Anno LXXXVI 11 dicembre 2023
Cooperativa Migros Ticino
G.A.A. 6592 Sant’Antonino
Settimanale di informazione e cultura
edizione
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MONDO MIGROS
Pagine 4 – 5 pagina 2
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SOCIETÀ
TEMPO LIBERO
ATTUALITÀ
CULTURA
Storia della famiglia Garbani, appassionata custode della memoria fotografica del Locarnese
Adrenalina allo stato naturale, è quanto regala lo slackline, ovvero funambolismo ad altezza variabile
Il 13 dicembre si rinnoverà il Consiglio federale elvetico. Chi sono i candidati in corsa
Intervista alla scrittrice italiana Veronica Raimo tornata in libreria con La Vita è breve, eccetera
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L’Europa che mira in alto
Loris Fedele
Keystone
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Ma quanto ci mangiano su queste armi Carlo Silini
Da bambino un missionario mi ha raccontato di aver visitato una tribù nella quale il sistema numerico era scandalosamente semplice: uno, due, tre, moltitudine. Dal «nostro» 4 in avanti non si faceva più distinzione di cifre. Ventuno, ventunmila e ventun miliardi, per dire, si esprimevano con l’identico valore di «moltitudine». Sospetto si trattasse di una leggenda filantropica, una pietosa esagerazione morale a fine didattico: mostrare che si può vivere beatamente senza l’assillo dell’accumulo quantitativo; di soldi, cose, case (capanne o banane). Forse è vero. Ma fino ma un certo punto. Perché quando si conosce l’ammontare di certe spese, la cifra «moltitudine» non soddisfa più. Pur affascinato dalle grandi avventure celesti, come quelle dei programmi spaziali dell’ESA raccontate dal nostro collaboratore Loris Fedele a pag. 27, mi chiedo se davvero l’umanità possa permettersi simili investimenti economici per
esplorare lo spazio, quando ci sarebbero così tante emergenze terrestri in disperata ricerca di fondi che non arrivano mai. È vero che la ricerca spaziale ha sempre avuto delle ricadute positive anche al di sotto delle rotte orbitali e ha ragione il direttore generale dell’Agenzia Spaziale Europea Josef Aschbacher a sottolineare che «la politica spaziale è anche la politica climatica, la politica industriale e quella della sicurezza». Ma i soldi sono soldi e dà fastidio vedere che volano, letteralmente, lontano dai bisogni più acuti dell’umanità. Il sito tedesco «Statista», che raccoglie dati statistici dalle maggiori istituzioni del pianeta, scrive che nel 2022 la spesa globale dei Governi per i programmi spaziali ha raggiunto la cifra record di 103 miliardi di dollari, 62 dei quali investiti dall’America, seguita dalla Cina, con quasi 12 miliardi di dollari. Consola constatare che, globalmente, si investono molti più soldi
nella lotta alla fame (183 miliardi di dollari negli Usa nello stesso anno). Ma che mal di pancia quando leggiamo che un viaggio turistico suborbitale su SpaceShipTwo di Virgin Galactic (l’azienda creata da Sir Richard Charles Nicholas Branson) o su New Shepard di Blue Origin (creatura del boss di Amazon Jeff Bezos) costa tra i 250’000 e i 500’000 dollari. Se è vero, come afferma il Secondo il Programma Alimentare Mondiale delle Nazioni Unite, che per fornire un pasto a una persona in un Paese in via di sviluppo basterebbero 0,80 dollari, coi soldi per un viaggetto nello spazio (alla tariffa più bassa) si potrebbero acquistare 312’500 pasti. Con tre pasti quotidiani, vuol dire centomila persone con la pancia piena almeno per un giorno al prezzo di un solo biglietto in navicella. Scioccante, ma preferiamo riservare l’indignazione a un’altra voce di spesa globale. Secon-
do lo Stockholm International Peace Research Institute (SIPRI), nell’anno in corso il pianeta ha speso 1,74 trilioni di dollari per la difesa e il commercio di armi. Facciamo i conti della serva definendo un trilione secondo il sistema americano, cioè pari a 10 alla dodicesima (1’000’000’000’000). Beh, con quei fondi sarebbe possibile acquistare 2’175’000’000’000 (1,74 trilioni: 0,8) di pasti l’anno, che divisi per 365 fanno 5’958’904’109.59 pasti al giorno. Se dividiamo questa cifra per gli 820 milioni di persone che nel mondo – secondo il rapporto Oxfam presentato il 16 gennaio scorso – soffre la fame, possiamo dire che con i miliardi spesi tutti i santi giorni per gli armamenti, ognuno di questi affamati potrebbe pagarsi un piatto 7 volte al giorno. È un calcolo assolutamente teorico e (forse) politicamente inapplicabile, ma i numeri non mentono. Togli le armi e togli la fame nel mondo.
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MONDO MIGROS
MONDO MIGROS ●
Un anno lungo, tra sfide e nuovi stimoli
Speciale 90esimo ◆ A colloquio con Mattia Keller, in un momento cruciale per l’azienda, sia a livello cantonale, sia nazionale Simona Sala
Per Mattia Keller, direttore di Migros Ticino, in carica dal 1. dicembre del 2021, quello che si avvia alla conclusione è stato un anno denso di avvenimenti e ricco di profonde mutazioni. All’interno del mondo Migros oltre agli interventi sul fronte regionale (ristrutturazioni, nuove aperture, ecc.), su quello nazionale Migros vi sono stati dei cambiamenti che non è esagerato definire epocali, come hanno dimostrato i risultati della recente Assemblea dei delegati svoltasi a Zurigo (v. «Azione» 20 novembre 2023).
che vanta una maggiore esperienza in tale ambito. Sarà questa la direzione in cui andare. Quali sono i tempi previsti per il processo di adeguamento dei prezzi? Difficile fare previsioni, ma ci vorranno anni, poiché saranno messe in campo tutta una serie di piccole misure che contribuiranno a creare un effetto più grande. Quella iniziata è una vera e propria evoluzione, non una rivoluzione, e per avviarla è stato necessario scardinare certe logiche, come quella per cui tutto viene deciso da tutti, anche perché quel tipo di lentezza decisionale oggi non è più sostenibile. Oggi abbiamo un maggiore bisogno di essere vicini alla e al cliente del nostro mercato per seguirla/o passo passo.
Secondo il direttore di Migros Ticino Mattia Keller l’azienda è entrata in una fase di profondo cambiamento Direttore Keller, in un’intervista di qualche tempo fa esponeva i suoi piani strategici, oltre agli stimoli e alle sfide che la attendevano in questa nuova posizione. Ora, a distanza di un anno durante il quale sono successe molte cose, è arrivato il momento dei rituali bilanci. Cosa le è rimasto e cosa si porta via al termine di questi dodici mesi? Il 2023 è stato il secondo anno di operatività completa da direttore, e allo stesso tempo un anno complicato. Dopo il Covid speravamo di tornare alla «vera normalità», invece ci siamo trovati confrontati con inflazione, guerre, costi dell’energia esorbitanti, debolezza dell’euro. È pur vero che la differenza tra la Svizzera e l’Italia si è assottigliata, ma ne abbiamo approfittato poco, poiché l’euro ha perso ulteriormente valore. Dall’altra parte questo è stato il primo anno di implementazione della nuova strategia di Migros Ticino, che oggi so essere ben sostenuta e compresa anche dagli oltre 60 quadri e dai collaboratori, come ci ha rivelato il recente sondaggio del personale. Quali sono i punti della nuova strategia già tangibili dopo un anno? Per fare un esempio potrei citare il concetto di ristrutturazione delle filiali. Il 30 novembre sono terminati i lavori alla Migros di Minusio, sede dell’ultima delle quattro filiali rinnovate quest’anno (dopo Cassarate, Maggia e Ascona, ndr). Nei prossimi anni toccherà ad altre quattro filiali. Per Migros Ticino i lavori hanno rappresentato uno sforzo importante, che ha comportato un grosso investimento nel Canton Ticino. Noi cerchiamo infatti di investire il più possibile nella regione, collaborando con artigiani e fornitori locali. Quest’anno abbiamo lavorato intensamente al completamento della rete di vendita, e al momento vi sono tre cantieri in piena attività, due destinati a nuovi supermercati Migros e uno a un supermercato di prossimità VOI Migros Partner. Abbiamo inoltre inaugurato due nuovi spazi dedicati a Vinarte. Per il personale della centrale di Migros Ticino si è trattato di un anno impegnativo, in cui il carico di lavoro è aumentato sensibilmente. Penso a chi pianifica i nuovi supermercati, a chi li disegna, a chi fa le domande
Mattia Keller è alla testa di Migros Ticino dal 2021. (Comunicazione Migros Ticino)
di costruzione, a chi segue i cantieri, a chi deve allestire le filiali ristrutturate, a chi deve integrare le etichette elettroniche a scaffale, ecc.: collaboratrici e collaboratori si sono visti costretti a cambiare marcia, ma alla fine hanno potuto toccare i risultati con mano. Parliamo di un aspetto più delicato, quello delle cifre: la soddisfano? Quest’anno abbiamo lavorato soprattutto sull’efficienza interna. A livello di cifra d’affari non sono soddisfatto, ma sono fiducioso, dovremmo riuscire a raggiungere il risultato operativo fissato a budget. Come risultato globale siamo in linea. È stato un anno strano, poiché è capitato tutto quello che non doveva capitare, mentre ciò che era previsto non si è avverato. Tra i nostri obiettivi futuri, ad esempio, avevamo quello di migliorare i risultati nell’ambito della gastronomia, ma il miglioramento è già sopraggiunto, in anticipo sulle nostre previsioni. Vi sono ambiti che già oggi funzionano bene, come quello immobiliare o i centri Activ Fitness; anche l’introduzione dell’apertura domenicale, nella quale non tutti credevano, è partita molto bene. All’interno del mondo Migros nel 2023 ci sono stati cambiamenti un po’ a tutti i livelli, anche nazionale, come ha dimostrato la recente Assemblea dei delegati, nel corso della quale si è deciso di ridurre il numero dei membri dell’Amministrazione FCM, si sono approvate le basi per la costituzione della nuova Migros Supermercati SA e si è discusso dell’adeguamento dell’età di pensionamento dei collaboratori Migros alle nuove disposizioni di legge sull’AVS. Anche se inizialmente l’avevo de-
finito «transitorio», in realtà questo è un anno cruciale per l’azienda nel suo insieme poiché introduce il nuovo futuro dei supermercati. Sono due anni che si lavora a questo progetto, in cui è coinvolta anche la nostra Cooperativa: attraverso la nuova Migros Supermercati SA, frutto del progetto FIT, si vuole apportare un radicale cambiamento proprio nel settore di attività principale. Anche la diminuzione del numero di membri dell’Amministrazione della FCM rientra nell’ottica di snellire e rendere più veloce il processo decisionale. In un mondo che evolve costantemente erano necessarie iniziative forti. Era ora che Migros ritornasse a occuparsi della sua attività principale, che è quella dei supermercati. Ed è nostro compito mantenere e sviluppare una marca forte e solida come Migros, conservare ed estendere la rete di vendita e sicuramente la regionalità, che è uno dei nostri punti forti (e in Ticino non facciamo difetto con i Nostrani del Ticino). La grande sfida è rappresentata dal fatto che dovremo diventare di nuovo più attrattivi nel rapporto qualità-prezzo. Per farlo, però, è necessario cambiare le strutture e l’organizzazione, e diventare più agili. Le aziende «figlie» passeranno dunque in secondo piano nella gerarchia di priorità aziendale. È necessario focalizzarsi di nuovo sull’attività principale. Migros dovrà affidare ad altre mani, forse più capaci, alcune attività troppo distanti dal core business. Si tratta di attività che occupano il management su molti fronti, disperdendo le risorse, in un momento in cui invece è necessario ricompattarle. Focalizzarsi su determinate cose significa anche armonizzare e standardizzare. Attività co-
me ad esempio Activ Fitness, che si sviluppano bene e sono strettamente legate all’azienda perché fanno parte del troncone strategico di Migros rappresentato da salute e benessere, non perderanno in alcun modo di importanza. Quindi le prospettive di nuovi margini di guadagno per l’azienda saranno da imputarsi a una struttura organizzativa più snella? In parte sì. Il mondo cambia sempre più velocemente ed è di conseguenza necessario adattare l’organizzazione aziendale. Un adattamento che risulta sempre più difficile, se si considera che solo nel mondo Migros i posti vacanti, soprattutto qualificati, sono molti e in aumento. Si tratta quindi di una sfida; riuscire ad allocare le giuste risorse laddove necessario. E dove possibile evitare le attività ridondanti, cominciando a pensare in modo «condiviso» così da lavorare in pooling, per esempio raggruppando laddove ne risulta un vantaggio le attività tra più cooperative regionali. La necessità di cambiamento è evidente e acuta, ma non solo a livello di organizzazione. Anche l’industria e la logistica Migros devono migliorare la loro prestazione, rispondendo con coerenza e tempismo alle esigenze del mercato, con l’offerta dei prodotti a marchio Migros. L’Industria Migros deve quindi realizzare prodotti di qualità con un prezzo il più possibile favorevole al cliente. Obiettivi che si intendono raggiungere con Migros Supermercati SA e la scelta di lavorare maggiormente in pooling, mantenendo però l’indipendenza delle cooperative regionali. Un esempio recente in tal senso sono le ristrutturazioni: Migros Ticino si è avvalsa del supporto del centro di competenza di un’altra Cooperativa,
Lei è arrivato in azienda in un momento non facile, in cui, oltre agli anniversari, erano in programma anche grandi cambiamenti. Ne sono contento, poiché è una sfida stimolante. Ero consapevole del bisogno di cambiamento, ma non ne avevo percepito l’urgenza, e sono soddisfatto di avere lanciato già nel 2022 la nuova strategia di Migros Ticino, rivelatasi perfettamente in linea con ciò che sta succedendo in generale a livello nazionale. Il cammino davanti a noi è ovviamente ancora lungo, ma la via è tracciata ed è chiara. Quando sono arrivato ho chiesto un cambio culturale e di approccio, ed è bello vedere come la gente segua, pur nella consapevolezza di quanto sia ancora lunga la via. Cosa vuole ricordare dell’anno che si sta per concludere? Quest’anno ricorre il 90esimo di Migros Ticino! Senza organizzare grandi eventi siamo riusciti a festeggiare tra la gente, anche grazie al Nostalgia Tour con il nostro camion di vendita, apprezzatissimo ovunque. In aprile si sono festeggiati gli 85 anni di «Azione», settimanale di cultura e approfondimento di Migros Ticino, che con una serie di articoli ha ripercorso la storia della nostra azienda. Da ultimo, ma non per importanza, sono felice del rilancio del logo dei Nostrani del Ticino. Per chiudere, come vorrebbe salutare? Vorrei farlo sottolineando che noi ticinesi con Migros Ticino abbiamo una perla, ossia una delle poche grandi aziende attive nella regione domiciliata qui che paga le tasse in Ticino. Sappiamo di dovere recuperare del terreno, ma lo facciamo con convinzione, partendo dalle filiali, creando un nuovo brand per i Nostrani del Ticino (che sono la miglior dichiarazione d’amore di Migros al suo territorio), ecc. Vorrei che la gente leggesse la storia della Migros e scoprisse il motivo per cui siamo qui in Ticino, sarebbe bello se ci fosse più consapevolezza. Il messaggio migliore lo daremo con le nostre prestazioni nei prossimi mesi e anni. La cliente e il cliente di Migros Ticino cambiano ed evolvono, noi saremo al loro fianco, ringraziandoli per la loro fedeltà.
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Malattie trasmissibili: parliamo di Men’s Health Anche nell’uomo così come per la donna, si deve tenere conto della salute della persona nella sua interezza, comprese le complicazioni dell’area genitale
Gli automobilisti di oggi vanno sensibilizzati Secondo il pilota Giampaolo Tenchini «la fruibilità delle prestazioni, la guidabilità tra le curve dei mezzi di ultima generazione rendono gli automobilisti sin troppo sicuri»
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La memoria fotografica del Locarnese
Incontri ◆ Ritratto di una famiglia che da 95 anni è sinonimo di immagini della regione. L’evoluzione del negozio-studio di Muralto, aperto nel 1928 dall’intraprendente zia Camilla e il sogno di un museo di Marco Garbani Nerini e della figlia Prisca Mauro Giacometti
È la memoria fotografica degli ultimi 60 anni del Locarnese. E sommando altri 35 anni di attività del negozio che fu di sua zia e poi di suo padre, arriviamo a quasi un secolo di scatti, fermi immagine, ritratti e panoramiche di una regione, sulle rive del Verbano, profondamente mutata ma che grazie al lavoro familiare di «scrittori di luce» non s’è persa nei meandri della storia. Marco Garbani Nerini, classe 1948, fotografo professionista e formatore, nonostante sia in pensione da tempo e abbia affidato il negozio al centro Pax di Muralto alla figlia Prisca – la quindicesima della famiglia ad occuparsi di fotografia – lo vedi ancora a qualche inaugurazione, festa, cerimonia, manifestazione pubblica o privata, imbracciare la sua Canon e fissare (oggi sulla scheda di memoria, un tempo su pellicola e prima ancora su lastra) frammenti di vita quotidiana del «suo» Locarnese. «Tutto cominciò con mia zia Camilla, nata nel 1901 e che nel primo dopoguerra espresse un desiderio rivoluzionario per l’epoca: andare a lavorare. Così si impiegò come commessa in un negozio di fotografia di Locarno, parlava tre lingue, compreso il tedesco, lingua imprescindibile non solo per questa professione», quindi insieme a colui che diventerà suo marito, aprì nel 1928 il primo negozio a Muralto, in viale Stazione, proprio di fronte al Grand Hotel. «È lì che mio padre, Marco, più giovane di mia zia, fece il suo apprendistato; quindi quando Camilla e suo marito, Walter Steck, nel 1936 si trasferirono a Zurigo, prese in mano il negozio di Muralto insieme ad altre tre sorelle più giovani. E nel 1963 arrivai io a bottega per cercare di carpire i segreti degli scatti fotografici, dello sviluppo, della stampa», racconta Garbani Nerini nel suo museo di Locarno Monti inaugurato l’11 novembre scorso. In due grandi locali ha raccolto quasi un secolo di cimeli, macchine fotografiche, obiettivi, esposimetri e naturalmente stampe d’epoca, un autentico «sancta sanctorum» dell’immagine che mette volentieri a disposizione di chi gli chiede di visitarlo (basta chiamare allo 091 735 34 10). Così come nel «retrobottega» del suo negozio di Muralto, tutte classificate, albergano lastre, pellicole, cartoline illustrate e stampe d’epoca che testimoniano quasi un secolo di passione per la fotografia della famiglia Garbani Nerini. «Sto cercando con il Comune di Muralto un luogo dove creare un museo permanente della fotografia. Ho una quantità incredibile di materiale, raccolto in tutti questi anni, perché di questo mestiere mi appassiona tutto, anche la storia: ho apparecchiature e macchine vecchie di cent’anni e ancora funzionan-
Marco Garbani Nerini nel suo museo di Locarno Monti dove custodisce apparecchiature e macchine fotografiche d’epoca, obiettivi, esposimetri e stampe d’epoca.
ti. Reflex e obiettivi introvabili. Per non parlare delle decine di migliaia di cartoline, in bianconero e a colori, con immagini d’epoca, luoghi, piazze, vie, palazzi che non esistono più. Negli anni poi ho acquistato il materiale di altri fotografi, acquisito diversi archivi fotografici (o fondi fotografici) che hanno cessato l’attività, e vorrei appunto che questo patrimonio di macchine e immagini potesse essere conservato e valorizzato» ci dice con un certo orgoglio.
