thanksgiving). Oggi è diventato un fenomeno glo-

bale, che consente ai consumatori di poter approfittare di sconti e promozioni speciali in vista del periodo natalizio, sia nei negozi tradizionali che in quelli online. Esistono diverse teorie sull’effettiva origine di questo giorno. Una di queste narra per esempio che il termine sia nato negli anni Cinquanta a Filadelfia, quando dopo il giorno del Ringraziamento moltissime persone si riversavano nelle strade cittadine creando grande traffico e caos in tutta la città, mettendo a dura prova la pazienza della polizia. In breve, una vera e propria giornata nera. Oltre al Black Friday, negli ultimi anni è arrivato anche il Cyber Monday, evento che si tiene il lunedì successivo al Ringraziamento e anch’esso dedicato allo shopping sfrenato.


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Vinto un monopattino ad Arbedo-Castione

Attualità ◆ Recentemente è stato consegnato il premio del concorso organizzato in occasione del rinnovo completo degli spazi esterni del punto vendita del bellinzonese

La signora Silvana Boschetti riceve il premio dal gerente di Migros ArbedoCastione, Alessandro Mele. (Foto Giovanni Barberis)

È la signora Silvana Boschetti di Gnosca la fortunata vincitrice di un fiammante monopattino elettrico Micro Merlin II del valore di CHF 700.–. Il premio è stato messo in palio lo scorso 7 ottobre per sottolineare la conclusione dei lavori di miglioria della parte esterna del supermercato Migros di Arbedo-Castione, lavori che hanno permesso di consegnare alla clientela un negozio moderno e funzionale in toto, dopo il rinnovo completo degli spazi interni avvenuto nell’autunno dello scorso anno. Oltre al concorso, per l’occasione sono state organizzate altre attrattive attività rivolte a grandi e piccoli avventori del negozio sopracenerino, come degustazioni di prodotti dei Nostrani del Ticino, una ruota della fortuna con omaggi per tutti, la colazione offerta, il truccabimbi, consulenza con truccatrice e la possibilità di visitare il mitico camion vendita Migros reduce dal tour che ha attraversato il Ticino e la Mesolcina. Le nostre più sentite congratulazioni alla vincitrice!

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A Werfen, nel regno segreto dei Itinerari ◆ L’Eisriesenwelt, il regno ghiacciato che si trova a una cinquantina di chilometri da Salisburgo ed è la più grande grotta di

In questo calendario non c’è solo cioccolato

Romano Venziani; testo e foto

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C’è una donna, piccolina, con un buffo copricapo e una tazza in mano. Si guarda attorno e gira qua e là sull’ampia terrazza affollata di una moltitudine cosmopolita di gente in attesa. Evidentemente sta cercando un tavolo, qualche sedia, un angolino dove sistemarsi per sgranocchiare un panino, bere il suo caffè o anche semplicemente mettersi al sole ad aspettare. Per finire desiste e va a sedersi sui gradini dell’entrata, imitata dai quattro figli. Le faccio un cenno con la mano, come a dire: se vuole può accomodarsi al nostro tavolo, un po’ di posto c’è.

bibita. Qual è il suo slot? mi fa il maggiore, nel senso, per quale fascia oraria ha prenotato? Due e mezza tre, rispondo. Anche noi, però il cancello si apre già alle due e un quarto, mi informa. Buono a sapersi. L’Eisriesenwelt, la più grande grotta di ghiaccio del mondo, non si concede senza regole e per entrarci devi scegliere prima di tutto il giorno e uno slot orario. Se non vuoi riservare il biglietto online, puoi anche presentarti qui, al Besucherzentrum, sperando che Dio te la mandi buona. Potresti aspettare ore o non vederlo del tutto, il mondo dei giganti di ghiaccio. Oltre duecentomila visita-

La grotta in cui si trova la Eisriesenwelt rappresenta un universo parallelo, unico Calendario dell'Avvento e fantastico, dove la realtà Freylini Frey supera la fantasia

18.95

304 g

Non capisce e si volta per vedere se mi rivolgo proprio a lei, così mi alzo e vado a spiegarglielo di persona. Ringrazia e mi segue. Veniamo da Linz, dice, nell’alta Austria, e prende a frugare nello zainetto. Il figlio maggiore, un simpatico ragazzo sulla ventina, è più loquace e racconta che l’estate scorsa sono stati una settimana in vacanza in Carinzia. Quest’anno invece sono venuti qui. Lui studia e, dopo il servizio militare, vuole iscriversi al politecnico Zurigo. Intanto il fraFino adiesaurimento dello stock. tello più piccolo e le sorelline se ne stanno lì in silenzio a sorseggiare una

tori concentrati nei sei mesi d’apertura annuale non offrono molto spazio di manovra. A sud di Salisburgo, il Salzach, affluente dell’Inn, che deve il nome al sale trasportato sulle sue acque fino a inizio milleottocento, ha inciso un profondo solco nelle montagne calcaree, separando le Alpi di Berchtesgaden, a occidente, dal massiccio del Tennengebirge, a oriente. E lì, dove la vallata inizia a distendersi in un paesaggio più dolce, c’è il bel paese di Werfen, sovrastato dall’imponente castello di Hohenwerfen, quello di Dove osano le aquile, e dalle scoscese pareti dell’Hochkogel. Il castello di Hohenwerfen, dove osano le aquile. (Romano Venziani)

D o a a CH CH F 1 F 5 0.00 .-

L’entrata della grotta è proprio lassù, da qualche parte su quel bastione roccioso, a oltre milleseicento metri d’altitudine, indistinguibile dal basso nonostante la sua ampiezza. Fino alla metà degli anni Cinquanta del Novecento, si doveva salire a piedi all’Eisriesenwelt e ti toccava una bella sgambata di parecchie ore. Adesso una comoda strada di montagna ti porta senza fatica fino al Besucherzentrum. Si è fatta l’ora. L’occhio elettronico scruta curioso il mio codice a barre, si accende di verde e mi dà il via libera, il cancello si apre. Dal centro di accoglienza, un tranquillo viot-

tolo risale il pendio, ricoperto di un arioso bosco di conifere, le cui trasparenze regalano ritagli di paesaggi lontani. Una ventina di minuti e raggiungiamo la Wimmerhütte, uno spartano punto di ristoro, che dà accesso alla stazione di partenza della funivia, una delle più ripide dell’Austria. E qui puoi scegliere. Continuare a piedi sul sentiero che s’inerpica sulla montagna, piuttosto scosceso e un tantino esposto, ma in buone condizioni di sicurezza, oppure affidarti alla fune dell’ardito marchingegno che, dal 1955, in una manciata di minuti ti strappa letteralmente su di cinquecento metri fino alla sua staL’entrata della grotta vista dal sentiero. (Romano Venziani)


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SOCIETÀ

Diabete, il rischio di non percepire il dolore

Salute ◆ Il piede diabetico è una delle più gravi complicanze del diabete mellito di tipo 2, la terapia prevede una presa a carico tempestiva e multidisciplinare Maria Grazia Buletti

«La mia mamma ha dedicato tutta sé stessa alla famiglia, e a 70 anni si è trovata a fare i conti col suo diabete molto serio che da un paio d’anni le procura profonde ferite malleolari al piede. Il diabetologo ci ha spiegato che si chiama “piede diabetico”. Abbiamo capito che prevenire è sempre meglio che curare, che bisogna aiutare il malato nella cura dei suoi piedi (ndr: in genere degli arti superiori e inferiori), controllando insieme rossori, ferite o ulcerazioni. Perché la malattia diabetica non permette di sentire il dolore e i primi sintomi di ferite o ulcerazioni che poi peggiorano. Oggi mia mamma va regolarmente all’ambulatorio cure e ferite, è seguita dal diabetologo e dallo specialista chirurgo che, mi hanno spiegato, potrebbe dover intervenire favorendone la guarigione, qualora l’ulcerazione non guarisse in questo modo. Abbiamo imparato che dobbiamo sempre aiutarla a controllare bene i suoi piedi e le sue gambe, per prevenire l’inizio di altre piaghe o ulcere». È il racconto della figlia di Daniela (nome noto alla redazione) che deve fare i conti con il piede diabetico: una delle più serie complicanze del diabete. Ne parliamo prendendo spunto dalla giornata mondiale di sensibilizzazione che si svolge annualmente il 14 novembre, data scelta a celebrazione della nascita del fisiologo canadese Frederick Grant Banting che nel 1921 scoprì l’insulina. Una scoperta che consentì al diabete di passare da malattia mortale a malattia controllabile. Ma bisogna prestare molta attenzione alle insidie del piede diabetico, spiega il dottor Gianluigi Marini, specialista in medicina interna generale a Sorengo: «Esso rappresenta una tra le più gravi complicanze del diabete mellito di tipo 2, le cui cause, molto simili nei più, conducono alla lesione ulcerata. Secondo la banca dati americana Up To Date, questa patologia riguarda circa il 34 per cen-

Per ridurre le complicazioni legate al piede diabetico la parola d’ordine è prevenzione, che prevede controlli molto frequenti. (Freepik.com)

to delle persone con diabete di tipo 2 che presentano due o più fattori di rischio in cui la neuropatia diabetica periferica ha un ruolo centrale, insieme alla diminuita vascolarizzazione arteriosa: questi pazienti non percepiscono il dolore di pressioni (un sassolino sotto la pianta del piede), tagli e ulcerazioni che, non curate immediatamente, possono portare nella peggiore delle ipotesi all’amputazione della parte interessata». Prevenzione è la parola d’ordine per ridurre i casi di amputazione a carico degli arti inferiori. Due gli accorgimenti importanti: «Per prima cosa, i pazienti diabetici dovrebbero essere seguiti dai famigliari nel tenere controllati i piedi, almeno una volta alla settimana. Poi, è bene farsi seguire regolarmente da una buona e professionale pedicure medica», afferma Marini che in questa fase di prevenzione primaria individua lo screening del piede gestito dalla famiglia, dal diabetologo (esegue un esame completo del piede almeno una volta l’anno, o

con maggiore frequenza nei pazienti a rischio elevato) e dall’ambulatorio infermieristico-diabetologico delle complicanze ad arti inferiori: «In Ticino disponiamo di ambulatori per la cura del piede diabetico all’Ospedale Italiano di Viganello, alla Clinica Luganese di Moncucco, e alla Clinica Sant’Anna di Sorengo». È categorica l’esperta in cura delle ferite e stomaterapista Giovanna Elia, attiva all’Ambulatorio cura ferite della Clinica Sant’Anna di Sorengo: «L’infermiere specializzato in diabetologia spiega l’importanza del controllo giornaliero, oltre che dell’aderenza terapeutica, la cura (anche delle unghie), la cura della callosità che può individuare la fase pre-ulcerosa di cui il paziente non percepisce il dolore». Neuropatia che la specialista descrive come «la cosa più insidiosa»: «Più o meno accentuata, dipende da quanto tempo la persona è diabetica. Perciò è essenziale controllare quotidianamente i piedi davanti allo specchio, anche con l’aiuto

di un famigliare: questi pazienti possono fare lunghe passeggiate, a piedi, con un sassolino nella scarpa di cui non si accorgono perché non hanno la percezione del dolore». Ciò porta le persone a sottovalutare il problema del piede diabetico per il quale sarebbe invece opportuno seguire un programma educativo: «Sono i pazienti più difficili da accompagnare, ai quali bisogna far comprendere l’importanza della cura podologica regolare». Ribadisce che l’ulcera è guaribile «se il piede è dotato di una buona circolazione arteriosa». L’arteriopatia è spesso accompagnata da una riduzione della sensibilità al dolore (neuropatia sensitiva). Tre i pilastri della cura di queste ferite: «Bisogna verificare lo stato della circolazione, scaricare la zona colpita dall’ulcera con scarpe specifiche con plantare di scarico, tutore specifico per lo scarico totale del carico sull’ulcera, uso di feltri: tutto per alleggerire l’eccessiva pressione sulla zona colpita. È importante una buona

gestione dei profili glicemici e la medicazione deve essere idonea: non esiste un cerotto magico. La cura di una lesione plantare del piede diabetico è difficile: devo medicare, scaricare e verificare la circolazione; devo monitorare nel tempo e, in caso di guarigione, non devo lasciare a sé stesso il paziente che, ricordiamo, non sente il proprio piede e potrebbe tornare a ulcerarsi». Solo una grande disciplina e costanza porta al risultato: «Perché il dolore è un campanello d’allarme fondamentale che manca a questi pazienti». Lo specialista in chirurgia ortopedica, con specializzazione in caviglia e piede, Andrea Ferrero spiega il suo ruolo che sopraggiunge «quando siamo a uno stadio avanzato di ulcerazione che non guarisce con le cure o, peggio, dinanzi alle peggiori complicanze del percorso di vasculopatia e neuropatia». La situazione può essere rimediabile: «L’amputazione è l’ultima ratio e, se necessaria, è una “chirurgia del buonsenso” in cui il chirurgo è in equilibrio tra tagliare troppo o troppo poco: deve essere al giusto livello per fermare il problema, e non deve essere troppo generosa perché più è prossimale e maggiore è il rischio di elevata mortalità negli anni a venire». Non solo amputazione, in una presa a carico multidisciplinare che vede il chirurgo agire, per prima cosa «su un’ulcera diabetica che, se presa in tempo, ha ancora una prognosi relativamente favorevole, a patto che il chirurgo possa prenderla a carico rapidamente, eliminando la sovrappressione meccanica causata molto spesso da una o più ossa che schiacciano la pelle». La multidisciplinarietà è essenziale: «Il radiologo angiologo interventista (verifica dello stato arterioso e la rivascolarizzazione se possibile), la specialista in cura ferite, il diabetologo e il chirurgo ortopedico: il successo dipende dalla presa a carico congiunta di tutte queste figure professionali». Annuncio pubblicitario

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Il futuro della nostra memoria

Tecnologia ◆ Il professor Frédéric Kaplan, direttore del College of Humanities del Politecnico federale di Losanna, ci parla della conservazione dei dati nell’era digitale e del progetto Time Machine

«L’idea che una memoria digitale solida come un hard disk sia eterna è un’illusione: c’è il rischio della corruzione dei dati, dell’obsolescenza tecnologica, senza contare la dipendenza dall’energia elettrica» Sono temi e preoccupazioni al centro del lavoro di uno dei ricercatori svizzeri più coinvolti in progetti di digitalizzazione, conservazione e valorizzazione della memoria collettiva, Frédéric Kaplan, direttore del College of Humanities del Politecnico federale di Losanna (EPFL), titolare della cattedra di Digital Humanities e presidente della Time Machine Organization. «L’idea che una memoria digitale solida come un hard disk sia eterna è un’illusione – dice Kaplan – c’è il rischio della corruzione dei dati, dell’obsolescenza tecnologica, senza contare la dipendenza dall’energia elettrica, tutti elementi che rendono simili supporti molto fragili; d’altra parte, la tecnologia digitale permette di conservare archivi enormi in poco spazio, di duplicarli, di trasportarli con semplicità, di rendere più efficienti le ricerche, e tutto questo fa sì che la digitalizzazione sia una buona strategia se vogliamo conservare i nostri dati, le nostre memorie, per tanti anni». Nonostante questa fragilità del digitale, il rischio che anche un archivio su carta diventi inaccessibile o addirittura muoia è alto, mentre, dice Kaplan, «grazie alla digitalizzazione, quello stesso archivio può vivere,

I 150 anni di Magistrale in un click Ticino ◆ La storia della scuola in una mostra digitale

Fabio Meliciani

Quando Russel Kirsch, ingegnere del National Bureau of Standards degli Stati Uniti, realizzò la prima fotografia digitale scelse come immagine un ricordo a lui caro, il volto di suo figlio, era il 1957 e quella foto in bianco e nero, 176 pixel per lato, aprì la strada a tecnologie che avrebbero pervaso le nostre vite. Oggi, la facilità di fermare ogni istante della vita in un’immagine digitale grazie ai nostri smartphone, la disponibilità che abbiamo di enormi spazi di archiviazione, e le applicazioni basate su algoritmi di intelligenza artificiale per la ricerca e la classificazione dei nostri ricordi digitali, stanno cambiando il concetto stesso di memoria. Al tempo stesso, se penso alla fine che hanno fatto i video di quando ero bambino, conservati in nastri VHS, in parte rovinati, in parte digitalizzati e archiviati su CD ROM, supporti digitali ormai obsoleti, mi chiedo se e come potrò conservare la mole di documenti e memorie digitali che sto generando. Di fronte al continuo esaurirsi dello spazio di archiviazione dei miei dispositivi, ho cominciato a conservare le foto e i video a cui tengo di più in spazi cloud, magari a pagamento. Sul cloud finiscono anche tutti quei contenuti che generiamo per i social, memorizzati nei server di compagnie come Meta e Google, ricordi e immagini che spesso dimentichiamo finché qualche algoritmo non decide di riproporceli sulla nostra bacheca digitale. Ma se un faldone d’archivio o una pergamena possono durare centinaia di anni, un testo o un’immagine su supporto digitale rischiano di avere una vita molto più breve.

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Barbara Manzoni

Il progetto Time Machine coinvolge 600 istituzioni con lo scopo di digitalizzare e valorizzare la memoria delle città. (© Time Machine Organisation)

creando connessioni, nuove scoperte, diventando facilmente accessibile, trasformando così dati e informazioni in memoria». Un progetto che va in questa direzione e che oggi coinvolge 600 istituzioni diverse è quello diretto proprio da Frédéric Kaplan, Time Machine (www.timemachine. eu), un’avventura iniziata dieci anni fa, volta alla digitalizzazione e valorizzazione della memoria delle città: «Le città cambiano nel tempo e il nostro progetto – spiega Kaplan – è come uno slider su una mappa che mostra com’è cambiata una città rispetto a 100 o 200 anni fa, o come sarà nel futuro. Una delle sfide tecnologiche maggiori è quella di riuscire a dare l’accesso a simili informazioni a tutti, a chi ha il compito di gestire la città ma anche a chi deve prendere decisioni e, per esempio, prima di acquistare casa, vuol sapere come evolverà il quartiere dove andrà ad abitare». Ci sono archivi enormi come quello di Venezia, 80 chilometri lineari di documenti, che permettono di ricostruire le trasformazioni di ogni edificio della città e dei suoi abitanti in un arco di tempo millenario, e proprio per questo Venezia è stata la prima città del progetto Time Machine: «Dopo Venezia, il progetto si è sviluppato su scala europea, creando

decine di Local machine, cioè accessi unici per le ricerche digitali sulla memoria di una città». «Oggi – continua Kaplan – lavoriamo anche su città non europee, come Gerusalemme, i cui archivi sono ovunque, da Istanbul agli Stati Uniti. Per ricostruire la storia di simili città occorre lavorare su scala globale, questo vale per una città-mondo come Gerusalemme, ma anche per un piccolo villaggio; nei documenti di un catasto di paese possiamo trovare una quantità di connessioni e informazioni con tante altre parti del mondo». Per questo, l’invito è quello di unirsi e contribuire a simili e ambiziosi progetti di digitalizzazione come Time Machine, anche nel caso di piccole comunità locali. Tuttavia, la digitalizzazione di fonti e documenti deve essere fatta con criteri e tecnologie che ne garantiscano la durata: «Oggi, stanno emergendo nuove e interessanti modalità di conservazione: è possibile, addirittura, registrare i dati su DNA come abbiamo sperimentato per la modellizzazione di Piazza San Marco a Venezia». Ma quali sono, invece, le soluzioni migliori per conservare i ricordi dei nostri personali archivi? «L’unico modo è trasformare quei ricordi in qualcosa di vivente, fare copie digitali da tenere in luoghi

Il premio Memoriav 2023 assegnato in Ticino Il 27 ottobre si è svolta la Giornata mondiale del patrimonio audiovisivo e anche nella Svizzera italiana sono state promosse iniziative dall’Ufficio dell’analisi e del patrimonio culturale digitale (UAPCD) che gestisce l’Osservatorio culturale del Cantone Ticino (OC) e il Sistema per la valorizzazione del patrimonio culturale (SVPC). In quell’occasione, è stato assegnato il premio Memoriav 2023 (Memoriav è l’Associazione per la salvaguardia della memoria audiovisiva svizzera) proprio all’SVPC per il suo impegno pluriennale nella valo-

rizzazione della memoria audiovisiva del paese. Un riconoscimento che premia l’attenzione con cui nel Cantone in questi ultimi anni si è lavorato sul fronte della digitalizzazione, della conservazione e della valorizzazione della memoria a partire da progetti come Samara (www.samara.ti.ch), punto d’accesso alle fonti d’informazione curate da archivi, biblioteche, musei e dai principali centri di documentazione sul territorio ticinese, uno spazio digitale in cui è conservata parte della memoria di questo territorio.

diversi, aggiornare in modo regolare i formati dei nostri file, e non dimenticarli in qualche hard disk chiuso in un cassetto. Ma è anche utile continuare a stampare e condividere foto con familiari e amici: oltre a essere un modo per creare e coltivare legami, è una strategia per fare buona conservazione». Poi ci sono tutti quei ricordi che finiscono sui social, conservati nelle memorie dei server di grandi aziende. «È preoccupante non avere il pieno controllo dei ricordi che condividiamo sui social; che cosa accade, per esempio – si chiede Kaplan – quando una persona muore? Cosa resta di tutte le e-mail che sono nel cloud? Chi può accedere a queste informazioni?». Sono domande che dobbiamo porci. Consapevole del potenziale valore dei dati lasciati da chi diventa «inattivo», Apple, per esempio, permette di designare una persona che può accedere a un account dopo la morte del proprietario. «Oggi – conclude Kaplan – quando parliamo di “memoria” non dobbiamo pensare alle pietre romane o alle scritte su pergamena, ma al Teatro. La memoria è come un’opera teatrale, se non si rappresenta, se non si mostra, se non si reinventa, se non è resa viva piano piano scompare, e qui sta anche il suo paradosso». Quello della memoria è un concetto che si sta trasformando con la stessa tecnologia: «Vent’anni fa un documento era qualcosa di fisso, tangibile poi siamo passati alla memoria sul web e oggi con l’esplosione degli algoritmi d’intelligenza artificiale arriveremo a una memoria integrata sulla forma di un linguaggio, come chatGPT. Tutto ciò suscita timori: non sappiamo in cosa evolveranno questi algoritmi, sono sistemi manipolabili e complicati da gestire, ma permetteranno di creare modelli, fare sintesi delle nostre memorie, trovare connessioni fra documenti in archivi distanti, ricostruire rappresentazioni digitali di persone, luoghi e città e qui sta il futuro della memoria. Siamo solo all’inizio».

La prima sede della scuola magistrale (allora chiamata scuola normale) fu l’ex seminario di Pollegio. Era il 1873 e il Canton Ticino aveva deciso di dotarsi di una scuola sul modello dei Seminari per docenti della Svizzera tedesca e romanda, che formasse i suoi futuri insegnanti. Rigorosamente divisa in due sezioni, maschile e femminile, la scuola migrò abbastanza presto a Locarno, luogo dove tutti i ticinesi sono abituati a pensarla ormai da generazioni. Questi e molti altri avvenimenti, gli avvicendamenti dei direttori, i piccoli e i grandi cambiamenti nel percorso di formazione, la storia del pensiero pedagogico, le leggi, i programmi sempre in evoluzione ma anche le trasformazioni sociali sono al centro di una mostra digitale curata dal Dipartimento Formazione Apprendimento dell’Alta Scuola Pedagogica della SUPSI intitolata Diventare maestre e maestri da 150 anni. Nel sito i contenuti sono presentati sotto forma di una timeline, nella quale il tempo scorre letteralmente sotto gli occhi di chi vi naviga, rendendo fruibile tutti i contenuti delle molte iniziative che si sono tenute nel corso dell’anno per ricordare l’anniversario. Non da ultimo la mostra digitale valorizza anche fonti storiche degli archivi della stessa scuola. Ripercorrere i 150 anni di storia della scuola Magistrale è un po’ come ripercorrere la storia del Ticino, i suoi corridoi non hanno solo visto tutte le personalità attive nel campo dell’educazione (quelle che hanno letteralmente «fatto» la scuola del nostro Cantone) ma hanno ospitato tante altre vicende private, pubbliche, politiche e sociali che hanno plasmato la scuola e la società ticinese fino ai giorni nostri. Di questo danno conferma i podcast registrati su base volontaria di chi si è voluto raccontare. Intitolati appunto «Racconta la tua storia», i podcast ripercorrono le rievocazioni personali di chi quei corridoi li ha percorsi molti o pochi anni fa, da studente o da insegnante, curiosità, aneddoti, percorsi a volte sorprendenti che si presentano come un significativo completamento alla parte più istituzionale della mostra. Per visitare la mostra www.150magistrale.supsi.ch

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Le torbe verso una rinascita internazionale

Vallemaggia ◆ Unici in tutto il Ticino, i granai su pilastri sono tipici edifici rurali che potrebbero presto entrare a fare parte di una rete sovranazionale e candidarsi per il riconoscimento dell’UNESCO Gemma D’Urso

Testimoni rurali di un passato ormai dimenticato, i granai su pilastri della Vallemaggia, unici del genere in tutto il Ticino, potrebbero presto entrare a fare parte di una rete internazionale. Scopo finale: la loro candidatura all’UNESCO. Ne abbiamo parlato con lo storico valmaggese Flavio Zappa, membro dell’Associazione per la protezione del patrimonio artistico e architettonico di Valmaggia (APAV). Fondata nel 1975, l’APAV basata a Coglio, è responsabile, tra altre attività di promozione e difesa del territorio, anche dell’inventario di queste costruzioni, chiamate localmente torbe, e nel corso degli anni ne ha recensite ben 95 in valle.

