Anno LXXXVI 27 novembre 2023
Cooperativa Migros Ticino
G.A.A. 6592 Sant’Antonino
Settimanale di informazione e cultura
edizione
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MONDO MIGROS
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SOCIETÀ
TEMPO LIBERO
ATTUALITÀ
CULTURA
Il multitasking è un mito che rovina la produttività, causa errori e ostacola il pensiero creativo
La straordinaria forza di Marcel Hug, atleta paralimpico svizzero, specializzato in molte discipline
Momenti buoni e ore buie della collegialità elvetica in attesa del nuovo consigliere federale
Nella serie dedicata ai musei del cuore e ai loro tesori nascosti questa settimana andiamo al Prado
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La politica della motosega
Lo sguardo del lupo nel gelido inverno ceco
Carlo Silini
Franco Banfi – Pagina 12
Forse siamo troppo svizzeri per capire come sia possibile che un Paese metta deliberatamente alla guida delle proprie sorti un tizio che fino all’altro ieri nei comizi brandiva una motosega, oggetto che nel nostro immaginario – a parte l’uso ortodosso dei boscaioli – assurge a simbolo della brutalità sanguinolenta di certi film cult dell’orrore, tipo Non aprite quella porta. Eppure, qualche giorno fa, gli argentini – che al mondo hanno regalato anche la verve bonaria e parrocchiale di Papa Francesco e l’educatissimo genio balistico di Lionel Messi – la porta l’hanno addirittura spalancata a Javier Gerardo Milei, l’anarcocapitalista eletto dal 55,69% dei votanti che promette la dollarizzazione dell’economia, la chiusura (anzi «l’incendio» parafrasando Milei stesso) della Banca centrale e la privatizzazione della scuola e della sanità. Non è certo la voglia di un cambiamento radicale da parte dell’elettorato a stupirci. L’Argentina è stata per buona parte del secolo scorso uno dei Paesi più ricchi del mondo ma, complici i fallimenti di un peronismo retrogrado, è sprofondata dentro una crisi sempre più cupa. Alla vigilia del voto per le presidenziali, l’inflazione era al 142% e, stando alle agenzie di rating, il debito pubblico era valutato CCC, in pratica disastroso. Detto più chiaramente, secondo gli economisti oltre il 40% degli argentini oggi vive al di sotto della soglia di povertà e chi può (giovani e classi medie) prende baracca e burattini e cerca fortuna altrove. Un’America alla rovescia, insomma, se pensiamo che nei lontani anni in cui la fame la pativamo qui, nelle nostre valli, l’Argentina era stata una delle mete privilegiate per l’emigrazione dei ticinesi. Non sappiamo se, una volta insediato al potere, Milei si sfilerà il mascherone caricaturale che ha esibito in campagna elettorale e si farà più cauto e pragmatico, come spesso accade quando si devono sbrogliare le matasse in prima persona e non si può più sparare a zero contro il Governo dai banchi dell’opposizione. Sarà anche «pazzo», come viene soprannominato, ma non è un nuovo Caligola che, secondo la leggenda, voleva nominare console il proprio cavallo. E sarebbe ingenuo identificarlo con l’immagine spiazzante che vuol dare
di sé. Ignoriamo, infatti, se a prevalere sarà l’anima del «loco» (il pazzo, appunto) o quella del realista costretto a operare con prudenza, per esempio andandoci piano con uno smantellamento brusco degli aiuti sociali a una popolazione così malmessa. Seguiremo lo sviluppo della situazione dal nostro più pacato osservatorio, che comunque non è privo di personaggi fuori dalle righe. Basti pensare, anche solo nel piccolo Ticino, alla figura carismatica e irriducibile agli schemi del politicamente corretto che fu Giuliano Bignasca, il leghista che, eletto al Consiglio nazionale si era presentato a Berna impugnando un piccone (correvano gli anni Novanta). Per certi uomini pubblici lo sberleffo e l’insulto sono potenti armi retoriche che si rivelano calamite di consenso. Non dimentichiamo che in Italia un comico come Beppe Grillo è riuscito a creare un movimento che in poco tempo avrebbe preso in mano il Governo, scendendo in piazza al grido rabbioso del «Vaffa…». Insomma, in un qualche modo, quello di Milei è un profilo politico di successo piuttosto tipico dei brutti tempi che corrono. Come Trump, per esempio, assomma un ego smisurato alla capacità di bucare il video (i neo potenti vengono sempre più spesso dal mondo dello spettacolo o dei talk show). Ha una certa predisposizione al complottismo (ritiene il cambiamento climatico «un’invenzione del socialismo»), ma in quanto fondamentalmente anarchico (almeno fino a oggi) può in apparenza aderire a posizioni «progressiste» per ragioni tutte sue. Rispetto al tema dell’identità di genere che aveva scatenato l’indignazione e il disprezzo del «vicino di casa» brasiliano, l’ex presidente Bolsonaro, ad esempio, dice che «se vuoi identificarti come un giaguaro sei libero di farlo, purché tu non chieda soldi allo Stato e non imponga la tua visione a qualcun altro». Le sue idee possono sembrare ruvidamente chiare, ma non vuol dire che siano sempre coerenti. Complicato, per esempio, capire come possa dirsi favorevole al matrimonio civile per tutti ed essere nello stesso tempo contrario all’«ideologia gender», oppure battersi contro il globalismo pur presentandosi come smaccatamente liberista. Misteri a cui solo lui potrà rispondere, con o senza motosega.
Franco Banfi
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azione – Cooperativa Migros Ticino
MONDO MIGROS
Migros Ticino inaugura a Minusio il rinnovato supermercato
Info Migros ◆ Riapre in nuova veste questo giovedì, 30 novembre 2023, completamente rinnovata, la filiale Migros di Via S. Gottardo 56 a Minusio. Per l’occasione, la cooperativa Migros Ticino ha organizzato tre settimane di sconti, omaggi, simpatiche iniziative e animazione per i bambini
Aperto per la prima volta il 15 ottobre del 1981, dopo una totale ristrutturazione nel 2004 e regolari migliorie negli anni seguenti, questo storico e apprezzato punto vendita del Locarnese aveva bisogno di un radicale aggiornamento per restare al passo con i tempi. Con l’intervento iniziato lo scorso 18 settembre si è deciso di fare un ulteriore importante passo avanti nel rinnovo della rete di vendita di Migros Ticino. L’investimento complessivo per i lavori di questo strategico negozio di paese è stato di tre milioni di franchi. I lavori hanno tenuto conto degli ambiziosi obiettivi di risparmio energetico fissati dalla Cooperativa.
La Migros di Minusio è stata rinnovata seguendo un alto standard e con un occhio di riguardo alla sostenibilità ambientale Le strutture, interamente ammodernate e all’avanguardia, sono ora caratterizzate dai più alti e innovativi standard di costruzione e sostenibilità a livello ambientale. Il vecchio riscaldamento a nafta è stato sostituito da un moderno ed ecologico sistema, che combinerà il freddo commerciale a riscaldamento e climatizzazione, recuperando calore dai nuovi frigoriferi a gas naturale CO2. Inoltre, anche il nuovo impianto d’illuminazione LED a basso consumo farà la sua parte in questo progetto di innovazione. Il supermercato, in grado di servire comodamente tutta la
popolazione residente nel Comune o proveniente dai suoi dintorni e i numerosi turisti presenti in zona per lunghi periodi dell’anno, si presenta ora completamente nuovo, con una superficie di vendita su di un solo piano di circa 830 metri quadrati. L’esercizio è facilmente raggiungibile sia con i principali mezzi pubblici sia in auto, disponendo ora di una buona quantità di posteggi di fronte al punto vendita e riservati per la clientela Migros.
Edy Barri contabile
completare questa nuova offerta, saranno presenti il moderno forno per la cottura del pane, il pratico e gratuito servizio di ritiro e restituzione degli acquisti online PickMup, un chiosco e un’offerta di selezionati articoli Vinarte.
Le diverse iniziative per la riapertura Per sottolineare questo nuovo importante intervento di miglioria, Migros Ticino ha previsto tre settimane di festeggiamenti, con varie attività, promozioni e colorati omaggi: spiccano la colazione offerta per tutti dalle 08.00 alle 10.00 e il trucca bimbi per i più
piccoli dalle 10.00 alle 17.00 proposti nella giornata di sabato 2 dicembre.
Orari e contatti Migros Minusio La responsabile Mara Rasic e i suoi diciotto collaboratori, cordiali e ben preparati, sono pronti a soddisfare i bisogni della clientela con cura e attenzione, in un clima accogliente e famigliare. Orari di apertura Lunedi-venerdì: 8.00-19.00 Giovedì: 8.00-20.00 Sabato: 8.00-18.30 Tel. 091 821 77 30.
A caccia di magia sul Monte Generoso Appuntamenti ◆ In Vetta, non solo aperture invernali regolari, ma anche una visita di San Nicolao Dopo un periodo di chiusura di quattro anni, necessario per la ristrutturazione della sovrastruttura ferroviaria, l’azienda ha presentato i dettagli della riapertura per la stagione invernale 2023-2024. A partire dal 2 dicembre fino a fine marzo i treni circoleranno tre volte al giorno durante weekend e i giorni festivi. Il ristorante self-service del Fiore di pietra e il Buffet Bellavista saranno operativi durante l’intera stagione invernale, accogliendo gli ospiti nella stessa finestra temporale summenzionata. Il grotto dell’omonima
Concorso «Azione» mette in palio un biglietto per una famiglia per la data dell’8 dicembre 2023. In Vetta, ad accogliere visitatrici e visitatori, ci saranno San Nicolao e il Circo Tonino. Per partecipare al concorso mandare una e-mail a giochi@azione.ch (oggetto «San Nicolao»), indicando i dati completi della famiglia entro domenica 3 dicembre 2023, ore 00.00. Buona fortuna! Per info: www.montegeneroso.ch
stazione intermedia sarà aperto anche per il pranzo di Natale e per la cena di Capodanno, offrendo un ambiente confortevole e intimo. Sarà inoltre prenotabile per cene ed eventi aziendali anche in settimana.
San Nicolao ha scelto di salire in Vetta L’appuntamento è per venerdì 8 dicembre 2023 (giorno festivo), quando San Nicolao salirà in Vetta con bambine e bambini a bordo del treno a cremagliera del Monte Generoso. San Nicolao ha in serbo molte sorprese, che saranno distribuite durante il viaggio. In Vetta ci sarà poi il Circo Tonino con divertenti attività a tema natalizio. In Vetta si potranno scattare foto ricordo con San Nicolao. Una giornata speciale per inaugurare l’inizio della magica atmosfera natalizia.
Prezzi Approfittate dei prezzi promozionali per la nuova stagione invernale, con biglietti di andata e ritorno scontati del 50%.
Info Migros ◆ A pochi giorni dalla pensione della contabile Edy Barri
«Sono entrata in azienda nel 1974»
Un assortimento variegato e curato nei minimi dettagli I clienti di Migros Minusio potranno fare rapidi acquisti così come una spesa quotidiana o settimanale più completa. L’offerta di prodotti alimentari si è focalizzata sul fresco e sull’ultra fresco, con i fiori all’occhiello rappresentati dal ricco reparto frutta e verdura e dal curato banco carne a servizio. Ben forniti saranno anche i reparti dedicati ai prodotti di consumo immediato, sia caldi sia freddi, e gli assortimenti Nostrani del Ticino e Migros bio, affiancati da una buona selezione di altri prodotti a valore aggiunto. Anche il reparto non alimentare sarà curato nei minimi dettagli e spazierà dai beni di prima necessità ai numerosi articoli per la casa fino ad arrivare all’area della cosmetica. Il punto vendita sarà dotato di casse tradizionali e, per chi invece va un po’ più di fretta, di comode e veloci casse subito per il self checkout: sarà disponibile pure il servizio subitoGo. A
49 anni con Migros
Adulti: CHF 34 (invece di CHF 68) Ragazze/i 6-15 anni: CHF 17 (invece di CHF 34) Bambine/i 0-5 anni: gratis.
Programma 10.05: Partenza del primo trenino della giornata con San Nicolao
10.40: Arrivo in vetta. Inizio delle attività a tema natalizio con Circo Tonino e foto con San Nicolao 12.10: San Nicolao accoglie in Vetta il secondo treno della giornata 14.40: San Nicolao accoglie in Vetta il terzo treno della giornata
Lavorare per 49 anni per lo stesso datore di lavoro, in un’era vulnerabile e soggetta ai cambiamenti come quella in cui viviamo, è certamente straordinario. Un sodalizio umano-professionale che ha dell’incredibile in termini di lealtà e fedeltà, ma che sottolinea anche le doti di competenza e affidabilità della collaboratrice. Può sfoggiare fiera questo traguardo Edy Barri, contabile di Migros Ticino, e a pochi giorni dal meritato pensionamento. «Iniziai a lavorare per Migros Ticino nell’agosto del 1974. Mia madre all’epoca lavorava nel reparto di frutta e verdura, e chiese se non vi fosse la possibilità di fare un apprendistato presso Migros Ticino. Mi chiamarono, fui quindi sottoposta ad alcuni test e infine assunta, e da lì è iniziata la mia avventura Migros». Il quasi mezzo secolo passato in azienda, avrà permesso a Edy Barri di assistere a grandi cambiamenti… «Certo, ho visto molte persone andare e venire, molte cose che mutavano, ma credo che il cambiamento più grande e importante sia stato il passaggio dal lavoro manuale a quello informatizzato. Migros è sempre stata all’avanguardia in ambito tecnologico, infatti già all’epoca avevamo un reparto informatico, ma si faceva più affidamento alla manualità, e soprattutto si faceva più contabilità». Per restare quasi 49 anni, però, anche l’ambiente lavorativo non doveva essere male… «Per quanto riguarda il lato umano, sono stata fortunata, nel mio reparto c’è sempre stato un ambiente bellissimo. I colleghi che in passato mi hanno insegnato il lavoro per me sono stati come dei fratelli maggiori, in particolare il mio primo capo dei servizi contabili. Ho dunque sempre lavorato volentieri, e a tempo pieno, se si esclude un periodo in cui ero attiva all’80% perché volevo seguire la famiglia». Quasi cinquant’anni alla Migros e per la Migros; non deve essere facile lasciare andare da un giorno all’altro: come immagina il suo futuro Edy Barri? «Sto smettendo di lavorare in modo graduale, ora lavoro solo al 50%. Paura di smettere non ne ho! La prima cosa che voglio fare quando vado in pensione è spegnere la sveglia. Poi dedicarmi di più alla mia famiglia, passare più tempo con i miei nipotini e occuparmi della mia casa. Mi mancheranno molto colleghe e colleghi, soprattutto ora che c’è un bel gruppo di giovani, e questo mi dispiace, ma non ci perderemo di vista!». Insomma, un traguardo del tutto meritato, e ai colleghi e all’azienda non resta che fare i più cari auguri a Edy Barri, accompagnandoli del ringraziamento per il suo impegno.
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I bambini e la musica I corsi destinati ai bambini piccoli del Conservatorio della Svizzera italiana: l’esperienza di un papà
Regalare istanti felici L’impegno dell’associazione Ellie e Mia in aiuto alle famiglie confrontate con la malattia
Lupo, regole di comportamento Il Cantone ha pubblicato un foglio informativo per spiegare come reagire in caso di incontro con un lupo
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Il gigantesco errore del multitasking
Il caffè delle mamme ◆ Chiedere al nostro cervello di spostare continuamente l’attenzione da un’attività all’altra esaurisce le energie cerebrali molto velocemente: il discorso vale anche per i ragazzi sempre collegati ai social Simona Ravizza
L’imperativo di riuscire a fare tutto ci costringe quotidianamente a essere multitasking, termine che tecnicamente indica la capacità di un software di eseguire più programmi contemporaneamente. I Millennial Dads, ospitati su «Azione» lo scorso aprile, ci hanno dimostrato che ormai non è più nemmeno prerogativa solo femminile essere collegati a una riunione su Zoom con il pupo in braccio. E l’abitudine di studiare e interrompersi in continuazione per guardare TikTok o mandare vocali su WhatsApp fa fare più cose nello stesso tempo anche ai nostri figli (anche se per finalità meno nobili!). Insomma, siamo tutti (o quasi) sempre più immersi nell’Era del multitasking! Un errore gigantesco. Per dimostrarlo stavolta abbiamo deciso di fare un’intervista a Eliana Liotta, giornalista, scrittrice di bestseller e divulgatrice scientifica che dell’argomento, tonnellate di studi alla mano, è un’esperta. Abbiamo deciso di invitarla a Il caffè delle mamme per farci capire che è arrivato il momento di dire: «Basta!». Secondo Earl Miller, neuroscienziato del Massachusetts Institute of Technology di Boston e uno dei massimi esperti mondiali di cognizione, attenzione e apprendimento, il multitasking è un mito, il cervello non può farlo. Perché? Miller dimostra che come esseri umani abbiamo una capacità molto limitata per il pensiero simultaneo, possiamo solo tenere in mente una piccola quantità di informazioni in ogni singolo momento. Per esempio, ogni volta che passiamo dalla scrittura di un documento importante al controllo delle mail, prosciughiamo energia e risorse cerebrali. Il suo consiglio è di evitare il multitasking, perché «rovina la produttività, causa errori e ostacola il pensiero creativo». Il multitasking provoca stanchezza mentale: c’è una spiegazione scientifica al nostro malessere quotidiano? Il motivo è che il cervello consuma troppo carburante. Secondo il neuroscienziato Daniel Levitin, attualmente professore di Psicologia e Neuroscienze comportamentali all’Università McGill di Montréal (Canada), chiedere al cervello di spostare l’attenzione da un’attività all’altra fa sì che la corteccia prefrontale e lo striato, ossia le aree cerebrali che contribuiscono a decidere quale tra i possibili comportamenti eseguire in un dato momento, brucino il glucosio ossigenato, lo stesso carburante di cui hanno bisogno per rimanere attivi. E il tipo di
«Le aspettative sulla capacità delle donne di fare più cose contemporaneamente sono alimentate da un’invenzione sociale che mira a lasciar loro mille incombenze». (Freepik.com)
spostamento rapido e continuo che facciamo con il multitasking fa sì che il cervello bruci carburante così rapidamente che ci sentiamo esausti e disorientati anche dopo poco tempo. Abbiamo letteralmente esaurito i nutrienti nel nostro cervello! Davvero il multitasking crea anche più stress e ansia? Tra i suoi principali effetti sul nostro cervello c’è un significativo aumento dei livelli di cortisolo, l’ormone dello stress. Secondo Sandra Bond Chapman, fondatrice del Center for Brain Health dell’Università di Dallas, il nostro cervello sa fare bene una cosa alla volta: i neuroni, se devono sorvegliare molte attività contemporaneamente, non riescono a spartirsi i compiti e li tengono tutti sotto controllo, millisecondo per millisecondo, commutando il proprio impegno dall’uno all’altro. La conseguenza è ancora una volta negativa: un superlavoro che produce risultati modesti e imprecisi. Vogliamo essere più efficienti, in realtà rischiamo di prendere decisioni sbagliate… Il multitasking danneggia senza dub-
bio anche le capacità decisionali. Passare costantemente da un’attività all’altra porta all’accumulo di fatica decisionale. Sempre secondo il neuroscienziato Levitin, una delle prime cose che perdiamo è il controllo degli impulsi. Questo si trasforma rapidamente in uno stato di esaurimento in cui, dopo aver preso molte decisioni insignificanti, possiamo finire per prendere decisioni davvero sbagliate su qualcosa di importante. Il multitasking spacciato in positivo come capacità delle donne di fare più cose contemporaneamente per stare dietro a faccende domestiche, lavoro, marito e figli, è insomma una grande fregatura! Ma è un enorme problema anche per gli Gen Z che sono i nostri figli abituati a fare qualsiasi cosa connessi ai social… Lo psicologo americano Reynol Junco e Shelia R. Cotton del Department of Media and Information della Michigan State University hanno pubblicato uno studio sugli effetti del multitasking sul rendimento scolastico: è risultato che gli studenti che usano i social e rispondono
ai messaggi mentre fanno i compiti hanno voti inferiori rispetto a quelli che non lo fanno. Il punto è sempre lo stesso: la capacità di elaborazione delle informazioni umane non è sufficiente per avere più input contemporaneamente. Il multitasking, dunque, ostacola la capacità di apprendimento facendo diminuire la concentrazione. Per tornare concentrati su quello che stiamo facendo dopo essere passati ad un’altra attività (in inglese task switching) ci vuole poi del tempo. Che cosa dicono gli studi? Uno studio condotto presso l’Università della California ha scoperto che per concentrarsi nuovamente su un’attività dopo un’interruzione ci vogliono in media 23 minuti e 15 secondi. Il task switching comporta certamente una perdita di tempo. Demolito il multitasking, resta il problema dei problemi: soprattutto noi donne come facciamo nella vita quotidiana a non essere multitasker? Dobbiamo imparare a concedere a noi stesse di restare il più possibi-
le su una cosa sola alla volta. Ben consapevoli che le aspettative sulla nostra capacità di fare più cose contemporaneamente sono alimentate solo da un’invenzione sociale. Un modo per lasciarci sulle spalle mille incombenze, come se il nostro cervello fosse differente da quello maschile! Ripeto: ma come possiamo fare? Un aiuto può essere imparare ogni tanto a dire qualche no. Ciò non vuol dire rinunciare alla nostra energia vitale che ci fa tenere insieme casa, famiglia e lavoro, ma darci tregua e chiedere a chi ci sta vicino di darcela per permetterci di concentrarci su quello che in un determinato momento consideriamo una priorità. E con i nostri figli, ci domandiamo ancora a Il Caffè delle mamme, come comportarci? L’illusione di potere tenere una conversazione mentre danno un’occhiata al cellulare forse è ancora peggio di mettere su la pentola della pasta al telefono con il proprio capo. Forse, possiamo iniziare col dargli il buon esempio.
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MONDO MIGROS
Dolci tentazioni firmate Baci Perugina
Novità ◆ Per il periodo natalizio nelle maggiori filiali Migros trovate due prodotti del celebre marchio italiano, ideali per far fondere il cuore di tutti i golosoni
Impossibile non lasciarsi tentare dai cioccolatini Baci Perugina che, oltre alla loro incomparabile raffinatezza che si scioglie in bocca, fin dalla loro creazione nel 1922 contengono il tradizionale cartiglio, ovvero un messaggino con le più belle frasi d’amore. Per la gioia dei golosi di tutte le età, Migros Ticino quest’anno ha introdotto due deliziose specialità del noto marchio italiano, Baci Perugina assortiti e Baci Perugina Amaretto, entrambi confezionati in un’elegante scatola regalo. La confezione assortita contiene una selezione di 20 cioccolatini in tre gusti differenti: il Classico con morbido cuore al gianduia, granella di nocciola, nocciola intera e doppia copertura di pregiato cioccolato fondente Luisa; al Latte con cuore morbido al gianduia, granella di nocciola, nocciola intera e vellutato cioccolato al latte e Fondente 70%, una delizia dedicata agli amanti dei sapori intensi con morbido cuore di gianduia, granella di semi di cacao caramellati, nocciola intera tostata e copertura di cioccolato extra fondente al 70% per un momento di piacere puro. I Baci Perugina Amaretto sono perfetti per condividere i momenti speciali con le persone a cui si vuol bene. Confezionati in un prezioso incarto bronzeo con stelle argentate, questi inediti cioccolatini sono avvolti con una pregiata copertura di cioccolato fondente Luisa al gusto di biscotto amaretto, cuore di gianduia con granella di mandorle e iconica nocciola intera. Infine, nella speciale edizione natalizia, al loro interno i cioccolatini contengono per la prima volta dei bellissimi messaggi di auguri.