Negli anni 60 e 70 le cartoline illustrate stampate dallo zio Walter Steck a Zurigo diedero un notevole impulso all’attività L’attività nel negozio fotografico Steck-Garbani Nerini prolifera dagli anni ’60 e ’70, anche perché ai servizi fotografici e allo sviluppo e stampa delle foto si affianca il laboratorio semi-industriale di Minusio. Ma a dare un notevole impulso all’attività ci sono le cartoline illustrate, quelle per intenderci da spedire «Con tanti saluti da Locarno» a parenti e amici. «Mio zio a Zurigo, oltre al negozio, si mise a costruire una macchina che permetteva la stampa delle cartoline. Non era una
prima assoluta in Svizzera, ma considerando l’attività di fotografo di mio padre, che oltre a gestire il negozio di Muralto immortalava paesaggi, monumenti e palme, le cartoline della cosiddetta Sonnenstube, stampate con la macchina realizzata da mio zio Walter, ebbero un grande successo commerciale, sia in Svizzera interna che in Ticino», racconta. Nel frattempo il giovane Marco studia fotografia alla SPAI di Lugano (oggi CSIA) – «l’esame lo feci con il compianto Mario Binda», ricorda – comincia a girare il Locarnese e le Valli con la sua macchina fotografica al collo, affianca il padre nella gestione del negozio di Muralto e nello sviluppo dell’attività «complementare», quella di sviluppo e stampa, dopo un accordo vantaggioso con una tipografia. A metà degli anni ’70 la svolta giornalistica: «L’amico Paolo Storelli mi propose di collaborare con lui per alcuni servizi di cronaca del Locarnese per il Corriere del Ticino. Poi arrivò Giò Rezzonico che m’ingaggiò per l’Eco di Locarno, quindi ci furono La Regione e il Giornale del Popolo». Con tanti anni di attività, anche come fotogiornalista, una moltitudine di aneddoti di situazioni o scatti mancati. Uno su tutti, ma che non lo coinvolse direttamente. «Eravamo nel settembre del 2004 con le prime macchine foto-
grafiche digitali che si stavano imponendo sul mercato. Mio fratello Luca ricevette una “soffiata”: l’allora presidente del Consiglio italiano Silvio Berlusconi si stava recando alla Clinica Hildebrand a trovare il “senatur” della Lega Umberto Bossi, suo alleato di governo, che era stato colpito da un ictus ed era ricoverato a Brissago. Mio fratello partì, riuscì a fotografare l’incontro tra Berlusconi e Bossi, fece diversi scatti e poi tornò per inviarli ai giornali. Nella memoria della sua macchina fotografica, però, non c’era traccia delle foto, tranne una. Per fortuna con quell’unico scatto non aveva perso l’attimo fuggente. Anni dopo, recuperando i dati da quella memory-card, misteriosamente ritrovammo una decina di scatti del servizio che mio fratello aveva fatto quel giorno con il premier italiano a Brissago». Insomma non si muoveva foglia nel Locarnese che qualcuno della famiglia Garbani Nerini non fosse lì ad immortalarne il fruscio, il distacco e la caduta. Una presenza discreta ma costante ancora oggi, quando c’è da fotografare la castagnata al Burbaglio piuttosto che l’arrivo dell’ambasciatore indiano a Palazzo Marcacci. Una lunga carriera di fotoreporter con qualche soddisfazione: «Posso vantarmi di un piccolo ma significativo primato: sono l’unico fotogra-
fo ad aver immortalato tre presidenti della Confederazione ticinesi: Nello Celio, quando ero molto giovane, Flavio Cotti nella mia maturità professionale e più recentemente Ignazio Cassis». Parallelamente, Marco Garbani Nerini ha portato avanti un’altra sua passione, la formazione. Lui che aveva avuto grandi maestri, ha cercato di tramandare il mito della cattura dell’attimo fuggente alle nuove generazioni. Riuscendoci. «Da me sono passati i migliori fotografi professionisti della regione, che si sono poi illustrati anche a livello svizzero e internazionale. Diciamo che dalla fine degli anni ’60 ad oggi la famiglia Garbani Nerini ha formato una cinquantina di collaboratori che hanno creduto in questa attività e ci vivono. Nell’ambito della Federazione svizzera dei fotografi, Imagesuisse, di cui sono stato presidente e capo esperto degli esami, cerchiamo di tutelare questa professione e garantire che chi produce immagini o filmati riceva un adeguato compenso per l’utilizzo delle rispettive opere audiovisive nell’ambito dell’uso collettivo. Un mestiere che è cambiato in tutti questi decenni, in particolare con la rivoluzione del digitale, per non parlare degli smartphone, ma che continua ad avere un’attrazione e un fascino unico per chi ci si appassiona», conclude.
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Dolci tipici prodotti nella nostra regione
Attualità ◆ Le specialità artigianali natalizie prodotte nella Svizzera italiana sono particolarmente apprezzate dalla clientela Migros. Delle gustose idee da regalare o regalarsi
Azione 16% Panettone al burro Buletti 1 kg Fr. 28.50 invece di 34.– solo mercoledì 13.12 e giovedì 14.12.2023
Se state cercando il paradiso dei dolci natalizi, allora i supermercati di Migros Ticino sono l’indirizzo giusto per trovare molte golosità all’insegna del gusto e della varietà. Accanto ai prodotti di noti marchi italiani quali ad esempio Vergani, Balocco e Maina, nell’assortimento non possono mancare diverse specialità prodotte nella nostra regione. Chi cerca dei prodotti dall’ottimo rapporto qualità-prezzo, sa che può contare sulle specialità San Antonio del panificio della Migros a S. Antonino, il quale produce i suoi dolci per tutta la Svizzera. La gamma annovera panettoni e pandori preparati secondo le ricette originali con lievito madre e con un lungo lavoro artigianale, disponibili in diversi formati e pesi e anche in confezioni di cartone, ideali da regalare. Tra i prodotti particolari, possiamo citare il pandoro al cioccolato e il panettone Sélection, prodotto ulteriormente arricchito di genuini ingredienti.
Prodotti di pasticceria della nostra regione Come di consueto, anche quest’anno i reparti pasticceria Migros offrono diverse specialità locali che non sono seconde a nessuno in fatto di qualità, creatività e artigianalità. Nella gamma offriamo anche un prodotto di particolare valenza sociale: il panettone tradizionale La Fonte. Prodotto all’interno di un laboratorio protetto dell’omonima Fondazione ad Agno, viene preparato da un esperto panettiere-pastic-
cere con la preziosa collaborazione di alcuni utenti con disabilità. Il ricavato delle vendite viene riversato alla stessa Fondazione. Dall’alta Leventina arrivano alcuni prodotti che non necessitano di troppe presentazioni: il panettone e il pandoro al burro del pasticcere Bruno Buletti. Privi di conservanti o emulsionanti, contengono fra l’altro burro d’alpe della regione del Gottardo. Di Buletti è disponibile anche un panettone senza lattosio dedicato alle persone sensibili a questa sostanza. Gli amanti del cioccolato saranno conquistati dalla Triestina della pasticceria Poncini di Maggia. Questa soffice specialità si caratterizza per il suo aroma deciso e avvolgente dato dalla lunga lievitazione naturale e dalla ricchezza di burro. Il panettone al gianduia e quello tradizionale sono le bontà che escono dai forni di Marzio Monaco, titolare della panetteria-pasticceria Dolce Monaco di Losone. Già vincitore qualche anno fa della medaglia d’argento alla Coppa del Mondo del Panettone, le delizie del pasticcere locarnese sono frutto di una grande passione per l’artigianalità e l’impiego di ingredienti di alta qualità selezionati con cura e attenzione. Infine, difficile non lasciarsi conquistare dalla finezza del Gonfiotto ai marroni del mesolcinese Gianfranco Cuoco. Il sapore equilibrato dell’impasto conferito dalla presenza di marrons glacés e dal burro di caseificio, abbinato alla golosa glassa di mandorle che ricopre la superficie, rende il dolce assolutamente irresistibile.
Il panettone Buletti è solo una delle specialità festive regionali disponibili nei supermercati Migros Ticino. Questa settimana lo trovate a un prezzo particolarmente vantaggioso, ma solo per poco tempo.
La pianta simbolo del Natale
Attualità ◆ La stella di Natale apporta gioia e armonia nelle nostre case durante le festività. Se tenuta con cura, questa bellissima pianta ornamentale può durare e fiorire anche per anni
Le origini La stella di Natale, conosciuta anche come Poinsettia, appartiene alla famiglia delle Euforbiacee ed è originaria del Messico dove cresce spontaneamente. Fu introdotta negli Stati Uniti nel diciannovesimo secolo da Joel Poinsett, diplomatico americano e grande appassionato di botanica, da cui prese anche il nome.
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Come curarla La stella di Natale è una pianta sensibile al freddo che predilige temperature tra i 15 e 20 gradi. Ama i luoghi luminosi, ma non alla luce diretta del sole e senza troppi sbalzi di temperatura o correnti d’aria che causerebbero la caduta delle foglie. Evitare anche di posizionarla vicino a termosifoni o caminetti. Il terriccio dovrebbe essere umido ma non zuppo d’acqua, pertanto evitare di lasciare ristagni nel sottovaso che farebbero marcire le radici e deperire la pianta.
Attenzione agli animali domestici La stella di Natale è tossica per i nostri amici animali. In caso di ingestione, potrebbero manifestarsi sintomi quali vomito, crampi muscolari, salivazione e tremolii. In questi casi rivolgersi urgentemente a un veterinario.
Curiosità Anche se esistono stelle di Natale di diversi colori, il colore dominante è il rosso vivo. Durante il periodo di fioritura la pianta non necessita di concime. Successivamente si può concimare una volta al mese. Le foglie colorate non sono dei fiori, ma delle brattee a forma di stella. I fiori veri e propri sono piuttosto discreti, piccoli e di colore giallo. Per poter fiorire a Natale, la pianta viene tenuta completamente al buio per diverse settimane prima della ricorrenza.
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MONDO MIGROS
L’aperitivo asiatico è servito
Attualità ◆ Per i vostri aperitivi delle Feste, perché non optare per un bel vassoio di sushi misti?
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Uno sfizioso aperitivo a base di sushi può essere un’ottima scelta per coloro che amano la cucina asiatica o anche semplicemente per chi desidera esplorare nuovi sapori. La cucina giapponese è rinomata non solo per la sua delicatezza, ma anche per l’attenzione all’estetica nella presentazione dei piatti, nonché per l’utilizzo di ingredienti freschi e di elevata qualità. Sebbene il sushi sia forse il piatto più popolare, la cucina giapponese conta naturalmente altre deliziose specialità, come tempura, sashimi, ramen o soba.
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Sushi Natsu, Sushi Haru, Sushi Fuyu oppure Sushi Aki? Per le prossime feste i negozi Migros propongono alcuni vassoi grandi di sushi misti, ideali da servire come aperitivo. I piatti sono composti da una selezione di bocconcini tra i più apprezzati, come hoso-maki verdure o pesce, nigiri salmone e tonno, nigiri gamberetti e chu-maki verdure miste o pesce. Nella confezione sono acclusi i classici condimenti, come salsa piccante wasabi e salsa di soia. Tutti i piatti sono preparati da Sushi Mania, azienda svizzera specializzata da oltre vent’anni nella produzione di autentiche specialità asiatiche, puntando su freschezza, qualità e sicurezza degli ingredienti utilizzati. I piatti si possono ordinare in tutti supermercati Migros ad eccezione di quelli con Sushi Corner all’interno del negozio, vale a dire S. Antonino, Bellinzona, Locarno e Serfontana. In quest’ultime sono disponibili altri vassoi misti di sushi per più persone. Il personale di vendita è a disposizione per qualsiasi informazione.
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1 Sushi Natsu 1 kg Fr. 59.50
2 Sushi Haru 980 g Fr. 59.50
3 Sushi Fuyu 880 g Fr. 49.50
4 Sushi Aki 980 g Fr. 69.– Annuncio pubblicitario
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Settimanale di informazione e cultura
Anno LXXXVI 11 dicembre 2023
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azione – Cooperativa Migros Ticino
SOCIETÀ
Per una più consapevole salute al «maschile» Medicina ◆ Men’s Health: dalla cura della sfera genitale al benessere globale dell’uomo
«Dottore, come faccio a sapere se ho contratto una malattia sessualmente trasmissibile?», «Qual è quella più frequente e diffusa?», «Cosa faccio se ho avuto un rapporto?», «Quali esami posso fare dopo un rapporto non protetto?», «Quali malattie non protegge il preservativo?». Sono alcune domande che i giovani pazienti dell’urologo e andrologo Paolo Broggini gli rivolgono durante le consultazioni: una ventina di giovani solo negli ultimi dieci giorni. Un dato incoraggiante a conferma del fatto che «i giovani cominciano a venire dall’urologo per farsi visitare e per chiedere informazioni».
A 14 anni si dovrebbe poter fare una prima visita per verificare lo stato di completamento della pubertà Comincia a cadere quel tabù che ancora permea la salute maschile. D’altronde, con l’evento Movember se ne parla ogni anno nel mese di prevenzione al maschile, sottolineando l’importanza di «prendersi cura di sé», e l’impegno di portare gli uomini a una migliore consapevolezza: «Lo spirito di Movember si è evoluto e i riflettori – dapprima puntati su prostata, testicolo e depressione – focalizzano sulla salute al maschile a tutto tondo: parliamo di Men’s Health che, anche nell’uomo così come per la donna, deve tenere conto della salute della persona nella sua interezza, compresa quella dell’area genitale». Il modo migliore è la prevenzione: «È importante educare i più giovani per costruire una società in salute». Broggini esorta i giovani verso una cura maggiore della salute, recandosi dall’urologo per visite a scopo preventivo e per controlli: «Per la ragazza vige la consuetudine delle visite di screening (ndr: pap test e mammografia); anche per il giovane è importante la visita urologica». Lo specialista identifica nel maschio una sorta di omertà sulla prevenzione: «Spesso
non sa dove andare e consulta Google alla ricerca di informazioni che medico di famiglia e urologo-andrologo potrebbero dargli in modo professionale e individualizzato, se solo vi si recasse così come la donna fa col ginecologo». Un dato lascia ben sperare perché, afferma Broggini, «complici la divulgazione mediatica, le campagne di sensibilizzazione e il ruolo della scuola, oggi qualcosa inizia a cambiare e i ragazzi arrivano in studio, anche da soli, e questo ci permette di affrontare a tutto tondo il tema su salute uro-genitale, sessualità e ogni aspetto a esse legate». Così come per la ragazza, anche la prima visita urologica si dovrebbe svolgere in età post-puberale: «A 14 anni si dovrebbe poter fare una prima valutazione della realizzazione del completamento della pubertà. In generale, dalla post-pubertà e non oltre i 25 anni un uomo dovrebbe aver visto l’urologo». Al ragazzo bisogna spiegare tutto e rispondere ad ogni sua domanda: «Con la valutazione della fertilità, gli si chiede della sua sessualità e si intavola il discorso della prevenzione che egli stesso può fare, ad esempio, attraverso la palpazione del testicolo (ndr: per l’individuazione del tumore testicolare, in analogia alla palpazione del seno per le giovani donne)». Con l’urologo si parla di anticoncezionali e dei problemi correlati: «Tutto ciò è come un sasso lanciato nei pensieri di un giovane ragazzo che su queste cose non si confida con i coetanei: l’urologo può aiutarlo a essere più sereno laddove ad esempio il giovane ritiene di avere un problema, magari banale, che però si è trascinato per tanto tempo». Broggini riferisce della serenità e la felicità che traspaiono da questi giovani al termine della consultazione: «Rispondendo alle loro preoccupazioni li solleviamo da un peso: se ne è parlato, e hanno ricevuto informazioni e risposte scientifiche che Internet non riuscirà mai a fornire come, invece, possiamo fare noi
freepik
Maria Grazia Buletti
specialisti nell’ambito della relazione umana e della competenza professionale oltre che con l’ascolto individuale». Ogni ragazzo è un mondo a sé: «Va accolto, perché la sessualità è ancora una sfera delicata per un giovane che va quindi ascoltato, anche nelle sue eventuali insicurezze e le sue paure, creando empatia ed essendo rassicuranti». Nell’educazione alla prevenzione rientra il tema delle malattie sessualmente trasmissibili, in merito al quale un dato preoccupante emerge da una recente ricerca sulla sessualità dei giovani svizzeri: «Il 10 per cento dei giovani in età tra i 16 e i 25 anni contrae un’infezione sessualmente trasmissibile». L’urologo lo spiega con il cambiamento di costume dei nostri tempi: «È facilmente comprensibile considerando che un terzo dei ragazzi e un
quarto delle ragazze hanno avuto una relazione sessuale con persone incontrate sul web, e che il 50 per cento dei ragazzi ha avuto nella sua vita almeno un rapporto sessuale consumato sotto abuso alcolico». Bisogna essere coscienti che «da questa situazione deriva la realtà di una sessualità a volte occasionale, priva delle dovute cautele del caso (profilattico), e questo espone maggiormente alle infezioni a trasmissione sessuale classiche come la sifilide e la gonorrea, da un decennio in costante ascesa. A complicare il tutto, il fatto che Chlamydia, infezione da Ureaplasma o Michoplasma possono essere asintomatiche anche nel 50 per cento degli uomini e nel 70 per cento delle donne, rendendo portatrice cronica del germe la persona che potrà poi andare inconsapevolmente a infetta-
re altri partner in un rapporto non protetto». Le conseguenze possono essere pesanti: «Queste infezioni riducono generalmente la fertilità, generano disturbi genito-urinari ricorrenti che interessano prostata, uretra ed epididimo». È quindi importante esercitare la prevenzione pure con l’educazione alla visita urologica dai 14 anni di età, oltre che con una sessualità responsabile. Inoltre, lo specialista sintetizza i punti salienti che interessano le infezioni sessualmente trasmissibili: «Possono essere causate da batteri (gonorrea, sifilide, clamidia), virus (Papillomavirus umano, herpes genitale, Hiv, epatite A, B e C), protozoi (tricomoniasi) e funghi (Candida Albicans). I possibili sintomi possono passare inosservati per lungo tempo, mentre segni e altri sintomi possono comparire, secondo l’infezione, da alcuni giorni ad alcuni anni dopo l’esposizione». Particolare attenzione bisogna prestare a: «Piaghe sui genitali, nella zona rettale od orale; bruciore o dolore alla minzione; secrezioni del pene; perdite vaginali (anche ematiche); ingrossamento dei linfonodi dell’area inguinale: dolori pelvici, febbre o diarrea, rash cutaneo su tronco, mani o piedi». Gli esami diagnostici si possono eseguire dallo specialista (o in Ticino chiedere a Zonaprotetta che saprà indirizzare): «Si tratta di un esame medico, esami del sangue, analisi dell’urina ed esami di campioni di fluidi biologici, valutati secondo la situazione di rapporto occasionale, o rapporto occasionale a rischio (con partner palesemente promiscuo)». Infine, le terapie dipendono dal tipo di infezione riscontrato: «Quelle causate da batteri, generalmente più semplici da curare, meritano antibiotici a uso locale o sistemico; mentre le infezioni virali possono essere seguite nel tempo, ma non sempre curate». Un cenno molto importante al vaccino contro il Papillomavirus umano che, per essere efficace, andrebbe somministrato prima dell’inizio dell’attività sessuale.