Lo storico Flavio Zappa ha presentato le torbe valmaggesi alle Giornate internazionali dei granai su pilastri a Candas (Asturie) «Uno degli obiettivi per cui l’APAV si è impegnata a fare conoscere i granai su pilastri a livello internazionale – ci spiega Flavio Zappa – è stato quello di rilanciare l’associazione che aveva bisogno di nuovi soci e nuovi slanci. Il caso ha voluto che un’associazione spagnola basata nelle Asturie, la quale si consacra alla gestione e

alla protezione di queste costruzioni, ha scoperto l’esistenza delle torbe valmaggesi sulla pagina internet dell’APAV e ci ha quindi invitati a partecipare alle Giornate internazionali dei granai su pilastri che si sono tenute ad inizio ottobre a Candás (Asturie) e hanno radunato partecipanti di tutta l’Europa e, tramite collegamento video, persino dal Brasile, dalla Turchia e dal Medio Oriente». L’associazione spagnola Amigos del Hórreo Asturiano, costituita nel 2016, ha così recensito, nelle sole Asturie, circa 20mila costruzioni dello stesso tipo. In quella regione del nord della Spagna, i granai su pilastri vengono utilizzati anche per altri scopi, ad esempio come residenze secondarie, stupendamente riattate, oppure fienili. «Va detto – sottolinea Flavio Zappa – che queste costruzioni sono molto diverse dalle nostre torbe, pur se il principio è lo stesso». Assieme alla moglie Sandra, Flavio Zappa ha partecipato alle Giornate internazionali di Candás per presentare le torbe valmaggesi allo scopo di inserirle in una rete internazionale ossia, sottolinea, «preservare e valorizzare queste strutture rurali che, in passato, servivano principalmente a conservare cereali. L’obiettivo finale è quello di candidare queste costruzioni per il riconoscimento quale bene culturale

dell’UNESCO». Ma come mai, gli chiediamo, in Ticino i granai su pilastri ci sono soltanto nella Valmaggia? «Per essere precisi – ci risponde – si trovano quasi esclusivamente nelle valli superiori della Valmaggia ossia nella Val Rovana, nella Valle Lavizzara, in Val di Peccia, a Cimalmotto, a Sornico, a Fusio, sui Monti di Rima e ovviamente a Bosco Gurin. Il motivo è principalmente culturale perché questo tipo di costruzione è stato importato dal popolo Walser nelle sue migrazioni dal Vallese verso la Val Rovana e l’alta Lavizzara». E qual è l’origine del termine «torba» con il quale si designano comunemente i granai valmaggesi? «Intendiamoci, non ha nulla a che vedere con la torba come materia organica (ndr: che può, ad esempio, essere utilizzata come fertilizzante o combustibile) – spiega Zappa – a dir il vero l’etimologia è incerta e i linguisti hanno diverse ipotesi: alcuni pensano a un’origine prelatina, forse con contaminazione della parola latina trabs che significa trave. Infatti queste costruzioni, constano di due blocchi sovrapposti, ossia uno zoccolo inferiore in muratura e un secondo comparto di legno che fungeva da ripostiglio dove conservare i cereali con una cella costituita da travi incrociate, da cui forse il nome di torba. Questa “camera di

Le torbe censite dall’APAV sono un centinaio, solo la metà è conservata allo stato originale. (apav.ch)

conservazione” è staccata dallo zoccolo inferiore da pilastrini chiamati funghi sui quali è appoggiata una grossa lastra di pietra, a sostegno del tutto. Questo stacco aveva per scopo una buona aerazione della cella e doveva impedire l’accesso ai roditori». Stando alla ricerca dell’APAV, i granai su pilastri conservati in Vallemaggia sono stati edificati tra il 1400 e il 1800. Oggi che non servono più a conservare i cereali, che cosa sono diventate queste strutture? «Del cen-

tinaio circa censito dall’APAV – spiega ancora Flavio Zappa – soltanto la metà è stata conservata allo stato originale: negli anni 60 e 70 del secolo scorso, prima della regolamentazione sull’utilizzo dei rustici, alcuni erano stati trasformati in residenze secondarie. Ora sarà importante che le strutture integre della valle possano essere inserite nella rete internazionale capeggiata dall’associazione asturiana alla quale abbiamo sottoposto la nostra documentazione dopo che l’APAV ha deciso di aderire al progetto». Il convegno di Candás è stato un successo: «Mia moglie e io eravamo gli unici rappresentanti provenienti dalla Svizzera anche se strutture analoghe esistono ugualmente in Vallese e nei Grigioni e la mia relazione, che ho illustrato con l’ausilio del modellino in scala di una torba valmaggese, è stata molto apprezzata. L’idea della rete internazionale alla quale vogliamo aderire è quella di presentare una candidatura all’UNESCO unica dei granai su pilastri di tutti i Paesi membri», conclude lo storico valmaggese. Ora l’APAV aspetta la risposta ufficiale alla sua domanda di adesione da parte dell’Associazione Amigos del Hórreo, «ma è una semplice formalità», precisa Flavio Zappa. Nell’attesa del prossimo congresso annuale che si terrà nel 2024 in Galizia. Annuncio pubblicitario

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La salute mentale senza filtri

Giovani ◆ Un video-podcast creato da ragazzi tra i 16 e i 22 anni in cui si raccontano liberamente su temi legati al disagio e alla sofferenza psichica: è il progetto La salute vien parlando voluto dal Servizio di promozione e valutazione sanitaria del DSS

Metti cinque o sei ragazzi attorno a qualche microfono, dagli un tema, lasciagli tutta la libertà, chiedigli mezz’ora, filma e registra, modalità REC ON e… nasce La salute vien parlando, il primo video-podcast dedicato alla promozione della salute mentale creato per e con i giovani, senza filtri, senza interventi, senza imposizioni dall’alto. Che cosa si dice? Si raccontano le proprie esperienze, si svelano trucchi segreti, si lanciano appelli verso chi fatica ad ascoltare, si discute, ci si rispetta, si dice cosa veramente è importante per sé stessi. 5 puntate attorno al benessere, lo stress, le relazioni, le emozioni e l’autostima, nelle quali attraverso i loro racconti in stile libero ragazze e ragazzi si presentano, ci raccontano della difficoltà ma anche della meraviglia di essere giovani esseri in un mondo in subbuglio. L’idea non è campata in aria, si tratta di un progetto volto a favorire la riflessione attorno alla salute mentale e alle risorse che ognuno può attivare per prendersi cura di sé, visto l’impatto che pandemia e incertezza hanno avuto e continuano ad avere sulla popolazione più giovane. Un gruppo di lavoro ha ideato e accompagnato il progetto, composto dall’Ufficio del medico cantonale, l’Ufficio del sostegno a enti e attività per le famiglie e i giovani, l’Organizzazione sociopsichiatrica cantonale, il Forum per la promozione della salute nella scuola, il Dipartimento dell’educazione, della cultura e dello sport, il Centro competenze psicologia applicata (SUPSI), la Pro Juventute Svizzera italiana e Consulenza + aiuto 147, con il sostegno di Promozione Salute Svizzera. «Dopo la pandemia si è osservato tendenzialmente un aumento della sofferenza e del disagio giovanile» – ci racconta Manuela Vanolli, collaboratrice scientifica nel Servizio di promozione e valutazione sa-

nitaria dell’Ufficio del medico cantonale. È lei che presenta il progetto. «Per esempio, in un rapporto presentato dal 147 di Pro Juventute emerge che le consulenze sono aumentate e i temi si sono fatti più importanti e complessi. La pandemia ha aiutato ad aumentare ulteriormente l’attenzione verso la salute mentale e questo ha facilitato la richiesta di aiuto. Quando la tematica è aperta, se ne parla più liberamente. Ma quale sia di preciso l’origine dell’evoluzione non è ancora chiaro». L’importanza data alla salute mentale negli ultimi anni ha quindi dato i suoi frutti, abbassando forse la soglia per la richiesta di aiuto. Certo, il lavoro da fare è ancora lungo, «lo stigma, i tabù, ci sono ancora. Si aspetta ancora troppo per prendersi cura di sé, sotto questo aspetto». Ecco quindi l’importanza di un progetto di sensibilizzazione come questo. Dal gruppo di lavoro interprofessionale sono nate le riflessioni, ma più di tutto sembrano aver fatto gli incontri preliminari con alcuni ragazzi: «Abbiamo incontrato parallelamente dei gruppi, una sorta di focus group per indagare abitudini, preferenze e interesse verso il tema. Conoscerli e parlare con loro ci ha portato a capire quale fosse il canale migliore per raggiungerne molti: il podcast». Strumento oggi utilizzato volentieri da più fasce d’età, il podcast ha un grande potenziale, che permette di arrivare facilmente alle orecchie di tutti senza bisogno di filtri. «Volevamo anche promuovere una forma di ascolto diretto dei giovani e per questo il podcast non è moderato né interpretato dagli adulti». La salute vien parlando è poi anche il video delle registrazioni, diffuso attraverso il canale YouTube e in versione audio. Un gruppo composto quindi da soli giovani dai 16 ai 22 anni, mediato da due moderatori più o meno coetanei, Veronica insieme a

YouTube

Valentina Grignoli

George o Lorenzo, con una qualche infarinatura in più rispetto al mezzo e qualche suggerimento. I temi vengono proposti dagli adulti ma poi lo sviluppo, il taglio del prodotto, è stata opera dei ragazzi. «All’interno di ogni puntata poi, in aggiunta alle discussioni, c’è un ulteriore stimolo: per esempio delle interviste o dei sondaggi realizzati dalla redazione di Spam della RSI». Ma chi partecipa al podcast, chi ascoltiamo, e perché è stato scelto come «portavoce» del coro? «C’è sicu-

ramente un’autoselezione naturale, conoscendo la tematica, non tutti ne vogliono parlare. Non abbiamo fatto provini – spiega Manuela Vanolli –, abbiamo dato a chiunque l’occasione di proporsi. Per la puntata pilota abbiamo smosso le nostre reti e diffuso in maniera più controllata la ricerca. La maggior parte dei partecipanti è poi rimasta anche per le altre puntate, perché hanno apprezzato il potersi esprimere liberamente, l’essere valorizzati nel dare la propria opinione, diffusa dal Cantone».

L’esperienza di Arianna Perché hai deciso di partecipare al podcast? Come l’hai saputo? L’ho saputo dai contatti risalenti alla partecipazione della radio studentesca liceo 1. Ho deciso di partecipare perché desideravo mettermi in gioco, scoprire una nuova modalità di comunicare e soprattutto perché speravo, magari, di aiutare qualcuno. Inoltre si parla di salute mentale ed è un tema che mi è particolarmente

caro, e che necessita di essere affrontato senza imbarazzo e tabù. Come ti sei sentita? Gradualmente sempre più a mio agio, sia davanti alle telecamere, sia con i miei compagni che non conoscevo. Si è subito creata una bella atmosfera, un bel legame tra noi. Ci siamo ascoltati con rispetto. E ne sono nati spunti interessanti.

Un prodotto per i giovani fatto interamente da loro può andare forse incontro a qualche difficoltà tecnica, narrativa, di contenuto, rispetto al prodotto finale. Per Vanolli però è stato giusto così: «Non volevamo trasmettere aspetti teorici rispetto alla salute mentale, non abbiamo tematizzato disagi, non sarebbe stato questo il modo corretto e non era lo scopo. L’obiettivo era proprio quello di dare la parola ai ragazzi e fare sì che li si ascoltasse. Poter parlare di strategie e risorse personali. Alla fine hanno condiviso riflessioni ed esperienze senza rappresentare nessuno tranne sé stessi. Hanno avuto il coraggio di condividere i propri pensieri, e questa spontaneità mi ha colpita molto. Avevano la serenità di potersi esprimere senza paura del giudizio esterno. Il mio auspicio è che questo possa incoraggiare altri ragazzi ad aprirsi, per prendersi cura di sé». Un prodotto disponibile su Spotify e YouTube, condiviso attraverso vari canali social dai ragazzi, e pubblicizzato anche da un poster colorato a opera di una giovane illustratrice, Elisa, che ha raccontato le discussioni durante le registrazioni attraverso i suoi disegni. L’informazione è stata diffusa anche in scuole e enti a contatto con i giovani. E per ora circola molto bene, stando agli ascolti. Voci interessanti da ascoltare anche per il pubblico adulto: «Questi giovani hanno una consapevolezza notevole, a mio avviso più di quanta ne avesse la nostra generazione alla loro età. Val la pena ascoltare quello che hanno da dire, io stessa ne sono rimasta colpita». Cinque episodi, un audio, un video, e ora? «Ora con il gruppo valuteremo e discuteremo come sviluppare ulteriormente il progetto. Sicuramente c’è la volontà di fare qualcosa per e con i giovani anche in futuro. Personalmente sono molto felice di averli incontrati».

Dall’uomo creatore all’uomo distruttore

Parole verdi – 9 ◆ Con questo articolo continua la serie dedicata al nostro rapporto con l’ecologia e la crisi climatica Francesca Rigotti

Ci si può a questo punto chiedere se da sempre l’uomo possegga la faccia «distruttrice» che lo porta a devastare l’ambiente o se questa tendenza si verifichi soltanto a certe condizioni, o se l’abbia acquistata a partire da un determinato periodo. È così. La distruzione è recente. Nel passato il rapporto dell’uomo con l’ambiente era diverso, non di distruzione bensì di adattamento – non però di sottomissione – e da ciò si possono trarre insegnamenti positivi per affrontare in maniera corretta il rapporto con l’ambiente. Non è detto infatti che debba sempre vincere l’arrogante posizione dell’Occidente, rinforzata dal messaggio biblico, per la quale l’uomo dotato di lògos, di ragione, si differenzia dalla natura e può dominarla e sfruttarla ai propri, fini. Meglio una posizione che assegni all’uomo alcuni gradi di libertà nel controllo della natura, non una libertà di azione assoluta. Come potremmo dunque esercitarli per affrontare i problemi ambientali che richiedono un profondo cambiamento

delle attuali strutture economiche, sociali, spaziali? Forse non immaginando il ritorno a un ipotetico stato di natura à la Rousseau, e nemmeno all’antichità o al Medio Evo, quanto agli anni ’50 e ’60 del Novecento, a noi non tanto lontani e che hanno la-

sciato abbondanti tracce. Certo, non aiuta il fatto che il mondo sia modellato da consumo individuale, concorrenza economica, lotte tra stati per il potere. Di fronte a essi un appello ragionevole ai comuni interessi ambientali sarebbe troppo debole. Una

Unsplash

Come siamo arrivati alla situazione attuale, in cui l’homo faber, l’uomo creatore ed edificatore, è diventato homo destructor, devastatore e distruttore dell’ambiente? E com’è che altre società sono state in grado di modificare la natura senza distruggerla, e la nostra invece non ne è capace? Cerchiamo di rispondere a queste domande con l’aiuto di un recente saggio in lingua tedesca di Werner Bätzing (Homo destructor. Eine Mensch-Umwelt-Geschichte, München, Beck, 2023, pp. 464). I problemi arrecati dagli esseri umani al pianeta terra: inquinamento del suolo, delle acque, dell’aria, riscaldamento climatico, distruzione delle specie ecc. causano una minaccia gravissima eppure non è così facile smetterla con la distruzione dell’ambiente. Né hanno molto da dire le opzioni estreme: la soluzione tecnocratica, secondo la quale i problemi causati dalla tecnica saranno risolti con sempre più tecnica, e la soluzione romantica che mira a recuperare una primeva armonia tra uomo e natura.

rivoluzione allora, un atto improvviso e violento, una ecodittatura per dissipare la ecoansia? Anche questa improbabile, dato l’intreccio tra politica ed economia e il prevalere di denaro e potere su concordia e ragionevolezza. Nel caso però di crolli ecologici parziali, limitati, che investissero solo una parte del mondo umano e indebolissero i pilastri su cui esso si regge, denaro, mercato, potere, globalizzazione, si potrebbero forse aprire gradi di libertà per nuove forme di sviluppo. Qui l’uomo userebbe la natura senza distruggerla, autolimitandosi, rinunciando (Rinuncia era la parola verde di settembre, ed era una rinuncia positiva e arricchente) e rifacendosi a quel mondo degli anni 50/60 ancora a noi vicino. Una posizione conservatrice, reazionaria, che sottrarrebbe all’uomo l’unico principio che può e deve dirigerlo, ovvero la propria autonomia nel realizzare innovazioni e cambiamenti? Ma se sono proprio quelli, che portano inesorabilmente alla distruzione?


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SOCIETÀ

Mappe e disegni che raccontano una valle

Pubblicazioni ◆ Nel suo ultimo libro Stefano Bolla ripercorre la storia e le trasformazioni della Valle di Blenio attraverso documenti cartografici più antichi della carta Dufour Pietro Montorfani

Chi conosce i suoi scritti precedenti, dal lontano affondo sulla Rivoluzione immaginata del 1993, dedicato ai fatti ticinesi del 1839-1841 «ritratti dal vero», al più recente Avvocato con gli stivali (L’immagine popolare dell’avvocato e la fiaba di Charles Perrault), pubblicato da Casagrande nel 2008, sa quale grado di rigore ci si debba attendere dai saggi di Stefano Bolla. La cosa sorprendente, e tutto sommato abbastanza rara, è che a quel rigore si unisce ogni volta un alto tasso di piacevolezza di scrittura, che facilmente si converte poi in piacevolezza di lettura.

sguardi? Sono così diversi? A quanto pare, quella di esaminare le carte antiche in funzione dell’uso a cui erano destinate sarebbe una mia invenzione. Di certo, lo studio delle carte storiche a fine Ottocento e a volte ancora attualmente si limita spesso a stabilire in che misura il disegno corrisponde alla realtà geografica. A mio avviso questo è un modo miope e superficiale di esaminare le carte del passato. Oltretutto è un approccio insensato in quanto anacronistico. Una carta del Seicento che deve indicare la via della transumanza da seguire per andare da Castro all’alpe di Soreda non sarà mai uguale alla carta Dufour. Ma dovrà essere leggibile dai pastori del Seicento e indicare se sul percorso ci sono pascoli altrui, fontane, ponti e corsi d’acqua, rilievi e così via. Lo sguardo funzionale serve a capire le regole in vigore in quel secolo. Che la tecnologia cartografica di oggi non fosse ancora applicata allora è una banalità senza senso.

Stefano Bolla, avvocato con la passione della cartografia storica, si definisce un semplice curioso, eppure nel suo libro riesce a fondere l’amore per una terra e la conoscenza rigorosa della sua storia Intenzionale o meno che sia, questa sua attitudine al colloquio colto, diretto e comprensibile, si potrebbe forse chiamare una grande capacità di divulgazione (la stessa di un Barbero, di un Mieli, di un Cardini), se il termine non fosse un po’ abusato. Ma sappiamo bene quale bisogno ci sia oggi – in un’epoca di sempre più frequenti amnesie collettive, e di un costante schiacciamento del discorso pubblico sulle necessità del presente – di una Storia raccontata bene, che colpisca al cuore dei problemi e assieme, proprio per quello, al cuore dei lettori cui si rivolge. In poche decine di pagine strutturate in modo accattivante e, assieme, scientificamente solido, anche in questa sua ultima pubblicazione l’avvocato con la passione per la cartografia storica ci porta di nuovo a spasso per i secoli, su e giù per i rilievi della topografia alpina, in un territorio ristretto e contenuto come la Valle di Blenio, a cui l’autore guarda con passione e competenza, come avviene per chi sappia fondere in un unico gesto l’amore per una terra e la conoscenza rigorosa della sua natura e della sua cultura. Avvocato Bolla, la sua pubblicazione sembra essere, prima di tutto, una dichiarazione d’amore per la terra da cui proviene la sua famiglia. Quale è oggi il suo rapporto con la Valle di Blenio, lei che in fondo sembrerebbe luganese a tutti gli effetti? Sono nato a Lugano o, meglio, a Sorengo. Ma a pochi giorni dalla nascita ero a Campo Blenio. Da allora, ogni anno il tempo delle vacanze prevede soggiorni in valle. Il testo attuale sulla cartografia alpina dedicato alla valle di Blenio non è che l’ultimo di una lunga serie di scritti nati dall’interesse per vicende e personaggi bleniesi. A esser sincero, non mi sento luganese. A Lugano, dopo la formazione, dopo il ritorno dall’università, ho vissuto con un certo distacco una città che mi sembrava tutta presa da una frenesia ingorda volta a favorire il dominio urbano da parte del terziario, a costo di sbudellare impietosamente il vecchio ventre della città e di estromettere gli abitanti dal centro.

Per questa ricerca ha dovuto rimettere mano a studi che l’avevano occupata già in passato, all’epoca della stesura della Storia della Svizzera italiana diretta da Raffaello Ceschi. La cartografia è una chiave d’accesso preziosa al nostro passato? A prima vista sembrereb-

be un ambito un po’ di nicchia… In realtà, la ricerca su vedute e carte della valle era iniziata già prima del mio contributo sulla cartografia dei baliaggi italiani degli svizzeri. Non ricordo più l’anno, ma è un dato di fatto che, all’inizio degli anni Novanta, avevo organizzato una mo-

stra su quel tema al museo di Olivone quand’ero a capo della Fondazione Jacob-Piazza. Erano i tempi in cui la stessa fondazione aveva ottenuto il piccolo edificio scolastico, risalente al Settecento e posto vicino alla chiesa, e l’aveva riattato per riordinare e mettere al sicuro e a disposizione del pubblico la biblioteca dell’abate Vincenzo Dalberti. Mi colpisce laddove sottolinea, parlando della descrizione grafica di un territorio, che si tratta sempre di convenzioni, anche quando una piantina sembra molto dettagliata e molto «verosimile». Supereremo mai questi limiti? E soprattutto, si tratta veramente di limiti? ll disegno cartografico, indipendentemente dalla precisione, per parlare abbisogna sempre di segni convenzionali e di indicazioni scritte. Il ricorso alle convenzioni, ossia a un sistema convenzionale fatto di segni simbolici, di cartigli, didascalie, legende, indicazioni topografiche, ecc. è un tratto peculiare alla cartografia che, tra l’altro serve a distinguere la cartografia dal genere pittorico delle vedute del paesaggio. Il sistema grafico delle convenzioni non è quindi in relazione con i limiti di fedeltà della carta alla realtà. L’utilizzazione di una carta geografica, quand’anche molto precisa, richiede sempre delle informazioni che il disegno cartografico da solo non è in grado di fornire. Ad esempio, se lei deve andare a Lottigna, una carta bleniese senza toponimi non le servirà a niente.

Pieve delle Tre valli svizzere (1567-1570, Archivio storico diocesi di Milano); in alto, Disegno de’ Monti, Fiumi, Riali Alpi e Vesendari, cominciando dalle Cassine di Segno infino al Reno, 1827 dedicato alli SS.ri Cons.re don V.o Dalberti d’Olivone e Capel.no Beretta di Leontica Giudici arbitri nelle questioni insorte fra li tre Comuni (Archivio del Patriziato generale di Olivone, in prestito al Museo Ca’ da Rivöi).

Nell’affrontare il tema della descrizione della valle nei secoli, lo articola da quattro punti di vista diversi: la cartografia del potere, quella della giustizia, quella dei Lumi (con la descrizione sempre più precisa dell’orografia delle Alpi) e infine la piccola presenza di Blenio in grandi mappe svizzere o italiane. Che cosa ha imparato da questi quattro

Un’obiezione che si muove a chi fa storia locale è l’angustia del territorio considerato. Padre Giovanni Pozzi non si poneva la questione e provocatoriamente si chiedeva: «Perché cercare sempre lontano quando basterebbe scavare vicino?». Per lei come funziona? Le manca mai l’aria? In un sogno ricorrente un personaggio molto vecchio mi incita a scrivere la storia naturale del Sosto, il rilievo naturale che dà l’impronta caratteristica all’orizzonte di Campo e di Olivone. Una storia locale? Certo! Una storia locale che, per forza di cose, dovrebbe fare i conti con i tempi biblici e gli spazi geologici della creazione e dell’evoluzione. E questo sogno mi aiuta a convincermi che la storia locale potrebbe prendere anche forma di narrazione, in prosa o in versi, comunque libera dalla claustrofobia di uno spazio esiguo. Un villaggio o una valle alpina non sono altro che frammenti del nostro pianeta. Perché mai, attraverso la storia, non sarebbe dato loro di dialogare con tutte le altre realtà della Terra? La validità di una ricerca storica non dipende dall’estensione del territorio oggetto della ricerca, bensì dalla sensatezza dei quesiti e dalla presenza di fonti e di metodi capaci di fornire risposte pertinenti. Nell’orto di casa non mi è mai mancata l’aria. Lei non è soltanto uno studioso ma anche un collezionista. Nella mia attività professionale ho incontrato sovente proprietari di carte e libri preziosi con il cruccio della destinazione finale dei loro patrimoni documentali. Spesso infatti le nuove generazioni non sono molto interessate. Nel suo caso ha già un piano per il futuro? Devo correggerla: non sono né studioso né collezionista. Sono semplicemente curioso. E i libri sono buoni nel soddisfare le mie curiosità. Né ho accumulati molti in casa. La mia volontà è di destinarli al comune di Acquarossa, a patto che trovi il posto idoneo a conservali come si deve e a metterli a disposizione dei bleniesi curiosi. Bibliografia Stefano Bolla, Cartografia di una valle alpina. La valle di Blenio (1500-1865), Edizioni Casagrande, Bellinzona 2023.


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TEMPO LIBERO ●

Nell’eterno regno dei ghiacci A poca distanza da Salisburgo, in Austria, un percorso straordinario alla scoperta di un suggestivo mondo nascosto fatto unicamente di ghiaccio

Un calendario per aspettare il Natale Natale è tempo di luce e di sorprese, perché allora non dedicarsi al bricolage per realizzare insieme un originale calendario dell’avvento a forma di slitta?

Pagine 18-19

Pagina 21 ◆

Roberto Pellegrini, fotografo d’arte

Primi piani ◆ A colloquio con un professionista che ha deciso di catturare e interpretare la realtà per mestiere Stefano Spinelli

Oggi intervistiamo Roberto Pellegrini, fotografo di lungo corso, cresciuto e per molto tempo attivo nel locarnese, ma ormai da qualche anno trasferitosi a Bellinzona. Pellegrini ha un lungo e ricco curriculum, fatto di svariate esperienze professionali e artistiche: non poche sono le esposizioni e le pubblicazioni al suo attivo. Comincia a fotografare già da bambino, affascinato dal poter catturare delle immagini a partire dalla realtà. «La mia fortuna è che ho sempre saputo cosa volevo fare nella vita. L’alternativa era il disegnatore di fumetti o il disegnatore d’automobili. Però la fotografia è stata vincente». All’età di sedici anni intraprende un apprendistato come fotografo.

Pellegrini, grande amante dell’arte in tutte le sue sfaccettature, prima di fotografare si dedica a un’attenta osservazione Grazie all’attività e ai contatti di suo padre – operatore nel campo dell’arte – comincia a frequentare con regolarità il mondo delle gallerie milanesi. Da qui nasce anche il fatto di fotografare opere d’arte, che alla fine è quello che fa oggi principalmente. Incontra, sempre in quel periodo, Rinaldo Bianda, fondatore del VideoArt Festival e importante animatore della scena artistica locarnese. Scena che, insieme a quella milanese, frequenta con assiduità e grande interesse. Dal 1981, per quattro anni, assume il ruolo di fotografo ufficiale del Festival. Sarà questa, per lui, l’occasione di realizzare un grande numero d’intensi ritratti dei vari attori, registi, produttori. Di applicarsi, dunque, anche alla fotografia della figura umana. «Qui si fonde anche l’altra mia passione, che è quella di fotografare le persone. A fine apprendistato ero convinto di fare il fotografo di moda e sono stato a Milano, allora, da mia cugina Laura Azzurra, stilista di moda, che pubblicava pure su “Vogue”». Però, per Pellegrini, il mondo della moda è stato deludente. «Era un ambiente che non mi piaceva tantissimo, non mi attirava più di quel tanto per il tipo di persone, per i loro atteggiamenti stressati. E poi, soprattutto, era fatto di fotografi poco rispettosi verso le modelle, le ragazze». Il focus resta puntato sul mondo dell’arte, degli artisti, delle gallerie. «Milano, a quell’epoca, era davvero esplosiva, interessante. In quegli anni c’erano i galleristi, quelli veri, quelli che facevano gli interessi degli artisti. Ho decisamente frequentato di più l’ambiente artistico, di gallerie e di artisti, che era molto più sano e divertente di quello della moda. E quindi la mia strada è andata da quella parte».

