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Settimanale di informazione e cultura Anno LXXX 13 marzo 2017
Azione 11 65 ping M shop ne 41-47 / 61i alle pag
Società e Territorio Il gioco d’azzardo può diventare una trappola: Radix mette in guardia i giovani
Ambiente e Benessere L’inventore ambientalista olandese, Boyan Slat, ha ideato un sistema che sfrutta le correnti marine e limita lo spostamento dei rifiuti nell’oceano così da facilitarne il recupero
Politica e Economia Putin sollecita alleanze con il mondo arabo
Cultura e Spettacoli In mostra a Lugano alcune importanti sculture dell’artista americana Louise Nevelson
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di Lucio Caracciolo pagina 21
AFP
Quattro leader in cerca d’Europa
Previdenza 2020, compromesso impossibile? di Peter Schiesser La grande riforma delle pensioni, «Previdenza 2020», è a un passo dal fallimento? Per superare lo scoglio del parlamento, questa è la settimana decisiva, venerdì ci sarà il voto finale, e ancora si oppongono due inconciliabili modelli – quello del Consiglio degli Stati e quello del Nazionale, espressione di due maggioranze diverse (agli Stati fra PS e PPD, al Nazionale fra UDC e PLR). Gli Stati hanno già preso la loro ultima decisione, ma ancora prima che ne discuta un’ultima volta il Nazionale risulta chiaro (visto il parere della propria commissione) che si arriverà ad una conferenza di conciliazione. Se in questo gremio si troverà in extremis un compromesso c’è ancora speranza che venerdì qualche parlamentare decida che una riforma riuscita a metà sia meglio di niente. Poi ci sarà ancora il voto popolare, poiché un referendum è già annunciato, non fosse che per evitare l’innalzamento dell’età di pensionamento per le donne. Ricordiamo in sintesi i punti principali dei due modelli. A dare il là era stato il Consiglio degli Stati, ancora prima delle ultime elezioni federali, con un compromesso forgiato da due pesi massimi, il
socialista Paul Rechsteiner e il democratico cristiano Urs Schwaller. Comprendeva la parificazione dell’età di pensionamento fra uomo e donna, la riduzione dell’aliquota di conversione per i capitali del secondo pilastro da 6,8 a 6 per cento, un aumento delle rendite AVS calcolato in 70 franchi e un aumento da 150 a 155 per cento della rendita per le coppie sposate, per compensare le perdite che gli assicurati subirebbero nella cassa pensione. Questo modello non ha però mai fatto breccia al Nazionale, poiché non risolverebbe i problemi finanziari che l’AVS avrà fra pochi anni, vista l’evoluzione demografica in atto. La maggioranza dei consiglieri nazionali (fermo restando l’abbassamento dell’aliquota di conversione LPP dal 6,8 al 6 per cento) è quindi contraria ad un aumento delle rendite AVS e preferisce compensare le perdite degli assicurati intervenendo direttamente con dei correttivi nella previdenza professionale; inoltre vuole introdurre un meccanismo secondo il quale, quando la cassa AVS supererà un determinato limite di indebitamento, l’età di pensionamento dovrà essere innalzata a 67 anni (dal 2035 in avanti). Un’altra divergenza riguarda l’innalzamento dell’IVA per finanziare l’AVS: gli Stati optano per un aumento di 1 per cento cui aggiungere un prelievo sugli stipendi degli assicurati dello 0,3 per
cento, il Nazionale vuole solo un aumento di 0,6 punti dell’IVA. Ma in tutto questo dibattito, pochi si sono accorti che nel modello degli Stati si è insinuato un cambiamento importante, che contraddice i principi introdotti dalla decima revisione dell’AVS: l’aumento da 150 a 155 per cento della rendita per le coppie sposate reintroduce un elemento del modello di famiglia tradizionale, mentre la decima revisione, con lo splitting (rendita AVS suddivisa fra uomo e donna, indipendentemente se la donna era attiva professionalmente) e gli accrediti per i compiti educativi e di assistenza, aveva adeguato l’AVS ai nuovi modelli di società. Se ne sono accorti però le ex deputate Lili Nabholz (PLR) e Gret Haller (PS), che tanto peso ebbero nel forgiare la decima revisione: con articoli sui giornali e interventi personali mettono in guardia da questo cambiamento di fondo. E offrono al contempo una soluzione che in conciliazione potrebbe aiutare a salvare la faccia di tutti e di correggere questo ritorno al passato: L’aumento al 155 per cento deve valere solo per le coppie sposate con figli, riconoscendo così i compiti educativi anziché il semplice fatto di convivere all’interno del tradizionale modello di matrimonio. Un monito e un’idea che meritano di essere considerati, anche in previsione del voto popolare.