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Viale dei ciliegi Monika Utnik, con illustrazioni di Ewa Poklewska-Koziello Arriva il Natale San Paolo (Da 6 anni)
Eh sì, arriva il Natale. E i negozi sono pronti da un bel po’ a ricordarcelo. Possiamo però prendere una pausa più intima, tranquilli a casa, sfogliando insieme qualche libro che su questa festa così carica di aspettative ci racconta interessanti sfaccettature. Scopriremo così che l’albero di Natale non è l’unica decorazione che allieta le case in dicembre. Ad esempio in Svezia ci sono anche delle caprette in miniatura chiamate julbock, spesso esposte insieme agli gnomi tomtar, e alle stelline illuminate, le julstiärna. In Grecia invece sono diffusi i modellini di barche decorate con le luci, e in Catalogna è famoso il Tió de Nadal, un tronco scavato con dipinto un volto che indossa un berretto rosso. E il panettone o il pandoro non sono gli unici dolci natalizi: oltre al Christmas Pudding, ben noto anche grazie al dickensiano Canto di Natale, e al Bûche de Noël, c’è ad esempio l’Hallaca venezuelana (carne avvolta
di Letizia Bolzani
in foglie di banano), il norvegese Lutefisk (a base di pesce), o lo slavo Kutia (a base di grano, semi e uva passa). Tutto ciò, e molto altro, è raccontato in questo volume di due autrici polacche, dal titolo che invita a leggerlo come un piccolo itinerario d’Avvento. Leggendo queste storie e tradizioni da tutto il mondo scopriremo che Babbo Natale non è l’unico a portare i regali ai bambini, ma è in allegra e variopinta compagnia. Non mancano le citazioni letterarie, a cominciare da Dickens, oppure dallo Schiaccianoci. E quando chiuderemo il volume, dalla
copertina rigorosamente rossa, saremo pronti per augurare buon Natale in tanti modi diversi. Michael Morpurgo, con illustrazioni di Helen Stephens Mimi e il drago di Natale Jaca Book (Da 4 anni)
L’autore, l’inglese Michael Morpurgo, è notissimo per i suoi romanzi storici, spesso ambientati durante la Prima guerra mondiale, da War Horse a La guerra del soldato Pace, per citare solo due titoli. Questo invece è un racconto che apre spiragli sull’altrove, in particolare per quanto riguarda un «temibile» drago della montagna. Tuttavia, e questo è un ulteriore motivo per segnalare il libro, il contesto è assolutamente realistico, anzi da noi molto riconoscibile, perché la storia è ambientata in Svizzera, in Engadina, per la precisione a Zuoz, che le meravigliose illustrazioni di Helen Stephens ritraggono in tutto il suo incanto invernale, a cominciare dalla piazza con la statua dell’orso sulla fontana, passando per la chiesa, fino alla cappella di San Bastiaun. Mor-
purgo ci porta in un lontano passato (attraverso l’espediente della storia nella storia, in cui lui stesso, Michael, racconta alle persone raccolte attorno a un falò sulla montagna una storia avvenuta lì molto tempo prima). Tanto tempo prima, nel Medio Evo, precisamente nel 1314, proprio vicino alla cappella di San Bastiaun, viveva a Zuoz la piccola Mimi, con i suoi genitori. Gli abitanti del villaggio erano terrorizzati dal terribile drago che viveva sulle cime, e che consideravano responsabile delle valanghe e di tutte le persone morte in montagna, perciò
ogni vigilia di Natale salivano in alto con campane e campanacci, suonandoli forte per intimidirlo e augurargli una cattiva sorte, così da sentirsi liberati dalla sua presenza. È evidente, anche guardando le illustrazioni e i costumi dei personaggi, il richiamo alla tradizione grigionese del Chalandamarz, che però avviene il 1 marzo, quando i bambini percorrono le vie dei paesi cantando e suonando i campanacci per scacciare l’inverno, da cui la celebre storia di Schellen-Ursli, il piccolo classico di Selina Chönz e Alois Carigiet. In questa incantevole storia che Morpurgo ambienta a Natale, il mattino del 25 dicembre la piccola Mimi vede davanti alla sua casa, nella neve, un cucciolo di drago. Dovrà ricorrere a tutta la sua intraprendenza per nasconderlo e proteggerlo, e a tutto il suo coraggio per affrontare la salita sulla montagna (proprio come Schellen-Ursli), per riportarlo alla sua mamma drago. Lo sguardo luminoso di Mimi e il suo cuore coraggioso sapranno vedere ben oltre le apparenze e i pregiudizi. Un libro per Natale e per tutte le stagioni dell’anno e della vita.
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SOCIETÀ
Servirà una «patente macchina» per le elettriche? Motori ◆ Dal 1886 a oggi le automobili sono considerevolmente cambiate, e con esse anche le competenze necessarie per mettersi alla loro guida
Il primo prototipo di automobile con motore a scoppio è stata la Patent Motorwagen (nella foto), soprannominata anche Velociped, il cui brevetto risale al 1886. Progettata in Germania da Karl Benz, era una specie di calesse con tre grandi ruote e un motore posizionato dietro. Raggiungeva una velocità massima di 16 chilometri orari grazie al propulsore che erogava ben 1 cavallo di potenza massima. La Ford Modello T, più simile, si fa per dire, alle auto che conosciamo oggi è del 1908. Almeno aveva quattro ruote e un vero volante. Nelle sue varie evoluzioni è restata in produzione 29 anni ed è la nona auto più venduta di tutti i tempi. La prima patente di guida, la licenza di condurre, è stata rilasciata proprio tra la fine dell’Ottocento e gli inizi del Novecento. Nel luglio del 1913 in America, lo Stato del New Jersey fu il primo a richiedere a tutti gli automobilisti il superamento di un esame di abilitazione alla guida per poter ottenere la patente. E arriviamo ai giorni nostri, dopo oltre cent’anni di evoluzione del «prodotto» auto che ormai ha ben poco in comune con i suoi esordi se non l’utilizzo per muoversi da un punto A a un punto B. La Svizzera è uno tra gli Stati che affronta in maniera più attenta l’argomento. Da una parte i ra-
gazzi della Confederazione sono tra i più giovani a poter guidare in Europa, dal gennaio 2021 bastano 17 anni se accompagnati da un adulto, dall’altra devono andare incontro a una lunga formazione prima di poter «condurre» in piena autonomia. Dal corso di pronto soccorso a quello di sicurezza stradale per arrivare a corsi di formazione complementare. Ma tutto questo basta? Forse no. Va detto che oggi le automobili diventano sempre più complesse, dotate di funzionalità che negli ultimi anni ne hanno modificato in modo importante le caratteristiche. Pensiamo ai sistemi ADAS (Advanced Driver Assistance System) che sono focalizzati su tecnologie volte a prevenire gli incidenti. Dal night vision, che di notte consente di vedere grazie agli infrarossi, al lane departure warning, che avvisa quando non si mantiene la traiettoria ed è in grado di correggerla anche da solo agendo sullo sterzo. Passando dall’adaptive cruise control, ovvero al controllo di velocità adattativo che consente all’auto di seguire quella che ci precede, mantenendo la distanza di sicurezza frenando e accelerando autonomamente. Ecco allora che non solo i «giovani» automobilisti dovrebbero essere formati sull’utilizzo di queste tecnologie che fanno sempre più parte in-
Sicnag
Mario Alberto Cucchi
tegrante di tutte le auto ma anche i «vecchi» automobilisti dovrebbero fare dei corsi di aggiornamento. Insomma, basti pensare all’aeronautica. Quando prendi un brevetto di volo è necessario prendere la cosiddetta «abilitazione macchina» ovvero bisogna essere preparati a utilizzare nello specifico ogni singolo aeromobile. Perché se da una parte è vero che si ha il brevetto che abilita a volare, dall’altra è pure vero che ogni aereo è diverso dall’altro. Un conto è pilotare un piccolo Piper monomotore, un altro un seppur piccolo bireattore. Cambia-
no, e di molto, non solo le prestazioni. Torniamo al mondo delle quattro ruote. Una Panda ha un motore termico ovvero alimentato a carburante e accelera da ferma a cento orari in oltre 15 secondi. Una Tesla ha un propulsore alimentato a batterie e può arrivare a scattare da ferma a cento orari anche in solo 1,9 secondi. Si tratta della Model S Plaid. Ma anche una «normale» Model 3 impegna 6 secondi. Un tempo che una volta era riservato alle auto più sportive. Eppure abbiamo a che fare con una berlina tradizionale, almeno nelle forme.
In realtà si tratta di una vettura di ultima generazione che si può acquistare con poco più di 40mila franchi svizzeri. Alimentata da batterie e dotata di tutte le ultime tecnologie. Ecco perché i suoi utilizzatori andrebbero formati e non solo in dieci minuti dal concessionario durante la consegna della nuova auto. Cambiano persino le dinamiche di marcia. Le reazioni del veicolo rispetto a quelle a cui magari eravamo abituati. Le auto elettriche hanno infatti i pesi più in basso perché le batterie sono sotto il pianale e, a parità di modello, pesano molto di più rispetto ai mezzi alimentati a benzina. «La fruibilità delle prestazioni, la guidabilità tra le curve dei mezzi di ultima generazione rendono gli automobilisti sin troppo sicuri» ci spiega il pilota Giampaolo Tenchini. «Sono più sicure, più stabili e non incutono timore. Non si sente il rombo del motore e in questo caso viaggiare nel silenzio non equivale ad andare piano, anzi». Continua Tenchini. «Io faccio corsi di guida personalizzati e ai miei allievi insegno che l’incremento di potenza, rispetto a quelle a cui eravamo abituati, non va preso mai sottogamba. Gli automobilisti di oggi vanno sensibilizzati, bisogna spiegargli bene quello che hanno in mano», conclude Tenchini. Annuncio pubblicitario
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SOCIETÀ / RUBRICHE
Approdi e derive
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di Lina Bertola
Siamo tutti illuminati
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Anche quest’anno molti sguardi affascinati hanno accompagnato il rito luganese dell’accensione dell’albero di Natale: occhi pieni di stupore di fronte a quella piccola magia che gioca a sorprenderci con la bellezza di una luce, di tante luci, delicate quanto esagerate, fino a voler evocare, in segreti sentieri dell’anima, anche la luce della bellezza, di una bellezza che ci chiama da un altrove: «L’albero della vita è radicato nel cielo», suggeriva la filosofa Simone Weil. Pur nelle diverse emozioni che riesce a offrirci, l’atmosfera incantata sembra avvolgere tutti in un abbraccio di meraviglia per la sconfitta del buio, metafora di tanti paesaggi esistenziali che abitano la vita di ognuno. Ma le luci natalizie, con la loro promessa di bellezza, ci erano già venute incontro un po’ ovunque, ben prima della loro apoteosi nel rito iniziatico dell’Avvento. Siamo tutti illuminati, da settimane.
Possiamo passeggiare tra le vie pedonali o tra figure esili e trasparenti che sembrano capitate lì per caso sull’erba (sofferente) del Parco Ciani, o possiamo avventurarci dentro i meandri dello shopping: in ogni angolo infinite luci sono lì per noi, per sorprenderci, insistenti e a volte addirittura invadenti, nell’esibire la loro bellezza. Ma quanto luminosa sa essere questa bellezza? Quanto illumina la nostra vita? Sono domande che toccano gli strati più profondi della nostra umanità, ci raggiungono sulla soglia del nostro vissuto più intimo e ci chiedono accoglienza, soprattutto in questi giorni dell’Avvento quando, oltre ai fiocchi sgargianti dei regali, qualcosa viene a parlarci della Natività, non solo del suo significato religioso ma anche del valore del nascere e del rinascere alla vita. Proviamo dunque a tentare una possibile risposta. Forse la pervasiva bel-
lezza illuminata degli addobbi natalizi è solo la forma estrema di un fenomeno più ampio, assai diffuso nel nostro tempo, in cui tutto ha da essere bello, tutto deve saper sedurre, e non solo per soddisfare le esigenze del mercato. Certamente, per essere vendibile, ogni oggetto deve esibire una sua bellezza: dallo spazzolino allo spremiagrumi, dalla custodia per il telefono all’appendino, per ogni oggetto la bellezza è un valore aggiunto indiscutibile. Ma al di là delle pressioni consumistiche, ci sono altre più profonde ragioni che possono aiutare a comprendere il bisogno di estetizzare ogni aspetto della realtà, il bisogno di una cosmesi generalizzata desiderosa di illuminare il mondo. Forse siamo attratti da tante cose belle proprio perché ci permettono di non vedere il buio di troppe ingiustizie, miserie e guerre. Agli occhi abbagliati dalla loro luce, molte cose diventano invisibili.
Giuliano Zanchi, in un suo interessante saggio, analizza le ossessioni estetiche che pervadono le nostre esistenze e arriva a parlare di una bellezza complice. Complice del vuoto e del disincanto del nostro tempo che ha abbandonato la ricerca del senso del vivere, la bellezza svolge una funzione riparatrice. «È l’arredatrice del nostro mondo spoglio e la stilista delle nostre vite incerte». Queste considerazioni ci riportano alla distrazione di cui parlava il filosofo Baise Pascal, un modo per sopravvivere alla fragilità del vivere, in quella che lui definiva la nostra infelice condizione. Ragioni profonde, che riguardano l’intimo rapporto con noi stessi, possono dunque spiegare anche l’attrazione e l’incanto delle luci natalizie. Tempo fa ebbi modo di raccontare la straordinaria riflessione di una bimba di otto anni. Dentro un grande sorriso mi aveva donato parole di verità che spesso solo la purezza del-
lo sguardo dei bambini riesce a cogliere: «La bellezza non è nelle cose ma nei nostri cuori». Senza saperlo, parlava della bellezza di quel sole che nel celeberrimo mito platonico illuminava il faticoso viaggio dal buio della caverna alla visione della verità. Questo sole è ancora e sempre grande metafora del bene, di una vita buona illuminata dalla contemplazione del «gran mare del bello». Senza saperlo, la bimba parlava anche della bellezza delle stelle: una bellezza che viene da molto lontano per raccontarci, in ogni sua piccola e tremolante luce, la profondità del tempo del nascere e del rinascere della vita. Insomma, lei della bellezza aveva colto il significato intimo che rende visibile l’invisibile e che chiama ad altro. A noi di coltivare questa luce interiore che sappia rendere anche la bellezza di un Natale illuminato un po’ più vera e un po’ meno complice del disincanto.