È il 1983 quando apre il suo studio e diventa indipendente. Muovendosi sempre tra Milano e Locarno, conoscendo artisti, galleristi, collezionisti, Pellegrini comincia a costruirsi una clientela nel settore della fotografia di opere d’arte. E comincia pure a lavorare per l’industria, ricevendo anche mandati importanti, che gli permetteranno di acquisire l’attrezzatura necessaria per i settori in cui si sta inserendo: «Allora, se non avevi uno specifico tipo di apparecchiatura fotografica, non potevi fare quelle fotografie che richiedevano un’elevata qualità. E senza il mandato da parte di ditte di dimensioni importanti qui in Ticino, era all’inizio difficile avere un’autonomia finanziaria e comprare l’attrezzatura da studio. Non è stato facile. Oggi, con una macchina fotografica fai praticamente «tutto». Allora non era così. Mi riferisco a macchine di medio formato, Sinar. Se non avevi una Sinar non lavoravi per l’industria. E in particolar modo, anche per fotografare opere d’arte, il grande formato era importante». La formazione continua, allora, non era volta a un aggiornamento relativo ai cambiamenti tecnologici, come può essere il caso oggi. «Ritornando alla formazione, ripensandoci, è stato un continuo progredire. Perché allora non c’era la rivoluzione tecnica che abbiamo oggi, ma c’era l’esigenza di progredire, come fotografo, ampliando le proprie conoscenze per poter usare un certo tipo di apparecchi ed entrare in un certo tipo di mercato. Perché allora era determinante il formato, il tipo di pellicola o il tipo di macchina che usavi per poter garantire la qualità necessaria richiesta per determinati settori, come potevano esserlo, appunto, la riproduzione d’arte o la fotografia industriale o la fotografia d’architettura». Tra il 1986 e il 2011 Pellegrini lavora, per un buon 50%, in qualità di indipendente con quello che diverrà il Centro di dialettologia e di etnografia e, nel contempo, con l’Ufficio dei beni culturali del Cantone, (con il quale collabora tuttora). In questi due ambiti si trova a dover fotografare una larga varietà di soggetti – oggetti d’artigianato, d’arte, d’archeologia, edifici e monumenti storici – continuando però in parallelo a lavorare per galleristi, collezionisti e artisti. Che siano opere d’arte, oppure architetture, oggetti o persone, per Pellegrini è fondamentale dapprima osservare attentamente quel che andrà a fotografare. L’esserne coinvolto. Averne passione. Per la fotografia d’arte, ci dice, oltre a un sapere tecnico solido, è anche di grande importanza avere un buon bagaglio culturale, una conoscenza e un amore per l’arte stessa che permetta di «leggere» gli oggetti e poi tradurli con un’im-

Jean Arp, Colonne aux élements interchangeables, Basilea. Immagine tratta dalla pubblicazione «Public Arp», Fondazione Marguerite Arp 2020. (Fotografia Roberto Pellegrini)

magine il più possibile fedele, e che ne possa svelare, quando è il caso, anche aspetti celati. E in questo senso, afferma Pellegrini, per questo specifico settore della fotografia d’arte non ci si può improvvisare fotografi, ma risulta ineludibile la figura del professionista. Per questo motivo – passando a un ragionamento d’ordine tecnologico – Pellegrini non percepisce l’Intelligenza Artificiale come una minaccia per il fotografo d’arte. Non si tratta, infatti, in questo settore di creare delle immagini a partire da input artificiali, ma di rilevare con esattezza la realtà per quello che è. Semmai l’IA può rappresentare un pericolo nella sfera dell’informazione, nella formazione delle coscienze. Ma questo della pos-

sibile manipolazione delle masse, è un fatto sempre esistito. L’IA non è altro che uno strumento e sta all’intelligenza dell’uomo riuscire a farne un buon uso e a evitare di diventarne vittima. Per riassumere il proprio sentire nei confronti della tecnologia e del suo evolvere, Roberto ci cita un’aforisma di Filippo Tommaso Marinetti: «Abbiate fiducia nel progresso che ha sempre ragione anche quando ha torto perché è movimento, vita, lotta, speranza». Una fiducia che manifesta, più in generale, nei confronti della tecnologia digitale: «A me il digitale ha sempre affascinato, anzi, la tecnologia mi affascina in ogni caso. E quindi quan-

do ho visto che la qualità del digitale superava la qualità della pellicola, ho abbandonato la pellicola. Ma poi è stata una cosa ovvia, perché oggi è impensabile lavorare commercialmente con la pellicola. In campo artistico però è un altro discorso. «Pellicola e digitale, due mezzi simili, ma tra di loro ben distinti». Benché per certi versi il digitale abbia facilitato la vita del fotografo, la fotografia continua a richiedere una grande padronanza dei numerosi aspetti implicati nella realizzazione di un’immagine. Padronanza che, come ci ribadisce il nostro interlocutore a conclusione dell’incontro, solo i professionisti del settore possono assicurare.


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A Werfen, nel regno segreto dei

Itinerari ◆ L’Eisriesenwelt, il regno ghiacciato che si trova a una cinquantina di chilometri da Salisburgo ed è la più grande grotta di qu Romano Venziani; testo e foto

C’è una donna, piccolina, con un buffo copricapo e una tazza in mano. Si guarda attorno e gira qua e là sull’ampia terrazza affollata di una moltitudine cosmopolita di gente in attesa. Evidentemente sta cercando un tavolo, qualche sedia, un angolino dove sistemarsi per sgranocchiare un panino, bere il suo caffè o anche semplicemente mettersi al sole ad aspettare. Per finire desiste e va a sedersi sui gradini dell’entrata, imitata dai quattro figli. Le faccio un cenno con la mano, come a dire: se vuole può accomodarsi al nostro tavolo, un po’ di posto c’è.

La grotta in cui si trova la Eisriesenwelt rappresenta un universo parallelo, unico e fantastico, dove la realtà supera la fantasia Non capisce e si volta per vedere se mi rivolgo proprio a lei, così mi alzo e vado a spiegarglielo di persona. Ringrazia e mi segue. Veniamo da Linz, dice, nell’alta Austria, e prende a frugare nello zainetto. Il figlio maggiore, un simpatico ragazzo sulla ventina, è più loquace e racconta che l’estate scorsa sono stati una settimana in vacanza in Carinzia. Quest’anno invece sono venuti qui. Lui studia e, dopo il servizio militare, vuole iscriversi al politecnico di Zurigo. Intanto il fratello più piccolo e le sorelline se ne stanno lì in silenzio a sorseggiare una

bibita. Qual è il suo slot? mi fa il maggiore, nel senso, per quale fascia oraria ha prenotato? Due e mezza tre, rispondo. Anche noi, però il cancello si apre già alle due e un quarto, mi informa. Buono a sapersi. L’Eisriesenwelt, la più grande grotta di ghiaccio del mondo, non si concede senza regole e per entrarci devi scegliere prima di tutto il giorno e uno slot orario. Se non vuoi riservare il biglietto online, puoi anche presentarti qui, al Besucherzentrum, sperando che Dio te la mandi buona. Potresti aspettare ore o non vederlo del tutto, il mondo dei giganti di ghiaccio. Oltre duecentomila visita-

tori concentrati nei sei mesi d’apertura annuale non offrono molto spazio di manovra. A sud di Salisburgo, il Salzach, affluente dell’Inn, che deve il nome al sale trasportato sulle sue acque fino a inizio milleottocento, ha inciso un profondo solco nelle montagne calcaree, separando le Alpi di Berchtesgaden, a occidente, dal massiccio del Tennengebirge, a oriente. E lì, dove la vallata inizia a distendersi in un paesaggio più dolce, c’è il bel paese di Werfen, sovrastato dall’imponente castello di Hohenwerfen, quello di Dove osano le aquile, e dalle scoscese pareti dell’Hochkogel. Il castello di Hohenwerfen, dove osano le aquile. (Romano Venziani)

L’entrata della grotta è proprio lassù, da qualche parte su quel bastione roccioso, a oltre milleseicento metri d’altitudine, indistinguibile dal basso nonostante la sua ampiezza. Fino alla metà degli anni Cinquanta del Novecento, si doveva salire a piedi all’Eisriesenwelt e ti toccava una bella sgambata di parecchie ore. Adesso una comoda strada di montagna ti porta senza fatica fino al Besucherzentrum. Si è fatta l’ora. L’occhio elettronico scruta curioso il mio codice a barre, si accende di verde e mi dà il via libera, il cancello si apre. Dal centro di accoglienza, un tranquillo viot-

tolo risale il pendio, ricoperto di un arioso bosco di conifere, le cui trasparenze regalano ritagli di paesaggi lontani. Una ventina di minuti e raggiungiamo la Wimmerhütte, uno spartano punto di ristoro, che dà accesso alla stazione di partenza della funivia, una delle più ripide dell’Austria. E qui puoi scegliere. Continuare a piedi sul sentiero che s’inerpica sulla montagna, piuttosto scosceso e un tantino esposto, ma in buone condizioni di sicurezza, oppure affidarti alla fune dell’ardito marchingegno che, dal 1955, in una manciata di minuti ti strappa letteralmente su di cinquecento metri fino alla sua staL’entrata della grotta vista dal sentiero. (Romano Venziani)


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TEMPO LIBERO

giganti di ghiaccio

uesto tipo al mondo, offre sensazioni e un’esperienza straordinarie

Da anticamera degli inferi ad attrazione turistica. (Romano Venziani)

zione superiore dell’Achselkopf, facendoti risparmiare un’ora e mezza di cammino. Da lì si sale per un’altra ventina di minuti, immersi in un paesaggio ormai spogliato della vegetazione arborea. Solo pochi cespugli e macchie d’erba s’avventurano sull’impressionante pendio roccioso, cosparso di colate di pietre cadute dall’alto, tanto che l’ultimo tratto del Beisszangensteig, il «sentiero delle Tenaglie», è stato coperto per mettere al riparo i visitatori. Più su, a 1’641 metri di quota, s’intravvede un’imponente cavità, una bocca spalancata sulla valle, l’entrata dell’Eisriesenwelt. Da qui, lo sguardo abbraccia un panorama straordinario, la vallata del Salzach è un esteso lago di verde, su cui affiora, come un rettile primordiale, il corso sinuoso del fiume color argilla, che scorre in un mosaico di prati e paesi. Tutt’attorno le montagne, con le vette degli Alti Tauri che si ergono in lontananza.

Stormi neri di gracchi alpini s’innalzano con un lento volo a spirale, abbandonati alle correnti. Con un’improvvisa virata si buttano giù veloci nell’aria tersa, sfiorando le rocce, per poi riprendere a salire senza sforzo con il loro gracchiare monotono, che fa da colonna sonora all’ultimo tratto del percorso. All’entrata della grotta, uno spettacolare imbuto di venti metri di larghezza e diciotto di altezza, che si apre nel mezzo della parete rocciosa, vengono formati due gruppi (la visita dura più di un’ora e si fa esclusivamente con guide esperte), uno per chi parla il tedesco e l’altro per l’inglese. All’interno dell’Eisriesenwelt sono bandite le foto; chiedo comunque a Max, il ragazzone che ci ha presi in consegna, se mi concede qualche scatto, per un articolo, gli dico. Basta che non si fermi mentre ci spostiamo, risponde, per non intralciare gli altri visitatori. Aggiunge alcune informazioni e raccomandazioni all’inten-

Itinerario Partenza Werfen (548 mslm) Werfen si trova a 45 chilometri a sud di Salisburgo. Dal villaggio si può salire al Centro visitatori dell’Eisriesenwelt in macchina (ca. 5 km), oppure lasciare la vettura nel grande parcheggio (gratuito) oltre il ponte sul Salzach e far capo al bus navetta (gratuito per chi ha prenotato l’ingresso alla grotta online). Soluzione questa consigliata, in special modo nei mesi di luglio e agosto, perché i posti auto al Besucherzentrum sono limitati. Dal Centro visitatori (1000 mslm) si prosegue a piedi e in una ventina di minuti si arriva alla partenza della funivia (1080 mslm). Chi vuole e gode di una buona condizione fisica può continuare sul sentiero che sale il ripido pendio (ca 500 m di dislivello e 1h 30 di cammino) fino alla stazione superiore della funivia all’Achselkopf (1575 mslm). Da questo punto con un’altra ventina di minuti di marcia si arriva all’entrata della grotta (1641 mslm). La visita all’Eisriesenwelt si fa esclusivamente con le guide autorizzate, in gruppi di una ventina di persone, e dura 70 minuti. Ricordarsi di indossare indumen-

ti pesanti, anche in estate, perché la temperatura all’interno è inferiore allo zero. Si sconsiglia la visita a coloro che non sono in piena forma, poiché si devono salire e scendere più di 700 scalini. L’Eisriesenwelt è aperto tutti i giorni da inizio maggio alla fine di ottobre. Orario d’apertura del Centro visitatori Dalle 8.30 alle 15.00 Ingresso 39.– € (adulti) 35.– € con la prenotazione online del biglietto (consigliata). Sito internet www.eisriesenwelt.at La splendida regione del Salisburghese offre la possibilità di innumerevoli altre belle scoperte. Oltre alla conosciuta ed elegante città di Mozart, che conserva sempre un fascino straordinario, si possono visitare il Salzwelten Salzburg, ad Hallein, la più vecchia miniera di sale al mondo (www. salzwelten.at), la profonda gola del Liechtensteinklamm a Sankt Johann im Pongau e altre curiosità naturali.

zione di tutto il gruppo, verifica se si indossano vestiti adatti (la temperatura sarà sempre sotto lo zero), buone scarpe (ci sono oltre settecento scalini da salire e scendere) e, infine, consegna delle lampade a carburo, perché nella caverna si è espressamente rinunciato all’illuminazione artificiale, per far scoprire il misterioso mondo dei giganti di ghiaccio in tutta la sua magia. Stiamo per metter piede in un universo parallelo, unico e fantastico e ne abbiamo sentore appena aperto il portone d’entrata. Il regno dei ghiacci ci accoglie soffiandoci addosso il respiro della montagna. A dire il vero, più che respiro, è una specie di uragano, che si sprigiona dalle profondità e guadagna l’uscita, spegnendo la fiammella delle nostre lanterne da minatore e lasciandoci senza fiato. Il vento è provocato dalla differenza di temperatura tra l’interno e l’esterno, spiega Max, e supera i cento chilometri orari, ma una volta dentro e chiusa la porta, non lo si avverte più. Pare siano una specie di colabrodo, le montagne austriache, le sole grotte aperte al pubblico sono più di una trentina, ma l’Eisriesenwelt, scoperta alla fine dell’Ottocento (vedi articolo a fianco) è la più grandiosa. Un reticolo di cunicoli, che penetra nel massiccio del Tennengebirge per oltre quaranta chilometri. Uno solo è attrezzato e accessibile, ma è più che sufficiente a colmare di stupore e d’incanto l’animo del visitatore, rapito dal fascino e dalla magia di questo mondo sotterraneo, dalla sua grandiosità e dalla bellezza delle sue formazioni di ghiaccio. Iniziamo a salire gli innumerevoli gradini di legno, l’oscurità è scalfita appena dalla luce fioca delle lampade a carburo, che allunga le nostre ombre palpitanti sulle pareti della caverna. Di tanto in tanto, Max si ferma, avvicina alla fiammella un cordoncino di magnesio e, all’improvviso, un’intensa luce bianca invade la grotta, rivelando per pochi istanti bizzarre sculture, sbrilluccicanti merletti e cascate cristalline e laghi iridescenti, che suscitano un coro di wow! di meraviglia. Il popolo dei giganti di ghiaccio ha nomi mitologici: c’è Hugin (uno dei corvi di Odino), sottoforma di una colonna, bianco-azzurra, che dal pavimento arriva al soffitto della grotta; nella grande cavità della Hymirhalle, s’innalza il castello di Hymir (uno dei giganti della mitologia norrena), una montagna di ghiaccio con circonferenza alla base di una quarantina di metri per quindici di altezza; e poi ci sono l’elefante di ghiaccio, l’Eisorgel, detto anche Friggas Schleier, il velo di Frigga, la sposa di Odino, il dio supremo, che più avanti ha la sua sala, con il castello degli dei e un blocco di ghiaccio verde-blu simile a un trono. Di volta in volta, l’intenso bagliore del magnesio svela una miriade di figure straordinarie, delicate stalattiti e stalagmiti, le stratificazioni multicolori dei muri di ghiaccio, sale monumentali, l’imbocco di oscuri abissi che sprofondano nel cuore della montagna e… un’urna, in una nicchia, con le ceneri di Alexander von Mörk, l’esploratore che ha rivelato al mondo lo sbalorditivo regno dei giganti di ghiaccio e che qui ha voluto essere sepolto.

Il palazzo di ghiaccio con il suo lago ghiacciato. (Romano Venziani)

Da anticamera degli inferi a monumento naturale Per secoli è stata l’anticamera degli inferi, questa voragine aperta nel cuore della montagna, per la gente del posto. L’ingresso di un mondo misterioso e ignoto, popolato di mitici giganti custodi delle sue profondità ghiacciate. E per questo temuto ed evitato. Forse solo qualche temerario cacciatore gli si è avvicinato, riservandogli un’occhiata timorosa. Fino all’ottobre del 1879, quando un alpinista e speleologo venticinquenne, Anton von Posselt-Csorich, ha l’ardire di penetrare nella grotta. Non andrà molto lontano, perché dopo duecento metri, è bloccato da una gigantesca e insuperabile parete di ghiaccio. L’anno seguente Posselt pubblica la relazione della sua avventura sull’annuario del Club alpino tedesco e austriaco. Poi la scoperta cade nell’oblio. Nel 1912, un altro giovane speleologo, Alexander von Mörk, riprende l’esplorazione della grotta, ma è costretto ad arrestarsi davanti a un altro muro di ghiaccio invalicabile. Un anno più tardi, con due spedizioni più strutturate riesce ad andare oltre e scopre di essere in presenza della più grande cavità sotterranea del mondo, che chiama Eisriesenwelt, il Mondo dei giganti di ghiaccio. Dopo la Prima guerra mondiale, inizia l’esplorazione scientifica e la misurazione dei numerosi cunicoli laterali, che si spingono per quarantadue chilometri all’interno del massiccio del Tennengebirge. L’eccezionale vastità e la bellezza di questo monumento naturale evidenziano fin da subito le sue potenzialità turistiche. Si predispongono passerelle e scale per facilitarne l’accesso, si lavora alla sua messa in sicurezza e, il 26 settembre 1920, la grotta è aperta al pubblico. Pare che il sistema labirintico dell’Eisriesenwelt risalga a un’epoca compresa tra i cinquanta e i cento milioni di anni fa. Ma come si è formato? Max si arresta e accende il filo di magnesio per illuminare l’Alexander von Mörk Dom, una delle cavità

più grandi di tutto quel mondo sotterraneo, con i suoi sessanta metri di lunghezza, trenta di larghezza e trentacinque di altezza. Ci indica le profonde caverne, ingombre di detriti, che si aprono nelle pareti dell’enorme sala e spiega che il fenomeno si basa su due processi, il corrugamento delle Alpi, che ha prodotto fessure e spaccature nella roccia, e la carsificazione del calcare, ovvero la sua dissoluzione provocata dall’azione chimica dell’acqua meteorica sulle rocce carbonatiche e la successiva fase di erosione meccanica. Quanto alle formazioni di ghiaccio, che ne fanno un monumento naturale impressionante e magico, si devono alle correnti d’aria, che soffiano perennemente attraverso il reticolo di cunicoli. In inverno, l’aria fredda entra dall’ingresso della grotta e si spinge verso l’alto, raffreddando fortemente la roccia. In estate, invece, il flusso d’aria cambia direzione e s’introduce nel cuore della montagna scendendo dalla sua sommità verso l’entrata della grotta posta più in basso, impedendo così all’aria calda di penetrarvi. L’acqua di fusione della neve, attraverso le numerose spaccature della roccia, s’introduce nella grotta e si trasforma in ghiaccio, che aumenta il suo spessore man mano che la neve si scioglie. L’Eisriesenwelt è un sistema in continua trasformazione, le formazioni ghiacciate crescono, rimpiccioliscono e mutano aspetto a dipendenza dall’acqua che s’introduce nella roccia. Quella di fusione espande gli strati di ghiaccio, mentre quella piovana, aumentando la temperatura dell’ambiente sotterraneo, li scioglie. Il Mondo dei giganti di ghiaccio è perciò governato da delicati equilibri, che sinora si sono conservati intatti, offrendoci l’opportunità di avere accesso, senza troppa fatica, a questo incantevole monumento naturale e l’intenso piacere di saziarci della sua bellezza.


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Una slitta con tante sorprese per l’Avvento Crea con noi ◆ Un’idea originale per realizzare un calendario che renderà ancora più magica l’attesa del Natale Giovanna Grimaldi Leoni

Materiale

Dicembre è ormai alle porte, è quindi il momento di preparare il Calendario dell’Avvento che ci accompagnerà alla notte più magica dell’anno: quella di Natale. Ecco una proposta per realizzarne uno, che potrete sfruttare per tanti anni, utilizzando del semplice cartone. La classica slitta di Babbo Natale, con al suo interno un sacco colmo di piccole sorprese. Un’idea molto decorativa, che si adatta a bambini di ogni età. Procedimento Stampate il cartamodello (lo trovate su www.azione.ch) e unite le due parti con del nastro adesivo, quindi ritagliate la sagoma della slitta. Posizionate il cartamodello sulle due lastre più grandi di cartone e ripor-

grosso o uno stuzzichino per ottenere 30 fori. Inserite le luci a LED e fissate la scatola delle batterie sotto la seduta con del nastro biadesivo. Collocate i 2 spiedini in legno nella parte superiore sopra i cartoni della seduta, facendoli passare attraverso entrambi i lati della slitta. Fissateli con poca colla e aggiungete del cordino bianco/rosso sullo spiedino anteriore per simulare delle redini. Preparate ora i vostri pacchettini, con carta da pacco, filato rosso in tinta e se volete qualche stellina in cartoncino fustellata. Scrivete i numeri con un pennarello acrilico rosso. Inserite i pacchetti nel sacco in feltro, e posizionatelo sulla seduta. Il vostro calendario è pronto, buon Avvento!

tatene il disegno. Ritagliate entrambi le parti. Con la colla a caldo, coprite tutto il perimetro delle due sagome ottenute con un filato grosso, un nastro o una corda naturale. A questo punto assemblate la vostra slitta. Utilizzate la colla a caldo per fissare all’interno della prima sagoma i 3 cartoni larghi 14 cm e lunghi rispettivamente 20, 14 e 10 cm, seguendo le linee marcate sul cartamodello. Dopo averli fissati incollate la seconda sagoma, assicurandovi che i pattini tocchino il piano di lavoro per evitare dislivelli durante l’incollaggio delle due parti. A questo punto è possibile decorare la slitta, utilizzando la striscia decorativa in feltro. Perforate la parte superiore ogni 2 cm circa con un ago

Tutorial completo azione.ch/tempo-libero/passatempi

• Cartone di riciclo: 2pz da 45x30cm 1pz da 20x14cm 1pz 14x14cm 1pz da 10x14cm • Luce led da 30 lampadine • Filato o corda rossa spessa • Decorazione in feltro rossa con stelle • Un sacco di feltro rosso • 2 spiedini di legno • Pistola colla a caldo • Matita, taglierino e righello • Nastri decorativi o decorazioni aggiuntive a scelta • Stampante per cartamodello • Per i pacchetti: Carta da pacco, filato rosso, pennarello edding acrylic per scrivere i numeri, fustelle «stella» e cartoncino rosso. (I materiali li potete trovare presso la vostra filiale Migros con reparto Bricolage o Migros do-it)

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TEMPO LIBERO

Giochi e passatempi Cruciverba

Il grande cantautore Michael Jackson non… completa la frase risolvendo il cruciverba e leggendo le lettere evidenziate. (Frase: 6, 8, 1, 7, 2, 6)

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Scoprite i 3 numeri corretti da inserire nelle caselle colorate.

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VERTICALI 1. Brevi interruzioni 2. Sempre in inglese 3. Preposizione articolata 4. Diede i natali al Petrarca (Sigla) 5. Fu abitato per primo 8. Mancanza della testa 10. Gesti leziosi

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24. Due di cuori 25. Figurano nelle carte da gioco 26. Giocare senza le ali...

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ORIZZONTALI 1. Una salsa nel panino 6. «Al di là» nello sport 7. Le iniziali dell’attore Abatantuono 9. Un numero 10. Un’antenata dell’attuale UE 11. Un terzo di trenta 12. Carico di elettricità 13. Un colore 17. Sommo sacerdote degli ebrei 18. Mare del Mediterraneo 19. Serve per le annotazioni 20. Cattive in poesia 21. Usate da Tarzan per gli spostamenti 22. Le iniziali del cantante Ruggeri 23. Le... quotidiano francese

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Vinci una delle 2 carte regalo da 50 franchi con il cruciverba e una carta regalo da 50 franchi con il sudoku

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Soluzione della settimana precedente Per trattenere il più possibile i propri clienti, i casinò non hanno quasi mai… Resto delle frasi: … OROLOGI E FINESTRE

12. Suffisso in chimica per radicali idrocarburici bivalenti 13. Fedi 14. Fuga di Maometto dalla Mecca a Medina 15. Responsabili punite 16. Nota musicale 17. L’arcipelago di Favignana 19. Fiume della Francia 21. Legge francese 23. Le iniziali dell’attrice Streep 24. In mezzo all’astuccio

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Regolamento per i concorsi a premi pubblicati su «Azione» e sul sito web www.azione.ch I premi, tre carte regalo Migros del valore di 50 franchi, saranno sorteggiati tra i partecipanti che avranno fatto pervenire la soluzione corretta entro il venerdì seguente la pubblicazione del gioco. Partecipazione online: inserire la soluzione del cruciverba o del sudoku nell’apposito formulario pubblicato sulla pagina del sito. Partecipazione postale: la lettera o la cartolina postale che riporti la soluzione, corredata da nome, cognome, indirizzo del partecipante deve essere spedita a «Redazione Azione, Concorsi, C.P. 1055, 6901 Lugano». Non si intratterrà corrispondenza sui concorsi. Le vie legali sono escluse. Non è possibile un pagamento in contanti dei premi. I vincitori saranno avvertiti per iscritto. Partecipazione riservata esclusivamente a lettori che risiedono in Svizzera. Annuncio pubblicitario

ZUPPA SCALDA VIVANDE INVERNALE CATHEDRAL CITY CHEDDAR E BROCOLLI! ITALIAN ingredienti • cucchiaino di olio vegetale • 5 cipollotti affettati • 300g di broccoli, gambo e cimette separate e tritate • Dado per brodo vegetale o di pollo, confezione fino a 600 ml • 60g di spinaci novelli • 150ml di latte • 80g di formaggio Cathedral City Cheddar maturo, grattugiato Ricetta 1. Scaldare l'olio in una pentola capiente a fuoco medio. Soffriggere l'aglio e la maggior parte dei cipollotti, conservando parte della parte verde, per 2-3 minuti finché non saranno teneri e fragranti. 2. Aggiungere le patate e il gambo dei broccoli nella padella e versare il brodo. Coprire e cuocere per 8-10 minuti fino a quando patate iniziano ad ammorbidirsi. 3. Aggiungere le cimette di broccoli e cuocere per altri 6 minuti finché saranno tenere. Togliere dal fuoco e mescolare con gli spinaci finché non appassiscono. 4. Usa un frullatore a immersione per frullare la zuppa fino a ottenere una consistenza morbida; sarà molto densa. Riporta la padella a fuoco basso e mescola con 75 ml di latte e metà del formaggio. Scaldare per 1-2 minuti finché il formaggio non si sarà com pletamente sciolto. Se necessario, aggiungi altro latte per allentare la zuppa. 5. Versare nelle ciotole e guarnire con il cipollotto messo da parte ed il formaggio. Se preferite, servite con panini integrali.