Azione Settimanale della Cooperativa Migros Ticino • 13 marzo 2017 • N. 11
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Attualità Migros
M Prepariamoci alla StraLugano Edizione 2017 L a festa della corsa in programma sabato 20 e domenica 21 maggio, tante le novità! Renato Facchetti Le prime dieci edizioni si sono svolte a fine settembre, ma dallo scorso anno, per la prima volta, la principale corsa popolare a livello cantonale si è proposta nella sua veste primaverile. Il record di partecipanti, che ha oltrepassato quota 5000, ha confermato la bontà della scelta del Comitato d’organizzazione. Il sole e le temperature in netto rialzo di questi ultimi giorni, sono da stimolo per iniziare o continuare la preparazione in vista di questo appuntamento da non perdere. A tutti gli appassionati della corsa, StraLugano propone l’opportunità di condividere momenti indimenticabili a seconda del livello di allenamento. Il programma gare vedrà debuttare la «Kids Run» il sabato sera dalle ore 19.00. L’appuntamento sta particolarmente a cuore allo sponsor principale Migros, che si impegna attivamente con diverse iniziative a favore della salute: per questo le prime 500 iscrizioni
In palio 30 iscrizioni gratuite! Azione mette in palio 30 iscrizioni gratuite alla StraLugano 2017. Per aggiudicarsi un’iscrizione omaggio alla «10 km» o alla «mezza maratona», basta telefonare giovedì 16 marzo alle ore 14.00 (fino a esaurimento) al numero 091 840 12 61. Buona fortuna!
alla «Kids Run», grazie al progetto «Generazione M» sono gratuite. A seguire, alle ore 21.00, la partenza della «5 km Run4Charity», una gara alla portata di tutti, anche di chi non si è mai avvicinato al mondo del podismo. Non importerà la classifica, né il tempo impiegato. Lo scopo sarà quello di trascorrere in compagnia un momento di allegria, camminando, correndo o passeggiando con la consapevolezza che tutto il ricavato verrà devoluto ad associazioni legate al volontariato e all’aiuto al prossimo come la Società Svizzera Sclerosi Multipla, Greenhope, Associazione Tiziano Muzio per Cuba, Gli Insuperabili, Atgabbes, Telethon, Swisstransplant ed EOC, Progetto Avventuno, GICAM Gruppo internazionale Chirurghi Amici della Mano e Ong Nuevo Paraiso TicinoHonduras. Domenica 21 maggio sarà il grande giorno delle competizioni principali. Per favorire condizioni ottimali a tutti i partecipanti in relazione alle distanze da percorrere, il via della mezzamaratona sarà dato alle 10.00, insieme ai partecipanti della staffetta (3 frazionisti che correranno rispettivamente: 10;5; 6; 4,6 km), mentre la partenza della 10 km avverrà alle 13.00. La logistica è stata aggiornata con un ritorno al passato, riprendendo una procedura collaudata e apprezzata: il Centro Esposizioni tornerà infatti ad ospitare il punto di ritiro pettorali, gli spogliatoi e le docce; mentre il PastaParty Migros si svolgerà nel cuore verde di Lugano, nella magnifica cornice naturale del Parco Ciani.
