Azione 51 del 18 dicembre 2023

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Anno LXXXVI 18 dicembre 2023

Cooperativa Migros Ticino

G.A.A. 6592 Sant’Antonino

Settimanale di informazione e cultura

edizione

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MONDO MIGROS

Pagine 6 – 7 ●

SOCIETÀ

Tablet? Telefonini? Ora è la scienza a dircelo: per la crescita dei piccoli carta e penna sono più efficaci dei media elettronici Pagina 4

TEMPO LIBERO

Giovanni Luisoni, fotografo del territorio e della sua gente, grazie alle immagini racconta il Mendrisiotto e la Val di Muggio Pagina 11

ATTUALITÀ

L’elezione di Beat Jans non è avvenuta senza sorprese: ecco le sfide che attendono il nuovo Consiglio federale elvetico Pagina 19

CULTURA

L’arte sincera di Luigi Rossi alla Pinacoteca Züst raccontata da Matteo Bianchi, pronipote del pittore Pagina 29

Dipinto a olio su tela di Luigi Rossi dal titolo Una via di Milano, 1881, che con il cielo bianco e le persone indaffarate chiuse nei loro paltò ricorda le atmosfere cittadine sotto Natale. (Collezione Fondazione Cariplo, Gallerie d’Italia, Milano)

L’editore e la redazione di Azione augurano

Buon Natale

alle lettrici e ai lettori, alle socie e ai soci della Cooperativa Migros Ticino


Apertura straordinaria Domenica 24.12 saranno aperti dalle ore 10.00 alle 17.00 i seguenti punti vendita MIGROS: Arbedo-Castione, Do it + Garden Balerna, Riazzino, Locarno, Losone, Taverne, Lugano, Parco Commerciale Grancia, Centro Agno, Biasca, Maggia, Caslano, Mendrisio, Mendrisio Campagna Adorna, Centro Shopping Serfontana, VOI Viganello, Centro S. Antonino*. (*escl. OBI, Micasa e SportX)

Scopri tutte le filiali che aderiscono alle aperture Festive su migrosticino.ch


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SPECIALE NATALE

Il fiore della speranza

Il racconto ◆ Anni Cinquanta: nell’aria della cittadina di confine i fiocchi bianchi si posano sulle cose del passato e del presente Alberto Nessi

A metà anni Cinquanta, una sera rabbiosa di neve, un ragazzo solitario con una giacca marrone a righe – una giacca che suo padre gli aveva lasciato in eredità – se ne tornava a casa per le vacanze di Natale con in tasca tre paglie comprate nel botteghino accanto al collegio. Aveva capelli mossi dal vento, zigomi alti e occhi blu d’acqua fonda. Lasciata la città sul lago, tornava nella piccola città della bassa dove la nebbia gravava spesso sulle case, al confine con l’Italia. E guardando dal finestrino del treno vide la scarpata dei verbaschi dove s’era buttata la cameriera del Sole: una storia di cui si era parlato a lungo nelle osterie. Gli piacevano le storie, al ragazzo. Tutte le storie, anche quelle tristi. Quella sera c’era nell’aria un turbinare di fiocchi bianchi che parevano farfalle. Si strinse nella sciarpetta rossa e, sceso dal treno, nell’atrio della stazione, dove già avevano sostato tanti poveri cristi, diede un’occhiata a quell’armadio dai cassetti cromati, in un angolo: là talvolta aveva visto il garzone di fattoria con la faccia da cavallo che guidava il biroccio dei bidoni del latte, l’aveva visto tirare il cassetto dei sigari marca Fivaz. Quel garzone veniva dalla campagna, lo si vedeva aggirarsi spesso sotto la pensilina a guardare i treni, ma non partiva mai. Lui invece, lo studente, partiva ogni mese per il collegio.

Si avviò verso casa. Affrettando il passo gli venne da sorridere, perché fiocchi bianchi si staccavano dal cielo, venivano a cincischiare come cavolaie vagabonde davanti alle vetrine e gli mettevano una strana allegria. Ogni fiocco una promessa: la ragazza dagli occhi scuri non l’avrebbe tradito, la Fiera Letteraria avrebbe pubblicato la sua poesia e sua madre lo avrebbe perdonato. Vide un uomo in un anfratto: era Togn, che una volta aveva percorso a piedi la galleria di Monte Olimpino sfiorato dai treni. Lo salutò e fecero un tratto di strada insieme. Togn, che perdeva la bava e scuoteva la testa. Togn lo scemo, figlio del suo maestro di tamburo. I fiocchi volteggiavano e gli ricordavano l’infanzia, quando si buttava panzaterra sulla slitta percorrendo a rotta di collo la strada vecchia fino alla scarpata dei verbaschi. Così giovane, e già tanti ricordi… Rincorrendo le farfalle bianche, arrivò in un vicolo e porse l’orecchio. Gli sembrava di sentire delle voci: forse erano le donne che follavano stracci per fare la carta, nella cartiera che c’era stata in quel luogo dov’erano vissuti gli antenati. Tra le voci gli parve di distinguere quella di sua madre. Poi riprese il cammino e raggiunse il Corso, dominato da un’Elvezia con lo scudo che svettava nel cielo alzando una fiaccola – ma per illuminare che cosa? – e da un soldato armato – ma per sparare a chi? – e dal santo che aveva salvato il paese dalla guerra. Un piccione lasciò cadere uno schitto sulla testa di donna Elvezia. Il ragazzo solitario tornava dal collegio dove i professori, riuniti a consiglio, gli avevano affibbiato una brutta

Ledwina Costantini

I fiocchi volteggiavano e gli ricordavano l’infanzia, quando si buttava panzaterra sulla slitta percorrendo a rotta di collo la strada vecchia fino alla scarpata dei verbaschi

nota di condotta, e allora c’era poco da festeggiare. Eppure si sentiva leggero come quei fiocchi bianchi, libero come le foglie cordate dei gelsi lungo il torrente dove sua nonna ha lavato i panni per l’Opera Bonomelli Pro Emigrante, pieni di pidocchi. Le foglie gli piacciono: rappresentano la bellezza che cambia a ogni stagione, hanno tante forme diverse come le onde del mare e fanno diventar buoni, in questo mondo dove ci si odia e ci si ammazza a più non posso. Entrò all’Osteria degli Operai e un vapore intriso di voci d’improvviso lo investì. Si sentiva strano con quelle farfalle sui capelli e quella colpa sulle spalle: la condanna, per aver bigiato le lezioni e essersi inoltrato nel Bosco Isolino a trovare la ragazza dagli occhi scuri. Avevano scritto i loro nomi, intrecciandoli come nei romanzi, su una panchina della Pro Loco. Il ragazzo, al ricordo, sorrise. L’anno prima, in quella stessa osteria dove ora si era rifugiato a purgare i peccati, aveva visto per l’ultima volta lo zio idraulico, che portava una cicatrice sul mento e gli aveva dato un piccolo spazzacamino portafortuna; ma dopo qualche mese era morto da solo nel monolocale sulla ramina. Non gli era dispiaciuto morire. Gli aveva detto: – Tu cominci, io finisco. E lui aveva conservato quel piccolo spazzacamino di filo di ferro come un talismano. Ordinò, proprio come uno di quelli che stavano in piedi a ciarlare fuman-

do e smaneggiando davanti al bancone di zinco, una bevanda alcolica che si beve solo da quelle parti, e pensò a chi aveva conosciuto nei suoi primi sedici anni di vita. Ogni persona, ogni pianta, ogni cosa al mondo lascia una traccia: là il nonno analfabeta taglia la legna a pezzi insieme con il Togn, nel parco degli ippocastani lo zingaro fa la danza del ventre accanto al falò, sul Corso passano i Re Magi su cammelli – cammelli veri – che portano i doni al Bambino – , avvenimento epico per la piccola città. Proprio accanto all’osteria dove adesso andava rimuginando, aveva visto il calzolaio-musicista e ascoltato il suo clarinetto incantato. Tutte le volte che passava per la via acciottolata, si fermava sotto il grande orologio ad ascoltare: anche lui avrebbe voluto essere artista, musicista, poeta, ma quelli della Fiera Letteraria non erano d’accordo. E tuttavia stasera la neve volteggiava per aria e s’intrecciava con la musica del clarinetto e gli faceva provare una strana gioia: tutti sono pieni di sogni a Natale e lui diventava un poeta. Un po’ allegro anche per via di quella bevanda, il ragazzo continuò il suo cammino verso casa. Si accese una paglia e infilò il capo nella vecchia corte dove abitava il suo maestro di tamburo. La musica era cambiata. Dall’androne veniva un suono di fisarmonica. Allora ricordò che, al secondo piano di quell’edificio neoclassicheg-

giante, suo padre era stato licenziato dal padrone della casa di spedizioni e, morendo, gli aveva lasciato la giacca a righe. Si avvicinò e vide una donna che tirava il mantice, forse una delle profughe che in quei mesi erano arrivate dall’Ungheria violentata dai carri armati. Lui stesso, nel collegio, aveva conosciuto un ragazzo che portava una maglia gialla colore della puszta ungherese. Erano diventati amici, si nascondevano a fumare dietro la palestra. E ora questa fisarmonica. Un segno del destino: sarebbe diventato suonatore di strada, artista, poeta? Nonostante il certificato di cattiva condotta che teneva nella giacca, o forse grazie a quel certificato.

Niente passa senza lasciare traccia. La mente del ragazzo si arrampicò come uno scoiattolo sul muro di cinta della scuola fino al ciuffo di fusaggine che sporgeva Mentre ascoltava la musica della profuga, il ragazzo fantasticava, come i fiocchi di neve cincischianti. Sua madre, una volta, gli aveva raccontato un episodio vissuto da bambina: alle elementari la maestra alla fine dell’anno le aveva scritto a penna sul libretto scolastico NON PROMOSSA. E lei, per non prenderle, si era fermata su un paracarro e con la gomma dell’inchio-

stro aveva cancellato il NON e lasciato PROMOSSA: era il mese di giugno, le ciliegie sopra la sua testa ridevano. Pensando alla madre bambina, il ragazzo solitario tolse il certificato dalla tasca della giacca marrone a righe e lo stracciò in mille pezzi, che si misero a danzare con le farfalle bianche davanti alle vetrine natalizie. Poi continuò la sua camminata fino al cedro delle Scuole Comunali. Lì, si rivide bambino scendere nel rifugio, mentre urlava la sirena del Comune e tutti scappavano dai caccia americani che, buttandosi in picchiata sui tetti, avevano mitragliato lo scalo merci, uccidendo un macchinista: tutti ne avevano parlato nelle cucine oscurate della piccola città di frontiera. Niente passa senza lasciare traccia. La mente del ragazzo si arrampicò come uno scoiattolo sul muro di cinta della scuola fino al ciuffo di fusaggine che sporgeva. Allora i fiocchi di neve, tra i quali danzavano i brandelli del certificato di condanna, si posarono sulle cose del passato e del presente, sulle foglie del gelso, sui frutti della fusaggine, sui rami del grande cedro, sulle ciliegie di sua mamma, sulle note del calzolaio-musicista, sulla fisarmonica della profuga, sugli occhi scuri della ragazza. Poi d’improvviso si fece un gran silenzio nella sera di dicembre, le lancette delle ore si fermarono. E in quel silenzio sbocciò l’elleboro, il fiore bianco dalle antere dorate. Il fiore della speranza.


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SOCIETÀ ●

La rinascita di un luogo d’accoglienza Inaugurata poche settimane fa la Masseria in zona Cornaredo a Lugano si prepara a festeggiare il primo Natale

Giocare non è un vizio Il disturbo da gioco d’azzardo è una malattia grave, cronica e recidivante, che oggi sta interessando anche i minorenni e i giovani adulti fra i 18 e 24 anni

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I benefici di carta e penna

Bambini e ragazzi ◆ Il formato cartaceo, a differenza di quello digitale, favorisce l’apprendimento e il ragionamento, secondo pedagogisti e neuroscienziati. E anche nel nord Europa si fa retromarcia sull’uso della tecnologia Stefania Prandi

Regalare un libro per Natale a bambini e ragazzi può essere un’ottima idea. Il formato cartaceo, infatti, non è desueto, anzi, sembra quanto mai necessario. Sempre più studi indicano che la carta serve per imparare e ricordare meglio, al punto che nei mesi scorsi la Svezia, che aveva un approccio iper-digitalizzato all’educazione, ha fatto retromarcia. Nel Paese scandinavo non solo è stata annullata la decisione, presa in precedenza, di rendere obbligatori i tablet all’asilo, ma si prevede anche di eliminare completamente l’apprendimento digitale per i bambini sotto i sei anni. La scelta non è motivata soltanto dalle posizioni conservatrici del Governo di destra, eletto un anno fa, ma cerca di far fronte a una situazione reale. Infatti, secondo indicatori come il Progress in International Reading Literacy Study (Pirls), gli studenti svedesi mantengono punteggi superiori alla media europea per capacità di lettura, ma tra il 2016 e il 2021 le loro performance sono calate. Anche l’Istituto svedese Karolinska, considerato particolarmente autorevole, si è espresso a favore di un rallentamento dell’impiego della tecnologia: «Esistono prove scientifiche evidenti del fatto che gli strumenti digitali compromettono l’apprendimento anziché migliorarlo».

da dei movimenti e al processo creativo. Attraverso la mano si creano gesti unici e irripetibili (a differenza di quanto avviene con la tastiera o lo schermo), espressione del pensiero e delle emozioni che si provano. La scrittura digitale comporta un processo di virtualizzazione, mentre quella a mano è la materializzazione creativa di parti di se stessi tanto a livello psicologico quanto fisico».

Anche la scrittura a mano permette un collegamento diretto tra i muscoli e le aree del cervello deputate al processo creativo

La Svezia aveva un approccio iper-digitalizzato, ma ora ha fatto marcia indietro vietando i tablet già all’asilo Da anni, gli esperti internazionali avvertono che serve un uso accorto di certi dispositivi. Naomi Baron, linguista e professoressa emerita dell’American University di Washington, spiega ad «Azione» che se si somministra un test di comprensione a persone che leggono un testo su carta o in formato elettronico, i punteggi risultano più alti per chi fruisce del supporto cartaceo. Un andamento particolarmente vero per i contenuti più lunghi di cinquecento parole. «Inoltre, dal nostro studio condotto con gli studenti delle secondarie e dell’università, è emerso che i libri stampati aiutano a immergersi nelle storie, sono più facili da vedere e danno un senso di realizzazione. I ragazzi apprezzano anche la sensazione fisica della carta e trovano i volumi più reali e autentici delle controparti digitali». Baron cita una ricerca dell’American Library Association secondo la quale i lettori della Gen Z (di età compresa tra i 13 e i 25 anni) sono più propensi dei Millennial (tra i 26

I libri stampati aiutano i giovanissimi lettori a immergersi meglio nelle storie. (foto Freepik)

e i 40 anni) a scegliere i libri stampati rispetto agli eBook. Sostenitrice appassionata dei libri cartacei è Maryanne Wolf, tra le più note neuroscienziate cognitive americane. Nel suo saggio Lettore, vieni a casa. Il cervello che legge in un mondo digitale (Vita e Pensiero), chiarisce come la carta sia fondamentale per stimolare la «lettura profonda», cioè la capacità di immergersi in uno scritto senza farsi distrarre, non solo per imparare, ma anche per svilup-

pare empatia verso gli altri e saggezza. Promuovere la carta non significa osteggiare il digitale, ma cercare di integrare i due strumenti, informando gli adulti – insegnanti, genitori e decisori politici – sulle conseguenze dell’utilizzo eccessivo di tablet e laptop. Così si legge nella pubblicazione (datata 18 luglio 2023) Il valore imprescindibile di carta e penna nei processi di apprendimento della Fondazione Luigi Einaudi per studi di politica, economia e storia. Gli autori si

dichiarano «ben lontani da qualsiasi tentazione neoluddista di demonizzazione dell’uso dei dispositivi digitali». L’importanza della lettura dei libri cartacei è collegata a quella della scrittura a mano. Roberto Travaglini, professore di Pedagogia all’Università di Urbino e direttore del master di Pedagogia ed educazione del gesto grafico, dice: «La scrittura a mano permette un collegamento diretto tra i muscoli e le aree del cervello deputate alla gui-

Travaglini ha analizzato la necessità del mantenimento dell’esperienza di carta e penna nel paper Scrittura a mano versus scrittura digitale: conflitto o integrazione?, pubblicato su «Graphos. Rivista internazionale di pedagogia e didattica della scrittura». «Il bambino, quando inizia a scrivere, impara anche a leggere – continua Travaglini –. È fondamentale, quindi, che sia mantenuta una relazione con la materialità, sia dei libri cartacei sia del prodotto narrativo scritto. Sostituire il processo con dei dispositivi elettronici significa rischiare di perdere il contatto con la materia narrativa e simbolica dello scrivere». Audrey van der Meer, professoressa di Neuropsicologia all’Università norvegese di scienza e tecnologia (Ntnu), è di parere simile e ritiene che si debbano adottare linee guida nazionali per garantire ai bambini di ricevere almeno un minimo di formazione sulla scrittura a penna. Dal suo punto di vista il rallentamento della digitalizzazione in Svezia è un buon segno: «Scrivendo a mano si è molto più stimolati a livello cerebrale rispetto alla tastiera perché si usano in maggior misura i sensi e la motricità fine (ovvero il controllo sui piccoli movimenti delle mani e delle dita, ndr)». E aggiunge: «Con la scrittura digitale si fa lo stesso movimento semplice per ogni lettera e il cervello è meno attivo. Le nostre ricerche del 2017, 2020 e 2023 dimostrano che scrivere a mano aiuta i bambini a imparare di più e a ricordare meglio». I libri di carta a scuola e in classe, perciò, sono cruciali. «Parlare, cantare e leggere ai bambini e impegnarsi in attività di narrazione è probabilmente la migliore stimolazione cerebrale precoce che esista. Con queste attività ci ritroviamo letteralmente ad abbracciare i più piccoli con le parole e allo stesso tempo promuoviamo il loro sviluppo.


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Un abbraccio verso la città

Solidarietà ◆ È nata da poco la nuova sede della Fondazione Bethlehem presso la ristrutturata Masseria di Cornaredo, aperta a chiunque. «Anche a Natale, con un pensiero alle persone sole» spiega Fra Martino Alessandro Cristallo

«It don’t matter if you’re black or white», o per i non anglofoni: non importa che tu sia nero o bianco. Con queste parole Michael Jackson nel 1991 diffondeva un messaggio chiaro e diretto; non importa la carnagione della pelle, né l’etnia che ci contraddistingue, non ci sono caratteristiche umane che possano farci sentire giudicati più o meno rispetto agli altri. Non ci possono e devono essere barriere mentali, tantomeno fisiche. Ed è proprio sull’abbattimento delle barriere che si basa tutto il grande progetto della Masseria di Lugano fortemente voluto da Fra Martino e dalla Fondazione Francesco che la gestisce. Ce lo spiega proprio il religioso che abbiamo incontrato nella struttura inaugurata lo scorso ottobre: «La Masseria è come due braccia allargate verso la città, non possiamo mettere dei cancelli o delle siepi divisorie. Anche sul piano architettonico abbiamo deciso di puntare sull’apertura; non ci sono barriere o separazioni». La Masseria nasce a Cornaredo dall’esigenza di trovare una sede più stabile per il Centro sociale Bethlehem che per dieci anni si trovava nella casetta gialla, dall’altra parte della collina, ospite della sezione giovanile dell’hockey club Lugano che metteva a disposizione la struttura durante il giorno. La nuova dimora della fondazione, dopo un’impegnativa ristrutturazione, presenta ora una mensa, uno spazio all’aperto dove interagire, una sala multiuso, degli spazi adibiti per il riposo, una lavanderia e un angolo docce. Oltre a questi servizi, sarà attiva dal 1. gennaio una locanda con alloggi turistici, e ci sarebbe anche l’idea di un’enoteca posta nella sala dell’antico torchio. Parte dello spazio è poi riservato all’amministrazione e alla Fondazione (che gestisce anche Casa Martini a Locarno). Dal 2010 sono passate tante persone alla mensa di fra Martino, prima della pandemia erano in prevalenza non residenti mentre ora la tendenza si è invertita, la maggioranza degli ospiti sono residenti e cittadini svizzeri o con permesso di soggiorno. Qualche anno fa coloro che frequentavano la mensa sociale erano giovani-adulti, ora la fascia più numerosa è quella tra i 45 e i 60 anni e sono in aumento i pensionati. La missione invece è sempre quella di aiutare «le persone che vivono situazioni di difficoltà, sostenendole nell’acquisire nuova fiducia in sé stessi. L’inclusione sociale è a tutti gli effetti l’obiettivo primario su cui cerchiamo di puntare, partendo da risposte a problemi molto concreti dei nostri ospiti come possono esserlo l’alimentazione, la cura dell’igiene personale, l’orientamento sociale di base, o anche semplicemente l’ascolto». È, infatti, un aspetto che emerge di continuo, osserva fra Martino, quello della necessità di potersi esprimere senza sentirsi giudicati o incasellati o peggio etichettati. Per questo motivo fin dalla sua fondazione la mensa sociale si avvale non solo dell’aiuto di tanti volontari ma anche del lavoro di personale qualificato con formazione specifica.