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TEMPO LIBERO / RUBRICHE

Viaggiatori d’Occidente

di Claudio Visentin

La terza via del turismo scolastico ◆

Immaginiamo il viaggio d’istruzione come il punto più alto dell’intero percorso di studi: si lascia finalmente il chiuso dell’aula, si verifica sul campo quanto appreso, ci si misura con il mondo là fuori e le sue contraddizioni. In pochi altri casi tuttavia i risultati sono più distanti dalle aspettative, tanto che molti lo considerano il passaggio più difficile nel percorso formativo. Come si arriva a questi risultati? Per cominciare si scontrano due visioni radicalmente contrapposte. Per gli studenti la gita (termine svagato rivelatore delle sotterranee quanto reali intenzioni) è soprattutto un momento di ricreazione con vaghi intenti di socializzazione. Le mete proposte sono già indicative: Barcellona, Amsterdam, Parigi. In questo modo tuttavia il viaggio d’istruzione finisce per assomigliare a qualunque altra esperienza turistica e la visita a un museo non basta per cambiare la situazione.

Nel tempo delle compagnie low cost e delle prenotazioni online, chiunque può viaggiare facilmente e a costi contenuti verso le mete più popolari, senza bisogno di passare per la mediazione della scuola. Quando invece gli insegnanti riescono a difendere il loro ruolo d’indirizzo (quanto meno nelle ore del giorno…), la deriva dei viaggi d’istruzione è meno evidente ma non per questo meno sostanziale. Guide anche preparate riversano sugli studenti una smisurata quantità di informazioni, destinate tuttavia a scivolare via come acqua sulla roccia. Il nostro non è solo il tempo dell’overtourism, è anche la civiltà dell’informazione. E dunque, per fare solo un esempio, le maggiori opere d’arte sono disponibili in rete con una nitidezza di dettagli impensabile dal vivo, in un museo affollato. Il nostro problema insomma non è trovare informazioni, ma capire di quali

abbiamo bisogno, e quanto, e quando. Due fallimenti dunque. Né questo né quello, né adulti né ragazzi. Meglio allora arrendersi all’evidenza e partire spogli alla ricerca di un nuovo modello, senza premesse né punti fermi, accettando di mettere tutto in discussione. Proviamo a scrivere nuove regole del gioco? Per esempio sospendiamo il pregiudizio dell’età, che porta a proporre viaggi impegnativi solo agli adolescenti. In realtà i bambini sono spesso ottimi viaggiatori – motivati, energici, sensibili, curiosi, disciplinati – laddove gli adolescenti, specie in gruppo, sono di più difficile gestione. Anche l’idea che i viaggi più interessanti siano quelli verso luoghi lontani potrebbe essere ripensata. Si viaggia per conoscere la propria casa, vi direbbero molti viaggiatori esperti. E quel che per noi è vicino, banale, quotidiano, per chi viene da terre lonta-

ne è strano, diverso, esotico. Portando il ragionamento alle sue conseguenze estreme, giocare a fare il turista nella propria città (si parla di staycation) potrebbe essere un’esperienza più formativa del solito viaggio. Meglio poi adottare un atteggiamento produttivo. Comprendiamo veramente un luogo quando cerchiamo di raccontarlo ad altri, perché in questo sforzo siamo quasi costretti a distinguere cosa è essenziale, nella varietà di esperienze e incontri. In questa prospettiva, proponiamo agli studenti di trasformarsi in reporter per un giorno, chiediamogli di decifrare un luogo secondo le proprie coordinate e motivazioni. Naturalmente bisogna accettare il rischio che il risultato non corrisponda alle nostre aspettative o ai criteri abituali di giudizio. Ma questo accade sempre quando si apre una via nuova. La scrittura e la fotografia sono gli

strumenti principali nella narrazione dei luoghi. E di qui entra in gioco anche un diverso rapporto con la tecnologia. Lo smartphone in viaggio è spesso uno strumento di distrazione per gli studenti. Per cominciare quando siamo nello spazio virtuale dei social è come se fossimo a casa. Inoltre la ricerca di selfie ad effetto per Instagram ci porta nei soliti luoghi da turisti, quelli che chiamiamo con un neologismo Instagrammable. Utilizzare lo smartphone per scrivere e fotografare invece ha il duplice vantaggio di tenerci alla larga dalle tentazioni e mostrare che la scuola non teme la tecnologia, ma la mette al servizio di un percorso di conoscenza. Ripensare il viaggio di istruzione è una sfida che molti istituti stanno già affrontando, specie dopo la lunga pausa della pandemia. Merita impegno, energia, fiducia; e perché no, ottimismo.

Passeggiate svizzere

di Oliver Scharpf

Gli steli al neon di Dan Flavin a Basilea ◆

Quando incominciano a cadere le foglie e l’imbrunire inizia a diventare brusco, bisogna correre ai ripari, trovare vie di fuga. Una di queste, oltre ai tearoom, le candele, il camino, il violetto elettrizzante catturato delle Lepista nuda, sono alcune luci al neon. Meglio ancora in giorni di pioggia dopo le cinque, per via dei riflessi prolungati sul pavimento lucido come adesso, appena sbucato nel cortile del Kunstmuseum di Basilea. Dove mi accolgono i primi due steli al neon alti milletrecentoquarantadue centimetri, uno verde, all’angolo destro, l’altro giallo all’angolo sinistro. Undici tubi fluorescenti – ritmati da un rapidissimo silenzio senza luce alla fine di uno e l’inizio del seguente – si ergono da terra al terzo piano. E colgo, al contempo, le loro due linee riflesse su lastre bagnate di pietra calcarea di Soletta e Neuchâtel, intercalate al granito di Castione.

Dopo qualche passo sovraeccitato, si affiancano alla traiettoria gialla e verde, sposando la porosità della pietra e lo specchio delle pozzanghere, i riflessi più brevi di altre due steli fluorescenti rosa e giallo. Celati a prima vista, due tubi di centoventidue centimetri l’uno, si trovano sotto i portici, echeggiando nei rispettivi angoli: il rosa combinato al giallo e il giallo al verde. Ideata nel 1972, l’installazione permanente di Dan Flavin (1933-1996) vede la luce nel 1975, in occasione di una sua mostra di disegni e stampe inaugurata l’otto marzo di quell’anno nelle sale di questo museo nato nel 1936. Opera di Rudolf Christ e Paul Bonatz – co-autore, quest’ultimo, della solenne stazione ferroviaria di Stoccarda – tra monumentalismo neorinascimentale e sprazzi di rusticità heimatstil, ospita ancora, oltre a molto altro, la più antica (1671) colle-

Sport in Azione

zione d’arte pubblica al mondo. Intitolata untitled con un dedicatario tra parentesi come quasi tutte le opere di Flavin, questa installazione site specific si completa quando vi voltate verso dove siete venuti: altri due steli si elevano ancora per milletrecentoquarantadue centimetri lungo l’edificio. Blu da una parte, rosso dall’altra. A questi ventidue tubi agli angoli, come prima, sotto il portico, fanno eco quattro tubi: verde con il blu, blu con il rosso. Cinquantadue tubi standard in tutto dunque, formando otto steli, emanano luce fluorescente primaria consolando matematicamente i malinconici. Non emostatico come il memorabile Varese corridor (1976) visitato e studiato anni fa a Villa Panza, l’effetto degli steli al neon di Dan Flavin a Basilea (270 m) una fine pomeriggio in pieno autunno quando il buio inizia a piombare di colpo, è comunque una guarigione dello sguar-

do. Non ancora proprio buio, assaporo la luce made in USA spalmata sulle facciate composte soprattutto dal bluverdegrigio dei blocchi di calcare conchiglifero di Othmarsingen; poi dal beige del calcare di Soletta, gli innesti di granito chiaro di Castione e quelli più scuri, antracite-carbone, del granito di Osogna. Dell’importanza dell’opera di questo artista nato a New York e morto a New York, per l’architettura del museo e il suo influsso sui visitatori, mi rendo conto però solo più tardi, verso l’ora di chiusura, al primo piano. Una signora, distrutta dal girare e guardare, si è addormentata su una poltrona, i guardiani, esausti, con volti lividi stile Otto Dix, non vedono l’ora di andarsene, io dopo un’overdose di Böcklin, mi aggiro lento e rintronato con passi da Pantera Rosa. E un bagliore al neon blu, inatteso, arrivato da una certa distanza attraver-

so le finestre, pervade la sala con un tocco rivitalizzante e pacato, posandosi ad accarezzare la colonna calcarea solettese levigata al punto da parere marmo. Mi accorgo di aver dimenticato Urs Graf (1485-1529): notevole incisore svizzero dedicatario dell’opera di Dan Flavin. Infine, stremato da troppi capolavori, esco nella sera. Le sculture di Chillida, Rodin, Calder, nel cortile al buio, a dire il vero, ora mi sembrano cianfrusaglie che ostruiscono lo spazio per godersi in pace, sulla pietra lucida di pioggia, lo specchiarsi degli steli al neon. «Dovrebbero fare un monumento all’uomo che ha inventato le luci al neon» scriveva Raymond Chandler in La sorellina (1949). Un tempo, l’atmosfera Chandler, qui a Basilea, si respirava al Rio bar, dove regnava, sopra i bevitori, un filo di neon rosa aureolare.

di Giancarlo Dionisio

Uomini sull’orlo di una crisi di nervi? ◆

Non mi hanno stupito le parole di Livio Bordoli in una recente intervista rilasciata al portale TIO. L’ex tecnico del Lugano dell’ultima promozione in Super League, ha manifestato tutto il suo disagio nei confronti del ruolo di allenatore. «Non mi manca affatto allenare, oggi sto meglio. Recentemente ho incontrato Vlado Petkovic il quale mi ha detto la stessa cosa». Lo spunto dell’intervista è giunto dal siluramento di Marco Schällibaum dalla panchina del neopromosso Yverdon, nonostante un dignitoso inizio di campionato. «Immaginavo che prima o poi l’avrebbero esonerato. Ormai il calcio è diventato quasi esclusivamente un business e non ci si deve più stupire di nulla». Il Mister è da sempre colui che paga per le colpe di tutti. Spesso, perché il suo credo calcistico non corrisponde alla filosofia societaria, che impone di acquistare giovani calcia-

tori all’estero, possibilmente a basso costo, valorizzarli, facendoli giocare, in modo da rivenderli a prezzo maggiorato a club più ricchi. L’allenatore, questa filosofia, la può abbracciare, ma in un calcio ideale dovrebbe dare seguito soprattutto alla sua filosofia, alle sue percezioni sulle qualità dei giocatori con cui si trova a lavorare. Il più delle volte la Dirigenza prosegue sulla sua strada. Spesso corroborata dall’atteggiamento distruttivo degli ultrà. Questi si manifestano attraverso i blog. Osservano, valutano, commentano, insultano, minacciano, per fortuna solo rarissimamente passano alle vie di fatto. Ne sa qualcosa Simone Inzaghi. In due anni sulla panchina dell’Inter ha conquistato due Coppe Italia, due Supercoppe italiane, ed ha portato la squadra alla finale di Champions League, impresa nella quale probabilmente neppure il più sfega-

tato dei tifosi avrebbe sperato. Ciononostante viene costantemente massacrato da una parte della tifoseria estrema, come se fosse il più impedito degli incapaci. Livio Bordoli parla di «pressione, stress, nervosismo». Si tratta tuttavia di situazioni amplissimamente ricompensate economicamente. Diego Simeone, l’allenatore più pagato in Europa, da tempo sulla panchina dell’Atletico Madrid, guadagna 34 milioni di euro lordi all’anno. Carlo Ancelotti, che guida il Real, squadra madrilena ben più prestigiosa e vincente, ne incassa «solo» 10,9. Come dire che a volte la differenza non la fanno le competenze e i risultati, bensì l’astuzia degli impresari. A lenire lo stress dei Grandi Mister, ci pensa anche la stesura di contratti blindati. Roberto Mancini, con una gelida mail, aveva rassegnato le dimissioni dalla panchina della Nazionale ita-

liana, dove guadagnava circa 3 milioni annui. Si sono comprese presto le ragioni. Il Mancio è stato assoldato dalla federazione dell’Arabia Saudita per 25 milioni a stagione, con contratto triennale. È come se un onesto e diligente impiegato con un salario di 6000 franchi mensili ricevesse un’offerta da 49’800 franchi. Ci sarebbe di che inebriarsi. Inoltre Mister Mancini, qualora fosse licenziato per scarsità di risultati, potrebbe restarsene spaparanzato su una spiaggia delle sue Marche, cocktail sul tavolino, «Gazzetta dello Sport» fra le mani, magari ostentando un sorriso malizioso alla scoperta che il suo successore sta facendo peggio di lui. Tutto ciò senza perdere un solo euro del salario pattuito. Capita anche di assistere a un altro paradosso: la rinuncia al licenziamento di un tecnico palesemente in difficoltà, poiché manca la liquidità

per continuare a pagarlo e per stipendiare nel contempo il suo sostituito. È il caso di Massimiliano Allegri, reduce da due stagioni negative con la Juventus, ma in possesso di un contratto che lo lega al Club bianconero fino a giugno del 2025. Molti allenatori che si sbracciano e sgolano suoi campi elvetici pagherebbero per poter vivere pressione e stress così lucrativi. Qualcuno, come Vlado Petkovic, Lucien Favre e Urs Fischer, sono riusciti a calcare palcoscenici più prestigiosi. Altri, come l’ottimo Mattia Croci-Torti, probabilmente ci sperano. Per ora, in perfetta sintonia con l’analisi di Livio Bordoli, si limitano a vivere gli aspetti più a rischio del loro delicatissimo ruolo. Chi, in questi ultimi anni, è transitato sulla panchina del Sion, o su quella del Lugano targato Renzetti, potrebbe esserne un testimone più che affidabile.


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Anno LXXXVI 20 novembre 2023

azione – Cooperativa Migros Ticino 25

ATTUALITÀ ●

Per la solidità dell’AVS La riforma, in vigore dal 2024, copre le spese fino al 2030, poi bisognerà trovare altre soluzioni

Uno sguardo al futuro È impossibile per il momento capire cosa succederà dopo la battaglia di Gaza

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Se le ferite si riaprono Il conflitto in Medio Oriente mette ancora in crisi le relazioni tra Israele e la Chiesa cattolica

Colpo di scena a Londra Dopo il siluramento della ministra Bravermann, Sunak porta in Governo l’ex premier Cameron

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Un passo in direzione dell’Europa

Il punto ◆ Berna ha riaperto la strada per il consolidamento della via bilaterale. Le difficoltà che gravano sul futuro negoziato

Dopo quasi tre anni dalla rottura del negoziato bilaterale tra la Svizzera e l’Unione europea, il Consiglio federale ha deciso di riaprire la strada che un giorno potrebbe portare al consolidamento della via bilaterale. Nella riunione dello scorso 8 novembre ha incaricato il Dipartimento degli affari esteri di preparare un progetto di mandato negoziale, in vista di un possibile nuovo accordo. La decisione è arrivata dopo una decina di colloqui esplorativi avvenuti tra Berna e Bruxelles, in gran parte condotti dalla segretaria di stato Livia Leu e, infine, dal suo successore Alexandre Fasel. L’ultimo colloquio esplorativo è avvenuto il 27 ottobre. Il Governo federale ha ritenuto soddisfacenti, o per lo meno sufficienti, i risultati di questi colloqui per poter andare oltre. Se verrà approvato, il mandato negoziale avvierà una lunga procedura. Alla fine dell’anno verrà esaminato dalle commissioni parlamentari di politica estera e dalla conferenza dei Governi cantonali. Anche la Commissione europea preparerà un mandato negoziale sulla base delle indicazioni che riceverà dai Governi dei 27 Stati membri. Siamo alla soglia del 2024, un anno importante per la politica europea. A giugno ci saranno le elezioni del nuovo Parlamento e subito dopo verrà nominata una nuova Commissione. Oggi è difficile prevedere quando comincerà il negoziato bilaterale, a che ritmo procederà e chi saranno i protagonisti. Un risultato concreto l’avremo probabilmente soltanto nel 2025 o nel 2026. Sono scadenze lontane e alle quali bisognerà ancora aggiungere un altro anno per consentire lo svolgimento delle procedure interne di accettazione, sia in Svizzera, con l’ultima tappa del voto popolare, sia nei Parlamenti dei Paesi europei.

Oggi è difficile prevedere i tempi della procedura Un risultato concreto l’avremo probabilmente soltanto nel 2025 o nel 2026 Diversi sono i temi che caratterizzeranno il futuro negoziato. Innanzitutto occorrerà trovare soluzioni istituzionali agli accordi esistenti sull’accesso al mercato unico, sia per quanto concerne la ripresa del diritto europeo che per il superamento di eventuali divergenze d’interpretazione. Trattasi, in particolare, degli accordi sulla libera circolazione delle persone, sull’agricoltura e sui trasporti terrestri ed aerei. Poi, dando seguito alla volontà della Svizzera, bisognerà cercare di concludere nuovi accordi nei settori dell’energia elettrica, della sicurezza alimenta-

Keystone

Marzio Rigonalli

re e della salute. Quindi la Svizzera cercherà di ottenere di poter di nuovo partecipare a Horizon Europe, il programma quadro dell’Unione europea per la ricerca e l’innovazione per il periodo 2021-2027. È un programma che ha una dotazione finanziaria complessiva di 95,5 miliardi di euro. Pur avendo abbandonato l’Ue, la Gran Bretagna è stata riammessa in questo programma. Infine, occorrerà affrontare problemi che incontrano una forte opposizione in alcuni settori della società svizzera, come per esempio la protezione dei salari del personale distaccato in Svizzera, o l’applicazione della direttiva relativa al diritto dei cittadini europei e dei loro familiari di circolare e soggiornare liberamente nel territorio degli stati membri. Per coronare il tutto, ci si dovrà accordare anche sull’importo annuale che la Svizzera, come ha già avuto modo di promettere, verserà all’Unione europea per aiutarla nel suo sviluppo e nella sua coesione interna. È un programma molto ricco, die-

tro al quale si nasconde un braccio di ferro riassumibile in due distinte domande: quanta sovranità la Svizzera è disposta a cedere per potersi garantire la via bilaterale e quindi l’accesso al mercato unico europeo in svariati settori? E quante concessioni l’Ue è disposta a fare alla Svizzera, che non è uno stato membro dell’Unione, senza creare una situazione privilegiata che potrebbe nuocere agli interessi degli Stati membri, o che potrebbe semplicemente essere in contrasto con la situazione interna dell’Unione? Sarà un braccio di ferro presente durante tutto il negoziato, ma che può essere attutito dall’interesse delle due parti a raggiungere un accordo. L’Unione europea vuole preservare buoni rapporti con un partner economico importante. La Svizzera cerca di mantenere buone relazioni con i Paesi europei, soprattutto con quelli che la circondano, nonché di difendere l’ottima salute della sua economia. Quasi il 60% delle nostre esportazioni finisce nell’Ue e le principali organizzazioni economiche,

Economiesuisse, l’Unione svizzera degli imprenditori e l’Unione svizzera delle arti e mestieri, sono favorevoli ad un accordo e hanno accolto positivamente la notizia del mandato negoziale. Più critici, invece, sono stati i sindacati, ma soltanto su alcuni punti in discussione. La loro posizione si concentra soprattutto sulla protezione dei salari. Ancora più critica è stata l’UDC. Come è noto, il primo partito svizzero è contrario a un accordo con l’Ue. Nonostante gli ostacoli e le difficoltà che gravano sul futuro negoziato, l’apertura sul mandato negoziale rappresenta una nota positiva, un nuovo inizio nel dossier Europa e, nello stesso tempo, un successo per Ignazio Cassis. Il capo del Dipartimento degli affari esteri ha riportato al tavolo negoziale sia l’Ue, che ha digerito male la rottura del negoziato nel 2021, sia il Consiglio federale, le cui divergenze interne sull’Europa sono ben note. È anche un primo passo importante in un contesto internazionale che non è favorevole alla

Svizzera. Una volta la Confederazione era rispettata e veniva spesso sollecitata per i suoi buoni uffici. Oggi le critiche contro la Svizzera arrivano da più parti. Dalla Russia, per le sanzioni europee riprese dal Consiglio federale; dagli Stati Uniti, che vorrebbero un intervento più energico contro le ricchezze dei gerarchi russi; dalla Cina, per ragioni economiche; dai Paesi alleati dell’Ucraina, per il blocco elvetico all’esportazione di armi e munizioni al Paese aggredito. Nella situazione attuale diventa difficile immaginare una situazione conflittuale nella quale la Svizzera potrebbe offrire i suoi buoni uffici con qualche possibilità di successo. Altri Paesi, non necessariamente neutrali, riescono meglio a guidare, o perlomeno a coordinare, una mediazione in regioni alle prese con conflitti. Anche per queste ragioni l’inizio del negoziato bilaterale, e ancor di più la conclusione di un accordo, potrebbero dare un po’ di certezza e un po’ di prestigio alla posizione della Svizzera in Europa e nel mondo.


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ATTUALITÀ

Per garantire la solidità finanziaria dell’AVS

Svizzera ◆ La riforma che entra in vigore nel 2024 copre le spese fino al 2030, in seguito sarà necessario trovare altre fonti di entrate. Tra le idee per frenare questa evoluzione: il miliardo di sussidi federali e l’aumento dello 0,8% dei premi Ignazio Bonoli

Il prossimo anno entrerà in vigore l’ennesima riforma dell’AVS. Ancora una volta la decisione delle Camere federali è dovuta passare attraverso un referendum, che però non ha avuto la maggioranza del popolo. Come noto, la nuova legge comporta una flessibilizzazione dell’età di pensionamento, un aumento dell’aliquota dell’IVA e soprattutto un aumento di un anno dell’età di pensionamento delle donne. Il tutto accompagnato però da un costoso sistema di compensazione per le classi d’età delle donne direttamente interessate.

Secondo gli esperti del sistema pubblico svizzero di protezione (AVS, prestazioni complementari PC, invalidità AI), la riforma potrà garantire l’equilibrio dei conti AVS per i prossimi sette/otto anni. Dopo di che si presenterà il solito problema di finanziamenti esterni (soprattutto tramite sussidi della Confederazione e trasferimento di oneri sulle giovani generazioni). Comunque l’aumento del tasso dell’IVA dal 2,5 al 2,6% per il tasso ridotto e dal 7,7 all’8,1% per il tasso normale dovrebbe dare una spinta significativa verso l’equilibrio dei conti. Il che non esclude però pesanti lacune del finanziamento negli anni futuri, soprattutto a causa dell’invecchiamento della popolazione. Per il momento, però, i responsabili della gestione dei conti (ovviamente soddisfatti della decisione popolare) constatano un miglioramento della situazione. Lo scorso anno hanno infatti potuto contare su 1,63 miliardi di franchi di entrate superiori alle uscite per l’AVS, di 122 milioni per l’AI e di 217 milioni per le PC. Fino al 2030 questa situazione favorevole dovrebbe ripetersi anno per anno. In seguito si potrà comunque contare sulla popolarità dell’AVS, fortemente ancorata nella popolazione. Anche perché il sistema protegge me-

Pixabay

Come noto, la nuova legge comporta, tra le altre cose, l’aumento di un anno dell’età di pensionamento delle donne

glio di quello delle pensioni professionali (LPP), grazie all’adeguamento biennale delle rendite all’indice del costo della vita e a quello dei salari. Per le casse pensioni un adeguamento è previsto soltanto se le possibilità finanziarie delle casse lo permettono. Uno studio dello scorso anno ha permesso anche di verificare che ben l’88% dei pensionati riceve una rendita AVS superiore al totale di quanto versato con i contributi pagati. Questo proprio perché l’AVS conta molto su un sistema di distribuzione, rispetto a quello di capitalizzazione delle casse pensioni. Questo fatto mette inoltre in evidenza l’aspetto sociale dell’AVS, rispetto ad altre forme di previdenza per la vecchiaia. Aspetto sottolineato anche dal fatto che più è alto il salario percepito, più sarà alto il contributo AVS. Si potrebbe qui ricordare anche il concetto espresso

dall’ex consigliere federale Hans-Peter Tschudi (definito «il padre dell’AVS») secondo cui i ricchi non hanno bisogno dell’AVS, ma l’AVS ha bisogno dei ricchi. L’attuale miglioramento della situazione, che grazie alla riforma dovrebbe garantire la solidità finanziaria, secondo le previsioni non dovrebbe protrarsi oltre il 2030. Ancora una volta l’influsso determinante per questa evoluzione sarà dato dalle prospettive dell’invecchiamento della popolazione. Ma non solo. Anche la gestione del Fondo di compensazione delle tre organizzazioni citate (AVS/ AI/PC) presenta qualche rischio. Per esempio la «performance» del Fondo è stata negativa lo scorso anno per il 12,85%. Nonostante l’anno difficile per gli investimenti finanziari, il risultato può destare qualche preoccupazione. E questo tanto più che, per

esempio, i fondi delle casse pensioni hanno registrato in media una perdita di «solo» il 9,2%. I responsabili del Fondo di compensazione giustificano, in una recente intervista, questa evoluzione con la struttura stessa del fondo che è prevista dalla legge. Uno dei motivi del cattivo risultato viene visto nel fatto che il Fondo non possiede sostanza immobiliare in proprio. Lo scorso anno il parco immobiliare ha in generale resistito meglio alle peggiorate condizioni del mercato. Il Fondo detiene comunque una partecipazione (13%) in fondi immobiliari, che però seguono l’andamento del mercato. Il motivo principale può però essere visto nell’evoluzione dei prestiti obbligazionari. La quota di questi investimenti è del 53% ed è dettata da preoccupazioni di sicurezza, così come il fatto che gli investimen-

ti avvengono per un terzo in Svizzera e i rischi valutari sono coperti per l’80%. L’aumento dei tassi di interesse migliorerà il rendimento di questi investimenti. Per contro, la quota di azioni al 26% viene considerata bassa, tenendo conto del fatto che l’investimento azionario a lunga scadenza offre buone garanzie di rendimento, per cui un aumento della quota potrebbe essere auspicabile. In Norvegia il Fondo statale ha, per esempio, una quota del 70% in azioni. Negli ultimi dieci anni il fondo di compensazione ha registrato una rendita media del 2,4% all’anno. Da notare infine che il 3% del capitale è investito in oro fisico, depositato presso la Banca cantonale di Zurigo. I dirigenti del Fondo pensano di investire in futuro anche una quota in debiti privati, quali investimenti alternativi. I dirigenti ammettono di non poter fare a meno di una quota di investimenti in titoli del petrolio, che negli anni scorsi hanno reso 200 milioni di franchi. Infine, è stato confermato che non si sono subito perdite con la crisi di Credit Suisse, che era un partner importante. La quota è stata progressivamente investita in altre banche e solo una parte è rimasta presso UBS. Da notare, infine, che il Fondo deve detenere una parte importante di liquidità per garantire i versamenti delle rendite. Data la situazione, dal punto di vista finanziario, i responsabili ritengono impossibile far fronte a un aumento delle rendite AVS dell’8,3%, come conseguenza dell’iniziativa in corso per una «tredicesima mensilità AVS», senza trovare nuove fonti di finanziamento. Secondo i calcoli dell’Ufficio federale delle assicurazioni sociali, già nel 2026 si verificherebbe un forte disavanzo tra entrate e uscite. Disavanzo che si avvicinerebbe ai 10 miliardi di franchi nel 2035 e ai 15 miliardi nel 2045. Circolano già alcune idee che permetterebbero di frenare questa evoluzione, tra cui, oltre al miliardo di sussidi federali, un aumento dello 0,8% dei premi a carico di assicurati e datori di lavoro.