La partenza dell’edizione 2016. (Mario Curti)
Da quest’anno, tutti i partecipanti alla StraLugano potranno usufruire del biglietto ferroviario gratuito di andata e ritorno in seconda classe, con partenza da qualsiasi località della Svizzera. Sarà un buon incentivo quindi per lasciare a casa l’auto. Se però questo non fosse possibile, TPL offre il trasporto gratuito sia sulla tratta andata-ritorno dal posteggio di Cornaredo (Stadio) al
centro città con Bus-navetta (domenica 21 maggio 2017, dalle 07.00 alle 16.00 ogni 10 minuti) sia con i bus di linea. StraLugano fa parte per il secondo anno consecutivo del circuito «Serie Corse SportXX» (www.sportxx.ch/ serie-corse), una proposta di SportXX Migros che vuole incentivare la partecipazione ad alcune delle più belle corse podistiche organizzate da marzo
è: «ascoltando si usa uno dei nostri cinque sensi. Uno strumento meraviglioso per crescere, per apprendere, per conoscere tempo e spazio, per poter comunicare meglio con noi stessi e con il nostro mondo esterno, per sentire le nostre emozioni e per esserne consapevoli». Acquisti vantaggiosi per l’ambiente
È in vendita da Migros Ticino la nuova Veggie Bag, un sacchetto per gli acquisti pensato appositamente per il trasporto di prodotti vegetali, frutta e verdura vendute sfuse nelle filiali. Realizzata completamente in poliestere, è messa in commercio in confezioni da 4 esemplari. L’obiettivo della sua introduzione è ridurre la quantità di
sacchetti monouso utilizzati, diminuendo quindi l’impatto della plastica sull’ambiente. Riutilizzando il sacchetto almeno 5 volte, si ottiene già un effetto misurabile in questo senso. Interessante notare che questi sacchetti sono più ecologici anche delle borsette di stoffa, perché la produzione richiede l’uso di una minor quantità di materia prima. La Cooperativa Migros Zurigo, che si è offerta di condurre un test di vendita lo scorso anno, ha registrato un considerevole successo, vendendone oltre 50’000 confezioni. Se ognuna di queste borsette è stata utilizzata almeno 20 volte, ciò ha portato a un risparmio di oltre 20 milioni di sacchetti monouso. Importante consi-
Telefono Amico, l’associazione nazionale che si occupa del servizio di consulenza telefonica e di ascolto per persone in difficoltà, ha organizzato per il 14 marzo la giornata nazionale dell’ascolto, ricorrenza pensata per sensibilizzare la popolazione sull’importanza di questo servizio. In questa data quindi sarà allestito al Centro Migros S. Antonino dalle 9.00 alle 16.00 un tavolo promozionale che intende attirare l’attenzione sull’importanza dell’ascolto e per meglio far conoscere l’attività di Telefono Amico Ticino e Grigioni italiano. Il messaggio rivolto alla popolazione
Azione
Settimanale edito da Migros Ticino Fondato nel 1938 Redazione Peter Schiesser (redattore responsabile), Barbara Manzoni, Manuela Mazzi, Monica Puffi Poma, Simona Sala, Alessandro Zanoli, Ivan Leoni
StraLugano, 20 e 21 maggio, Lugano
Due giganti in concerto
Migros news Giornata dell’ascolto
a ottobre nel nostro Paese. Per conoscere tutti i dettagli che riguardano il prestigioso appuntamento vi invitiamo a visitare il sito www.stralugano.ch ma soprattutto vi invitiamo a iscrivervi: buona corsa!
Sede Via Pretorio 11 CH-6900 Lugano (TI) Tel 091 922 77 40 fax 091 923 18 89 info@azione.ch www.azione.ch La corrispondenza va indirizzata impersonalmente a «Azione» CP 6315, CH-6901 Lugano oppure alle singole redazioni
Editore e amministrazione Cooperativa Migros Ticino CP, 6592 S. Antonino Telefono 091 850 81 11 Stampa Centro Stampa Ticino SA Via Industria 6933 Muzzano Telefono 091 960 31 31
derazione conclusiva: i produttori di questi sacchetti conformano i loro processi aziendali allo standard BSCI, che prescrive rapporti di lavoro equi e responsabili. La borsetta non è solo ecologica, ma anche socialmente sostenibile.
Concorso A Chiasso
Richard Galliano e Ron Carter in duo
Vent’anni di m4music
È la manifestazione musicale più importante dedicata alle giovani band emergenti svizzere. m4music è, in questo senso, un punto di riferimento per tutto il movimento musicale giovanile nazionale, anche perché vuole fungere da occasione di contatto tra musicisti e produttori musicali, sollecitando anche una riflessione a 360 gradi attorno ai temi importanti che riguardano il settore: numerose conferenze a tema accompagneranno infatti le varie esibizioni musicali previste. L’edizione 2017 di m4music si terrà dal 30 marzo al 1. aprile. La serata di apertura sarà a Losanna mentre, come nelle precedenti edizioni, concerti, show case e conferenze si terranno in vari luoghi a Zurigo. La scelta logistica per la serata di apertura di quest’anno vuole sottolineare il ruolo che la manifestazione si propone di svolgere quale elemento di comunicazione tra le varie regioni e culture nazionali. Momento clou del festival saranno le attribuzioni dei premi: la Demotape clinic per le produzioni musicali indipendenti e il Best Swiss Video Clip per i video. Info: www.m4music.ch Tiratura 101’614 copie Inserzioni: Migros Ticino Reparto pubblicità CH-6592 S. Antonino Tel 091 850 82 91 fax 091 850 84 00 pubblicita@migrosticino.ch
Migros Ticino offre ai lettori di «Azione» biglietti gratuiti per le manifestazioni organizzate tramite il Percento culturale. Il concorso è riservato a chi non ha beneficiato di vincite nel corso degli scorsi mesi. Per partecipare basta inviare martedì 14 marzo una e-mail all’indirizzo giochi@azione.ch con il proprio nome, cognome, indirizzo. I vincitori saranno estratti a sorte tra tutti partecipanti e riceveranno una conferma via e-mail. Buona fortuna!