Fra Martino (a destra) e parte del suo staff nella rinata Masseria, in zona Cornaredo a Lugano. (foto Azione)

Mentre insieme a fra Martino passiamo dal cortile, tre signori di una certa età si fermano per chiedere indicazioni: «È questa la mensa per i poveri?». Il frate a quel punto tiene a puntualizzare che «è una mensa sociale». In un secondo momento precisa che la fondazione è «uno spazio fruibile per l’intera popolazione, una struttura generalista aperta a tutti e senza particolari formalità». La mensa sociale è sia un luogo dove si può consumare un pasto, a un prezzo quasi simbolico, sia un posto dove si può avere un’interazione sociale con gli altri, sentirsi meno soli e accolti in una comunità che si rispetta. Non è un tema nuovo quello della solitudine: «Ci sono ospiti che frequentano il Centro Bethlehem e la mensa non per questioni finanziarie, ma per solitudine, è un fenomeno relativamente nuovo e

in aumento a seguito della pandemia e delle misure restrittive che vi sono state», racconta fra Martino. Tra una chiacchierata e l’altra è ora di mangiare e ci dirigiamo verso la sala da pranzo, passando per l’entrata esterna. Un gruppo di persone (personale qualificato e volontari) ci accoglie e con un grande sorriso chiede se vogliamo fermarci per gustare il menù del giorno: spezzatino di manzo, verdure miste, purè di patate e insalata. Ci sediamo al tavolo accanto ad altri due signori, entrambi con una storia da raccontare. Il primo proviene dallo Sri Lanka, si è trasferito in Ticino nella metà degli anni Ottanta, il secondo, invece, è ucraino, di Odessa. L’espressione triste di quell’uomo cattura la nostra attenzione; visibilmente commosso dialoga con l’ospite di fronte a lui, raccon-

tandogli con un italiano ineccepibile il conflitto vissuto sulla propria pelle. È proprio in quel momento che le parole di fra Martino si fanno vivide e concrete. Una volta usciti, osserviamo la striscia di prato che presto darà vita a un rigoglioso orto, utile sia per produrre alimenti freschi sia per coinvolgere ospiti e gruppi esterni in attività che «creino occasioni di socializzazione e che facciano sentire le persone partecipi e in qualche modo a casa loro». Prima di lasciarci la domanda è spontanea: «A chi penso in questo Natale che arriva? Soprattutto a quelle persone che per vari motivi se ne resteranno sole a casa in un giorno che, indipendentemente dalle convinzioni religiose di ognuno, dovrebbe essere di convivialità». A poche settimane dall’apertura ufficia-

Una storia che parte dal 1300 Oggi la storia di questo sogno diventato realtà è un libro che ripercorre tutte le fasi della ristrutturazione della Masseria. La cui storia inizia già nel 1300. Ad arricchire il volume sono i contributi storici di Stefania Bianchi relativi a Cornaredo, fulcro delle terre del Capitolo di San Lorenzo e di Nicoletta Solcà che ripercorre la storia novecentesca della Masseria di Cornaredo, ultima traccia della «Campagna di prèvat». Ed è a tutti gli effetti una bella storia quella della rinascita della Masseria in disuso, spazio dismesso da decenni che, come scrive l’editore «grazie al fattivo e generoso concorso di un numero significativo di attori, è diventato

oggetto di particolare attenzione della popolazione luganese e delle Autorità cittadine e cantonali e sperimenta ora una nuova esistenza. Posto ai piedi di un promontorio morenico, ai margini del tessuto urbano trasformatosi rapidamente negli ultimi cinquant’anni, l’antico edificio rurale risulta essere una delle ultime testimonianze di tempi in apparenza lontani». Il libro è firmato da fra Martino Dotta ma in realtà è il risultato di un lavoro corale, è pubblicato da Fontana Edizioni in collaborazione con il Rotary Club Lugano Lago, i proventi della sua vendita andranno interamente a favore delle attività del Centro Bethlehem.

le della «sua» masseria, fra Martino Dotta non si smentisce. Il suo pensiero sta sempre dalla parte di chi fa fatica o vive situazioni di disagio e/o emarginazione anche in una città ricca, Lugano, di un Paese ricco come la Svizzera. «E infatti, per il Natale in arrivo, prevediamo di rinnovare – ma questa volta nel nuovo contesto della Masseria – il consueto pranzo di Natale gratuito organizzato assieme al Gruppo Amici del Grott Mobil. Sarà aperto a chiunque abbia voglia di festeggiare la ricorrenza in modo diverso». Non soltanto le persone indigenti o in difficoltà, quindi. «No, chi vuole venire sarà il benvenuto». Bisognerà però iscriversi (telefonando allo 091 605 30 40 o scrivendo all’indirizzo email cb@fondazionefrancesco.ch) perché i posti a sedere previsti sono un’ottantina. «Se la meteo sarà favorevole come negli scorsi Natali, però, prevediamo delle panche e dei tavoli aggiuntivi anche all’esterno; staremo a vedere». Al di là della festa, ci spiega il religioso, «questo, per noi della Fondazione Francesco, è stato un anno davvero importante. Essere riusciti a portare a termine questo progetto secondo i programmi e rispettando i preventivi è stato il risultato più significativo, ovviamente. Poi, appena possibile, ci dedicheremo alle nuove iniziative che ci eravamo prefissi: momenti di animazione nel pomeriggio coinvolgendo i nostri ospiti e persone esterne. Significa giochi di società o atelier di piccoli lavori manuali e musica. Stiamo cercando di creare una rete di collaborazione coinvolgendo enti come l’Associazione di quartiere di Cornaredo e l’Associazione genitori di Porza».


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MONDO MIGROS

Prelibatezze per ogni buongustaio

Attualità ◆ I reparti macelleria Migros hanno in serbo per la clientela un ampio ventaglio di specialità per le feste Vi proponiamo qualche esempio e una ricetta semplice ma super appetitosa

Invitanti, gustosi ed esclusivi: durante le festività natalizie sono molti coloro che scelgono piatti speciali per sorprendere i propri ospiti. Le macellerie dei supermercati Migros sono pronte ad accogliere la clientela con molte appetitose bontà preparate fresche quotidianamente dagli esperti macellai. Con cura e passione, i nostri specialisti selezionano i migliori tagli per garantire il massimo della qualità e della freschezza. Inoltre, sono disponibili e ben preparati nel consigliare golose ricette che sappiano valorizzare al meglio il prodotto acquistato.

Intervista a Maurizio Ravani capo macellaio della filiale Migros di Minusio (nella foto)

Signor Ravani, da quanto tempo lavora alla Migros? Lavoro alla Migros in qualità di macellaio da ben 37 anni. Dopo essere stato attivo in diverse filiali del cantone, da circa 5 anni sono responsabile della macelleria del supermercato di Minusio. Cosa apprezza in particolare del suo lavoro? Il contatto con i clienti e la possibilità di poter consigliare loro le migliori varietà di carne e le ricette giuste per la buona riuscita di ogni piatto.

Entrecôte Swiss Black Angus

Cosa consiglierebbe di provare durante le prossime festività? Una succosa e saporita arista di vitello o maiale, oppure una tenerissima entrecôte di manzo swiss black angus, di cui proponiamo un’appetitosa ricetta in questa pagina.

L’Angus è una razza bovina originaria della Scozia, particolarmente apprezzata per la sua carne tenera e gustosa. Dagli anni 70 questi animali sono allevati al pascolo anche in Svizzera e oggi le aziende agricole che allevano per il marchio Swiss Black Angus devono soddisfare i severi requisiti di sostenibilità del label IP-SUISSE.

Qual è il suo taglio preferito? Sicuramente la costa schiena di manzo, un sublime taglio che grazie alle sue fini venature di grasso regala alla carne morbidezza e succosità impareggiabili.

Entrecôte Irish Beef Questo taglio si caratterizza per la sua caratteristica marmorizzazione, tenerezza e aromaticità. Gli animali vengono allevati all’aperto tutto l’anno sui verdi pascoli irlandesi. Un vero piacere a cui sarà difficile resistere.

Filetto di bisonte e Entrecôte di renna Le carni di bisonte e di renna offrono un’alternativa sana e gustosa alle tipologie più tradizionali. Rispetto ad altre carni, hanno un basso contenuto di grassi e un sapore particolarmente deciso e specifico.

Tacchino, faraona e cappone Il pollame è una scelta molto popolare durante le feste e lascia ampio spazio alla fantasia in cucina. Il tacchino ripieno al forno è un grande classico del Natale e soddisfa i gusti di grandi e piccoli commensali. Alla Migros sono disponibili tacchini di diversi pesi e si possono ottenere sia disossati che già ripieni. La faraona possiede un sapore più pronunciato rispetto al pollo. La sua carne ha un colore scuro che si presta bene anche alle lunghe cotture. Il cappone è un pollo maschio castrato, molto richiesto in inverno. Possiede carni morbide e tenere e si usa consumarlo sia lessato, sia arrosto al forno farcito con un gustoso ripieno.

Maialino da latte Il maialino al forno è un piatto popolare che alletta le papille grazie alla sua pelle croccante e dorata e la carne gustosissima e tenera. È ottimo arrostito lentamente e profumato solamente con rosmarino, aglio, olio, sale grosso e molto pepe.

Paté vari In un antipasto che si rispetti non può mancare un buon paté, da servire spalmato su bruschette o pane tostato. Nei supermercati Migros sono disponibili diversi finissimi paté e paterini di vitello, coniglio o fegato, tra cui una variante al Gin Bisbino che regala un sapore unico e particolare.

Entrecôte di Wagyu La razza Wagyu è originaria del Giappone e possiede una particolare

struttura muscolare. La carne che ne risulta si caratterizza per il suo elevato grado di marezzatura che la rende incredibilmente saporita e tenera. E una delle carni più esclusive al mondo. Per apprezzarne appieno il suo aroma cuocerla su una piastra molto calda con solo un filo d’olio, sale e pepe.

Chinoise e bourguignonne fresche Ecco le specialità perfette per le grandi tavolate in compagnia di amici e familiari. Per le vostre fondue di carne da Migros trovate carne fresca affettata sul momento dagli specialisti delle macellerie. Avete la possibilità di scegliere i vostri tagli preferiti tra bistecca, filetto, magatello o scamone di manzo; fesa o filetto di vitello o fettine di maiale. Si consiglia di riservare il vostro vassoio con almeno due giorni di anticipo. Oltre alla carne, sono disponibili anche diverse salsine fresche.

La ricetta Entrecôte di manzo con salsa al vino rosso e alla senape Piatto principale per 5 persone

• 1 entrecôte di manzo in un pezzo di ca. 1-1.2 kg • 5 scalogni • 1 cucchiaino di fleur de sel • 1 cucchiaino di pepe • 3 cucchiai d’olio d’oliva • ½ mazzetto di timo • 1 cucchiaino di pepe misto in grani • 1 dl di vino rosso • 2 dl di salsa per arrosto • 1 cucchiaio di senape in grani Preparazione Scalda il forno statico e una teglia a 80 °C. Dimezza quattro scalogni per il lungo. Sala e pepa la carne e

rosolala in una padella a fuoco alto, nella metà dell’olio per ca. 5 minuti. Aggiungi gli scalogni e falli rosolare brevemente con la carne. Trasferisci la carne, gli scalogni e il timo nella teglia e cuoci in forno per ca. 1,5 ore, finché la carne raggiunge la temperatura al cuore di 55 °C. Prima di tagliare la carne, falla riposare brevemente. Trita lo scalogno rimasto. Pesta il pepe. Fai appassire entrambi nell’olio rimasto. Unisci il vino, la salsa per arrosto e fai ridurre un po’. Aggiungi la senape e aggiusta di sale e pepe. Taglia la carne a fette spesse e servila con la salsa e gli scalogni. Tempo totale: 2 h Preparazione: ca. 30 minuti


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MONDO MIGROS

Panettone gianduia al pistacchio

Novità ◆ Un prodotto locale artigianale d’eccellenza che esce dal laboratorio del mastro pasticcere Marzio Monaco di Losone

Panettone gianduia al pistacchio Dolce Monaco 500 g Fr. 25.50

Oleg Magni

Accanto ai due prodotti già presenti nell’assortimento Migros, nella fattispecie il panettone al gianduia e quello tradizionale, quest’anno la pasticceria Dolce Monaco di Losone propone sugli scaffali dei maggiori supermercati un altro originale dolce festivo della nostra regione: il panettone con gianduia al pistacchio. «Rispetto agli altri due prodotti di nostra produzione, l’impasto di questo dolce viene aromatizzato con finissimo gianduia al pistacchio», afferma Marzio Monaco, titolare del laboratorio locarnese. «Inoltre, per renderlo ancora più goloso, anche la superficie è ricoperta di una glassa arricchita con del pistacchio». Per produrre questa soffice bontà vengono utilizzate materie prime di elevata qualità, tra cui lievito madre fatto in casa e burro d’alpe ticinese. «Questi pregiati ingredienti del nostro territorio che arricchiscono la ricetta regalano al prodotto finito un aroma inconfondibile», tiene a sottolineare il nostro pasticcere. La lavorazione del dolce ricalca quella delle altre specialità festive della pasticceria e richiede tempi lunghi e molta artigianalità. L’impasto lievita infatti per almeno due giorni affinché, al momento del consumo, il prodotto possa acquisire la sua caratteristica sofficità e digeribilità. Come gli altri prodotti Dolce Monaco, anche il panettone gianduia al pistacchio non contiene né conservanti né coloranti. Infine, segnaliamo che di Dolce Monaco è in vendita anche un torrone fresco al pistacchio.

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Anno LXXXVI 18 dicembre 2023

SOCIETÀ

Non è un gioco da ragazzi

A Natale la Migros dà vita ai sogni

Salute ◆ Giocare potrebbe diventare un azzardo problematico e patologico. Ma se ne può uscire Maria Grazia Buletti

Il Disturbo da gioco d’azzardo, nel manuale DSM-5, è classificato tra le dipendenze e non più, come in passato, tra i disturbi del controllo degli impulsi La psicoterapeuta Sani prende ad esempio un semplice biglietto «Gratta e vinci» e il suo subdolo meccanismo: «Ti faccio vincere il costo del Gratta e vinci, ma dobbiamo mettere tra virgolette quel “vincere”, perché solo il cervello lo interpreta come vincita, innescando l’altissima probabilità che tu continui a comprare un altro biglietto, e un altro ancora». Anche se non sempre si vince, il meccanismo si è innescato ed è pericolosissimo: «Pensiamo solo che la nuova legge federale sui giochi in denaro è entrata in vigore nel 2017, sostituendo quella del 1923 per la quale anche i minorenni potevano comperare questo tipo di biglietti; ad esempio, a Bellinzona li compravano addirittura già i bambini delle elementari, giocando con la loro paghetta». Il gioco d’azzardo non si limita a questo, ma abbraccia un mondo intero: dalle slot machine («ideate per essere attrattive e “ipnotizzare” il giocatore che non si rende neppure conto di quanto tempo vi resta incollato»), a tutti gli altri giochi, ivi compresi i più innovativi e facilmente raggiungibili sul web per i quali la specialista lancia un altro monito: «La pandemia ha potenziato questa dipendenza e i giocatori patologici sono raddoppiati,

Concorso ◆ Conosci persone che meriterebbero di veder realizzato un proprio sogno? Nominale ora!

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«Mi è difficile individuare quando mi sono avvicinata al gioco d’azzardo. In forma non patologica, è sempre stato presente nella mia vita: il sabato, per non lasciarmi sola perché mia mamma lavorava, mio papà mi portava con sé a casa dei suoi amici dove trascorrevano lunghe ore a giocare a poker. Un hobby da fine settimana e nulla più. Quando papà vinceva, una parte dei soldi finiva a me, il che non mi pareva assolutamente deprecabile». È l’inizio del racconto di Francesca, 34 anni, che al termine del suo programma terapeutico per un problema di gioco d’azzardo patologico ha testimoniato la propria esperienza nel libro del dottor Cesare Guerreschi Testimonianze, quando la costanza della ragione vince sul demone. Quella «parte dei soldi che finiva a me», l’effetto inebriante della vincita (vedremo, solo apparente) è quanto di più insidioso sta nel gioco d’azzardo: una delle prime «trappole» di cui parliamo con la psicologa e psicoterapeuta specializzata nel disturbo da gioco d’azzardo Anna Maria Sani. «Il “soldo facile” è uno dei valori a cui si tende a voler credere. La realtà è che, a lungo, il giocatore è sempre perdente e il banco vince. È matematico: i giochi d’azzardo sono pensati per far perdere, a lungo termine, ogni giocatore; dunque, tessono una serie di trappole».

a tal punto che i Cantoni hanno lanciato una Campagna di prevenzione al gioco d’azzardo. Oggi questo problema si è accentuato, come del resto tanti altri: Google, TikTok e i social usano gli stessi meccanismi delle slot machine, cosicché si è sempre più esposti e non si riesce più a pensare, sempre più distolti dalla vita e da ciò che ci succede nella realtà». Tornando alla voce di Francesca: «Il mio primo approccio al Casinò avvenne cinque anni dopo il matrimonio e fu l’inizio di un’esperienza drammatica, ai limiti della sopportabilità umana. Provai con le slot machine, mi incollai davanti a una macchinetta e non mi mossi più. Nei giorni seguenti, il mio pensiero tornava spesso alle slot machine». Così cade in una vera e propria dipendenza, che non è uno scherzo e non è affatto un gioco, spiega la psicologa: «Nella quinta edizione del Manuale Diagnostico e Statistico dei Disturbi Mentali (DSM-5) il Disturbo da gioco d’azzardo è stato definito come un “comportamento di gioco problematico persistente e ricorrente, caratterizzato da un’incapacità di controllare il gioco d’azzardo, e che porta a significative conseguenze psicosociali per l’individuo». Rispetto alle edizioni passate, è stato classificato come dipendenza e non come, nel passato, tra i disturbi del controllo degli impulsi. Non è un vizio (comportamento giudicato globalmente in modo negativo), bensì: «È una malattia grave, cronica e recidivante». Le statistiche ne confermano un aumento, anche fra i giovani: «Il disturbo da gioco d’azzardo è spesso considerato un problema che affligge solo gli adulti, mentre l’incremento maggiore oggi è a carico dei minorenni e dei giovani adulti fra 18 e 24 anni. Poi, con Internet è facile aggirare le regole anche nel gioco d’azzardo».