«Come risparmiare sulle imposte entro la fine dell’anno?»

La consulenza della Banca Migros ◆ Ci sono vari modi per ridurre l’onere fiscale prima del 2024, per esempio agendo nell’ambito previdenziale. Ecco come fare: scopriamo quali sono

L’anno sta per finire. Cos’altro posso fare ora per ottimizzare le imposte per il 2023? Esistono svariati modi per ridurre ulteriormente l’onere fiscale entro la fine dell’anno. Una delle leve più importanti riguarda l’ambito previdenziale: se esercita un’attività lucrativa, può dedurre i versamenti nel pilastro 3a dal reddito imponibile. Si consiglia di versare l’importo massimo per il periodo fiscale in corso per sfruttare appieno i vantaggi fiscali. Nel 2023 l’importo massimo per le persone attive affiliate a una cassa pensioni ammonta a 7056 franchi. È preferibile versare questo importo

Daniel Discianni, consulente alla clientela della Banca Migros ed esperto in materia fiscale.

sul proprio conto 3a entro metà dicembre (al limite anche un importo inferiore). Alla Banca Migros, ad esempio, è possibile effettuare il bonifico online entro il 28 dicembre compreso. Anche i riscatti nella cassa pensioni sono deducibili dal reddito imponibile. L’importo che può versare dipende dall’entità della sua lacuna previdenziale. Il riscatto massimo possibile è riportato sul certificato della cassa pensioni. Nel caso in cui le lacune fossero notevoli, dovrebbe distribuire i riscatti in più periodi fiscali in modo da beneficiare della massima deduzione fiscale. Prima

di effettuare il riscatto, consigliamo di richiedere una valutazione a uno specialista o a una specialista in ambito finanziario. Si sta avvicinando alla pensione? In questo caso prelevi gli averi previdenziali del pilastro 3a, della cassa pensioni o del conto di libero passaggio in modo scaglionato nell’arco del periodo fiscale corrente e di quelli successivi. Questo modo di procedere le consente di ridurre l’onere fiscale. Oltre alle donazioni a organizzazioni di pubblica utilità, nella dichiarazione d’imposta può dedurre anche i costi sanitari. Questo è possibile però solo per le spese

che non sono a carico della sua cassa malati. Inoltre la maggior parte dei Cantoni prevede un importo minimo pari al 5% del reddito netto, ossia il reddito netto meno le deduzioni. Se ha già sostenuto spese più elevate, potrebbe convenire a livello fiscale ad esempio l’acquisto di un nuovo paio di occhiali prima della fine dell’anno. Se possiede un’abitazione di proprietà c’è un potenziale di ottimizzazione per i costi di manutenzione: confronti i costi effettivi con il forfait di manutenzione del valore locativo. Potrà quindi dedurre l’importo più elevato.


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ATTUALITÀ

Cosa succederà dopo la battaglia di Gaza?

Medio Oriente ◆ Difficile stabilire un futuro visto che Israele non ha ancora elaborato dei piani precisi per l’avvenire Lucio Caracciolo

Un giorno, temiamo non presto, la battaglia di Gaza finirà. È curioso come finora non vi sia stato nessun serio dibattito su che cosa ne seguirà. La ragione principale è che Israele, sorpreso il 7 ottobre dall’incursione di Hamas nel proprio territorio, non ha ancora elaborato piani precisi per il dopoguerra. Inoltre, non è affatto detto che la fine della battaglia di Gaza significhi la fine dello scontro tra Hamas e Israele. Le probabilità di allargamento della guerra, a cominciare dalla Cisgiordania e dal fronte Nord, contro Hezbollah, restano considerevoli.

Non è affatto detto che la fine dello scontro significhi anche la fine del conflitto con Hamas, la guerra potrebbe allargarsi Restiamo però su Gaza. La prima cosa da stabilire è se Israele, ammesso che conquisti la Striscia, intenda rimanervi. La decisione dipenderà anche dal tipo di tregua che seguirà i combattimenti in corso. La prima cosa da valutare sarà la consistenza di una resistenza residuale di Hamas e di altri gruppi, jihadisti compresi, specie nei sotterranei della Striscia. Al di là di questo, tutto lascia pensare che Gerusalemme non abbia nessuna intenzione di lasciare quella zo-

na a qualsiasi altra entità. Certo non all’Autorità nazionale palestinese, semplicemente inaffidabile, debole e poco rappresentativa. L’idea di trasportare il modello cisgiordano, basato sulla collaborazione fra Israele e Anp, nella Striscia di Gaza appare piuttosto velleitaria. Dopo questa guerra tremenda, sostituire una formazione palestinese con un’altra sembra abbastanza assurdo. Resta in teoria l’ipotesi di una forza internazionale di interposizione, benedetta dalle Nazioni Unite. Per esempio una coalizione di Paesi arabi e qualche neutrale più un paio di occidentali. Una possibilità che non può essere totalmente esclusa, ma che certamente questo governo israeliano non privilegia. Lo scontro non solo retorico con le Nazioni Unite e con gli operatori onusiani sul terreno sarà troppo fresco per essere semplicemente trascurato. Assumiamo quindi che Israele resti a Gaza a tempo indeterminato. Ma con quanti palestinesi ancora nella Striscia? Stiamo assistendo in queste settimane al trasferimento forzoso di centinaia di migliaia di gaziani da nord verso sud. Tsahal ha ordinato lo sgombero anche di una parte della fascia meridionale di Gaza e tutto lascia pensare che una parte sostanziale della popolazione palestinese dovrebbe essere espulsa verso il deserto egiziano o altrove. Questo metterebbe

Soldati israeliani si apprestano a lasciare la Striscia di Gaza. Impossibile, oggi capire come evolverà la situazione. (Keystone)

in seria crisi i rapporti con l’Egitto. Il generale al-Sisi è stato categorico nell’escludere qualsiasi trasferimento di palestinesi da Gaza al suo Paese, in particolare nell’agitata penisola del Sinai, percorsa da bande di trafficanti e terroristi. Ma la pressione di una grande massa umana potrebbe alla fine travolgere anche gli egiziani e realizzare il sogno di molta parte degli israeliani, ovvero il trasferimento dei gaziani in Egitto. Posto che Israele resti a Gaza, che cosa può significare questo ritorno al 2005 sul piano del più generale scontro tra Israele e palestinesi? Si continua a parlare, indifferenti ai fatti,

della necessità di una soluzione a due Stati. Esclusa Gaza, a questo punto Israele dovrebbe retrocedere da gran parte degli insediamenti cisgiordani in modo da creare le premesse di una qualche forma, fittizia o poco più che decorativa, di sovranità palestinese. Nessuna componente dell’attuale Governo di destra-destra estrema è disponibile a una ritirata del genere. Anzi, all’ombra dello scontro maggiore, quello di Gaza, dopo il 7 ottobre i coloni più scatenati hanno avanzato le loro posizioni con un certo grado di protezione dell’esercito. Sicché la fine provvisoria della partita di Gaza rischia di aprire un ana-

logo scontro, di proporzioni però superiori, in Cisgiordania ovvero nelle terre che Israele battezza Giudea e Samaria. Replicando lo scenario gaziano, questa guerra finirebbe, nei sogni di una parte consistente della destra israeliana, in una seconda Nakba. Ripetizione dell’espulsione dei palestinesi dalle terre da loro abitate in conseguenza della nascita dello Stato di Israele (1948). A questo punto a tremare sarebbe la Giordania, parallelamente all’Egitto. L’«invasione» di centinaia di migliaia di palestinesi disperati verso un territorio geopoliticamente fragile come quello retto dal sovrano hashemita provocherebbe scontri sia con le Forze armate giordane sia con la robusta componente beduina della popolazione locale. Infine, il terzo fronte, quello libanese. Se Gaza tornasse sotto Gerusalemme, la tentazione del Governo israeliano potrebbe essere di assestare un colpo, forse non definitivo ma strategicamente importante, a Hezbollah. Il che vorrebbe dire mettere in crisi il sistema di collegamento di Teheran con i suoi agenti levantini e mediterranei. Qui però entriamo in un terreno totalmente inesplorato. Uno scontro sia pure indiretto tra Israele e Iran in Libano potrebbe coinvolgere alla fine gli stessi americani. E allora conviene fermare questa catena di ipotesi, perché sconfinerebbe in scenari che forse è meglio non esplorare. Annuncio pubblicitario

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Disturbi del sonno? L’eco della salvezza Ecco cosa aiuta davveronei versi della Anno LXXXVI 20 novembre 2023

azione – Cooperativa Migros Ticino

Feuilleton ◆ Uscita per la prima volta nell’agosto del 1956 presso la casa editrice tedesca Piper, Adelphi ripubblica la raccolta poetica che Invocazione all’Orsa Maggiore esce con testo a fronte a cura di Luigi Reitani e una nota di Hans Höller. Un’opera che catturò anche Luigi Forte

In Svizzera, una buona parte della po­ polazione soffre di disturbi del sonno. Sono molti i medicinali che promettono una soluzione, ma è importante sceglie­ re quello giusto. Per contrastare il pro­ blema sul lungo periodo, infatti, le per­ sone affette da disturbi del sonno de­ vono affidarsi a un farmaco adatto e ben tollerato. A tale scopo, sono disponibili in commercio farmaci a base di sostanze vegetali come Baldriparan – Per la notte. E questo è solo uno dei motivi per cui già diverse persone in farmacia chiedono di Baldriparan, disponibile senza ricetta.

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Fu una lettura sorprendente che la scrisse altresì nel corso degli anni l’uno non capisce l’altro. Temo quello mondo patriarcale e violento e le im- loro dialogo in versi, dove la vita filtra lanciò sulla scena letteraria di lingua Cin-quanta tre radiodrammi, e più che ama tanto la vita. Perché diventa magini che anelano all’emancipazio- imprevedibilmente bizzarra fino ad tedesca. A Niendorf, un piccolo pa- tardi racconti e romanzi come il sug- troppo potente». ne del destino femminile. Non a ca- annullarsi, per ambedue: Paul cadaese sul Mar Baltico, nel maggio del ge-stivo e misterioso Malina e gli inEppure nei suoi versi, che apro- so la Bachmann prese a suo tempo le vere nella Senna nel 1970 e lei, che lo 1952 la ventiseienne austriaca Inge- compiuti Il caso Franza e Requiem per no spazi illimitati verso nuove realtà, distanze dal mondo del padre e dalla ricorda nel suo romanzo Malina, vitborg Bachmann entusiasmò con le Fanny Goldmann. evoca spesso ciò che un tempo teme- comunità nazionalsocialista immer- tima, tre anni dopo, di un incendio sue poesie il pubblico del Gruppo 47, va. Impossibile sottrarsi al loro fa- gendosi nella scrittura come in una scoppiato nella sua abitazione romana cioè il fior fiore dei nuovi scrittori del «L’amore ha un trionfo scino, alla folgorazione delle imma- forma di emigrazione interna. Ep- in circostanze mai chiarite. dopoguerra, tanto da far dire al cri- e la morte ne ha uno, gini che dipanano una segreta, quasi pure la sua vita scorreva, ricca di enMa la novità della lirica della Batico Walter Jens che «l’ ora del mu- – ricorda – (...) mistica sensazione del mondo, ai to- tusiasmi e contraddizioni, di grandi chmann trae anche sostanza dalla tamento era suonata» e che la lirica ni malinconici, al ritmo talvolta sin- amori ed amicizie: con Paul Celan, tra-dizione e dal passato: la grande Noi non ne abbiamo» di quella giovane di Klagenfurt «ne ghiozzante scalfito dal dolore, all’urlo Max Frisch, il musicista Henze, con varietà di forme metriche e strofiche, aveva scandito i rintocchi». Ancora A cui si sommano pagine saggistiche, dell’amore incapace di spezzare l’in- il quale soggiorna in Italia, tra Ischia, talune cadenze romantiche e citaziooggi tale reazione non stupisce se si per esempio su Wittgenstein e Musil, cantesimo perverso che separa i ses- Napoli e Roma. ni da Saffo, Lucrezio e Virgilio, così sfogliano le sue due raccolte di poe- e le splendide lezioni di Francoforte si. E a cui tuttavia si rivolge accorata Con l’ebreo Celan, uno dei più come da poeti moderni a lei ben più sie, Il tempo dilazionato (1953) e In- che tenne nel 1959-1960, dove l’idea nell’ultima lirica della raccolta, Can- grandi lirici di lingua tedesca del do- consoni come Rilke e Trakl. La parovocazione all’Orsa Maggiore (1956), di letteratura è affidata, prima di ogni ti lungo la fuga, alla ricerca di reden- po-guerra, fu amore fin dall’inizio, la nata dal silenzio e con «grandi marquest’ultima appena edita con un ric- conoscenza, alla forza dirompente di zione: «O amore, che le nostre scor- filtrato da parole lucide e oscure e da gini bianchi», secondo l’e-spressione co apparato iconografico da Adelphi un pensiero nuovo, che le dà impul- ze/rompesti, gettandole via, il nostro irriducibili silenzi. Lui l’aspetta a Pa- di Paul Éluard, dev’essere garanzia di nella traduzione e con un eccellen- so e sostanza. Il mondo della scrit- scudo,/la difesa del tempo e la ruggi- rigi dove si è trasferito, «colmo di im- verità, rispondere a un preciso rigore te commento critico del germanista tura diventa per lei, nel tempo, luogo ne brunita degli anni!». pazienza», mentre lei lo trasfigura in etico, come aveva sentenziato il conLuigi Reitani, già curatore dell’edi- di sfida e ricerca impossibile di un’iNelle quattro sezioni del libro si seducenti visioni: «Per me tu sei il de- nazionale Karl Kraus, e così la invoca zione tedesca, morto prematuramen- dentità, nella consapevolezza di una percepisce una costante tensione di serto e il mare e tutto quanto è mi- nella poesia Discorso e diceria: «Vieni, * Carte giornaliere risparmio a partire da CHF 29.– con il metà-prezzo, da CHF 52.– senza metà-prezzo. In 2ª classe, valevoli un giorno civile nel raggio di validità dell’AG. vocazione che può annichilire e mal fondo, come a suo tempo ricordò lo stero». 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ATTUALITÀ

Ebrei e indiani

Curiosità ◆ I Bnei Menashe stanno con Tel Aviv Francesca Marino

Distruzione e desolazione nella Striscia di Gaza. Il Vaticano non può per sua natura accettare una guerra che colpisce indiscriminatamente tutti i palestinesi. (Keystone)

Quando le ferite si riaprono

Confronti ◆ Il conflitto in Medio Oriente mette ancora in crisi le relazioni tra Israele e la Chiesa cattolica. La necessità di fermare la follia della guerra Giorgio Bernardelli

Sono tante le macerie che la guerra che da un mese e mezzo infuria dentro e intorno a Gaza sta lasciando dietro di sé. Ma non ci sono solo quelle fisiche: accanto all’altissimo numero di morti, vi sono anche ferite mai completamente rimarginate che tornano ad aprirsi. Per esempio sul crinale delle relazioni tra Israele, il mondo ebraico e la Chiesa cattolica. Da quando all’alba del 7 ottobre sono scattati i raid omicidi di Hamas, l’annosa questione del diritto dello Stato ebraico a difendersi è andata di nuovo a intrecciarsi con i fantasmi del passato. Perché da una parte è naturale per Israele vedere nella furia omicida contro donne e bambini dei kibbutz il ritorno dell’odio di sempre contro gli ebrei. Ma – dall’altra – il Vaticano non può per sua natura accettare come risposta una guerra che colpisce indiscriminatamente tutti i palestinesi, cristiani arabi compresi. Di qui una frattura che sta tornando a farsi profonda.

L’antisemitismo è un tasto da sempre sensibile nei rapporti tra il mondo ebraico e la Chiesa cattolica L’antisemitismo, infatti, è un tasto da sempre sensibile nei rapporti tra il mondo ebraico e la Chiesa cattolica. Al di là di tanti gesti recenti, pesano nella memoria secoli di antigiudaismo, fatto di pregiudizi nei confronti dei «perfidi ebrei», come venivano chiamati nella celebre preghiera del Venerdì Santo che solo Giovanni XXIII decise di cancellare. Riguardo alla stessa Shoah, il mondo ebraico della Chiesa cattolica ricorda tuttora la mancata condanna esplicita del nazismo da parte di Pio XII (preoccupato per le possibili conseguenze sulle comunità cattoliche nei Paesi soggiogati dal Reich) e i bambini ebrei battezzati di nascosto, molto più delle centinaia di sacerdoti, suore e semplici fedeli cattolici che lo Yad Vashem a Gerusalemme ha riconosciuto come Giusti tra le Nazioni per l’aiuto disinteressato offerto ai figli di Israele nell’ora più buia. Certo, negli ultimi decenni vi sono stati punti di svolta a partire dalla di-

chiarazione Nostra Aetate adottata dal Concilio Vaticano II nel 1965 e dalla ripetuta condanna dell’antisemitismo da parte dei pontefici. Parole ribadite anche recentemente da papa Francesco in un discorso consegnato (però non pronunciato) a una delegazione di rabbini europei ricevuta in Vaticano. Per il mondo ebraico, però, la questione dell’antisemitismo, al giorno d’oggi, è inseparabile dalla difesa di Israele. Ed è su questo che le frizioni restano evidenti. Il Vaticano ha a lungo guardato con sospetto al sionismo. A fare problema è in particolare la sovrapposizione tra Gerusalemme e la sua identità ebraica, a scapito di tutti gli altri «strati» della sua lunga storia. Se per il popolo ebraico la Città Santa è il cuore dell’Eretz Yisrael, la Terra delle proprie radici a cui ha continuato a guardare anche durante tutta la diaspora, per il mondo cattolico – che in questo stesso posto venera i luoghi dove Gesù è vissuto – è la casa della comunità cristiana delle origini, che qui vive da duemila anni e parla e prega in arabo, perché si riconosce parte di questa identità. Si capisce, allora, perché politicamente il Vaticano tenda a guardare con particolare attenzione alle sofferenze del popolo palestinese, tanto nella sua componente maggioritaria musulmana quanto nella sua piccola comunità cristiana. Non significa ignorare le ragioni di Israele: la Santa Sede negli anni ha da tempo sposato la soluzione dei due Stati per i due popoli. E non è un caso che le relazioni diplomatiche tra il Vaticano e lo Stato di Israele siano arrivate con Giovanni Paolo II proprio nel 1993, nella stagione in cui con il processo di pace avviato a Oslo questa prospettiva appariva più vicina. Tanto è vero che poi, quando quel negoziato è fallito, Roma non ha rinunciato a portarla avanti, trasformando i rapporti con l’Autorità nazionale palestinese in un vero e proprio riconoscimento formale dello Stato della Palestina (cosa che le democrazie occidentali non hanno fatto). Alla formula dei due Stati, però, la diplomazia vaticana aggiunge una postilla particolarmente indigesta per Israele: invoca uno «statuto internazionalmente garantito» per le tre comunità religiose (ebrei, cristiani e

musulmani) a Gerusalemme. Una posizione difficilmente conciliabile con l’idea della Città Santa come «capitale unica e indivisibile» di Israele. E ancora di più con la crescita impetuosa in questi ultimi anni di un nazionalismo ebraico esclusivista a Gerusalemme. Ci sono state anche inchieste delle tv israeliane sul moltiplicarsi di atti di ostilità all’interno della Città Vecchia da parte dei gruppi ebrei ultra-ortodossi (gli «haredim») nei confronti dei religiosi cristiani. Si inserisce, dunque, dentro a questo rebus complesso la guerra di Gaza. Dopo le stragi del 7 ottobre il Governo Netanyahu ha protestato formalmente per le parole con cui papa Francesco ha sì condannato le violenze e il rapimento degli israeliani, ma senza nominare espressamente Hamas. Da parte sua, nei ripetuti appelli per un cessate il fuoco immediato accompagnato dalla liberazione degli ostaggi, Bergoglio ha ben presente che sotto i bombardamenti dell’aviazione con la stella di Davide, in mezzo alla popolazione civile, c’è anche la piccolissima comunità cristiana della Striscia, poche migliaia di fedeli accanto a oltre un milione di musulmani. Anch’essa è stata colpita direttamente dalle rappresaglie israeliane contro gli islamisti: vi sono stati diversi morti tra quanti avevano cercato rifugio nel compound della storica chiesa ortodossa di San Porfirio, che veniva ritenuta un luogo sicuro. Per questo papa Francesco continua a spendersi in prima persona per il cessate il fuoco: di recente ha parlato al telefono persino con il presidente iraniano Ebraim Raisi, referente politico fondamentale per Hamas. Ma questo bussare del papa anche alle porte dell’arcinemico a Teheran non fa che insospettire ulteriormente Israele. Mentre – come accade puntualmente a ogni ondata di questa lunghissima guerra – i confini tra la difesa della causa palestinese e l’antisemitismo si fanno pericolosamente labili. Fermare il prima possibile questa follia e rimettere davvero al centro il tema della pace in Medio Oriente è dunque fondamentale oggi anche per non far tornare indietro le lancette della storia nei rapporti tra il cristianesimo e quelli che Giovanni Paolo II amava definire i propri «fratelli maggiori».

La notizia è di quelle che non arrivano sui giornali internazionali e, per quanto sembri curioso, nemmeno su quelli indiani. Di recente il «Jerusalem Post», quotidiano israeliano, riportava: «Più di 200 ebrei indiani, membri della comunità Bnei Menashe, dopo il massacro del 7 ottobre sono stati chiamati per il servizio di riserva o per il servizio di combattimento attivo (…) Settantacinque dei recenti immigrati dall’India si sono arruolati in unità di combattimento, mentre 140 sono stati chiamati per il servizio di riserva in Israele (…) Il 99% degli uomini in età militare immigrati dall’India si è unito alla lotta di Israele contro il gruppo terroristico di Hamas, mentre il 90% delle donne si è iscritto al servizio nazionale». Sembra un film ma è una storia vera. La storia di qualche migliaia di donne, uomini e bambini della tribù dei Bnei Menashe che vivono in India, nello Stato del Mizoram. Una tribù con consuetudini e costumi un po’ diversi dalle altre, che si tramanda da secoli il racconto di quando i padri dei loro padri attraversarono la Persia, l’Afghanistan, la Cina e il Tibet prima di approdare e stabilirsi, finalmente, in Mizoram. Che è uno degli Stati del nord-est indiano, zona dai primi anni settanta in cui per tradizione i missionari cristiani hanno trovato terreno fertile tra i tribali animisti. Succede così che, proprio negli anni settanta, una Bibbia, portata dai pentecostali viene tradotta in Mizo. E che i Bnei Menashe cominciano a notare similitudini sorprendenti, troppe similitudini per poter essere casuali, tra le loro tradizioni e la cultura e le tradizioni ebraiche. Uno studioso appartenente alla tribù, Zaithanchuungi, comincia così una febbrile attività di ricerca, i cui risultati vengono presentati nel 1981 nel corso di vari seminari di studio a Israele: i Bnei Menashe sarebbero una delle dieci tribù perdute di Israele, discendenti da Menashe, figlio di Giuseppe. Aiutati da varie organizzazioni israeliane, ottocento Bnei Menashe emigrano in Israele. Le autorità israeliane, però, nel 2003, bloccano la concessione dei visti, sostenendo che non si tratta di veri ebrei. I Bnei Menashe non si arrendono e continuano testardamente a perseguire il sogno di emigrare finalmente nella terra promessa, la terra dei loro padri. Fino a che nel 2005 un rabbino sefardita, Shlomo Amar, si reca in Mizoram e questa volta, dopo approfondite analisi, certifica che si tratta davvero di una delle tribù perdute. Cinque rabbini vengono inviati per convertire ufficialmente i Menashe all’ebraismo ortodosso e Israele concede i visti di emigrazione. I primi arrivano in un freddo dicembre: il più piccolo aveva due settimane, la più vecchia 84 anni. Non si sono lasciati nulla alle spalle, sicuri di non tornare mai più indietro anche se «l’India è stata buona» con loro. Nella terra di Gandhi antisemitismo e persecuzioni su base razziale non sono mai esistiti e continuano a non esistere. L’India è uno dei pochi Paesi al mondo, difatti, in cui l’antisemitismo non ha mai trovato terreno fertile. Come testimoniava anni fa David Nohum, depositario della memoria storica della comunità ebraica di Calcutta e titolare di una pasticceria che dai primissimi anni del ’900 sforna torte e pasticcini, pane all’aglio, tramezzini e altre golosità di stampo più o meno occidentale. Un’istituzione cittadina, esattamente come il suo proprietario. La

comunità ebraica di Calcutta contava all’inizio del ’900 circa cinquemila persone. Ebrei emigrati da Baghdad verso Oriente dal diciottesimo secolo in poi per sfuggire alle persecuzioni e per sfruttare le opportunità generate dal colonialismo britannico. A testimoniare il passato splendore rimangono soltanto gli edifici: tre sinagoghe, due sale di preghiera, due scuole e il cimitero. Le sinagoghe vengono mantenute in condizioni impeccabili ma non vengono più adoperate per pregare: a volte si fatica anche a trovare i dieci uomini la cui presenza è prescritta per la rituale preghiera. Alla Jewish Girl School di Park Street non c’è più nemmeno una ragazzina ebrea. E un matrimonio celebrato in città con rito ebraico una ventina di anni fa è finito su tutti i giornali locali: era il primo dopo più di cinquant’anni. Nonostante difatti la comunità abbia prosperato sia ai tempi degli inglesi sia dopo, alla fine della Seconda guerra mondiale molti se ne sono andati. La maggior parte in Israele, gli altri in Canada o negli Stati Uniti. «Anche io ero emigrato in Israele», raccontava sorridendo uno dei membri più anziani della comunità, «ma dopo otto anni sono tornato indietro. Mi mancava Calcutta, mi mancava l’India. Mi mancava casa mia, la mia terra, le mie tradizioni».

Membri della comunità Bnei Menashe a Tel Aviv nel 2021. (Keystone)

In effetti le comunità ebraiche in India non hanno conosciuto persecuzioni, discriminazioni né, tantomeno, l’Olocausto. E, durante gli anni in cui il nazismo e il fascismo imperversavano a occidente, molti sono stati accolti e ospitati in India. La comunità locale ha gelosamente custodito per molti anni la propria identità, ma è sempre stata perfettamente integrata e in armonia con le altre comunità religiose. Il custode della sinagoga, per uno di quei miracoli possibili soltanto in India, è difatti un musulmano. Che si toglie le scarpe e si mette in testa una kippah per accompagnarti all’interno. E nessuno lo trova strano. I Bnei Menashe, come molti ebrei indiani, sono emigrati nella terra promessa: l’anno scorso hanno aperto in Israele la prima sinagoga destinata alla comunità, ma molti, come tanti ebrei indiani, sono tornati in India perché prima ancora che ebrei si sentivano indiani. Pronti però a tornare per combattere in difesa di Israele contro il terrorismo di Hamas. Perché, se è vero che l’India non ha mai conosciuto l’antisemitismo, conosce bene il terrorismo dei jihadi di cui è vittima fin dai tempi della Partition, la divisione tra India e Pakistan che ha causato uno dei bagni di sangue peggiori della storia e che da allora continua a causare morti e atrocità di ogni genere. E nessun indiano, a qualunque religione appartenga, ha intenzione di lasciarlo vincere.