Baci Perugina Amaretto 12 pezzi/150 g Fr. 7.50
Baci Perugina assortiti (classico, latte, fondente) 20 pezzi/250 g Fr. 14.50
In vendita nelle maggiori filiali Migros
Il panettone originale di Milano
Attualità ◆ Vergani è rimasta l’unica azienda italiana a produrre ancora il proprio panettone a Milano, dove il dolce lievitato è uno dei simboli della città. Migros quest’anno propone tre irresistibili novità del noto marchio
Panettone classico senza glutine Vergani 600 g Fr. 14.95
Pandoro pistacchio Vergani 850 g Fr. 14.95
Panettone al cremino Vergani 900 g Fr. 15.95 In vendita nelle maggiori filiali Migros
Nato nel 1944 come piccolo laboratorio di pasticceria in viale Monza a Milano, oggi Vergani è ormai diventato un marchio di eccellenza non solo in Italia, ma anche in molti Paesi nel Mondo. Quella di Vergani è una storia di famiglia di successo che si tramanda da ben quattro generazioni. Genuinità degli ingredienti e continua ricerca della qualità sono criteri fondamentali per poter produrre il vero panettone milanese, il tutto nel
pieno rispetto della ricetta originale al fine di garantire a tutti i consumatori un prodotto d’eccellenza. Vergani è rimasto oggi l’unico grande marchio a produrre il proprio panettone nella città dove è nato il dolce natalizio per eccellenza. Nel laboratorio dell’azienda, situato a pochi metri dalla prima storica sede, esce un prodotto realizzato come da tradizione con la stessa cura artigianale tramandata dal fondatore Angelo Vergani.
Le specialità Vergani alla Migros Sono tre i dolci festivi a firma Vergani introdotti quest’anno come novità nell’assortimento di Migros Ticino. Il panettone classico senza glutine è dedicato a coloro che pur seguendo una dieta priva di glutine non vogliono comunque rinunciare al piacere della grande tradizione.
Una lunga lavorazione con ingredienti sicuri e di qualità garantisce un prodotto dalla caratteristica alveolatura che a ogni morso regala i sapori autentici del dolce simbolo natalizio. Prodotto secondo il metodo tradizionale tramandatosi da generazioni, il panettone al cremino con gocce di cioccolato deve la sua inconfondibile sofficità e morbidezza alla lunga lavorazione di 50 ore e al raffredda-
mento naturale a testa in giù. La pratica sac à poche con crema alla nocciola acclusa alla confezione permette di farcire il panettone secondo i propri gusti. Gli amanti del pistacchio hanno di che gioire: ecco il pandoro classico con sac à poche alla crema di pistacchio, una bontà da farcire a piacere dal gusto intenso e caratteristico che soddisferà i palati di tutti, anche i più difficili.
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MONDO MIGROS
Incontro con lo scrittore Eventi ◆ Sabato 2 dicembre, dalle 10.00 alle 13.00, lo scrittore Federico Iannaccone presenterà il suo nuovo libro presso il reparto libri di Migros S. Antonino
Lo scrittore Federico Iannaccone sarà ospite del reparto libri Migros di S. Antonino per presentare la sua ultima fatica letteraria, Anime nella polvere, un avvincente storia vera ambientata nel continente africano. «Il mio nuovo libro parla del mio viaggio attraverso la savana più selvaggia, dove mi sono recato senza alcuna protezione alla scoperta dei predatori più temuti della terra», spiega Federico, che
con i suoi libri desidera dimostrare alle persone come le cose possano diventare possibili quando si trova il coraggio di inseguire i propri sogni. «In Africa ho viaggiato per giorni, dormendo in tenda, accompagnato solamente da guide Hadza, la più antica tribù della Tanzania, per entrare davvero in contatto con i meravigliosi animali che popolano quella regione. Il libro narra proprio delle forti emozioni che ho
provato durante questa avventura, in luoghi dove gli istinti primordiali sono ancora vivi e in cui è ancora la natura a comandare». Anime nella polvere è il sesto libro di Federico Iannaccone. Il suo primo romanzo Come radice nella pietra è stato finalista del concorso letterario internazionale «Premio inedito colline di Torino» ed è stato tradotto anche in spagnolo e distribuito in America latina.
Realizza i sogni con l’aiuto di Finn
Attualità ◆ Il simpatico folletto della Migros è tornato per il periodo natalizio
«Migros fa di più per la Svizzera», anche a Natale. Quest’anno ritorna l’amato folletto Finn che, oltre a essere protagonista dello spot natalizio, aiuta anche a regalare un po’ di gioia e felicità alle persone meno fortunate o che ci stanno particolarmente a cuore. Grazie all’albero dei sogni digitali, infatti, ognuno può indirizzare un messaggio di auguri a una persona di propria conoscenza affinché Migros possa esaudire per lei un sogno. Tra tutte le persone nominate entro il 24.12.2023, verranno in seguito estratti i vincitori che potranno aggiudicarsi diversi bellissimi sogni, come per esempio vacanze per le
famiglie, buoni per arredare la casa, pranzi in famiglia, biglietti per festival, abbonamenti fitness e una gita sul Monte Generoso. I regali sono stati donati da diverse imprese del Gruppo Migros. Inoltre, ogni giorno vi è pure la possibilità di vincere delle carte regalo grazie alla ruota della fortuna.
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Flûtes Raclette Limited Edition, 130 g
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azione – Cooperativa Migros Ticino
SOCIETÀ
Condividere l’emozione della musica
Famiglia ◆ I corsi del Conservatorio della Svizzera italiana dedicati ai bambini nell’esperienza di un papà
Si dice spesso «Ticino, terra di poeti» ma nondimeno si potrebbe dire «Ticino, terra di musicisti» se si considerano i tanti lodevoli artisti che hanno dato lustro a quest’arte sul nostro territorio, tra cantanti, cantautori, musicisti, compositori e direttori d’orchestra. Molti sono anche gli enti che se ne occupano: associazioni, archivi museali, società, fonoteche, bande musicali, scuole di musica. Tra queste spicca il Conservatorio della Svizzera italiana, che si occupa di musica a 360 grandi da quasi quarant’anni, spaziando dalla ricerca alla formazione, da quella di base al Pre College, fino alla scuola universitaria, ma che vanta anche una fondazione, un settore per la promozione di eventi e persino un magazine.
I corsi genitore-bambino e Educazione musicale elementare avvicinano al linguaggio musicale fin dalla più tenera età Il CSI (Conservatorio della Svizzera italiana), tra le sue molteplici attività, permette dunque di comprendere e apprendere l’ABC del mondo della musica iniziando fin dall’infanzia grazie al corso bambino-genitore (BG) pensato per i più piccoli (dagli zero ai tre anni), e al corso Educazione musicale elementare (EME) per bambini
dai quattro ai sei anni che non prevede la presenza di un genitore. Per conoscere più da vicino queste opportunità abbiamo incontrato Fiorenzo Macconi, papà di Lorenzo, che da diverso tempo vive la musica nel percorso proposto dal CSI. L’esperienza di Lorenzo a Besso è iniziata quando di anni ne aveva quattro e fin da subito il suo interesse è stato eloquente: «A Lorenzo è subito piaciuta la musica, al contrario degli sport o del disegno. La musica entra in connessione con lui, e questo è stato il presupposto che ha permesso al piccolo di continuare», afferma il papà. Presupposto che una volta sviluppato, crea quel senso di familiarità tra bambino e musica, innescando benefici diretti come il «ricordare canzoni e ritmi». Infatti, nei corsi destinati ai più piccoli non viene insegnato agli allievi come esibirsi davanti a una platea con un clavicembalo, ma i bambini possono divertirsi e comunicare attraverso la musica, per esempio con filastrocche, giochi musicali, canti, danze e altre attività che li aiutano a migliorare la motricità e ad arricchire la relazione con i genitori. La dimensione familiare permette loro di imparare senza timore di sbagliare e non sentirsi giudicati, favorendo una comunicazione leale tra genitore e bimbo. È oltretutto il momento in cui si inizia a socializzare e confrontarsi con altri e lo si fa attraverso la musica. A quell’età il mondo è tutto da
scoprire, si apprende quindi non solo grazie a ciò che viene insegnato, ma anche da come il genitore reagisce a certe melodie. Dopo aver concluso questo corso, Lorenzo ha iniziato a frequentare il corso EME, grazie al quale può sviluppare nello specifico una nuova abilità: «La sensibilità per la musica». Caratteristica in grado di esaltare le proprie capacità espressive, grazie a cinque sfere di riferimento: ascolto, voce, movimento, suonare strumenti a percussione e non (Orff ) ed espressione visiva di quanto vissuto nei primi quattro ambiti. Questo non significa che apprese queste abilità un bambino diventerà necessariamente il nuovo Jimi Hendrix; l’intento nell’iscrivere il proprio figlio a questo corso, dice papà Fiorenzo, è quello di «smuovere qualcosa, così che un giorno possa interessarsi al canto, al ballo, o anche essere facilitato nella memorizzazione delle canzoni». Il momento di condivisione è molto prezioso perché «fa trascorrere un momento diverso da quello che è la quotidianità all’interno di una scuola o di un asilo, e ho anche notato che la musica infonde tranquillità e serenità in mio figlio». Insegnare il linguaggio musicale fin dalla più tenera età, rendendolo parte integrante della vita dei bambini, è stato uno degli intenti di Armin Brenner, storico direttore del Conservatorio, che fin dalla sua fonda-
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zione volle i corsi EME. Corsi cresciuti insieme alla scuola così come il corpo insegnate specializzato per lavorare con i bambini. A tal proposito Fiorenzo osserva che «i bambini sono cresciuti, i docenti negli anni sono cambiati, ma la bravura di queste figure l’ho notata soprattutto nel fatto che sono state in grado di capire e adattarsi ai diversi caratteri dei bambini, in modo tale da condividere una passione che fondamentalmente non è ancora sviluppata». Il personale qualificato e competente aiuta e predispone gli alunni a entrare in aula e apprendere più volentieri. Al di là di quello che può essere la pratica, ciò
che rimarrà nella memoria e nel cuore, racconta Fiorenzo riferendosi al figlio, è che «ha sperimentato qualcosa con noi e ha trascorso dei bellissimi momenti all’interno dell’aula in cui si condivideva musica». Certo è che «sarebbe comunque bello vederlo suonare uno strumento», proprio perché «la musica è bellissima», regala emozioni, crea legami indissolubili e permette a chi la vive di poter trascorrere momenti che difficilmente si scorderanno, specialmente se condivisi con i propri affetti.
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Istanti felici racchiusi in un pacco
Solidarietà ◆ L’associazione Ellie e Mia aiuta famiglie confrontate con la malattia a vivere momenti sereni da ricordare Stefania Hubmann
«Un istante felice dura per sempre» e nella vita quotidiana di famiglie colpite da una grave malattia questo istante può essere rappresentato e moltiplicato da un pacco sorpresa e dal suo contenuto. L’associazione Ellie e Mia, che si presenta con questo messaggio, li consegna mensilmente a decine di famiglie con figli minorenni residenti in Ticino e nel Grigioni italiano. Non si tratta però di pacchi qualsiasi. Ogni confezione è una piccola meraviglia personalizzata, preparata con grande cura e offerta con altrettanta discrezione. Più che le parole in momenti così difficili possono aiutare i gesti, in particolare quelli inattesi che regalano forti emozioni positive all’intera famiglia. Dalle limitate consegne iniziali l’associazione, nata quattro anni fa, ha visto crescere la sua attività grazie al riscontro delle famiglie, grate di poter ritrovare un sorriso e costruire ricordi preziosi con i propri cari.
I pacchi consegnati dall’associazione aumentano costantemente: quest’anno sono 400 a favore di cento bambini «Un grande grazie che arriva dal profondo del nostro cuore». «La sensazione di essere abbracciato da tutte e tutti voi, in un abbraccio solidale e di condivisione». Sono alcune delle frasi contenute nei messaggi di ringraziamento che Silva Celio, presidente dell’associazione Ellie e Mia, ci legge durante l’intervista. L’abbiamo incontrata nella sua casa a Someo, nella quale ampio spazio è riservato al materiale necessario per la preparazione dei pacchi. L’iniziativa è infatti partita in famiglia dopo la scomparsa delle sue gemelline decedute a causa di una malattia incurabile. Con il marito Nicholas Righetti e il sostegno di parenti e amici ha fondato l’associazione, permettendo ad altre famiglie di beneficiare di momenti di spensieratezza generati dai piccoli grandi gesti che loro stessi avevano tanto apprezzato. «Confezioniamo i pacchi con pas-
sione e cura per i dettagli, in modo che raggiungano veramente il loro scopo nella famiglia che affronta un destino difficile», spiega Silva Celio. «Tre sono i tipi di contenuti che caratterizzano i pacchi: le leccornie, i lavori artigianali e i buoni. Le prime sono importanti per il morale e per suggerire momenti condivisi. Sono per lo più prodotti preparati in casa dai nostri volontari che lavorano in maniera rigorosa secondo le normative vigenti (siamo annunciati al Laboratorio cantonale). Non a caso una delle nostre proposte si chiama “Il cestino goloso” e viene realizzato grazie anche ad acquisti con uno sconto presso produttori locali, soprattutto per quanto concerne gli alimenti freschi. I lavori realizzati a mano sono pure molto curati, dalle bambole ai grembiuli con il nome, dai mestoli in legno decorati ai lavori a maglia. Accanto ai doni inseriamo attività manuali dal valore educativo adatte all’età e allo sviluppo dei bambini presenti in casa. Un’altra componente importante, pensando agli adolescenti, sono i buoni, che favoriscono momenti di svago fuori casa, quali possono essere il cinema o lo sport». Di professione pediatra, Silva Celio è appassionata di bricolage, cucina e giardinaggio, ciò che le permette di disporre di prodotti realizzati personalmente da inserire nei pacchi. L’attività si è però talmente ampliata da richiedere il coinvolgimento di un nutrito gruppo di volontarie e volontari. Si tratta di una trentina di persone che assicurano contributi regolari. L’impegno è infatti esteso all’intero arco dell’anno. Precisa al riguardo: «Consegniamo otto pacchi alla settimana e ciò significa essere sempre operativi. Finora abbiamo raggiunto 76 famiglie. I pacchi sono in costante aumento e quest’anno siamo arrivati a 400, a favore di cento bambini e altrettanti adulti. Per la loro distribuzione e per la gestione amministrativa disponiamo ora di due collaboratrici a tempo parziale». I pacchi, sempre unici, offrono alla famiglia – nella quale il malato può essere un figlio, una figlia o un genito-
Il pacco «lucciola – una luce nella notte» rappresenta simbolicamente quello che l’associazione cerca di fare: portare luce, cioè un istante di spensieratezza, in un momento buio.
re – una varietà di esperienze. L’intervallo fra un pacco e l’altro, di principio un mese, può diventare più lungo se e quando la situazione in famiglia migliora. Spiega l’intervistata: «Se la persona ammalata viene a mancare, la consegna prosegue ugualmente per un anno e in seguito due volte all’anno. Questo sempre nel rispetto con quanto auspicato dalla famiglia». Il contatto fra l’associazione e le famiglie è limitato per rispettare al massimo la privacy e la tranquillità di queste ultime. Il primo pacco viene quindi realizzato partendo da poche informazioni legate all’età dei figli e alle loro preferenze. I feedback permettono poi di personalizzare ulteriormente gli invii. Ecco quindi che possiamo ammirare il pacco risotto per un pasto preparato e consumato insieme, il pacco calcio, o ancora quello dedicato al cinema. Gli «Istanti felici» proposti mensilmente dall’associazione sono completati dalla confezione Happy Birthday contenente l’occorrente per una festa di compleanno con una decina di bambini (fino a 10 anni). Decorazioni, piattini, posate, attività
per i piccoli permettono ai genitori di organizzare con facilità un piccolo evento le cui fotografie diventeranno ricordi preziosi di momenti sereni in una fase della vita molto dura. Il materiale può essere legato a un tema specifico, così come la torta, fornita su richiesta. Il pacco compleanno a tema viene consegnato anche se non è prevista una festa. «Lavoriamo con amore e umiltà, per offrire alle famiglie momenti sereni in un contesto, oltre che di sofferenza, di stravolgimento della vita quotidiana. L’espansione dell’attività – prosegue la presidente – richiede ora maggiore spazio per lo stoccaggio e personale per la preparazione dei pacchi che al momento confeziono da sola in casa. Siamo quindi alla ricerca di una sede esterna adeguata. Sono inoltre benvenuti nuovi volontari (con contributi anche saltuari) per la preparazione dei prodotti». Sostenuta da commercianti locali e da fondazioni ticinesi e del resto della Svizzera, l’associazione Ellie e Mia risponde a un bisogno delle famiglie colpite da una malattia che ha un impatto importante sulla durata
e/o la qualità di vita. A spiegare bene l’importanza di questo tipo di sostegno è Valeria Cusumano, prima beneficiaria dell’associazione in quanto vicina di casa di Silva Celio nel Bellinzonese a inizio 2020, quando ha dovuto affrontare la malattia del marito con due bambini piccoli, entrambi a casa a causa dell’emergenza pandemica. «Da noi le sorprese arrivavano nel “comodino magico” situato fra le rampe delle scale. Per i bambini, ma anche per me, era una vera gioia, un momento sereno che alleggeriva la giornata e permetteva di “staccare” dalle preoccupazioni costanti legate alla malattia di mio marito. Ciò che i piccoli (cinque anni il figlio, due e mezzo la figlia) trovavano nel comodino non erano mai pensieri scontati, bensì una colazione golosa con treccia e marmellata fatte in casa, lucine per rendere più bello il momento del bagno, attività manuali e persino una mini caccia al tesoro». Per Valeria Cusumano e i suoi figli erano proprio «istanti felici, gesti di grande valore» che sorprendono sempre più famiglie di culture diverse. L’associazione desidera ora migliorare la propria struttura, all’insegna di quel rigore nell’operare che la caratterizza fin dall’inizio. Per beneficiare dei pacchi è infatti necessario riempire un formulario (scaricabile dal sito www.ellie-mia.ch) che deve recare anche la firma del medico curante. Con l’avvicinarsi del Natale, l’attività nella sede di Someo è ancora più frenetica con al centro il calendario dell’Avvento, La Casa di Ellie e Mia con 25 finestre da colorare i cui disegni riprendono i temi cari all’associazione, ossia i momenti e le attività che rallegrano una famiglia nella quale un membro è colpito da una grave malattia. Già prevista, infine, anche un’attività per il 2024 con una cena di beneficenza a favore dell’associazione. In primo luogo si continuerà però a regalare istanti felici con la massima discrezione. Informazioni www.ellie-mia.ch
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Viale dei ciliegi Silvia Vecchini-Lucia De Marco 24 passi a Natale Lapis (Da 5 anni)
Bisogna essere coraggiosi e molto bravi per scrivere dei racconti che abbiano, incastonata al loro interno, la perla preziosa di una riflessione etica. Un’apertura a una profondità di sentimento e di pensiero che non suoni come una morale, ma che sia davvero un’occasione per cogliere l’inaspettato, per vedere la meraviglia nelle cose che abbiamo, per prendersi il tempo di ascoltarsi e di ascoltare, per riconoscere – con le parole dell’autrice – «l’attimo in cui un pezzetto di cielo si fa trovare sui nostri passi». Silvia Vecchini, con la sua consueta grazia, ci riesce, ben coadiuvata dalle illustrazioni di Lucia De Marco. Il risultato è un incantevole libro dell’Avvento, che si distingue dentro questo genere natalizio – un racconto al giorno per 24 giorni – peraltro molto presente nell’editoria degli ultimi anni. I racconti della Vecchini sono belli, originali, coinvolgenti, costruiti con il giusto ritmo e il giusto
di Letizia Bolzani
numero di parole. Parlano ad esempio di foglie che hanno il colore del cielo, di sentieri nascosti nel bosco, di fiumi che improvvisamente si mettono a scorrere al contrario, di barbagianni bianchi nel bianco della neve, di mendicanti che nel cappello danno rifugio agli uccellini, di statue che piangono in silenzio, di bambini festosi, e di tanto, tanto altro. Alla fine di ogni storia c’è un piccolo, leggero, invito ad accogliere una disposizione d’animo aspettando il Natale. Dopo la storia dell’altalena rotta, ad esem-
pio: «Aspettando il Natale, ripariamo quello che si è rotto per tornare più forti e felici»; o, dopo la storia del fiore che sboccia nella neve: «Aspettando il Natale, rallentiamo per veder sbocciare cose nuove». Da leggere insieme, adulti e bambini, piano piano, giorno dopo giorno, prendendosi il tempo di rallentare per questi ventiquattro passi, e lasciarsi nutrire, con calma, dalla poesia di queste ventiquattro storie. Frida Nilsson, illustrazioni di Anna Benotto Buon Natale Cipollino Lupoguido (Da 6 anni)
Anche questo libro era stato pensato, in origine, come calendario d’Avvento, ma qui il racconto è unico, suddiviso in venticinque capitoli che volendo si possono leggere uno al giorno, oppure si può benissimo leggerlo di seguito, come romanzo breve. Se letto da un adulto ad alta voce, è proponibile sin dai 5-6 anni, altrimenti, come lettura autonoma, dai 7-8. L’autrice è una delle più im-
portanti scrittrici svedesi per l’infanzia, apprezzata sia per i suoi romanzi per bambini (ricordo almeno Mia mamma è un gorilla, e allora?), sia per le opere per ragazzi più grandi, come l’intenso, e drammatico, La spada di legno. In questo caso non c’è fantasy né surreale, ma siamo invece nel bel mezzo di una quotidianità realistica di un villaggio svedese, una quotidianità resa però emozionante e coinvolgente perché vista dalla prospettiva del piccolo protagonista, Stig, detto
Cipollino. Ci stiamo avvicinando al Natale e Stig desidererebbe proprio una bicicletta, ma i soldi che la mamma guadagna scrivendo articoli per un giornale non bastano a comprarla, e Stig deve accontentarsi di far finta di correre in bici mentre cammina verso la scuola, contenendo l’invidia verso i suoi compagni che una bici ce l’hanno davvero. A dirla tutta, però, forse il più grande desiderio di Stig è quello di avere un papà, ma sappiamo bene che la vita non sempre va come vuoi. A volte però, la vita, pur non andando come vorresti, prende strade inaspettate che portano regali ancora più belli. E una di queste strade porterà il ragazzino all’officina di Karl, meccanico apparentemente strambo, un po’ emarginato, di cui si dice che ipnotizzi galline. Ma forse l’ipnosi non serve, bastano l’ascolto, il coraggio e l’amore. Una storia molto bella, come molto belle sono sia le illustrazioni che ne colgono perfettamente lo spirito, sia la traduzione di Laura Cangemi, sia la veste editoriale di Lupoguido. Da leggere in Avvento, ma anche tutto l’anno.