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Terre Rare
di Alessandro Zanoli
Le app ecologiche ◆
La faccina della Terra anche oggi mi guarda con la bocca girata all’ingiù e con le gocce di sudore che le scorrono via dal viso. Anche oggi infatti non ho centrato il mio obiettivo di risparmio energetico. E la Terra soffre. Questa settimana ho percorso 284 km, in maggior parte con i mezzi pubblici, ma nonostante questo ho emesso 27 kg di CO2. La mia impronta ecologica è abbastanza deludente. Cosa posso fare per migliorarla? Essenzialmente non usare l’automobile. Eppure mi sembra di usarla pochissimo. L’app che ho installato sul mio smartphone da qualche tempo si chiama Swiss Climate Challenge. È stata elaborata da Swisscom e fino all’11 ottobre era collegata a un concorso nazionale, un Challenge appunto, attraverso il quale era possibile partecipare a squadre, con l’obiettivo di
diminuire le proprie emissioni di gas serra. A concorso terminato, l’app ci avverte che la gara ha coinvolto 8554 persone e ha permesso di totalizzare un risparmio di 1’691’111 kg di CO2, circa il 60% in più di quanto ci si aspettava complessivamente dal concorso. Ora che il Challenge è terminato l’app continua a funzionare e registra fedelmente tutti i miei spostamenti, li somma, li analizza, li compara con quelli delle scorse settimane e funge un po’ da cattiva coscienza. Ora, tra l’altro, non raccoglie più i green points che premiavano il mio comportamento ogni volta che raggiungevo gli obiettivi e alleggerivo la mia impronta ecologica. Grazie al coinvolgimento di varie aziende svizzere, tra cui Migros, i premi sono consistiti in buoni acquisto, carte di viaggio FFS o su Autopostale, biglietti per varie mani-
Le parole dei figli
festazioni, donazioni a enti attivi nel campo della difesa ambientale. Certo, senza l’incentivo dei premi sembra che la motivazione a migliorare le proprie abitudini venga un po’ meno. Ma non è vero. Il senso di colpa rimane, diciamo così, e tutto sommato è utile avere un promemoria che ci aiuti a tener d’occhio le nostre leggerezze, le nostre pigrizie. Che il tema sia sensibile lo dimostra il gran numero di app analoghe che si trovano sul mercato. Ne abbiamo scaricate diverse, per un confronto, e tutto sommato il loro funzionamento è simile. Si parte naturalmente dall’idea che ogni nostro comportamento sia registrato dal nostro smartphone. Questo tracciamento delle abitudini non riguarda solo gli spostamenti ma anche i nostri acquisti (vedi l’app Kitchen Footprint, in cui possiamo scansionare i codici a barre dei nostri
acquisti e vederne analizzato il profilo ecologico) oppure in generale le nostre attitudini quotidiane verso lo shopping, la dieta, lo stato di salute (vedi l’app Klima, molto strutturata e completa). Non sussiste dubbio che sia importante per ognuno di noi assumere atteggiamenti più rispettosi verso l’ambiente. Un potente strumento come il computer tascabile che ci ritroviamo tra le mani ogni minuto può finalmente diventare saggio, e fornire un ausilio essenziale in questa attività. Il lato oscuro della medaglia? Il trattamento dei dati, naturalmente. Ognuna delle app installate ha bisogno di conoscerci a fondo, a cominciare dai connotati fisici fino alle informazioni anagrafiche, digitali e analogiche. Dal momento che inizierà a registrare i nostri comportamenti il programma avrà una mappa completa del nostro
quotidiano. Insomma, l’uso di questi servizi lancerà una volta di più il nostro profilo personale in uno spazio incognito, oltre ogni nostro controllo. Che fare? È forse ridicolo chiederlo, dopo avere installato decine di altre applicazioni: una in più o una in meno cambierà poco. Per quel che mi riguarda, rimango fedele a Swiss Climate Challenge (che peraltro è uno spin off dell’app Enerjoy, molto sofisticata e dalla stessa impostazione ludica, che spinge a creare squadre in sfida tra loro. Purtroppo, a quanto mi risulta, l’interfaccia del programma parla soltanto in tedesco). Ormai è un puntiglio per me far tornare a sorridere quella triste faccina della Terra, che conosco da settimane e che mi è diventata simpatica. E, forse, l’unica speranza che abbiamo è considerare il nostro mondo come una sorta di Tamagotchi…
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di Simona Ravizza
Flexare
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«Non vedo l’ora di flexare la mutanda Supreme che ho appena comprato!», è una frase intercettata di recente in uno scambio di messaggi vocali su WhatsApp tra la mia 15enne Clotilde e una sua amica. Nelle Parole dei figli il verbo flexare è d’uso quotidiano. Il termine deriva come sempre dall’inglese: to flex letteralmente vuol dire flettere. Viene utilizzato nel suo significato di flex one’s muscles, ossia mostrare i muscoli. Gli viene poi aggiunto il prefisso – are, che è il solito modo per italianizzare parole straniere. Flexare indica così nel gergo degli Gen Z il vantarsi, l’ostentare, l’esibire, il fare sfoggio, il mostrare. Viene fatto per i cellulari, i capi di abbigliamento di moda, gli orologi, le auto di lusso, lo stile di vita, persino il/la proprio/a partner; e in generale per tutto ciò che, per chi ce l’ha, rappresenta il raggiungimento
di uno status sociale elevato: l’ultimo modello di iPhone, la T-shirt di Palm Angels da 250 euro, il Rolex, le sneakers Nike Jordan 4 Retro Kaws Black! Altro che low profile: non conta solo possedere, l’importante è poi sbattere in faccia agli altri la propria ricchezza alla ricerca di riconoscimento sociale. La soddisfazione personale è condizionata dallo sguardo degli altri. Su TikTok i video con l’hashtag flex hanno 12,5 miliardi di visualizzazioni e non è mancato il trend in cui eserciti di Gen Z postavano video al motto di «Il mio più grande flex è…». Chi flexa su tutti sono i trapper, gli artisti più amati dai nostri figli che cantano di riscatto sociale, lusso, spesso droga e violenza. Tra i primi a utilizzare il termine ci sono nel giugno 2017 i Dark Polo Gang con un brano che si intitola per l’appunto Flex: «La mia tipa è figa/La
tua ragazza porta sfiga/Bevo cristal no crystal/Attiro un sacco di figa/Sui lobi brillocchi/Parli di me ma non mi tocchi/Bollicine Coca-Cola/Lei vuole Pyrex più Tony/Baby guarda cosa ho qui/S-O-L-D-I». William Miller Hickman III, trapper italo-americano, nato nel 1991 a Vicenza da mamma italiana e papà americano, in arte MamboLosco, canta nel brano Costa tanto: «Fare il figo e flexare è il mio hobby». Elio Biffi, tastierista della band metal-demenziale I Pinguini Tattici Nucleari, riassume: «L’estetica trap è un po’ l’estetica del flexing, del mostrare le cose. È un’estetica che non ci appartiene». Così una delle canzoni del loro ultimo album s’intitola Non sono cool: «Dentro la testa ho una drum machine (strumento elettronico per imitare le percussioni, ndr)/Che non ha più tempo per flex o diss/Non sono cool/Non sono cool/Non sono cool».
Per Clotilde e le sue amiche, in realtà, anche I Pinguini Tattici Nucleari nel dire che non flexano stanno flexando: volersi mostrare diversi dagli altri, e magari migliori, nasconde comunque il desiderio di mostrarsi. In sintesi: anche chi sostiene che non gli interessa essere cool, in realtà vuole esserlo, semplicemente in un altro modo. La morale della storia per i Gen Z è che tutti flexano, i più onesti lo ammettono anche contro l’ipocrisia di chi si crede superiore! In un Caffè delle mamme del febbraio 2019 sulla musica che ascoltano i nostri figli lo psicoterapeuta Matteo Lancini rifletteva: «Agli adolescenti piacciono i trapper perché cantano il modello al quale oggi la società, e a volte gli stessi genitori, li hanno abituati: la generazione Like cresce nell’inseguimento della popolarità e del riconoscimento sociale». La borsa è
la Chanel, ai piedi Dior, la barca a Saint-Tropez. Un dato mi ha colpito in un’inchiesta che ho condotto di recente per Dataroom del «Corriere della Sera»: lo scorso settembre il sito cinese Pandabuy che vende marchi di moda fake ha avuto 17,6 milioni di visite in tutto il mondo, di cui quasi un milione in Italia, il doppio rispetto al mese precedente. E chi compra su Pandabuy? Il 43% dei visitatori ha tra i 18 e i 24 anni, il 32% tra i 25 e i 34 anni. Vuol dire, a mio avviso, che la generazione per la quale il numero di cuori su un post e di follower su TikTok può fare la differenza tra chi si sente importante e chi si sente uno «sfigato», tra chi conta e chi no, pur di flexare compra capi d’abbigliamento e scarpe contraffatte all’interno di un fenomeno ormai virale. «Io ho, quindi sono».
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Questa bambola non è un giocattolo ma un oggetto da collezione! Ogni bambola è un pezzo unico e può differire leggermente dall’immagine qui riprodotta.
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Settimanale di informazione e cultura
Anno LXXXVI 11 dicembre 2023
azione – Cooperativa Migros Ticino 15
TEMPO LIBERO ●
Norimberga, città dei giocattoli La tradizione locale risale ai fabbricanti di bambole medievali e ai produttori di figurine in peltro e di giochi in latta dell’era industriale
Un infuocato arrosto di manzo Steccata con tanti peperoncini rossi, dopo la rosolatura, la carne si rilassa cuocendo in un bagno di vino rosso
Tour nella Grecia classica e a Meteore Hotelplan, in collaborazione con «Azione», organizza un viaggio di gruppo che avrà luogo dal 4 al 12 maggio 2024
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A Luca Zanetti è già capitato di camminare sospeso nel vuoto ad altezze che si aggirano sui 200 metri.
Con il vuoto sotto i piedi
Adrenalina ◆ La slackline è uno sport prettamente di equilibrio, nato negli anni Ottanta in California. Ce ne parla Luca Zanetti Moreno Invernizzi
Equilibrio è la parola chiave. Ma non è la sola. Ci vuole anche tanta forza di carattere, oltre che una buona dose di pelo sullo stomaco. E molto altro ancora. Soprattutto quando tra te e il baratro che si apre sotto i tuoi piedi altro non c’è che un’esile lamina, una «fettuccina» – come la chiamano nel gergo tecnico – larga solo una manciata di centimetri, dai 2,5 ai 5. Ma per i cultori della «slackline», ovvero per gli slackliner, è questa la vera essenza di uno sport da brivido, dove l’adrenalina scorre a fiotti nelle vene, dal primo all’ultimo passo lungo la «corda» sospesa nel vuoto. Ma in che cosa consiste di preciso questo sport? Quali sono le sue caratteristiche e le sue origini? E, soprattutto, cosa provano questi funamboli – in senso lato, visto che da funambolismo nella sua accezione più stretta la slackline si differenzia per tutta una serie di dettagli – mentre si trovano a… camminare nel vuoto? Ce lo racconta Luca Zanetti. «La slackline è uno sport prettamente di equilibrio, molto specifico» premette il nostro interlocutore. «I primi a cimentarsi con i suoi rudimenti, negli anni Ottanta, furono alcuni alpinisti della California che, cercando un modo per perfezionare il loro equilibrio, avevano pensato bene di esercitarsi camminando su una corda tesa a mezz’altezza. La cosa ha ben presto preso piede, e non solo tra gli scalatori “puri”. Tant’è che io non
ho mai praticato l’arrampicata… Col passare del tempo, ovviamente anche la tecnologia ha conosciuto un’evoluzione: oggi per questo sport si possono impiegare “fettuccine” diverse per forma, come pure per materiale che le compongono. Anche dal profilo della sicurezza le cose sono decisamente cambiate, in positivo, dagli albori». Non tutti i luoghi sono adatti per tracciare una linea: «Una volta individuati il punto di partenza e il punto d’arrivo, si posano gli ancoraggi: è un lavoro che deve essere fatto con la massima cura, osservando scrupolosamente tutte le prescrizioni al fine di garantire la massima sicurezza a chi poi camminerà su quella esile lamina. Trattandosi di istallazioni aeree,
spesso su suolo pubblico, è poi necessario richiedere le relative autorizzazioni alle autorità competenti. Per le linee in quota, ad esempio, prima della posa di una linea – che può restare lì anche per alcune settimane in certi casi – occorre prendere contatto con l’Ufficio federale dell’aviazione civile». Come si diceva, non solo dall’alpinismo si arriva alla slackline: «Ho cominciato a praticare questa disciplina cinque anni fa. Un po’ per caso: avevo visto un documentario su questo sport alla televisione, e ne ero rimasto affascinato; poco dopo mi ero imbattuto in un evento di slackline in Emilia Romagna… e a quel punto è scoccata la scintilla! In più, proprio in quel periodo, alla mia compagna come terapia di recupero dopo un intervento al ginocchio era stata consigliata proprio questa attività. Così sulla “corda”, ci sono salito anch’io per non ridiscenderne praticamente più: mi si è aperto un mondo. Ad affascinarmi, in particolare, era la semplicità di questo sport: ridotto all’osso bastava salire su una corda tesa tra due punti per provare un’emozione senza eguali. Che siano due metri o che siano sessanta quelli che si aprono sotto i tuoi piedi, c’è sempre un po’ di paura. Ma devi controllarla: devi saper trovare dentro di te quella forza per andare avanti, un passo dopo l’altro, senza farti cedere le gambe. Devi imparare a gestire le emozioni: è un processo
molto lungo, interiore, che si affronta con tanta pratica. Ho cominciato come autodidatta, in giardino, provando su altezze ridotte. Anche perché il mio gruppo di riferimento di slackliner aveva base oltre San Gottardo (in tal senso la Svizzera è tra i pionieri di questo sport in chiave moderna). Tre anni fa è poi nata un’associazione tutta ticinese, la Tislacco, con cui organizziamo uscite di gruppo e presentiamo la nostra attività a vari eventi. Attualmente l’associazione conta una quarantina di soci, di cui una buona dozzina pratica quest’attività regolarmente, con sedute di allenamento al Centro sportivo di Tenero». Come per ogni sport è necessaria una preparazione specifica prima di cimentarsi con la camminata nel vuoto: «Ci sono dei fondamenti di tecnica da cui non puoi prescindere. È infatti necessario non solo imparare a camminare in maniera retta, ma anche a star seduti correttamente sulla “fettuccia” come pure a uscire da quella posizione per rizzarsi in piedi. Poi, quando si sale in quota, è indispensabile avere dimestichezza con le tecniche di recupero, dato che per ovvie ragioni di sicurezza siamo imbragati». E poi si comincia a parlare di quote: «Beh, passo dopo passo ho acquisito una certa esperienza, per cui mi è già capitato di camminare sospeso nel vuoto ad altezze che si aggiravano sui 200 metri. Quando sei lassù hai la sensazione di controllare tutto, anche
se in realtà non controlli niente. Sei come in una bolla, da cui esci solo una volta che torni a terra: è in quel momento che ti assalgono tutte le emozioni, ed è una sensazione indescrivibile, fantastica». Vien da sé considerarlo uno sport pericoloso: «Se praticato rispettando tutte le norme e con il corretto abbigliamento, non lo è affatto. Quando si è a una certa altezza, ad esempio, si ha sempre una doppia-tripla sicurezza. Sembrerà un paradosso, ma personalmente lo ritengo molto più sicuro dell’arrampicata, in cui sono molti (e troppi) gli aspetti che non dipendono direttamente da te». Per Zanetti è di certo uno sport da consigliare: «Sì, decisamente. Tanto per l’aspetto mentale quanto per quello fisico. La slackline ti dà l’opportunità di allenare equilibrio e postura, oltre a mettere alla prova le capacità neuronali esercitando il senso dell’equilibrio. Il bello di questo sport è che lo puoi praticare tutto l’anno. Vivendo in Leventina, spesso in inverno andavo e vado a sciare. Ma ultimamente la neve scarseggia; tuttavia, grazie alla slackline, ho trovato un’ottima alternativa per vivere più serenamente questi periodi avari di coltre bianca». Per chi vuole conoscere più da vicino questo sport, Tislacco, ogni martedì (fino a marzo) alla Palestra Regazzi del Centro sportivo di Tenero (19-22) propone una serata di allenamento.
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TEMPO LIBERO
Dimmi come giochi e ti dirò chi sei
Spielzeugmuseum ◆ A Norimberga, una collezione di giocattoli da tutto il mondo mostra come anche la dimensione ludica sia dominata da meccanismi sociali e culturali Simona Dalla Valle, testo e foto
Le origini di quello che sarebbe diventato lo Spielzeugmuseum risalgono all’iniziativa di Lydia e Paul Bayer, una coppia di collezionisti di giocattoli e oggetti d’arte fin dagli anni Venti. La figlia Lydia (1929-2000), nata a Würzburg e cresciuta a Norimberga circondata dai giocattoli storici dei genitori, presto ne ereditò la passione. Lydia concentrò la sua formazione sul tema dei giocattoli, completando gli studi di storia dell’arte con un dottorato sulla casa di bambola europea. Nel 1962, la giovane studiosa ampliò la collezione dei genitori a Würzburg, trasformandola in un museo privato il cui patrimonio fu acquisito dalla città di Norimberga nel 1966.
l’azienda divenne il principale produttore di giocattoli di latta della DDR.
Dalle proiezioni al cinema Fino alla fine del XIX secolo, esistevano semplici supporti ottici che oggi definiremmo «rudimentali» come i teatri di carta, che drammatizzavano storie per grandi e piccini. Spettacoli itineranti trasportavano il pubblico incantato delle fiere in mondi sconosciuti con peepshow e proiezioni. A partire dal 1850, la tecnica fotografica della stereoscopia aprì una nuova qualità di rappresentazione, e con il fenachistoscopio e il prassinoscopio le immagini iniziarono a muoversi. Ma fu solo con l’invenzione della pellicola, all’inizio del XX secolo, che il grande salto nel cosmo delle immagini viventi fu compiuto.
Conquiste tecniche come le locomotive a vapore e le ferrovie, automobili e aerei influenzarono molto l’industria dello svago
La metropoli del ferro Norimberga città dei giocattoli Fin dal Medioevo, nei vicoli del centro e nei sobborghi di Norimberga si producevano giocattoli di ogni tipo: bambole, giochi realizzati interamente in legno e oggetti più o meno elaborati in latta. L’educazione delle bambine era volta a insegnare loro la gestione della casa, e anche gli oggetti destinati allo svago seguivano questo intento. Le cucine delle bambole riproducevano la vita domestica nei più piccoli dettagli delle specificità regionali, mostrando le tecniche di preparazione degli alimenti. Il tema dell’economia domestica comprendeva anche lo shopping, ricreato nelle bancarelle e nei negozi riccamente forniti della collezione. Le case di bambola esposte al museo spaziano nel tempo dal Biedermeier allo Storicismo e all’Art Nouveau fino agli anni Quaranta, e non solo illustrano un cambiamento nello stile di vita dei tedeschi, ma forniscono una vivida immagine della vita familiare della classe media. I numerosi esemplari del museo documentano l’evoluzione della bambola, che da oggetto di moda e da esposizione acquisì una funzione ludica nel periodo tra il 1750 e gli anni Cinquanta del Novecento. Una sala con un bel soffitto in stucco rococò, proveniente dalla struttura originale dell’edificio, ospita figure storiche in latta, carta, pasta, celluloide e plastica. I primi esemplari delle officine di Norimberga e Fürth raffigurano prevalentemente scene e motivi di vita quotidiana, mostrando l’alto livello di abilità dei fonditori e degli incisori locali di peltro, che nel XIX secolo resero la Franconia la Mecca mondiale di questi prodotti.
Anche l’avvento del cinema ebbe un’influenza sul mondo dei giocattoli, dando origine alla riproduzione di immagini in movimento più sofisticate; sotto da sinistra, 1900: è l’era dei giocattoli tecnologici, attivati da meccanismi a orologeria; casa di bambola finemente rifinita. In basso, una replica di quasi 30 m² dello snodo ferroviario americano di Omaha/Nebraska, che è regolarmente mostrato in funzione al pubblico.
Le prime conquiste dell’umanità in campo tecnico come le locomotive a vapore e le ferrovie, automobili e aerei, ma anche i cinema e i telefoni, influenzarono grandemente l’industria dello svago. Il ferro, materiale al centro dell’industrializzazione, era la risorsa imprescindibile di questa nuova era dei giocattoli, di cui Norimberga fu la metropoli per quasi un secolo producendo set di costruzioni in metallo, figure danzanti, motori a vapore e modellini ferroviari. Intorno al 1910, circa cinquemila persone avevano trovato occupazione nelle oltre cento aziende di giocattoli della città, tra le quali spiccavano i nomi di Issmayer, Heß, Bub, Carette, Fleischmann, Plank, Doll e soprattutto Bing, all’epoca la più grande fabbrica di giocattoli di tutto il mondo.
Gli ultimi cinquant’anni stimonianza della storia locale. Nel 1881, il contabile berlinese Ernst Paul Lehmann fondò una fabbrica di giocattoli di latta a Brandenburg an der Havel insieme a Jean Eichner, figlio di un produttore di Norimberga con
un passato nel settore. In pochi anni l’azienda, che nel periodo di massimo splendore impiegò novecento persone, raggiunse una fama mondiale. Protetti da brevetti internazionali, i giocattoli Lehmann erano caratterizzati da
La storia locale dei Lehmann La storia dell’azienda di giocattoli E. P. Lehmann fornisce una grande te-
meccanismi inventivi, idee di gioco originali, nomi spiritosi e un forte senso dello spirito del tempo. Aeroplani, dirigibili, automobili e motociclette, i giocattoli figurativi dovevano spesso la loro creazione a fatti di attualità. All’inizio degli anni Venti Johannes Richter, cugino di Lehmann, si unì all’azienda dandole nuovi impulsi e nel 1934, alla morte del fondatore, continuò a esserne l’unico proprietario. Durante il periodo del nazionalsocialismo si arrivò a una drastica diminuzione della produzione dovuta alla scarsità di materiali. Richter resistette alla richiesta del regime di produrre giocattoli militari e, anche durante la Seconda guerra mondiale, Lehmann continuò a produrre giocattoli anziché dedicarsi alla manifattura di armamenti. Alla fine della guerra, la produzione riprese su scala ridotta e, con il nome di «VEB Mechanische Spielwaren Brandenburg»,
Al piano superiore del museo si trova la parte più recente della collezione, con oltre 700 oggetti rappresentativi della produzione di giocattoli degli ultimi cinquant’anni. Oltre ai «classici» moderni come i mattoncini Lego sono esposte le macchinine Schuco o Matchbox, le bambole Barbie, le figure Playmobil o il Game Boy. Preziose edizioni da collezione di ferrovie, modellini di auto, orsacchiotti, bambole o le fantasiose creazioni del produttore di giocattoli di latta Tucher & Walther dimostrano il ruolo crescente dei giocattoli anche nella vita degli adulti. Proprio a loro è rivolta quella che oggi è la più grande fiera internazionale del giocattolo del mondo, che si svolge ogni anno a Norimberga nel mese di gennaio. Informazioni www.spielwarenmesse.de Su www.azione.ch, si trova una più ampia galleria fotografica.