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ATTUALITÀ

Rimpasto di Governo a Londra, il ritorno a sorpresa di David Cameron

Regno Unito ◆ Un colpo di scena spettacolare dopo il siluramento dell’insidiosa ministra dell’interno Suella Bravermann Barbara Gallino

Ci sono due premier alla guida del Regno Unito. Rishi Sunak ha conferito infatti l’incarico di ministro degli Esteri al suo predecessore David Cameron, nell’ambito di un atteso rimpasto di Governo che ha visto l’ex primo ministro sostituire James Cleverly e quest’ultimo prendere il posto dell’insidiosa ministra dell’Interno Suella Braverman. Se il siluramento della Braverman era nell’aria da tempo dopo alcune sue controverse dichiarazioni e ripetute sfide alla leadership, il ritorno nell’agone politico di Cameron è certamente un colpo di scena straordinario. Così eclatante da distogliere quasi completamente l’attenzione dalla pericolosa eliminazione della ribelle ministra, che sicuramente ha alienato al premier di origine indiana i consensi dei falchi oltranzisti del partito conservatore. Una strategia che delinea una scelta di campo chiara da parte di Downing Street: un allontanamento dalla destra più radicale ed un tentativo di recuperare il favore del centro. Quello stesso centro dal quale sta attingendo forza il leader dell’opposizione, Keir Starmer, che – ripudiando le posizioni di estrema sinistra del suo predecessore Corbyn – ha portato il partito laburista a svettare nei sondaggi con un distacco di 20 punti dai Tory. Per insignire dell’incarico Cameron, che aveva lasciato Downing Street ed il Parlamento all’indomani del fallimentare referendum su Brexit sette anni fa, gli è stato conferito in fretta e furia il titolo nobiliare di Pari a vita, facendolo entrare di diritto nella Camera dei Lord. In Gran Bretagna, infatti, non esistono i cosiddetti ministri tecnici. Per divenire titolari di un dicastero, occorre essere membri del Parlamento e dunque di una delle due camere: quella dei Comuni o quella dei Lord. Non è il caso dell’ex premier, che dopo la disfatta alla consultazione popolare del 2016 sull’uscita del Regno Unito dalla Ue da lui avversata, si è tenuto lontano da Westminster. Perché è ritornato? «Per spirito di servizio», ha dichiarato il neo-Lord. «Abbiamo davanti sfide internazionali spaventose, inclusa la guerra in Ucraina e la crisi in Medio Oriente», ha sottolineato. «Anche se non sono

stato politicamente in prima linea negli ultimi sette anni, spero che la mia esperienza come leader dei Conservatori per 11 anni e come Primo Ministro per 6, mi consentano di aiutare il Premier a fronteggiare queste sfide». Come Pari, Cameron potrà fare politica solo nella Camera dei Lord. Pertanto, quando si dovrà organizzare un dibattito di politica estera alla Camera dei Comuni, dovrà mandare un sottosegretario che sia membro della Camera dei Comuni per aggirare questo ostacolo di carattere regolamentare.

Cameron era uscito dalla scena politica sette anni fa dopo la cocente sconfitta della Brexit. (Keystone)

Più autorevolezza per Sunak Cameron è il sesto ministro degli Esteri che opera dalla Camera dei Lord. Non si tratta di una circostanza senza precedenti, ma è inusuale al giorno d’oggi. Se in epoca vittoriana era la norma – basti pensare a Lord Palmerston o al Duca di Wellington – in tempi più recenti, l’ultimo ad esercitare questa funzione dalla camera non elettiva fu Lord Carrington dal 1979 al 1982 sotto Margaret Thatcher. È anche insolito che un ex primo ministro torni al Governo alle dipendenze di un successore. L’ultima volta era successo oltre 50 anni fa con Alec Douglas-Home divenuto ministro degli Esteri nel governo Wilson. L’accettazione dell’incarico da parte di Cameron conferisce a Sunak una maggiore autorevolezza. La Braverman, ergendosi ad alfiere dei falchi Tory, in più occasioni lo aveva prevaricato o messo in imbarazzo con dichiarazioni non consone ad una ministra degli Interni. Prima attaccando le forze di polizia, ritenute troppo morbide o addirittura di parte verso i manifestanti pro-Palestina che nelle ultime settimane hanno riempito le strade londinesi con le loro «marce di odio» e poi minimizzando la tragedia dei senza tetto, adducendo che la loro condizione fosse semplicemente «una scelta di stile di vita». Sunak dava l’impressione di non aver controllo su di lei, ma aspettava solo il momento buono per sbarazzarsene. Ed eccolo sfoderare a sorpresa l’asso Cameron dalla manica, mettendo Suella e le sue velleità di leader al loro posto. Almeno, per il momen-

to. Effettivamente l’ex premier è un peso massimo della politica e la sua rete di relazioni nell’attuale momento di crisi geopolitica non può che rafforzare la posizione della Gran Bretagna sulla scena internazionale, ma anche alleggerire il carico di lavoro di Sunak, libero di concentrarsi sulla politica interna in vista delle elezioni il prossimo anno. Per quanto alcuni dei player globali dell’era di Cameron come Angela Merkel, Barack Obama, Nicolas Sarkozy abbiano lasciato ormai la scena, altri come Donald Tusk, Vladimir Putin, Benjamin Netanyahu, Re Abdullah di Giordania, Abdel Fattah el-Sisi, Xi Jinping e Narendra Modi sono ancora protagonisti chiave del panorama internazionale. La nomina di Cameron, inoltre, ha oscurato notevolmente l’opinabile gestione della mina vagante Braverman da parte di Downing Street e ha il pregio di riattrarre l’elettorato più moderato e riscaldare i rapporti con l’Europa. L’ex Premier oltre ad avere al suo attivo politiche socialmente liberali che hanno promosso l’avanzamen-

to politico delle donne e legalizzato il matrimonio egualitario, era stato un «Remainer» e aveva indetto il controverso referendum su Brexit sotto la spinta della destra radicale nella convinzione, seppure erronea, che il Regno Unito sarebbe rimasto nell’Ue. Non stupisce che il suo ritorno sia stato ricevuto positivamente nel Vecchio Continente con messaggi di congratulazioni da parte del Premier olandese Mark Rutte e dei ministri degli Esteri di Francia, Germania, Irlanda e Svezia. Non altrettanto calorosa la reazione dagli esponenti più reazionari del partito, indispettiti o indignati dal rimpasto. La parlamentare Tory Andrea Jenkyns ha già depositato una lettera di sfiducia nei confronti di Sunak, inneggiandone la sostituzione con «un vero leader del Partito Conservatore».

Gli scontenti Anche l’ardente Brexiteer Jacob Rees-Mogg ha giudicato sbagliata la cacciata di Braverman, elogiando-

ne la capacità di intercettare il sentimento di molti elettori e l’ex sottosegretario Simon Clarke – vicino a Liz Truss e a Boris Johnson – ha dichiarato con una metafora calcistica che «non è mai saggio lasciare scoperta l’ala destra, poiché la squadra potrebbe rimanere malamente sbilanciata». L’ingaggio di Cameron ed il licenziamento di Suella rischiano di rivelarsi armi a doppio taglio per Rishi. Reclutando l’ex leader Tory, il premier non sembra avere dato importanza al suo coinvolgimento, seppure senza conseguenze legali, nello scandalo della bancarotta nel 2021 della società di servizi finanziari Greenshill Capital, per la quale Sir David aveva lavorato come consulente e lobbista, facendo pressioni sugli ex colleghi di palazzo per ottenere prestiti dal Governo. Sunak ha sottovalutato anche lo spirito vendicativo della Braverman, che in una lettera lo ha già apertamente accusato di avere tradito gli accordi con lei segretamente siglati in cambio del suo decisivo sostegno per entrare a Downing Street, promettendo battaglia. Annuncio pubblicitario


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ATTUALITÀ / RUBRICHE

Il Mercato e la Piazza

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di Angelo Rossi

Ernst Buschor, l’aziendalista con due marce in più ◆

Verso la fine di ottobre è morto, all’età di 80 anni, il professor Ernst Buschor. È stato un insegnante, un ricercatore, un perito e un uomo politico molto dinamico e criticato. A livello nazionale lo si ricorda soprattutto per l’impeto con il quale, verso la fine degli anni Ottanta del secolo scorso, ha messo in piedi e contribuito a diffondere il nuovo piano contabile per le amministrazioni pubbliche e a far conoscere il New Public Management dalla cattedra che gli aveva assegnato l’Università di San Gallo. Nel suo Cantone lo si ricorda invece come un consigliere di Stato innovatore che ha introdotto riforme nella scuola pubblica. Tra l’altro è stato il primo consigliere di Stato in Svizzera a introdurre l’insegnamento dell’inglese nelle scuole elementari e a promuovere l’informatica nella scuola dell’obbligo. Qui lo ricorderemo soprattutto per le sue attività di pioniere dell’economia aziendale nel set-

tore pubblico. Cominciamo dalla contabilità. A metà del ventesimo secolo non era raro in Svizzera trovare ancora Comuni che non disponevano di una contabilità aggiornata. Mi ricordo la figura del segretario di un Comune di una delle valli del Grigioni italiano che sosteneva: «La situazione finanziaria del mio Comune ce l’ho nelle mie tasche. Nella tasca sinistra c’è la lista delle entrate e in quella destra quella delle uscite». Posso convenire che per seguire i movimenti finanziari di quel piccolo Comune non sarebbe stato necessario mettere in piedi una contabilità molto dettagliata. Ma anche se tutta la contabilità si fosse ridotta al conto cassa non era pensabile che lo stesso fosse a disposizione della comunità solo perquisendo le tasche del segretario comunale. Anche per ragioni di trasparenza, direte voi. Esagero? Forse sì. Ma è anche vero che con l’antico sistema di suddi-

videre la spesa in ordinaria e straordinaria, senza una definizione precisa di cosa appartenesse alla prima e cosa alla seconda, la manipolazione del risultato d’esercizio erano all’ordine del giorno. Per non parlare degli innumerevoli fondi elencati nei conti del Comune e spesso gestiti male. Ricordo poi che prima che si introducesse il nuovo piano contabile erano pochi i Comuni che disponevano di un bilancio. Di conseguenza la gestione dell’attivo e del debito pubblico, nonché il finanziamento degli investimenti, erano attività che difficilmente potevano essere pianificate. Il nuovo piano contabile per Cantoni e Comuni, voluto da Buschor, ha contribuito in modo essenziale a migliorare la trasparenza nella gestione delle finanze del settore pubblico. Ha inoltre consentito di introdurre standard contabili che stimolano Cantoni e Comuni a far meglio in materia di gestione finanziaria pro-

prio perché, avendo adottato un piano contabile comune, oggi sono in grado di misurare la propria efficienza e di confrontarsi con la situazione di enti che sono in grado di produrre risultati migliori. Superate alcune malattie d’infanzia il nuovo piano contabile continua a essere applicato con risultati eccellenti. Anche in Ticino. Reputo che il colpo di acceleratore che ha ricevuto il processo di aggregazione dei Comuni del nostro Cantone, a partire dall’inizio del nuovo secolo, non ci sarebbe stato senza la sua adozione. La stessa ha facilitato di molto la ricognizione dei flussi finanziari dei Comuni partecipanti al processo. Prima di lasciare l’Università di San Gallo per accedere alla carica di consigliere di Stato del Canton Zurigo Ernst Buschor cominciò anche a predicare il vangelo dell’NPM, il New Public Management, che avrebbe dovuto trasformare la gestione degli en-

ti pubblici avvicinando la stessa – nella misura del possibile ovviamente – a quella delle aziende del settore privato. La sorgente di ispirazione principale dell’NPM erano le riforme amministrative dei Governi neo-liberisti venuti al potere negli anni Ottanta dello scorso secolo. Con queste riforme si cercava di introdurre nell’amministrazione pubblica principi e tecniche di management applicati dalle aziende del settore privato. Questi riguardavano sia l’organizzazione delle amministrazioni pubbliche sia la gestione delle stesse. Con l’NPM fecero la loro entrata nel settore pubblico anche le tecniche del marketing e i controlli di qualità. Non si può affermare che con l’NPM Buschor ebbe il medesimo successo che con il nuovo piano contabile. Esperimentazioni e piani di riforma, specie a livello dei Comuni, se ne fecero molti. Ma quasi altrettanti fallirono o restarono lettera morta.

In&Outlet

di Aldo Cazzullo

Meloni e Salvini quasi nemici ◆

Alla vigilia delle elezioni politiche del 25 settembre 2022 Elly Schlein disse: «Sono una donna, amo un’altra donna, non sono una madre, ma non per questo sono meno donna». Con quelle parole intendeva porsi come l’anti-Meloni. E con questa logica la borghesia intellettuale di Milano, Torino, Bologna, Roma, Napoli l’ha scelta nelle primarie aperte come leader del PD, rovesciando il verdetto degli iscritti al Partito democratico che avevano indicato come segretario il presidente dell’Emilia Romagna Stefano Bonaccini. Ma i simpatizzanti della sinistra italiana hanno ritenuto utile contrapporre a una radicale di destra – il profilo di Giorgia Meloni – a una radicale gauchista. Finora il calcolo non ha funzionato. Il Governo perde colpi nei sondaggi. Per la prima volta la maggioranza degli italiani si esprime contro l’Esecutivo guidato da Meloni. Eppure il PD non cresce, anzi nei

sondaggi naviga attorno al 18%, vale a dire sotto il risultato – già modesto – delle elezioni politiche. Questo accade perché Schlein tenta di rianimare un elettorato di estrema sinistra che non esiste o è comunque numericamente poco significativo, anziché tentare di prendere voti dall’altra parte, cioè di essere competitiva se non con la destra almeno con il centro. Giorgia Meloni è messa meglio, ma non tanto. Si assiste a una strana divaricazione tra la popolarità della premier, che è ancora alta, e quella del suo Governo, che sta crollando. Meloni è una donna molto forte. La intervistai quando uscì il suo libro autobiografico, Io sono Giorgia, che nelle prime pagine ruota attorno alla questione del padre, che di fatto l’aveva rifiutata. «Quando è morto, non ho provato nulla», ha raccontato. «Né dolore, né gioia; che sarebbe comunque stata un’emozione. Non lo odiavo, e non lo

Il presente come storia

amavo. A lungo ho creduto che il fatto di non avere un padre non mi avesse cambiata. Solo di recente ho capito che non è così. Non avere un padre è come un buco nero, un pozzo chiuso. E io quel pozzo non potevo permettermi di riaprirlo». Per questo, sostiene Meloni, lei è così dura ed esigente, con gli altri e con sé stessa; perché la sua più grande paura è deludere; e il retropensiero con cui ha fatto tutto quello che ha fatto è dimostrare che il padre aveva sbagliato a non occuparsi di lei. Non è quindi in discussione la sua tenuta psicologica, fisica, politica. Il problema è il suo Governo. L’economia non va bene. I prezzi continuano a salire. La Confindustria dice che nella manovra economica non c’è nulla per le imprese e per la crescita. Due guerre infuriano sui confini d’Europa; e se questo nell’immediato favorisce la stabilità, alla lunga le difficoltà del Governo sono destinate a emergere.

Con l’opposizione ufficiale debole e divisa, la vera opposizione Meloni ce l’ha in casa. In particolare per via di Matteo Salvini. Sotto certi aspetti, Giorgia e Matteo si assomigliano. Sono cristiani. Sono una mamma e un papà. E sono rivali. Non lo ammetteranno mai. Ma il vento nazionalista – e il sistema proporzionale con cui a giugno si voterà alle Europee – mettono di fatto Meloni e Salvini una contro l’altro. La generazione è la stessa. Sono diversi per formazione: lei romana, lui milanese; lei cresciuta coerentemente tra Movimento sociale e Alleanza nazionale, lui con qualche sbandata giovanile per i centri sociali e i «comunisti padani». Hanno gli stessi alleati: Marine Le Pen in Francia, Santiago Abascal in Spagna, Viktor Orbán in Ungheria, Jarosław Kaczyński in Polonia; e poi ovviamente Trump. Però Giorgia e Matteo si marcano stretto. Solidarizzano in pubblico e si punzec-

chiano appena possono. La pensano allo stesso modo su molte cose; ma alla prima occasione prendono posizioni diverse. Meloni resta di gran lunga la più forte; ma Salvini ormai non ha molto da perdere. Lei rappresenta una destra senza complessi, apertamente anti-antifascista; ma si è vista scavalcare da Salvini, che in passato ha rivendicato ad esempio il feeling con Casa Pound. Inoltre Meloni ha aperto le porte a reduci berlusconiani che lui tiene a distanza. Fratelli d’Italia insomma si è collocata al centro rispetto alla Lega, punta all’elettorato azzurro, soprattutto al sud, dove non tutti sono disposti a dimenticare il decennale antimeridionalismo degli eredi del separatista Umberto Bossi e del federalista Roberto Maroni. Del resto, con il proporzionale, la concorrenza non è tanto con gli avversari, quanto con i falsi amici. Che fanno in fretta a diventare quasi nemici.

di Orazio Martinetti

La rivincita del conformista

Ieri si sono tenuti gli ultimi ballottaggi per il Consiglio degli Stati. Analisti del voto e politologi potranno ora ragionare sui risultati definitivi, anche se già molto è stato detto su queste federali dell’autunno 2023. Ci è parso comunque che l’esito non abbia fatto i titoli dei giornali esteri; anzi, alcuni non lo hanno nemmeno menzionato. La Svizzera è diventata irrilevante nel panorama internazionale, la sua vantata arte diplomatica conta sempre meno? Questa è l’impressione, ma speriamo di sbagliarci. Tutti i commenti si sono soffermati sul fatto che l’UDC abbia rialzato baldanzosamente la testa, recuperando il terreno perduto nel 2019. L’altro dato che ha colpito gli osservatori è stato l’arretramento dei Verdi, sorprendente se consideriamo quanto inchiostro faccia scorrere il cambiamento climatico in atto, con le manifestazioni nelle grandi città, le mo-

bilitazioni degli studenti e i blocchi stradali. Ma forse sono proprio queste iniziative, giudicate eccessive e irritanti, ad aver allontanato dalla causa i potenziali simpatizzanti, coloro che ammettono la gravità del climate change ma non i metodi che si intendono adottare per invertire la rotta. Una discrepanza, quella tra la percezione dell’emergenza e le possibili soluzioni, che il barometro elettorale aveva già segnalato nel corso dell’estate, assieme ai mugugni che hanno accompagnato la liquidazione del Credito Svizzero. Quindi una Svizzera politica inclinata a destra. Questo il risultato, ma non è una novità. L’UDC è il primo partito da decenni, e la caduta del 2019 (-12 seggi al Nazionale) è stata quasi recuperata lo scorso 22 ottobre (+9). L’UDC può inoltre contare sull’appoggio di formazioni radicate regionalmente (La Lega dei ticinesi con 1 seggio), l’Unione democratica federale (2), il

Movimento dei cittadini ginevrini (2). Il Partito socialista (PS) non ha invece più avversari alla sua sinistra: i partiti dell’area neo-comunista o genericamente d’orientamento marxista sono spariti dall’emiciclo. Insomma, nonostante la proliferazione dei partiti, il Parlamento si ritrova con una composizione semplificata, dominata da UDC, Liberali, Alleanza del Centro (con i due deputati evangelici), Verdi liberali e Gruppo rosso-verde: complessivamente occupano 195 seggi su 200. Sulla carta pare dunque assistere al ritorno della tripartizione classica, più volte data per superata ma che evidentemente risorge ogni volta dalle ceneri, ossia lo spettro destra-centro-sinistra. L’analisi post-voto ci dirà poi quali partiti hanno raccolto i consensi dei giovani, delle donne, degli anziani, dei cittadini rispetto ai campagnoli. Interrogato su quale fosse l’elemento distin-

tivo, per non dire unico, della politica elvetica, Georges-André Chevallaz, consigliere federale dal 1974 al 1983, rispondeva: «Du mouvement dans la stabilité». Più recentemente Markus Freitag, politologo dell’università di Berna, ha parlato di una vittoria del «Bünzlitum», categoria para-antropologica del lessico svizzero-tedesco che possiamo rendere in italiano con atteggiamento benpensante e conformista. I «Bünzli», secondo Freitag, sono i cittadini prevalentemente conservatori vicini all’UDC ma non solo: amanti dell’ordine e della legge, temono l’insicurezza e tutto quanto mette in pericolo la loro consolidata piramide di valori morali e religiosi. Secondo Freitag, i benpensanti costituiscono la metà dell’elettorato e a guidarli sono sentimenti che oscillano tra la paura e la rabbia. Una diagnosi, questa, che ricorda quanto scriveva negli anni 70 un filosofo francese, Jean Baudrillard,

il quale invitava a scrutare il moto ondoso della «maggioranza silenziosa», un’entità nebulosa, fluttuante, allergica alle ideologie e alle chiacchiere degli intellettuali salottieri. Quattro anni or sono furono premiati i programmi che prevedevano una svolta nei comportamenti e nei consumi; ora questa disponibilità è venuta meno, complici i conflitti nel mondo, le migrazioni, i costi della sanità e degli alloggi, i continui rincari che assottigliano il bilancio delle famiglie, la prospettiva di un’erosione del benessere. Di qui la preferenza per l’«usato sicuro» a fronte di proposte ritenute avventurose. Ora tocca ai deputati eletti ritrovare il bandolo di questa ingarbugliatissima matassa. Tra quattro anni si tireranno le somme; ma prima, nel giugno del 2024, si terranno le elezioni per il rinnovo del Parlamento europeo. Una consultazione che avrà ripercussioni anche sulla Svizzera extra-Ue.


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Assicurarsi che la camera da letto sia ben ventilata. La temperatura deve essere piuttosto fresca, al massimo 16-18 gradi.

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CONSIGLIO 3

Niente doccia fredda la sera, meglio un bagno caldo e rilassante. Anche le calze calde dovrebbero favorire un buon sonno.

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CULTURA ●

Omaggio a Anna Felder Un intenso ricordo della scrittrice Gran Premio svizzero di letteratura scomparsa settimana scorsa

Amore, lettere e poesia La lirica di Ingeborg Bachmann e il suo carteggio con Max Frisch al centro di due pubblicazioni

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Il decano della fotografia Alberto Flammer, da poco scomparso, racconta la sua ultima pubblicazione Grenzland Tessin

Il successo di Paola Cortellesi La sua prima opera alla regia sbanca al botteghino, C’è ancora domani piace a pubblico e critica

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I Carmina Burana ispirano l’arte di Giuliano Collina Mostre ◆ Fino al 3 dicembre al m.a.x. museo di Chiasso, grazie alla donazione della collezionista Milly Brunelli Pozzi, si possono ammirare le opere pittoriche dell’artista italiano influenzate dai componimenti poetici Alessia Brughera

I Carmina Burana sono una raccolta di componimenti poetici dell’XI e XII secolo scoperta in un codice miniato del Duecento, il Codex Buranus, proveniente da un convento della Baviera. Questa monumentale antologia riunisce testi in latino vernacolare e in tedesco arcaico destinati al canto. I loro autori, rimasti per la quasi totalità anonimi, erano quegli studenti girovaghi (i clerici vagantes) che nel Medioevo erravano per tutta Europa da un’università all’altra e che costituivano una compagine di individui eruditi in cui albergava non solo un’indole goliardica ma anche un forte desiderio di ricondurre l’ordine ecclesiastico sulla retta via. Non stupisce allora che i temi trattati da questi scritti siano la volatilità della fortuna, la caducità dell’esistenza, l’ebbrezza amorosa e i piaceri terreni, così come la brama di potere delle autorità clericali e il disprezzo per il denaro.

tendo sempre in discussione il proprio lavoro. «Ho utilizzato l’acquaforte come se potesse essere una matita, una gomma, un pennello, un colore», confessa l’artista. E difatti, tanto fine e ricercata è la tecnica, che osservando alcune incisioni ci sembra di trovarci di fronte a degli acquerelli. La scelta di un registro cromatico energico, poi, esprime bene la visionarietà degli scenari e dei personaggi rappresentati.