Biglietti in palio Tra Jazz e nuove musiche Rassegna di Rete Due Ve 17 marzo 2017, ore 22.30. Cinema Teatro, Chiasso Galliano – Carter Duo Richard Galliano, fisarmonica Ron Carter, contrabbasso. Nell’ambito del festival «To jazz or not to jazz» (16-18 marzo 2017). Abbonamenti e cambio indirizzi Telefono 091 850 82 31 dalle 9.00 alle 11.00 e dalle 14.00 alle 16.00 dal lunedì al venerdì fax 091 850 83 75 registro.soci@migrosticino.ch Costi di abbonamento annuo Svizzera: Fr. 48.– Estero: a partire da Fr. 70.–
Azione Settimanale della Cooperativa Migros Ticino • 13 marzo 2017 • N. 11
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Società e Territorio I bambini e i compiti a casa Tra i genitori c’è chi li trova troppo facili, chi troppo complicati, chi ritiene che se ne diano troppi chi troppo pochi. Ne abbiamo parlato con Alma Pedretti dell’Ufficio delle scuole comunali del DECS
L’Internet delle emozioni Intervista ad Alessandro Trivilini sul suo ultimo libro nel quale analizza una nuova frontiera della tecnologia dove i dati digitali hanno un valore strategico pagina 8
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Il gioco che ti «frega» Prevenzione Una mostra interattiva
elaborata dai giovani con il sostegno di Radix mette in guardia contro il gioco d’azzardo patologico
Stefania Hubmann Non lasciare che il gioco d’azzardo diventi una trappola e ti rovini la vita. Scopri i meccanismi che lo governano e impara a difenderti dalle emozioni e dalle illusioni che suscita. Ammettilo come momento ricreativo occasionale, ma evita che diventi problematico e soprattutto patologico. Insomma «Non farti fregare dal gioco!», perché in realtà l’unico a vincere è chi il gioco lo gestisce. I destinatari del messaggio sono gli allievi delle scuole professionali che possono vivere sulla loro pelle questo percorso grazie alla mostra interattiva dal titolo citato. Il progetto di prevenzione, promosso da Radix Svizzera italiana con il sostegno del Fondo per il gioco patologico, è basato sull’educazione fra pari (peer education). Tre anni fa un’inchiesta svolta dalla SUPSI presso la popolazione giovanile residente in Ticino ha evidenziato come anche nel nostro cantone gli adolescenti siano molto attratti dal gioco d’azzardo. Il 4% tra i minorenni e il 7,9% tra i giovani maggiorenni si definiscono giocatori regolari (almeno una volta alla settimana). La grande maggioranza di loro riferisce di aver giocato per denaro almeno una volta nella vita. Grazie a Internet si è inoltre diffuso il gioco online che, assieme alle slot machine e al «gratta e vinci», rappresenta la maggiore tentazione degli adolescenti in fatto di gioco d’azzardo. Radix, ente attivo nella prevenzione delle dipendenze, partendo da questi dati ha promosso il progetto di sensibilizzazione destinato in primo luogo agli apprendisti (siccome percepiscono un salario) e fondato sulla peer education. Sono quindi stati gli stessi giovani a elaborare, con gli specialisti di Radix ed esperti del gioco d’azzardo, le modalità e i mezzi per trasmettere ai loro compagni conoscenze, esperienze ed emozioni sul tema. In questo caso sperimentare significa giocare; la mostra è quindi anche una specie di casinò itinerante dentro il quale perdersi per 40 minuti, prima di affrontare la realtà dei fatti. Nella buia sala da gioco – allestita nelle scorse settimane all’entrata del Cen-
tro Professionale Tecnico di Mendrisio – ci conduce Vincenza Guarnaccia, responsabile del progetto assieme al collega Marco Coppola. «La classe, che dedica alla mostra due ore scolastiche, si cimenta a gruppi e a rotazione in quattro postazioni di gioco», spiega la nostra guida. «Ogni postazione, dalle slot machine a una versione modificata del gioco dell’oca, dal poker online ai giochi animati da un operatore (estrazione, dadi e memory), ha un obiettivo ben preciso legato ai pensieri «magici». Le superstizioni, la memoria selettiva (ricordare solo le vincite), l’illusione di poter incidere sul risultato attraverso le proprie abilità, sono alcuni di questi pensieri irrazionali ed erronei. Il poker online, ad esempio, permette di comprendere diversi