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azione
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Ricetta della settimana - Brasato di manzo al peperoncino ●
Ingredienti
Preparazione
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Ingredienti per 4 persone
1. Dimezzate i peperoncini per il lungo e privateli dei semini. Con un coltello appuntito infilzate la carne più volte e infilate mezzo peperoncino in ogni taglio. Salatelo tutt’intorno. Tagliate il sedano e i porri a bocconi. 2. Scaldate il forno statico a 180 °C. Fate rosolare la carne in un tegame capiente nell’olio a fuoco alto per circa 5 minuti. Togliete la carne dal tegame e, nello stesso fondo di cottura, fate rosolare le verdure. Unite il concentrato di pomodoro e fatelo rosolare, poi sfumate con il vino e lasciate ridurre un po’ il liquido. 3. Aggiungete il fondo di manzo, estraete le verdure e mettetele da parte. Accomodate nuovamente la carne nel tegame. L’arrosto dovrebbe essere immerso nel liquido per circa due terzi. 4. Coprite il tegame con il coperchio e lasciate cuocere la carne in forno a 180 °C per circa 90 minuti (prova cottura) finché si ammorbidisce. 5. Estraete la carne dal sughetto, avvolgetela nella carta alu e lasciatela riposare nel forno spento per circa 10 minuti. 6. Aggiungete le verdure messe precedentemente da parte nel sughetto e lasciate ridurre un po’ il liquido. 7. Affettate il brasato, accomodate le fette di carne sulle verdure e irrorate con la salsa. Infine, guarnite con il prezzemolo.
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10 peperoncini rossi 1,5 kg d’arrosto di manzo, ad esempio spalla 1 cc di sale 200 g di sedano rapa 200 g di porri olio per la cottura 1 cc di concentrato di pomodoro 5 dl di vino rosso 3 dl di fondo di manzo ¼ di mazzetto di prezzemolo
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Settimanale di informazione e cultura
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azione – Cooperativa Migros Ticino
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Templi e mare blu
Viaggio ◆ Hotelplan porta i lettori di «Azione», dal 4 al 12 maggio 2024, in tour nella Grecia classica e Meteore
Tagliando di prenotazione Desidero iscrivermi al tour in Grecia dal 4 al 12 maggio 2024 Nome Cognome
La Grecia è una terra entusiasmante che ama offrire tutta sé stessa ai propri visitatori. Il Paese ellenico è caratterizzato da un alternarsi di antichi templi riflessi nel blu del mare, suggestivi siti archeologici, monasteri, chiese, villaggi dove il tempo sembra essersi fermato e paesaggi indimenticabili, che conservano ancora oggi
i ricordi di un considerevole passato. Organizzato da Hotelplan in collaborazione con «Azione», si tratta di un viaggio di gruppo accompagnato da una guida italofona; ha la durata di 9 giorni (8 notti) e avrà luogo dal 4 al 12 maggio 2024. Tra le mete principali che saranno visitate, vi è ovviamente Atene, e poi
Corinto, Olimpia, Delfi, ma anche i monasteri di Meteore, che sembrano essere rimasti sospesi nel tempo. Ma non si starà solo sulla terra ferma: è prevista infatti anche una crociera per le isole di Saronico che incanterà i viaggiatori con un po’ di folclore grazie a intrattenimenti di musica e danze tipiche.
e il sito archeologico); Olimpia. 4. Olimpia – Arachova Visita dell’Antica Olimpia: il Santuario di Zeus Olimpio, l’Antico Stadio e il Museo Archeologico. Sosta a Patrasso; pomeriggio nel villaggio di Arachova, nei pressi del sito di Delfi. 5. Arachova – Delfi – Karditsa Visita sito archeologico di Delfi, segue la visita di Karditsa, piccola città situata a a circa 50 km dal complesso delle Meteore. 6. Karditsa – Meteore – Atene Visita dei monasteri di Meteore che si ergono sospesi tra cielo e terra, in cima a enormi rocce di granito, e che
conservano tesori storici e religiosi. Rientro ad Atene, con sosta al sito della battaglia delle Termopili. 7. Crociera per le isole di Saronico Giornata in mare tra e sulle isole del Golfo Saronico: Hydra, Poros e Aegina. Pranzo a bordo con intrattenimento di musica e danze tipiche. 8. Atene Visite nella capitale greca: l’Antica Agorà e il Museo Nazionale Archeologico, il più grande e il più ricco al mondo. 9. Atene – Linate – Ticino Volo verso Linate, via Roma e rientro in Ticino.
Bellinzona Viale Stazione 8a 6501 Bellinzona T 091 820 25 25 bellinzona@hotelplan.ch
Locarno-Muralto Piazza Stazione 8 6600 Muralto T 091 910 37 00 locarno@hotelplan.ch
Lugano Via Ferruccio Pelli 7 6900 Lugano T 091 910 47 27 lugano@hotelplan.ch
Giochi e passatempi Cruciverba
In realtà i repellenti per le zanzare non le respingono ma coprono il… termina la frase leggendo a soluzione ultimata le lettere evidenziate. (Frase: 6, 5, 10, 10)
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22. Varietà coltivata di vite 24. Spazi privi di materia 26. Noi in latino 27. Alberello delle Malvacee 28. Aspri diverbi VERTICALI 1. Lo scrittore Calvino 2. Bello in Inghilterra 3. Prefisso che viene dopo il «bi» 4. Un risultato calcistico 5. Levatisi, alzati 6. Se si nutre può accecare
Variante singola: SI
NO
La quota non comprende: Bevande; pasti non menzionati; tassa di soggiorno (da versare negli hotel, ~3 € a notte/a camera, salvo modifiche); mance per autista e guida; facchinaggio; spese personali; assicurazione contro spese d’annullamento; quanto non previsto ne «la quota comprende».
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10. Congegni bellici distruttivi 12. Particelle atomiche 13. Indumenti, abiti 14. Prefisso che vuol dire vino 15. Tesi quelli dell’esasperato 16. Simbolo chimico del tantalio 17. Conosciuti 19. Un goccetto soltanto! 20. Si dice mostrando 22. Composti Organici Volatili 23. Negazione inglese 25. Iniziali del poeta Saba
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Sistemazione desiderata (cerchiare ciò che fa al caso).
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La quota comprende: Trasferimento in pulmino sprinter privato dal Ticino a Linate e rientro; volo a/r in classe economica, via Roma; sistemazione in camera doppia standard presso gli hotel 4**** indicati (o similari); trattamento pasti come da programma; pullman privato durante le visite e i trasferimenti aeroportua-
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Sarò accompagnato da
li; guida privata italofona; escursioni e ingressi come da programma; auricolari per le visite; tasse aeroportuali e di sicurezza; documentazione di viaggio; accompagnatore Hotelplan dal Ticino.
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Prezzo per persona in camera doppia standard 2885.– CHF. Supplemento in camera singola standard 490.– CHF. Spese dossier Hotelplan CHF 100.–.
Scoprite i 3 numeri corretti da inserire nelle caselle colorate.
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L’itinerario può subire variazioni per ragioni tecniche operative pur mantenendo le visite previste nel tour. Il viaggio viene effettuato con un minimo di 15 partecipanti. Il prezzo è soggetto ad adeguamenti per fluttuazioni dei cambi valutari o supplementi carburante e/o tasse aeroportuali. Informazioni e prenotazioni nelle filiali Hotelplan Ticino.
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ORIZZONTALI 1. Intatto, integro 7. Scherzo balordo 8. Stanno in coda 9. Fu vittima di Polifemo 10. Si contano a scopa 11. Articolo 12. Otri... rovesciati 13. Lo è l’ostro 17. Si fanno tirando i capi 18. Eroe troiano 19. Presenti 21. Signore trasteverino
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Prezzo per persona
Il programma di viaggio 1. Ticino – Linate – Atene Trasferimento in pulmino a Milano Linate. Partenza per Atene via Roma. 2. Atene Atene: tour panoramico che include Piazza Syntagma, sede del Parlamento e in cui si trova la Tomba del Milite Ignoto, lo Stadio Panathinaiko, e l’Accademia. Pomeriggio visita dell’Acropoli e del suo Museo. 3. Atene – Corinto – Epidauro – Nauplia – Micene – Olimpia Al Canale di Corinto è prevista una sosta fotografica. Si prosegue per Epidauro (Teatro del IV secolo a.C.); Nauplia; Micene (Tomba di Agamennone
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Regolamento per i concorsi a premi pubblicati su «Azione» e sul sito web www.azione.ch I premi, tre carte regalo Migros del valore di 50 franchi, saranno sorteggiati tra i partecipanti che avranno fatto pervenire la soluzione corretta entro il venerdì seguente la pubblicazione del gioco. Partecipazione online: inserire la soluzione del cruciverba o del sudoku nell’apposito formulario pubblicato sulla pagina del sito. Partecipazione postale: la lettera o la cartolina postale che riporti la soluzione, corredata da nome, cognome, indirizzo del partecipante deve essere spedita a «Redazione Azione, Concorsi, C.P. 1055, 6901 Lugano». Non si intratterrà corrispondenza sui concorsi. Le vie legali sono escluse. Non è possibile un pagamento in contanti dei premi. I vincitori saranno avvertiti per iscritto. Partecipazione riservata esclusivamente a lettori che risiedono in Svizzera.
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Settimanale di informazione e cultura
Anno LXXXVI 11 dicembre 2023
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ATTUALITÀ ●
Se vengono «Prima i nostri!» Un saggio di Oscar Mazzoleni ci invita a riflettere sul legame tra territorio e democrazia spesso trascurato dalla politologia
Le ambizioni dell’Europa spaziale Dai programmi per il recupero dei detriti in orbita ai nuovi lanciatori, l’ESA non se ne starà con le mani in mano
Francia: nessuna grandeur in Africa Uno sguardo a un’area che sta vivendo una profonda trasformazione mentre il fuoco dell’attualità si concentra altrove
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Verso un nuovo Consiglio federale
Berna ◆ Il 13 dicembre il Parlamento deciderà la composizione del Governo. Chi sono Jon Pult e Beat Jans, i candidati socialisti alla successione di Alain Berset. Quali elementi possono rappresentare delle sorprese Roberto Porta
Quest’anno per parlare dell’elezione del Consiglio federale si potrebbe iniziare con un salto a Scuol. Lì è nato, 39 anni fa, Jon Pult, uno dei due candidati socialisti alla successione di Alain Berset. E sempre lì, nella località termale engadinese, nacque nel lontano 1863 Felix Calonder, finora l’unico consigliere federale romancio nella storia del nostro Paese. Finora, poiché Pult potrebbe presto seguirne le orme e riportare la quarta lingua nazionale in Consiglio federale. Ma per raccontare la vigilia di questa elezione si potrebbe anche fare un salto in una fattoria a due passi da Basilea dove l’altro candidato socialista nella corsa per un seggio in Governo, Beat Jans, dà ogni tanto una mano per permettere al contadino che gestisce quell’azienda agricola di poter andare in vacanza. Jans è oggi alla guida del Governo di Basilea-città ma non si è dimenticato del suo passato, nel suo curriculum vitae c’è anche un’iniziale formazione di agricoltore.
Chi prenderà la guida del Dipartimento federale dell’interno che dal 2012 è capitanato senza interruzioni da Berset? Per parlare dell’elezione e rielezione dei sette membri del nostro Governo si potrebbe però anche partire dalla cupola di Palazzo federale e dalle sue 22 finestre. Non è un aneddoto, ma un simbolo. L’architetto Hans Wilhelm Auer, che nel 1902 realizzò il «Bundeshaus», volle che le finestre alla base della cupola fossero per l’appunto 22, per rappresentare tutti i Cantoni di cui allora era composta la Confederazione, il Canton Giura si sarebbe aggiunto soltanto un’ottantina di anni più tardi. Finestre che lassù sulla cupola più ammirata del Paese richiamano ancora oggi al federalismo e alla diversità culturale della Svizzera. E questa è una delle carte principali che Jon Pult sta giocando nella sua corsa verso il Governo. In queste settimane il candidato grigionese va ripetendo di «voler essere eletto in Consiglio federale per rinnovare la pluralità del Paese e la coesione nazionale». E ha le carte per affermarlo, visto che padroneggia con grande abilità le quattro lingue nazionali, oltre all’inglese, e perché in questi suoi primi 39 anni di vita ha vissuto in diverse realtà del nostro Paese. Ciò detto, c’è chi ritiene che la sua età possa giocare a suo sfavore. Lui ricorda che pure Berset era entrato in Governo a 39 anni e che il suo cammino politico dura ormai da un ventennio. Laureato in storia e scienze politiche, Pult è consigliere nazionale da quattro anni,
Da sinistra: Beat Jans e Jon Pult. (Keystone)
ed è anche presidente della Commissione dei trasporti e delle telecomunicazioni del Consiglio nazionale. In altre parole si può dire che abbia bruciato le tappe, non capita spesso che la guida di una Commissione venga affidata a chi è alla sua prima legislatura a Berna. Ma al di là dell’anagrafe c’è un altro fattore che potrebbe smorzare le ambizioni del candidato grigionese. Su Pult rischia di pesare la sua passata appartenenza alla Gioventù socialista, da cui sono transitati anche gli attuali due co-presidenti del PS, Mattea Meyer e Cédric Wermuth. Agli occhi del fronte borghese Pult potrebbe essere visto come l’uomo della presidenza, troppo vicino alla linea dei vertici del partito e della loro decisa virata verso una sinistra sempre più rossa, in cui per la socialdemocrazia rimane poco spazio. Non per nulla in questa campagna il giovane candidato di Coira ha più volte fatto notare che le sue posizioni ricoprono oggi l’insieme del perimetro politico del partito. Insomma, socialista sì, ma anche pronto al compromesso. Proprio su questo punto l’altro candidato socialista non è stato di certo a guardare.
In diverse interviste Beat Jans ha voluto sottolineare di essersi iscritto al PS solo dopo i 30 anni, quando ormai era troppo tardi per aderire alla Gioventù socialista. Jans gioca soprattutto la carta dell’esperienza politica. Nato nel 1964, il ministro basilese ha in tasca un diploma di ingegneria ambientale e può esibire un lungo percorso politico. È stato per dieci anni, fino al 2020, consigliere nazionale e per cinque vice-presidente del partito socialista a livello nazionale. Dal 2021 guida il Governo del suo Cantone. Se eletto dice di voler mettere l’accento in particolare sulle relazioni con l’Unione europea e sulla parità di genere, lui che a Basilea ha cesellato una legge in favore di tutte le minoranze sessuali e del riconoscimento della fluidità di genere. Una normativa che in un primo tempo prevedeva di stralciare dai documenti ufficiali del Canton Basilea ogni riferimento ai termini di «uomo» e «donna», in favore di espressioni più neutre. La legge è ora al vaglio del Gran Consiglio basilese. Una posizione che potrebbe costare a Jans i voti di una parte della destra, non per nulla l’UDC prevede nel suo programma un’azione di contrasto a
quella che i democentristi chiamano l’«ideologia gender». In ogni caso, vada come vada questa sfida in casa socialista, la storia del nostro Paese ci insegna che questo tipo di elezione può portare con sé insidie e possibili sorprese, visto che ognuno dei 246 membri delle Camere federali è di fatto libero di votare come meglio preferisce. Nello specifico un altro socialista potrebbe racimolare qualche decina di preferenze e aprire dinamiche oggi del tutto imprevedibili, nei diversi turni elettorali che portano alla nomina di un ministro. E qui stiamo parlando del senatore zurighese Daniel Jositsch, ufficiosamente già in corsa un anno fa per la successione a Simonetta Sommaruga e oggi informalmente ancora lì, pronto all’agguato. Ma con poche speranze di poter davvero andare a segno. Stesso discorso per l’ex capo-gruppo del PS, il vodese Roger Nordmann. C’è poi un’altra incognita, quella che ruota attorno a Ignazio Cassis. Seppur usciti malconci dalle elezioni federali di ottobre, i Verdi presentano un loro candidato, il friburghese Gerard Andrey, che attaccherà pro-
prio il seggio del ministro ticinese. Un’ambizione che non dovrebbe lasciare il segno, in uno scrutinio in cui però potrebbe inserirsi a sorpresa anche il presidente del Centro Gerhard Pfister. Il diretto interessato giura e spergiura che questo non accadrà, nonostante il suo partito sia ormai la terza forza a Berna per numero di parlamentari eletti. E potrebbe ambire a riconquistare il secondo seggio in Governo, ai danni proprio del PLR. In ogni caso a elezione terminata ci sarà un interrogativo di peso a cui dare una risposta: chi prenderà la guida del Dipartimento federale dell’interno che dal 2012 è ininterrottamente guidato da Alain Berset? E, secondo quesito, questo Dipartimento rimarrà in mano socialista? La Svizzera è probabilmente l’unico Paese democratico al mondo ad avere avuto lo stesso ministro dell’Interno per un periodo così lungo. Un’eccezione elvetica da cui occorrerà ripartire, anche perché al Dipartimento dell’interno non mancano i cantieri aperti, a cominciare dai costi della salute e dal finanziamento delle nostre pensioni. Avanti il prossimo, e soprattutto tanti auguri!