Sono più maschi che femmine, che stanno però aumentando: «Iniziano più tardi rispetto agli uomini, ma cadono più velocemente nella dipendenza. Però sanno chiedere aiuto più facilmente: l’uomo si vergogna, e dietro a chi lo fa c’è sempre una donna che, per aiutarlo a uscirne, lo supporta. La donna è per lo più sola: il compagno lo vive come un problema, viene criticata e viene lasciata a sé stessa. E una donna va a giocare per dimenticare, è una giocatrice “di fuga” dalle emozioni negative, dalla solitudine, dai problemi (ndr: così come è successo a Francesca, che ha chiesto aiuto ed è riuscita a uscirne grazie a questo percorso). L’uomo ci casca per lo più per sentire emozioni forti». Caratteristico è il ventaglio di tratti che accomuna queste persone: «Un pensiero ossessivo del gioco, che diviene una costante nella vita quotidiana fino a interferire con il lavoro, gli interessi abituali, le relazioni famigliari e sociali; la tendenza a raccontare e ricordare bugie (per sostenere le perdite e il bisogno di denaro), scommesse e vincite precedenti; il bisogno di giocare sempre di più per ottenere lo stesso livello di eccitazione. C’è chi, col tempo, riprende il controllo da solo, pena una grossa crisi di astinenza (anche fisica), con l’ombra di una ricaduta visto il carattere recidivante del disturbo. Questi criteri (astinenza, tolleranza, tentativi infruttuosi di fermarsi, rinuncia ad altre attività, persistenza del comportamento malgrado i problemi) sono identici a quelli del disturbo da uso di sostanze». Bisogna saper chiedere aiuto: «Solo il tre per cento lo fa, e la maggior parte di questi ne esce». Ci si deve affidare a esperti sul territorio, perché il ventaglio dei giocatori è ampio e nel percorso bisogna che emerga una grande esperienza. Almeno sette so-

Redazione Carlo Silini (redattore responsabile) Simona Sala Barbara Manzoni Manuela Mazzi Romina Borla Natascha Fioretti Ivan Leoni

Sede Via Pretorio 11 CH-6900 Lugano (TI)

no le persone che soffrono accanto a un giocatore patologico, con conseguenze negative per tutti: «Chi vi sta accanto non dovrebbe continuare a recriminare. Non serve dare la colpa, perché bisogna capire che è una malattia e la persona non è cattiva di per sé, ma va sostenuta nel percorso, creando fiducia nel fatto che se ne può uscire». D’altra parte, bisogna essere decisi: «Non concedergli più prestiti e non pagate più i suoi debiti, perché il giocatore deve fare fatica!». La psicologa sottolinea: «Attraversare ogni esperienza è un duro lavoro; le cose semplici sono stupide e nella vita non ti danno spessore. Bisogna sudare per crescere. Per aiutare un giocatore patologico in difficoltà, bisogna cercare di gestire per un certo periodo la sua situazione finanziaria non lasciandogli disponibilità, per via dell’impulso di giocare troppo grande. E non bisogna temere di affrontare il tema: se diventa aggressivo, è perché stiamo agendo in modo corretto, e parlare del proprio comportamento del gioco dovrà diventare come parlare di ogni altra cosa, in una comunicazione che non vira al giudizio personale. Ricordando che “la malattia è sbagliata, non tu”». Francesca ne è uscita: «Il gioco mi ha riempito tanti momenti vuoti, mi ha tolto responsabilità che non volevo prendermi, mi ha eccitata. Ma nulla più. Mi ha tolto cinque anni di vita e mi stava togliendo anche la vita. Oggi il gioco lo detesto profondamente». Informazioni Il Gruppo Azzardo Ticino – Prevenzione offre consulenze gratuite e anonime, rispondendo al numero verde: 0800 040 080, oppure, sempre a titolo gratuito e anonimo, anche on-line attraverso il sito www.safezone.ch

«La Migros fa di più per la Svizzera», anche a Natale. Grazie all’Albero dei sogni Migros, e al ritorno dell’amato folletto di Natale Finn, anche le persone e le famiglie svizzere meno fortunate dal punto di vista sociale o finanziario potranno festeggiare un buon Natale. Conosci persone particolarmente meritevoli di veder realizzato un loro sogno? Dalle vacanze in famiglia, passando per gli abbonamenti fitness e i corsi di formazione, fino ai biglietti per i festival e le esperienze molto speciali dietro le quinte della Migros, dal 19 novembre fino a Natale la Migros darà vita ai sogni della gente. Per nominare qualcuno, bisogna selezionare il sogno corrispondente da una delle cinque categorie presenti nella fucina dei sogni di Finn, il tenero folletto che a Natale diventa un simbolo inconfondibile della Migros. È possibile scrivere un breve messaggio di saluto o spiegare il motivo per cui è stata nominata una determinata persona. Il folletto Finn appenderà poi la nomination all’albero dei sogni digitale. Una stessa persona può essere nominata per più sogni, ma non può candidarsi da sola: è sempre necessario qualcuno che la nomini. Ogni giorno vi è inoltre anche la possibilità di vincere un buono acquisto sulla ruota della fortuna di Finn. I sogni da realizzare saranno estratti a sorte. Per partecipare e trasformare così i sogni in realtà collegarsi con www.migros.ch/traumbaum; registrarsi; scegliere un sogno da una delle cinque categorie. Buona fortuna!

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Settimanale edito da Migros Ticino Fondato nel 1938 Abbonamenti e cambio indirizzi tel +41 91 850 82 31 lu–ve 9.00–11.00 / 14.00–16.00 registro.soci@migrosticino.ch

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Le mille e più chiese di Roma Dall’antica basilica di Santa Maria in Cosmedin offerta al culto greco melchita, alla chiesa ortodossa di Sant’ Antonio Abate del Collegium Russicum

Un mini album fotografico a fisarmonica Nelle famiglie con bambini, soprattutto nel periodo natalizio, si crea l’opportunità di scattare immagini memorabili da condividere come augurio di buone feste

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Giovanni Luisoni, fotografo del territorio Primi piani ◆ L’intento, da buon documentarista, è quello di porgere al futuro un ritratto del presente Stefano Spinelli

Oggi incontriamo, nel bel Mendrisiotto, all’imbocco della Val di Muggio – la valle più a sud della Svizzera, come ama dire lui stesso –, Giovanni Luisoni. Fotografo del territorio, del paesaggio e della sua gente. Luisoni lavora con la fotografia da oltre mezzo secolo, e tanta parte di questo tempo l’ha dedicata – con l’occhio al mirino – all’attraversamento di questa regione.

Il profilo delle montagne, le sue pianure, i volti delle persone che ci vivono, ci lavorano: «Qui ho trovato tutto quello che cercavo» La fotografia s’insinua nella sua vita già da ragazzo; la sceglie dapprima per curiosità, poi da appassionato, e infine quale mestiere di cui vivere. E con cui esprimersi. Siamo tra la fine degli anni Cinquanta e l’inizio dei Sessanta: «Da ragazzo guardavo incuriosito le persone che possedevano un’apparecchiatura fotografica con cui scattare immagini per l’album della memoria. Desideravo solo poterlo fare anch’io, un giorno. Forse, dentro di me, già era nata la passione, anche se ancora non avevo né i mezzi, né la possibilità reale di poterla sviluppare». Difatti, si forma prima come pittore-decoratore, per aiutare nel lavoro il padre. È solo all’inizio degli anni Settanta, a ventisette anni, che Luisoni apre i suoi due studi fotografici a Morbio e a Mendrisio, dopo aver avuto un paio d’importanti e formative esperienze professionali, in televisione e presso lo studio Tritten di Lugano. Non si nega mai a un lavoro: in quegli anni – ma ancora oggi – viene sollecitato con richieste di vario genere, da ogni dove e in particolare dall’ambiente circostante. Ogni esperienza è un’occasione di crescita, specialmente per un autodidatta come lui (così ama definirsi). Per sbarcare il lunario, Luisoni passa dai servizi matrimoniali alla fotografia tecnica, agli still life, alla foto d’architettura, alle riproduzioni d’arte, divenute con l’andare del tempo una sua specializzazione. Architetti di fama come Botta, Gianola, Carloni, si sono avvalsi del suo contributo. Tami, in particolare, ma anche Snozzi, di cui ha documentato per una pubblicazione i vari interventi architettonici realizzati a Monte Carasso. Collabora nel contempo con giornali e riviste scattando foto di cronaca e proponendo suoi reportage e paesaggi. Ma è nell’amicizia col fotografo Gino Pedroli, noto esponente della fotografia ticinese del ventesimo secolo – da Luisoni considerato anche suo maestro – che nasce la fatale attrazione per il territorio. «Con Gino

Rientro alle stalle, Roncapiano, 1994. (Giovanni Luisoni)

si parlava, e poi m’insegnava tante cose: di amare quello che fai, di amare il tuo territorio, di amare la gente che ci vive; un concetto che ho voluto approfondire». Ed è così che per vari decenni, armato di macchine fotografiche – dal piccolo e medio fino, talvolta, anche al grande formato – percorre e documenta, per lavoro ma in gran parte per suo personale interesse, il territorio in cui ha da sempre vissuto e nel quale, ci confessa, ha trovato tutto, in tutta la sua semplicità.

È nell’amicizia con Gino Pedroli, noto esponente della fotografia ticinese del ventesimo secolo, che nasce la fatale attrazione per il territorio Il profilo delle montagne, le pianure, i volti delle persone che ci vivono, ci lavorano: «Qui ho trovato tutto quello che cercavo. Tutto. In cinquant’anni anni e oltre, riesco a fare ancora qualcosa in questo territorio, che mi ha legato e mi legherà per sempre. Perché, alla fine dei conti non bisogna fare chissà che cosa, dei grandi

passi, per poter veder qualcosa: l’abbiamo lì, sotto casa. Sulla soglia di casa abbiamo tutto e basta avere il cuore e la mente aperti per trovare le cose. E le trovo ancora oggi, magari gli stessi luoghi, stessi momenti, stesse stagioni, ma ogni volta è diverso, ogni volta è cambiato. Questo territorio si è insinuato dentro di me al punto che non potrei fare altro, altrove». L’intento, da buon documentarista, è quello di porgere al futuro un ritratto del presente. Di un oggi che, negli anni, ha portato con sé tanti e sempre più veloci cambiamenti. Non tutti positivi. Da qui anche lo stimolo a realizzare immagini che, senza di lui, testimone di questi luoghi, non sarebbero state scattate, e con le quali può ora porre lo spettatore di fronte a una riflessione sul valore del territorio e sull’importanza di una sua equilibrata gestione. Da qui, anche la necessità di proporre pubblicazioni, affinché ne rimanga nel tempo la testimonianza. Cinque sono le belle, intense e dense, raccolte di immagini, sul Mendrisiotto e la Valle di Muggio – sulla soglia di casa – da lui tanto amata, mandate alle stampe. Il forte senso etico legato alla pra-

tica di Luisoni non è scevro dalla ricerca del bello. Bellezza, che incontra anche nel manifestarsi della tristezza. Il bello che c’è nelle belle cose ma anche in quelle meno belle, da cui la bellezza va tratta fuori. O in quelle proprio brutte, come ne possiamo incontrare – qui, il pensiero, è il mio – ove ci si confronti con lo sviluppo urbanistico selvaggio dei nostri ormai tristi, o meglio detto, squallidi fondovalle. Luisoni, questo lavoro documentaristico – in senso proprio –, fortemente poetico, l’ha realizzato, e continua a realizzarlo, perlopiù in pellicola bianco e nero. Che fosse per i giornali, ma anche per l’architettura o i servizi matrimoniali, nei vari campi in cui è stato attivo professionalmente, era il bianco e nero a essere solitamente da lui utilizzato. E l’abitudine di guardare con gli occhi la realtà a colori e di tradurla in tonalità di grigi, l’ha coltivata fin dagli inizi. Così come l’amore per la camera oscura, per quella dimensione «artigianale» del mezzo fotografico, che ancora oggi lo affascina e lo accompagna. Rispetto al colore, il bianco e nero gli dà e trasmette qualcosa in più – un sentimento, a mio avvi-

so, per tanta parte condiviso da chi ha ancora avuto modo di vivere quel tempo ormai mitico. Ma non per questo, nel suo lavoro personale, ha scansato il colore, dove per ragioni strettamente legate al soggetto ritratto se ne fosse presentata la necessità. E se n’è avvalso col digitale. Tecnologia che ha utilizzato fin dal suo imporsi nella fotografia professionale, dalla fine degli anni Novanta, inizio Duemila. Il colore, digitale, a suo avviso facilita il fotografo, documentando la realtà, dove il colore, appunto, s’impone. Per il bianco e nero, il discorso è diverso e, come già detto, Luisoni continua a prediligere la pellicola che, ritiene, dia ancora oggi risultati dal suo punto di vista migliori rispetto al digitale. Pur con un pensiero al fotografico un po’ preoccupato circa il suo futuro – per l’avvento dell’intelligenza artificiale, portatrice con sé d’incertezza rispetto alla possibilità di riconoscere la verità trasmessa dalla fotografia – Luisoni ci saluta col gentile sorriso di chi, passata una vita dietro al mirino, sa di aver compiuto un grande e irrinunciabile lavoro al servizio della comunità.


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Roma: stessa città, culti diversi

Itinerario ◆ Sembra che nessuno conosca il numero preciso delle tantissime chiese, di ogni confessione, che si trovano nella Capitale italiana Fabrizio Ardito, testo e foto

Mille, forse poche di più. Questo sembra essere il numero delle chiese di Roma anche se nessuno, nemmeno in Vaticano, sembra conoscerlo con precisione. Una schiera imponente, composta da grandi basiliche e cappelle fuori mano, facciate spettacolari e navate nascoste all’interno di palazzi. Non aveva torto l’ironico poeta romano per eccellenza, Giuseppe Gioacchino Belli, quando scriveva: «Nun ze nega però ch’in quant’a cchiese / a Roma uno ppiú bbazzica e ppiú ttrotta / e ppiú bbuffe ne trova a sto paese».

A proposito dei gruppi di «stranieri» che popolano la città più religiosa e cinica del mondo, tra le vie e le piazze di Roma non mancano le chiese di confessioni differenti da quella cattolica Nella Città Eterna, sede del papato e centro della cristianità, ogni nazione del passato volle un suo luogo di culto e buona parte di questi templi – cristiani, ma non cattolici – ancora esistono, con le loro funzioni officiate in spagnolo, francese, tedesco, portoghese o croato che radunano ogni domenica piccole comunità di romani d’adozione, felici di incontrare i loro connazionali. A proposito dei gruppi di «stranieri» che popolano la città più religiosa e cinica del mondo, tra le vie e le piazze di Roma non mancano le chiese di confessioni differenti da quella cattolica. Basta superare la fila di turisti annoiati in attesa di inserire una mano tremante nella celebre Bocca della Verità per entrare nella navata di Santa Maria in Cosmedin – dove le funzioni sono officiate in arabo – per scoprire che l’antica basilica è dedicata al culto greco melchita, patrimo-

nio di una delle più antiche chiese orientali che dipende dal patriarca di Antiochia. Atmosfera ben diversa quella di San Paolo entro le mura, dove gli incontri dei parrocchiani si svolgono spesso all’ora del tè: la chiesa infatti è stata il primo tempio non cattolico a nascere a Roma subito dopo la fine del potere temporale del papato. E i suoi fedeli (protestanti episcopali perlopiù inglesi) ascoltano i sermoni dei loro diaconi all’ombra dei mosaici in stile liberty che raffigurano i combattenti della fede, tra i quali è facile riconoscere i volti di Giuseppe Garibaldi e di Abraham Lincoln. Altro quartiere, altra chiesa, confessione differente: a piazza Cavour, confine del quartiere Prati all’ombra della mole imponente e un po’ sgraziata del Palazzo di Giustizia, la chiesa valdese venne costruita agli inizi del Novecento. Il luogo è piacevolmente tranquillo e silenzioso, anche per la presenza di una bella libreria dedicata soprattutto alla religione e degli uffici che sovrintendono alle molteplici attività della comunità valdese. Qui un’occhiata all’interno del tempio permette di ammirare una collezione di vetrate liberty, stile non molto frequente nella capitale. Per realizzare le immagini evocative di episodi biblici e di storia sacra, i valdesi chiamarono Paolo Paschetto, multiforme artista e disegnatore che ha realizzato anche la prima bozza dello stemma della Repubblica Italiana. Sulla piazzetta dedicata alla Madonna dei Monti sul far della sera si accendono le luci e si scatenano i rumori della movida serale che, nei mesi del post pandemia, sembra aver raggiunto livelli di decibel veramente esagerati. Ci sono delle ore, però, in cui invece delle musichette da balera, la piazza è attraversata dalle voci acute del coro femminile della piccola chiesa ucraina dedicata

San Paolo entro le Mura: dettaglio della Natività con l’Adorazione dei pastori e dei Re Magi, di George Breck. Sotto da sinistra, icone orientali in Sant’Antonio Abate all’Esquilino e nella chiesa dei santi Sergio e Bacco.

ai centurioni romani Sergio e Bacco, martirizzati per volere di Diocleziano. La comunità ucraina di Roma, i cui numeri si sono ampliati enor-

memente nel corso dell’ultimo anno, professa in larga parte la sua religione che, dal Seicento, è entrata in comunione con la Chiesa cattolica. Il rito delle celebrazioni rimane però molto simile a quello ortodosso, l’altare è separato dalla navata da una iconostasi dipinta e nei grandi bracieri bruciano le sottili candele di cera scura che sono caratteristiche delle chiese orientali. E la polifonia del «coro delle badanti» – come lo chiamano con affetto i cinici abitanti della zona – risuona forte e chiara a due passi dal Colosseo. Completamente ortodosse sono invece la liturgia e la decorazione della chiesetta di San Teodoro, che sorge in un piccolo slargo al di sotto della rupe del Palatino sorretta dalle grandi muraglie dei palazzi degli imperatori del passato. Il tempio circolare (che i romani veraci chiamano affettuosamente «San Toto») nacque nel VII secolo e, già che i conteggi della vicina Annona erano affidati alle capacità contabili dei monaci bizantini, fu a lungo frequentata dai greci. Per gli strani casi della storia, la chiesetta, divenuta cattolica, sarebbe tornata al culto delle origini per volere del Papa nel 2004 per essere consacrata nuovamente in pompa magna dal patriarca Bartolomeo I di Costantinopoli.

Nelle mattinate domenicali, un folto gruppo di greci trapiantati a Roma s’incontra nel cortile antico di San Toto, all’ombra della bandiera gialla con l’aquila bicipite simbolo dell’ortodossia. Altro luogo d’incontro per i greci e anche per gli albanesi di fede ortodossa è la centralissima chiesa di Sant’Atanasio dei Greci, parte integrante dello storico Collegio Greco su via del Babuino. Qui la liturgia viene celebrata di volta in volta in diverse forme, tutte ugualmente affascinanti: greco medievale, albanese, serbo e a volte arabo-melchita. Più defilata e meno appariscente delle altre chiese ortodosse, Sant’Antonio Abate, che era parte integrante del Collegium Russicum, raccoglie una parte dei fedeli di origine russa della capitale che mostrano di essere decisamente addolorati dallo scisma tra le chiese russa e ucraina che si è consumato da pochi anni. Avvenimento che forse, ma noi occidentali non l’abbiamo neanche sospettato, è stato un segno premonitore di quel che sarebbe successo nel 2022 ai confini orientali della nostra Europa. Informazioni Su www.azione.ch, si trova una più ampia galleria fotografica.


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TEMPO LIBERO

Ricordi di Natale in scatola

Crea con noi ◆ Un regalo personalizzato da donare alle persone care, come un mini album a fisarmonica con i vostri scatti più belli Giovanna Grimaldi Leoni

Nelle famiglie con bambini piccoli, soprattutto nel periodo natalizio, si crea l’opportunità di scattare foto memorabili da condividere con parenti e amici come augurio di buone feste. Con il nostro nuovo tutorial, vediamo insieme come utilizzare queste immagini per realizzare un regalo personalizzato da donare alle persone care, e dunque come creare una piccola scatola contenente un mini album a fisarmonica con i vostri scatti più belli.

Mettete da parte, per ora, la fotografia che desiderate come copertina. Utilizzando la cornice del coperchio, selezionate la parte delle altre fotografie da ritagliare. Prendete ora la fotografia destinata al coperchio della scatola. Incollatela al centro del quadrato 11x11 cm del coperchio, ritagliando le eccedenze. Ricavate dalla mappetta trasparente un quadrato delle stesse dimensioni e posizionatelo sopra la fotografia. Sigillate tre bordi con il nastro adesivo, inserite le stelline glitterate oro e argento dal quarto lato e infine chiudete anche quest’ultimo. Rivestite il retro del coperchio con un cartoncino di colore neutro o dorato in modo da nascondere l’adesivo. Ricomponete la vostra scatola, e procedete a preparare il contenuto. Dal cartoncino oro, ritagliate una striscia da 10 cm sul lato lungo. Incidetela sulla lunghezza ogni 10 cm in modo da poterla piegare a fisarmonica. Affinché si pieghi correttamente, incidete il cartoncino una volta dal lato dorato e, per la piega successiva, sul lato neutro. Incollate al centro di ogni riquadro una delle fotografie precedentemente tagliate e decorate a piacere con washi tape o altri materiali. Quando avrete completato questo mini album inseritelo nella scatola, cospargete di stelline e richiudete il tutto.

Procedimento Con il set di washi tape rivestite la parte inferiore della scatola alternando i vari motivi in altezza. Utilizzate i nastri anche per rivestire la cornice del coperchio, avendo l’accuratezza di tagliare gli angoli a 45 gradi. Per la decorazione del bordo del coperchio, utilizzate invece del nastro in pizzo, fissandolo con la colla a caldo. Stampate nel formato 9x13 cm le fotografie che desiderate utilizzare.

Giochi e passatempi Caro Babbo Natale anche quest’anno ti chiedo un corpo snello e un portafoglio grasso… Trova il resto della frase risolvendo il cruciverba e leggendo le lettere evidenziate. (Frase: 6, 1, 4, 6, 2, 3, 7)

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Scoprite i 3 numeri corretti da inserire nelle caselle colorate.