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L’enigma di uno sguardo
Reportage ◆ A pochi passi da un branco di lupi in Repubblica Ceca, all’interno di un’area isolata del complesso forestale più esteso d’Europa, riconosciuto come riserva della biosfera dall’Unesco Franco Banfi, testo e foto
Sono sempre stato affascinato dallo sguardo, soprattutto quello degli animali selvatici. Quando l’uomo è nella situazione di guardare in natura un animale selvatico negli occhi, a distanza ravvicinata, senza ausilio di cannocchiali o potenti teleobiettivi, è perché l’animale glielo ha concesso, si sta fidando, si è reso vulnerabile. È sicuramente un grande privilegio vivere queste rare situazioni. Significa che l’uomo è riuscito a vincere la timidezza e l’istinto di sopravvivenza che induce alla fuga repentina la maggior parte degli animali selvatici. La pazienza, la dedizione, la conoscenza e la determinazione dell’uomo sono state premiate. Ha raggiunto un obiettivo in cui ha investito energia e tempo in ricerche e studi, ha percorso consapevolmente chilometri su sentieri spesso impervi, quasi sempre in totale solitudine, senza accorgersi di alcun incontro che pure è avvenuto a sua insaputa. Un’ambizione spesso attesa e perseguita per anni è finalmente raggiunta in un primo confronto, dopo non pochi fallimenti e fatiche. Riuscire a guardare un lupo o un branco di lupi liberi, è cosa rara, direi rarissima. Loro ci fiutano e ci osservano, a distanza, e sono attenti a evitarci, consapevoli che l’uomo è un pericolo. Possiamo ucciderli senza chance di difesa, sia con dichiarata intenzione (abbattimenti selettivi, cacciatori, bracconieri, eccetera) sia passivamente (distruzione dell’habitat e inquinamenti di molteplici tipologie). Negli anni recenti è sicuramente più agevole monitorare e documentare la presenza di animali selvatici in un determinato territorio grazie al posizionamento di foto-trappole, macchine fotografiche automatizzate che vengono allestite in posizioni strategiche sul territorio considerato e che scattano immagini senza la presenza dell’uomo, con un’inquadratura fissa. Ma una cosa è monitorare di nascosto la presenza di fauna selvati-
ca, carpendo dati attinenti itinerari, abitudini, comportamenti, altro è riuscire a guadagnarne la fiducia e potersi guardare consapevolmente negli occhi, a volto scoperto. Tutti i predatori si studiano reciprocamente quando si incontrano. Valutano il pericolo di diventare preda e l’opportunità di predare, hanno comportamenti codificati dalle leggi ancestrali della sopravvivenza in natura. Il primo senso usato a breve distanza per questa analisi è sicuramente la vista. Ogni esemplare ha sguardi assolutamente unici, caratteristiche distintive, esprime emozioni e stati d’animo. Quando un singolo esemplare di lupo non evita l’incontro con un uomo, solitamente ha un atteggiamento di sottomissione. Al primo confronto, i grandi occhi gialli spalancati a scrutare ogni mio movimento e l’orizzonte mi hanno stregato. Esprimevano paura, una latente curiosità e il controllo sul suo primordiale istinto di riunirsi con il branco in cui trova protezione. Seguiva la direzione del mio sguardo, che si spostava da lui all’ambiente circostante, alla ricerca di altri esemplari che non sono riuscito a individuare subito. La traiettoria del suo sguardo però andava oltre la mia, a cercare qualcosa che pensava io avessi visto. È accaduto in Repubblica Ceca, in un’area isolata del complesso forestale più esteso d’Europa, riconosciuto riserva della biosfera dall’Unesco. Un branco di lupi in salute, bellissimi nel folto mantello invernale, al limitare di un bosco di abeti rossi imbiancati dalla prima neve. Nemmeno l’aria densa dei minuscoli fiocchi di neve ghiacciata riusciva a smorzare il colore vivido del loro manto beige rossiccio, che sfuma al nero nel pelo dorsale. Una gelida giornata d’inverno, di quelle in cui le folate di vento ti entrano nel corpo anche se indossi abbigliamento termico e multistrato. Esemplari di lupi isolati e accovac-
ciati singolarmente ai piedi di alberi o sopra massi sparpagliati, improvvisamente si sono stretti gli uni vicino agli altri, al riparo degli alberi. All’unisono, hanno iniziato a ululare prima contemporaneamente, modulando le frequenze dei singoli individui, poi sovrapponendo le voci in un «coro» idealizzato. Non ho udito
altro (le capacità uditive dell’uomo sono davvero limitate); ritengo pertanto che sia stato un avvertimento oppure un comportamento in risposta ad altri animali del bosco: io per loro non rappresentavo sicuramente un problema. Ma l’emozione di sentire questo coro inatteso, fra i sibili del vento e il fruscio degli abeti è stata immen-
sa. Un ricordo che resterà con me per sempre, nelle mie emozioni. Sono stato abituato a convivere con numerosi cani (mio padre li allevava) e sono pertanto predisposto a cogliere il linguaggio corporale dei canidi. Ovviamente questa attitudine è un grande aiuto nel mio lavoro di fotografo naturalista. Anche se posso utilizzare potenti teleobiettivi e quindi restare a distanza, preferisco avvicinarmi agli animali, rispettarli, essere accettato, favorire una situazione di reciprocità. È una sensazione impagabile di libertà e rispetto. È uno degli elementi irrinunciabili per un lavoro fotografico e documentaristico di qualità. I branchi di lupi liberi sono solitamente delle unità familiari in cui ogni esemplare esprime la capacità di stare insieme, di lealtà e fedeltà verso gli altri membri in modo tale da garantire successo durante la caccia e la protezione dagli attacchi dei predatori. La sopravvivenza è un gioco di squadra, dove i singoli lupi interagiscono l’un con l’altro in modo strutturato, sono coesi, hanno un ruolo adatto alle proprie caratteristiche e indole, che garantisce il buon vivere del branco-famiglia. Complici e risoluti, i lupi mostrano un innato istinto di appartenenza, condividono gli stessi obiettivi in un rapporto di reciproco aiuto che ne rafforza i legami di parentela. In ambiente selvatico, il branco è formato da una coppia di genitori monogami e riproduttivi e dai figli degli ultimi anni. I membri del gruppo aumentano finché i giovani lupi adolescenti di due-tre anni cercano altri gruppi a cui unirsi per formare le proprie famiglie-branco. Nelle Alpi, i branchi sono composti mediamente da cinque-sette esemplari; tuttavia è un dato indicativo e variabile in base al modesto tasso di sopravvivenza dei figli dell’ultima cucciolata. Nei mesi invernali, il numero medio è solitamente più elevato. Nei lupi rinchiusi nei parchi questa socialità viene stravolta poiché molti esemplari, di branchi diversi e non imparentati, devono convivere in territori angusti e adattarsi a sopravvivere in modo innaturale. Comportamenti e gerarchie che si sviluppano in cattività non sono tratti distintivi della specie e degli esemplari che vivono liberi. Studiare e codificare questi comportamenti ha portato a interpretazioni sbagliate ed erronee strategie di controllo-convivenza. In anni più recenti, l’utilizzo di macchine fotografiche e di sistemi di ripresa video che si attivano al passaggio degli animali rilevato tramite dei sensori di movimento o di rilevazione del calore, senza la presenza del fotografo, ha permesso di monitorare i selvatici in modo più verosimile alla loro natura. Anche queste metodologie più moderne tuttavia non sono completamente prive di ingerenza da parte dell’uomo, poiché talvolta gli animali vengono indotti, tramite l’offerta di cibo, a recarsi nel luogo dove le attrezzature fotografiche sono state posizionate. L’ideale sarebbe trovare le tracce dei selvatici analizzando i segni lasciati sul terreno, ma per specie che non sono abitudinarie, come il lupo, è una possibilità piuttosto inefficace. In una ricerca scientifica e/o documentaristica, è ovviamente importante posizionare le attrezzature fotografiche in prossimità dell’habitat naturale della specie monitorata. A mio avviso, ha poco significato – per queste finalità – posizionare le macchine nei parchi pubblici, nelle aree protette o nelle oasi naturalistiche, pertanto in luoghi ove comunque il comportamento delle specie è innaturale e modificato dall’ambiente protetto, privo di quelle caratteristiche di competizione intra-specie e sfide quotidiane tipici della vita selvatica.
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Incontri ravvicinati
Mondoanimale ◆ Un foglio informativo per sapere come comportarsi se si avvista un lupo Maria Grazia Buletti
l’uomo e una volta che ha compreso la situazione si allontanerà». Determinante è il ruolo della prevenzione: «Non bisogna foraggiarlo, così come per qualsiasi altro animale selvatico, e non bisogna lasciare alimenti all’esterno come resti di cibo, rifiuti organici, cibo per animali domestici o spazzatura». La corretta gestione dei propri cani è un altro elemento saliente: «Evitare di portare nel bosco le femmine in calore, e tenere in casa il proprio cane durante le ore crepuscolari sono due atteggiamenti di buonsenso facili da attuare, compreso il tenerlo al guinzaglio durante le passeggiate». Senza dimenticare mai il rispetto reciproco che si concretizza con il mantenimento delle distanze se si dovesse avvistare un lupo da lontano: «Restare in silenzio, osservare, non interagire e soprattutto non avvicinarsi». Parliamo pur sempre di animali selvatici che tali devono restare per non far sì che prendano confidenza con l’uomo. E in caso di «incontro ravvicinato» (meno di 50 metri), oltre a mantenere la calma, l’esperto fa nuovamente riferimento alle regole di buonsenso ben sintetizzate sul flyer: «Di norma, il lupo si allontana dopo aver valutato la situazione, anche se i cuccioli possono dimostrarsi un po’ più curiosi rispetto agli esemplari adulti. Se non si dovesse allontanare, bisogna farsi notare parlando e usando un tono di voce deciso e fermo, senza farsi prendere dal panico che servirebbe solo a mandare un messaggio sbagliato». Egli ricorda le modeste dimensioni del lupo italiano (Canis lupus italicus): «Tra 25 e 35/40 chili e un’altezza di circa 50-70 cm, che significa come, in caso di incontro, l’uomo può mostrarsi grande, eventualmente alzando le braccia sopra il capo o picchiando al suolo il bastone da passeggio». Non bisogna pensare di aggredirlo: «Ogni animale, se messo alle strette e se non ha una via di fuga, può reagire in modo aggressivo». Allontanarsi lentamente senza voltargli le spalle e tenere il cane dietro di sé sono altri due comportamenti che eviteranno problemi. Il DT porta ad esempio l’esperienza della vicina Penisola: «In Italia, da dove il lupo si è espanso verso l’arco alpino, non ci sono casi recenti di aggressioni a persone, nonostante la popolazione di lupi sia stimata a circa tremila esemplari». Prova che i rischi di un attacco all’uomo sono estremamente ridotti. «Il lupo resta un predatore selvatico che va trattato col dovuto rispetto: un comportamento adeguato da parte dell’uomo è fondamentale per scongiurare casi potenzialmente critici», è la conclusione che giustifica la campagna di sensibilizzazione promossa dal DT.
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In base alla Strategia lupo svizzera, la sua presenza su tutto il nostro territorio cantonale è oramai una realtà. «Ma quest’ultimo, in genere, è schivo nei confronti dell’uomo», si sottolinea nel documento Il lupo: regole di comportamento del Dipartimento del territorio (DT) e del Dipartimento delle finanze e dell’economia (DFE) che lanciano una campagna di sensibilizzazione sulle regole di comportamento da adottare in caso di avvistamento o di incontro con un lupo. «Si tratta di un opuscolo di facile comprensione, anche se di estrema sintesi, i cui consigli poggiano sulla conoscenza del comportamento della specie, unitamente alle regole del buonsenso che dovrebbe sempre prevalere, anche se in queste situazioni “di pancia” è umano che l’emotività possa prevalere sulla razionalità. Da qui, l’utilità di riassumere le regole di base di un corretto comportamento». Sono le premesse del collaboratore scientifico dell’Ufficio caccia e pesca Gabriele Cozzi, il quale stigmatizza un atteggiamento di allarmismo, a favore della conoscenza della materia e della natura di questo animale che, si legge sul sito dell’Ufficio caccia e pesca, «non rappresenta di principio una minaccia per le persone, e negli ultimi trecento anni in Europa i casi di attacchi all’uomo da parte di lupi in condizioni naturali sono stati estremamente rari». Il lupo non è un pericolo maggiore per l’uomo rispetto al passato, ma l’informazione è comunque molto importante: «Un dato di fatto è che ci sono più lupi rispetto a qualche anno fa, ed è quindi utile sapere in anticipo quali sono i comportamenti da adottare in caso di incontro fortuito». La premessa riguarda la natura e il temperamento di questo grande predatore: «Ribadisco che l’ipotesi di trovarsi nei paraggi di un lupo è piuttosto remota, a causa della natura stessa dell’animale che è schivo nei confronti dell’essere umano. Inoltre, i lupi singoli in dispersione si muovono di parecchi chilometri (anche 20-30 in un giorno) in modo erratico e non hanno un territorio stabile e definito». Schivo, ma non automaticamente pauroso: «La sua estrema intelligenza lo rende molto curioso e in grado di studiare la situazione che lo circonda. Perciò, la sua prima reazione sarà quella di fermarsi a osservare, prima di allontanarsi più o meno celermente». E se proprio ci si dovesse imbattere in un esemplare, Cozzi così riassume le regole da adottare, ben illustrate dall’opuscolo: «Per prima cosa, bisogna restare calmi e osservare la situazione (ndr: d’altronde, è proprio quello che farebbe il lupo stesso). Non bisogna farsi prendere dal panico perché il lupo non cerca il confronto con
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Settimanale di informazione e cultura
Anno LXXXVI 27 novembre 2023
azione – Cooperativa Migros Ticino
SOCIETÀ / RUBRICHE
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L’altropologo
di Cesare Poppi
Un errore di Commodo ◆
Se c’è una virtù che la Storia sistematicamente ignora è la pietà. Alla fine dei conti – chi prima, chi poi – tutti sono portati dal Pifferaio Magico a commettere l’errore che fa deragliare dal più ammirevole dei percorsi di vita. Marcus Aurelius Antoninus – al secolo Marco Aurelio – lo fece il 27 novembre del 176 eleggendo al rango d’Imperator e Capo delle Legioni – e dunque suo successore – il figlio Commodo. Commodo era il solo figlio maschio che sopravviverà al padre di 14 figlie e figli che Marco Aurelio aveva generato con l’amata cugina Faustina. All’ennesima morte precoce dell’ennesima prole – stavolta due figli maschi gemelli – Marco Aurelio annotava nel suo diario un passaggio dell’Iliade che per lui riassumeva il senso (ovvero il non-senso?) della vita: «…foglie: il vento
alcune ne disperde sulla faccia della terra/e così come loro i figli degli uomini» (Iliade VI: 146, traduzione mia). Fin qui niente di male. Commodo aveva provato il suo valore affiancando il padre al comando dell’esercito nelle campagne contro i Marcomanni, fra i primi a premere alle frontiere nordorientali dell’Impero, incalzati a loro volta da altre etnie che muovevano verso Occidente secondo una dinamica globale improvvisamente divenuta da centripeta a centrifuga per storio-logiche ancora poco chiare. Marco Aurelio l’aveva capita: la pressione dei «barbari» già peraltro arruolati in numero crescente e ormai critico nelle legioni nelle quali i rromani dde Roma – una Roma sempre più minuscola nella demografia dell’Impero – non potevano e non volevano più arruolarsi somma-
ta a uno stato di fibrillazione permanente di quanto rimaneva della «democrazia» senatoriale lasciava poco spazio di manovra. Consapevole che Roma «avesse già dato», Marco Aurelio forse pensò che la popolarità di Commodo fra le Legioni del Nord lo avrebbe messo al sicuro da quelle crescenti congiure/congiurine di camarille senatoriali quando non culturalmente corrotte allora (peggio) inani/impotenti… Intravide insomma l’ultimo grande imperatore dde Roma quello che poi sarebbe successo quando suo figlio Commodo fu annegato da un wrestler in un bagno pubblico in circostanze non chiare ma certo sordide, poiché tutto fu messo a tacere eccetto il gossip che regna imperituro quando chi ha Autorità opta per mantenerla abdicando alla Responsabilità. E allora son guai.
«Circostanze certo sordide»: prove ce ne sono poche nell’epoca che vedeva la Veritas di Cicerone nemmeno più messa ai voti per essere consegnata alla canea dello Stadium. Sapeva Marco Aurelio di che pasta morale fosse suo figlio? Il quale andava a combattere nei giochi gladiatorii pare con un certo successo (anche se viene da chiedersi se non godesse di un certo riguardo)? Perché altrimenti non si spiega come – diciamo – potesse «metterci la faccia» nell’arena e la sera accudire a un harem di trecento (sic le fonti) concubine… Talis Pater…? Proprio no. Qui è il caso di dire che le virtù del Padre non ricaddero sul figlio. Chiunque affogò in piscina per qualsivoglia ragione il Figlio – unico sopravvissuto di quattordici – di una delle più grandi personalità di questi secoli avrà avuto le sue non dette, indicibili ragioni: auguri.
Marcus Aurelius Antoninus, il filosofo stoico, scriveva nelle sue Memoriae che l’idea della natura sacra dell’Imperator altro non fosse che una fiction per tenere a bada masse sazie e sbandate. Lui si considerava un Servitore dello Stato costretto obtorto filosofico collo ad abbozzare. Svetta oggi ancor di più sull’orlo dell’inizio della fine dell’Impero come contraltare di quel figlio che altro non potè fare che issare sul trono imperiale. A sua volta Commodo, descritto dalle fonti come arrogante, crudele e depravato, imperversò dal 180 al 192. Politicamente incapace, lasciò l’Impero in condizioni tragiche: a lui seguì l’anno dei Cinque Imperatori… Spazzati via non come foglie di un Fato crudele ma come birilli di un Gioco d’azzardo ormai storicamente taroccato. Kyrie eleison.
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La stanza del dialogo
di Silvia Vegetti Finzi
Quando i figli si allontanano ◆
Cara Silvia, nostro figlio Guido, diciottenne, sta frequentando il primo anno d’università all’estero. È sempre stato un bravo bambino e un ottimo figlio. Persino l’adolescenza è trascorsa senza problemi, alternando lo studio con lo sport. Siamo genitori piuttosto anziani e, sappiamo bene quanto i giovani siano problematici. Leggiamo ogni giorno che ne fanno di tutti i colori: stanno fuori la notte, cantano e suonano a qualsiasi ora, incuranti di chi dorme e riposa, di chi è vecchio e malato. Non le dico in che condizioni lasciano le piazze dopo le feste! Nei cosiddetti Rave parties sfuggono a ogni controllo trovandosi clandestinamente in luoghi isolati dove, storditi da muri di casse che sparano musica a decine di kilowatt, consumano alcol, fumo e spinelli. Leggiamo di episodi di bullismo tra compagni di classe, d’insegnanti aggrediti dagli alunni, di gare automobilistiche ad alta velocità.
Anche lei, nelle sue lettere, ci ha spesso parlato di ragazzi che si ritirano dalla realtà e, abbandonando scuola e amici, si chiudono nella cameretta, catturati dal mondo virtuale che sta dietro lo schermo. Come vede, siamo attenti a quello che accade, informati su come vanno le cose. Con la differenza che sino a settembre ci sentivamo tranquilli. Giulio era un ragazzo modello e altrettanto i suoi amici. Gli siamo sempre stati vicini e lui, che ci raccontava tutto, ha sempre seguito con convinzione i nostri consigli. Ma da quando è partito, non lo riconosciamo più. Alle nostre telefonate serali risponde a monosillabi e, con la scusa che non può perdere le lezioni, è tornato a casa una volta sola. Ma il peggio è che qualche giorno fa abbiamo saputo che ci ha mentito. Da quel momento siamo pieni di ansia e di paura. Persino il passato ci sembra un inganno. Ci siamo forse illusi che andasse tutto be-
La nutrizionista
ne? Che cosa ci attende, ce la faremo? / Genitori preoccupati Cari genitori, innanzitutto non drammatizzate. Se Giulio è partito ai primi di settembre, sono passati solo due mesi. Un periodo in cui deve ambientarsi, capire come funziona la macchina universitaria, affrontare nuovi modi d’insegnare, di vivere e di relazionarsi con gli altri. Comprendo la vostra apprensione: anche voi state affrontando cambiamenti che vi trovano impreparati. Ma dovete pensare che il ragazzo sta crescendo e che, per diventare adulto, deve rendersi autonomo e indipendente anche tacendo e raccontando qualche frottola. La presa di distanza avrebbe dovuto iniziare prima, ma probabilmente Giulio ha preferito salvaguardare la vostra serenità. In quanto genitori anzia-
ni, vi percepisce fragili e vulnerabili per cui cerca di ammortizzare il distacco. Incontro sempre più spesso figli che si fanno genitori dei loro genitori. All’allontanamento fisico sta corrispondendo, non una rottura dei legami, ma un distacco psichico che, essendo fisiologico, non va contrastato ma compreso. Inutile e controproducente telefonargli ogni sera aspettandovi, con apprensione, che vi racconti la sua giornata. D’ora in poi concedetegli margini di silenzio e di segreto. Aspettate che sia lui a chiamarvi accettando di ricevere solo le informazioni che intende darvi. Se vi ha detto una bugia, non sarà certo «a fin di male» ma probabilmente per salvaguardare l’immagine ideale che avete di lui e per mostrare a sé stesso che può farcela da solo, senza pareri e consigli altrui.