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Aggrappati alla propria patria
Il saggio ◆ Oscar Mazzoleni ci invita a riflettere sul legame tra territorio e democrazia spesso trascurato dalla politologia Orazio Martinetti
C’è chi fa politica e c’è chi la politica la studia. Oscar Mazzoleni appartiene a questa seconda categoria. Dal suo Osservatorio della vita politica (ubicato prima a Bellinzona e ora annesso all’università di Losanna) scruta con occhi scientifici quanto avviene nella sfera della politica, dalle strategie dei partiti alle scelte delle istituzioni. La sua già ampia bibliografia comprende titoli in italiano, francese, inglese, opere specialistiche ma anche volumi di carattere divulgativo, come i saggi sulla «nuova» Udc guidata da Blocher o sui rapporti non sempre sereni tra il Ticino e l’amministrazione federale (Berna è lontana? Il Ticino e il nuovo regionalismo politico). Mazzoleni ha pubblicato presso Mondadori, nella collana «Lessico democratico», un mini-trattato incentrato sul tema Territorio e democrazia. In pagine molto dense di concetti e di riferimenti, l’autore invita a riflettere su un legame che la politologia ha spesso trascurato perché abituata a calare le sue diagnosi in perimetri più vasti, come quello nazionale, continentale o globale. All’indomani del collasso del blocco sovietico si è infatti pensato che l’orizzonte della politica non conoscesse più ostacoli, alimentato da un neoliberismo trionfante, fondato sul libero scambio di manodopera, merci, capitali, servizi. Il mondo è piatto, si disse, e chi non condivideva tale visione era condannato all’emarginazio-
ne e al declino. Un cammino ritenuto inarrestabile, di pace e cooperazione, che avrebbe fortemente ridimensionato anche lo Stato nazionale, per secoli attore indiscusso delle relazioni internazionali. E dunque via le frontiere, controlli doganali ridotti al minimo, libera circolazione. Mazzoleni dimostra invece che tutta questa narrazione, spacciata come progresso universale, non teneva conto delle domande e delle ansie delle singole comunità, che infatti reagirono, sfruttando anche le falle del sistema economico-finanziario dopo i rovesci del 2008-2009. La reazione prese di mira le élites globali come pure le multinazionali che operavano su scala sovranazionale abbandonando al loro destino chi cadeva fuori dalle catene del valore, i vinti delle desertificazioni industriali, le maestranze non più in grado di reggere la concorrenza cinese, la forza-lavoro scarsamente qualificata. È a questo stadio che la politica rientra in gioco, cavalcando il potenziale di rabbia presente nei ceti sociali a rischio povertà. A salire sulle barricate non è però la sinistra socialdemocratica (che anzi è ritenuta corresponsabile dei guasti), ma le formazioni collocate alla sua destra e alla sua estrema sinistra, ostili all’Unione europea e all’euroburocrazia di Bruxelles. Si fa quindi largo una contro-narrazione imperniata sul territorio, che diventa lo spazio fortificato da cui con-
La barriera tra Usa e Messico a Brownsville, in Texas. Il territorio diventa lo spazio fortificato da cui contrastare le insidie provenienti dall’esterno. (Keystone)
trastare le insidie provenienti dall’esterno: l’imposizione di norme e regole elaborate altrove, la pressione migratoria (profughi), l’afflusso di salariati a basso costo. Da preteso dato naturale, il territorio diventa così presidio di resistenza, muro difensivo, luogo degli affetti primari, scrigno di valori unici e atavici, tradizioni da salvaguardare. La Lega Nord di Bossi (il leader) e di Gianfranco Miglio (l’ideologo) è stata una delle prime formazioni a far leva su questi sentimenti legati alla piccola patria, collocando il Veneto e la Lombardia in un’ideale quanto immaginaria «Padania». Mazzoleni parla in proposito di «populismo territoriale», di uso politico di aree che si presup-
pongono omogenee dal punto di vista etnico, linguistico, religioso. Il territorio così inteso e idealizzato ha fatto le fortune anche della Lega dei Ticinesi, nella persuasione che i mali del Ticino derivassero da un’eccessiva apertura sia verso nord (i balivi di Berna), sia verso sud (l’esercito dei frontalieri italiani). Una propaganda efficace, che ha prodotto consensi e voti, ma che ora, a oltre trent’anni dalla fondazione del movimento, deve arrendersi alla realtà: ottantamila lavoratori/lavoratrici che ogni giorno valicano la frontiera, una popolazione residente che, nonostante il calo della natalità, si avvia a toccare le quattrocentomila anime. Ma questi sono mi-
cro-fenomeni dentro un contesto ben più largo, come i fermenti che scuotono la Spagna (Paesi Baschi, Catalogna) o il Regno Unito (Scozia). La volontà di aggrapparsi al territorio come a un’ancora di salvezza è stata inoltre decisiva nel voto inglese sulla Brexit, come spiega anche Gianmarco Ottaviano nel volume Geografia economica dell’Europa sovranista (Laterza). Si deve allora concludere che lo Stato nazionale con tutti i suoi poteri abbia perso il suo primato? Nient’affatto, risponde Mazzoleni. La pandemia di Covid-19 ha anzi esaltato il suo ruolo e le sue funzioni gestionali e regolatrici, e questo anche nella Confederazione, giacché ha permesso alle autorità centrali di intervenire con tempestività, sopperendo alle carenze e alle esitazioni dei Cantoni. Il moto insomma non è a senso unico. L’enfasi sul territorio dà certamente frutti sul piano elettorale, ma poi emergono i limiti di una concezione che spesso rimane nel vago. Come la retorica sull’Europa delle regioni, o sulla Svizzera delle macro-regioni. Tant’è vero che un po’ ovunque il nazionalismo ha rialzato la testa sotto le bandiere del sovranismo, e non soltanto nei paesi dell’est. Bibliografia Oscar Mazzoleni, Territorio e democrazia. Crisi e attualità di un legame. Mondadori Education, Milano, 2022. Annuncio pubblicitario
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Le ambizioni dell’Europa spaziale
Progetti ◆ Dai programmi per il recupero dei detriti in orbita ai nuovi lanciatori, l’ESA non se ne starà con le mani in mano Loris Fedele
«Lo spazio oggi non è più solamente sinonimo di scienze spaziali e di esplorazione umana o robotica. Lo spazio assume ormai un ruolo di importanza strategica per la prosperità delle Nazioni». Sono le parole di Josef Aschbacher, direttore generale dell’Agenzia Spaziale Europea (ESA), pronunciate all’indomani del Consiglio ministeriale tenutosi il 6 e 7 novembre scorsi a Siviglia. Ogni anno tutti gli alti funzionari degli Stati membri dell’ESA si riuniscono verso la fine dell’anno per prendere importanti decisioni sul programma spaziale e sugli stanziamenti da effettuare per poterlo realizzare. Questa volta si volevano definire le ambizioni dei prossimi anni per lo sfruttamento dello spazio al fine di vedersi garantito, come Nazioni europee, un accesso autonomo allo spazio stesso, preparando una prossima generazione di lanciatori più competitivi rispetto a quelli attuali.
L’ESA lavora a nuovi lanciatori. Nell’immagine: un razzo Ariane nello spazioporto europeo nella Guyana francese, aprile 2023. (Keystone)
L’ESA, di cui fa parte anche la Svizzera, è stata fondata nel 1975 come organizzazione intergovernativa «La politica spaziale è anche la politica climatica, la politica industriale e quella della sicurezza», ha dichiarato Aschbacher. «Le sfide sono globali e per fronteggiarle le attività spaziali giocano un ruolo essenziale, che figura in agenda di molti negoziati internazionali. L’Europa deve riaffermare la sua importanza in questo contesto e prendere una parte molto attiva nelle discussioni che verranno». Per la verità l’Agenzia Spaziale Europea è stata sempre molto attiva nel quadro internazionale. Però, quando fu fondata nel 1975 come organizzazione intergovernativa, della quale fin dall’inizio ha fatto parte anche la Svizzera, sapendo di non poter competere a livello di disponibilità finanziarie e su certi campi di ricerca, l’ESA scelse di lasciar perdere i voli abitati e di concentrarsi sui voli strumentali, specializzandosi nel lancio dei satelliti dei quali sarebbe presto diventata leader mondiale. Questo fece sì che presso il grande pubblico, che fin dall’inizio aveva associato l’astronautica alla presenza di persone nello spazio, ci fosse meno visibilità o meno attenzione per l’Europa e i suoi successi. Tuttavia oggi tutti si rendono conto che per spianare la strada all’uomo e alla donna nello spazio ci vogliono le macchine, vedi i robot su Marte o le sonde sulla Luna. Inoltre, tutti hanno verificato di persona i vantaggi portati nella nostra vita dai satelliti di servizio: per la meteorologia, le comunicazioni, la navigazione aerea e marittima, il controllo dallo spazio delle catastrofi naturali, per le ricadute tecnologiche sulla Terra in campo
medico, tecnico e scientifico. Il mondo è diventato più dipendente che mai dalle tecnologie spaziali. Oggi siamo all’ennesimo punto di svolta. Nella scena internazionale sono arrivati dei danarosi privati che con i loro lanciatori e le loro iniziative nei settori delle teletrasmissioni fanno concorrenza alle Agenzie spaziali nazionali e internazionali. In più oggi c’è la questione ambientale che sta introducendo nuove variabili nei programmi futuri, sia per l’esplorazione dello spazio sia per l’osservazione della Terra. Le risorse economiche di tutti non sono illimitate e quindi la comunità internazionale dovrà fissare delle priorità. Ma chi è la comunità internazionale? In un mondo dove gli affari e il denaro sembrano condizionare qualsiasi scelta, chi può decidere che cosa?
Negli ultimi anni tutti hanno verificato di persona i vantaggi portati nella nostra vita dai satelliti di servizio Per parte sua, l’Europa spaziale a Siviglia ha preso atto che il contesto nel quale opera è considerevolmente evoluto negli ultimi anni e che ancora più
velocemente cambierà nell’immediato futuro, soprattutto dopo la messa fuori servizio della Stazione spaziale internazionale, prevista nel 2030. La nuova economia nelle orbite terrestri basse sta condizionando l’esplorazione spaziale, mentre le imprese private stanno cambiando l’approccio allo spazio in tutti i settori, dai lanciatori allo sfruttamento delle opportunità spaziali. La presenza sempre crescente di satelliti attorno al nostro pianeta con la conseguente creazione di innumerevoli detriti spaziali di diversa misura e pericolosità preoccupa l’ESA, che ha lanciato alla Conferenza di Siviglia una competizione tra le imprese innovatrici del settore basate in Europa affinché sviluppino un servizio di ritorno sulla Terra delle scorie spaziali. L’obiettivo è di affidare a un partner commerciale europeo, entro il 2028 e con un nuovo veicolo, sia il recupero dei detriti spaziali, sia l’approvvigionamento della Stazione spaziale. Questo veicolo dovrà in seguito trasformarsi in una versione abitabile, al servizio di necessità future. Il finanziamento per il triennio 2023-2025 per i programmi di ricerca e sviluppo dell’ESA era già stato fissato l’anno scorso in 16,9 miliardi di euro. La competizione appena lan-
ciata stanzia ulteriori somme e cerca di acquisire nuovi finanziamenti privati. Si prospetta un approccio molto ambizioso in materia di trasporto spaziale con l’aggiunta di nuovi lanciatori, oltre al grande Ariane 5 e al piccolo Vega C, concepiti e sviluppati negli anni passati. L’ESA deve assolutamente conservare le proprie competenze tecniche e industriali proponendo sul mercato internazionale nuovi modelli, concorrenziali sul piano tecnico ed economico. Per questo è quasi pronto il nuovo Ariane 6 e si sta per sviluppare Vega E. Ricordo che lo spazioporto di Kourou, nella Guiana francese, dal quale lancia l’Agenzia spaziale europea, è il migliore del mondo per situazione geografica. Si trova a soli 5 gradi a nord dell’equatore, i lanci verso est guadagnano quasi il massimo aumento di velocità possibile dalla rotazione della Terra, migliorando così la capacità di portare in orbita i satelliti per qualsiasi tipo di razzo che parta da lì. Ariane 6 è pronto, dovrebbe compiere il suo primo volo nel luglio 2024. È in competizione con Space X di Elon Musk la cui filosofia, volta al riutilizzo, sta lentamente rivoluzionando il concetto di lanciatore, abbattendo i costi di messa in orbita. La francese Arianegroup, che ha prepa-
rato Ariane 6, punta invece su un design di razzo non riutilizzabile ma di tipo modulare, cosa che permette di diminuire i costi operativi: basti pensare che uno dei quattro razzi ausiliari a combustibile solido che spingono Ariane 6 al decollo, si impiega anche come primo stadio di Vega, il lanciatore leggero meno costoso sviluppato dall’italiana Avio, usato per piccoli satelliti.
L’ESA ha preso l’impegno di realizzare le sue attività spaziali con un’attenzione massima alla sostenibilità del pianeta Il Consiglio dell’ESA ha ufficialmente preso l’impegno di realizzare le sue attività spaziali con un’attenzione massima alla sostenibilità del pianeta, puntando alla decarbonizzazione e coprendo gli ulteriori finanziamenti per il programma Copernicus, che come si sa utilizza enormi quantità di dati globali provenienti da satelliti e da sistemi di misurazione terrestri, aerei e marittimi, per fornire gratuitamente informazioni a tutti, dai prestatori di servizi alle autorità pubbliche, al fine di migliorare la qualità della vita. Annuncio pubblicitario
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ATTUALITÀ
Il sogno franco-africano si è infranto
Sahel ◆ Uno sguardo a un’area che sta vivendo una profonda trasformazione mentre il fuoco dell’attualità si concentra altrove Alfredo Venturi
C’è una vasta area geopolitica africana, il Sahel che, mentre il fuoco dell’attualità si concentra altrove, sta vivendo una profonda trasformazione. In quella vasta area geopolitica sta venendo meno la secolare egemonia della Francia. Una lingua comune, una valuta comune: è stato sulla base di questi presupposti che Parigi ha ritenuto di poter conservare la sua posizione di controllo in quell’area. L’illusione è crollata lo scorso 26 luglio a Niamey, la capitale del Niger affollata di profughi della siccità, dove la guardia presidenziale ha deposto il capo dello stato Mohamed Bazoum e come primo atto di Governo ha invitato i militari francesi a lasciare immediatamente il Paese. Sono circa 1500 uomini, ufficialmente dispiegati per combattere le formazioni jihadiste. Parigi ha accettato di negoziare con i golpisti il ritiro delle truppe, che di fatto è cominciato lo scorso ottobre con la partenza dei primi reparti verso il Ciad, l’ultimo alleato di Parigi nella regione.
Quegli stessi Paesi in cui la povertà è una componente dell’aria che si respira, sono ricchissimi di risorse minerarie Immediatamente il fronte africano si è diviso: da una parte il Mali, il Burkina Faso e la Mauritania si sono schierati al fianco della giunta militare di Niamey, dall’altra un gruppo di Paesi guidati dalla Nigeria ha preso posizione contro. E così, sulla vasta regione già tormentata dalla siccità, dalla carestia e dal radicalismo islamico, alimentato dalla storica spaccatura del Sahel fra un sud animista e un nord musulmano, si profila lo spettro della guerra. Intanto i golpisti del Niger assicurano per l’ex presidente Bazoum, che continua a considerarsi un prigioniero politico, un esemplare processo per alto tradimento. E così la crisi umanitaria che da tempo affligge il Niger e i Paesi confinanti s’intreccia con la crisi
politica e militare, con tutte le conseguenze del caso sugli sforzi della solidarietà internazionale volti a soccorrere le genti del Sahel. Va da sé che interessi neanche tanto oscuri si agitano alle spalle di questi eventi, ricacciando sullo sfondo tutto ciò che non è traducibile in potere e denaro. Quegli stessi Paesi in cui la povertà è una componente dell’aria che si respira, sono ricchissimi di risorse minerarie, dal ferro all’uranio, dal carbone ai fosfati, dall’oro al petrolio, fino a quei metalli rari di cui si alimentano la tecnologia informatica e le telecomunicazioni. Contratti capestro hanno garantito fino a ieri alla Francia un facile accesso a queste ricchezze e certo Parigi non le considerava secondarie rispetto alla minaccia jihadista contro la quale aveva schierato le sue truppe. Per di più si registra sulla scena africana il crescente attivismo di Paesi come la Russia e soprattutto la Cina, accusati dopo il golpe nigerino di attaccare la Francia e servirsi delle sue difficoltà al solo scopo di soppiantarla nello sfruttamento delle risorse locali. Gli oppositori più ostili parlano addirittura di tentativi di ricolonizzazione del Continente. Certo non bastano la lingua e la valuta comuni a conservare l’influenza francese su quella regione così instabile. Il franco CFA, presente nell’area in due distinte comunità finanziarie, si regge sul fatto che per compensare la convertibilità assicurata da Parigi sul cambio con l’euro ognuno dei Paesi coinvolti versa nelle casse della Banca di Francia almeno i due terzi delle sue riserve. In pratica cedendo le leve della propria politica valutaria. Una situazione che rischiò di provocare un incidente diplomatico tra Francia e Italia, già ai ferri corti per i respingimenti oltre confine dei migranti clandestini. Accadde quando Luigi Di Maio, allora vicepresidente del Consiglio a Roma, lo stesso che qualche tempo prima si era schierato a favore di quei gilets jaunes che erano la bestia nera del presidente Emmanuel Macron, accusò Parigi di
Convogli militari francesi che lasciano Niamey, Niger, nell’ottobre scorso. (Keystone)
essere responsabile, proprio attraverso la gestione del franco CFA, della crisi economica e sociale nel Sahel. Quel che è certo è che il passaggio dall’antico Empire francese, che nei suoi anni splendenti arrivò a superare nei cinque Continenti i tredici milioni di chilometri quadrati, a quella che fu chiamata Unione francese e poi ancora Comunità francese, certificò la progressiva rinuncia della madrepatria ai suoi privilegi coloniali. I territori fino ad allora amministrati da Parigi pretesero e ottennero il diritto di dichiararsi indipendenti. Tutti tranne uno, l’Algeria, in cui viveva una forte componente di popolazione metropolitana. Nel tentativo di conservarla, Parigi l’aveva trasformata in un pezzo di Francia annettendola e suddividendola in regioni e prefetture. Per questo l’Algeria poté conquistare la sovranità nazionale soltanto con una lunga guerra, insieme colo-
niale e civile, e con la decisione del generale Charles de Gaulle di recidere un legame non più sostenibile. Resta il retaggio storico della francofonia, importante tratto superstite del collegamento fra l’Esagono e il suo antico universo coloniale. Una radice tenace di cui andavano fieri, vantandone la valenza identitaria, personaggi come il senegalese Léopold Sédar Senghor, che fu un raffinato poeta in lingua francese membro dell’Académie, o l’ivoriano Félix Houphouët-Boigny, teorico di una politica che i critici chiamarono Françafrique. Entrambi con doppia cittadinanza, non a caso furono ministri nei Governi gollisti prima di assumere la presidenza dei rispettivi Paesi divenuti indipendenti. Restavano i legami economici e culturali sorretti dalla lingua e dalla moneta, ma il declino di ciò che rimaneva della Francia coloniale appariva ormai inevitabile.