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13. Famoso quello di Colombo 14. Lodare e celebrare pubblicamente 16. Gradino sociale 17. Un tessuto 18. Fondò l’impero persiano 19. Nome femminile 21. Danza latinoamericana 22. Persone non all’altezza 24. Stato dell’Asia orientale 25. Se è contento il ciel lo aiuta 27. Si accalca per un autografo 28. Sopra in Francia 29. Mi seguono in miseria... 30. Le iniziali dell’attore Orlando

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VERTICALI 1. Torta napoletana pasquale 2. Leccio 3. Vanno in cerca di alibi 4. Le iniziali dell’attore Argentero 5. Iniziano al tramontar del sole 6. Preposizione articolata 7. Pari in chino 8. Piccole alture 10. I propri... sono propri 12. Scherzo balordo

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31. Costellazione dell’emisfero australe 32. Circondata dai merli

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Tutorial completo azione.ch/tempo-libero/passatempi

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La vostra scatolina fotografica dei ricordi è pronta per essere donata ai vostri cari. Buon Natale!

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(I materiali li potete trovare presso la vostra filiale Migros con reparto Bricolage o Migros do-it)

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ORIZZONTALI 1. Gioia nel mare 5. Un cartoncino con annotazioni 9. Rischio, azzardo 10. Un anagramma di none 11. Si portano sulle spalle 12. Sacri nell’antico Egitto 13. Utilizzo 15. Ha un proprio servizio 16. «Tempestose» quelle di Emily Bront 17. Mare e isola dell’Antartide 18. Si promettono in voto 19. Sapiente, avveduta 20. Risultato 22. Sotto gli occhi di tutti 23. Poco meno che unico 24. Un anagramma di arco 25. Le iniziali dell’attore Norris 26. È appeso a un filo 27. Sottile, minuta 28. Di lei 29. Protette da Igea 30. L’Angelica di Puccini

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• Scatola quadrata in cartapesta da 11 cm con finestra • Fotografie 9 x 13 cm • Set di washi tape • Set di nastri in pizzo • Cartoncino dorato 50 x 70 cm • Stelline argento e oro • Una mappetta trasparente • Forbici o taglierino • Nastro adesivo

Vinci una delle 2 carte regalo da 50 franchi con il cruciverba e una carta regalo da 50 franchi con il sudoku

Cruciverba

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Soluzione della settimana precedente In realtà i repellenti per le zanzare non le respingono ma coprono il… Resto della frase:… NOSTRO ODORE RENDENDOCI INVISIBILI

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Regolamento per i concorsi a premi pubblicati su «Azione» e sul sito web www.azione.ch I premi, tre carte regalo Migros del valore di 50 franchi, saranno sorteggiati tra i partecipanti che avranno fatto pervenire la soluzione corretta entro il venerdì seguente la pubblicazione del gioco. Partecipazione online: inserire la soluzione del cruciverba o del sudoku nell’apposito formulario pubblicato sulla pagina del sito. Partecipazione postale: la lettera o la cartolina postale che riporti la soluzione, corredata da nome, cognome, indirizzo del partecipante deve essere spedita a «Redazione Azione, Concorsi, C.P. 1055, 6901 Lugano». Non si intratterrà corrispondenza sui concorsi. Le vie legali sono escluse. Non è possibile un pagamento in contanti dei premi. I vincitori saranno avvertiti per iscritto. Partecipazione riservata esclusivamente a lettori che risiedono in Svizzera.


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Settimanale di informazione e cultura

Anno LXXXVI 18 dicembre 2023

azione – Cooperativa Migros Ticino

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TEMPO LIBERO

Viaggiatori d’Occidente

di Claudio Visentin

Trasognanti giorni di neve

Il numero di sciatori da tempo ristagna, ma sono comunque ancora parecchi. Per questo la prima neve dell’anno è stata accolta con visibile sollievo: torna il freddo, si sono detti, le stagioni ritrovano il loro significato e sì, quest’anno si potrà sciare. E invece no, queste premesse sono sbagliate. Per cominciare, qualunque ragionamento sul cambiamento climatico deve fondarsi su serie statistiche e non su singoli fenomeni meteorologici. E purtroppo i dati non sono confortanti perché il novembre 2023 è stato il più caldo mai registrato a livello globale. Inoltre, a causa della scarsità di neve, la stagione degli sport invernali è sempre più breve: in media oltre un mese in meno rispetto ai decenni precedenti. In generale, poi, la meteo è ormai imprevedibile se si vogliono programmare vacanze invernali con largo anticipo. Insomma, un po’ di

neve in più o un po’ prima del solito non cambia la questione, anzi potrebbe alimentare pericolose illusioni e spingere magari verso investimenti azzardati in nuovi impianti, quando invece tutti gli esperti considerano ormai lo sci una pratica residuale. Finché sarà possibile sciare approfittiamone, ma senza illusioni. Progetti di espansione sono da escludere; meglio riservare le risorse a nuovi modelli di sviluppo. Certo è difficile immaginare che sulle Alpi i numeri (circa 150 milioni di presenze all’anno) possano restare gli stessi in futuro. Ma si può trasformare una disfatta in una ritirata ordinata, per esempio puntando sulle attività all’aria aperta e sul turismo d’avventura, entrambi molto richiesti soprattutto dalle nuove generazioni (Millennial e Gen Z). E dunque trekking, mountain bike, parapendio, zipline eccetera. sfruttando gli impianti di

Passeggiate svizzere

risalita già disponibili per giocare con la forza di gravità. Nel frattempo gli chalet per gli sciatori vengono resi più confortevoli e proposti per ritiri fuori stagione dedicati al benessere e alla crescita personale (corsi di cucina, di scrittura e così via). Ci sono naturalmente eccezioni alla regola, a volte dove meno ce lo aspetteremmo. In Arabia Saudita si progetta Trojena, una stazione invernale con 36 chilometri di piste, hotel, ristoranti, spa eccetera. E Trojena è solo la quarta parte di Neom, una nuova città sorta grazie a un investimento di cinquecento miliardi di dollari. Il progetto prevede anche un’isola nel Mar Rosso (Sindalah), un’area industriale galleggiante (Oxagon), e infine The Line, una zona residenziale lineare lunga 170 chilometri, per 9 milioni di abitanti. Nel suo insieme il progetto Neom, a regime nel 2030, segna l’ingresso dell’Arabia Saudita

in un futuro aperto al turismo e alla tecnologia, meno dipendente dal solo petrolio. Certo, a prima vista la stazione invernale di Trojena può sembrare un progetto stravagante, come Ski Dubai, la pista da sci costruita in un centro commerciale dell’autoproclamata «città delle meraviglie» (e del cattivo gusto) negli Emirati Arabi Uniti. Ski Dubai è mantenuta sottozero quando fuori il sole arroventa il deserto. Trojena invece sembra muovere da premesse più solide. Per cominciare sorge sulle montagne della regione nord-occidentale del Paese, dove la temperatura di notte scende sottozero per tre mesi l’anno e permette quindi di produrre neve artificiale a condizioni ragionevoli. Inoltre si punta alla sostenibilità, a cominciare dalla desalinizzazione dell’acqua utilizzata. Infine l’energia necessaria per l’innevamento artificiale sarà solare o

eolica. Al di fuori dei tre mesi di neve si potrà nuotare o dedicarsi agli sport acquatici in un lago artificiale, realizzato recuperando in forma circolare l’acqua proveniente dallo scioglimento della neve. Naturalmente un poco di cautela non guasta in tempo di greenwashing e di progetti perfetti solo sulla carta. Ma proprio per la gravità della crisi climatica dobbiamo anche abituarci a pensare in modo nuovo. Con solo il 20 per cento delle stazioni, l’arco alpino registra l’80 per cento delle presenze di sciatori su scala mondiale. Circa due terzi provengono da altri Paesi, anche molto distanti; e dunque nuove stazioni come Trojena potrebbero rispondere a questa domanda di sport invernali, senza bisogno di lunghi (e inquinanti) voli internazionali. La realtà è sempre più complicata – e interessante – dei nostri schemi mentali.

di Oliver Scharpf

L’affresco absidale di Severini a Losanna ◆

Sullo sfondo luccicante d’oro, nell’abside di Notre-Dame de l’Assomption meglio nota come Notre-Dame du Valentin per via del nome della strada che sale e non per il santo degli innamorati come alcuni credono, in un vestito verde smeraldo, si erge come un faro la Madonna Assunta. Per terra poso clémentine de Corse , vischio, e ramolacci appena presi al mercato qui vicino in place de la Riponne. E mi siedo quasi in asse all’affresco absidale bizantinizzante-postfuturista dipinto nel 1934 da Gino Severini (1883-1966). Strabiliante in alcuni quadri – come La danza del pan-pan al Monico (1909), La danseuse obsedante (1911) o Geroglifico dinamico del Bal Tabarin (1912) – per il quale Theo van Doesburg conia il termine di cubismo psichico, il pittore nato a Cortona e morto a Parigi, futurista della prima ora colpito poi da crisi religiosa,

lo ritroviamo qui più mogio nell’abside di questa chiesa risalente al 1832. Opera di Henri Perregaux rinnovata un secolo dopo da Fernand Dumas, architetto del Groupe de SaintLuc che chiama Severini alla riscossa dell’arte sacra. Questa fase di affreschi nelle chiese della Svizzera romanda, iniziata a Semsales nel 1925, nasce però in realtà dalla grande amicizia con il filosofo francese neotomista Jacques Maritain. Immortalato seduto sull’impalcatura assieme al suo aiuto affreschista Antonio Luigi Gajoni, Severini, con il cappello di giornale come uno dei tanti muratori italiani emigrati, nell’unica foto di questo periodo, dipingendo l’Assunzione, di sicuro ha negli occhi la Madonna mozzafiato di Torcello. Del dodicesimo secolo, dentro la basilica di Santa Maria Assunta sull’isola lagunare di Torcello, a mosaico, blu, fluttua an-

Sport in Azione

cora più in alto contro il catino absidale tutto d’oro come qui. Dove a intermittenza entrano diversi credenti a pregare. Alcuni dopo se ne vanno, altri restano. Perciò, piano piano, mi alzo da questa sedia contro il muro di legno da cantiere: il resto di questa prima chiesa cattolica dopo la Riforma protestante in città, elevata a rango di basilica nel 1992, è ancora in restauro. E a passi silenziosi da gatto, mi muovo, per conoscere come meglio posso, un pomeriggio di dicembre, l’affresco absidale (509 m) di Severini a Losanna. Il verde smeraldo inusuale del vestito colpisce a prima vista e caraibizza un po’ lo sguardo. Analizzato nell’estate del 2020 da un gruppo di ricerca capitanato da Francesca Piqué – professoressa alla SUPSI in Scienza della conservazione dei beni culturali – il verde risulta contenere dei pigmenti di ossido idrato di cromo noto anche

come verde di Guignet. Degni di nota sono gli angeli oranti postfuturisti, sei in tutto, tre per parte. Da lontano, d’istinto, mi fanno venire in mente i giocatori di football americano visti secoli fa di notte alla tele. Oltre a una piega robotica, hanno qualcosa di marionettistico. Avvicinandomi, viene a galla, riguardo la linea di demarcazione tra spalle e braccia, l’analogia con l’Uomo di Latta del film Il Mago di Oz (1939). O forse i sei angeli hanno semplicemente delle fattezze tubiste, alla Léger (tubismo viene coniato per lui da Louis Vauxcelles, inventore anche di cubismo e fauvismo). Ma è nelle ali il colpo di scena: multicolori come nell’iconografia islamica degli angeli. Inutile passare in rassegna tutto il paesaggio dei santi presenti, più interessante, magari, notare su una collina a sinistra di Maria assunta in cielo, piazza San Pietro a Roma con la sua

basilica, più in là un edificio moderno non identificato. Dall’altro fianco, unita così spiritualmente con Roma, c’è Losanna, rappresentata dalla cattedrale e dalla Tour Bel-Air (1931), primo grattacielo svizzero, opera di Alphonse Laverrière, architetto incontrato in occasione della ricerca della tomba di Coco Chanel. Una colomba accanto in picchiata ricorda un aereo. Voci e grida da ricreazione scolastica, in un cortile vicino, ravvivano la mia visita. Il volto di Gesù Bambino in braccio, alcuni dissero, è quello di uno dei bambini morti di Severini. Balzano agli occhi dall’inizio ma ho voluto tenerle per la fine, le losanghe a scacchiera come nel vestito degli arlecchini nei suoi quadri futuri. Tornato nelle retrovie, ora l’aureola color lavanda dell’Assunta, mi sembra accordarsi alla perfezione con il basco di lana, fatto a mano, di una vecchiettina in quart’ultima fila.

di Giancarlo Dionisio

L’inebriante profumo dell’oro ◆

«Pecunia non olet». Il denaro non puzza, e fa sempre comodo, indipendentemente dalla sua provenienza. Almeno secondo chi concorda con questa massima dell’imperatore Vespasiano. Anche l’oro non puzza. Ma esala idealmente un profumo che stordisce, che inebria. Noè Ponti, da grande, non aveva mai vinto una medaglia d’oro in una mega manifestazione internazionale. L’ultima, anzi l’unica, risaliva ai Campionati europei giovanili del 2019, quando il fenomeno della Nuoto Sport Locarno aveva 18 anni. Dopodiché sono giunte le presenze sul podio agli Europei assoluti, ai Mondiali in vasca corta e ai Giochi olimpici. Mai l’oro. Forse, in cuor suo, se lo aspettava alcuni mesi fa nella rassegna iridata che si è tenuta a Fukuoka, in Giappone. Tuttavia, non solo la lacuna non è stata colmata, ma anche il podio è rimasto un miraggio.

Noè ci ha abituati bene. Direi quasi viziati. Un po’ come Lara Gut-Behrami, dalla quale ci aspettiamo sempre risultati miracolosi, al punto che quando non arrivano, taluni cominciano a ipotizzare che sia oramai in riserva. Noè ha sempre lo sguardo avanti. C’è sempre un nuovo focus che lo spinge, lo attira, lo avviluppa in una sorta di trance agonistica. È la sua forza. Insieme ovviamente al talento, alle doti atletiche, allo spirito di abnegazione e alla tecnica costruita grazie al paziente lavoro svolto con Massimo Baroffio. L’oro è arrivato, un paio di settimane fa, a Otopeni, in Romania, in un Campionato europeo in vasca corta che gli ha regalato la consacrazione definitiva, ammesso che fosse necessaria. Il primo dei tre allori, con tanto di record continentale, e con gli avversari molto lontani, gli ha donato la soddisfazione di ascoltare finalmen-

te con commozione le note del salmo svizzero, ma anche la lucida sfrontatezza di esprimere la sua gioia al microfono della Rsi: «Mi sono tolto un grosso peso dopo il Mondiale in vasca lunga. Da lì ho detto che non volevo più perdere. Più che agli altri volevo dimostrare a me stesso che sono il più forte, perché lo sono. Almeno per me». Forse qualcuno potrebbe pensare che Noè sia uno spaccone. Personalmente dissento. È un ragazzo autentico. Uno che non filtra eccessivamente le informazioni da dispensare ai media, anche perché, in ogni caso, parla di sé e delle sue prestazioni, mai si sofferma sui rivali, che tratta sempre col massimo rispetto. Non a caso, a Tokyo, in occasione del suo bronzo olimpico, si lasciò uscire un «cazzo ho vinto una medaglia», sempre ai microfoni della Rsi, coccolandosi fra le mani il prezioso trofeo che pendeva dal suo collo.

Dopo quell’impresa, molti se lo ricorderanno, Noè era emigrato negli Stati Uniti, convinto di poter trovare persone e strutture che lo avrebbero fatto crescere ulteriormente. Così non è stato. Laggiù era uno fra molti. Qui era ed è Noè Ponti. Il numero Uno. Con tutte le attenzioni, le carinerie e i privilegi di cui cotanto ambasciatore può beneficiare. Con Ajla Del Ponte e Filippo Colombo, Noè è un importante «testimonial» dell’Associazione Aiuto Sport Ticino: «Loro mi hanno aiutato quando ero un ragazzino. Vi invito a fare altrettanto con chi si incammina verso lo sport di punta». Tornato a casa dagli States dopo pochi mesi di soggiorno, ha ritrovato il suo ambiente, la sua famiglia, gli amici, lo staff. I risultati non si sono fatti attendere. Nel giro di dodici mesi sono giunte tre medaglie ai Mondiali in vasca corta. Esattamente come fe-

ce una ventina di anni fa Flavia Rigamonti, Noè è riuscito a sdoganare il nuoto anche fra il grande pubblico dei non specialisti. Gli addetti ai lavori, invece, non sono sorpresi. Era un predestinato. Fin dalle prime bracciate, chi lo seguiva, ha capito di avere fra le mani un talento cosmico. Ora ha 22 anni. Fosse americano, australiano o cinese, potremmo considerarlo avviato verso la parabola discendente, risucchiato in un ingranaggio complesso da cui, ogni anno, emergono centinaia di ragazzini pronti a fare lo sgambetto ai meno giovani. Ma Noè Ponti, per nostra grande soddisfazione, è svizzero, ticinese. Nessuno lo insidia. Se sarà sorretto dalla passione e dalla disponibilità di spremersi oltre il limite, in sedute d’allenamento sempre più massacranti, il ragazzone del Gambarogno, il profumo dell’oro se lo gusterà ancora parecchie volte.


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Settimanale di informazione e cultura

Anno LXXXVI 18 dicembre 2023

azione – Cooperativa Migros Ticino 19

ATTUALITÀ ●

Natale: una festa colonialista? In Occidente c’è chi rifiuta abeti decorati e stelle comete in nome dell’inclusività e della diversità. Ma il rispetto è altra cosa

Il rilancio di Putin e il clima Le quotazioni dello zar sono risalite mentre la Russia continua ad avere un ruolo da svolgere nell’economia energetica del pianeta

La grossa crisi cinese La Repubblica Popolare sta attraversando un momento molto complicato e Pechino reagisce anche epurando i vertici del partito

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Nuovo Governo con qualche sorpresa

Berna ◆ Beat Jans sarà ministro di giustizia e polizia: sostituirà l’altra socialista, Elisabeth Baume-Schneider, che prenderà il posto lasciato libero da Alain Berset. Ecco le sfide che attendono l’Esecutivo Roberto Porta

E alla fine c’è stato spazio anche per una sorpresa. L’elezione del Consiglio federale di mercoledì scorso ha portato ad un imprevisto rimpasto dipartimentale tra i due ministri socialisti: Elisabeth Baume-Schneider cambia casacca e passa al Dipartimento dell’interno, mentre il neo-eletto Beat Jans, al momento presidente del Governo di Basilea-città, la sostituirà alla testa del Dipartimento di giustizia e polizia. È l’ultimo capitolo di questo lungo anno elettorale. Lo affrontiamo attraverso alcuni dei protagonisti di quest’ultima settimana ma anche ricordando un altro illustre basilese.

Da sinistra: il neoeletto Beat Jans, Elisabeth BaumeSchneider e Alain Berset. (Keystone)

Hans-Peter Tschudi Iniziamo da questo ex consigliere federale perché la sua figura condensa in sé diversi aspetti della politica svizzera di cui si discute ancora oggi. Scomparso nel 2002, socialista, in Governo per 14 anni a partire dal 1959, Tschudi venne eletto malgrado non fosse il candidato ufficiale del PS, questo per dire che già allora capitava che il Parlamento sconfessasse il volere di un partito. Il ministro basilese inaugurò inoltre la lunga stagione della «formula magica», nata proprio nel 1959 con l’elezione contemporanea di ben quattro nuovi consiglieri federali e con uno schema di Governo che prevedeva due ministri ciascuno per il PLR, i conservatori e i socialisti e uno per quella che oggi chiamiamo UDC. Una formula che oggi presenta una diversa ripartizione partitica – l’UDC ha due ministri e il Centro uno solo – ma che rimane tutto sommato ancora «magica», visto che è stata confermata anche da questa tornata elettorale. In gioco c’è la stabilità delle nostre istituzioni e al momento non si intravvedono altre formule più affidabili. Altra particolarità legata a Tschudi: era basilese e fino alla settimana scorsa era lui l’ultimo consigliere federale di questo Cantone. Negli ultimi cinquant’anni Basilea città non ha più avuto un proprio rappresentante a Berna, malgrado questa regione sia uno dei maggiori poli economici del nostro Paese. E qui arriviamo al protagonista numero uno dell’elezione del Consiglio federale e al rimpasto dipartimentale che ne ha fatto seguito.