Le neuroscienze ci avvertono che, in soggetti minorenni, la bugia non può essere valutata soltanto col metro morale, ma va inserita in una prospettiva evolutiva. Nel caso invece di bugiardi coatti, per lo più narcisisti estremi, ci dobbiamo preoccupare e intervenire con terapie adeguate. Ma, tenendo conto che sto riflettendo da lontano, mi sembra che Giulio meriti da parte vostra atteggiamenti di stima, fiducia e speranza: il miglior viatico per aiutarlo a crescere e a diventare una bella persona. Informazioni Inviate le vostre domande o riflessioni a Silvia Vegetti Finzi, scrivendo a: La Stanza del dialogo, Azione, Via Pretorio 11, 6901 Lugano; oppure a lastanzadeldialogo@azione.ch
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di Laura Botticelli
Quella voglia di mangiare cioccolata ◆
Buongiorno Laura, è vero che quando si ha voglia di cioccolata è perché in realtà ci manca magnesio? Io ultimamente ne sento tanto bisogno e magari è un messaggio del mio corpo? La ringrazio per una sua gentile risposta, Roberta Buongiorno Roberta, il corpo ci parla attraverso le voglie? È una credenza molto comune, tanto che in merito si sta interrogando anche la scienza con diversi studi che riporterò volentieri in un altro articolo perché se no non riesco ad approfondire poi il possibile legame tra il cioccolato e il magnesio. Vorrei prima fare una piccola parentesi sui due soggetti principali iniziando dal magnesio, che è un sale minerale fondamentale innanzitutto per la normale funzionalità del tessuto muscolare del cuore, dei muscoli e del sistema nervoso (per la
trasmissione degli impulsi nervosi), interviene anche nello sviluppo e nella solidità delle ossa, attiva inoltre numerosi enzimi specialmente quelli del metabolismo energetico e partecipa pure alla sintesi del DNA. Il suo fabbisogno giornaliero raccomandato per la popolazione svizzera adulta è di 350 mg per gli uomini e di 300 mg per le donne al giorno. La cioccolata invece è un alimento più o meno dolce prodotto dalle fave di cacao. Le fave vengono fermentate, tostate e macinate fino a formare una pasta di cacao liquida dalla quale si estrae il grasso chiamato burro di cacao. Il cioccolato è costituito da una miscela, in proporzioni variabili, di pasta di cacao, burro di cacao e zucchero; a cui si possono aggiungere spezie, come la vaniglia, o grassi vegetali e altri ingredienti. Il burro di cacao rappresenta la maggior parte del grasso nel cioccolato. Diversi tipi di cioccolato hanno
perciò diverse concentrazioni di cacao in polvere (spesso chiamata percentuale di cacao). Il cioccolato fondente ha la più alta concentrazione di cacao in polvere mentre il cioccolato bianco quella più bassa. Il cioccolato contiene anche una varietà di altri ingredienti come zuccheri, latte in polvere e noci. Per rispondere allora alla sua domanda vediamo quanto magnesio contiene la cioccolata. Visto che non ha specificato la qualità del cioccolato desiderato riporto i principali. Secondo la Banca dati svizzera dei valori nutritivi 100g di cioccolato bianco contengono 12mg di magnesio, 100g di cioccolata al latte ne ha invece 55mg, 100g di cioccolato al latte con le nocciole 63mg mentre che 100g di cioccolato nero amaro 120mg. Quindi può essere una buona fonte in base alla presenza del cacao, più ce n’è e più è ricco di magnesio. Può esserci una correlazione tra vo-
glia di cioccolato e una sua carenza nel corpo? Difficile a dirsi, perché in natura esistono altre buone fonti di magnesio come le verdure a foglia verde (le bietole al vapore ne contengono per esempio 96mg/100g), i legumi (il tofu 78mg/100g), le noci (noce del Brasile 350mg/100g), i semi (semi di Zucca 520mg/100g) e i cereali integrali (quinoa 210mg/100g), tutti alimenti non prodotti dall’uomo. È lecito chiedersi, quindi, perché dovrebbe venirci proprio la voglia di cioccolato quando ci sono tanti altri alimenti più naturali e sani altrettanto o addirittura più ricchi di magnesio? La tendenza a desiderare cibi ricchi di zuccheri e grassi è ben consolidata nella ricerca nutrizionale e la cioccolata è una «voglia» che possiamo definire universale perché in 100g di cioccolata ci sono dai 44g ai 55g di zucchero e dai 31g ai 35g di grassi e questa combinazione la rende così
tentatrice. Un’altra sostanza che può farci desiderare tanto la cioccolata è la sua caffeina che nel cioccolato è presente sotto forma di teobromina. È una molecola naturale di cioccolato che fa parte della stessa famiglia della caffeina. Anch’essa quindi produce un effetto psicoattivo che magari ci porta a farci amare il cioccolato. Un articolo pubblicato nel 2005 sembra andare in questa direzione. Per concludere, quindi, credo che la sua voglia non sia dovuta alla carenza di magnesio, ma forse a una «dipendenza» da zucchero o dalla sua caffeina o da un altro motivo che specificherò nell’articolo sulle «voglie» che lei mi ha ispirato. Informazioni Avete domande su alimentazione e nutrizione? Laura Botticelli, dietista ASDD, vi risponderà. Scrivete a lanutrizionista@azione.ch
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TEMPO LIBERO ●
Sulle tracce dei Messapi La Puglia, un tempo Messapia, non è solo mare, sole e ottimo cibo, ma, ai più curiosi, offre anche una serie di perle archeologiche
Un pane natalizio speciale Con il suo ripieno di mozzarelline, questo pane rappresenta una sfiziosa idea per un aperitivo in famiglia o con gli amici
Nel mondo degli uomini ragno Grazie a Marvel’s Spider-Man 2, realizzato da Insomniac Games, ci si torna a divertire con simpatici spidermen di quartiere
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Marcel Hug, campione in carrozzella
Altri campioni ◆ Il 37enne della Svizzera Centrale è irraggiungibile: suoi i record su tutte le distanze nell’atletica leggera Davide Bogiani
La serie di vittorie di Marcel Hug non si interrompe. Tokyo, Boston, Londra, Berlino, Chicago. Inizio novembre 2024: l’obiettivo di Hug è quello di battere il record nella maratona di New York. Terminerà i 42 km e 195 m con un tempo di 1:25:29, a soli 4 secondi dal record, già suo, stabilito l’anno scorso. Marcel Hug ha un palmares incredibile. Pluricampione del mondo, paralimpico e tuttora detentore del record del mondo negli 800, 1500, 5000, 10’000 metri, nella mezza maratona e nella maratona. Nato nel Canton Turgovia con la spina bifida, ovvero con una lesione midollare congenita in cui la spina dorsale non si chiude completamente durante la gravidanza, il 37enne si avvicina allo sport in carrozzella quasi 30 anni fa. È attratto e sperimenta parecchie discipline sportive, quali il monosci, l’handbike, l’unihockey e l’atletica leggera. L’anno in cui si innamora di quest’ultima disciplina è il 1996, quando vince la sua prima gara di atletica sui 3 km. Da quel momento inanellerà una serie incredibile di successi.
Il grande sportivo Marcel Hug impegnato in una gara di handbike, una delle tante discipline in cui brilla. (Lackner)
Attraverso il suo lavoro e i suoi sforzi, Hug desidera spronare altre persone in carrozzella a sconfiggere la propria inerzia Ma il talento, si sa, non è tutto. Per essere un grande campione, occorrono anche molta determinazione, forza di volontà e, non da ultimo, le competenze dell’allenatore. Il suo si chiama Paul Odermatt. È lo stesso Odermatt a scoprire Marcel. «Paul è una figura estremamente importante per me. Lavoriamo assieme da quasi trent’anni e assieme abbiamo raggiunto molti successi», afferma Marcel Hug. Dopo la fine della scuola dell’obbligo, Hug svolge l’apprendistato di commercio e lavora un anno presso la ditta HUG AG. Poi la scelta: «Le vittorie si susseguivano con una certa regolarità. Ho acquisito sicurezza e ho deciso di fare il grande passo, ovvero quello di diventare professionista». Dal 2010 Hug abita a Nottwil e la sua palestra è presso il Centro Svizzero dei Paraplegici. I ritmi di allenamento sono dettati da un calendario molto stretto, che è ancora più condensato per il fatto che Hug gareggia sia nelle brevi distanze sia in quelle lunghe, come la maratona. «Si tratta di un caso molto raro e che probabilmente rimarrà unico»; questo il commento dell’allenatore Paul Odermatt durante la presentazione del video su Marcel Hug, organizzata a fine ottobre a Bellinzona dal Gruppo Paraplegici Ticino. Soli-
tamente, infatti, il successo di un atleta è tale in quanto è mirato alle medie oppure alle lunghe distanze. Marcel Hug domina anche negli sprint. Questo lo rende un atleta ancora più inavvicinabile. Lago di Sempach, domenica 12 novembre. La temperatura dell’acqua è di 10 gradi. «Quando non sono in trasferta per le gare – ci spiega Hug – la domenica non mi alleno e mi dedico alla rigenerazione. Leggo, ascolto musica e, indipendentemente dalla meteo e dalla temperatura, mi immergo nelle acque del Lago di Sempach. Per me è un momento in cui riesco a essere in stretto contatto con la natura e, soprattutto nei mesi invernali, mi sento ancora più parte integrante dell’ambiente. È un rituale». Qualche minuto di immersione e poi il ritorno sulla carrozzella. Il contatto con la natura, certo, ma Hug ci spiega in seguito che questo è anche un allenamento mirato all’attivazione della circolazione per contrastare i processi infiammatori grazie ai benefici dell’acqua fredda e, secondariamente, al rafforzamen-
to mentale, attraverso degli esercizi di visualizzazione che mette in atto per riuscire a sopportare il freddo. Sono gli stessi esercizi che lo aiutano nelle condizioni difficili, quando in gara la situazione si fa complicata. Un episodio particolarmente arduo si è ed esempio presentato durante la maratona ai Giochi paralimpici di Tokyo nel 2021. In testa alla corsa e proprio quando stava staccando l’avversario, Hug nota che qualcosa non va nella ruota. «Ho visto che si stava staccando un pezzettino di gomma del cerchio in cui viene data la spinta. È stata una situazione davvero sfortunata», spiega Hug. «Conoscevamo la topografia – aggiunge Paul – e sapevamo che ci sarebbe stata una salita prima dell’ultima discesa. Abbiamo studiato il profilo con molta attenzione e lo abbiamo visualizzato più volte con Marcel durante l’allenamento. Marcel sapeva che se fossero rimasti ancora due o tre avversari, per vincere avrebbe dovuto attaccare su questa salita». Hug ha aumentato la velocità. «Ho pensato che dovevo semplicemente salire e non ho
più prestato attenzione all’anello del corrimano. Poi ho notato che l’atleta cinese che mi seguiva era in difficoltà e non riusciva più a tenere il passo. Questa è una situazione critica che ho superato grazie alla mia forza mentale che mi ha portato a visualizzare il profilo topografico e a distogliere l’attenzione dal problema tecnico». E Marcel porta in Svizzera l’oro paralimpico. Lo stesso metallo lo metterà al collo anche negli 800, 1500 e 5000 metri. Preparazione fisica, pianificazione degli allenamenti, momenti di recupero e messa a punto della carrozzella. Questi gli elementi per il successo. E a proposito di attrezzatura, lo sponsor di Marcel Hug, ovvero Orthotec, alcuni anni prima delle paralimpiadi di Tokyo decide di avventurarsi in un percorso unico. Chiede alla sezione di Formula 1 della Sauber di creare una carrozzella sportiva. «La carrozzella venne studiata nei minimi dettagli, dai materiali in carbonio leggerissimi fino ai test nella galleria del vento per capire come ridurre l’attrito», spiega Hug. Ed è stato un successo.
Il percorso dal Lago di Sempach all’abitazione di Marcel a Nottwil è breve. Stiamo arrivando alla fine della chiacchierata e alle proverbiali domande di rito. Per quanto tempo gareggerà ancora Marcel Hug? «Difficile fare delle previsioni. Nella mia carriera ho vinto tutto quanto c’era da vincere. Ora pianifico i miei appuntamenti sportivi di anno in anno e questo mi permette di essere sempre molto concentrato e focalizzato. Mi sto proiettando alle Paralimpiadi di Parigi 2024 e chissà, magari quelle del 2028 di Los Angeles potrebbero diventare la copertina di fine carriera.» Sarà il futuro a dare delle risposte sul numero di pagine di questa biografia che ha dell’incredibile. Così come incredibile è la volontà di Marcel Hug di motivare bambini e ragazzi in carrozzella a praticare sport, a porsi degli obiettivi ambiziosi. A vincere l’inerzia per far scoprire un mondo fuori dalla disabilità ricco di emozioni e traguardi ambiziosi. Grazie, Campione!
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TEMPO LIBERO
Nell’antica terra dei Messapi
Itinerari ◆ Il Salento offre di tutto, dai mari incontaminati al trionfo del barocco, senza tralasciare i tesori archeologici Marco Horat
La Puglia, anzi il Salento, il tacco d’Italia, ma anche «un dito proteso verso Oriente» come è stato definito. Terra di immigrazione per i coloni greci arrivati nell’VIII secolo a.C., di emigrazione fino a poco tempo fa; oggi meta di un turismo di élite che l’ha scelta quale luogo di vacanza privilegiato, grazie al suo mare paragonato spesso a quello delle Maldive o dei Caraibi per i fantastici colori, come a Pescoluse; alle distese di ulivi secolari «fiere pietrificate da chissà quale incantesimo, un esercito di sculture fantastiche modellato e lavorato in maniera certosina dai venti, la pioggia, la salsedine, le gelate d’inverno e il caldo torrido d’estate» (parole di una guida del posto); ma grazie anche alla gastronomia, alla sua gente accogliente e, tanto per distinguersi, ai prezzi proibitivi… che escludono la presenza della fastidiosa massa. Durante l’estate ho letto di esclusivi gazebo da spiaggia con lettini e rinfreschi a 500 franchi al giorno. Il Salento ha preso definitivamente il posto della Sardegna?
Oggi terra di mari e di lusso sfrenato, luogo prediletto per chi è alla ricerca di privacy, il Salento ha in realtà una storia ricca e piena di fascino, che val bene una visita Il mare, ma bisognerebbe dire i mari. Jonio e Adriatico accarezzano la costa per duecentocinquanta chilometri formando decine di grotte come quella visitabile della Zinzalusa. Già nel passato il mare ha fatto la fortuna di questa regione compresa grosso modo tra Brindisi, Taranto, Lecce, Otranto, Gallipoli e «Finibus terrae», oggi Capo Santa Maria di Leuca: una «finestra sull’infinito» poiché di lì si ammira un mare senza confini. Racconta la tradizione che proprio lì approdò San Pietro proveniente dalla Palestina, allorché sbarcò in Italia. Pure l’entroterra però ha il suo fascino tra monumenti, architetture, storia e una natura che ha permesso all’uomo di vivere agevol-
mente per secoli. Peccato che i vacanzieri, immagino sperando di sbagliarmi, trascurino questo aspetto della regione per godersi solo le spiagge, i tuffi in mare e la vita notturna. Allora, per ovviare all’inconveniente, facciamo noi un piccolo giro virtuale, almeno nella parte a sud di questo magico e antico Salento, visitato in diverse occasioni di persona, seguendo un filo archeologico e quello della storia, che da queste parti non ha lesinato presenze tutte da scoprire in un viaggio. Cominciando da Lecce, «nulla in Italia che si possa comparare a questa Firenze del sud» come scrisse nel 1860 un viaggiatore tedesco di passaggio. Il trionfo del Barocco fiorito, realizzato in mille sfaccettature e declinazioni nel nome della Controriforma, utilizzando la calda pietra locale che prende vita con il mutare della luce, soprattutto all’alba e al tramonto. Di che aggirarsi per le strade col naso all’insù e scoprire figure fantastiche o di santi che sembrano animarsi all’improvviso, motivi decorativi fito e zoomorfi, architetture e colonne che sostengono terrazzini sui quali pare di vedere una dama o un cavaliere curiosare sulla via; paradossalmente, un’esplosione di vita pietrificata. Uno stile contorto e ridondante (come nella chiesa del Rosario dalle colonne avvitate) che può anche non piacere. Grazie alle conoscenze di Matilde Carrara, archeologa conosciuta anche dalle nostre parti e con un gruppo di appassionati ticinesi di archeologia, siamo stati invitati per una cena in uno di questi palazzi barocchi, tra scaloni bui e sale decorate a stucco, quadrerie e librerie a parete, mobili originali dell’epoca. «Attenzione, per cortesia sedersi a tavola con delicatezza!» Una serata indimenticabile che ci ha permesso di assaporare alcune specialità locali, ma anche di respirare l’aria della storia, gettando uno sguardo dentro una ricca dimora aristocratica, in altri tempi preclusa a gente come noi. Corriamo ora verso Gallipoli, la kalè polis greca (città bella), la Anxa messapica, affacciata sul mare e com-
Qui a sinistra, mura messapiche in Manduria (FAI); in basso, frantoio ipogeo a Cerrate e cartina dell’antica Grecia e Puglia di W. Shepherd, 1911. (Wikipedia)
pletamente circondata da robuste mura, raggiungibile dalla terraferma attraverso un unico passaggio costruito dai veneziani nel ’600. L’ultimo caposaldo bizantino a cadere in mano normanna nella persona di Roberto il Guiscardo, il Terror mundi di allora, nel 1071. Un gioiello nel quale andiamo a visitare un impianto tradizionale per la produzione dell’olio di oliva, in un ipogeo con frantoi in legno del ’700. L’olio di oliva ha garantito per secoli la ricchezza della città. Questo infatti era uno dei principa-
li porti dai quali partivano a raffica grandi navi che trasportavano il prezioso olio nel mondo intero; non per condire cibi delicati o le pietanze della dieta mediterranea, bensì per alimentare le lampade che illuminavano le strade e le case di Londra e di mezza Europa! Bisogna però fare ora un salto nell’entroterra per ammirare alcune grotte preistoriche nella zona di Parabita e nei pressi di Nardò, dove si trova la Grotta del Cavallo. La più famosa è però quella detta delle Ve-
neri, che ha restituito due statuette femminili in osso vecchie di 20mila anni. E non dimentichiamoci dei menhir e dolmen presenti nei territori di Minervino e Giurdignano, con il dolmen di Li Scusi e il menhir di San Paolo, che non saranno Stonehenge e nemmeno i templi megalitici di Malta, ma che testimoniano della presenza umana fin da tempi remoti. Affascinanti come sono isolati in mezzo alla campagna! Come pure, sulla costa adriatica, la Grotta neolitica dei Cervi con pitture rupestri astratte e non, di sei-sette millenni or sono. Una terra tra due mari, l’antica Messapia come i greci chiamavano il Salento, popolata da genti probabilmente di origine illirica (o anche cretese come aveva affermato Virgilio?). Un popolo di agricoltori e allevatori di cavalli venuti dall’altra sponda dell’Adriatico, ma anche di fieri difensori delle loro peculiarità, che ci ha lasciato resti di imponenti opere murarie intorno agli abitati, tombe con ricchi corredi e una lingua imparentata con l’albanese. Lo testimonia anche un recente ritrovamento archeologico della cosiddetta Mappa di Soleto, un coccio di vaso dove sono segnate in lingua messapica le città fondate dai Messapi in Salento: Taranto, Otranto, Nardò, Leuca e altre ancora. Dopo una lunga lotta furono sottomessi dai Romani nel III secolo a.C.
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Redazione Carlo Silini (redattore responsabile) Simona Sala Barbara Manzoni Manuela Mazzi Romina Borla Natascha Fioretti Ivan Leoni
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Settimanale di informazione e cultura
Anno LXXXVI 27 novembre 2023
azione – Cooperativa Migros Ticino
TEMPO LIBERO
Ricetta della settimana – Pane natalizio farcito ●
Ingredienti
Preparazione
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Aperitivo Ingredienti per 8 persone (circa 32 pezzi)
1. Fate sciogliere il lievito nel latte tiepido. In una grande ciotola mescolate la farina con lo zucchero e il sale. Formate al centro un incavo e versateci il latte con il lievito sciolto. Unite l’uovo e impastate il tutto per circa 5 minuti fino a ottenere una pasta liscia e omogenea. 2. Incorporate poco alla volta il burro e impastate nuovamente per circa 5 minuti. Coprite la pasta con un canovaccio umido e lasciatela lievitare in un luogo caldo per circa 2 ore, finché raddoppia di volume. 3. Dimezzate le mozzarelline. Dividete la pasta in 32 porzioni uguali. Premete un pezzo di mozzarella in una porzione di pasta e modellate una pallina. Sistemate le palline su una placca foderata con carta da forno a forma di albero di Natale, lasciando un po’ di spazio tra le palline. 4. Sbattete un po’ di panna con l’uovo e spennellate la miscela sulla pasta. Lasciate lievitare ancora per 20-30 minuti. 5. Scaldate il forno statico a 200 °C. Cuocete il pane al centro del forno per 20-25 minuti, finché assume un bel colore dorato scuro. 6. Nel frattempo, scaldate il sugo di pomodoro. Estraete i panini e lasciateli intiepidire un po’, poi serviteli con il sugo di pomodoro caldo.
I membri del club Migusto ricevono gratuitamente la nuova rivista di cucina della Migros pubblicata dieci volte l’anno. migusto.migros.ch
20 g di lievito fresco 2,5 dl di latte 500 g di farina, ad esempio farina semibianca 3 c di zucchero 2 cc rasi di sale 1 uovo 60 g di burro, morbido 16 perle di mozzarella di 5 g ciascuna panna e uovo per spennellare 2 dl di sugo di pomodoro
Consigli utili Se non avete tempo per la preparazione della pasta, utilizzate la pasta per pizza già pronta (circa 900 g). Lasciate riposare la pasta per circa 30 minuti a temperatura ambiente. Dividetela in porzioni e farcite ogni porzione con mezza mozzarellina. Oppure preparate il pane farcito il giorno prima. Quando lo infornate, estraetelo circa 5 minuti prima di fine cottura. Il giorno seguente, completate la cottura nel forno caldo a 200 °C per circa 5 minuti, finché si dora bene. Preparazione: circa 30 minuti. Lievitazione: circa 150 minuti. Cottura in forno: 20-25 minuti. Per persona: 13 g di proteine, 15 g di grassi, 54 g di carboidrati, 410 kcal. Annuncio pubblicitario
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Il fantastico Spider-Man di Marvel
Videogiochi ◆ Ritornano gli amichevoli supereroi di quartiere, ma questa volta in coppia e con una nuova curiosa aggiunta… Kevin Smeraldi
Con Marvel’s Spider-Man 2, Insomniac Games ha voluto dare seguito a questa saga unendo due avvincenti storie di supereroi ricche d’emozioni e colpi di scena: quella di Peter Parker, il cosiddetto «uomo ragno» per antonomasia, e quella di Miles Morales, fresco e originale «uomo ragno» che abbiamo avuto il piacere di conoscere recentemente anche grazie al grande schermo. Sebbene possa sembrare strano che queste due realtà riescano a coesistere, vi garantiamo che il risultato è un blockbuster moderno e pienamente riuscito. Marvel’s Spider-Man 2 è un sequel che intreccia trame e personaggi dei giochi precedenti, sia per quanto riguarda le meccaniche sia per la storia. Evitando di fare spoiler, la storia ruota attorno a Kraven il cacciatore, un malvagio supereroe che ha scelto New York come suo prossimo terreno di caccia, mettendo a dura prova la sopravvivenza dei nostri protagonisti. La storia oscilla con eleganza tra allegri scherzi e solenni momenti di riflessione, portando il videogiocatore a vivere un’esperienza simile a quella cinematografica. Il gameplay di Marvel’s Spider-Man 2 è molto simile a quanto visto nei due precedenti capitoli. Il ritmo delle schivate di precisione, le nuove parate perfette, le finalizzazioni acrobatiche, così come le combo sequenziali sono estremamente
soddisfacenti e rendono il combattimento spettacolare. I movimenti sono fluidi, l’azione dinamica, potenza ed eleganza si fondono in un balletto di mattoni in faccia, mentre i nemici vengono sballottati come bambole, fatti volare in aria, sbattuti l’uno contro l’altro come fossero birilli ma, naturalmente, mai uccisi. La dinamica stealth di Marvel’s Spider-Man 2 è leggermente minore rispetto al gioco di Spider-Man 1 e Spider-Man: Miles Morales. Per chi avesse trovato l’azione stealth dei giochi precedenti un po’ semplicistica e di routine, questo gioco invece predilige un approccio più combattivo. Naturalmente ci sono missioni della storia in cui Miles o Peter devono sgattaiolare attraverso i soffitti e far fuori i teppisti che non alzano mai lo sguardo, ma Marvel’s Spider-Man 2 non vede l’ora di farvi entrare in azione, con una serie di abilità progettate per permettervi di raggruppare molteplici nemici e infliggere danni a tutti in una volta sola, piuttosto che farli fuori uno alla volta. Il vero divertimento, però, arriverà quando indosseremo la tuta del simbionte Venom. Nonostante ci voglia un po’ più di tempo di quanto ci si aspetti, una volta indossata la tuta del simbionte, i poteri rabbiosi che ne derivano saranno di grande impatto sulla giocabilità, aggiungendo una natura più da attaccabrighe ai com-
battimenti e dando al protagonista un set di abilità estremamente appaganti. A enfatizzare l’utilizzo della tuta del simbionte è il controller Dual-Sense di Playstation 5, il quale reagisce perfettamente al comportamento del simbionte, dandoci proprio la sensazione che qualcosa sia dentro di noi. Ritornano anche le operazioni segrete di MJ, sebbene questa volta siano più impegnative e funzionali alla storia; esse non vanno mai oltre le semplici missioni stealth o le sparatorie in terza persona. L’attrice non è certo messa da parte, ma la sensazione è che ci si sarebbe potuti sforzare di più, al fine di rendere le sue sezioni
Giochi e passatempi Cruciverba
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«Mario mi hanno detto che a casa lavi i piatti, lavi il pavimento e i vetri!» – «Se è per questo lavo anche i panni!» – «E tua moglie?» Trova la risposta dell’amico leggendo, a soluzione ultimata, le lettere nelle caselle evidenziate. Frase: 3, 7, 3, 2, 4, 2, 4) ORIZZONTALI 1. Cardine, fulcro 5. Sorgente 9. Ripide, scoscese 10. Comodo indumento 11. Un avverbio 13. Le iniziali dell’attrice Autieri 14. Un anagramma di «prosa» 16. Articolo francese 17. Li frequentano i bambini 18. Può diventare popcorn 19. Prora 20. Una nota Sandrelli 22. Capitale europea 24. Il maschio ha corna palmate 25. La sua morte si festeggia 26. Segue il titolo di marchese 29. Tipo di rosa 30. In queste si conservava il pane 31. Le iniziali dell’attore Amendola 32. Congiunzione francese 33. Iniziano al tramontar del sole
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Vinci una delle 2 carte regalo da 50 franchi con il cruciverba e una carta regalo da 50 franchi con il sudoku 5
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34. Famoso personaggio dello spettacolo 36. Antenati 37. Atto antigiuridico VERTICALI 1. Se ne possono avere due con due misure 2. La Giunone dei greci 3. Le iniziali di un noto Ricky regista 4. Con uno e centomila in un romanzo di Pirandello 5. Impeto violento 6. Il gigante figlio di Poseidone 7. Ci… seguono in cucina 8. Poema epico di Virgilio 10. Il signor dei tali
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di gioco un po’ più eccitanti, o almeno più in linea con il consolidato personaggio di reporter investigativa. A parte i combattimenti, i nostri Spider-Men possono ora muoversi nei loro amichevoli quartieri con modalità più eleganti che mai, grazie a nuove rotazioni e a salti mortali. Eseguire acrobazie con la ragnatela è gratificante come si ricordava ed è ancora uno dei modi migliori per muoversi nella città di New York. Le nuove ali di ragnatela sono indubbiamente un ulteriore punto di forza, ora si potrà planare facilmente, ma non senza limiti: occorrerà imparare a gestire l’altitudine e lo slancio in avanti, con l’aiuto di corridoi ventosi che at-
traversano la città e possono portare rapidamente da un quartiere all’altro. Dal punto di vista tecnico Marvel’s Spider-Man 2 è un fiore all’occhiello: dal motore grafico con ray-tracing a 4K, all’illuminazione dei riflessi, tutti i pezzi si incastrano a meraviglia. Nota di merito anche ai caricamenti praticamente inesistenti durante il corso dell’intera avventura, infatti basterà individuare un luogo per il viaggio rapido per essere lì in un secondo. Anche il comparto audio è stellare, con le rispettive melodie di Miles e Peter – a seconda di chi si controlla – e gli innumerevoli rumori di New York a dipendenza dell’orario in cui ci troviamo. Marvel’s Spider-Man 2 non si smentisce, è incredibile cosa Insomniac Games sia riuscita a offrirci attraverso questo gioco; potere interpretare due Spider-Men è fantastico, nonché il sogno di ogni fan di Spidey. La sensazione è quella di interpretare il protagonista mentre le pagine dei fumetti prendono vita. Possiamo tranquillamente definire questa emozionante avventura di Spider-Man la migliore storia mai creata da Insomniac Games. Acquisto obbligatorio per ogni fan della serie ed estremamente consigliato per chi ama i giochi d’avventura. Signore e signori, questo è un titolo da non farsi scappare! VOTO: 9.