A differenza delle colonie britanniche, che si basavano sul principio dell’indirect rule, cioè del potere formalmente delegato alle autorità tradizionali, il sistema francese aveva perseguito l’obiettivo dell’assimilazione. Negli anni dell’Empire e anche nei successivi, quando ormai il sogno franco-africano si allontanava inesorabilmente dall’orizzonte dell’attualità, l’amministrazione coloniale distribuiva nei territori di sua competenza testi scolastici di storia della Francia identici a quelli in uso nelle scuole metropolitane. Cominciavano con un capitolo che s’intitolava, riprendendo una massima del buon tempo antico, Nos ancêtres les Gaulois. I Galli, nostri antenati. Il ragazzino africano doveva faticare non poco a riconoscersi nel grande guerriero biondo dell’illustrazione. Questo, il mio antenato? Ma intanto imparava a scrivere e parlare con la lingua di Molière e Balzac. Annuncio pubblicitario
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IMPASTARE CON LA PURASPELTA Che differenza c’è tra la spelta e la «PuraSpelta»? La spelta è un tipo di cereale, «PuraSpelta» è un marchio che sta per la vera spelta svizzera, non incrociata con il frumento moderno, e questo al 100 per cento. Per contro, per i prodotti a base di spelta dal punto di vista legale è sufficiente un contenuto di spelta del 50%. Come posso sostituire la farina bianca con la farina di «PuraSpelta»? Oggi la spelta è sempre più coltivata, anche perché è meglio tollerata da molte persone. Nelle ricette con farina di frumento, questa può di norma essere sostituita 1:1 dalla farina di «PuraSpelta». Questa è più appiccicosa e rende gli impasti più morbidi. È quindi consigliabile lavorare l’impasto per biscotti a base di farina di «PuraSpelta» possibilmente a freddo.
Baci alle bacche per circa 50 pezzi • • • • • •
40 g di nocciole macinate 100 g di burro morbido 60 g di zucchero a velo 4 tuorli 1⁄2 bustina di zucchero vanigliato 225 g di farina di PuraSpelta chiara • un po’ di farina di PuraSpelta per formare i biscotti • ca. 50 g di confettura di lamponi o di gelatina di ribes • zucchero a velo per spolverare Come procedere
1. Tosta le nocciole in una padella antiaderente senza aggiungere grassi, finché emanano un buon profumo. Lascia raffreddare su un piatto. 2. Lavora il burro, lo zucchero a velo, i tuorli e lo zucchero vanigliato con uno sbattitore elettrico fino a ottenere un composto chiaro e spumoso. Incorpora le nocciole e la farina e impasta velocemente gli ingredienti. Su poca farina, forma con l’impasto dei bastoncini e tagliali a pezzetti. Forma delle palline della grandezza di una noce e accomodale su una teglia foderata con carta da forno. Forma al centro di ogni pallina un incavo usando il manico di un mestolo. Metti in frigo per 30 minuti.
Foto: Migusto/Pia Grimbühler
3. Preriscalda il forno a 150 °C. Riempi gli incavi con la confettura o la gelatina. Cuoci i biscotti al centro del forno per ca. 20 minuti. Spolverizzali caldi con abbondante zucchero a velo.
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CULTURA ●
Bellinzona cornice di un crime intenso Intervista all’attore italiano Gian Marco Tognazzi protagonista del poliziesco Alter Ego girato nel bellinzonese in onda su RSI LA1
Un Napoleone deludente Non convince il kolossal da 200 milioni di dollari di Ridley Scott: il condottiero che ha cambiato la storia è privo di energia, come Joaquin Phoenix che lo interpreta
Pagina 39
Pagina 41 ◆
Le storie di Veronica Raimo, occasione di libertà
Intervista ◆ La scrittrice italiana, già vincitrice del Premio Strega Giovani, è da poco tornata in libreria con La vita è breve, eccetera Laura Marzi
Dalla nota finale si evince che la raccolta contiene testi non tutti coevi: alcuni sono recenti, la maggior parte, mentre altri risalgono a vari anni fa. Rileggendo i racconti più lontani nel tempo, rispetto alla scrittura, allo stile e alla stessa trama prevale in lei l’estraniamento o il senso di appartenenza? In realtà le due sensazioni sono molto mischiate, e non so bene quale prevalga. Credo sia lo stesso tipo di strano equilibrio, o forse sarebbe meglio dire squilibrio, che si ha rivedendo delle foto del nostro passato. Possiamo avere gli occhi del rimpianto per quello che non c’è più, o una forma di imbarazzo per cose che oggi ci appaiono ridicole. Di sicuro mi rendo conto di aver perso una certa fede nella letteratura, nella possibilità di creare trame arzigogolate o personaggi da manovrare come fossi una grande burattinaia. I racconti più antichi hanno ancora questa pretesa, questo incantamento. Quelli più recenti proprio no. Le protagoniste dei suoi racconti hanno rapporti e a volte godono anche: questo aspetto risulta eccentrico rispetto alla consuetudinaria rappresentazione del sesso, descritto per lo più in modo romantico o tragico. Crede che la difficoltà nella narrativa italiana contemporanea di raccontare il desiderio e il piacere femminili sia specchio di una residua difficoltà nella vita reale ad agire la liberazione sessuale? Purtroppo temo di sì. Si è accettato per anni che fossero gli uomini a raccontare il desiderio, anche quello femminile. Oggi che per fortuna ci sono molti più romanzi scritti da donne a imporsi nel mercato (mi spiace tirare fuori la parola mercato, ma di questo si parla, le donne prima scrivevano lo stesso, ma il mercato non se le filava), il desiderio femminile raccontato dalle scrittrici deve seguire una parabola intrinsecamente emancipatoria (una storia di riscatto da una sopraffazione patriarcale) o sentimentale (una storia di coronamento romantico) per essere accettata. Se una donna fa sesso e prova
Bain di Douglas Stuart, e sicuramente anche il Nobel a Annie Ernaux, abbiano creato una richiesta di storie autobiografiche a partire da un vissuto sociale di subalternità e al tempo stesso abbiano generato una sorta di paranoia intorno al proprio privilegio di classe da parte di autori e autrici che non potevano rivendicare quel vissuto, tanto che a un certo punto hanno cominciato a fabbricarlo. Per com’è la storia del nostro Paese, non sarà così difficile andare a ripescare nonni contadini o nonne dedite a vendere patate al mercato, e ci è sembrato che quello potesse di per sé bastare a ripulirci dal nostro pedigree borghese.
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«La sperimentazione è considerata nociva, cioè ci si aspetta che un autore o un’autrice, dopo un romanzo di successo, ripeta quella formula magica all’infinito, o almeno per quella fetta di infinito che il mercato ha deciso di accordargli»: abbiamo incontrato Veronica Raimo autrice di Niente di vero (Einaudi, 2022), romanzo di grande successo, vincitore del Premio Strega Giovani e del Premio Viareggio. Con lei abbiamo dialogato del suo nuovo libro, la raccolta di racconti uscita a ottobre per Einaudi: La vita è breve, eccetera.
piacere al di fuori di questi due frame, viene vista come una provocazione, o peggio ancora come un’esperienza di per sé degradante. «Dove abbiamo sbagliato? – La prima volta che ho sentito un amico formulare ad alta voce questa domanda, ho capito che era finito il nostro tempo. – Dài, che possiamo sbagliare ancora, – ho detto ridendo». Si tratta di un dialogo contenuto nel racconto Possiamo sbagliare ancora. A cosa addebita questa paura dell’errore e un’ansiosa ricerca del benessere che attanagliano la sua generazione? Non so se sia stato l’avvento dei social a generare questa paura di sbagliare, cioè le possibili «shitstorm» e cancellazioni rispetto a un passo falso. C’è un’autrice che amo molto, Ursula K. Le Guin, che a distanza di dodici anni è tornata su uno dei suoi saggi più famosi: Il genere è necessario? Per smentire sé stessa e ammettere di aver sbagliato rispetto alla propria avversione per quello che oggi chiamiamo linguaggio inclusivo. Ammiro molto chi è aperto di fronte alla possibilità di cambiare idea o di ammettere un errore. Credo che in questo la traduzione mi abbia aiutato molto, cioè la consapevolezza che non esiste un solo modo giusto di tradurre un testo, e che qualsiasi traduzione è perfettibile e soggetta a cambiamenti. Nel racconto Non si guardano i nani, per esempio il cane Gino strappa a chi legge risate piene, vere,
non solo semplici sorrisi. Si è scorbellata anche lei componendolo? Più in generale si diverte mentre scrive testi che per chi legge sono molto spassosi? Non parlerei proprio di divertimento, ma quando mi sembra che qualcosa funzioni a livello comico sicuramente ho un senso di soddisfazione piuttosto tangibile, che è molto più complesso da avere quando si scrive qualcosa che non è pensato per avere quell’effetto. Ed è una cosa molto piacevole da provare, perché spesso scrivere invece è un’operazione frustrante, che ti mette in una costante condizione di incertezza. Poi nello specifico il cane Gino è un personaggetto che mi ha dato la possibilità di creare una distrazione all’interno del racconto per lasciare in sospeso una tensione che rischiava di essere troppo automatica. Non sono una grande amante della suspence, quindi mi piaceva inserire il diversivo di un cane pazzo. Nella sua raccolta echeggia spesso il tema della separazione, della rottura di una coppia, mentre è quasi del tutto assente la narrazione del dolore della solitudine. In effetti le due esperienze seppur correlate e spesso sovrapposte non coincidono. Ce ne parla? In realtà me ne rendo conto ora che me lo fa notare, e mi sembra un’ottima osservazione, ma mi lascia un po’ spiazzata. In generale il rimpianto è sempre un innesco narrativo delle mie storie, anche se poi spesso ci
si ritrova a rimpiangere qualcosa che in realtà non soltanto non desideriamo più, ma che ci creerebbe anche un bel problema ad avercelo. Quindi per me il dolore della solitudine è il dolore del rimpianto, che si trasforma comunque in una pienezza, perché è appunto la forma che assume il desiderio. Nel racconto Totò una delle due protagoniste si ammanta della povertà come se fosse un vanto e lo fa senza remore nei riguardi di chi invece si trova in una condizione di reale disagio economico: la sua compagna, per esempio. Perché, nonostante gli epocali rivolgimenti politici e culturali, come già notava Cristina Campo nel 1962, ancora oggi per essere considerati degli intellettuali degni si sente il bisogno di rivendicare umili origini? Mi fa molto sorridere questa domanda, e non so bene quale sia la motivazione che c’è dietro, soprattutto considerando che per anni le case editrici mainstream hanno pubblicato storie di vite borghesi (anzi altoborghesi) scritte da autori (alto) borghesi. Temo che come accade per molti fenomeni, il nuovo interesse per la letteratura working class derivi da una presa di coscienza nata in ambito anglofono. La stessa cosa che è avvenuta per la letteratura queer. Ovviamente è un bene che vengano immesse nel mercato voci diverse, ma al tempo stesso è sempre scivoloso il processo di appropriazione. Credo che il Booker Prize a Shuggie
Vige la convinzione che le raccolte di racconti abbiano, al di là della loro effettiva qualità, poca presa sul pubblico. La sua raccolta sta sfatando questo pregiudizio. C’è in effetti un piacere nella lettura dei racconti, un’occasione di libertà, per esempio nel rapporto con personaggi e personagge, che non è data dai romanzi. Che ne pensa? Sono sempre stata una grande lettrice di racconti, e credo che certe storie possano trovare la loro dimensione ideale solo all’interno di una narrazione breve. L’interesse del mercato per i romanzi mi sembra che abbia una storia piuttosto recente. Solo vent’anni fa erano molte le case editrici a investire su autori e autrici di racconti, sia italiani che stranieri. Poi qualcosa è cambiato, e il romanzo si è imposto come «prodotto» commercialmente più appetibile. Ma non solo, è come se uno scrittore o una scrittrice adesso possa definirsi tale soltanto se affronta la «grande» prova del romanzo, e a quel punto i racconti finiscono per rappresentare una sorta di palestra, o di gavetta, in vista del traguardo reale. Lo considero un modo sbagliatissimo di vedere le cose, che crea una gerarchia fasulla tra le varie forme di espressione letteraria. C’è una scrittrice che è sempre stata un punto di riferimento per me, Ingeborg Bachmann, e nella sua produzione troviamo radiodrammi, poesie, opere teatrali, saggi, racconti e romanzi. Oggi l’idea che chi scrive possa sperimentare in diversi ambiti è visto invece come un problema, come se fosse una dispersione artistica. Ma forse più in generale la sperimentazione è considerata nociva, cioè ci si aspetta che un autore o un’autrice, dopo un romanzo di successo, ripeta quella formula magica all’infinito, o almeno per quella fetta di infinito che il mercato ha deciso di accordargli. Bibliografia Laura Marzi, La vita è breve, eccetera, Einaudi, Torino, 2023.
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Settimanale di informazione e cultura
Anno LXXXVI 11 dicembre 2023
39
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CULTURA
«Una Bellinzona immersa in un crime intenso»
Serie ◆ Intervista all’attore Gian Marco Tognazzi protagonista di Alter Ego, poliziesco girato nel bellinzonese, in onda su RSI LA1 Nicola Mazzi
«Mi è piaciuto molto il modo di lavorare che esiste ancora in Ticino e che mi ricorda molto il cinema italiano di mio padre» La serie è diretta da Erik Bernasconi e Robert Raltson alla loro prima esperienza in questo tipo di produzioni. Invece, il protagonista principale, Leonardo Blum, il commissario a capo dell’indagine, un uomo schivo e tormentato, è interpretato da Gian Marco Tognazzi. Figlio d’arte, decine di film per il cinema e per la TV all’attivo, nelle scorse settimane è stato ospite (insieme a tutta la troupe) di Castellinaria a Giubiasco per la presentazione, in anteprima, della serie. Ne abbiamo approfittato per incontrarlo. Com’è arrivato ad Alter Ego, che cosa l’ha colpito della sceneggiatura? Mi è stato proposto e mi ha colpito subito il fatto che, per la prima volta, potevo interpretare un crime vero e proprio, una storia cupa. Inoltre, avevo la possibilità di non basare la mia recitazione su un unico registro ma di poter spaziare
perché il personaggio che interpreto è molto complesso con un senso di colpa che si porta dentro da 12 anni. Quando ho incontrato i due registi mi hanno spiegato molto bene quello che volevano far uscire dai personaggi e credo che insieme siamo riusciti a fare un bel lavoro. Sono molto orgoglioso del prodotto finale, perché – pensando ai tempi stretti di realizzazione e cioè solo 11 settimane – è uscito particolarmente bene. Come è stato lavorare con due registi? Nelle serialità lunghe può capitare di avere due registi che si dividono le settimane di lavorazione e quindi non è inusuale affidare il lavoro a due direttori d’orchestra. Devo dire che loro sono stati molto bravi e affiatati perché sono riusciti ad avere una linea condivisa e a viaggiare sulla stessa lunghezza d’onda; sono molto diversi tra loro, ma avevano un obiettivo unico e uno stile molto chiaro e definito. Lei è un attore che si affida completamente al regista oppure le piace dare suggerimenti? Mi pongo sempre con grande fiducia verso i lavori che faccio, ovviamente il tutto dipende dal rapporto di affinità che si crea e in questo caso c’è stato un feeling immediato sia con Erik sia con Robert. Non sono mancate alcune discussioni, alcune criticità, ma su dettagli, sfumature o dettagli di sceneggiatura. Essendo un attore preciso e coerente sul lavoro devo levarmi tutti i dubbi e quindi, anche durante le riprese, mi piace andare in profondità per ogni aspetto. E anche in questo caso mi è piaciuto discuterne e collaborare con i registi. L’avete girata tutta nel Bellinzonese. Lei conosceva già la regione e le sue particolarità culturali, ad esempio il carnevale? Sì, sono stato diverse volte al Teatro
RSI
Dal 5 dicembre sulla RSI sta andando in onda Alter Ego, la nuova serie poliziesca (prodotta dalla stessa RSI e da Amka Films, nell’immagine la locandina) ambientata interamente nel Bellinzonese. Sei puntate che partono da un omicidio. All’indomani del Giovedì Grasso, il cadavere di una ragazza viene rinvenuto vicino alla capitale. La squadra di agenti impegnata nelle indagini si troverà a investigare delitti che affondano le radici in un passato pieno di ombre. A essere esaminati non saranno soltanto i crimini che insanguinano la città, ma anche e soprattutto l’animo umano, quello di una comunità che crede di non aver nulla da nascondere.
Sociale. Mi ricordo di essere venuto nel 1993 con Alessandro Gassman. Ci sono tornato poi diverse volte e il 25 e 26 gennaio sarò di ritorno con L’onesto fantasma di Edoardo Erba. Lo scorso inverno ho passato tre mesi a Bellinzona e posso dire che mi sono affezionato. È stata un’esperienza lavorativa e umana molto bella. Mi è piaciuto molto il modo di lavorare che esiste ancora in Ticino e mi ricorda molto il cinema italiano di mio padre. Ci sono un entusiasmo e una collaborazione che da noi si sono persi un po’. Trovarli qui è stato così gratificante che spero di tornarci, magari con il seguito della serie. Per quanto riguarda il carnevale, non sono mai stato un amante di questo evento, tuttavia qui ha un respiro completamente diverso da quello a cui sono abituato grazie, per esempio, alle guggen che gli conferiscono una musicalità assente altrove. Vedere una comunità che si immagina piuttosto austera come quella ticinese in festa e libera mi è piaciuto molto.