Jans e Baume-Schneider Corsi e ricorsi della storia, il neo-consigliere federale Beat Jans è anche lui basilese e socialista. Una volta eletto, tutto lasciava pensare che gli sarebbe toccata la guida del Dipartimen-

to federale dell’interno, proprio come a Tschudi. E invece giovedì sera la decisione a sorpresa del Consiglio federale che ha deciso di procedere a un doppio cambio di marcia. Jans sarà il nuovo ministro di giustizia e polizia, al posto dell’altra socialista in Governo, Elisabeth Baume-Schneider, che prenderà il posto lasciato libero da Alain Berset. Dopo solo un anno la ministra socialista lascia dunque il suo dipartimento, forse anche nella speranza di lasciarsi alle spalle le tante critiche che l’hanno finora accompagnata.

Ue più vicina Tocca ora al neo-eletto Jans gestire il delicato dossier dell’asilo e anche tutto quello che ha a che fare con la migrazione nel nostro Paese, compresa quella in arrivo dall’Unione europea in base all’accordo sulla libera circolazione delle persone. E proprio in ambito europeo, diversamente da Berset, il neo-ministro potrebbe schierarsi con maggiore decisione a sostegno di un avvicinamento del nostro Paese all’Ue. E favorire i negoziati che stanno per aprirsi tra Berna e Bruxelles nella definizio-

ne di quelli che vengono chiamati i «Bilaterali 3». Così almeno ha ripetuto più volte lo stesso Jans, durante la campagna elettorale che lo ha portato in Governo. Per Baume-Schneider invece si apre una nuova sfida, con un obiettivo su tutti: riuscire a dare una nuova dinamica ai tanti cantieri aperti lasciati da Alain Berset, a cominciare dalla lotta ai continui aumenti dei costi della salute e alla riforma del sistema pensionistico. In quest’ultimo ambito toccherà a lei, giurassiana, cercare di imitare il basilese Tschudi, che nei suoi 14 anni in Governo si meritò il titolo di «padre dell’AVS», non per aver creato questa assicurazione ma per averla rafforzata con una serie di riforme. Cambiare dipartimento dopo solo un anno è un fatto decisamente inusuale, anche per questo la ministra socialista dovrà riuscire a partire con il piede giusto. Al varco, il prossimo 3 marzo, l’aspettano subito due votazioni popolari, con al centro il futuro del nostro sistema pensionistico. Le sfide con cui è confrontato il suo dipartimento sono in ogni caso colossali, dalla sua Baume-Schneider ha il fatto di essersi già in passato occupata di temi sociali. Il futuro dirà se questa esperienza potrà esserle utile.

Ma torniamo all’elezione del Consiglio federale, dando uno sguardo agli sconfitti. Come Jans, anche Pult era il candidato ufficiale del Partito socialista. 39 anni, il deputato grigionese non è mai riuscito ad andare oltre al terzo posto in questa elezione. Su di lui ha di certo pesato la sua vicinanza all’attuale presidenza del PS, marcatamente di sinistra.

Daniel Jositsch Discorso diverso invece per Daniel Jositsch. Brillantemente rieletto al Consiglio degli Stati, già al primo turno, il senatore zurighese rappresenta l’ala più moderata del partito ma non era un candidato ufficiale alla sostituzione di Berset. Come già l’anno scorso, quando si trattava di prendere il posto di Simonetta Sommaruga, i vertici del partito hanno di nuovo fatto di tutto per bloccargli la strada. E lui, di certo molto competente ma anche altrettanto ambizioso, ha sempre voluto fare una corsa propria, da battitore libero, pronto a sfruttare qualsiasi possibile pertugio che lo potesse portare in Governo. Una strategia che gli ha permesso di ottenere un discreto bottino di voti, soprattutto dal

fronte borghese, voti che però sono serviti soltanto a seminare zizzania dentro il suo partito.

Ignazio Cassis Il risultato ottenuto dal ministro ticinese è stato ben migliore del previsto. Cassis è riuscito a respingere l’attacco del candidato dei Verdi, Gerhard Andrey, e al tempo stesso a portarsi a casa un discreto bottino di voti. Per il ministro degli esteri una salutare iniezione di fiducia, in vista delle sfide che lo attendono in ambito europeo e nell’attuale contesto internazionale, segnato da crisi e conflitti. Nel loro tentativo di accedere al Governo, i Verdi si aspettavano un sostegno più deciso da parte dei socialisti. Appoggio che non c’è stato, cosa che ha creato parecchio nervosismo tra i due partiti, con i socialisti accusati di aver preferito difendere il PLR, anche per non mettere a repentaglio la loro strategia nella corsa al seggio lasciato libero da Berset. E così la legislatura nasce con diverse tossine da smaltire a sinistra e con un fronte borghese che se la ride. È riuscito ad imporre una versione rossocrociata del «divide et impera» di romana memoria.


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Settimanale di informazione e cultura

Anno LXXXVI 18 dicembre 2023

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ATTUALITÀ

Una festa discriminante e colonialista?

Natale ◆ In Occidente c’è chi rifiuta abeti decorati e stelle comete in nome dell’inclusività e della diversità. Ma il rispetto è altro Francesca Marino

C’era una volta il Grinch, l’essere solitario che voleva rubare il Natale ai bambini. C’era una volta e, a quanto pare, c’è ancora. Solo che non è più un personaggio che vive dentro un set cinematografico e nella memoria collettiva di un paio di generazioni di bambini, stavolta è reale. E ha facce e nomi diversi, le facce e i nomi di tutte quelle persone che per motivi politico-ideologici, in giro per l’Occidente, cercano di cancellare stelle comete e abeti natalizi in nome dell’inclusività e della diversità.

C’era una volta il Grinch, l’essere solitario che voleva rubare il Natale ai bambini. E, a quanto pare, c’è ancora. (Wikipedia)

In India tutte le feste religiose si celebrano con molto entusiasmo e una grande partecipazione collettiva. Babbo Natale diventa Christmas Baba La Commissione canadese per i diritti umani – un’agenzia con ampi poteri giudiziari interamente finanziata dal Governo federale – ha dichiarato che la celebrazione del Natale è una prova dell’intolleranza religiosa «colonialista» del Canada. Il succo del discorso è, secondo i membri della suddetta Commissione, che il Natale sarebbe una festa «bianca», discriminante e colonialista, imposta agli «indigeni» dai «coloni» del Cosiddetto Canada. E poco importa che i canadesi, indigeni o no, in un sondaggio si siano dichiarati all’80% felici di festeggiare il Natale. La balzana teoria era d’altra parte stata avanzata anche qualche anno fa in un documento rivelato da alcuni giornali ma mai reso ufficiale della Commissione europea. Documento che invitava tutti i dipendenti della Commissione e tutti gli Stati membri ad abolire il Natale e a parlare invece di «Festività d’inverno», sempre in nome in nome dell’inclusività e della multiculturalità di cui sopra, ovviamente. Seguendo il flusso, dunque, in Italia l’Università europea di Fiesole ha

deciso quest’anno di ottemperare rigidamente agli obblighi dell’autoimposto «Piano per l’uguaglianza etnica e razziale». Secondo il Piano le feste religiose vanno certamente inserite nel calendario delle lezioni, ma il linguaggio con cui le si comunica deve essere «inclusivo». Niente di più inclusivo, quindi, che rinominare «l’ex festa di Natale… per eliminare il riferimento cristiano», casomai i re Magi, il bue e l’asinello dovessero offendere la sensibilità di qualcuno. Qualcuno dovrebbe informare il rettore di quell’istituto che, a voler proprio sottilizzare, Babbo Natale e gli abeti illuminati non hanno nulla, ma proprio nulla di cristiano e che Rudolph la renna non ha mai partecipato alle Crociate. Parlando più seriamente, qualcuno dovrebbe domandare al

rettore se, in nome dell’uguaglianza, ha intenzione anche di impedire ai suoi studenti musulmani di celebrare Bakhr-Eid (la festa che commemora il sacrificio del figlio del profeta Ibrahim) o magari di ribattezzarlo «barbecue di capretto» per «eliminare il riferimento musulmano», oppure se l’Università di Fiesole intende chiedere agli studenti induisti di ignorare il Durga Puja ribattezzandolo invece «festa della battaglia» e togliendo quindi ogni rifermento alla dea induista Durga. Casi estremi da non prendere molto sul serio? Non proprio. Perché a quanto pare il Grinch è già all’opera. Ero ad Amsterdam giorni fa, illuminata di luci natalizie che però di natalizio non avevano nulla. Nemmeno una stellina piccola piccola, non

un Babbo Natale o un alberello striminzito e, ovviamente, non parliamo neppure del colonialista e «bianco» presepe. Che però, per descriverlo in termini moderni, celebra in fondo una famiglia di rifugiati. La nascita di un bambino ebreo i cui genitori, per sfuggire a una pulizia etnica, sono stati costretti alla fine a rifugiarsi in Egitto. Senza contare che la famigliola, essendo originaria della Giudea, non era di certo «bianca». In ogni caso, in Inghilterra e in altri posti in Europa, molti mercatini di Natale sono stati cancellati quest’anno «per ragioni di sicurezza». Così come è stata cancellata in molte città l’accensione pubblica delle menorah ebree (i candelabri a sette braccia prescritti a Mosè per l’illuminazione del Santuario). Sempre in nome dell’inclusività e del

rispetto della religione altrui. E io, che sono tornata a casa per Natale e ho tirato fuori i pastori del presepe conservati per decenni da mio padre, leggo queste notizie e penso ormai con crescente nostalgia all’India. Dove invece tutte le feste religiose vengono celebrate con entusiasmo dalla maggior parte della popolazione (fanatici esclusi, ovviamente). Dove Babbo Natale diventa Christmas Baba, alberghi e negozi si riempiono di elfi e folletti per attirare i bambini, e il colore della pelle o la religione dei suddetti elfi e folletti sono del tutto ininfluenti. Dove anche chi non è cristiano magari va ad ascoltare carole natalizie nelle chiese la notte di Natale. Dove, a Goa, nelle natività amorosamente preparate Gesù, Giuseppe e Maria hanno le fattezze e i colori di una qualunque famiglia indiana e nessuno se ne stupisce. Penso a certi Natali stranianti passati ancora più a est, penso che tra qualche anno Natale si celebrerà dappertutto tranne che qui. E penso a mio padre, affettuosamente ribattezzato «Luca Cupiello» per la sua passione per il presepe. Io, che non sono religiosa, a casa mia accendo le luci di Diwali e le candele di Hannukkah, faccio l’albero di Natale e il presepe, ho festeggiato Durga Puja e innumerevoli Bakhr-Eid e rotture del digiuno di Ramadan, ho acceso le lanterne per Buddha Purnima (il compleanno di Buddha) e ho accompagnato le processioni di Muharram (nel calendario islamico è il primo mese dell’anno). Come quasi tutti i miei amici indiani, atei o religiosi che siano. Perché per noi inclusività e libertà significano rispetto, non cancellare usanze e tradizioni dell’altro ma nemmeno le proprie. Perché, come cantava l’indimenticato Giorgio Gaber: «La libertà non è uno spazio libero, la libertà è partecipazione». E l’integralismo, laico o religioso che sia, è il contrario della libertà e dell’inclusività. Perciò, buon Natale. A tutti, ma soprattutto al Grinch.

Da reietto della società a sindaco apprezzato

Canada ◆ Dan Carter era un senzatetto alcolizzato e tossicodipendente. Oggi guida una città e si impegna per salvare chi soffre

Canada. Oshawa, città di 175mila abitanti sul lago di Ontario. Dal 2018 ha un sindaco di successo. Piace talmente tanto che l’hanno rieletto con oltre il 70% dei voti. È un outsider, di tutt’altro tipo rispetto agli outsider sovranisti in voga non solo nelle Americhe. È un ex senzatetto problematico che si è riscattato. La sua vicenda – che ci sembra un bel regalo natalizio – è stata raccontata di recente dal «New York Times». Si chiama Dan Carter (nella foto), ha 63 anni ed è sopravvissuto a una vita di espedienti: piccoli furti, droga, alcolismo. Da sindaco ha puntato tutto sulle politiche di reinserimento dei senzatetto e di guerra alle overdose usando un razionalissimo argomento: quanto ci costa ogni persona che vive all’addiaccio? Quanto ci costa ogni tossicodipendente? E ogni alcolista? Salviamoli. Non lo vogliamo fare per senso d’umanità? Ok, facciamolo per senso del risparmio. E l’idea ha funzionato. In Municipio c’è una lavagna piena di scritte colorate: «Numero di morti per overdose lo scorso anno,

398. Quanto sono costate alla città quelle morti: 365’000 dollari. Numero di senzatetto oggi: 350». Avvisa il sindaco: «Salvarli richiederà molto lavoro, ma deve essere fatto». Il primo piano di sostegno ai senzatetto è fallito dopo poche settimane. Carter aveva messo a molti angoli della città dei servizi igienici per chi vive in strada e se li è ritrovati quasi tutti incendiati. Ha ripiegato sul finanziamento di nuovi servizi igienici pubblici permanenti in una struttura al chiuso. Al «New York Times» dice: «Per 17 anni ho mentito, ingannato, rubato. Non avevo abilità, né capacità, né istruzione». Si descrive come un ex analfabeta, ed è vero che non è riuscito a leggere e a scrivere per lungo tempo a causa di una grave dislessia che nessuno aveva diagnosticato nel sobborgo vicino a Toronto dove è cresciuto con la famiglia che lo ha adottato. Rapporto complesso con il padre, legami freddi coi genitori. «Sono stato licenziato da quasi tutti i lavori che ho tentato». L’unico che gli stava vicino era suo fratello adottivo Mi-

chael, un poliziotto morto a 28 anni in un incidente in moto quando lui era ancora tredicenne. È allora che ha iniziato una discesa rapida e dolorosa nell’alcolismo prima e nel consumo di eroina poi. «Quando bevevo sentivo fiducia in me stesso. Pensavo di essere divertente, carismatico. Quando bevevo non dovevo pensare a quanto fossi un fallito». Dice di non riuscire a sopportare l’odore di benzina e olio da quando, a 7 anni, ha subito una violenza sessuale in una stazione di servizio. Dopo molti anni vissuti in strada, senza amici, a 31 anni, disperato, ha chiamato sua sorella adottiva che lo ha accolto in casa sua. Era ricca, era un’imprenditrice. Lo ha portato a Los Angeles in un centro specializzato per la disintossicazione. C’è restato un anno. E oggi dice: «Non hanno senso i programmi di recupero di qualche mese, non me ne importa nulla se i manager del sistema sanitario pubblico dell’Ontario non ritengono compatibili con i budget i programmi di disintossicazione lunghi.

Wikipedia

Angela Nocioni

Non me ne importa nulla perché so che se fossi stato in un programma di trattamento per 21 o 28 giorni, oggi non sarei seduto qui». Al suo ritorno dal centro di recupero di Los Angeles Carter ha lavorato in un club di scommesse fuo-

ri dall’ippodromo, dove un attore di passaggio è rimasto colpito dalla sua bella voce e gli ha suggerito di cercarsi un lavoro in una tv locale. Carter è così riuscito a farsi assumere, presentava un talk show. Poi ha creato una società di produzione e ha convinto una catena a trasmettere il programma: «The Dan Carter Show». È diventato una piccola star locale. Da lì, dal piccolo studio – dove ha intervistato tanti politici del luogo – è partita la sua campagna elettorale per le municipali nel 2018. S’è preso i due terzi dei voti, riconfermati in abbondanza nell’ultima elezione. Giorni prima del suo insediamento come sindaco, General Motors ha annunciato che stava per chiudere la produzione di automobili in città dopo più di un secolo di esistenza. «Non ho mai criticato General Motors in pubblico – racconta Carter – ma trovavo quella decisione indecente e abbiamo lavorato duramente per convincerli a riaprire lo stabilimento di produzione». L’impianto ha riaperto nel 2021 e ora impiega più di 3400 persone.


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ATTUALITÀ

Il rilancio dello zar e gli sforzi per il clima

L’analisi ◆ La seconda metà del 2023 ha visto risalire le quotazioni di Vladimir Putin, ecco perché. Intanto la Russia continua ad avere un ruolo da svolgere nell’economia energetica del pianeta, e lo avrà ancora a lungo Federico Rampini

Per osservare l’anno che si chiude mi concentro su due sorprese: la rimonta del presidente russo Vladimir Putin e il parziale successo della conferenza sul clima Cop28 a Dubai. Un sottile nesso collega questi due temi. Putin non ha pagato alcun prezzo per la violazione delle norme internazionali e dei diritti umani. Eppure il 2023 sembrava cominciato male per lo zar. All’inizio dell’anno circolavano voci su una sua presunta malattia. L’Europa usciva dall’inverno senza aver subito l’Apocalisse energetica che i «putiniani domestici» le avevano promesso come castigo per le sanzioni. Aspettative ottimistiche precedevano l’offensiva di primavera delle forze ucraine. Il punto più basso per lo zar fu toccato con l’insubordinazione del Gruppo Wagner. Cominciata il 24 giugno, la rivolta vedeva come protagonisti mercenari che erano stati efficaci sul fronte ucraino. Sembrarono sul punto di dare una spallata al regime. Il golpe non c’è stato, il capo della Wagner Yevgeny Prigozhin è stato eliminato in un «incidente» aereo. La seconda metà del 2023 ha visto risalire le quotazioni di Putin. Il fronte ucraino sembra essersi stabilizzato, alimentando scenari di una guerra proiettata su tempi lunghi. La Russia torna a essere favorita per la superiorità militare e demografica. Le sanzioni contro l’aggressore non hanno mai sortito gli effetti che alcuni speravano in Occidente. Per la Russia l’appoggio economico della Cina è stato formidabile; vi si sono aggiunte le scelte fatte dall’India, dalla Turchia, dal mondo arabo e da tutto il Grande sud globale, di non applicare le nostre sanzioni. Putin ha potuto riorganizzare il Paese sotto le regole di una economia di guerra, dirottando la massima parte delle entrate energetiche verso la produzione di armi.