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12. Deve farsele il pivello 15. In quel del Re nasce il Po 16. Antiche armi da combattimento 17. Si affolla per la corrida 18. Una razza canina 19. Un tipo di bosco 21. Si possono cogliere nel sacco… 22. Poeta… per il poeta 23. Sono parassiti 27. Una lirica come «Il 5 maggio» 28. Il «battesimo» della nave 30. L’attore Gibson 31. Isola dell’arcipelago delle Bahamas 33. Si ripetono nell’assoluzione 35. Coda del 10 orizzontale
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Soluzione della settimana precedente LO SAPEVATE CHE… – Il cantautore Michael Jackson non… Resto delle frasi: … SAPEVA SCRIVERE E LEGGERE LA MUSICA
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Regolamento per i concorsi a premi pubblicati su «Azione» e sul sito web www.azione.ch I premi, tre carte regalo Migros del valore di 50 franchi, saranno sorteggiati tra i partecipanti che avranno fatto pervenire la soluzione corretta entro il venerdì seguente la pubblicazione del gioco. Partecipazione online: inserire la soluzione del cruciverba o del sudoku nell’apposito formulario pubblicato sulla pagina del sito. Partecipazione postale: la lettera o la cartolina postale che riporti la soluzione, corredata da nome, cognome, indirizzo del partecipante deve essere spedita a «Redazione Azione, Concorsi, C.P. 1055, 6901 Lugano». Non si intratterrà corrispondenza sui concorsi. Le vie legali sono escluse. Non è possibile un pagamento in contanti dei premi. I vincitori saranno avvertiti per iscritto. Partecipazione riservata esclusivamente a lettori che risiedono in Svizzera.
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Settimanale di informazione e cultura
Anno LXXXVI 27 novembre 2023
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Per emancipare la società I benefici della valorizzazione del lavoro di cura e dell’eliminazione della segregazione di genere
Bisogna fermare la brutalità La lotta alla violenza domestica è un lavoro di squadra. Le strategie di prevenzione attuate in Ticino
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La Spoon River dei braccianti Un libro di Antonello Mangano racconta dello sfruttamento dei lavoratori nei campi italiani
Questione di sopravvivenza Tra pochi giorni si apre a Dubai la COP 28 sul clima mentre lo sforzo ambientalista langue
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Tra tormenti e ritrovate collegialità
Berna ◆ La concordia non regna sempre sovrana a Palazzo federale. C’è da sperare che l’inizio della legislatura, e il volto nuovo in arrivo in Governo, portino a una dinamica più costruttiva Roberto Porta
Nella Sala dei passi perduti a volte qualcosa si trova. È lo spazio delle discussioni informali, degli incontri più o meno casuali e anche delle interviste. Si tratta di un vasto corridoio che a Palazzo federale circonda l’aula del Consiglio nazionale. In quella sala, nei giorni in cui venivano eletti anno dopo anno gli attuali consiglieri federali, si è spesso sentito parlare di «ritrovata concordanza», di «equilibri politici finalmente rispettati» e di un «Governo pronto a lavorare in modo collegiale». C’erano da eliminare un bel po’ di tossine, accumulate dal 2003 in poi, con l’elezione in Governo di Christoph Blocher, la sua estromissione quattro anni più tardi e la nomina al suo posto di Evelyne Widmer Schlumpf. Dopo quel tormentato primo decennio degli anni Duemila si sentiva il bisogno di una sorta di riconciliazione federale. È stato così nel dicembre del 2015 con l’elezione del vodese Guy Parmelin. Con lui l’UDC tornava ad avere due seggi in Consiglio federale, all’insegna appunto di «una ritrovata collegialità». Stesso scenario due anni dopo, con l’elezione di Ignazio Cassis e con il ritorno a Berna di un rappresentante della Svizzera italiana. La «concordia» quel giorno fu soprattutto linguistica e culturale, nel rispetto della minoranza italofona. Canovaccio simile anche nel 2018, con l’elezione di Karin Keller Sutter e Viola Amherd. Due donne che permisero di portare un nuovo equilibrio tra i generi in seno al Governo. E fu così anche l’anno scorso, con Albert Rösti, vincitore già al primo turno, ed Elisabeth Baume-Schneider. Un’elezione a sorpresa quella della socialista giurassiana, che però permise al suo Cantone di approdare per la prima volta in Governo. Insomma, anche quella fu un’altra giornata all’insegna della concordia. Un’atmosfera ben diversa da quella di altre elezioni del passato, precedute da una serie di «Notti dai lunghi coltelli», con accordi segreti sottoscritti all’ultimo momento per impedire l’elezione di un candidato indigesto e per sgambettare il suo partito. La prima notte da trame misteriose fu quella che portò alla bocciatura della socialista Liliane Uchtenhagen, nel 1983. Sarebbe stata lei la prima donna a poter approdare in Governo, ma il Parlamento le preferì Otto Stich, socialista pure lui, ma non candidato ufficiale del partito. Di elezioni contese ce ne furono poi altre nei decenni successivi. Niente di tutto questo però negli ultimi dieci anni, caratterizzati da elezioni in Governo all’insegna di una ritrovata pace federale, con tanto di plauso alla collegiali-
Palazzo federale, Berna. (Keystone)
tà e all’arte del compromesso. Parole al vento, si potrebbe però dire oggi. Sì, perché il cosiddetto scandalo dei «Coronaleaks», le fughe di notizie dal Dipartimento dell’interno durante il concitato periodo della pandemia, ha messo in luce un clima di sospetti tra i sette membri del Consiglio federale, tra sfiducie reciproche e colpi bassi.
Il Parlamento esce in parte rinnovato dalle elezioni federali di questo autunno. L’UDC conferma il suo primato nazionale Tutto o quasi ruota attorno alla figura di Alain Berset, uscito scagionato dall’inchiesta su questo caso, condotta da due commissioni parlamentari. Su di lui rimangono comunque alcune ombre, anche perché i suoi colleghi di Governo, ascoltati nel corso della stessa inchiesta, hanno parlato di un ambiente tutt’altro che ideale per il lavoro del Consiglio federale, a causa proprio delle frequenti fughe di notizie. Non certo un clima improntato a quella collegialità così tanto
declamata nei «dì di festa», quando l’«habemus Papam», in versione rossocrociata e laica, è risuonato gioioso dentro e fuori Palazzo federale. Certo, quelle fughe di notizie non hanno compromesso l’azione del Governo, l’hanno semmai appesantita, anche perché queste falle sono emerse qua e là anche in altri settori dell’amministrazione federale, accentuando la tendenza al «dipartimentalismo», che è l’esatto contrario della collegialità. Il prossimo 13 dicembre ci sarà l’elezione di tutti i ministri, per sei di loro si tratta di una riconferma, a cui va aggiunta anche la nomina del nuovo o della nuova ministra socialista, al posto appunto di Berset. C’è da sperare che l’inizio della legislatura, e il volto nuovo in arrivo in Governo, possano portare ad una dinamica diversa in Consiglio federale. Il Paese è confrontato con problemi gravi, che richiedono un Esecutivo forte e compatto. Un Governo che sappia dialogare con il Parlamento, e cesellare con il legislativo le tante riforme di cui il Paese ha bisogno: cassa malati, clima, immigrazione e relazioni con l’Unione europea, per
fare solo alcuni esempi. Dal canto suo, il Parlamento esce in parte rinnovato dalle elezioni federali di questo autunno. Una sfida elettorale che ha visto un vincitore numerico. L’UDC conferma il suo primato nazionale, con nove seggi in più al Consiglio nazionale. I democentristi marciano però sul posto al Consiglio degli Stati, dove non sono riusciti a piazzare alcuni candidati, a cominciare dallo zurighese Gregor Rutz, uno dei pezzi da 90 del partito. C’è stato anche un vincitore non numerico ma politico, il Centro, che a livello di deputati è ora la terza forza al Nazionale e la prima, confermata, agli Stati. Il partito del presidente Pfister è stato capace di non farsi intrappolare dalla crescente polarizzazione del panorama politico svizzero, tra destra e sinistra, e di dar così vita a quello che potremmo chiamare il «polo dei moderati». Un ruolo che potrebbe permettere al Centro di giocare sempre più la carta della mediazione, e di gettare le basi per soluzioni di compromesso. A sinistra buona la tenuta dei socialisti, sconfitti invece i Verdi, che hanno perso cinque seggi al Nazio-
nale, mentre agli Stati hanno dovuto incassare la bocciatura, a Ginevra, di Lisa Mazzone, una grande promessa del movimento ecologista che ora a soli 38 anni ha deciso di lasciare la politica dopo due legislature a Berna. Tra i perdenti, soprattutto dal punto di vista politico, anche i liberali radicali. Il PLR ha stretto alleanze elettorali con l’UDC e ha persino rinunciato a presentare propri candidati nei ballottaggi per il Consiglio degli Stati a vantaggio di esponenti democentristi. Una strategia che non ha dato i risultati sperati. Ora il PLR si trova in una posizione decisamente scomoda, un po’ schiacciato, tra Centro e UDC, con il rischio di doversi limitare ora a una politica al traino di questi poli. In ogni caso la legislatura che sta per iniziare chiamerà in causa anche in popolo, visto che da più parti fioccano iniziative e referendum. E qui c’è da dire che nel nostro Paese in media meno di un cittadino su due si reca alle urne. Una democrazia forte ha bisogno anche in questo ambito di un’inversione di tendenza. Altrimenti quello svizzero sarà sempre più un sovrano dimezzato.
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ATTUALITÀ
Per l’emancipazione di tutta la società
Economia ◆ I benefici della valorizzazione del lavoro di cura e dell’eliminazione della segregazione di genere che lo accompagna Marialuisa Parodi
Al contrario dell’inglese, che può contare su due vocaboli distinti (health e care), nella nostra lingua l’espressione economia della cura comprende due diverse accezioni. Una riguarda l’economia legata alla salute, ormai sempre più spesso rappresentata a suon di contraddizioni: esplosione dei costi verso equità delle cure, scarsità di personale qualificato verso fragili condizioni di lavoro, crucialità degli investimenti verso vincoli di spesa pubblica, giusto per citare le più ricorrenti. L’altra si riferisce a un sistema economico che priorizza la cura delle persone e dell’ambiente, partendo dalla constatazione che la prosperità economica di una comunità non può prescindere da quella sociale e ambientale; un modello in cui l’azione di politica economica considera e rispetta la molteplicità di ruoli ed esperienze che si intrecciano nella vita di ogni essere umano.
È noto che di oltre il 70% della cura globale si occupano le donne, che sia prestata gratuitamente o professionalmente Anche quando la lingua le separa, le relazioni tra la prima e la seconda accezione sono evidenti; anzi, si rafforzano ad ogni crisi. Pandemia, conflitti, ma anche invecchiamento demografico e minaccia climatica, ci stanno facendo riflettere sull’errore di aver confuso una bella parola come «economia» (oikos-casa e nomos-legge, amministrazione) con «massimizzazione dei profitti». Riappropriarsi del significato originale non dovrebbe più essere considerata un’ingenua utopia. Non lo è certamente per l’economia femminista che, proprio sulla valorizzazione del lavoro di cura e sull’eliminazione della segregazione di genere che lo accompagna, innesta una teoria di politica economica, monetaria e fiscale orientata alla sostenibilità e all’equità. È noto che di oltre il 70% della cura globale si occupano le donne; che sia prestata gratuitamente, fra le mura domestiche, o professionalmente, a stipendi bassi e talora incerti. La cura soffre della stessa drammatica sottovalutazione di cui soffrono i diritti femminili: veri e propri difetti sistemici, che non fanno bene all’umanità e alla qualità della crescita. Il Nobel per l’Economia, assegnato quest’anno a Claudia Goldin per gli studi sulle conseguenze della distribuzione iniqua del lavoro domestico nella coppia, è un segnale importante. Goldin dimostra che questo divario orgina e alimenta le discriminazioni di genere nel mondo del lavoro e come queste ultime costituiscano un’inefficienza in senso squisitamente economico. Il valore anche simbolico di questo Nobel sta nella sua capacità di rispecchiare una generale, emergente presa di coscienza individuale. Sebbene il post-pandemia sia apparso come un repentino ritorno al business as usual, i dubbi su stili lavorativi e di vita non sono stati archiviati con leggerezza. Anzi, le conclusioni di numerosi studi sulle grandi dimissioni (chi se ne va esausto, addirittura senza aver trovato un altro lavoro) o sul quiet quitting (chi resta, ma disinveste emotivamente e dà al lavoro solo il tempo indispensabile) concordano nell’identificare genitori e caregiver quali principali protagonisti di questi
Ricerche evidenziano che molti padri hanno già accresciuto ruolo e impegno in casa e famiglia e che desiderano fortemente continuare a farlo. (Keystone)
grandi trend globali. Sempre più uomini, non solo delle generazioni più giovani, apprezzano il tempo dedicato alla cura di sé e degli altri e hanno ormai iniziato ad aspettarsi che il posto di lavoro rispetti questa componente essenziale della vita.
Sempre più uomini, non solo delle generazioni più giovani, apprezzano il tempo dedicato alla cura di sé e degli altri Non è un caso che le famose misure di conciliabilità e flessibilità organizzativa stiano vieppiù contribuendo a definire l’attrattività di un impiego, almeno, e forse più, di salario e opportunità di crescita professionale, e non più solo agli occhi delle lavoratrici. Secondo il rapporto «State of The World’s Fathers 2023 – Centering Care in a World of Crisis» di recente pubblicazione, il lockdown avrebbe infatti permesso a molti uomini di
esplorare in piena sicurezza psicologica (non c’era alternativa e riguardava tutti) il lavoro casalingo ed un nuovo modello di paternità; così sperimentando che le norme sociali di genere tendono a mortificare le inclinazioni individuali e, soprattutto, sono ingiustificatamente severe con le emozioni degli uomini, fino a privarli della gioia di prendersi cura dei figli e della gratificazione di costruire con loro relazioni significative e arricchenti fin dalla prima infanzia. Lo studio citato è stato realizzato da Equimundo e MenCare, con il sostegno di UNWomen; dal 2011 Equimundo riunisce diverse organizzazioni internazionali che coinvolgono uomini e ragazzi come alleati per l’uguaglianza di genere, promuovono un concetto sano di mascolinità e paternità, si occupano di giustizia sociale e di prevenzione della violenza. Tra le 12’000 persone intervistate nello studio in 17 Paesi, emerge chiaramente che i padri hanno già accresciuto ruolo ed impegno in casa e famiglia e che desiderano fortemente
Ricerca di genere: il Nobel a Claudia Goldin Lo scorso ottobre Claudia Goldin è stata insignita del Premio Nobel per l’Economia «per aver migliorato la nostra comprensione dei risultati del mercato del lavoro femminile». È la terza donna a vincere il Nobel per l’Economia. L’economista statunitense, nata a New York nel 1946, si è laureata in Economia alla Cornell University, ha poi conseguito il dottorato all’università di Chicago. Ha insegnato in diverse prestigiose università Usa e, dal 1990, è professoressa di Economia ad Harvard, prima donna ad assumere questo incarico nell’ateneo americano.
Dal 1989 al 2017 è stata direttrice del programma Development of the American Economy della NBER (il National Bureau of Economic Research, l’Istituto nazionale per le ricerche economiche), ed è codirettrice del Gender in the Economy Study Group del NBER. Le ricerche dell’economista sono incentrate sulla partecipazione e retribuzione femminile nel mondo del lavoro, soprattutto sul divario di genere nei guadagni, passando attraverso argomenti come il cambiamento tecnologico, l’istruzione e l’immigrazione. / Red.
continuare a farlo. Una buonissima notizia, per almeno due ragioni. Intanto perché questa esperienza libera emozioni positive e stimola a prendersi più cura di sé stessi, degli altri e del pianeta, ciò di cui l’umanità ha più fortemente bisogno. E poi perché si tratta di un’emancipazione di portata epocale, se consideriamo l’ostacolo finora posto dalla rigidità dei ruoli, di cui sono impregnate le norme sociali: per secoli hanno dettato ciò che appartiene e attiene al maschile e al femminile, inducendo una specializzazione di genere che oggi non ha più alcuna utilità per la specie.
In Ticino i tagli che colpiscono case anziani, servizi domiciliari, servizi per l’infanzia, ecc., comportano un deciso impatto di genere La difficile sfida che ancora resta da vincere, invece, riguarda l’affermazione di politiche capaci di sostenere e accompagnare questa evoluzione. Pensiamo all’esempio tipico, che richiama anche il lavoro della professoressa Goldin: finché le condizioni di lavoro e il salario della madre resteranno strutturalmente peggiori, i genitori non potranno decidere con serenità che anche il padre goda del suo pieno diritto al congedo, senza mettere a rischio le finanze della famiglia. Ed è qui che le nuove aspirazioni degli individui convergono con i principi dell’economia femminista, che, mettendo al centro la cura e i divari da colmare, informa tutta la sua azione politica sulla risposta ai bisogni delle persone, piuttosto che al profitto fine a se stesso, così rendendo le comunità più forti, eque e sane, oltre che più prospere in modo sostenibile. Ci vorrà tempo per rivoluzio-
nare le brutte abitudini degli ultimi decenni; ma il dibattito globale è animato ed una delle buone pratiche con cui i Governi stanno familiarizzando è quella del gender budgeting, volto ad individuare i diversi possibili riverberi della politica economica su uomini e donne. In quest’ottica, la proposta di riequilibrio finanziario appena licenziata dal Consiglio di Stato ticinese è un esempio emblematico (Preventivo 2024 e primo pacchetto di misure di riequilibrio finanziario, Consiglio di Stato, 17 ottobre 2023). I tagli che colpiscono case anziani, servizi domiciliari, servizi per l’infanzia, centri extra-scolastici o strutture per invalidi, comportano un inequivocabile impatto di genere: le donne, in quanto madri, familiari curanti, operatrici del sociale, infermiere ed educatrici ne risultano prime destinatarie, proprio in ragione del loro più massiccio impegno negli ambiti di cura coinvolti. Certo, il vincolo della politica finanziaria del Cantone è il freno dei disavanzi, non il più generoso per governare le fluttuazioni fisiologiche del ciclo economico; ma questo non esclude la possibilità di integrare migliore consapevolezza e gestione degli effetti sul breve, medio e lungo termine, dell’accentuazione e perpetuazione dei divari esistenti. Una scelta che, oltretutto, contribuirebbe a rafforzare altri importanti obiettivi: lo sviluppo sostenibile e la responsabilità sociale, la qualità di vita e del lavoro, l’inversione di rotta della denatalità, l’inclusione del capitale umano femminile per contrastare la penuria di personale qualificato. La sfida è certamente complessa ma il cambiamento di paradigma non è impossibile; uno sforzo che la società e le nuove generazioni hanno tutto il diritto di aspettarsi dalla politica e a cui tutte e tutti abbiamo la responsabilità di contribuire.
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ATTUALITÀ
Come fermare la brutalità?