In che modo il personaggio che interpreta è legato al carnevale? Entrando nei meccanismi della serie, il personaggio che interpreto è legato al carnevale in modo doloroso e l’omicidio gli riapre una ferita importante. Quindi da un lato come Gian Marco ho vissuto con stupore e novità la manifestazione, mentre d’altro lato come Leonardo Blum ho dovuto mascherare i sentimenti da uno che lo conosce ma che non lo ama. A livello tecnico, portare la fiction dentro un evento reale che sta accadendo non è sempre facile. C’è il rischio che le inquadrature siano documentaristiche, invece in Alter Ego non è stato il caso grazie ai registi e alla produzione. Il risultato è una Bellinzona splendida stilisticamente e immersa in un crime intenso. Cosa crede di aver preso da suo padre a livello attoriale? Mi fa piacere quando mi rivedo in lui nell’involontarietà. Per mie ragioni non penso mai a Ugo quando
recito e neppure a come farebbe lui la scena che interpreto perché penso sia una mancanza di rispetto verso di lui ma soprattutto verso me stesso. Ovviamente, geneticamente, abbiamo pregi e difetti che riceviamo dai nostri genitori, e se quelle assonanze e attitudini arrivano in modo involontario mi fa piacere: proprio perché non c’è premeditazione. Poi, fisicamente, abbiamo alcune similitudini come le gambe a x e la camminata simile. Quali sensazioni le piacerebbe che gli spettatori avessero alla fine della serie? Il desiderio di andare avanti, di saperne di più sui personaggi. Magari con altre storie, con un’indagine che avesse altri risvolti. Spero che il pubblico si fidelizzi alla serie e ne chieda una seconda e sarebbe bello che venisse venduta anche all’estero. Il prodotto non ha nulla da invidiare a produzioni che vediamo sulle varie piattaforme perché il taglio dato dai due registi è di qualità. Annuncio pubblicitario
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CULTURA
Il Napoleone di Ridley Scott è senza energia
Cinema ◆ Delude il film che in queste settimane è nelle nostre sale, anche l’interpretazione di Joaquin Phoenix non convince
Stanley Kubrick, che a lungo sognò un film su Napoleone e realizzò molte ricerche e bozzetti preparatori (costituivano un pezzo forte di una notevole mostra sul regista di Arancia meccanica circolata qualche anno fa), lo definì «tremendo», pur lodandone «la tecnica all’avanguardia». Il Napoleon di Abel Gance, realizzato tra il 1925 e il 1927 e proiettato la prima volta il 7 aprile 1927, è il punto di riferimento obbligato per i film (non tantissimi per le evidenti difficoltà dell’impresa) sul generale e imperatore che cambiò il volto dell’Europa. C’è da dire che l’incontentabile Kubrick poté vedere una versione incompleta dell’opera: solo negli ultimi decenni, grazie soprattutto alla dedizione dello studioso britannico Kevin Brownlow, sono state ricostruite oltre cinque ore e mezzo delle nove originarie realizzate da Gance. Tra le oltre venti diverse rimaneggiature va menzionata quelle curata da Francis Ford Coppola con il sottofondo delle musiche di suo padre Carmine, una delle più agevoli da rintracciare. Ora con il personaggio si è confrontato Ridley Scott realizzando un kolossal da 200 milioni di dollari: due ore e tre quarti nella versione per la sala e quattro ore pronte per Apple Tv+, che l’ha prodotto. Un film ambizioso nelle mani del regista ottantacinquenne che, da I duellanti (ambientato sempre in epoca napoleonica) ad Alien, Blade Runner, Thelma e Louise o Il gladiatore, aveva reso bigger than life tante storie e personaggi. Alle prese con uno dei politici e condottieri più celebrati e importanti di sempre, il cineasta ne ha fatto però un piccolo uomo, quasi più un incidente che un motore della Storia. Dal punto di vista politico questo Napoleon sembra trovarsi ripetutamente al posto giusto al momento giusto, senza particolari spinte ideali, e la maggiore ossessione è quella amorosa. In aggiunta se ne può leggere un velato sentimento anti-napoleonico, del resto Scott non scorda di essere inglese: la Gran Bretagna (non a caso sempre insieme alla Russia) resta
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Nicola Falcinella
ancora la più agguerrita rivale dell’idea di unificazione europea che già animava Bonaparte. Dimenticata la magnifica apertura con la battaglia a palle di neve filmata da Gance, con Napoleone che si rivela abilissimo stratega già da ragazzino, Scott inizia invece nel 1793, in pieno Terrore.
Il regista alterna il privato con le battaglie, rischiando di ridurre la vicenda a una telenovela interrotta da guerre Maria Antonietta è condotta al patibolo, osservata da un giovane ufficiale, unico tra la folla a non lasciarsi inebriare dal giustizialismo e dal sangue. Nasce forse in quel momento la sua fascinazione per il regno, le regine e Giuseppina, che è uno dei temi portanti della pellicola. Il regista passa a mostrare la successiva presa del porto
di Tolone contro le navi con lo stemma di San Giorgio, che, condotta in condizioni sfavorevoli, rivelò l’ardimento e le capacità del giovane corso. Il regista alterna il privato (la famiglia e soprattutto l’incontro e l’amore con Giuseppina de Beauharnais) con le battaglie, rischiando di ridurre la vicenda a una telenovela interrotta da guerre. Il contesto (del resto tre ore scarse sono poche per trent’anni fitti di successi, rovesci, risalite e tante innovazioni) è sacrificato, ridotto all’osso. Basti dire che il titolo di lavorazione (la sceneggiatura è di David Scarpa che per Scott aveva già scritto Tutti i soldi del mondo) fosse Marengo, battaglia della quale la versione per il grande schermo non comprende neanche un fotogramma e la stessa campagna d’Italia, punto di svolta della parabola di Bonaparte, è liquidata in una battuta. La pellicola entra nel vivo con la battaglia di Austerlitz, quella resa meglio di tutte, specie nella messa in
scena della trappola sul lago ghiacciato che portò alla sconfitta degli eserciti russo e austriaco. E, dal punto di vista dello spettacolo, anche la sconfitta di Waterloo è una degna conclusione. Il risultato non è un brutto film, sebbene non sia troppo coinvolgente: paragonato ai kolossal dei nostri giorni se la cava bene anche nell’utilizzo di effetti speciali necessari ma non soverchianti e fini a loro stessi. Qualche imprecisione e superficialità storica è quasi inevitabile e i film non possono essere valutati alla stregua di un documento storiografico. Un altro limite è forse rappresentato dal protagonista Joaquin Phoenix: sebbene costituisse una certezza per il regista (in più di una situazione richiama il suo Commodo de Il gladiatore), per i produttori e per il richiamo al botteghino. L’attore ha l’età del Napoleone degli ultimi anni e non quella del generale ambizioso che bruciò le tappe e gli manca un po’
dell’energia e di folgore negli occhi: si mostra adatto alla fase rovinosa più che a quella ascendente. Convincono maggiormente la presenza e l’interpretazione di Vanessa Kirby, una delle attrici più lanciate di oggi (rivelata al grande pubblico da The Crown, è stata premiata alla Mostra di Venezia per Pieces of a Woman), nel ruolo di una Giuseppina ben consapevole del suo potere. Gance, nella sua grandeur politica e cinematografica, presentava il giovane corso subito impegnato in azione, qui appare la prima volta come spettatore, poi ossessionato dall’amata più che dalla carriera, dalle battaglie, dal consolidamento delle idee rivoluzionarie e dalla realizzazione della «Repubblica universale». Significativo che Scott concluda con la conta dei caduti nelle guerre napoleoniche, facendo di Napoleone un seminatore di morte e distruzione manco si trattasse di Adolf Hitler. Annuncio pubblicitario
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CULTURA / RUBRICHE
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In fin della fiera
di Bruno Gambarotta
«Il Signor Lei» e la volontà di Mussolini ◆
Torino, 15 novembre 1939. Dal primo settembre è iniziata la Seconda guerra mondiale. L’Italia entrerà nel conflitto il 10 giugno dell’anno seguente. Urge preparare i ragazzi alle difficili prove che li attendono. Il Partito Nazionale Fascista, che inquadra gli Italiani dalla culla alla tomba, è in azione. A Torino, il Federale del PNF Piero Gazzotti ha l’idea vincente: organizzare nella sede della Gioventù Italiana del Littorio la mostra ANTI – LEI visitata dalle scolaresche della città. È allestita tappezzando le pareti delle tante sale di manifesti e di vignette satiriche. Ne troviamo ampi resoconti su diversi quotidiani. «La Stampa» del 16 novembre ospita il servizio su tre colonne a pagina 3. Una fotografia e poche righe redazionali: «I Romani non conoscevano il “lei”. Dante usava solo il voi e il tu. Gli Italiani di Mussolini devono ignorare il “lei”, infelice
prodotto di importazione di uno dei periodi più oscuri del nostro Paese, stortura logica e linguistica. La mostra Anti-lei che si è aperta a Torino dimostra con mille argomenti che questo malnato ermafroditismo grammaticale – del quale i giovani si sono ribellati senza rimpianto – sia ormai condannato a morire tutto». Morire: ennesima spia della fascinazione mortuaria che accompagna tutto l’arco del Regime, con il nero delle divise e i continui omaggi ai sacrari. Ecco l’incipit dell’ampio servizio sulla «Gazzetta del Popolo della Sera» del 15-16 novembre: «Poveretto, l’hanno ammazzato. Sembrava dovesse durare eterno, anche così vecchio e frusto, col suo “virginia” spento a un angolo della bocca, le ghette bianche (….). Ed ecco che degli scanzonatissimi ragazzi gli hanno fatto la festa, dopo averlo condannato a morire di mille morti. Chi lo ha preso per la collotto-
la, precipitandolo da una rupe, chi gli ha squarciato i fianchi imbottiti con una scure, chi lo ha dilaniato con un siluro, chi lo ha messo fra le mandibole incandescenti di un forno». Anche il titolo è in linea con il tono splatter del testo: «Alla mostra Anti-Lei. Dove è sepolta con l’epitaffio che si merita una ridicola usanza». E attacca: «Con lui, il signor Lei, è tutta una generazione che fa fagotto. Una generazione di borghesi, amanti, signorini, zitelli, scapolacci, insomma, inclini alla società anonima dell’amore e della figliolanza; delle matrone che coltivavano in un vaso, innaffiandolo sera e mattina perché non patisse, l’alberello dell’adulterio, dai fiori vizzi e dai frutti stenti; delle donnine di lusso che sognavano il vezzo di perle, il conto in banca, il cagnetto pelosissimo e l’alloggio al piano nobile. Bei tempi delle garçonniere, scannatoio privato, macello fra quattro mu-
ra: macello di cuori, di reputazioni, di tranquillità coniugali.» E tutto a causa di un pronome personale! Dura e piena di trappole la vita di un giornalista durante il ventennio! L’ampio servizio è firmato da Clara Grifoni, che si riscatterà finendo in carcere alle Nuove di Torino a causa del suo impegno nella lotta partigiana. Nel dopoguerra lavorerà per il settimanale «Epoca» diretto da Enzo Biagi. Da una parte il Regime decreta che «il signor Lei» è morto e sepolto, dall’altra mette in campo i suoi pezzi da novanta. Mario Appelius è l’inviato speciale de «Il Popolo d’Italia», il quotidiano fondato da Benito Mussolini. Quattro lunghe colonne il 21 novembre. Il grande giornalista subito mette le mani avanti: «Non è certo per capriccio che il Fascismo ha impegnato questa battaglia! Il Fascismo ha già abbastanza nemici (molti nemici, molto onore) ed abbastanza
gatti da pelare (nostrani e foresti) per andarsi a cercare a cuor leggero nuovi bersagli e nuove fatiche se non ce ne fosse bisogno! Grandi ragioni d’ordine razziale, sociale e politico hanno indotto il Fascismo a partire a fondo sul fronte interno contro l’uso tradizionale di questo “lei” nel quale si era abbosciato il più pretensioso “Ella” introdotto in Italia all’epoca delle invasioni spagnole». Anche qui è tutta una reiterata dichiarazione di morte. Alla fine però Appelius taglia corto: «Sapete perché muore il “Lei”? Perché così vuole Mussolini nella sua alta saggezza di educatore nazionale e di costruttore imperiale. E ciò che Mussolini vuole, gli italiani lo fanno». Nato ad Arezzo nel 1892 e morto a Roma nel 1946, Mario Appelius, aiutato da una vita avventurosa iniziata all’età di 15 anni, si dimostrò un formidabile corrispondente di guerra in Etiopia, Spagna e altri fronti europei.
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Pop Cult
di Benedicta Froelich
L’isolamento spontaneo è nemico dell’arte ◆
Uno degli elementi che più fanno effetto quando si discorre di cultura popolare con i cosiddetti «millennials», ovvero tutti coloro nati all’inizio del ventunesimo secolo, ha a che fare con un particolare spesso ignorato, eppure cruciale, quale la fruizione del prodotto artistico. Infatti, indipendentemente dall’ambito di appartenenza – cinema, musica, fumetto o qualsiasi altro mezzo d’espressione – oggi il mondo giovanile vede tale esperienza come implicitamente ammantata da un’evidente solitudine, il che ne fa un evento quasi privato e personale, in forte contrasto con le abitudini del passato. Certo, in molti potranno ravvisare le prime avvisaglie di questa tendenza già nei lontani anni ’80, quando l’avvento delle ormai obsolete videocassette (VHS) diede vita al mercato dell’home video, destinato, nel
corso degli anni, a svuotare progressivamente i cinema grazie a innovazioni tecniche sempre più raffinate – dagli impianti dolby surround fino alla qualità video perfetta e quasi artificiale dei DVD. E se, di conseguenza, Netflix e YouTube rappresentano solo l’ultima tappa di un’evoluzione che ha via via portato all’annullamento di svariate forme di aggregazione, è tuttavia innegabile come, negli ultimi anni, il fenomeno abbia assunto connotazioni sempre più estreme – di fatto collegate alla presenza costante di una rete web ormai capillare, in cui, paradossalmente, lo strapotere dei social network ha ulteriormente favorito la decadenza delle interazioni sociali. Perché se è vero che, da parte sua, la recente esperienza pandemica ha senz’altro acuito il fenomeno dell’isolamento individuale, quella della solitudine più o meno autoim-
posta è una tendenza fattasi pervasiva già prima dei lockdown, come esemplificato da fenomeni quali la diffusione degli hikikomori, gli «eremiti digitali» dei Paesi orientali; la progressiva sparizione di videoteche, librerie e negozi di dischi, già sostituiti dall’e-commerce e dal download online, ha ulteriormente estremizzato la situazione. Così, per fare un esempio, appaiono ormai lontani i tempi in cui, per vedere un film, era necessario uscire di casa e visitare una sala cinematografica; oggi, grazie ai servizi di streaming digitale per l’acquisto e noleggio online, è il prodotto mediatico a «venire al consumatore», anziché viceversa – il che conduce a una totale assenza di socialità. Ciò che i consumatori meno giovani rimpiangono è, infatti, la condivisione dell’opera con altri: proprio quel fattore che per molto tempo ha
permesso, ai fruitori causali come agli appassionati, di sentirsi parte di una comunità animata da continue occasioni d’incontro – le quali, nel caso del cinema, andavano dalle matinée ai pomeriggi a prezzo speciale, fino alla nascita dei cineforum e dei dibattiti post-film. Ma è davvero possibile, in un’epoca governata da smartphone tuttofare e onnipresenti wireless, ritrovare la stessa idea di condivisione di un tempo? Abitudini come quelle tipiche delle case di produzione cinematografica del secolo scorso – per le quali, negli anni 20 e 30, era usanza comune organizzare proiezioni alla presenza delle star in cartellone, così da permettere loro di firmare autografi per gli spettatori – appaiono oggi impensabili: in una società in cui tutti coloro godano di una certa fama vengono considerati alla stregua di esseri so-
prannaturali, non può che esserci una netta, rigorosa separazione tra codesti dèi e i comuni mortali. Ed è in questa tragica dicotomia che si cela forse il vero dramma dell’epoca che viviamo: la netta separazione tra pubblico e artisti tradisce il divario sempre più ampio esistente tra l’arte e chi ne fa uso, e non solo; poiché il godimento di un prodotto artistico non è comparabile al semplice consumo, così come l’acquisto di una canzone o un film non equivale a quello di un pacchetto di biscotti, il senso critico, e la forma di sorpresa e spontanea gioia che inevitabilmente dovrebbero accompagnare la fruizione dell’opera – e che spesso nascono proprio dalla sua simbolica condivisione – sono inevitabilmente destinati a farne le spese. Rendendoci tutti un po’ più poveri e cinicamente smaliziati, oltreché, naturalmente, soli.
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Xenia
di Melania Mazzucco
Parvin, il volo della farfalla libera ◆
Parvin sapeva di essere stata ricca, o almeno benestante, ma non aveva fatto in tempo a capirlo, perché quando con la famiglia era fuggita da Tabriz non aveva ancora nove anni. Si era ritrovata in Italia senza sapere perché, tra i tanti paesi in cui si erano disper-
Pixabay
Da piccola, più di tutto voleva passare inosservata. Occhi scurissimi, folti capelli neri, pelle chiara: nulla la distingueva dalle compagne di classe discendenti dei «terroni», lì immigrati negli anni Sessanta. Tranne il nome: Parvin. La dichiarava, senza equivoci, straniera. Così si faceva chiamare Vanessa, il che le sembrava un giusto compromesso fra l’origine e la persona che voleva essere. In farsi, Parvin significa farfalla. Non parlava volentieri né del Paese da cui proveniva né della storia che l’aveva condotta in Italia. Del resto nessuno glielo chiedeva. Negli anni Ottanta, l’Iran era avvolto da un’aura fosca di religione, barbe e màrtiri. Ai più insistenti, o i più intimi, diceva piuttosto, con orgoglio, di essere persiana. Agli italiani istruiti – scoprì al liceo – la Persia era familiare. Studiavano le guerre dei Persiani contro i Greci, Ciro, Dario, gli Achemenidi. La parola «persiano» aveva qualcosa di grande, tragico e nobile.
si gli amici dei genitori, proprio loro erano capitati in una cittadina della Lombardia. Né il padre le spiegò mai quali fili l’avevano guidato fin lì. Sapeva solo di appartenere alla famiglia degli esuli politici – immensa, poiché nel Novecento in quattro continenti rivoluzioni e colpi di stato avevano sparpagliato nel mondo milioni di persone. Rispettati e ben visti se in fuga dalla tirannide o dalla repressione. Altrimenti sospettati di essere contro-rivoluzionari. Il padre finì per ammalarsi quando realizzò che nella nuova città tutti coloro che per idee, esperienze e cultura riteneva suoi potenziali nuovi amici lo credevano invece un cortigiano dello shah – e pur senza dirglielo lo disprezzavano per questo. Della loro vita precedente non avevano potuto salvare nulla. La madre, gli abiti che aveva addosso e alcuni gioielli cuciti nell’orlo della gonna; la sorellina una bambola e lei l’astuccio con le
penne della scuola. Si erano ritrovati a vivere in un seminterrato, a dipendere dall’aiuto di misteriosi benefattori, ad attendere qualcosa che però non arrivava mai. Logorati dalla nostalgia, il padre e la madre parlavano sempre del passato, della loro giovinezza animata dall’ideale, degli amici morti o incarcerati, delle montagne, delle rovine di Takht-e-Suleiman dove andavano in gita, dei colori del paesaggio perduto che ancora gli divorava il cuore. Come tutti gli esuli, inizialmente si auguravano che il loro espatrio sarebbe durato qualche anno. Invece nessuno dei due ha vissuto abbastanza per tornare mai in Iran e sono morti entrambi, piuttosto giovani per lo standard occidentale, in un Paese cui serbavano gratitudine per averli accolti e perfino assimilati, ma in cui sono rimasti, sino alla fine, provvisori. Parvin invece cominciò ad andare a scuola, imparò la lingua e relegò i ricordi «di prima» in uno spazio segreto della memoria,
cui nessuno – alla fine nemmeno lei – aveva accesso. È stata italiana per quarant’anni. Ha sposato un italiano, è diventata insegnante d’inglese, ha avuto due figlie. Che col passaporto italiano sono andate in Iran per turismo e le hanno mandato cartoline da Persepoli – sorridenti sotto il toro della porta delle Nazioni. Lei invece non è mai voluta tornare. Ma da quando lo slogan «Donna vita libertà» risuona in tutto il mondo, e le fotografie, e i nomi delle ragazze morte scorrono nelle immagini e nei servizi del telegiornale, la diga ha ceduto. Per la prima volta è andata in piazza, per partecipare a un presidio organizzato nel capoluogo, e si è ritrovata unica signora sui cinquant’anni in una folla di giovani – che potrebbero essere le sue figlie, o i suoi genitori. E si è riconciliata con Parvin. La farfalla è il simbolo della trasformazione. Dalla crisalide finalmente si libra in volo una donna libera.
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Pane e prodotti da forno
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Carne e salumi
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