Di grandissimo impatto, poi, è l’incisione che chiude il ciclo grafico, intitolata AMARA TANTA TYRI

I Carmina Burana hanno subito colpito profondamente Collina, che vi ha trovato molte affinità con concetti e figure già appartenenti al proprio lessico espressivo I componimenti dei Carmina Burana sono noti ai più per l’epica forma musicale data loro dal musicista tedesco Carl Orff, il cui brano O Fortuna, per la sua poderosa strumentazione e l’incedere coinvolgente, è diventato una delle musiche colte contemporanee di maggior successo. Testo complesso e variegato, i Carmina Burana non potevano passare inosservati a un artista che spesso ha intrecciato nel proprio lavoro arte e letteratura, riuscendo a condensare con inusuale abilità trame e racconti in immagini pittoriche: Giuliano Collina. Scovati dal pittore lariano in libreria in una versione fresca di stampa dei primi anni Duemila, periodo in cui hanno suscitato un rinnovato interesse tra gli studiosi, i Carmina Burana hanno subito colpito profondamente Collina, che vi ha trovato molte affinità con concetti e figure già appartenenti al proprio lessico espressivo. Come la sua arte, infatti, anche questa miscellanea di canti toccava argomenti legati all’esistenza dell’uomo e al suo destino, e ben si prestava, quindi, a essere interpretata dall’artista nella sua valenza metaforica aggiornata alle atmosfere del presente. È così che, nel 2004, dagli scrit-

Giuliano Collina, FORTUNE ROTA VOLVITUR, 2004. Acquaforte e acquatinta incisa su lastra di rame. (Collezione d’arte m.a.x. museo, Chiasso, Foto Carlo Pedroli)

ti dei Carmina Burana che più hanno suggestionato l’artista nasce una cartella di dieci incisioni di grande formato ad acquaforte e acquatinta, un lavoro emblematico della capacità di Collina di mettere alla prova la sua indole affabulatoria attraverso la figurazione. I vizi e le virtù, l’amore impossibile, il male, l’imprevedibilità della sorte, la religione e molte altre tematiche si incarnano in iconografie care all’artista: la notte, il fuoco, gli alberi, gli angeli, i diavoli. Questa raffinata opera grafica di Collina è stata donata, due anni fa, al m.a.x. museo di Chiasso dalla collezionista Milly Brunelli Pozzi, colei

che ne ha promosso la realizzazione. Un gesto che ha fatto da incipit alle successive elargizioni all’istituzione chiassese delle venti matrici della cartella, sempre da parte della Pozzi, e dei quarantacinque stati preparatori, da parte dell’artista stesso. L’intero corpus dei lavori, a cui sono stati accostati dieci grandi disegni di Collina del 2022, è adesso esposto al pubblico nella mostra intitolata Carmina Burana, allestita presso lo Spazio Officina di Chiasso fino al 3 dicembre 2023. Attraverso le incisioni, eseguite nella stamperia d’arte di Paolo Aquilini, le matrici e le prove di stato, la rassegna per-

mette così al visitatore di conoscere il percorso creativo dell’artista che ha condotto alla concretizzazione dell’opera. Sono soprattutto gli stati preparatori, ovvero le diverse versioni stampate dell’immagine prima che acquisisca il suo aspetto definitivo, a darci la possibilità di comprendere la vitalità del processo di pensiero dell’artista, lungo ed elaborato, a volte tormentato, per giungere al risultato finale. Un modus operandi, questo, che non fa altro che testimoniare come Collina sia un artista aperto ai cambiamenti, capace di accogliere e sviluppare nuovi stimoli rimet-

Ne è un esempio la tavola FORTUNE ROTA VOLVITUR (La ruota della fortuna Gira, raffigurata qui al centro della pagina), dove la sorte appare raffigurata senza un corpo definito, con «la fronte fitta di capelli lunghi a coprire gli occhi per non vedere e la nuca rasata per non lasciarsi afferrare». O ancora l’incisione NON DE IURE GRATULATOR DUM HIC BREVIS MORIATUR (L’uomo non avrà diritto ad alcuna gratificazione, poi in breve tempo morirà), in cui l’individuo che nelle prime prove di stato è delineato in posizione fetale all’interno di una caverna viene lentamente cancellato in quelle successive, fino a scomparire del tutto nella tavola finale, lasciando al suo posto un silenzio fatto di tenebra. In DO DER TACH ÜF BRACH (L’alba è ormai giunta), invece, uno dei pochi testi dei Carmina Burana di cui l’autore è noto, l’aurora che dissipa la notte e con essa l’amore di due amanti le cui mani si sfiorano in un ultimo saluto è una rappresentazione di profondo lirismo. Di grandissimo impatto, poi, è l’incisione che chiude il ciclo grafico, intitolata AMARA TANTA TYRI (Sei così amareggiato): qui il diavolo è l’assoluto protagonista della scena. Con il suo volto dal profilo incerto e la sua bocca squarciata diviene il simbolo di un male che può avere mille forme. E che l’uomo spesso non sa riconoscere. Dove e quando L’opera grafica Carmina Burana di Giuliano Collina. Spazio Officina, Chiasso. Fino al 3 dicembre 2023. La mostra è curata da Roberto Borghi e Nicoletta Ossanna Cavadini. Orari: ma-do 10.00-12.00/14.00-18.00. www.centroculturalechiasso.ch


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CULTURA

Con la poesia dentro

Mitterand e Buzzati

Stefano Vassere

Roberto Festorazzi

Curiosità ◆ Il Deserto dei Tartari amato in Francia

È fuori di dubbio che il mondo della letteratura svizzera in italiano perda con Anna Felder (scomparsa lo scorso giovedì) una figura esemplare di un tipo particolare di italianità letteraria. Le declinazioni reciproche possibili in riferimento alla lingua e al territorio sono in questo ambito parecchie, e comprendono gli scrittori più strettamente territoriali, quelli territoriali ma con respiro panitaliano, gli scrittori italofoni extraterritoriali e quelli che scrivono in altre lingue ma vivono nel territorio, dove in genere il territorio può essere inteso come la Svizzera italiana tutta, anche nel dominio simbolico dell’italofonia d’Oltralpe. Anna Felder (qui sopra, ritratta nella sua casa di Aarau) ha occupato un po’ tutte queste opzioni, cui si può accompagnare il prestigio di una pubblicazione in una sede italiana come l’Einaudi, che stampò il suo secondo romanzo nei primi anni Settanta. Felder ha vissuto sempre tra Aarau e Lugano, che raggiungeva spesso per brevi incursioni: nella forma della pendolare piuttosto che in quella dell’emigrante, insomma. E così non ha potuto mai essere attribuita concretamente a un territorio per nessuna stagione della sua esistenza, avendo rinunciato lei stessa a definire quale fosse il luogo nel quale risiedesse stabilmente e quello cui le capitasse di tornare ogni tanto, ed eleggendo alla pari la Svizzera tedesca e il Ticino come due insediamenti equivalenti. Era nata a Lugano nel 1937; formatasi all’Università di Zurigo, si era laureata con una tesi intitolata La maschera di Montale. Aveva poi a lungo insegnato al Liceo di Aarau ed era entrata in contatto con le esistenze faticose (soprattutto in quei decenni) dei figli dell’emigrazione italiana nella Svizzera tedesca; proprio da quell’esperienza trasse gli spunti narrativi per il suo primo romanzo, Tra dove piove e non piove (Pedrazzini, 1972). Sotto il patrocinio di Italo Calvino pubblicò poi La disdetta (Torino, Einaudi, 1974). Seguiranno altri due romanzi, Nozze alte (Pedrazzini, 1981) e Le Adelaidi (Sottoscala, 2007), numerosi racconti usciti in varie sedi e poi in raccolte (l’ultima, Liquida, Edizioni Opera Nuova, è del 2017), parecchi radiodrammi, un’opera teatrale, L’accordatore (Edizioni Ulivo, 1997). I suoi testi sono tradotti in tedesco e in francese. Nel 2018 ha ricevuto il Gran Premio svizzero di letteratura per l’insieme della sua opera e da tempo le

carte prodotte dalla sua attività sono depositate presso l’Archivio svizzero di letteratura, nella Biblioteca nazionale a Berna. Il suo stile narrativo si è evoluto nel tempo, da un registro ben saldato nella tradizione nel primo romanzo in direzione di forme divenute, nel succedersi delle opere, via via più liriche e non di rado sperimentali, certamente più asciutte; le scelte linguistiche sono ricercate e sui piani della tecnica e delle soluzioni narrative le invenzioni sono coraggiose e improntate a una concreta padronanza. Lo dice anche Calvino, nella lettera di preavviso per la pubblicazione de La disdetta all’Einaudi (è trascritta in apertura alla riedizione del romanzo del 1991): «il suo modo di raccontare è interessante e compiuto e richiama esperienze della poesia contemporanea». In questo senso, l’attenzione per la forma sembra imporsi sempre più sui contenuti e così non sorprende per nulla l’approdo finale a un canone poetico forse più conclamato, in una raccolta uscita di recente, Venti Frammenti (alla chiara fonte, 2013). Benché questo processo evolutivo la porti lontano dalle prove d’esordio, in modo che si potrebbe definire per tappe successive di pari dignità, di Anna Felder conviene non dimenticare il bel primo romanzo, fosse anche solo per via del titolo (Tra dove piove e non piove vuol dire molte cose, due latitudini, due stati d’animo «climatici», una consolidata precarietà). E per quell’attacco che racconta di una comunità di premurosi bambini italiani che accompagna la maestra alla stazione di Brugg, prima di affrontare le brume notturne attraverso le quali tornare «al di là della scuola nei caseggiati nuovi, pieni come formicai in mezzo ai campi, o nelle baracche di legno in periferia». Certo che poi, come detto, l’attenzione al ritmo e alla musica irromperà definitiva nel suo stile: sarà dunque una narratrice attenta alla poesia, che farà iniziare il suo secondo romanzo con un verso novenario seguito immediatamente da un endecasillabo: «Mi prendevano per un gatto/ perché facevo bene la mia parte». Un gatto, appunto, che peraltro assume per sua stessa dichiarazione il ruolo di narratore e il cui punto di vista piegherà l’intera vicenda; con una scelta che tra l’altro e con tutta probabilità avrà sostanziato anche l’interesse prevedibile di Calvino e di una sede editoriale accogliente, che, in quegli anni

di significazioni così estreme, non poteva che salutare volentieri questo tipo di artificio narrativo. Nell’ampia intervista sul mestiere di scrivere cui si è recentemente prestata insieme a molti altri scrittori nella raccolta curata da Giovanna Cordibella (I retroscena della scrittura. Come lavorano le scrittrici e gli scrittori in lingua italiana della Svizzera, Dadò editore, 2022), Anna Felder rivela tanti aspetti della sua attività compositiva. Ma su tutti sembra di potere isolare due immagini: da una parte un profondo rispetto per la sua professione di docente («l’altra attività imperante» della sua vita) accanto a quella di scrittrice e dall’altra, e ancora, la continua tensione produttiva tra le geografie predilette della Svizzera tedesca e del territorio italofono d’origine: «Il mio costante pendolarismo tra le due case, non ha fatto e non fa che alimentare di continuo il confronto, mettendo in luce sempre nuovi aspetti e sviluppi dell’una e dell’altra realtà, che spontaneamente si fanno scrittura». Molti si sono accorti di quanto questo stare alle due latitudini abbia lasciato infiniti indizi nella scrittura di Anna Felder, fin dentro le ultime produzioni letterarie, in bilico ormai tra la prosa breve e – endlich! – la poesia a pieno titolo. In questi giorni nei quali la scrittrice manca alla sua comunità letteraria e culturale, piace ricordare la sua opera con un piccolo testo del 2016, pubblicato nella raccolta Venti Frammenti, in capo alla quale si ribadisce di nuovo che vive insieme «a Aarau e a Lugano» e dove Anna Felder pare parlare più intensamente di sé: «Tanti saluti. La cartolina da imbucare? Mah, scelgo la buca al sole». Quando uno scrittore abbia concesso tante testimonianze (e lo sanno bene i fortunati famigliari che gli sono sopravvissuti) sono frequenti le occasioni, anche quelle minime, di scovare preziosi e confortanti segnali di una personalità e delle sue abilità: così, tra il molto altro, riesce ancora a intenerirci l’uso giovanile di un tempo antico e gentile, il passato remoto, nella biografia posta in appendice alla tesi di laurea; una rassegna certo priva di tutto quanto sarebbe poi successo nei decenni a seguire, ma forse già anticipatrice di un animo e delle sue disposizioni: «Al Professor Bezzola e al Poeta stesso, Eugenio Montale, che imparai a conoscere molto prima di salutarlo personalmente, rivolgo il mio pensiero riconoscente».

François Mitterrand che parla del Deserto dei Tartari di Dino Buzzati? L’accostamento potrebbe apparire alquanto singolare, se non si partisse dalla constatazione che le opere dello scrittore veneto-milanese sono più lette, apprezzate e studiate, all’estero, che non in Italia. Buzzati giganteggia infatti nel mercato editoriale internazionale della narrativa del Novecento, tanto che i suoi titoli sono oggi tradotti in 35 lingue. In particolare, da decenni, i francesi gli hanno assegnato un posto di primissimo piano. Ed è l’unico autore straniero cui, nel Paese latino, sia stato reso un riconoscimento del genere. Già da un’indagine condotta, nel 1988, in Francia, sulle vendite dei livres de poche, emerse, che, sugli otto testi italiani più diffusi, cinque erano di Buzzati. Per questo, nella nazione d’Oltralpe, ma, più in generale, in tutto il Nord Europa, ci si meraviglia che i suoi compatrioti stentino ancora a considerarlo come uno degli scrittori-chiave del panorama letterario contemporaneo. La critica, nella Penisola, ha snobbato, a lungo, questo geniale e versatile autore, non solo di romanzi e racconti, ma anche di drammaturgia teatrale, per non parlare del suo estro pittorico e della sua inclinazione alla sperimentazione, con la capacità di innalzare il fumetto, da basso prodotto di consumo dell’industria editoriale, al livello di genere letterario, nel suo pionieristico sconfinamento nei territori della graphic novel: è del 1969, infatti, il buzzatiano Poema a fumetti, che fece scalpore, in Italia, per la rappresentazione, esibita e compiaciuta, del corpo femminile. Ma torniamo a Mitterrand (ritratto in basso). Il fortunato e longevo talk show culturale e librario della tv pubblica francese, Apostrophes, condotto da Bernard Pivot, il 2 luglio 1975 dedicò una puntata alle letture del leader socialista. L’ospite, presente in studio, rivelò di aver accolto come la «rivelazione di una nuova letteratura» il romanzo di Buzzati, pubblicato da Rizzoli, nel 1940, ossia nel primo anno di guerra, per l’Italia di Mussolini. Il protagonista della narrazione è il tenente Giovanni Drogo, un ufficiale di prima nomina, che viene assegnato alla Fortezza Bastiani, un avamposto militare situato ai limiti di una zona desertica, regno di nemici, reali o immaginari che fossero: i Tartari, incursori provenienti da Nord. Il Forte è presidiato da un manipolo di individui segregati dal mondo e confinati in un luogo di desolazione, in attesa di un evento che non è bellico, quanto, piuttosto, un appuntamento metafisico. Infatti, fin quasi dall’esordio della narrazione, Buzzati precisa che l’arrivo di Drogo coincide con l’inizio della «irreparabile fuga del tempo» che travolge gli affetti, le illusioni e gli impeti di

Wikipedia

Keystone

In memoriam ◆ Addio ad Anna Felder, voce letteraria di primo piano

giovinezza, il paesaggio di riferimento, culturale e simbolico-esistenziale, della sua realtà di provenienza, la città, la famiglia, gli amici. Con l’inesorabile trascorrere degli anni, l’ufficiale «sente il battito del tempo scandire avidamente la vita», ma seguita a nutrire quella «speranza segreta» per la quale compie silenzioso e solitario olocausto di sé. Alla fine, dopo trent’anni di sterile attesa, in un tempo e in uno spazio «pietrificati», Drogo, promosso nel frattempo a maggiore, è vecchio e malato. Quando, finalmente, i Tartari si materializzano, e l’odore del sangue sembra spandersi in un’atmosfera rarefatta, Drogo viene allontanato dal Forte, per spegnersi nella stanza di un’anonima locanda. Nel momento in cui parrebbe decretarsi la sua plateale sconfitta, Giovanni si riscatta, perché incontra la «verità». L’antieroe confinato nel buio dell’isolamento, nel nascondimento dal mondo, anche dal suo spicchio di «realtà», diventa «eroe» di un incanto poetico privo di gesta eclatanti, ma nella conquista della consapevolezza e della tranquilla coscienza di sé. Tutto questo viene ben colto da Mitterrand, il quale commenta: «Ora io penso che questa sia un’opera di una forza straordinaria. E quest’uomo, che avrà dunque vissuto trent’anni ad attendere principalmente qualcosa di puramente materiale, passando da un piano all’altro ad attendere delle altre cose, non si sa bene quali, è, credo, una sorta di processo simbolico dell’umanità che è alla ricerca del suo spirito, della sua conoscenza. Allo stesso tempo è una letteratura del fare e del coraggio, di ciò che può compiere un uomo su di sé quando è lasciato a sé stesso ma anche davanti a un paesaggio, quello della sua vita, che non porterà mai quello che si aspetta, ma, purtuttavia, al momento in cui deve morire (ultima pagina di questo libro) lui, quando la morte penetra dentro la sua stanza, comprende improvvisamente la verità, incontra una verità. E non sa nemmeno ancora di preciso bene quale, ma l’ha cercata e si sente degno di essere un uomo». Conclude il leader socialista: «Dunque, il tema va controcorrente, in tempi di libri in cui non c’è altro che il declino, la decadenza, la fine. Ho trovato che, senza pretendere di giungere ad alcuna morale, senza imporre nulla, si ha un libro che significa – a mio avviso senza alcun dubbio – , il ritorno o l’arrivo di qualche cosa». La forza del simbolismo allegorico del romanzo buzzatiano, perché fece una tale presa su Mitterrand? Proviamo a ipotizzare. Lo statista francese fu un combattente volitivo e tenace, nel lungo cammino della sua ascesa al potere, dopo il 1958. La sua disciplina interiore fu talmente finalizzata all’obiettivo storico da raggiungere – il primato delle forze di sinistra e la loro ascesa al Governo in un sistema costituzionale che, agli esordi della Quinta Repubblica, egli aveva considerato dittatoriale – da rappresentare una felice metafora della militare determinazione di Drogo. A Mitterrand, infatti, si attribuiscono due primati: fu l’unico leader politico a partecipare a quattro elezioni presidenziali, e il solo a «regnare» sul suo Paese per 14 anni consecutivi, dal 1981 al 1995. Benché gli fosse stato diagnosticato un cancro, fin dal 1982, non soltanto mantenne le redini del Governo, tacendo il suo male, ma portò a termine anche il secondo mandato.


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L’eco della salvezza nei versi della

Feuilleton ◆ Uscita per la prima volta nell’agosto del 1956 presso la casa editrice tedesca Piper, Adelphi ripubblica la raccolta poetica che re Invocazione all’Orsa Maggiore esce con testo a fronte a cura di Luigi Reitani e una nota di Hans Höller. Un’opera che catturò anche l Luigi Forte

Fu una lettura sorprendente che la lanciò sulla scena letteraria di lingua tedesca. A Niendorf, un piccolo paese sul Mar Baltico, nel maggio del 1952 la ventiseienne austriaca Ingeborg Bachmann entusiasmò con le sue poesie il pubblico del Gruppo 47, cioè il fior fiore dei nuovi scrittori del dopoguerra, tanto da far dire al critico Walter Jens che «l’ ora del mutamento era suonata» e che la lirica di quella giovane di Klagenfurt «ne aveva scandito i rintocchi». Ancora oggi tale reazione non stupisce se si sfogliano le sue due raccolte di poesie, Il tempo dilazionato (1953) e Invocazione all’Orsa Maggiore (1956), quest’ultima appena edita con un ricco apparato iconografico da Adelphi nella traduzione e con un eccellente commento critico del germanista Luigi Reitani, già curatore dell’edizione tedesca, morto prematuramente di Covid. Ma la giovane Bachmann, che nel 1950 si era laureata a Vienna con una tesi sulla filosofia di Heidegger,

scrisse altresì nel corso degli anni Cin-quanta tre radiodrammi, e più tardi racconti e romanzi come il sugge-stivo e misterioso Malina e gli incompiuti Il caso Franza e Requiem per Fanny Goldmann.

«L’amore ha un trionfo e la morte ne ha uno, – ricorda – (...) Noi non ne abbiamo» A cui si sommano pagine saggistiche, per esempio su Wittgenstein e Musil, e le splendide lezioni di Francoforte che tenne nel 1959-1960, dove l’idea di letteratura è affidata, prima di ogni conoscenza, alla forza dirompente di un pensiero nuovo, che le dà impulso e sostanza. Il mondo della scrittura diventa per lei, nel tempo, luogo di sfida e ricerca impossibile di un’identità, nella consapevolezza di una vocazione che può annichilire e mal si concilia con il fluire dell’esistenza. «Ci sono due esseri in me, – scriveva già la diciannovenne Ingeborg – ,

l’uno non capisce l’altro. Temo quello che ama tanto la vita. Perché diventa troppo potente». Eppure nei suoi versi, che aprono spazi illimitati verso nuove realtà, evoca spesso ciò che un tempo temeva. Impossibile sottrarsi al loro fascino, alla folgorazione delle immagini che dipanano una segreta, quasi mistica sensazione del mondo, ai toni malinconici, al ritmo talvolta singhiozzante scalfito dal dolore, all’urlo dell’amore incapace di spezzare l’incantesimo perverso che separa i sessi. E a cui tuttavia si rivolge accorata nell’ultima lirica della raccolta, Canti lungo la fuga, alla ricerca di redenzione: «O amore, che le nostre scorze/rompesti, gettandole via, il nostro scudo,/la difesa del tempo e la ruggine brunita degli anni!». Nelle quattro sezioni del libro si percepisce una costante tensione di fondo, come a suo tempo ricordò lo scrittore Heissenbüttel: il contrasto fra esperienza traumatica e progetto utopico. Tra la sopraffazione di un

mondo patriarcale e violento e le immagini che anelano all’emancipazione del destino femminile. Non a caso la Bachmann prese a suo tempo le distanze dal mondo del padre e dalla comunità nazionalsocialista immergendosi nella scrittura come in una forma di emigrazione interna. Eppure la sua vita scorreva, ricca di entusiasmi e contraddizioni, di grandi amori ed amicizie: con Paul Celan, Max Frisch, il musicista Henze, con il quale soggiorna in Italia, tra Ischia, Napoli e Roma. Con l’ebreo Celan, uno dei più grandi lirici di lingua tedesca del dopo-guerra, fu amore fin dall’inizio, filtrato da parole lucide e oscure e da irriducibili silenzi. Lui l’aspetta a Parigi dove si è trasferito, «colmo di impazienza», mentre lei lo trasfigura in seducenti visioni: «Per me tu sei il deserto e il mare e tutto quanto è mistero». Poi si accentuano i malintesi e le reciproche accuse che coinvolgono anche il nuovo com-pagno di Ingeborg, lo scrittore Max Frisch. Resta il

loro dialogo in versi, dove la vita filtra imprevedibilmente bizzarra fino ad annullarsi, per ambedue: Paul cadavere nella Senna nel 1970 e lei, che lo ricorda nel suo romanzo Malina, vittima, tre anni dopo, di un incendio scoppiato nella sua abitazione romana in circostanze mai chiarite. Ma la novità della lirica della Bachmann trae anche sostanza dalla tra-dizione e dal passato: la grande varietà di forme metriche e strofiche, talune cadenze romantiche e citazioni da Saffo, Lucrezio e Virgilio, così come da poeti moderni a lei ben più consoni come Rilke e Trakl. La parola nata dal silenzio e con «grandi margini bianchi», secondo l’e-spressione di Paul Éluard, dev’essere garanzia di verità, rispondere a un preciso rigore etico, come aveva sentenziato il connazionale Karl Kraus, e così la invoca nella poesia Discorso e diceria: «Vieni, grazia di suono e fiato,/fortifica questa bocca,/quando la sua debolezza/ ci atterrisce e frena». Ma la condizione del poeta in un mondo inautentico,


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Bachmann

ese celebre la poetessa austriaca. ’attenzione di Max Frisch

«Non sono innamorato Ingeborg, sono colmo di te» Carteggio ◆ La corrispondenza tra Ingeborg Bachmann e Max Frisch, per ora uscita solo in tedesco, ci racconta di un amore travagliato

Uno scatto di Ingeborg Bachmann del 1963 la ritrae alla macchina da scrivere nel suo appartamento berlinese. (Keystone)

Invocazione all’Orsa Maggiore «Scendi, Orsa Maggiore, notte arruffata, fiera del manto di nubi, dagli antichi occhi, stelle occhi, nella macchia affondano, scintillanti, le tue zampe con gli artigli, stelle artigli, vigili noi pascoliamo gli armenti, pur da te ammaliati, e diffidiamo dei tuoi fianchi sfiniti, degli aguzzi denti dischiusi, vecchia orsa. Un conto di pigna: il vostro mondo. Voi: le sue squame. Dagli alberi dell’inizio agli abeti della fine la rivolto, la sbalzo, l’annuso, ne saggio il sapore e l’abbranco.

Temete o non temete! Gettate l’obolo nella borsa, all’uomo cieco una buona parola, perché tenga l’orsa al guinzaglio. E condite gli agnelli di spezie. Potrebbe quest’orsa Liberarsi, non più minacciando. Incalzando ogni pigna, dagli abeti Caduta, maestosi abeti alati, precipitati dal paradiso. (Ingeborg Bachmann)

tra le rovine e i drammi della storia sintetizzati nelle metafore della poesia Porto morto, resta quella dell’esilio interiore, della perenne fuga, con reiterate immagini di partenze e di viaggio. Eppure non viene meno la speranza che proprio la poesia e l’arte siano lo strumento più idoneo contro l’alienazione della civiltà moderna. Non esita a dare impulso all’arte come utopia con uno sguardo verso «ciò che è perfetto, verso l’impossibile, l’irraggiungibile, sia esso amore, la libertà o qualsiasi entità pura», come dirà nel citatissimo discorso del 1959 Dall’ uomo si può pretendere la verità. E una luce le giunge anche dal suo soggiorno a Ischia e Roma, di cui parlano le immagini della terza sezione della raccolta, quel «paese primogenito», come suona il titolo di una poesia, in cui «mi destai a guardare./Allora vita mi giunse», piena d’ entusiasmo e di aperture sul mondo. Ed è come una rinascita, in un’atmosfera di festa e di gioia, che sprigiona dalla poesia Canti da un’ isola e lascia

infine spazio a nuova vita. «Quando risorgerai,/ quando risorgerò, – recitano i versi – / non vi sarà pietra dinanzi alla porta» e allora si potrà essere testimoni di un mondo purificato e libero. Ma più avanti, l’ultima lirica del suo canzoniere rievoca una malinconia senza illusioni: «L’amore ha un trionfo e la morte ne ha uno, – ricorda – (...) Noi non ne abbiamo». Eppure la parola riprende a vibrare, anche se intorno c’è solo un «tramontare di stelle. Riflesso e silenzio». Perché «il canto sulla polvere dopo,/alto si leverà su di noi». Fino all’ultimo, nel suo isolamento romano, Ingeborg Bachmann ha sentito nella poesia e nella scrittura l’eco di una possibile salvezza, che la vita da tempo ormai aveva affievolito. Bibliografia Ingeborg Bachmann, Invocazione all’Orsa Maggiore, a cura di Luigi Reitani, con una nota di Hans Höller. Adelphi, Milano, 2023.

«Mentre mi trovavo presso l’emittente di Amburgo chiesi di ascoltare il radiodramma. Poi scrissi una lettera alla giovane poetessa – che non conoscevo personalmente – per dirle quanto lo avevo apprezzato, quanto fosse importante, che l’altra metà, la donna, si esprimesse. Riceveva lodi in abbondanza, questo lo sapevo, ma ugualmente avvertivo l’urgenza di scriverle (…)». Cosi, con questo estratto, si inaugura il corposo carteggio tra Ingeborg Bachmann e Max Frisch edito in tedesco dall’editore Piper nel 2022, una pubblicazione che in area germanofona è stata salutata con grande clamore e attenzione di critica come un evento letterario eccezionale. La voce in prima persona è quella di Frisch nel racconto autobiografico Montauk (1975), l’emittente in questione è il Norddeutscher Rundfunk, il radiodramma a cui si riferisce è Der gute Gott von Manhattan (Il buon dio di Manhattan) e l’autrice alla quale Frisch scrive è Ingeborg Bachmann. Tutto questo per dire che quando il 3 luglio del 1958 si incontrano per la prima volta a Parigi sanno già molto l’uno dell’altra, soprattutto si stimano dal punto di vista letterario. Il padre di Homo faber amava la lirica della Bachman, ne era affascinato a tal punto da definirla «magnifica». Invocazione all’Orsa Maggiore era il componimento che preferiva. Mentre la poetessa austriaca, di cui il 17 ottobre scorso ricorrevano i cinquant’anni dalla morte, prima di incontrare Frisch aveva trascorso notti intere con il suo amico Joachim Moras, fondatore della rivista «Merkur», a discutere appassionatamente di Walter Faber e dell’opera che lo vede protagonista.