Lo slogan: «L’uomo non uccide per amore». (Keystone)
Prospettive ◆ Dal femminicidio di Giulia Cecchin alle attività di prevenzione della violenza domestica messe in atto in Ticino Romina Borla
Come fermare la mattanza di donne e ragazze per mano di compagni o degli ex in preda a rabbia e frustrazione che non sanno e non vogliono controllare? «Educate vostro figlio», lo slogan dilagato sui social e non solo dopo l’ultima tragedia italiana, quella della 22enne Giulia Cecchettin, ammazzata a coltellate dal suo ex ragazzo, Filippo Turetta. «Educatelo!». Una frase sacrosanta, che però da sola non rappresenta la soluzione al problema. Primo perché potrebbe suonare come l’ennesimo appello rivolto soprattutto alle madri. Secondo perché talvolta il nucleo famigliare non è il contesto in cui si trasmettono alle nuove generazioni valori come l’ascolto, il rispetto, la parità. Certe volte, purtroppo, è proprio in famiglia che si perpetrano immagini distorte delle relazioni e delle donne. In Ticino nel 2022 la polizia è intervenuta in media quasi tre volte al giorno per arginare episodi di disagio familiare; e a livello svizzero in ambito domestico si sono consumati 25 omicidi; 61 tentati omicidi; nel 70,2% dei casi la vittima era una donna (dati polizia cantonale). E allora? È necessario agire su più fronti contro un fenomeno che tocca tutti i ceti sociali e tutte le nazionalità. Non basta sostenere le vittime. «Non basta la repressione se non si fa prevenzione», ha sottolineato la
segretaria del PD Elly Schlein rivolgendosi alla presidente del Consiglio italiano Giorgia Meloni. «Approviamo subito in Parlamento una legge che introduca l’educazione al rispetto e all’affettività in tutte le scuole d’Italia. (…) Se non si agisce già a partire dalle scuole per sradicare l’idea violenta e criminale del controllo e del possesso sul corpo e sulla vita delle donne, sarà sempre troppo tardi». Il Piano di studi della scuola dell’obbligo ticinese prevede già dei momenti di educazione affettiva e sessuale. Educazione che viene impartita trasversalmente nelle varie materie. Molto sta alla sensibilità dell’istituto e soprattutto dei docenti, sostengono gli addetti ai lavori ma, come detto, il Piano di studi riconosce e veicola una serie di aspetti e valori – quali il rispetto, la gestione della diversità, le pari opportunità, la capacità di gestione dei conflitti – che si inseriscono proprio nel contesto della prevenzione di abusi e violenze. Segnaliamo poi varie iniziative di sede delle Scuole professionali che hanno coinvolto studenti e docenti per la realizzazione di una mostra itinerante sulla violenza domestica; di recente ha inoltre preso il via il progetto «Batticuore: amicizia, amore e sessualità senza violenza» per la prevenzione del fenomeno della violen-
za all’interno delle giovani coppie (1318 anni), realizzato in collaborazione con Radix. Se si allarga lo sguardo… C’è anche il Gruppo visione giovani della polizia cantonale che interviene, su richiesta, in diverse sedi scolastiche sempre in ottica di prevenzione del disagio. Senza contare programmi come quello dell’Aspi per la prevenzione degli abusi sui bambini, proposto agli allievi delle scuole elementari, tra i cui messaggi troviamo quello del rispetto di sé e degli altri, della necessità di chiedere aiuto ecc. «Il Piano d’azione cantonale sulla violenza domestica, lanciato nel 2021 dal Consiglio di Stato, insiste sulla necessità di affrontare la questione da tutti i punti di vista, in ogni ambito e per tutte le fasce d’età». Lo dice Myriam Proce, coordinatrice cantonale del dossier. Così, alla campagna nazionale «Violenza sugli anziani», promossa da Prevenzione svizzera della criminalità a partire dal mese di marzo 2023, farà seguito anche in Ticino una campagna di informazione sul tema della violenza nella coppia anziana. Un ulteriore tema sui cui sensibilizzare la popolazione e i professionisti riguarda le conseguenze della violenza domestica per bambini e giovani. In occasione di una recente serata organizzata dalla Divisione della giustizia a Mendrisio, i relatori
– attivi nell’ambito medico, sociale e giuridico – hanno messo in evidenza come la violenza a cui un minore assiste in famiglia sia a tutti gli effetti una violenza anche per il minore stesso. In tale ottica la Conferenza svizzera contro la violenza domestica ha pubblicato la guida «Contatti dopo la violenza domestica?» (scaricabile su www.csvd.ch). «La lotta alla violenza domestica è un lavoro di squadra che coinvolge molti attori sia a livello istituzionale che della società civile», riprende Proce. «Lo evidenziano bene la Giornata cantonale per la lotta alla violenza domestica – che si è tenuta sabato scorso – e la campagna 16 giorni di attivismo contro la violenza di genere che dura fino al 10 dicembre (una campagna mondiale, siamo alla seconda edizione promossa dalle istituzioni in Ticino)». Non solo conferenze, ma anche spettacoli, una mostra, proiezione di film-documentari, flash mob ecc. Alcune palestre ticinesi offrono una lezione di prova gratuita di difesa personale (vedi il programma sul sito www. ti.ch/violenzadomestica). L’idea è che
più si parla del problema e meno chi ne rimane vittima si sente isolato. E magari in questo modo può trovare il coraggio di denunciare (si stima che solo il 20% delle vittime denunci il suo persecutore a causa della vergogna, del rapporto di vicinanza ecc.). Gli argomenti sul tavolo saranno tantissimi. Tra i quali quello – decisivo – della sensibilizzazione dei testimoni di violenza domestica (come riconoscerla, a chi rivolgersi ecc.). Parallelamente all’attività di prevenzione e sensibilizzazione della popolazione, anche la formazione dei professionisti attivi nell’ambito della lotta alla violenza domestica è fondamentale (agenti della polizia, personale socio-sanitario ecc.). Il Piano cantonale prevede poi misure relative alla presa a carico degli autori di violenza poiché, solo attraverso un lavoro di responsabilizzazione sulle conseguenze del proprio comportamento violento, è possibile evitare recidive. Insomma, un lavoro intenso e sfaccettato per tentare di sradicare quella che il Consiglio federale ha definito «una piaga sociale». Annuncio pubblicitario
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ATTUALITÀ
Morire di stenti nei campi italiani
Il saggio ◆ Ricordare i braccianti che hanno perso la vita è un modo per cambiare prospettiva sul problema dello sfruttamento e del caporalato. Così spiega Antonello Mangano in un libro pubblicato di recente: La Spoon River dei braccianti Stefania Prandi
Le vicende descritte sono accomunate dalle paghe da fame, dall’assenza di contratti regolari, dalle vessazioni, dalla paura e dal caporalato Queste sono soltanto alcune delle tragiche vicende di braccianti che lavoravano nei campi italiani, per piantare e raccogliere la frutta e la verdura esportate anche all’estero. Le loro storie sono state scelte da Antonello Mangano – autore di inchieste e saggi sui temi delle migrazioni e dell’agricoltura e fondatore di Terrelibere.org – in un libro appena pubblicato, La Spoon River dei braccianti (Meltemi). Il testo si ispira all’Antologia di Spoon River, uscita tra il 1914 e il 1915, celebre raccolta di poesie dell’americano Edgar Lee Masters che dava voce ai defunti di una comunità rurale immaginaria, tutti ospiti del cimitero locale. Quel libro ha conosciuto una nuova popolarità in italiano cinquant’anni fa, con l’album Non al denaro non all’amore né al cielo del cantautore Fabrizio De André. Antonello Mangano, racconta ad «Azione», ha deciso di scrivere La Spoon River dei braccianti «pensando alla necessità di restituire concretezza alle storie di sfruttamento sul lavoro, specie quelle che riguardano i migranti. Di queste persone si parla spesso in termini astratti, generici, senza attenzione alle differenze e alla materialità delle situazioni reali». Il suo libro precedente, Lo sfruttamento nel piatto, era un saggio sulle filiere. Pur trattando lo stesso argomento, La Spoon River dei braccianti
Keystone
Paola Clemente è morta a 49 anni, distrutta da una vita di sfruttamento, il 13 luglio 2015. Lavorava in un campo di uva da tavola ad Andria, in Puglia. Adnad Siddique, di origine pakistana, è stato ucciso a 32 anni con ventisei coltellate, il 3 giugno 2020. Era a Caltanissetta, in Sicilia, e stava accompagnando alcuni amici a denunciare dei caporali. Soumalia Sacko, malese, è stato ammazzato a 29 anni con quattro colpi di fucile mentre raccoglieva lamiere nella campagna di San Calogero, in Calabria, il 2 giugno 2018. Era un bracciante e anche un sindacalista; abitava nel ghetto di Rosarno-San Ferdinando dopo che gli era stata rifiutata la richiesta di asilo. E ancora: Ioan Puscasu, romeno, 47 anni, è morto a Carmagnola, in provincia di Torino, il 17 luglio 2015. I maltrattamenti lo avevano consumato: pochissimi i denti rimasti; una cicatrice all’addome per un’operazione di ernia; un ventricolo sinistro ipertrofico, lascito di due infarti; una gastrite cronica. I suoi caporali hanno spostato il corpo senza vita per non essere ritenuti responsabili. si concentra, invece, sulle biografie e su una modalità di narrazione diversa. «Volevo evidenziare come le condizioni materiali, ma anche le leggi, incidono sulle vite delle persone. Nonostante la retorica del merito, appare evidente che non ci sia alcuna bravura individuale nel nascere in un Paese o in un altro, nell’arrivare in Italia durante una sanatoria o a termini scaduti, nel trovare lavoro in una fase economica positiva o in piena crisi. Le vite degli operai agricoli di cui parlo sono piene di fatica. Sono donne e uomini che hanno fatto il massimo, ma sono comunque morti giovani o intorno ai cinquant’anni, distrutti da un destino più grande di loro». Che si tratti di migranti o italiani, le vicende descritte da Mangano sono accomunate dalle paghe da fame,
dall’assenza di contratti regolari, dalle vessazioni, dalla paura, dalla miseria e dal caporalato. Secondo l’autore non è giusto considerare i braccianti «schiavi privi di consapevolezza», nel modo in cui spesso fanno i media mainstream. Basti pensare alla morte di Gassama Gora, maliano di 34 anni, investito il 18 dicembre 2020 mentre tornava in bici dai campi alla tendopoli di San Ferdinando, nella Piana di Gioia Tauro, dove viveva. L’auto che lo ha travolto non si è fermata per prestargli soccorso. Nel protestare per la sua morte durante una manifestazione, altri operai agricoli migranti mostravano cartelli con le parole «Black lives matters», le stesse scandite dagli afroamericani negli Stati Uniti. La Spoon River dei braccianti non è un tipico reportage, ma è un libro
La forza di Yvan Sagnet, fondatore di NO CAP Fra coloro che danno voce a una categoria di ultimi troppo spesso dimenticata da politica e cronaca, vi è anche l’attivista Yvan Sagnet. Origini africane – è nato in Camerun nel 1985 – entra presto in contatto con il mondo del caporalato e le sue derive, con l’abuso sistematico e il rinnegamento dei diritti umani di base. La miseria con cui si trova confrontato (lui, che aveva vinto una borsa di studio per il Politecnico di Torino) lo spinge nel 2011 a fondare NO CAP, un «movimento per contrastare il caporalato in agricoltura e per favorire la diffusione del rispetto dei di-
ritti umani, sociali e dell’ambiente». L’impegno e la dedizione del suo lavoro lo portano, nel 2017, a essere nominato da Sergio Mattarella Cavaliere dell’Ordine al Merito della Repubblica Italiana. Yvan Sagnet è anche il protagonista di Das neue Evangelium, docu-film del 2019 dello svizzero Milo Rau, dove ricalcando, appunto, il Vangelo si denunciano le condizioni di lavoratrici e lavoratori di origine africana nei campi del Sud. Il film è stato girato a Matera, riprendendo così la location del Vangelo secondo Matteo di Pier Paolo Pasolini. / Red.
di non fiction: affronta cioè fatti realmente accaduti con uno stile narrativo. Mangano ha realizzato molte più ricerche rispetto ai saggi scritti in precedenza. Ha utilizzato atti giudiziari, intercettazioni telefoniche, così come interviste ai testimoni delle storie. In qualche caso ha avuto a disposizione ottimi materiali grazie a coincidenze fortuite. Per citare qualche esempio, aveva intervistato Drame Mohaderi, sindacalista, al ghetto di Rosarno, prima che diventasse il testimone chiave dell’omicidio di Soumaila Sacko. «Ho visto praticamente tutti i luoghi e ho conosciuto molta gente; in nessun caso la vittima», dice Mangano. «Ho voluto inserire in un apposito capitolo le fonti per chiarire l’origine delle informazioni, approfondire i dettagli e l’aspetto umano. Volevo allontanarmi dal “paradigma miserabilista”, quello di chi dice “poverini” e pensa che ciò basti a rappresentare un’umanità molto complessa e articolata». Focalizzarsi sulle morti, precisa l’autore, è un modo per fare luce sul rapporto tra lavoro e vita. «Vale la pena rischiare la pelle per un impiego che spesso ti garantisce appena un vecchio materasso in una baraccopoli?». Non è possibile quantificare il numero totale di lavoratori morti nei campi italiani perché in agricoltura è molto diffuso il lavoro irregolare. Non essendo i lavoratori e le lavoratrici inquadrati in modo corretto, non esistono statistiche precise. Secondo Mangano, l’unico dato ufficiale sul grave sfruttamento parla di 168mila persone. Si tratta di una stima del Ministero del lavoro italiano, datata 2018. Per il resto ci sono cifre elaborate con
criteri poco chiari. «Quando, anni fa, ho provato a ricostruire i numeri, mi sono imbattuto negli open data dell’Inail (Istituto nazionale assicurazione infortuni sul lavoro). Ed è stato veramente difficile conciliare le cifre ufficiali con quelle reali. Solo per fare un esempio, non c’era traccia di Paola Clemente tra i decessi del 2015. Il motivo è facile da capire: era stata assunta da un’agenzia interinale come “consulente”, non come bracciante». Dopo essere arrivati alla fine di questo libro straziante, resta una domanda: che cosa si può fare? Mangano ritiene che servano interventi su più fronti. Non bastano il consumo consapevole, l’etichetta trasparente e il marchio di qualità, che permetterebbero di scegliere tra le imprese etiche e le altre. «È giunto il momento di dare risposte politiche a problemi politici, ovvero di ordine generale. Dal salario minimo alla riforma del welfare dei braccianti, fino alla piena cittadinanza dei lavoratori di origine migrante, troppo spesso marginalizzati da una “caccia al documento” che li rende ricattabili. Occorre stabilire una piena responsabilità per le aziende che utilizzano manodopera, evitando che ricorrano a forme legalizzate o mascherate di caporalato come avviene oggi». Infine, aggiunge Mangano, «piena responsabilità significa anche rifiutare l’idea dello “sfruttamento per necessità”, cioè la pratica di utilizzare manodopera malpagata perché vessati dai soggetti forti della filiera. Finché ci sarà una soluzione comoda, ossia trovare qualcuno più in basso su cui rivalersi, nessuno avrà interesse a modificare il sistema». Annuncio pubblicitario
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ATTUALITÀ
Come neutralizzare il boicottaggio cinese
L’analisi ◆ La lezione australiana è considerata importante perché crea una nuova prassi nei rapporti con l’autoritarismo di Pechino Giulia Pompili
Da qualche tempo, se invitati a una cena di gala a Taipei (capitale di Taiwan) è probabile che per il brindisi d’onore vi venga offerto un calice di vino australiano, magari un Syrah. La stessa cosa succede nelle sedi diplomatiche asiatiche di Paesi come Giappone, Corea del Sud, America. È un gesto politico: scegliere un vino australiano oggi è considerato un gesto solidale. I vini australiani sono stati infatti le prime vittime del violento boicottaggio economico che la Repubblica popolare cinese ha iniziato a imporre contro Canberra nel 2020, durante le fasi più dure della pandemia. C’entrava il fatto che il Governo australiano, allora guidato dal liberale Scott Morrison, avesse chiesto un’indagine internazionale sull’origine del Covid, quindi, in sostanza, sulla Cina e le sue responsabilità. Il boicottaggio non si era fermato ai vini. Si era esteso alla carne, al cotone, al carbone e al nichel. E lentamente le relazioni diplomatiche tra Pechino e Canberra si sono sempre più complicate: al metodo della coercizione economica, che la Cina ha applicato anche ad altri Paesi in passato come la Corea del Sud o la Lituania, si è aggiunta l’assertività della Repubblica popolare nel Mar Cinese Meridionale e la sua influenza sugli stati insulari del Pacifico, tradizionalmente vicini all’Australia. Poi però qualcosa è successo. La visita di inizio novembre del primo ministro australiano, il laburista An-
thony Albanese, sancisce il ritorno a una normalizzazione delle relazioni. Ma Albanese ha solo ammorbidito un po’ la retorica, a volte sopra le righe del suo predecessore Morrison. Per il resto, secondo gli osservatori, ad ammorbidire la posizione è stata la Cina. Il premier australiano ha incontrato a Pechino il leader cinese Xi Jinping in un clima di cordialità che fino a qualche mese fa pareva impossibile. Xi ha detto che la Cina e l’Australia sono destinate a diventare «partner fiduciosi» e sono sulla «strada giusta per migliorare e sviluppare le relazioni». Questo nonostante l’Australia faccia parte del Quad, l’alleanza quadrilaterale con India, Giappone e Usa, e del più importante AUKUS, il patto sulla Difesa con America e Regno Unito (i funzionari di Pechino hanno ripetuto spesso di considerare AUKUS un primo passo per un allargamento nell’area del Pacifico della Nato). La visita di Albanese in Cina è stata confermata a metà ottobre, subito dopo il rilascio di Cheng Lei, giornalista australiana che lavorava per la tv di stato cinese CCTV e che era stata accusata di spionaggio. E ha coinciso con un lento allentamento di tutti i blocchi alle importazioni cinesi, compreso quello del vino australiano. Come abbia fatto l’Australia a gestire l’ostilità cinese è ancora oggetto di studi. Da un lato c’è di sicuro l’ammorbidimento della leadership di Pechino,
che è uscita dalla pandemia – e dalla politica repressiva zero Covid – in una situazione economica molto critica: la Cina ha bisogno della globalizzazione per tornare a crescere come vorrebbe. Secondo David Uren, economista e senior fellow di uno dei think tank più importanti, l’Australian Strategic Policy Institute, Canberra «ha avuto uno straordinario successo nel diversificare le proprie esportazioni nonostante il boicottaggio della Cina. La quota cinese delle esportazioni australiane è scesa dal 42% di luglio 2021 a solo il 29% di agosto dello scorso anno». Se prima della crisi la Cina acquistava gran parte del suo fabbisogno di carbone dall’Australia, nel giro di poco Canberra è riuscita «a sostituire interamente il mercato cinese aumentando le esportazioni verso India, Corea del Sud, Taiwan, Giappone e Ue». L’arma della coercizione economica cinese funziona sempre meno anche grazie a un meccanismo di solidarietà che è stato discusso, dentro l’Ue, per esempio, ma anche durante le ultime riunioni del G7. Si tratta di creare un sistema di automatismo che funga da deterrente contro chi minaccia di usare il commercio per scopi politici: se un Paese smette di importare il vino australiano, quelle esportazioni vengono assorbite da altri Paesi alleati, che così evitano le potenziali conseguenze economiche nefaste soprattutto sul settore produttivo. La le-
Canberra ha avuto successo nel diversificare le proprie esportazioni. (Keystone)
zione australiana è considerata importante perché crea una nuova prassi nei rapporti con l'autoritarismo di Pechino. È forse anche per questo che Xi Jinping ha deciso di partecipare personalmente, due settimane fa, al vertice dell’Asia Pacific Economic Forum di San Francisco, e di avere un bilaterale con il presidente americano Joe Biden a un anno esatto dal loro ultimo incontro (il colloquio ha ristabilito il dialogo anche se le divergenze restano). La Repubblica popolare cinese ha bisogno di riattivare i canali diplomatici con l’Occidente e i Paesi industrializzati, dopo anni di isolamento
e ostilità, e soprattutto ha bisogno di tornare a parlare con l’America. È il segno tangibile del fatto che la strategia del contenimento della Cina da parte di Biden, che ha colpito per lo più il settore tecnologico, sta avendo degli effetti. È il realismo di Xi che prende il sopravvento, nonostante la propaganda cinese continuerà a usare le crisi globali – dalla guerra della Russia contro l’Ucraina alla guerra in Medio Oriente – per criticare la leadership Usa. Ma per continuare a crescere economicamente e restare saldo al potere, anche lui sarà costretto a brindare con un Syrah australiano. Annuncio pubblicitario
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MONDO MIGROS
UN PIACERE COLLAUDATO IN NUOVA VESTE Ai fan dei prodotti Bifidus non sarà sfuggito: i loro yogurt preferiti hanno un nuovo look. Ma il piacere resta sempre lo stesso. Bifidus continua a puntare sulle sue ricette collaudate e sulle varietà di gusto conosciute, anche per lo yogurt al naturale. Tra l’altro, gli yogurt contengono più di un miliardo di colture Bifidus. Queste favoriscono la digestione, per cui una porzione al giorno ha un effetto positivo sul senso di benessere.
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azione – Cooperativa Migros Ticino
ATTUALITÀ
Una questione di sopravvivenza
COP 28 ◆ Il 30 novembre si apre a Dubai la conferenza dell’Onu sul clima mentre lo sforzo ambientalista dei Governi si riduce
Raramente nella storia della diplomazia si è manifestato un contrasto così esplicito fra le aspettative ideali e quelle concrete, fra ciò che dovrebbe essere e ciò che prevedibilmente sarà. La Cop 28, la ventottesima fra le conferenze annuali che affrontano l’emergenza climatica, si celebra a Dubai fra il 30 novembre e il 12 dicembre con la missione quasi impossibile di imprimere alla transizione energetica un decisivo colpo di acceleratore. Altrimenti sarà stato tutto inutile, i gas a effetto serra continueranno ad accumularsi nell’atmosfera in misura eccessiva con tutte le devastanti conseguenze del caso: meteorologia impazzita, tropicalizzazione delle aree temperate, scioglimento dei ghiacci, innalzamento del livello dei mari. In particolare, la Cop 28 dovrebbe fare il punto sulla situazione, visto che è arrivato a scadenza il primo Gst (global stocktake, bilancio globale), l’aggiornamento quinquennale dei dati. Dovrebbe anche rendere operativo il Fondo perdite e danni, lo strumento finanziario destinato a compensare quei Paesi che devono spronare uno sviluppo economico ancora incompiuto e dunque non possono limitare più di tanto le emissioni. Si calcola che per mettersi in regola di qui al 2030 con gli impegni dell’Accordo di Parigi del 2015 i Paesi emergenti abbiano bisogno di almeno 2400 miliardi di dollari. Dove reperire quella massa di de-
naro? Quello che si chiede ai Governi è il dirottamento di ingenti flussi finanziari verso la destinazione verde. E proprio qui vengono al pettine i primi ingarbugliatissimi nodi. Infatti il mondo in questa fase ha visto restringersi la disponibilità di denaro, mentre le superstiti risorse sono assorbite in misura crescente dal rilancio della corsa agli armamenti per le guerre in corso e quelle che «potrebbero» esplodere. C’è chi sostiene che è stato il conflitto ucraino a dare il colpo di grazia allo sforzo ambientalista dei Governi, già di per sé frenato da mille impedimenti. Per di più si registra un diffuso allentamento nella percezione dell’emergenza da parte delle opinioni pubbliche. Si parla di crescente eco-scetticismo. In un’epoca permeata da un subdolo negazionismo di fondo si diffonde sempre più la convinzione che il mutamento del clima sia un fenomeno prevalentemente naturale, ciclicamente riproposto nei secoli, e che dunque non valga la pena intervenire sulla parte antropica, considerata marginale. In realtà l’andamento statistico dimostra che a far data dalla rivoluzione industriale la situazione è andata precipitando, e in un paio di secoli ha superato ogni progressione naturale. Ma il sasso ormai è stato lanciato, qualcuno fa notare che non ha senso combattere contro il diluvio universale. La folla di politici, scienziati e imprenditori
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Alfredo Venturi
riunita nella metropoli degli Emirati Arabi Uniti avrà dunque a che fare con un’impresa non soltanto difficilmente finanziabile ma anche non più considerata come irrinunciabile da un’opinione pubblica unanime. Qualche dubbio non certo marginale investe anche l’imparzialità di chi ospita la Cop 28. Qualcuno lo ha chiamato il «paradosso di Dubai»: la conferenza chiamata a rilanciare la transizione energetica si celebra nel cuore della produzione petrolifera. In poche parole i produttori di petrolio, a partire dagli emiri del Golfo, si propongono di prepararsi alla riconversione verde, che sarà prima o poi inevitabile lo si voglia o no, accumulando le risorse necessarie con lo sfruttamento del combu-
stibile fossile che millenni di geologia hanno stratificato sotto i loro deserti. Non a caso il presidente della conferenza è Sultan al-Jaber, che nel Governo degli Emirati svolge il ruolo di ministro dell’industria e della tecnologia, ma nel privato è amministratore delegato della Adnoc, la compagnia petrolifera di Abu Dhabi, uno dei giganti dell’Opec (Organizzazione dei Paesi esportatori di petrolio). Riuscirà al-Jaber, come gli chiede il mondo della scienza, ad assegnare priorità assoluta alla missione ambientalista e guidare la comunità internazionale verso la transizione verde? Come in tutte le precedenti occasioni, anche alla Cop 28 risonerà la voce degli ecologisti. È una voce non certo flebile, ma non più
ascoltata come una volta. Addirittura contrastata: lo conferma il recente arresto a Londra di alcuni ambientalisti fra i quali Greta Thunberg, la giovane militante svedese creatrice dei Fridays for future. La polizia britannica è intervenuta durante una manifestazione di protesta contro l’Energy Intelligence Forum, una riunione delle multinazionali petrolifere. Si teme che per rompere l’accerchiamento ecologista anche il Governo degli Emirati possa scegliere la linea dura. Dobbiamo invece augurarci che a Dubai passi il messaggio della sopravvivenza. Quello che per esempio si fa interprete del dramma vissuto in molte aree insulari o costiere. Come il piccolo stato oceanico di Kiribati, nel Pacifico meridionale. Ci vivono centoventimila abitanti che ormai da anni, giorno dopo giorno, vedono le loro bianchissime spiagge restringersi perché divorate dal mare che sale, impercettibile e costante. L’alta marea è diventata una spaventosa ossessione. O cambia qualcosa, o entro 60 anni al massimo quella manciata di isole scomparirà fra le onde. Il governo di Kiribati ha chiesto alla Nuova Zelanda di farsi carico del problema, proponendo all’Onu l’inclusione del cambiamento climatico fra le motivazioni del diritto d’asilo. Le genti minacciate dal mare si preparano ad abbandonare le loro isole, come se non bastasse in questo mondo demenziale dover fuggire dalle guerre. Annuncio pubblicitario
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CULTURA ●
Una donna dirige il concerto al LAC Il 7 dicembre la direttrice d’orchestra Giedrė Šlekytė e la violinista Alexandra Soumm saranno protagoniste del concerto OSI
Maria Callas un secolo dopo Un ricordo della divina Maria Callas, all’anagrafe Maria Anna Cecilia Sofia Kalos, nata il 2 dicembre 1923 a New York
Io non esisto La storia di Maria, una donna appena uscita dal carcere, è al centro del nuovo romanzo di Alberto Schiavone uscito per le edizioni Clichy
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Wikipedia
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La perla e l’onda sinuosa del Prado
Tesoro nascosto – 3 ◆ Il museo di Madrid voluto da Carlo III di Spagna nel 1786 e inaugurato ufficialmente nel 1819 è tra i più importanti al mondo. Tra le sue prestigiose opere c’è anche la perla di Paul-Jacques-Aimé Baudry Gianluigi Bellei
Il museo del Prado di Madrid, scrive il vecchio direttore Miguel Zugaza Miranda, a detta di molti è «la miglior pinacoteca del mondo». Fondato nel 1819 con il nome di Museo Real de Pinturas ha richiamato a Madrid gli «spiriti più sensibili e raffinati dell’Ottocento» per ammirare Velázques, Goya, El Greco; poi Tiziano, Rubens, Bosch… Le sue collezioni sono all’inizio legate ai gusti personali dei monarchi – pensiamo a re Ferdinando VII, mecenate dell’impresa – sia alle vicende storiche, per accrescerle anno dopo anno. Pur aperto al pubblico, all’inizio è di proprietà reale e nel 1827 conta ben quattromila opere. Nel 1865 il museo è vincolato ai beni della Corona per evitare, in caso di morte del monarca, la dispersione fra gli eredi. Nel 1868 Isabella II viene detronizzata dai moti rivoluzionari e costretta all’esilio. Nel 1872 il museo viene svincolato dalla Corona e diventa patrimonio dello Stato. Il nuovo regolamento sancisce che il direttore deve essere necessariamente un pittore, membro della Real Academia de San Fernando e aver ricevuto una medaglia nelle esposizioni nazionali di Belle arti. Nel 1971 viene ristrutturato con l’adeguamento degli impianti di climatizzazione. Nel 1995 avviene la riorganizzazione delle collezioni e le opere del XIX e XX secolo suddi-
vise fra il Prado e il Museo Reina Sofia. Infine, su progetto dell’architetto Rafael Moneo, nel 2007 si concludono i lavori di ampliamento. Ovviamente la Collezione di pittura spagnola costituisce il nucleo centrale del museo ed è la più ampia e completa. Dalle pitture murali del XII secolo fino ai dipinti del primo decennio del XX secolo. Poi ci sono le collezioni della pittura italiana, fiamminga, olandese, tedesca, britannica e francese.