Dopo una partenza in difficoltà il leader russo rialza la testa. La Russia torna ad essere favorita per la superiorità militare e demografica Sul finire del 2023 Putin è tornato a sperare nella sua «risorsa segreta»: l’incostanza dell’Occidente. Gli aiuti militari americani sono sempre stati un passo indietro, e con molti mesi di ritardo, quando si trattava di fornire agli ucraini armamenti davvero avanzati. Gli europei non hanno neppure iniziato a ricostruire le proprie forze armate e l’industria bellica necessaria. La tenuta di Donald Trump nei sondaggi ha fornito alibi sulle due sponde dell’Atlantico: visto che tra un anno l’America potrebbe ripiegarsi su una politica estera isolazionista, sono cominciate manovre di retromarcia con cui molti si preparano a mollare Kiev al suo destino. Il finale positivo del 2023 per Putin è stato segnato da altri eventi internazionali. Il presidente russo ha avuto un gigantesco regalo dal destino – o sarebbe meglio dire dall’Iran – quando il 7 ottobre Hamas ha lanciato la sua carneficina di civili israeliani. La deflagrazione di un nuovo conflitto in Medio Oriente ha distolto attenzione politica, risorse di intelligence e aiuti militari americani dall’Ucraina verso Israele. La guerra di Gaza ha anche fatto esplodere alla luce del sole profonde divisioni all’interno delle so-

Il sultano Al Jaber, presidente della COP28; in basso, Vladimir Putin. (Keystone)

cietà americana ed europea: tanti giovani e tanti immigrati hanno occupato le piazze contro l’appoggio americano a Israele, e più in generale hanno manifestato tutta la loro ostilità verso l’Occidente. Il rilancio dello zar è stato sottolineato da due visite all’estero, in Arabia Saudita e negli Emirati, dove Putin è stato accolto con tutti gli onori. La parentesi del suo presunto isolamento si è chiusa così. Anche perché Putin – come i dirigenti arabi del Golfo – non ha mai creduto all’ambientalismo apocalittico. Sa che di energie fossili il mondo avrà bisogno ancora per tanto tempo, e i Paesi emergenti in particolare: senza energie fossili morirebbero di fame per mancanza di fertilizzanti e di malattia per il venir meno dei farmaci sintetici. La Russia come membro dell’oligopolio petrolifero allargato Opec+ avrà ancora a lungo un ruolo da svolgere nell’economia energetica del pianeta, con questo continuerà a rafforzare i suoi arsenali di distruzione e pianificherà nuove guerre di con-

quista. La rimonta di Putin perciò si affianca con quel che è accaduto a Dubai. La Cop28 ha riunito 190 Paesi sotto la presidenza degli Emirati. Ha finito per adottare un linguaggio più drastico sulla necessità di ridurre i consumi di energie fossili, rispetto a quanto sembrava possibile all’inizio. L’accordo finale parla nella versione inglese di «transitioning away from fossil fuels in energy systems, in a just, orderly and equitable manner». La concessione è stata offerta in extremis dal sultano Al Jaber, ministro dell’Industria degli Emirati, inviato speciale per il cambiamento climatico, e presidente della compagnia petrolifera di Abu Dhabi. Al Jaber dirigeva i lavori della Cop28. Ha soddisfatto un fronte ambientalista dei Paesi sviluppati includendo l’obiettivo di una transizione «in uscita» dalle energie fossili. Ha accontentato il Grande sud globale precisando che deve avvenire in modo «giusto, equo, ordinato», quindi graduale e compatibile con le ne-

cessità di crescita dei Paesi emergenti. Nelle 11’000 parole del testo finale appaiono obiettivi audaci come quello di triplicare l’energia prodotta da sole, vento e altre rinnovabili. Tutto positivo visto che fino all’ultimo sembrava escluso ogni accenno al ridimensionamento delle energie fossili. Il pragmatismo arabo non si è arroccato in una difesa a oltranza di gas e petrolio; ha avuto comunque la meglio nella sostanza. Non si parla di un abbandono totale, e il ridimensionamento di petrolio e gas viene riferito ai «sistemi energetici»: implicitamente restano fuori utilizzi di altro tipo come la produzione di fertilizzanti per l’agricoltura o tutte le derivazioni petrolchimiche come medicinali, apparecchiature biomediche o le tante plastiche incorporate anche nelle auto elettriche. Allo stato attuale della tecnologia non ci sono sostituti per le energie fossili in questi settori. Un obiettivo di abbandono in tempi rapidi delle energie fossili sarebbe risultato inaccettabile non solo per chi le produce (come i Paesi Arabi) ma anche per i consumatori poveri. Nel sud del pianeta le rinnovabili faticano a generare il 5% del fabbisogno; per molti Paesi il carbone resta una materia prima a buon mercato per portare la luce nei villaggi. Si aggiunge un’antica diatriba su quali siano le «rinnovabili»: per il Governo cinese il nucleare rientra a pieno titolo in questa categoria. A mitigare la portata di questa Cop28 c’è appunto il ruolo della Cina. Il documento finale approvato a Dubai non è vincolante per nessuno. Tantomeno per Pechino, che ha sempre rifiutato di sottoporsi a regimi di controlli. Xi Jinping ha consolidato il ruolo della Repubblica Popolare come «modello» per i Paesi emergenti, con questo approccio: riconosce l’emer-

genza climatica in tutta la sua gravità e afferma la necessità di mitigarla; investe in modo massiccio nelle rinnovabili al punto da aver conquistato una posizione dominante nella produzione di auto elettriche, batterie, pannelli solari, pale eoliche e molti dei componenti che entrano in queste tecnologie; investe più di ogni altro Paese al mondo nel nucleare (55 centrali ad oggi) che esporta anche all’estero; al tempo stesso la Cina rimane e rimarrà molto a lungo la più grossa consumatrice e importatrice di carbone, petrolio e gas; continuerà anche a costruire centrali elettriche a carbone e a gas sia sul proprio territorio sia in altri Paesi del mondo.

A mitigare la portata di questa Cop28 c’è il ruolo della Cina. Il documento finale approvato di recente a Dubai non è vincolante per nessuno L’orizzonte temporale entro il quale Pechino prevede di cominciare ad abbassare le proprie emissioni carboniche è il 2060. Neppure questo è un obiettivo vincolante. Comunque da qui a là, qualsiasi cosa faccia l’Occidente per ridurre le proprie emissioni, avrà un impatto limitato rispetto all’aumento di CO2 generato da Cina, India e il resto dai Paesi emergenti. La domanda cinese di energie fossili continua a essere così dominante che spesso è la spiegazione numero uno per l’andamento del mercato. Dietro i recenti cali nelle quotazioni del greggio c’è la debolezza dell’economia cinese. Un rallentamento della crescita cinese come quello in atto nei fatti contribuisce a ridurre le emissioni carboniche più della firma di un documento alla Cop28.


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ATTUALITÀ

Le purghe di Xi Jinping e la crisi economica

L’analisi ◆ La Cina sta attraversando un momento molto complicato e Pechino reagisce anche epurando i vertici del partito Giulia Pompili

Nonostante le grandi zone d’ombra della sua eredità, è da tutti riconosciuto che l'ex segretario di Stato americano Henry Kissinger, recentemente scomparso, aveva la capacità di stabilire con la leadership delle grandi potenze un rapporto di fiducia, personale, diretto. È quello che manca oggi nei rapporti diretti tra il presidente americano Joe Biden e il leader cinese Xi Jinping: i due si conoscono da tempo, durante l’ultimo bilaterale in California hanno parlato in modo inusualmente cordiale, eppure manca qualcosa ancora nella relazione tra i presidenti delle prime due economie del mondo. Il problema riguarda soprattutto il lato cinese, e la sua catena di comando sempre più verticalizzata, opaca, ieratica. Interlocutori che spariscono, dati economici scarsamente trasparenti e attività spesso contraddittorie con i messaggi mandati dalla politica.

Meno di un anno fa il presidente cinese Xi Jinping ha consolidato il suo potere con un terzo, inedito mandato Il ministro degli Esteri Qin Gang doveva essere il volto nuovo della diplomazia cinese, designato alla fine del 2022 per prendere il posto di un veterano come Wang Yi (classe 1953). Qin Gang aveva esperienza con i negoziati, anche i più critici: prima di essere promosso a Pechino era stato per più di un anno ambasciatore della Cina negli Stati Uniti, e prima ancora viceministro degli Esteri. Circa sei mesi dopo la sua nomina però, a giugno, il cinquantasettenne Qin Gang è sparito dalla circolazione. Dopo settimane di assenza qualcuno ha iniziato a domandare, durante la conferenza stampa quotidiana tenuta dal portavoce del Ministero degli esteri di Pechino, dov’è il ministro? E la risposta era sempre la stessa: il ministro è assente per motivi di salute. Poi, con un decreto firmato dal leader Xi Jinping, Qin Gang è stato ufficialmente

rimosso dal suo incarico di ministro e al suo posto è tornato Wang Yi. Poi è stata la volta del Ministero della difesa. Qualche giorno dopo la rimozione di Qin Gang, la leadership di Pechino ha rimosso ufficialmente pure il capo delle Forze missilistiche cinesi, Li Yuchao. In seguito, a fine agosto, si è consumato l’ultimo episodio di quelle che iniziano a essere definite le grandi purghe di Xi Jinping. Il ministro della Difesa, Li Shangfu, considerato un fedelissimo del leader e uno dei padri del programma spaziale e missilistico cinese, ha smesso di mostrarsi in pubblico. Secondo il «Wall Street Journal», a metà settembre sarebbe stato portato via dalle autorità per essere interrogato. Poi, alla fine di ottobre, i media statali di Pechino hanno fatto sapere che Xi Jinping ha firmato il decreto di rimozione di Li Shangfu da consigliere di Stato e ministro della Difesa. È un terremoto all’interno della leadership di Xi Jinping, che meno di un anno fa ha consolidato il suo potere con un terzo, inedito mandato (marzo 2023). Eppure l’interpretazione della politica cinese è oracolare, chiusa ed ermetica, quindi non è possibile sapere che cosa significhino le purghe di Xi. C’è chi parla di un consolidamento ulteriore del potere del leader, che manda messaggi chiari: nessuno è al sicuro, nemmeno i ministri. Dall’altro ci sono analisti e osservatori che parlano di una debolezza della leadership del Partito comunista cinese, la cui tenuta inizia a scricchiolare. La Repubblica popolare cinese sta attraversando un momento molto complicato non solo dentro al Zhongnanhai, il complesso del potere del Partito. La crescita economica cinese era già in rallentamento, ma il disastro della gestione della pandemia da Covid ha peggiorato drammaticamente la situazione. «Se prima un ragazzo sognava di avere il posto pubblico, perché era quello sicuro», racconta una giovane donna di Pechino che lavora per una compagnia occidentale e che preferisce restare anonima per ragio-

Li Shangfu, ex consigliere di Stato e ministro della Difesa di Pechino. (Keystone)

ni di sicurezza, «oggi tutti sanno che nemmeno il posto pubblico è una garanzia di stipendio sicuro. Ci sono intere città che da mesi non riescono a pagare i loro autisti, i loro impiegati, i loro infermieri. E il tasso di disoccupazione, tra i ragazzi, è altissimo». A metà agosto, dopo aver superato il dato record del 20 per cento per quanto riguarda gli individui tra i 16 e i 24 anni, la Cina ha smesso di pubblicare il dato sulla disoccupazione. È un fattore importante da considerare anche se si pensa al collasso del settore immobiliare cinese. «Hanno costruito tutto quello che potevano costruire – commenta la giovane – e nessuno oggi ha intenzione di comprare una nuova abitazione, piuttosto erediterà quella dei suoi genitori». In Cina quel patto di fiducia tra i cinesi e il Partito comunista, che è stato la garanzia della crescita e dei consumi, inizia a rompersi. È successo soprattutto dopo la cancellazione, da

un giorno all’altro, della politica zero Covid (a fine 2022). Quel sistema autoritario e paranoico di eliminazione del virus dal Paese, fatto di ospedali di detenzione e persecuzione per i potenziali infetti, che è stato abbandonato all’improvviso. «Tutti allora abbiamo capito che no, non c’era niente della protezione pubblica che millantava la leadership», commenta la ragazza cinese. La fine della politica zero Covid doveva essere associata, nella logica di Pechino, a un boom dei consumi interni, una dinamica che non si è mai innescata proprio perché manca la fiducia, non solo degli investitori ma pure dei cittadini cinesi. Per cercare di potenziare i consumi interni e la circolazione delle persone, il Governo di Pechino avrebbe esplicitamente chiesto ai grandi tour operator di promuovere, durante la Golden Week, cioè la settimana di festività cinesi che si celebra la prima settimana di ottobre, il turismo interno. Secon-

do diversi osservatori sarebbe questo il motivo dell’assenza ancora oggi, in Europa, dei grandi gruppi turistici cinesi che eravamo abituati a vedere in epoca pre-Covid. La deflazione, cioè l’abbassamento dei prezzi in Cina, aumenta le preoccupazioni della leadership di Xi Jinping: il rischio è che la Repubblica popolare si avvii verso una stagnazione economica sul modello di quella giapponese. Alla luce della crisi profonda che sta vivendo il Paese, la sparizione dei ministri del Governo assume un significato sinistro: quando il leader di una grande potenza economica vede il rischio serra i ranghi, applica il metodo del terrore con i suoi collaboratori, aumenta la repressione e soffia sul fuoco del nazionalismo. Il peggior scenario per la seconda economia del mondo, in un clima internazionale sempre più teso e nonostante le rassicurazioni sull’apertura dei canali di dialogo, anche diretti, tra Washington e Pechino. Annuncio pubblicitario

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ATTUALITÀ / RUBRICHE

Il Mercato e la Piazza

di Angelo Rossi

Il Natale è dei poveri

Per concludere le collaborazioni di quest’anno la redazione mi chiede di scrivere qualcosa su un tema natalizio. Cosa c’è di più natalizio della povertà? Anche tenendo conto delle circostanze eccezionali in cui arrivò Gesù: nascere in una stalla non è certo segno di benestare. Così, nonostante la commercializzazione che se ne è fatta nella società dei consumi, il Natale resta più la festa dei poveri che quella dei ricchi. La povertà, quindi, può essere considerata come un tema natalizio quasi per definizione. Ma che cosa è la povertà? E soprattutto come può essere misurata? Si tratta di questioni non semplici ed è forse per questo che, in Svizzera, le statistiche sulla povertà sono relativamente giovani. Le stesse definiscono la povertà in maniera quantitativa come la situazione in cui un’economia domestica (una famiglia) non dispone di un potere di acquisto sufficiente. Ovvero con il suo reddito questa famiglia non

riesce a far fronte alle spese che dovrebbe poter sopportare per mantenere lo standard di vita minimo di oggi. Il lettore potrebbe essere sorpreso di apprendere quali sono queste spese. In effetti accanto a necessità fisiologiche come la spesa per riscaldare adeguatamente il proprio domicilio, o quella per permettersi un pasto (a base di carne o equivalente vegetariano) almeno ogni due giorni, vi sono spese come comprare un’automobile oppure finanziare una settimana di vacanza, che la maggioranza di noi potrebbe considerare come superflue. La povertà viene quindi definita, da questo punto di vista, come privazione materiale imposta da più restrizioni (nell’inchiesta sulla povertà se ne considerano nove in totale). La statistica svizzera utilizza però anche un altro approccio alla misura quantitativa della povertà. Si tratta del cosiddetto tasso di rischio di povertà che considera come povere le economie dome-

stiche il cui reddito disponibile è inferiore al 60% (o al 50%) del reddito disponibile equivalente mediano nazionale (che era di circa 50’000 franchi nel 2020). Povera in questo senso è la famiglia che ha un reddito disponibile (potere di acquisto) molto basso, indipendentemente dalle privazioni economiche che deve sopportare. Il concetto di povertà delle due definizioni non è uguale. Nella prima, la povertà viene definita in funzione del modo in cui l’economia domestica povera valuta le restrizioni economiche che deve sopportare. Nel caso della seconda definizione, invece, la povertà è misurata in modo più oggettivo. Povera viene considerata la famiglia che non raggiunge un certo limite di reddito, definito in base al reddito mediano nazionale. I ricercatori nell’ambito del sociale sanno che le famiglie povere sono le ultime a riconoscersi come tali. È quindi possibile che le due definizioni di povertà

portino a risultati diversi. C’è da attendersi che la percentuale di economie domestiche povere, calcolata in base alle restrizioni economiche che una famiglia deve sopportare, sia inferiore al tasso di rischio di povertà che si fonda invece sulla differenza con il reddito mediano nazionale. Così, per esempio, in Ticino nel 2020 il 10,8% delle economie domestiche dichiarava di dover sopportare restrizioni economiche, ossia di non essere in grado di far fronte alle spese imposte da uno standard di vita minimo. Nello stesso anno invece, sempre in Ticino, il 24,4% delle economie domestiche, ossia una percentuale oltre due volte superiore, era esposta al rischio di povertà, definito come una situazione nella quale il reddito disponibile era inferiore più del 60% del reddito mediano nazionale. Dunque i poveri ci sono anche se non si vedono, come afferma lo slogan del Soccorso d’inverno Ticino, e anche se

molti di loro si rifiutano di considerarsi tali. Le inchieste sulla povertà sono troppo giovani (i primi risultati sono del 2009) per consentire di delineare tutti gli aspetti del fenomeno e, in particolare, la tendenza evolutiva della povertà nel tempo. Si possono comunque sottolineare due caratteristiche. Dapprima che le percentuali di povertà del Ticino sono sempre largamente superiori a quelle medie nazionali. La quota di economie domestiche povere in Ticino è, a seconda della definizione, da 1,5 a 2,5 volte superiore alla media nazionale. La seconda caratteristica è rappresentata dalla correlazione positiva che corre, nel tempo, tra la percentuale di economie domestiche povere e il grado di ineguaglianza nella distribuzione del reddito disponibile. In Ticino per gli ultimi dieci anni si può affermare che il grado di povertà e l’ineguaglianza nella distribuzione del reddito sono evoluti in modo parallelo.

In&Outlet

di Aldo Cazzullo

Il 2023 tra conflitti ed evasione fiscale ◆

Il 2023 resterà nella storia come un anno duro, difficile. La guerra in Ucraina non è finita, anzi volge al peggio. L’offensiva ucraina è fallita. I russi invasori guadagnano terreno. È chiaro che un negoziato e un accordo rappresentano l’unica soluzione possibile. L’Occidente però non sta scegliendo la strategia giusta. Il modo migliore per portare Putin al tavolo delle trattative con Zelenski non è dire: siamo stanchi, smettiamo di aiutare l’Ucraina, vedetevela un po’ voi. Il modo migliore è dire: staremo con l’Ucraina sino in fondo, costi quel che costi. Se Putin avrà la sensazione che il fronte occidentale stia per cedere, allora andrà avanti. Purtroppo è proprio questo messaggio che è passato, con il rifiuto del Congresso americano di finanziare gli aiuti a Kiev. Il 7 ottobre Hamas ha attaccato Israele. Ha agito come agiscono i terroristi: per fare più vittime possibile. Israele ha rispo-

sto come rispondono gli eserciti: per sconfiggere il nemico. Hamas si è fatto scudo sia degli ostaggi israeliani, sia dei civili palestinesi. I morti si contano a migliaia. Non si tratta di una guerra convenzionale: Hamas vuole distruggere Israele, Israele vuole distruggere Hamas. Quindi è una guerra che non finirà, ma si trasferirà altrove, lontano da Gaza, che verrà rasa al suolo. Da qui il dilemma: dalla guerra Hamas uscirà più debole? O rafforzato nella capacità di reclutamento, presentandosi come l’unico vero nemico di Israele? Fotografare i prigionieri nudi e in ginocchio, come in un bassorilievo di Ramsete II, quale causa aiuta? È un’immagine di giustizia o di vendetta? Di sicuro il 2023 ci ha costretti a leggere un’altra pagina drammatica del conflitto mediorientale. E dire che era chiaro che gli accordi venduti come «i patti di Abramo» non erano il modo di portare la pace nella regione, ma per

Il presente come storia

fare affari tra Usa, Israele, gli Emirati Arabi e in prospettiva l’Arabia Saudita. Arabia Saudita che si è aggiudicata l’Expo 2025 a suon di miliardi. Non solo petroldollari. La penisola arabica, compreso il Qatar che si è concesso il lusso dei Mondiali di calcio del 2022, è ormai diventata il ricettacolo dell’evasione fiscale dell’Occidente. Uno dei grandi temi della contemporaneità: più si è ricchi, meno tasse si pagano; e il fisco si accanisce sul ceto medio, impoverito da un’inflazione che nel 2023 ha continuato a mordere. In Europa i sovranisti hanno perso in Spagna e in Polonia, ma hanno vinto in Olanda. Il 2024 sarà un anno elettorale. Alle elezioni europee paradossalmente le forze euroscettiche andranno bene, ma alla fine sarà rinnovato il patto tra socialisti, popolari e liberali. Difficilmente Mario Draghi diventerà il presidente della Commissione europea. Potrebbe restare Ursula von der Leyen, che non

ha lavorato male. In Russia si vota per finta: i capi dell’opposizione a Putin sono morti o in galera. In India dovrebbe rivincere Modi, a meno che l’opposizione non si unisca davvero contro di lui. La vera incognita sono gli Usa. È abbastanza incredibile che la più antica democrazia del mondo non sappia trovare alternativa a un presidente indebolito dall’età come Joe Biden e uno sfidante screditato come Donald Trump. Ma la polarizzazione della politica americana ha portato a questo. Nel 2024 gli Stati Uniti si dilanieranno. Speriamo che la Cina non ne approfitti per attaccare Taiwan. A questo punto la prospettiva della terza guerra mondiale a pezzi, come la definisce Papa Francesco, sarebbe più vicina. A proposito, il Papa non sta bene. È molto avversato, dai conservatori ma anche dai progressisti, che si aspettavano di più. Eppure resterà nella storia come un grande Papa. E ora sta per uscire

la sua autobiografia. Il cambio climatico imperversa. Il vertice di Dubai è stato un mezzo fallimento. Le economie emergenti non vogliono fare i sacrifici necessari. Se poi vincerà Trump pure l’America si sfilerà. E se gli Stati Uniti si chiamano fuori dagli accordi per contrastare il riscaldamento del pianeta, come potrebbero pretendere che Cina e India facciano il loro dovere? La transizione ecologica può anche essere un business, e non è detto che tutta l’industria della componentistica debba andare in fallimento: anche le auto elettriche hanno bisogno di componentistica, ad esempio di freni. E poi: perché «custodire il creato», com’è scritto nella Genesi, dovrebbe essere una cosa di sinistra? Conservare la natura non è cosa da conservatori? O, meglio, non dovrebbe essere una battaglia da combattere tutti insieme? Almeno questo auspicio per il 2024 potrebbe essere comune.