«Sei un animale marino che solo nell’acqua mostra i suoi colori. Sei bella, quando ti si ama, e io ti amo. Questo lo so, tutto il resto è incerto…» Quando i due iniziano a frequentarsi Ingeborg Bachmann si è da poco lasciata con il suo grande amore Paul Celan conosciuto a Vienna nel 1948 mentre Max Frisch fa coppia con Madeleine Seigner. Nelle sue lettere del 5 e del 6 luglio Max Frisch ci dice che per lui è un colpo di fulmine: «Voglio trascorrere l’estate con te. Non sono innamorato Ingeborg, ma sono colmo di te, tu sei un animale marino che solo nell’acqua mostra i suoi colori. Sei bella, quando ti si ama, e io ti amo. Questo lo so, tutto il resto è incerto…». Lei, rientrata a Napoli, oscilla tra l’incertezza e la disperazione, corre incontro al postino quando lo vede arrivare, lui divorato dalla nostalgia scrive: «Saremmo una sventura l’uno per l’altra, ma anche così non stiamo bene». In questa frase è racchiusa tutta la loro storia d’amore che oscilla costantemente tra quiete e tempesta e che le trecento lettere ci raccontano. Durata quasi cinque anni - dal 1958 al 1962 - la loro è una relazione fatta di lontananza, fraintendimenti, tradimenti, indecisioni, fatica e grandi malinconie. Non a caso Paul Jandl sulla «Neue Zürcher Zeitung» l’ha

Keystone

Natascha Fioretti

definita «Il cancello dell’inferno di un amore» (Das Höllentor einer Liebe), mentre per Iris Radisch sul settimanale «Die Zeit» è «una maledizione» (Die Liebe – Ein fluch) e per Helmut Böttinger sulla «Süddeutsche Zeitung» «una lunga lotta» (Ein langer Kampf). Di certo le pagine trasudano una certa pesantezza, nel seguire i loro pensieri si avverte una costante malinconia che sin da subito uccide lo slancio amoroso che assume, invece, tinte fosche. Quando nell’estate del ’58 Frisch comunica alla Bachmann che sta per venire a Napoli lei risponde: «Non ti ho ancora detto quanto sono felice e costernata, è quasi da non credere, che possiamo rivederci». La Bachmann si arrovella nei suoi pensieri che a ritmi alterni prima si affastellano e poi si scompongono in un duello costante tra ragione e sentimento «(…) È tutto il pomeriggio che sono triste e vorrei venire da te, così che tu possa rendermi di nuovo viva. E nel frattempo penso che la cosa peggiore, forse, è che nonostante tutto possiamo vivere l’uno senza l’altra. La domanda, però, è se – nonostante tutto il resto – c’è la voglia di vivere insieme. Capisci cosa intendo? (…) ». I due hanno una relazione aperta, Ingeborg Bachmann durante la sua storia con Frisch frequenta lo scrittore Hans Magnus Enzensberger e il traduttore Paolo Chiarini. Max Frisch nel 1962 si innamora della studentessa Marianne Oellers. Nel marzo del ’59 Frisch e Bachmann vanno a convivere nella casa sul lago a Uetikon, l’8 ottobre Frisch chiede la sua mano. Entrambe le cose non vanno a buon fine e per i due – da lì in avanti – sarà un continuo spostarsi – soli e insieme – tra la Svizzera, l’Italia, la Germania e gli Stati Uniti. Dice bene Paul Jandl quando definisce la loro relazione «una dicotomia fatta di assenze e presenze». E di lettere, messaggi che per un po’ tengono insieme il tutto tra promesse e recriminazioni. Una corrispondenza che la Bachmann non avrebbe mai voluto vedere pubblicata, più volte chiese a Frisch di restituirle tutti suoi scritti e lui – dopo un’iniziale apertura – il 6 aprile del 1964 le risponde: «Questo desiderio non te lo esaudirò. Le tue lettere mi appartengono, così come le mie appartengono a te. Se ti tortu-

ri al pensiero che io possa abusarne facendone un utilizzo meschino, non posso farci niente». Lo scrittore e architetto svizzero ne vieterà la pubblicazione fino al ventesimo anno dalla sua morte, dunque fino al 2011.

«Sentimenti? Dolore, pentimento, amarezza, vergogna. Ho pianto. Ti ho amata molto all’inizio» Dunque, che cosa rivela di nuovo il ricco carteggio pubblicato ora grazie agli eredi della Bachmann? In passato ci si è spesso chiesti se Frisch avesse avuto un ruolo nel crollo psicofisico dell’autrice di Malina, se avesse avuto una responsabilità nella sua morte. Dalle lettere si evince, da un lato, il grande amore e la grande stima che nutriva per lei, dall’altro la sua grande insicurezza e inquietudine dinanzi ai continui passi indietro, le incongruenze e le idiosincrasie della compagna. Se possiamo dare una temperatura alle loro pagine, quelle di Frisch sono calde, quelle della Bachmann fredde. «Queste sono le ultime righe che batto a macchina da questo appartamento (…). Sentimenti? Dolore, pentimento, amarezza, vergogna. Ho pianto. Ti ho amata molto all’inizio (…) Non abbiamo fatto bene. Scusami se ti includo; anche tu Ingeborg non hai fatto bene. Lascio questo appartamento con la consapevolezza di un grande fallimento». Con questa lettera del 2 luglio del 1963 si chiude la loro storia. Seguirà un lungo silenzio che Frisch romperà nel ‘72 scrivendole da New York per una selezione di poesie da pubblicare sulla rivista «Partisan Review». Lei risponde laconica e distaccata: «Caro Max Frisch, la ringrazio molto per la sua lettera (…)». Se il dialogo tra i due si riaccende (per poco, lei muore nel ′73) è sul terreno della letteratura. Lo scambio che qui avviene è quello tra due scrittori, due personalità letterarie importanti che sono al centro della vita pubblica del secondo Novecento. A noi però insegnano che anche le penne più colte e sensibili, di fronte ai piccoli e ai grandi misteri dell’esistenza, sono esseri umani fallibili – talvolta orribili – come tutti.


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La realtà svizzera di Flammer Dove sono gli anni In memoriam ◆ Omaggio al «decano dei fotografi della Svizzera italiana» nato Poesia ◆ La lirica di Gian Mario Villalta si a Muralto nel 1938 e scomparso la scorsa settimana interroga alla ricerca di un tempo perduto

Ho incontrato l’ultima volta Alberto Flammer solo qualche settimana fa, nella sua Verscio. «Mezzo secolo dopo il primo, Alberto Flammer getta un altro occhio sul Ticino»: così volevo titolare il mio articolo incentrato sulla sessantina di foto inedite contenute nella sua ultima pubblicazione. Questa intervista diventa oggi il mio omaggio al Maestro. Lui si schermisce quando lo definisco «il decano dei fotografi della Svizzera italiana», ma è davvero così. Lo dicono non solo l’anagrafe (avrebbe compiuto 87 anni il prossimo 25 gennaio), ma soprattutto due libri che – all’inizio degli Anni 70 del secolo scorso – diedero del nostro Cantone un’immagine inedita, lontana assai dai logori schemi turistici da Sonnenstube, e dunque molto più vera. Entrambi editi da Armando Dadò, il primo, Pane e coltello, cinque racconti di paese, accostava le sue immagini agli scritti della migliore letteratura ticinese dell’epoca: Piero Bianconi, Giovanni Bonalumi, Plinio Martini, Giorgio e Giovanni Orelli. Il secondo, Occhio sul Ticino, era frutto dell’approfondita osservazione delle nostre terre compiuta – come scrisse lo stesso Bianconi, «da due paia d’occhi: uno vecchio, il mio, e l’altro giovane. Uno indigeno, l’altro allogeno». Non era del tutto vero: Alberto Flammer è nato e cresciuto a Muralto (dove iniziò la sua carriera nell’atelier di suo padre Johann) e da anni viveva e lavorava a Verscio. Una carriera che ha scelto di sviluppare facendo capo alla collaborazione con illustri personalità: oltre a quelle già citate, ricordiamo le 1300 foto (!) dedicate al pittore scozzese Ben Johnson e alla sua opera. Lo avevamo incontrato per parlare della sua ultima pubblicazione, Grenzland Tessin (Ticino terra di frontiera). Modesto come al solito, Flammer ha insistito affinchè all’incontro partecipasse anche Alexander Grass, autore del libro di cui vi ha già parlato il collega Orazio Martinetti (Azione del 17.7. scorso). Cosi è nata questa intervista a due voci. Dove vi siete conosciuti? (AG) Ero corrispondente in Ticino per la Radio DRS e il suo libro Occhio sul Ticino attirò subito la mia attenzione. Il nostro primo incontro av-

Guido Monti

Nella foto i due amici ritratti insieme: Alexander Grass (a sinistra) e Alberto Flammer.

venne anni dopo, nel corso di una sua esposizione al Museo di Intragna. Dove e da chi è nata l’idea del libro, che reca come sottotitolo Hier und jetzt, locuzione cara a Walter Benjamin: hic et nunc, qui e ora… (AG) Non volevo scrivere una vera e propria storia del Canton Ticino. Mi sono limitato a sottolineare i cambiamenti nel frattempo intervenuti nella realtà ticinese, grazie soprattutto alle infrastrutture – ferrovia e autostrada – e alle nuove relazioni che queste hanno permesso di instaurare. A nord col resto della Svizzera (che restano sempre un po’ complicate) e a sud con l’Italia, Lombardia in primis. (AF) Quando Alexander si è rivolto a me per illustrare il suo libro, ne ho approfittato per curiosare nel mio archivio. Ho riscoperte molte foto che avevo dimenticato, e quelle del libro sono tutte inedite!”. Alexander osservatore politico, Alberto cacciatore di immagini. Insieme illustrate temi come il boom edilizio e la forte immigrazione di Gastarbeiter, (epiteto offensivo), soprattutto italiani. (AG) Vero, però non sono mai foto per così dire prevedibili, quelle che non ti invitano a una riflessione e che ti spingono invece a un accostamento sin troppo facile. (AF) Ho seguito da vicino la costruzione della diga della Verzasca e l’avanzare dell’autostrada in Leventina, dove le maestranze impegnate nei lavori erano in maggioranza italiane. Operai che mangiavano «pan e scigola» e accettavano il doppio turno di lavoro pur di metter da parte qual-

che soldo in più. Se mi è permesso un aneddoto: mi sono definitivamente reso conto della grande immigrazione italiana quando, durante una vacanza sul mare della Puglia, mi son trovato letteralmente sommerso da auto targate CH! Ci sono immagini che ricordano i Grandi della fotografia, da Andrè Kertesz ai riflessi vitreo cari a Eugène Atget. C’è qualche Maestro che ha particolarmente influenzato Alberto Flammer? Non qualcuno in particolare, ma confesso che ho parecchio beccuzzato scorrendo le pagine di vecchi album fotografici che custodiva mio papà (il primo era datato 1864), oppure sfogliando la rivista «Camera», dedicata esclusivamente al bianco e nero. Mi sono abbonato nel 1956. Sempre bianco e nero (b&n) e niente digitale. Eppure Flammer è un mago delle sperimentazioni, pensiamo agli scatti con fotocamera a foro stenopeico. Inoltre le è stato affidato il compito di sviluppare le lastre di vetro di Roberto Donetta («Un lavurà basctard», confessa). Sperimentazione? Guardi che il foro stenopeico lo usava già Leonardo Da Vinci! In quella occasione mi sono limitato a richiedere un particolare «occhio» alla celebre Carl Zeiss di Jena. E al digitale sinora ho rinunciato perché troppo attirato dai contrasti di luci e ombre che solo il b&n può darti. Lasciamo Grass e Flammer con un’ultima immagine negli occhi: quella sorridente della loro bella amicizia.

Gian Mario Villalta con Dove sono gli anni, tocca un punto importante della sua produzione poetica, già segnalatasi con opere di rilievo come Vanità della mente (2011) e Telepatia (2016). Ebbene già nel titolo si trovano tracce di una linea di pensiero ben individuabile e dalle risonanze fortemente esistenziali, che il poeta porterà sempre avanti, talvolta sotto traccia, in tutta la raccolta. Ecco: questa poesia tenta a strappi e sobbalzi, tra le tante storie, di ritrovare quel tempo perduto di ogni vita, attraverso una continua interrogazione che sembra venire dal sé, da quel ragazzo con la maglia a righe, che esordisce già nelle prime pagine e poi permeare le tante relazioni che affiorano e ci parlano in questa raccolta. E la risposta dei tanti compagni di viaggio, sembra inverarsi in una visione ma come dall’aria riesumata e cosa si riesuma, potremmo chiederci, se non una spoglia? «… / E poi sono andati via i passi / che hanno lasciato lì, / le bocche di quando la parola ranghinatore / stingeva un sapore di polvere e grasso. / Ma tu li vedi, tu credi tornino se dici “e poi”? // Sono andati come vanno i tuoi morti … / ». Quasi che tutti gli attimi, sia che richiamino il sé stesso di un tempo, o che abbiano un taglio più sociale, civile, diciamo più appartenenti ai riti della collettività, sono in un limbo di pensabilità certo ma di definitiva imprendibilità, tanto che pur continuamente rievocati, sono perduti, perché mai afferrabili in un significato di senso definitivo. E ciò che interessa altresì è che questa inafferrabilità, quasi prenda forma in uno scritto costituito da parti in lingua dialettale, che torna e chiude, come sesto, ogni gruppo di cinque componimenti proposti in continuità nelle quindici stazioni della prima parte del libro: «Da sempre domandàrme, / questionàr chi l’è mi, quando ti / te sé ti, te sé ti, te se ti. // Stupido // Te se ti serà qua / co’ tute le scarpe vecie, le scarpe nove / ancora da mèterle, scarpe de tuta ’na vita /… /… te imàginitu, in te ’na stansa / serà co’ tutte le scarpe? / Tutte le scarpe di una vita. // Altre domande?». Le identità girano nel libro come mai identificabili, sempre precarie poiché le stagioni tramutano la nostra posizione

nel mondo; il tempo però ha bisogno dell’uomo per consistere e l’uomo del tempo. Talvolta Villalta sfiora la metamorfosi identitaria, nel gioco di memoria di un’ombra, come quella per esempio di Mario Benedetti, deceduto nel 2020, figura per il poeta tra le più care ed importanti. Torna in mente un bellissimo titolo di Mario Luzi Su fondamenti invisibili, ecco il libro riposa su queste fondamenta; crediamo di possederle ed addobbarle, le identità, oggi più che mai digitalmente ma continuano a sfuggirci, perché imprendibile il loro senso; l’uomo va a ritroso alla cerca delle proprie relazioni, che gli sono però continuamente in fuga e quindi si perde, perdendo coscienza di sé: «… /…Dove sono non so, tutti quegli anni, / adesso questo stupore, immaginare / che avrei potuto, avrei potuto, e quello che è stato / è di più…».

Pixabay

Giovanni Medolago, testo e foto

In Dove sono gli anni, sciamano come fantasmi le lingue profonde delle comunità, con i loro dialetti oramai all’ultimo stadio di resistenza ma anche tante figure che s’inabissano in una memoria sempre tremante e frammentata; più il lettore sfoglia le sue storie, più sparisce dentro quella grande domanda, quasi presa d’atto, che in essa è come iscritta: chi siamo? Bibliografia Gian Mario Villalta, Dove sono gli anni, Garzanti, Milano, 2022. Annuncio pubblicitario

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C’è ancora domani sbanca al botteghino Gloria e instabilità Cinema ◆ Paola Cortellesi per la prima volta alla regia con il suo film conquista pubblico e critica

Con quasi due milioni di spettatori nel mese di novembre non ancora terminato, l’opera prima alla regia di Paola Cortellesi è il film italiano dell’anno, c’è poco da eccepire, consacrato dal premio Biglietto d’oro che l’Associazione nazionale esercenti del cinema assegna al film che ha staccato più biglietti da dicembre 2022 a novembre 2023. Il suo debutto è con una storia semplice: quella della popolana Delia, interpretata dalla stessa Cortellesi, nella Roma del 1946 che si affaccia con speranza alla ricostruzione. Delia è una donna come tante, come lo sono state tante nonne italiane, portatrici sane di accudimento dei figli e di sottomissione al marito, a prescindere dalla condizione sociale. È sposata con Ivano, a cui dà il volto Valerio Mastandrea, un uomo altrettanto semplice, frustrato quanto basta per riversare sulla moglie la sua rabbia, e che sembra portare rispetto solo all’anziano padre. E queste «scene da un matrimonio» con affaccio sul cortile, dove la dimensione privata si fonde con quella pubblica, fanno da quinta all’universo maschilista di Ivano, raccontato da Paola Cortellesi con una grazia capace di sublimare la violenza fisica in una danza. Si mescolano i toni, l’ironia irrompe nei momenti più drammatici e le canzoni di ieri e di oggi prendono il posto di emozioni inespresse. La quotidianità di Delia è scandita da mille incombenze: i figli, la casa, i lavoretti per contribuire al bilancio familiare, l’accudimento del

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Alessandra Matti

suocero, convinta com’è che deve essere così e che non c’è alternativa alla prevaricazione maschile e all’accettazione silenziosa. Giorno dopo giorno, sopraffazione dopo sopraffazione fino a quando la speranza di un futuro migliore per la figlia e una misteriosa lettera sembreranno poter cambiare un destino già scritto. Il film ha saputo toccare corde profonde del pubblico, come dimostra il grande successo di questa commedia agrodolce che funge da memoria storica e da specchio collettivo reso ancor più credibile dalla straordinaria prova di bravura degli attori, Cortellesi e Mastandrea in primis, ma anche Romana Maggiora Vergano ed Emanuela Fanelli, che danno volto e voce alla figlia Marcella e all’amica Marisa, fino ai «du regazzì» di casa. Come in ogni rapporto madre-figlia che si rispetti, Marcella è la prima a detestare la rassegnazione della ma-

dre salvo poi, obnubilata dall’amore e dalla voglia di lasciarsi alle spalle la sua famiglia disfunzionale, non capire che l’amato Giulio in realtà è solo una copia migliorata del padre. Marisa è l’amica-sorella che regala a Delia un po’ di leggerezza tra una chiacchiera al mercato e una sigaretta fumata in santa pace (come nella foto che le ritrae qui sopra), lo specchio che le restituisce l’idea che un altro maschile è possibile, lei che ha un marito d’oro e la giusta consapevolezza di sé. Di questa storia ci piace la semplicità della narrazione sostenuta anche da una sceneggiatura volutamente didascalica. E la lingua: una lingua semplice, dove il romanesco smorza la tragicità di certi momenti. La ricostruzione del contesto è coerente, e ci sembra di essere lì nella Roma del dopoguerra con lo sguardo fisso sul futuro che deve per forza essere migliore del passato prossimo. Il bianco e nero del

film rimanda al Neorealismo e a una condizione esistenziale dove non sembrano esistere grandi sfumature. Ci piacciono infine i due messaggi che la regista consegna al pubblico: il riscatto e la speranza. Il riscatto comincia dalla consapevolezza di un diritto, il primo in un mare di doveri: il diritto di voto al quale Delia si prepara con il vestito della festa, il rossetto sulle labbra e una corsa ad ampie falcate per raggiungere la sua emancipazione. C’è ancora domani è un film di speranza, quella in un futuro meno gramo e in un destino diverso per la figlia: ma sarà poi così diverso se non si fa davvero qualcosa per cambiarlo? L’ultima parte del film ci restituisce una donna che, forte della solidarietà femminile intergenerazionale, scopre una nuova sé. Le elezioni del 2 giugno 1946 porteranno 21 donne all’Assemblea costituente su 556 eletti, donne diverse per formazione e schieramento politico: alcune abbandoneranno la politica dopo averne preso le distanze, altre continueranno nella consapevolezza che per cambiare le cose bisogna lavorare insieme. Delia è una donna di ottant’anni fa, ma è più contemporanea di quanto si possa immaginare; le donne italiane, sue nipoti, sono debitrici alle 21 donne della Costituente e alle loro battaglie, ma anche alle tante donne della porta accanto che hanno provato a cambiare le cose partendo da una presa di coscienza. Perché, come ci ricorda Lao Tzu, un lungo viaggio comincia sempre da un piccolo passo.

Serie TV ◆ Robbie Williams protagonista di una serie su Netflix Simona Sala

All’s well that ends well (Tutto è bene quello che finisce bene, ndr) recita un popolare proverbio mutuato dal titolo di una delle geniali opere del Bardo. E sembrerebbe calzare a pennello, nonché riassumere alla perfezione anche Robbie Williams, la mini serie in top 10 su Netflix, prodotta da Ridley Scott Associates e in cui, come anticipa il – poco fantasioso – titolo, si narra l’incredibile parabola di un Mr. Nobody di Stoke-on-Trent, che nel 1990 entrò a fare parte di una delle più grandi boy band della storia, quei Take That nati come risposta europea ai New Kids on the Block. Quella boy band però, come la corrispettiva femminile Spice Girls, pur investendo da un giorno all’altro di soldi e gloria i propri giovani componenti, dopo pochi anni a Robbie Williams già andava stretta: l’unico ruolo accettabile per lui, istrionico e sexy mattatore, era infatti quello del leader. Ma nei Take That già lo rivestiva Gary Barlow. Nel 1997 a Williams restò così solo il brivido di una carriera da solista – che in UK sarebbe diventata quella di maggior successo di tutti i tempi.

Cinema ◆ Visita sul set di Sauvages!, il film d’animazione del regista romando che uscirà nel 2024

L’animatore muove il braccio della marionetta di due millimetri. Verifica la scena e scatta una fotografia. Lo alza di nuovo. Scatta. Le due immagini in sequenza sullo schermo del computer creano l’impressione di gesto di saluto. «Ma quando salutiamo qualcuno non lo facciamo soltanto con il braccio: usiamo gli occhi, il sorriso», dice l’animatore. Che con una pinzetta magnetica «toglie» palpebre e ciglia alla marionetta sostituendole con altre più aperte, pescandole da una scatola che ne contiene una quindicina di varianti. Scambia anche la bocca con una che tende al sorriso. Poi alza il braccio di un altro po’ e scatta una terza immagine. Siamo a Martigny, negli spazi di una fabbrica in disuso trasformati per sei mesi in set cinematografico per la realizzazione di Sauvages!, il nuovo film d’animazione del regista romando Claude Barras. Sono gli ultimi giorni di riprese. I corridoi sono ingombri di scene e fondali: angoli di foresta, l’ansa di un fiume, cascate, con nomi come «torrente nella nebbia» e «l’albero delle anime». Siamo in uno dei sedici studi ricavati nel grande loft industriale. Dopo aver verificato il risultato, l’animatore posa nuove palpebre e ciglia che «aprono» grandi gli occhi, installa un sorriso deciso e tende il braccio della marionetta verso l’alto. Verifica le luci. Toglie un granello di polvere. Quarto scatto. Ci mostra la sequenza di foto. L’impressione della mario-

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Bruno Giussani

netta che saluta è molto convincente. Claude Barras si fece notare nel 2017, quando il suo film La mia vita da zucchina fu tra i finalisti al premio Oscar. La protagonista del nuovo film è Kéria, una preadolescente proveniente da una tribù di cacciatori-raccoglitori indigeni della foresta del Borneo, i Penan. Kéria accoglie Oshi, un giovane orango orfano. Cercando di ritrovare le sue radici nel cuore della giungla diventa testimone del disboscamento su larga scala e della resistenza dei Penan. Quando si parla di questi ultimi, in Svizzera, il pensiero corre a Bruno Manser, l’attivista basilese che negli anni Ottanta visse fra di loro in Malesia, ne difese il modo di vita (e la foresta) con campagne mondiali, e poi scomparve (la sua fine non fu mai elucidata) nel 2000. «Quand’ero ado-

lescente fui molto colpito dall’attivismo di Manser», spiega Barras, «ma non è un film su di lui», anche se uno dei personaggi, Jeanne, una scienziata impegnata sul clima, è un mix di Manser e della famosa primatologa Jane Goodall. Barras, che si dice molto preoccupato per la crisi climatica e lo sfruttamento delle risorse naturali, per familiarizzarsi con il contesto ha trascorso sei settimane con una famiglia di Penan. Ovviamente, i «selvaggi» del titolo non sono gli indigeni, ma coloro che stringono nelle mani le motoseghe e conducono i bulldozer che distruggono le foreste per far spazio a piantagioni d’olio di palma e a strade. Oltre a Kéria, Oshi e Jeanne il film è popolato da nove altri personaggi (senza contare gli animali della foresta). Tutti sono pupazzi fra i 15 e i 30 centimetri, hanno uno scheletro articolato in metallo ricoperto di lattice e silicone, mentre la testa – grande, rotonda – è di resina stampata in 3D. «Abbiamo molte braccia rotte», dice un animatore. Sono forse la parte più fragile. Lungo un lato della ex-fabbrica c’è il laboratorio dove le marionette vengono riparate. Appese al muro, decine di piccole braccia di riserva. Per creare Sauvages!, che spera di presentare al prossimo Festival di Cannes e mandare poi nei cinema dopo l’estate, Barras si è circondato di specialisti da ogni parte del mondo. I titoli di coda conterranno quasi 200 nomi, per un budget di 13 milio-

ni di franchi. La coproduzione è svizzero-franco-belga. I set sono stati costruiti in Francia, le voci registrate a Bruxelles. Già, le voci. La tecnica dello stop-motion utilizzata da Barras è un metodo di animazione che crea l’apparenza del movimento dei pupazzi scattando una serie di fotografie, ciascuna delle quali rappresenta una piccola variazione, come descritto all’inizio dell’articolo. Prese in sequenza, si crea l’illusione del gesto fluido. Servono almeno 12 fotogrammi al secondo, e il doppio per scomporre movimenti delicati. Per farlo, gli animatori si basano sulle voci. Tutto il film esisteva in versione audio, scritto da Barras e registrato da attori, prima dell’inizio delle riprese. Gli animatori ascoltano parole, frasi e intonazioni per farvi aderire movimenti ed espressioni. E poi scattano. Alla fine, il film conterà 60’000 immagini. È artigianato ambizioso e preciso. Creare i personaggi in digitale avrebbe fatto risparmiare tempo. Ma solo alcuni effetti come fuoco e fumo verranno aggiunti digitalmente: il supplemento d’anima delle marionette è innegabile. Uno dei compiti di Barras durante le riprese era proprio quello, dice, di «garante delle emozioni» che vuole trasmettere attraverso questa favola umanista: quella di una razza – la nostra, umana – che si è per secoli pensata come separata dalla (e padrona della) natura da cui dipende, e deve ora ricomporre la relazione.

Netflix

La nuova favola umanista di Barras

Dicevamo che tutto è bene quel che finisce bene: al termine delle 4 ore di filmati d’epoca, commentati dalla stessa rockstar (quasi sempre a letto, a corroborare una depressione diagnosticata a 22 anni e mai davvero guarita), un Robbie Williams scavato e dai capelli grigi (la figura più lontana da un sex symbol che si possa immaginare) sembra finalmente fare pace con quel mondo che lo aveva eletto indiscusso re del pop, risucchiandone al contempo anche ogni energia vitale, asfissiandolo con le proprie pretese, riducendolo a una specie di robot-show man in balia di droghe sempre più pesanti (nonché di uno staff connivente, più propenso allo sfruttamento che non alla rehab, come era successo per Elvis o Amy). E probabilmente senza il supporto della moglie, l’americana Ayda Field, e dei quattro figli, le cose sarebbero andate diversamente; probabilmente peggio. Robbie Williams però ha uno spin off, tanto involontario quanto sconvolgente, e a titolo tristemente gratuito. Il profilo Instagram dell’artista, infatti, ci restituisce una rockstar consunta ed emaciata (ha ammesso di soffrire anche di disturbi alimentari), oggi rifugiata in uno chalet di Gstaad dove passa il tempo a protestare per mezzo di cartelli, oltre a produrre ostiche vignette e battere frasi inquietanti su una vecchia Hermes, ricordando in quest’ultima attività quel Jack Torrance/Nicholson che a suo tempo, in Shining, scriveva «il mattino ha l’oro in bocca».


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Le origini della fondue chinoise si possono ricondurre al tradizionale piatto cinese hot pot, presente nella cucina cinese da oltre mille anni. Nel XX secolo, l'idea dell'hot pot è arrivata in Europa ed è stata adattata in Svizzera come «fondue chinoise», con un'attenzione particolare alla carne tagliata a fettine molto sottili. Oggi è un piatto molto amato soprattutto nelle feste: un invito alla convivialità.

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