La perla e l’onda è esposto al Salon di Parigi del 1863 e viene considerato uno dei più bei nudi del tempo. L’immagine rappresenta Afrodite che sorge dalle acque come racconta Esiodo nella Teogonia Quest’ultima è la quarta per importanza dopo quella spagnola, quella italiana e quella fiamminga. Le nozze fra alcuni membri delle due Corone, quella francese e quella spagnola, favoriscono nel 1600 uno scambio di ritratti. Ma la maggior parte delle opere francesi giungono in Spagna attraverso l’Italia. Dopo l’istituzione del Museo del Prado si è cercato di colmare le lacune della collezione. Possiamo ammirare, per esempio, il
Martirio di San Lorenzo di Valentin de Boulogne del 1621 o Il trionfo di David di Nicolas Poussin del 1630 ispirato all’estetica classica. Meno rappresentata è la pittura francese dell’Ottocento e qui troviamo La perla e l’onda di Paul-Jacques-Aimé Baudry del 1862. Baudry (La Roche-sur-Yon, 1828 – Parigi, 1886) si trasferisce a Parigi nel 1844 e frequenta la Scuola di Belle arti. Nel 1850 vince il Grand Prix de Rome insieme a Bourguereau con il dipinto Zenobia ritrovata da pastori sulle rive dell’Arasso. Un dipinto che rivela una grande maestria compositiva nel quale nove pastori racchiusi in un ideale triangolo inscenano il soccorso alla bellissima Zenobia accasciata tra le ginocchia di uno di questi e avvolta da un velo bianco con il seno destro scoperto. Si tratta della trasposizione della storia raccontata da Tacito nel libro XII degli Annali quando scrive di Radamisto accerchiato dagli Armeni che si dà alla fuga con la moglie incinta. Questa lo supplica di ucciderla. Egli sguaina la spada e la ferisce abbandonandola sulle rive dell’Arasso. «Ma Zenobia, così si chiama la donna, respira ancora e dà segni di vita; alcuni pastori la vedono galleggiare nell’acqua placida presso la riva e comprendendo dalla nobiltà del suo aspetto che essa è persona non vol-
gare, fasciano la ferita, le apprestano rustici medicamenti e saputo il nome e il suo caso la portano nella città di Artaxata». A Villa Medici a Roma Baudry studia gli artisti italiani, soprattutto Raffaello del quale subisce l’influsso. In seguito guarda con interesse il colore veneziano di Tiziano. Nel 1857 con il dipinto la Fortuna e il fanciullo, pieno di citazioni dall’Amor sacro e l’amor profano, proprio di Tiziano, ottiene un grande successo al Salon. Viene incaricato della decorazione di molte dimore parigine e nel 1863 l’architetto Charles Garnier, già suo amico dal soggiorno romano, gli affida la decorazione dell’Opéra. Dal 1866 al 1874 lavora alacremente e sulla parete centrale del soffitto del gran foyer realizza, tra l’altro, l’allegoria della Musica.
Il nudo è particolarmente sinuoso con le sue «curve convesse del braccio, del seno e dei fianchi, separate dalla concavità» La perla e l’onda è esposto al Salon di Parigi del 1863 e viene considerato uno dei più bei nudi del tempo (nell’immagine). L’immagine rappresenta Afrodite che sorge dalle acque come racconta Esiodo nella Teogonia. Saturno getta gli organi
sessuali di Urano nel mare. «… attorno bianca la spuma dell’immortale membro sortì e in essa una fanciulla nacque, e dapprima a Citera divina giunse, e di lì poi giunse a Cipro molto lambita dai flutti… lei Afrodite». Il nudo è particolarmente sinuoso con le sue «curve convesse del braccio, del seno e dei fianchi, separate dalla concavità, queste sempre più aperte, dell’ascella, della vita e delle caviglie», scrive Javier Barón ne L’eredità di Ramon de Errazu. Il colore della pelle è perlaceo, accattivante e contrasta, evidenziando contemporaneamente, con il blu dell’onda ed il bianco della spuma. In più, la sensualità della figura è accentuata dal volto di Venere che volge lo sguardo verso lo spettatore e lo guarda con la coda dell’occhio e le labbra socchiuse. Sempre secondo Barón nel dipinto si ritrovano alcuni ricordi della formazione correggesca dell’artista. Il quadro viene acquistato dall’imperatrice Eugenia de Montijo e nel 1871 dal collezionista americano William Hood Stewart. Infine, nel 1898 se lo aggiudica Ramon de Errazu per 43’000 franchi e lo lascia in eredità al Prado. Informazioni Museo nacional del Prado, Madrid. www.museodelprado.es
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«Sul podio ci vanno anche le donne»
Concerto ◆ Il 7 dicembre al LAC saranno protagoniste la direttrice d’orchestra Giedrė Šlekytė e la violinista Alexandra Soumm Enrico Parola
«Siamo una palla di neve che ha iniziato a rotolare a valle e non si ferma più. Sul podio ci vanno anche le donne e questo, semplicemente, accade, è un fatto che non può essere negato». Giedrė Šlekytė è una musicista nata in Lituania 34 anni fa; gli inizi nel coro di voci bianche, poi il sogno di diventare ballerina, la parentesi durante la quale progettava un futuro da giornalista, infine l’approdo sul podio e una carriera in rapida e irresistibile ascesa: nel 2015 è tra le tre bacchette selezionate, assieme al ginevrino Lorenzo Viotti, per lo Young Conductor Award di Salisburgo; a seguire il perfezionamento con Riccardo Muti e Bernad Haitink, gli applausi ricevuti alla Opernhaus di Zurigo e con la Staatskapelle di Dresda, gli incarichi a Klagenfurt e Francoforte, e adesso il concerto con l’Orchestra della Svizzera Italiana che la vede impegnata nella Quarta sinfonia di Schumann e nel concerto per violino di Lalo, solista Alexandra Soumm. Šlekytė non è una femminista convinta, gli amori che la infiammano sono per la musica e la natura, ma quando si trova a che fare con certi inveterati stereotipi, dal volto angelico traspaiono una convinzione e una lucidità ferree. «Gli stereotipi persistono un po’ in tutti gli ambiti della nostra vita, inevitabile che ce ne siano ancora anche nella musica. La mia
Con «Azione» al LAC «Azione» mette in palio alcuni biglietti per il concerto dell’OSI diretto da Giedre Šlekyte giovedì 7 dicembre alle 20.30 alla Sala Teatro del LAC. Per partecipare al concorso inviate una mail a giochi@azione.ch, oggetto «direttrice» con i vostri dati (nome, cognome, indirizzo, no. di telefono) entro domenica 3 dicembre alle 24.00).
idea è che non abbia alcun senso dividere i direttori in maschi e femmine; anzi, per essere precisi, tra “direttori” e “direttori femmine”, e già questo fa capire come sia un ruolo concepito ancora quasi unicamente al maschile. Se sei donna ti domandano se questo condizioni il tuo modo di fare musica, mentre mai chiedono se l’essere un uomo incida. Eppure, se stiamo a questo livello, dovremmo pensare a un uomo come a una persona forte, coraggiosa, che ama la velocità, che non urla; conosco tanti uomini molto interessanti che non corrispondono affatto a tale identikit, quindi credo sia giusto che anche a una figura femminile non siano aprioristicamente associate delle caratteristiche generiche».
La sua carriera, nonostante le importanti apparizioni con la Staatskapelle di Dresda o l’orchestra della Radio di Francoforte, si è sviluppata soprattutto nell’ambito operistico Šlekytė ha dovuto affrontare un ulteriore pregiudizio: «Se sei giovane e bella devi essere incompetente; ma è possibile che un bell’aspetto debba essere uno svantaggio e non un vantaggio? È assurdo, eppure non è raro percepire questo pensiero; ognuno porta la propria croce, va bene così, l’importante è che poi, quando si fa musica, la qualità del lavoro venga riconosciuta». Lo ha fatto ad esempio il teatro di Klagenfurt, che l’ha nominata per due stagioni – prima donna a ricoprire tale incarico nella storia dell’istituzione austriaca – Kapellmeisterin; qui ha diretto tanto Mozart (dal Ratto dal serraglio a Don Giovanni e Flauto magico, portato in un adattamento per bambini al Festival di Salisburgo nel 2018), Verdi, Donizetti; la sua carriera infatti, nonostante le importanti apparizioni con la Staat-
skapelle di Dresda o l’orchestra della Radio di Francoforte, si è sviluppata soprattutto nell’ambito operistico, «che presenta problemi decisamente più numerosi e anche complicati, ma è un mondo meraviglioso, che ti assorbe e ti incanta e di cui non riesco più a fare a meno». Come non può più fare a meno della natura; lo ha scoperto durante le due stagioni trascorse a Klagenfurt. «È abbastanza popolare in Austria come località turistica, ma devo confessare che quando mi proposero di lavorare lì non sapevo né dove fosse né come fosse; devo essere sincera: non l’avevo neppure mai sentita nominare. Quando sono arrivata lì ho scoperto un luogo splendido, sulla costa orientale del lago Wörthersee – infatti Klagenfurt am Wörthersee è il nome completo della città; mi sono ritrovata davanti panorami strepitosi, e ho scoperto che erano gli stessi che avevano ispirato compositori come Johannes Brahms, Gustav Mahler e Alban Berg. Il teatro è buono, gli spettacoli di livello, e uno spettacolo era la vista che avevo dal balcone e dalle finestre di casa: le montagne che confinano con la Slovenia – ci sono poi quelle austro-italiane. Chi mi veniva a trovare capiva immediatamente perché avevo scelto di vivere lì. Quando iniziai a viaggiare per lavoro, mi sentivo libera di volare come un uccello in qualunque posto mi piacesse, pensavo che avrei potuto vivere nelle città che avevo sempre sognato. Ma dopo un periodo neppure lungo di continui viaggi, dopo i soggiorni un po’ più prolungati in città come Berlino o Francoforte, ho capito che non avrei potuto stare per sempre in luoghi così: voglio vivere circondata dalla natura, in una cittadina piccola». Sicuramente apprezzerà Lugano e il LAC, con la sua hall panoramica sul lago e le montagne che vi si specchiano. «Una convinzione che è maturata ulteriormente durante le quarantene imposte dalla pandemia: come tanti, ho
La direttrice d’orchestra Giedre Šlekyte in azione. (© Nikola Milatovic)
capito quanto è importante la casa dove si vive, e io non vivrei mai in una casa da cui vedo solo altri muri, strade e traffico». Se non uno stereotipo come quello legato all’esser donna, la nazionalità contribuisce a calamitare una certa curiosità attorno alla musicista di Vilnius: «La Lituania è vista ancor oggi come un Paese esotico: nessuno conosce bene come è fatto,
i suoi luoghi, le sue tradizioni. Spesso mi chiedono di dirigere brani di autori lituani, pensando che l’interpretazione di una “madrelingua” sia migliore; con un antipatico risvolto: allora non si è così affini ad autori tedeschi o francesi. Lo trovo quasi offensivo, e comunque sono stata abbastanza in Austria e Germania per poter dire di conoscere la loro cultura e le loro tradizioni». Annuncio pubblicitario
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Rivoluzione Callas a un secolo dalla nascita
Anniversario ◆ Un ricordo del soprano statunitense di origini greche
Al centenario della nascita Maria Callas (1923-1977) giunge più famosa che mai. Le sue lettere valgono come e più di quelle dei celebri compositori di cui fu interprete indimenticabile, Verdi compreso. La caccia agli autografi da cui trarre rivelazioni ha conosciuto una vera e propria impennata negli ultimi decenni, inframezzata dalle dispute sulla cospicua eredità, divisa fra l’ex-marito Giambattista Meneghini, la madre Evanghelia, la sorella Jackie. Pettegolezzi finiti a riempire biografie promettenti rivelazioni sulla vita privata, diventata pubblica dopo l’entrata nel jet set internazionale come amante del Paperone greco Aristotele Onassis. Il magnate che poi la ripudiò senza molti scrupoli per impalmare la vedova del presidente Kennedy. Erano gli anni in cui la Divina Maria scendeva dal panfilo Cristina, dov’erano ospiti Winston Churchill e Lady Clementine, mentre il ritorno alle scene diventava una frustrazione: la primadonna assoluta fu costretta a limitarsi a qualche disco nel registro di mezzo soprano (una meravigliosa Carmen), alla recitazione come protagonista della Medea di Pier Paolo Pasolini, a una serie, per altro splendida, di concerti, all’insegnamento sporadico (le masterclass alla Juilliard School), a un non felice tentativo registico per i Vespri siciliani
con cui inaugurò il Nuovo Teatro Regio di Torino a quattro mani con lo storico partner, il tenore Giuseppe Di Stefano. La Callas aveva imboccato quel viale del tramonto, così ben descritto nel film Callas forever di Franco Zeffirelli, quando ascolta e recita da sola i suoi dischi, piangendo a dirotto. Il regista fiorentino aveva ereditato l’ammirazione per il genio della Callas dal suo maestro Luchino Visconti. Questi da autentico Pigmalione trasformò la sovrabbondante ragazzona greco-americana in una sorta di Audrey Hepburn lirica, rivestita dagli abiti della sarta della Milano altoborghese, Biki. La Callas trasformata in Diva divenne non solo la cantante che aveva portato nel mondo dell’opera una ventata rivoluzionaria, ma fu considerata alla stregua di una grande attrice che mutava a seconda del personaggio con straordinaria aderenza alla parte – paragonabile forse solo al contemporaneo ciclone rappresentato in teatro e nel cinema da Anna Magnani. Eppure quando interpretò al Teatro alla Scala nel 1952 il suo ruolo forse maggiore, Norma nell’opera di Bellini (dopo aver inaugurato la stagione per due anni consecutivi come veemente eroina verdiana nel Macbeth e nei Vespri siciliani), c’erano ancora spettatori che le davano dell’imbrogliona, per non dire
di frange loggionistiche irriducibili che, lanciandole ortaglie in scena, le rimproveravano certe note schiacciate lungo il passaggio tra registro medio e superiore e i suoni velati nel centro e nel grave. Nei brevi anni del successo, la Callas divenne anche bersaglio ossessivo di un critico musicale che non sopportava i numeri uno (i suoi odi erano equamente ripartiti con il direttore d’orchestra Victor de Sabata e il pianista Arturo Benedetti Michelangeli). La Callas lo denunciò per diffamazione, perdendo. I suoi sostenitori allora si vendicarono mettendo in giro la diceria che il critico fosse uno jettatore. Una sera nel ridotto della Scala, il marito della Callas, Titta Meneghini, al passaggio del critico fece il gesto scaramantico e plateale di infilarsi le mani nei calzoni. Questi si girò e gli disse: «Signor Callas, si tocca i Meneghini?».Giornali, rotocalchi, settimanali, radio, montarono una rivalità accanita con il suo opposto, la Voce d’angelo Renata Tebaldi, che sarebbe stata spodestata dalla Callas a Milano, finendo con il diventare la Regina della Metropolitan Opera di New York. Quando nel 1958, causa indisposizione, la Callas non riuscì a continuare la serata d’apertura del Teatro dell’Opera di Roma con Norma, il caso divenne una questione nazionale, con interpellanze parlamentari e interviste a
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Giovanni Gavazzeni
chiunque fosse o non fosse in grado di chiarire se l’indisposizione era causata da capriccio divistico o reale malore. Oggi era chiaro che l’incredibile Voce dava i primi segni di «guasto», quelli che l’avrebbero costretta a restringere vieppiù le sue apparizioni, fino alle ultime strazianti recite a Dallas, Londra e Parigi, dove i devoti constatarono la sua fine vocale. Il suo astro aveva brillato per tredici anni, dal 1947 fino alla fine degli anni Cinquanta. Ma perché tante discussioni e tanto accanimento pro o contro? Risponderemo con l’aiuto del Virgilio dei critici del tempo, Eugenio Gara: «Perché nel suo docile edonismo lo spettatore italiano è disposto a qualunque sacrificio, davanti al quale l’obbedienza alla legge della musica, lo stile, il gusto, vanno al diavolo». La rivoluzione Callas aveva spezzato l’idolatria del bel suono fine a sé stesso, dimostrando una volta di più che una voce è bella o brutta solo se è o non è adatta ad un determinato ruolo. La sua camaleontica capacità di calarsi in ogni «parte» partiva da un’an-
cestrale sintonia «greco-tragica» (Norma, Medea, Vestale, Ifigenia), perfettamente inserita nella poetica romantica del belcanto (Anna Bolena, Lucia, Sonnambula, Elvira nei Puritani) e proto-naturalista (Traviata, Carmen), ma diede prove all’epoca non capite in Puccini (salvo Tosca) e nel cosiddetto verismo (Fedora, Maddalena nello Chénier, Manon Lescaut). Capace di exploit come cantare una sera Wagner e un’altra Bellini, rimane incredibile come la figlia di un farmacista greco di Meligalas (Messenia) emigrato a New York, sia riuscita a impadronirsi in modo così assoluto dell’italiano, ma anche nel poco frequentato repertorio francese è stata mirabile. Cantante-attrice e non primadonna gorgheggiante, la Callas cantava con trent’anni di anticipo sui suoi tempi. Forse anche per questo continuiamo a voler essere «imbrogliati» dalla sua voce: i suoi dischi, in studio e dal vivo, sono fonte perenne di stupore e di studio. (A completare il ritratto della «divina» c’è la rubrica di Aldo Grasso a pagina 39). Annuncio pubblicitario
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La difficile esistenza nel mondo di fuori
Romanzo ◆ In Non esisto Alberto Schiavone racconta la storia di Maria, una donna che si ricostruisce una vita fuori dal carcere Roberto Falconi
Schiavone costruisce un personaggio riuscito, lacerandone l’identità attraverso l’alternanza tra prima e terza (talvolta anche seconda) persona Schiavone ha anzitutto la mano felice nella trattazione del tempo. Il presente di Maria è infatti indagato attraverso la scelta di frammenti emblematici, incisi in una geografia urbana misurabile attraverso le diverse linee degli autobus: quelli che servono il centro sono a una cifra, quelli a tre cifre portano nelle terre di nessuno fatte di palazzoni, anonimi interstizi, hotel da quaranta euro a not-
te. Maria, respinta dalla famiglia (la madre non si gira nemmeno quando la sente entrare; il padre le dà i soldi con cui aveva previsto di sistemare il tetto, una bicicletta scassata e le dice di non farsi più vedere), troverà riparo prima dietro il gabbiotto di un benzinaio, poi in una scuola abbandonata, poi in case sempre più dignitose (o meno indecorose) grazie ai lavori che le permetteranno di non fare più la fila di fronte alle mense dei poveri. Ma le relazioni appaiono difficilissime. Una sera Maria si siede a un cinema all’aperto, gratuito. Nessuno le dice di andarsene o di spostarsi, ma alla fine è l’unica a non avere qualcuno con cui discutere del film. L’amore arriva dal luogo più inaspettato, letteralmente da uno dei cassonetti dell’immondizia che Maria svuota come netturbina. Ma non è destinato a durare, non è sempre vero che dal letame nascono i fiori. Insomma, difficile esistere nel mondo di fuori («Mi manca il carcere»), tanto che Maria, prima del capitolo finale, sarà grottescamente costretta a fuggire dalla propria libertà, calandosi dalla finestra di casa con le lenzuola legate al termosifone. Schiavone costruisce un personaggio riuscito, lacerandone l’identità attraverso l’alternanza tra prima e terza (talvolta anche seconda) persona e grazie alla scelta di dettagli spesso efficacemente fissati dalla paratassi: «Ha pedalato per tre gior-
ni pieni, ha dormito nei campi. Ha pianto sei volte e mangiato albicocche. Ha comprato uno spazzolino da denti e del dentifricio, si è lavata dentro il bagno di un bar anche i capelli, ma con il sapone che ha trovato lì e che usciva dal dosatore». Peccato che qua e là questa incisività venga messa in ombra dalla ricerca della frase ad effetto (Maria cade con la bicicletta in un fossato, «i piedi ancora a mollo dentro la sfortuna») o da similitudini e metafore poco felici («Automobili ogni trenta secondi scappano, o tornano, come rimpianti»; «Un po’ sorride un po’ si dice che quello sembra
matto, e le due cose fanno l’amore»). Il passato di Maria, senza che vengano rivelati il motivo della condanna o la durata della detenzione, è invece illuminato da squarci di vita carceraria e famigliare: lei bambina che se la fa addosso dopo che il padre la porta da un contadino che scuoia sotto i suoi occhi il coniglio che le ha fatto scegliere; lei a dieci anni che entra in cucina e in un angolo vede la madre che sta per «mangiare un barattolo di pastiglie bianche»; lei che in cella ha il primo vero dialogo con qualcuno, Veronica, che ha sgozzato il proprietario di un ristorante con una scimitarra.