di Orazio Martinetti

Cronache di un passato vicino-lontano ◆

La generazione che in questi anni raggiunge l’età della pensione conserva ancora un ricordo vivo del Ticino che fu, un Cantone ancora immerso nella civiltà rurale, con i suoi ritmi lenti, scanditi dai lavori agresti e dal calendario liturgico. Ci riferiamo agli anni Cinquanta e Sessanta del secolo scorso, un’era ormai remota, largamente pre-televisiva e pre-autostradale. Nelle valli prevaleva ancora un’economia di semi-sussistenza, fondata sull’auto-consumo, con scambi esterni ridotti all’essenziale. Gli introiti delle economie domestiche provenivano soprattutto dal settore primario, al cui centro spiccava l’allevamento, dagli animali da cortile al bestiame grosso. Non c’era miseria, ma certamente un alto grado di frugalità, la consapevolezza che ogni franco guadagnato attraverso lo smercio di latte e latticini dovesse trovare un impiego giudi-

zioso o alimentare il risparmio. Anche i negozi – dove c’erano – riflettevano questa volontà di non sprecare nulla, di procurarsi il necessario senza indulgere al superfluo, di registrare accuratamente entrate e uscite su appositi libretti. Dopo tutto gli anni del razionamento non erano lontani e perdipiù le ombre della guerra fredda non lasciavano intravedere orizzonti di pace e prosperità. Anche la meteorologia – vista con gli occhi di oggi – era diversa. Temperature rigide, grandi nevicate (disastrose le valanghe del 1951), i geloni in guanti di lana ormai fradici, la tormenta che scorticava le guance. Ma era normale che l’inverno facesse il suo mestiere, era il prodotto naturale della successione delle stagioni. La neve non era accolta come una sciagura che paralizzava traffico e attività, ma come un dato naturale che an-

dava affrontato di buona lena con pale e spazzaneve. Nelle case il presepe rispecchiava, forse in modo inconscio, quanto avveniva nelle stalle, nei mesi della stabulazione forzata. Ovviamente non si era consapevoli che il termine «parzeu» (la mangiatoia in dialetto altoleventinese) derivasse dal latino «praesaepium». Eppure nei fatti questo accadeva nel tepore che gli animali generavano attraverso il respiro, come se effettivamente inscenassero una natività vivente, in cui trovava posto anche il miracolo del parto. A volte, per sorvegliare durante la notte il travaglio della vacca in procinto di sgravarsi, il contadino ricavava con il tagliafieno una nicchia nel piano soprastante… Nel corso degli anni Sessanta questo mondo dai tratti arcaici, che il professor Basilio M. Biucchi definiva «economicamente sottosviluppato», sci-

volava nel vortice della «modernità», buttandosi alle spalle non solo oggetti e arnesi (lavatrici al posto dei lavatoi, trattori al posto di cavalli e buoi, mobili in fòrmica al posto di credenze in legno massiccio, moquette al posto di impiantiti), ma anche modi di pensare e di vestire, costumi, mentalità, perfino il codice linguistico dominante, ossia il dialetto. La popolazione agricola calava rapidamente a beneficio dei fondivalle in cui sorgevano supermercati, stabilimenti industriali e la vasta terra promessa dei servizi: amministrazione, banche, assicurazioni, commercio, trasporti, ristoranti e alberghi, ospedali… La motorizzazione e la diffusione degli apparecchi televisivi aprivano finestre su realtà che prima arrivavano mediate dal racconto degli emigranti e dai romanzi di appendice. Il vortice trascinò nel gorgo anche i

partiti politici, che sulle prime non capirono cosa diavolo stesse succedendo nell’universo giovanile, una protesta inedita per comportamenti e linguaggi. Ma soprattutto non compresero che in quella tracimazione di idee e rivendicazioni stava emergendo un nuovo soggetto: le donne. Le giovani desiderose di emanciparsi dalle gabbie patriarcali in cui erano cresciute per finalmente chiedere a gran voce sia i diritti politici, sia il riconoscimento del loro ruolo nella società. Nel giro di un decennio il Ticino rurale, ribaltato e frastornato, ha lasciato sul terreno come scarti vegetali la bussola che per secoli aveva orientato il suo non facile cammino. Con quali risultati è tema di confronto e dibattito. I figli di quella stagione hanno ora occasione e tempo per riannodare i fili e trarre le debite conclusioni, personali e collettive.


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CULTURA ●

Natale con Charles Lewinsky Intervista allo scrittore svizzero che racconta di una notte di Natale a Parigi con il diavolo e il papa ma anche di un Goethe inedito

Taylor Swift personaggio dell’anno Storia della parabola della cantante statunitense country pop ritratta nel documentario Netflix che costruisce un personaggio universale

Le stelle liriche di Louise Gluck Louise Gluck, davvero ci ha detto addio? No, non solo vive nella vasta e fibrillante poesia ma è dentro certi dettagli di ogni giorno

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L’arte sincera di Luigi Rossi alla Pinacoteca Züst Incontro ◆ Matteo Bianchi, pronipote del pittore ticinese, racconta la mostra di Rancate da lui curata Alessia Brughera

Rossi riesce a raggiungere una semplicità profonda che appare nella sua immediatezza ma che è stata conquistata con impegno Luigi Rossi era suo bisnonno. Lei è cresciuto in mezzo alle opere dell’artista e grazie a sua nonna Gina ha avuto modo di conoscere molti aspetti della vita. Che uomo era? Era una figura signorile, discreta e dedita al proprio lavoro. Era un uomo cortese e al tempo stesso riservato. Se dovessi scegliere un aggettivo per descriverlo, nella vita e nell’arte, userei «misurato». Il mio bisnonno era molto legato alla famiglia. Aveva anche un rapporto profondo con il mondo dell’infanzia, non a caso era stato definito «il pittore dei bimbi». Nel 1890 lui e la moglie Adele hanno avuto il loro primo figlio, che però è morto a pochi mesi dalla nascita. Qualche anno dopo Rossi ha realizzato La scuola del dolore, esposto a Rancate, un’opera autobiografica e toccante in cui l’infanzia impara a soffrire. Sono nati poi altri due figli, tra cui mia nonna Gina, che è diventata uno dei soggetti prediletti dell’artista. Tra il 1900 e il 1905 Rossi ha dipinto la tela Primi Raggi (al centro della pagina, olio su tela, Casa Museo Luigi Rossi, Capriasca), anche questa in mostra: è il risveglio felice dell’infanzia, una sorta di risposta positiva alla sofferenza del quadro menzionato prima. Nelle opere di Rossi, cito le sue parole nel catalogo della mostra, «c’è l’invito a guardare la pittura per cogliere l’istante che rivela la forza del sentimento umano». Come riesce l’artista a esprimere l’intensità delle emozioni? La sua è sempre stata una pittura

cordiale, espressione di qualcosa che è legato al cuore oltre che alla mente. Io l’ho definita «un’arte sincera». Sembra un concetto banale, ma non lo è, perché Rossi riesce a raggiungere una semplicità profonda che appare nella sua immediatezza ma che è stata conquistata con impegno. Rossana Bossaglia, storica dell’arte che ha lavorato con me alla pubblicazione della prima monografia dell’artista, ha trovato una formula che descrive bene la sua pittura: «colta e spontanea», riassumendo così la capacità di Rossi di dialogare con le persone comuni attraverso le sue opere, sorretto però da una cultura e da una consapevolezza linguistica straordinarie. Artista stimato e benvoluto, Rossi frequentava la vita culturale milanese e parigina insieme a molti personaggi importanti dell’epoca… Rossi era riuscito a intessere molte relazioni con colleghi e figure di spicco del tempo basate sulla stima e sull’amicizia reciproche. Erano delle affinità elettive. Con molti di questi personaggi sono nate feconde collaborazioni che hanno portato alla contaminazione dei diversi linguaggi dell’arte. Posso citare il compositore Giacomo Puccini, il pittore Luigi Conconi, gli scrittori francesi Alphonse Daudet e Pierre Loti o il poeta Gian Pietro Lucini. Quest’ultimo ha tradotto in versi i suoi quadri, in una suggestiva relazione tra immagine e testo. Ci sono molti episodi piacevoli che testimoniano il sincero rapporto che lo legava a tanti amici dell’epoca e l’atmosfera spesso divertente che si instaurava tra loro. Tra gli aneddoti che mi raccontava la nonna amo ricordare quello riguardante Paolo Troubetzkoy, scultore di origine russa. Era un amico di famiglia ed era spesso ospite di Rossi. Era un omone ma era vegetariano. Sosteneva di mangiare solo mele. Quando arrivava dal mio bisnonno, entrava in casa e diceva: «Sento puzza di cadavere». Era invece il profumo degli ottimi arrosti della signora Rossi… Suo bisnonno era un uomo dalla grande sensibilità sociale. Per lui l’arte doveva essere educativa e democratica? Per restituire il profilo di Rossi questo è un aspetto fondamentale. Il suo coinvolgimento in tale direzione è sempre stato molto forte. Aveva una grande attenzione verso gli operai e gli artigiani che frequentavano le Scuole dell’Umanitaria di Milano, dove ha insegnato. L’impegno di Rossi come educatore si fonda sul principio caro alle Arts & Crafts inglesi che conferisce pari dignità alle

Casa Museo Luigi Rossi, Capriasca

La Pinacoteca cantonale Giovanni Züst dedica, nel centenario della morte, una retrospettiva a Luigi Rossi. Uomo affabile e garbato nella vita privata così come nel rapporto con amici e colleghi, ha intriso anche la sua arte di spontaneità e di una dolcezza serenamente malinconica. Parliamo dell’artista e della mostra di Rancate con Matteo Bianchi, pronipote del pittore, responsabile della Casa Museo Luigi Rossi in Capriasca e curatore dell’esposizione in collaborazione con Mariangela Agliati Ruggia. Ad accompagnare la mostra ci sono un elegante Catalogo edito da Pagine d’Arte e un Quaderno della Casa Museo Luigi Rossi dedicato alla Capriasca.

diverse espressioni artistiche. Pensiamo poi a come il pittore ha dipinto la vita nei campi: in questi quadri emerge la rispettabilità del lavoro contadino. La sua non è un’arte di protesta, come poteva essere quella di Pellizza da Volpedo, ma una visione fiera, venata di nostalgia, del mondo agreste che stava volgendo al termine. Possiamo definirlo un artista «europeo»? È un tracciato che si può individuare bene. Rossi si forma all’Accademia di Brera, la sua pittura, all’inizio, è di genere, sullo schema di quella dei fratelli Induno, che hanno fatto da modello a tanti artisti nati negli anni Cinquanta dell’Ottocento. Accanto ai dipinti di scenette gustose venate di ironia ci sono i ritratti di origine scapigliata, dove già si coglie una certa interpretazione psicologica del personaggio, e i ritratti d’impronta più storica, politica e sociale. Poi c’è la pittura di paesaggio e successivamente il grande capitolo dell’illustrazione parigina. Negli anni Novanta Rossi raccoglie molti stimoli dalle prime Biennali di Venezia, dalla diffusione del sapere attraverso le grandi riviste europee, tra cui Emporium, e dal legame con la cultura figurativa svizzera, in particolare con Albert Anker e Ferdinand Hodler. È in questo periodo che inizia la sua apertura verso un mondo che dalla realtà passa al simbolo. Adesso nella sua arte non troviamo più la descrizione dei soggetti ma la loro interpretazione allegorica. Tutto assurge a un’idea, come

ad esempio nell’opera Canto dell’aurora, un inno alla natura. Ciò che è importante sottolineare è che Rossi aderisce a dei modelli senza portarli mai alle conseguenze estreme. Riesce a rimanere sempre sé stesso. Anche nell’uso del Liberty e della sua funzione ornamentale è sempre misurato. Pensiamo a Genzianella, il quadro del 1908 che ritrae mia nonna Gina: qui il tema è molto gentile, Rossi però non si lascia sedurre dalle esuberanze decorative di questo stile ma rimane sempre molto controllato. Nel percorso di Rossi ha citato l’illustrazione. Come si esprime l’artista in questo ambito? Rossi è prima di tutto un buon lettore di testi che sa poi tradurre in immagini la sua impressione letteraria. Dal 1885 al 1889 è a Parigi e questo periodo corrisponde al suo momento più importante nel campo dell’illustrazione grazie alla grande amicizia con Alphonse Daudet, rimasto entusiasta della sua interpretazione del Tartarino sulle Alpi, un romanzo di grande successo paragonabile al nostro Pinocchio. È interessante notare come il libro illustrato abbia avuto una grande fortuna in quegli anni poiché era uno strumento accessibile a tutti. Non si trattava di edizioni di lusso ma di edizioni popolari di grande qualità. Nella mostra di Rancate ci sono alcune opere riemerse di recente? Sì, tra queste c’è il Ritratto dei fratelli Ciani, che ha una storia curiosa. Apparteneva a una nobile famiglia

piemontese a cui era stato rubato. Il dipinto è stato esposto in una mostra nel 1985 a Milano e grazie a quella rassegna è stato ritrovato dai legittimi proprietari ed è stato loro restituito. Tra l’altro da questo quadro è partito il mio invito, scritto anche in una nota nell’introduzione del catalogo della rassegna di Rancate, a ripensare Villa Ciani come spazio dell’Ottocento ticinese. C’è poi il Ritratto di Alphonse Daudet, uno dei punti forti della mostra. Non lo avevo mai visto dal vero, lo conoscevo solo dai documenti, attraverso immagini di piccolo formato e in bianco e nero. L’opera appartiene a collezionisti francesi della Borgogna che mi hanno trovato tramite la Casa Museo Rossi e mi hanno parlato del loro dipinto. Ero molto emozionato per questo ritrovamento. La tela è stata restaurata e prestata alla rassegna, diventando un quadro per tutti. Ciò che più mi ha fatto piacere dell’esposizione di Rancate sono le testimonianze del pubblico che l’ha visitata. Dagli storici dell’arte alla gente comune, dai giovani studenti agli anziani, il riscontro è stato il medesimo: la pittura di Luigi Rossi riesce a regalare serenità, perché e un’arte autentica. Dove e quando Luigi Rossi (1853-1923). Artista europeo tra realtà e simbolo. Pinacoteca Cantonale Giovanni Züst, Rancate, fino al 25 febbraio 2024. Orari: da ma a ve 9-12/14-17; sa, do e festivi 10-12/14-18. www.ti.ch/zuest


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CULTURA

Il volo alto di Michael Stipe a Milano Mostre ◆ La rockstar e le sue opere sono protagoniste alla Fondazione ICA fino al 16 marzo

Ci sono rockstar che smarriscono la strada del successo e perdono quella relazione, affascinante ma spesso rischiosa, con la fama. Michael Stipe invece ha scelto insieme alla sua band, i R.E.M., di allontanarsi pacatamente dal mondo della musica e dallo star system. Il gruppo, dopo una carriera di trent’anni e 90 milioni di dischi venduti nel mondo, ha deciso nel 2011 di interrompere la propria attività. Oggi, come ha scritto il «New York Times», Michael Stipe, classe 1960, sta scrivendo «senza fretta» un nuovo capitolo della sua vita e una tappa importante di questa nuova avventura è a Milano dove, fino al prossimo marzo, sarà visitabile la sua prima mostra I have lost and been lost but for now I’m flying high (Ho perso e mi sono perso ma ora volo alto). La personale è ospitata presso la sede della Fondazione ICA – Istituto Contemporaneo per le Arti – ed è stata curata con Alberto Salvadori. Stipe non nasconde la sua emozione per questo debutto: «Durante il lavoro preparatorio – confessa – ho sentito la stessa adrenalina che sentivo quando salivo sul palco: una sensazione assolutamente simile». 120 opere, tra cui alcune mai esposte prima e altre di recente produzione, una selezione che fa luce sugli ambiti della ricerca artistica intrapresa da Stipe negli ultimi anni: sculture in diversi materiali, ritratti e istallazioni multimediali che costituiscono un proget-

to unitario che ha come filo conduttore l’esperienza della fragilità, con cui ognuno ha dovuto relazionarsi durante la stagione drammatica del Covid. Dice Stipe: «Sono grato alla Fondazione ICA, perché questa mostra realizza un sogno che ho da anni: essere in grado di esporre il mio lavoro in modo da valorizzare qualcosa in cui credo davvero. Amo quello che realizzo e non ho avuto molte opportunità di condividerlo. Cerco di presentare una visione del mondo che appartiene a me, sicuramente unica, ma che spero possa entrare in sintonia anche con altri. È un po’ come entrare nel mio cervello, che non è sempre un posto bellissimo, ma attraverso diversi mezzi cerco di raccontare una storia che si rivelerà a chi avrà la pazienza di seguire questo viaggio». La mostra è accompagnata anche da un libro fotografico, pubblicato dall’editore bolognese Damiani, Even the birds gave pause, in cui Stipe si concentra sui ritratti che costituiscono una parte rilevante dell’evento espositivo milanese. «Sono appassionato di fotografia da quando avevo 14 anni. Da allora ammiro i lavori di un fotografo come Joel Meyerowitz (uno dei padri della street photography, ndr), una cui antologia è stata appena pubblicata da Damiani. Per me il fatto di avere un libro nello stesso catalogo di un mio punto di riferimento artistico è incredibilmente signifi-

David Belisle

Guido Mariani

cativo. I ritratti che sono esposti, che sono anche quelli raccolti nel volume, catturano quel momento unico che si crea tra il fotografo e il suo soggetto. Alcune persone ritratte sono miei amici, altri no. Per ognuno ho cercato di capire che cosa sia il ritratto nella nostra epoca, quella in cui chiunque ha un telefono con cui scatta fotografie continuamente. Il digitale ha cambiato tutto e io cerco di esplorare e comprendere questa nuova realtà». È inevitabile chiedere del legame con un altro grande della fotografia americana, Robert Mapplethorpe, che ha condiviso parte della sua breve vita con una musa di Stipe, Patti Smith: «Il mio stile fotografico e quello di Mapplethorpe sono molto diversi, ma per me rappresenta una profonda ispirazione. Da uomo queer riconosco

che il suo lavoro aveva il coraggio di esplorare tematiche che all’epoca non era per nulla facile affrontare». Altri artisti vengono chiamati in causa: lo scultore romeno Constantin Brancusi, l’artista concettuale americano Bruce Nauman, la protagonista dell’arte povera italiana Marisa Merz. Nella mostra non c’è, volutamente, lo Stipe cantante, ma si può sentire la voce dell’ex leader dei R.E.M. recitare la poesia Desiderata di Max Ehrman, un inno alla pace, un invito a vivere in armonia con tutte le cose: «Per me ha avuto un profondo significato sin da quando ero teenager. È una poesia che divenne molto nota negli anni ’60. Vorrei che diventasse un riferimento anche per questi tempi». Esplorare nuove forme di creatività significa anche un diverso approccio:

«Scrivere testi delle canzoni richiede predisposizione mentale e può essere incredibilmente semplice quando c’è l’ispirazione, oppure estremamente complicato. Questa esposizione nasce da un lavoro molto diverso fatto con molti materiali e coordinando diversi collaboratori in posti lontani tra loro. Le opere sono nate in parte in America, a New York, Los Angeles e Athens, e in Europa, a Berlino e in Italia. Un lavoro che ha richiesto tempo, energie, ma che mi ha reso molto felice. Amo l’arte e amo quello che mi offre, allo stesso modo in cui ho amato e amo la musica. Musica e arte mi hanno sempre fornito un percorso emozionale che mi permette di capire il momento che sto vivendo e mi trasportano in un posto migliore». E infatti la musica non è scomparsa dall’orizzonte di chi cantò Losing my Religion. Questa primavera ha inciso del materiale all’Electric Lady Studios nel Greenwich Village dove, riferiscono le cronache newyorkesi, è stato visto in compagnia di Taylor Swift, di Matt Haley, leader dei 1975, e del cantante e produttore Jack Antonoff. Tutto è però ancora avvolto nel mistero. Dove e quando I have lost and been lost but for now I’m flying high, Fondazione ICA, via Orobia 26, Milano fino al 16 marzo 2024. www.icamilano.it Annuncio pubblicitario


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MONDO MIGROS

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CULTURA

Il papa, il diavolo e la notte di Natale

Feuilleton ◆ Charles Lewinsky, tra i maggiori scrittori svizzeri contemporanei, ci racconta un Goethe inedito e un Natale a Parigi Natascha Fioretti

Iniziamo dalla Notte di Natale e dal papa che dopo una lauta cena va a coricarsi e riceve la visita del dia-

Parigi a bordo della sua Ferrari rosso fiammante. Perché Parigi? Ma per il musical sul gobbo di Notre Dame! Lo spettacolo viene messo in scena nel suo luogo originale e poi non c’è evento come il musical per vedere la forza del marketing. Maurice Haas /© Diogenes Verlag

È l’inizio della lettera che Goethe scrive al suo amico Kerstner da Francoforte il 25 dicembre del 1772. La lettera integrale dal titolo Questo periodo dell’anno mi sta particolarmente a cuore (Ich hab diese Zeit des Jahres gar lieb) che qui ho liberamente tradotto è contenuta in Auch Dichter schreiben Weihnachtsbriefe, (Anche i poeti scrivono lettere di Natale, Ars Sacra, Monaco, 1967). A proposito di Goethe e delle tradizioni natalizie in Germania, lo scrittore conosceva e amava alcune usanze come l’albero di Natale già nei suoi anni a Strasburgo o forse ancor prima quando studiava a Lipsia. Ne abbiamo traccia ne I dolori del giovane Werther (1774) dove una scena descrive atmosfere e sapori della domenica prima di Natale e ci dice di regali che faranno felici i bambini, di un albero di Natale con le candeline di cera, opere di zucchero e mele candite. Non è un caso che abbiamo aperto con Goethe. Lo scrittore è al centro di Rauch und Schall (Fumo e suono, Diogenes) il nuovo romanzo di Charles Lewinsky che mette in evidenza lati inediti, privati, persino deludenti dell’autore del Faust (opera alla quale allude Lewinsky nel suo titolo che ricordano le parole di Faust:«Per questo io non ho nome alcuno. Sentimento è tutto! La parola è soltanto suono e fumo»). Per darvi un’idea, ecco la frase che apre il romanzo: «Goethe hatte Hämorroiden» (Goethe aveva le emorroidi). Su questo torneremo tra poco con Charles Lewinsky che abbiamo avuto il piacere di intervistare, intanto c’è un secondo suo volume uscito quest’anno sempre per Diogenes di cui vogliamo parlare perché è in tema natalizio e perché è attraversato dallo stesso humor e dalla stessa ironia qui appena accennata: Der Teufel in der Weihnachtsnacht (Il diavolo nella notte di Natale). Classe 1946, nato e cresciuto a Zurigo in una famiglia ebrea, scrittore polivalente che con agilità passa da testi letterari di elevato spessore a testi di intrattenimento per la tv o drammi radiofonici, Charles Lewinsky è tra i maggiori scrittori del panorama letterario svizzero. In italiano sono usciti per Einaudi La fortuna dei Meijer (2007) e Un regalo del Führer (2014), nello stesso anno Abendstern Edizioni ha pubblicato Un normalissimo ebreo mentre nel 2021 per la SEM è uscito L’inventore di storie (SEM, 2021).

Keystone

«Mattina di Natale presto. È ancora notte, caro Kerstner, mi sono alzato per scrivere di nuovo nella luce del mattino, che mi riporta alla mente piacevoli ricordi dei tempi passati; mi sono fatto preparare il caffè per onorare il giorno di festa e voglio scriverti fino all’alba. Il campanaro ha già suonato la sua canzone, ho aperto la porta. Lode a te, Gesù Cristo. Amo molto questo periodo dell’anno, le canzoni che si cantano e il freddo che è sopraggiunto, mi rende profondamente felice».

volo che gli si siede accanto sulla sponda del letto. Come le è venuto in mente un simile racconto? In verità si tratta di una storia scritta molti anni fa – nel 1997 – su richiesta dell’editore Haffmans che aveva l’abitudine per Natale di chiedere ai propri autori una storia. Diogenes voleva ripubblicarla e per l’occasione mi ha chiesto di abbinarvi una seconda storia. Che diavolo abbiamo qui? Molto elegante e spiritoso, furbo a dire il vero. Nelle saghe solitamente viene dipinto come il grande seduttore che quando appare si porta al seguito l’odore di zolfo e dispensa minacce. Ma per sedurre ci vogliono astuzia e abilità a mentire. Questo mi fa pensare alla citazione tratta dal Faust nell’esergo de Il Maestro e Margherita di Bulgakov: «Sono parte di quella forza che eternamente vuole il Male e eternamente opera per il Bene». C’è una relazione? No. È un caso. Però il diavolo sembra voler aiutare il papa a rinnovare la Chiesa, mettere a posto le sue finanze e riportarla in auge. Di idee ne ha diverse e per mostrargliele – in quella famosa notte di Natale – lo porta a

In effetti anche la gobba del campanaro Quasimodo è in vendita… In queste occasioni si possono acquistare gadget di tutti i tipi, perché non una gobba? Nella realtà non ci ha ancora pensato nessuno… Ogni tanto bisogna esagerare un po’. (ride) Questo le piace, non è vero? Sì, mi diverte. Spesso però scrivo anche cose molte serie e così, per alternare, talvolta lascio libero sfogo alla mia fantasia. In Rauch und Schall ci racconta di Goethe e di come dal rientro del suo viaggio in Svizzera ha il blocco dello scrittore. In suo soccorso arriva Christian August Vulpius che per un’occasione speciale gli scrive una poesia che poi porterà la firma di Goethe. Vulpius però è uno scrittore mediocre, nel romanzo viene definito un «asino». Goethe, invece, un «cavallo di razza araba». Tra i due si dibatte se ha più senso scrivere testi letterari o testi di intrattenimento… Intanto per me è stato affascinante accostare tra loro due figure cosi diverse. Goethe disprezzava profondamente Vulpius, non lo riteneva degno perché non aveva elevate ambizioni letterarie. La storia del blocco dello scrittore è solamente un pretesto per animare un discorso tipicamente germanofono sulla letteratura di serie A e sulla letteratura di serie B orientata all’intrattenimento. Una discussione oggi molto attuale. Da scrittore mi diletto in entrambe – ho scritto testi di intrattenimento per la tv e libri molto seri. E a molte persone questo non piace. Il racconto di Natale e quello

su Goethe hanno qualcosa in comune? Mi piace scandagliare i lati umani di quelle grandi figure che solitamente vengono trattate con grande riverenza e soggezione. Cosi il papa veste un bel pigiama e Goethe soffre di emorroidi.

mente sospetto…Ciò però non toglie che ha scritto le più belle poesie d’amore della letteratura tedesca.

A proposito, questo è provato o è una sua invenzione? Di sicuro aveva i foruncoli sulla schiena, questo lo dicono le fonti. per il resto le persone abbienti ai tempi di Goethe avevano intense diete a base di carne e saltellavano seduti a destra e sinistra durante i loro lunghi viaggi in carrozza. Se non le avevano loro…

Torniamo al racconto di Natale, alla seconda parte, quella nuova in cui Dio scende sulla terra per capire se c’è ancora speranza per l’umanità. Lei cosa ne pensa, ci salveremo? Alla lunga no. Se pensiamo che gran parte delle specie animali si sono estinte... Perché non dovrebbe valere anche per noi? C’è una barzelletta che in questi casi mi piace raccontare: «Ci sono due pianeti e uno dice all’altro: “Come va?” “Male, sono appena stato dal dottore, mi ha diagnosticato l’Homo Sapiens”. “Non preoccuparti, passa”».

A proposito della poesia che Vulpius scrive per Goethe, qui si è concesso una piccola licenza e si è molto divertito … Goethe firma il componimento perché altrimenti non saprebbe cosa fare, ma lo critica duramente. E in effetti è una pessima poesia che nella realtà – diversamente dal romanzo – è stata scritta da Goethe. E tale rimane, per dire che anche i più grandi possono avere delle cadute di stile. Lei però mostra un’audacia nel mettere «letteralmente» a nudo Goethe che non ricordo abbia dei precedenti in letteratura… Soprattutto in ambito germanofono abbiamo sempre elevato Goethe su un piedistallo inarrivabile per tutti gli altri. Io mi sono sempre divertito a scoprire e raccontare il lato umano di figure come la sua. Goethe era una persona sgradevole, non particolarmente amorevole. Ma ciò non toglie nulla alla grandezza delle sue opere. Mi viene in mente un Goethe anziano e goffo che corteggia la giovanissima Ulrike von Levetzow nel romanzo di Martin Walser Un uomo che ama… Qui c’è ancora molta soggezione nei confronti del personaggio. Nessuno lo ha mai scritto, ma l’interesse di Goethe per le giovani donne era certa-

Qual è l’opera di Goethe che preferisce? Il Faust, in particolar modo l’Urfaust. Questa sì, è grande letteratura.

E se ora le dicessi di scegliere tre parole per descrivere il nostro tempo? Prendendola larga mi viene in mente un detto che in Cina suona come il peggior augurio: «Che tu possa vivere in tempi interessanti». I tempi interessanti sono i più difficili e dunque alla sua domanda rispondo: A interessante; B per fortuna interessante; C purtroppo interessante. Ammetto che le persone della mia generazione – penso in particolare a quelle nate in Svizzera nel dopoguerra – sono molto viziate perché cresciute con l’idea che ogni cosa tende a migliorare. Per decenni abbiamo avuto la fortuna di vivere in una condizione eccezionale che ora volge al termine. Sono tornate le guerre, i politici virano sempre più a destra…Ma non è sorprendente, la storia è ciclica. A lei piace il mese di dicembre, il periodo che precede il Natale? Da ebreo, il Natale non ha per me una valenza religiosa. Ma il mese di dicembre mi piace molto perché è costellato di compleanni di persone a me care che hanno piacere a essere festeggiate.


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Settimanale di informazione e cultura

Anno LXXXVI 18 dicembre 2023

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CULTURA

Taylor Swift, Miss Americana

Serie ◆ La parabola della cantante statunitense nel documentario Netflix che costruisce un personaggio universale

Nell’ambito delle immancabili, più o meno autorevoli classifiche che inevitabilmente accompagnano ogni fine d’anno, non ha sorpreso il fatto che per la prestigiosa rivista «Time» la cantante statunitense Taylor Swift (nella foto) sia il «personaggio dell’anno 2023»: un riconoscimento, di fatto, ampiamente meritato, data la vertiginosa traiettoria ascendente della giovane artista – oggi giunta al suo massimo picco grazie all’incredibile successo del rivoluzionario The Eras Tour, grazie al quale la Swift ha battuto ogni record nella storia della musica live. Forse proprio quest’ultimo «centro perfetto» ha convinto molti critici musicali a rispolverare l’intrigante documentario Miss Americana, vero e proprio studio biografico di Taylor Swift firmato da Lana Wilson – e che, seppur realizzato nel 2020, sta attualmente vivendo una seconda giovinezza su Netflix, ottenendo grandi riscontri. In effetti, visto a posteriori, il documentario appare profetico nella sua evidente volontà di ritrarre una stella già di immensa magnitudine, immortalandola nel momento in cui è sul punto di ascendere a vette ancor più esaltanti dell’olimpo pop tramite exploit del calibro del sorprendente album Midnights (disco più venduto del 2022). Non solo: nel tratteggiare la dettagliata istantanea di un fenomeno musicale il cui successo pare

oggi non conoscere limiti, la regista sembra sottolineare come, davanti a un simile risultato, sia facile trascurare la persona dietro alla star – dimenticando come la Swift possa vantare una carriera già ventennale, avendo esordito da teenager ed essendo praticamente divenuta adulta sul palco. Da qui la scelta di soffermarsi su quelli che potrebbero definirsi i momenti di «presa di coscienza» di Taylor, la quale, nella sua crescita umana e artistica, sembra rappresentare il perfetto prototipo della ragazza di oggi, affetta da tutte le paure, dubbi e incertezze che accomunano le donne della sua generazione. Certo, si può dire che, a tratti, Miss Americana soffra del medesimo difetto che affligge la maggior parte dei recenti documentari sulle star musicali – ovvero, la tendenza ad assumere uno sguardo per certi versi quasi voyeuristico, con accenti da rotocalco; lo si nota, ad esempio, nella sequenza in cui lo spettatore scorge Taylor sull’orlo delle lacrime nel raccontare del momento forse più difficile della sua carriera – quando, nel 2016, si ritirò praticamente dalle scene per un anno a causa dell’effetto devastante che le aspre critiche provenienti da «frange ostili» dell’opinione pubblica avevano sulla sua psiche. Del resto, uno degli obiettivi più evidenti di Miss Americana è proprio quello di indagare il mondo interiore della

Keystone

Benedicta Froelich

Swift, cercando di umanizzarla e renderla più vicina ai propri fan – tratteggiandola come la classica «ragazza della porta accanto», in cui è possibile, per il pubblico giovanile, riconoscersi e identificarsi. Il documentario la mostra così nell’atto di attraversare, anno dopo anno, tutte le immancabili tappe della propria maturazione interiore, sia come persona che come professionista: nello specifico, il passaggio cruciale immortalato dalla Wilson è quello che permette a Taylor di evolversi da «brava ragazza» fortemente dipendente dall’approvazione altrui (come lei stessa si definisce) a donna adulta e consapevole; permettendoci così

di assistere alla maturazione di una giovane star che, dopo essersi a lungo sforzata di ottenere il plauso altrui, scopre di possedere una coscienza sociale e civile – e, infine, di non avere paura di esprimerla. Passando dal senso di empowerment personale scaturito dalla causa intentata contro il DJ radiofonico che l’aveva molestata, alla decisione di rivelare al pubblico giovanile le proprie opinioni politiche tramite le dichiarazioni anti-Trump, fino all’appoggio alla causa LGTB, la Swift viene qui presentata come una giovane artista alla ricerca e scoperta di sé stessa: particolarmente eloquente è la scena in cui riceve la notizia di non essere stata selezionata per l’e-

dizione 2018 dei prestigiosi Grammy Awards, e, per tutta risposta, afferma con tono sicuro che la cosa non le dà problemi, poiché la spingerà a scrivere un album migliore in futuro; il che, considerando la pressione che all’epoca doveva circondare quell’evento, ci restituisce un’immagine della giovane Taylor per molti versi illuminante. In tal senso, l’astuta regia di Miss Americana tradisce un progetto calcolato, che va ben oltre l’atto di seguire la parabola ascendente della Swift da cantante country fino allo status di assoluta superstar, peraltro già garantito fin dal travolgente successo dell’album 1989 (pubblicato nel 2014). E se l’intenzione era quella di fare di Taylor Swift una sorta di role model per il pubblico giovanile, si può dire che il film raggiunga in pieno l’obiettivo, dal momento che già all’epoca della sua uscita ritraeva la diva come il fenomeno universale che sarebbe divenuta: uno dei rari artisti che, in barba alle facili categorizzazioni, si è mostrata in grado di travalicare qualsiasi confine culturale e geografico per abbracciare e accomunare diverse generazioni. Proprio il tipo di fenomeno che lo sguardo privilegiato offerto da Miss Americana illustra con sensibilità – non soltanto illuminando l’universo vorticoso che circonda la Swift, ma, soprattutto, accompagnando noi spettatori nel suo mondo interiore per mostrarci la donna dietro il nome. Annuncio pubblicitario

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Settimanale di informazione e cultura

Anno LXXXVI 18 dicembre 2023

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CULTURA

Louise e le stelle

Poesia ◆ Ritratto del premio Nobel Louise Gluck Guido Monti

mente escatologica e così il libro dal titolo Ararat, cos’è? A sfogliarlo, se non il richiamo simbolico, certo, al monte biblico ma anche chiave di lettura sulla morte del padre, che appunto non è più nei versi solo padre ma anche come per ogni psicologia femminile, nel bene e nel male, la figura delle figure. Ecco allora la poetessa, applicare, in Averno, alle trasformazioni fisiche adolescenziali, il mito di Persefone; quell’andare avanti di ogni corpo e trasformarsi dentro il dolore, lasciando dietro l’immensa nostalgia di qualcosa che però è scomparso per sempre. Ma Gluck, come si diceva all’inizio, investe anche lo spazio della natura di un momento di comprensione del nostro essere fondamentale: siamo quel che siamo, perché il nostro è un misurarsi, non solo con gli altri ma con i soli, le stelle, i paesaggi sterminati, dove magari amammo, odiammo, sperammo o ci arrendemmo alle nostre sensazioni più profonde, ecco ancora in Averno: «…//… Non c’erano/ altre stelle. Solo quella / di cui sapevo il nome // poiché nella mia altra vita le avevo fatto / torto: Venere, / stella del crepuscolo, // a te dedico / la mia visione, poiché su questa superficie vuota // hai gettato luce sufficiente / a rendere il mio pensiero / nuovamente visibile». Negli ultimi libri, come per esempio in Ricette per l’inverno dal collettivo, ecco la scrittrice riandare alla memoria più profonda, carezzare certe comunità di anziani, con le loro consuetudini, portatrici non di morte ma di ogni possibile futuro; riabbracciare tradizioni secolari, per rinfilarsi in certe radici lontane: «Ogni anno quando veniva l’inverno, i vecchi andavano / nei boschi a raccogliere il muschio che cresceva / sul lato nord di certi ginepri. / Era un lavoro lungo, occupava molti giorni, anche se / erano giorni brevi perché la luce andava calando, /…». Louise Gluck, davvero ci ha detto addio? No, non solo lei vive nella vasta e fibrillante poesia ma se notiamo bene, è dentro certi dettagli di ogni giorno, magari nella storia di quel campo di grano che osserviamo in campagna, di cui tanto parlò a più riprese in Averno e fissiamo anche noi da ore, bruciato dopo l’incendio, non sapendo perché: «… // Il contadino contempla dalla finestra. /… / E pensa: la mia vita è finita. / La sua vita si è espressa in quel campo: / … // Il momento terribile fu la primavera dopo che il suo lavoro/fu cancellato, / quando capì che la terra/non sapeva piangere, che invece sarebbe cambiata. / E poi avrebbe continuato ad esistere senza di lui». O è lì, dentro quel passaporto perduto che ci ha costretti a un prolungato soggiorno in altra terra, forse la nostra benedizione, come fu la sua in Un diario di viaggio.

«

Sono contento di aver sistemato tutto.

«

Louise Gluck, nata nel 1943 a New York, da una famiglia di immigrati ebrei ungheresi, ci ha lasciato ad ottobre, il mese che dà il titolo a una delle poesie di Averno (il Saggiatore), uscito subito dopo l’assegnazione del Nobel nel 2020 ma ancor prima, nel 2019, dal benemerito editore napoletano Dante e Descartes, con la limpida traduzione in entrambi i casi, dell’anglista Massimo Bacigalupo. Ottobre quindi, a leggere bene tra i versi, in ricordo della tragedia dell’undici settembre 2001, che cambiò per sempre l’immaginario collettivo di ognuno di noi: «… // Non mi fa bene; la violenza mi ha cambiato. / Il mio corpo è diventato freddo come i campi spogli; / ora c’è solo la mia mente, cauta e guardinga; / con la sensazione di esser messa alla prova /…». Ottobre anche, il mese dell’appassimento del fulgore estivo e presagio nelle sue spoglie, della nudità che verrà. Ecco questa grandissima poetessa dalla scrittura apparentemente piana, ruvida talvolta, ma così ricca di rimandi interiori, non poteva forse che andarsene in quel mese; forse questo un suo estremo segno involontario. Louise, che sapeva osservare con occhi rigorosi e al tempo struggenti la natura, dandole quasi una identità fraterna, perché meglio l’accompagnasse, nei suoi versi sempre pieni di domande ma così scarni di risposte: « … // Questa è la luce dell’autunno, non la luce della primavera. / La luce dell’autunno: non sarai risparmiata. / … // Questa è la luce dell’autunno, non la luce che dice / sono rinata /…». Già pluripremiata da decenni negli Stati Uniti (nella foto con Barack Obama per la consegna alla Casa Bianca della Medaglia Nazionale delle Umanità), in Italia venne pubblicata per la prima volta dall’editore Giano nel 1992 con L’iris selvatico (che nel 1993 le valse il Pulitzer per la poesia) e dopo il massimo riconoscimento svedese, il Saggiatore ha iniziato a tradurre molta della sua opera, attraverso il lavoro appassionato di Massimo Bacigalupo. Questa poetessa è nella sua opera, sempre dentro la complessità dell’attimo e nel verso, ecco darsi appuntamento storie lontane ed eterogenee; ciò che ne esce, è una realtà potenziata, ricca di possibilità, rivisitazioni della vita inaspettate. E per render pienamente ciò, l’autrice ha sempre intuito che occorresse misurarsi col mito classico, i suoi archetipi e così maestosamente li ha riproposti in una sua personalissima chiave, calandoli poi nella quotidianità ed essi, i miti, hanno risposto nei suoi libri sovrapponendosi, come un calco, alle piccole e grandi tragedie della sua esistenza. L’origine ebraica, non poteva che inconsapevolmente formarla, tutto nel mondo per lei era scritto in una filigrana sottil-

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