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Si può cominciare col dire ciò che non è il libro con cui Alberto Schiavone inaugura (e già questa è una buona notizia) la collana Place d’Italie dell’editore Clichy. Non è un romanzo sul carcere (ce ne sono già in abbondanza, oltre ai film e alle serie TV); non è un saggio di sociologia sulle difficoltà o le possibilità di reinserimento dopo l’esperienza detentiva. È invece un testo nobilmente letterario, con molti pregi e qualche difetto, che inizia nel momento in cui Maria si lascia alle spalle il cancello del penitenziario, senza nessuno che la aspetti, con «lo stesso cielo delle ore d’aria, ma che adesso sembra più grande».
Soprattutto, dal passato tornano un uomo con un Suv nero («Nessuno si è dimenticato di te. Non io, almeno») e la vecchia e ormai scomoda compagna di scorribande Alexandra («Ho bisogno di fermarmi qualche giorno in un posto tranquillo»). Piccole storie che Schiavone, con intento metaletterario, alterna a quelle (forse altrettanto piccole, sicuramente più famose) di persone realmente esistite e in qualche modo legate alla vicenda di Maria: storie di prigionia (Giovanna d’Arco, Leonarda Cianciulli, Natascha Kampusch), storie di chi sulla prigionia ha riflettuto (Henri Laborit) o di chi attraverso le proprie opere ha provato a immaginare il futuro (Albert Robida). Quello di Maria appare affidato alla fragile utopia di Babele, la costruzione in carta di un albergo e di un ristorante che serve i piatti di tutto il mondo; e forse a un progetto ancora più ambizioso: «Quando moriranno i miei genitori voglio costruire con il cartone la casa in cui sono nata e cresciuta e metterci dentro loro e mia sorella e perfino me stessa». Un sogno destinato a restare tale: leggendo l’apparentemente aperto ultimo capitolo, il più onirico e visionario, non bisognerà scordarsi che Maria non sa nuotare. Bibliografia Alberto Schiavone, Non esisto, Edizioni Clichy, Firenze, 2023. Annuncio pubblicitario
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Pensare il teatro di domani
PRO SENECTUTE
Teatro ◆ Riflessioni per una scena svizzera più inclusiva e rispettosa
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Muriel e Giorgia Del Don
Ci trasferiamo! @Nora Rupp
a partire dal 6 dicembre la nostra sede di via Vanoni 6/8/10 a Lugano si trasferirà
In che modo il vostro festival contribuisce alla lotta contro le discriminazioni (di genere, razziali, sessuali, ecc.)? Il Festival Les Créatives è sta-
to fondato diciannove anni fa tra le mura del Servizio Culturale del Comune di Onex. Inizialmente incentrato sull’offerta di un programma musicale interamente femminile, il festival si è gradualmente ampliato fino ad inglobare la città e il Cantone di Ginevra. Da allora, ha notevolmente diversificato il suo programma artistico, offrendo non solo concerti ma anche spettacoli teatrali, mostre, proiezioni, performance e tavole rotonde. Il festival ha inoltre rafforzato il suo sostegno alle minoranze di genere. Les Créatives si considera un festival artistico femminista intersezionale la cui missione principale è quella di sensibilizzare un pubblico molto ampio e numerosi partner istituzionali, culturali e privati sulle questioni relative all’uguaglianza di genere nelle arti, nella cultura e nella società in generale. Ancorato alle questioni e al pensiero femminista attuale (e storico), il Festival collabora con associazioni e iniziative civili che lottano quotidianamente contro l’invisibilizzazione, il sessismo e tutte le forme di stigmatizzazione e discriminazione basate sul genere. Quali difficoltà incontra un festival come il vostro, femminista, queer e intersezionale, nel convincere i partner (pubblici o privati)? A dire il vero, il Festival si trova ad affrontare le stesse difficoltà di finanziamento di altre iniziative artistiche e culturali, particolarmente colpite da restrizioni e tagli di bilancio. D’altra parte, è vero che il Festival da tempo insiste sulle palesi differenze di finanziamento che riguardano i progetti che coinvolgono principalmente donne e minoranze di genere, sulla mancanza di un maggiore sostegno e sulle discriminazioni di genere in termini di formazione, di conciliazione tra vita privata e professionale, di compensi e così via. Tutto ciò si ripercuote ovviamente su un festival come Les Créatives. Al di fuori della sfera finanziaria, gli ostacoli incontrati riguardano l’essenza stessa del festival, ovvero il programma incentrato esclusivamente sulle donne e le minoranze di genere. Il contraccolpo è talvolta violento e i temi che affrontiamo vengono screditati per-
ché non riguardano l’intera popolazione. Gran parte del nostro lavoro consiste nel difendere – e soprattutto convincere – che il raggiungimento della parità di genere nelle arti e nella cultura (ma anche nella società) è essenziale nella costruzione di una società più giusta e armoniosa per tutti. Cosa ne pensate delle iniziative come quella promossa da m2act che vogliono aprire il dibattito sulle violenze e le discriminazioni nelle arti della scena? Credete si possa ancora sperare in un futuro più inclusivo e intersezionale nel mondo dell’arte? Sosteniamo qualsiasi iniziativa che miri ad evidenziare e condividere con il maggior numero possibile di persone le esperienze discriminatorie vissute da molte persone nell’ambito della loro formazione o del loro lavoro artistico. La questione della genitorialità, dibattuta durante le conferenze organizzate da m2act, tocca per esempio molti temi «scottanti»: il congedo parentale per i lavoratori e le lavoratrici autonome, l’insicurezza economica, la riorganizzazione del tempo di lavoro per poter conciliare vita professionale e privata, ecc. Bisogna iniziare da qualche parte, e purtroppo molte persone non sono nemmeno coscienti di questi problemi «basilari». Detto questo, è fondamentale non fermarsi qui. Va da sé che le questioni queer, razziali, di inclusività e di accessibilità devono essere valorizzate e promosse su tutte le scene artistiche e culturali alla stregua di quelle riguardanti la genitorialità. Questo è ciò che proponiamo a Les Créatives e siamo consapevoli del fatto che è impossibile coprire tutto in dieci giorni, figuriamoci in un fine settimana. Dobbiamo quindi continuare a discutere e a dialogare con i nostri partner istituzionali, privati, artistici e culturali, nonché con tutti coloro che sono coinvolti in questi settori. Dobbiamo valorizzare la diversità dei generi e dei profili, delle esperienze e delle situazioni per includere il maggior numero possibile di persone e raggiungere l’uguaglianza.
La nuova struttura ospiterà i seguenti servizi: – Aministrazione – Consulenza sociale (dall’11 dicembre) – Servizio fiduciario e dichiarazione d’imposte – Sport e movimento (creativ center) – Volontariato – Promozione qualità di vita – Podologia – Centro competenze Alzheimer – Centro diurno terapeutico (dal mese di gennaio 2024) Come raggiungerci: In automobile Parcheggi limitati e condivisi con altri enti presenti nello stabile. Parcheggi a pagamento presso Mercato Resega (Coop) e al Park & Ride della Cornèr Arena. Con i mezzi pubblici Bus numero 3 direzione Mercato Resega, fermata Pista Ghiaccio Bus numero 7 direzione Pregassona, fermata Lugano Resega Bus numero 6 direzione Cornaredo, fermata Lugano Resega Nella nuova Casa della socialità troverà spazio anche Pro Infirmis.
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Di recente la scena teatrale svizzera è stata caratterizzata da denunce legate al malfunzionamento e alla violenza psicologica esercitate all’interno di compagnie teatrali considerate intoccabili. Il Béjart Ballet di Losanna o l’annullamento della produzione dello spettacolo Les Emigrants di Krystian Lupa alla Comédie de Genève ne sono due esempi emblematici. Nel secondo caso si è parlato di violazione dell’integrità personale e di molestie. In risposta sono nati movimenti come il #MetooTheatre o collettivi femministi e queer (arts_sainement per citarne uno) che rivendicano uno spazio teatrale più giusto ed inclusivo. Cosa fare dunque, quali cambiamenti promuovere per una scena teatrale più virtuosa e inclusiva? Di recente il tema è stato al centro dell’incontro promosso da m2act, il progetto del Percento culturale Migros dedicato alle arti della scena, e BURNING ISSUES, movimento tedesco per l’uguaglianza di genere e la diversità in collaborazione con IntegrART, Bühnen Bern, Dampfzentrale Bern e il Schlachthaus Theater di Berna. Per la nuova generazione di attori svizzeri è stata l’occasione di dare voce alle proprie rivendicazioni e ripensare il teatro di domani. Come ricordato da femministe intersezionali quali Sara Ahmed (autrice di The Feminist Killjoy Handbook) che vuole sfatare il mito della felicità universale, capitalista e patriarcale o ancora Lora Mathis (Radical Softness as a Weapon) che utilizza l’espressione catartica dei propri sentimenti come gesto politico contro una società che valorizza l’assenza di emozioni tipica di una certa mascolinità stereotipata, è necessario imporre una nuova lettura del mondo attraverso l’arte. Noi ne abbiamo parlato con Ermela Haile (nella foto la seconda da sinistra durante l’incontro dal titolo Tempo di agire – Cosa stiamo facendo per un cambiamento strutturale organizzato da m2act e Burning Issues) e Nevena Puljic, direttrici del festival ginevrino Les créatives.
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Settimanale di informazione e cultura
Anno LXXXVI 27 novembre 2023
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CULTURA / RUBRICHE
In fin della fiera
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di Bruno Gambarotta
Via Giuseppe Barbaroux ◆
Vista sulla pianta della città di Torino, via Barbaroux è una crepa, una stringa stretta e sinuosa parallela a via Garibaldi, da piazza Arbarello a piazza Castello. Qui la lunga vetrina di un bar offre in mostra ai rari passanti un giovanotto e una ragazza seduti allo stesso tavolino che non si guardano, gli occhi incollati allo schermo dei rispettivi cellulari, i loro pollici impegnati compulsivamente a battere sui tasti. All’estremo opposto, in piedi, c’è un terzo giovane intento a leggere messaggi whatsapp sul suo smartphone. Sono tutti e tre concentrati. La ragazza ha appena inviato un messaggio al giovanotto in piedi nel quale gli comunica che la loro storia è finita. È stato bello finché è durato ma adesso lei si è innamorata, ricambiata, del suo migliore amico, seduto al tavolino accanto a lei che sta a sua volta inviando un messaggio al giovanotto in piedi per consolarlo, spiegargli che così è la vita, che spe-
ra che rimarranno amici. Il giovanotto in piedi non reagisce, si limita a leggere entrambi i messaggi. Dietro il bancone il barista con un gesto meccanico passa uno strofinaccio sui bicchieri. Il grande televisore della sala è acceso e silenziato. Scorrono le immagini del Grande Fratello e il barista vorrebbe essere lì. A suo tempo aveva fatto domanda per parteciparvi, già alla prima selezione l’hanno escluso. Anche i tre giovani vorrebbero evadere dall’acquario, ma non sanno come farlo con stile, salvando un residuo di dignità. Così nessuno si azzarda a uscire per primo. Esauriti i bicchieri, il barista inizia a strofinare i piattini. Al di là del vetro, nella stessa strada che porta ancora il nome di via dei Guardinfanti, a metà dell’Ottocento passano tre giovani donne: indossano gonne lunghe fino a terra, con una mantellina chiusa al collo e una cuffia allacciata sotto il mento; i piedi infilati negli zoccoli. In quel tratto
di strada si allineano le botteghe degli artigiani che fabbricano quell’intelaiatura circolare a forma di campana da indossare sotto la gonna per mantenerla gonfia. Le donne sono sarte e hanno fretta di ritirare i guardinfanti per le signore invitate al Gran Ballo dato dai principi di Savoja Carignano che un tempo abitavano in quella strada. Di fianco a quello che era stato il palazzo dei principi di Carignano si trova l’albergo della Bonne Femme; le tre donne conoscono la dubbia fama di quell’albergo e non resistono alla tentazione di dare una rapida occhiata. Ne sta uscendo una cortigiana. Avvolta in una mantellina color vinaccia, un fagotto sotto il braccio, ha un bel tentare di sembrare una donna onesta, il fiuto di una sarta è infallibile. Le tre si infilano nella bottega dell’artigiano, di fronte all’albergo. La cortigiana stringe l’involto al braccio e risalendo la via, passa davanti alla ve-
trata del bar. La donna attraversa via San Francesco d’Assisi e continua in via dei Guardinfanti che ora ha cambiato nome, è diventata via della Madonnetta. Lì si trovano le Regie Carceri Correzionali. Dove è rinchiuso, in attesa del processo, il protettore della cortigiana, che sta andando a portargli un pacco di biancheria pulita. La donna è preoccupata perché un suo affezionato cliente, uno dei primi avvocati di Torino, con il quale si è intrattenuta fino a poco prima in una stanza dell’albergo Bonne Femme, le ha detto che il nuovo ministro guardasigilli per gli Affari di Grazia e Giustizia, appena nominato dal re Carlo Alberto, ha manifestato l’intenzione di inasprire le pene per il reato di prossenetismo. «Non si potrebbe fare qualcosa per ammorbidire questo ministro?» aveva domandato la cortigiana al suo cliente. «No, purtroppo», aveva risposto l’avvocato. «È un uomo molto pio, è nato a Cu-
neo e ha fama di essere incorruttibile». «Come si chiama questa perla rara?». «È il conte Giuseppe Barbaroux». La cortigiana attraversa via Botero. All’incrocio, appoggiati al muro, stazionano con aria indolente tre uomini. Lì accanto c’è il Monte di Pietà dove chi ha necessità urgente di denaro va a impegnare gioielli, posate, lenzuola, orologi, pellicce. Quei tre hanno l’aria di avvoltoi, pronti a comprare polizze, a offrire prestiti, a comprare oggetti che gli impiegati del Monte rifiutano di prendere in pegno. Uno dei tre succhia uno stuzzicadenti e guarda verso l’alto. Legge la targa all’angolo delle strade: via Barbaroux. Sotto, più in piccolo, c’è scritto «Statista» ma lui non ci vede bene e legge «Stilista». Riflette: «Se proprio dovevano intitolare la via a un sarto, perché sono andati a scegliere un francese? Non era meglio dedicarla a un italiano che si fa onore nel mondo?».
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Voti d’aria
di Paolo Di Stefano
Usi e abusi della narrazione ◆
Tutto è narrazione (2). Tutto è terribilmente, ossessivamente storytelling (1). A proposito dell’omicidio più sviscerato dalle cronache delle ultime settimane, quello della povera Giulia Cecchettin per mano (e coltello) dell’ex fidanzato Filippo Turetta, sono state variamente evocate: la «narrazione tossica del bravo ragazzo», la «narrazione del femminicidio», la «narrazione del lupo cattivo», la «narrazione maschilista», la «narrazione scandalistica», la «narrazione psicoanalitica», la «narrazione sociologica», la «narrazione moralistica», la «narrazione generazionale», la «narrazione patriarcale», la «narrazione misogina», e si potrebbe continuare con le infinite declinazioni dello storytelling legate all’immane delitto. Non ci sarà da meravigliarsi se tra poco arriverà il docu-film, ovvero la fiction dei fidanzati di Vigonovo. Del resto, non sarebbe una novità. Il 29 otto-
bre 1963, passate neanche tre settimane dalla strage del Vajont che fece quasi duemila morti, il critico Giovanni Grazzini (5+) commentò duramente sul «Corriere della Sera» il progetto di una casa cinematografica romana che annunciava un film intitolato Vajont e sottotitolato Appuntamento con la morte. Grazzini si diceva colpito dalla «fulmineità del trapasso dalla realtà alla finzione». Oggi, sessant’anni dopo, non servono tre settimane: il trapasso è immediato. La cronaca comprende già in sé, praticamente in diretta, la messinscena dello storytelling. La realtà è subito finzione (o opinione). Sedotti dalle storie (5½) è un saggio del critico americano Peter Brooks, appena uscito in Italia (Carocci editore), dedicato agli usi e agli abusi della narrazione. Dalla politica alla pubblicità, dalla giustizia alla medicina, non abbiamo altro che narrazioni: tutto si
A video spento
risolve nella forma del racconto, perché «non c’è nulla al mondo più forte di una buona storia». A cosa si deve questa abbondanza di storie? Secondo Brooks si deve alla possibilità di ingannare, perché c’è sempre una bella differenza tra ciò che è accaduto e il racconto di ciò che è accaduto: «L’universo non corrisponde – scrive Brooks – alle nostre storie sull’universo». Per decifrare lo scarto tra l’universo e il racconto dell’universo serve una buona capacità critica, ed è ciò che Brooks auspica: quanto più si diffondono le narrazioni, tanto più si richiede un ritorno alla critica (letteraria), cioè alla capacità di decifrare e decostruire un testo narrativo con le sue menzogne, i suoi punti di vista, le sue messinscene. Restando nell’argomento, è uscito un libro (Del narrare, Einaudi) che raccoglie i saggi di Daniele Del Giudice (6), alcuni già editi, altri recuperati
nel suo archivio da Enzo Rammairone, che cura il volume. Del Giudice è morto nel 2021 e, oltre a scrivere racconti e romanzi, è autore di notevoli riflessioni sul mestiere. Partendo in ordine sparso dai suoi autori preferiti: Primo Levi, Calvino, Magris, Svevo, Zweig, Bernhard, Freud, Stevenson, Conrad, Verne, Del Giudice dichiara la relazione «assolutamente probabilistica» tra parole e cose. La narrazione, il racconto, le storie sono per lui nient’altro che «reti per agganciare la realtà, per inventarla». Naturalmente si parla di narrazione letteraria, non di narrazione giudiziaria, pubblicitaria o politica, ma ciò non toglie che la distanza tra parole e cose sia altrettanto «probabilistica». Il fatto è che, diversamente da chi usa la narrazione per scopi utilitaristici e/o legati all’attualità (politici, giornalisti, pubblicitari eccetera), lo scrittore ha ben presente che sta lavorando
nel campo delle probabilità e dunque della sfera dell’incertezza: sembrerà un paradosso, ma nell’usare le parole, lo scrittore è il più incerto (e dunque il più cauto) di tutti. Quando Giorgia Meloni e la destra italiana (2+) invitano alla lettura di Tolkien, promuovendo una mostra alla Galleria Nazionale di Roma per portarlo dalla loro parte, in realtà gli fanno il torto peggiore. Finiscono cioè per trattare i suoi romanzi come fossero le loro proprie mediocri narrazioni: tendenziose e utilitariste. Senza sapere che era lo stesso Tolkien, poveretto, a dichiarare: «Io non predico e non insegno nulla». Viene in mente una riflessione che Kundera inviò nel 2000 alla convention dei democratici americani, citando una frase di Hermann Broch: «Un romanzo dovrebbe esprimere soltanto quello che il romanzo può esprimere». Può, non deve, appunto (6+).
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di Aldo Grasso
«Per Maria niente era troppo» ◆
Non c’è teatro lirico al mondo che non renda omaggio alla Callas, nel centenario della sua nascita. Maria Callas, al secolo Maria Anna Sofia Cecilia Kalogheropoulos, nasce il 2 dicembre 1923 a New York da genitori greci. Si dice che nella musica del XX secolo esistano un prima Toscanini e un dopo Toscanini. Allo stesso modo, parola di Franco Zeffirelli, ci sono «il prima Callas e il dopo Callas». Grazie a lei, il melodramma è tornato a essere (forse per l’ultima volta) arte popolare, colonna sonora di molte vite. Merito del suo talento, del suo timbro unico da «soprano drammatico». Un giovane Alberto Arbasino segue ogni sua rappresentazione alla Scala di Milano: «E così abbiamo parlato, poi abbiamo sentito il resto dell’opera, dal momento che non volevo davvero perderla, una “prima” della Medea con Callas in straordinaria forma,
una di quelle straordinarie serate di “sorge il diletto e l’estasi/in mezzo allo spavento”, tipo “a star is born”, con tutto il pubblico che applaude felice per quasi mezz’ora senza andar via alla fine dello spettacolo, e metà teatro che grida selvaggiamente di gioia…» (L’anonimo lombardo, 1966). Tra i tanti giudizi di esperti e colleghi sono significative le parole del maestro Carlo Maria Giulini, che la diresse nella famosa Traviata di Visconti alla Scala (1955): «Fu un’esperienza indimenticabile. Per Maria niente era di troppo. Si costringeva a un tirocinio durissimo. Grande, grandissima professionista, oltre che immensa artista». E lo stesso Visconti: «Tutte le Traviate che verranno avranno un po’ della Traviata di Maria. (…) Le Violette future saranno Violetta-Maria. È fatale in arte quando qualcuno insegna qualcosa agli altri. Maria ha insegnato». Sono questi anni a costi-
tuire il culmine di una carriera in cui i successi, ancorché non privi di disavventure e imprevisti, si susseguono l’un l’altro. Come in tutte le leggende (e nelle regole narratologiche), l’inizio comporta una prova da superare, un elemento perturbatore che pone ostacoli da superare. «Mi fece l’effetto di una donna sgraziata. Pesantissima, stazionata. Una ciabattona». È la descrizione crudele che la sorella di Giovanni Battista Meneghini, futuro marito della cantante, fa di Maria Callas nel 1947, durante i primi mesi in Italia, a Verona. Eppure, Callas, con una determinazione pari solo al desiderio di apprendere, mira da subito alla classicità: sacerdotessa del bel canto, virtuosa, tragica. I critici parlano della sua apparizione come di un passaggio sconvolgente, di una mirabile presenza scenica che sapeva unire l’intelligen-
za artistica all’innato carisma, di una ricerca della perfezione senza limiti. Callas è stata la prima cantante lirica a godere di una grande esposizione mediatica, grazie ai suoi successi ma anche alle sue tormentate vicende amorose (dal raggiro perpetrato dal marito padre-padrone Meneghini, il quale le avrebbe sottratto più di metà del suo patrimonio, al tradimento di Aristotele Onassis che la lasciò per Jackie Kennedy), alle care amicizie (Luchino Visconti, Franco Zeffirelli, Pier Paolo Pasolini con cui girò il film Medea). Attorno a lei, grazie anche agli intellettuali prestati al «bel canto», nacque un vero e proprio culto, sfociato nell’appellativo di «divina» che ancora oggi ne accompagna il nome. Callas diventa divina dopo un lungo, faticoso processo di noviziato. All’inizio carriera, i giornali la descrivono come una ragazzona prosperosa
dai grandi occhi miopi. Quando da Sirmione si trasferisce a Milano, comincia a frequentare l’atelier di Biki (Elvira Bouyeure, amica intima di Wally Toscanini) Maria si accorge di non avere il fisico adatto per indossare i modelli della raffinata stilista. Torna trasformata, dopo un faticoso dimagrimento: è un’altra donna, elegantissima, trucco vistoso per mettere in risalto gli occhi. Cantò per l’ultima volta al Teatro alla Scala l’11 dicembre 1961, e in quella Medea si individua, forse, l’esecuzione più alta di sempre. Dino Buzzati, presente in platea, ci lascia un’istantanea: «Era bellissima. A un certo punto si gettò a terra lunga distesa, così rimanendo immobile. Non ho mai visto nessuna donna distesa a terra con tanto stile ed eleganza». (A completare il ritratto della «divina» c’è l’articolo di Giovanni Gavazzeni a pagina 35).
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Snack e aperitivi
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