meccanismi, come appunto l’illusione delle proprie abilità, la compulsività o ancora la perdita di controllo rispetto al denaro giocato. Le slot machine, proposte dai peer educator nella prima fase del progetto, sono pure finalizzate a comprendere la perdita di controllo sul denaro, ma anche sul tempo che passa». In effetti i 40 minuti di gioco trascorrono in un baleno. Gli allievi sono poi invitati a spostarsi nella sala accanto per ricevere, attraverso diversi supporti tecnologici, informazioni dai loro coetanei. Particolarmente significativa, secondo la valutazione della prima fase del progetto, la video testimonianza di un ragazzo che racconta la drammatica esperienza del padre, giocatore patologico. Tutto quanto colpisce gli allievi viene elaborato all’esterno della mostra assieme all’insegnante che li accompagna e agli operatori di Radix. Questo è anche il momento di fare i conti, sulla base delle fiches ricevute all’inizio, quelle prestate dalla cassa (situata nel mezzo delle postazioni) e quelle rimaste. Ci si può così rendere conto visivamente di come il guadagno del banco sia il frutto della perdita dei giocatori. Da rilevare, che la cassa permette pure di giocare alla ruota della fortuna e di acquistare il «gratta e vinci» della mostra, costruito con le stesse probabilità di quelli ufficiali svizzeri. Quali insegnamenti trarre a questo punto? Risponde la responsabile di
La mostra «Non farti fregare dal gioco!» ha incuriosito gli allievi del Centro Professionale Tecnico di Mendrisio. (Radix)
Radix: «I consigli principali sono riassunti in una scheda che consegniamo ad ogni allievo, dove figurano anche i recapiti per ulteriori informazioni e per la consulenza in caso si fosse già in presenza di problemi legati al gioco d’azzardo. A più riprese viene ribadito che vincere o perdere al gioco dipende dal caso ed è imprevedibile. Essenziale, prima di iniziare a giocare, è stabilire un limite di tempo e di spesa. Bisogna pertanto anche sapere accettare di perdere dei soldi e non tentare di rifarsi. Pensare poi di migliorare il proprio stile di vita giocando è solo un’illusione». Quest’ultimo aspetto viene sottolineato dalla storia di Mister P., uno dei tre personaggi che accompagnano i ragazzi nella mostra. I loro volti, sorridenti all’entrata, si trasformano in espressioni di dolore e sconforto alla
fine. Rappresentano rispettivamente la povertà, la solitudine e la depressione, conseguenze nefaste del gioco patologico, che investono non solo il giocatore, ma tutte le persone a lui vicine, in particolare la sua famiglia. Alcune situazioni di disagio nelle famiglie degli allievi sono in effetti emerse durante le discussioni finali. Discussioni che i docenti possono riprendere e approfondire nelle successive ore di lezione grazie all’opuscolo di accompagnamento che è stato elaborato per questa nuova fase del progetto. Dopo aver lavorato nell’anno scolastico 2014/15 con cinque gruppi di peer educator di scuole diverse alla realizzazione degli strumenti interattivi di prevenzione, nel 2015/16 è stata allestita la mostra, il cui prototipo è stato sperimentato al centro Arti e Mestieri
di Bellinzona. A fine anno la versione definitiva ha già potuto essere utilizzata in diverse sedi. Nel 2016/17 e durante il prossimo anno scolastico altri istituti scolastici, in media quattro all’anno, potranno ospitarla. L’intento dei promotori è quello di poterla portare anche in altre scuole superiori, in particolare nei licei. Il principale punto di forza di questa azione di prevenzione è il ruolo centrale dei giovani: coinvolti sin dalle prime battute a livello di concezione ed elaborazione, protagonisti nella visita, fonte d’informazione in un linguaggio corrispondente a quello dei destinatari. Informazioni
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Azione Settimanale della Cooperativa Migros Ticino • 13 marzo 2017 • N. 11
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Società e Territorio
Hai fatto i compiti?
Scuola e famiglia T ra genitori se ne discute molto: i compiti a casa sono necessari? I bambini ne ricevono troppi?
O troppo pochi? Ne abbiamo parlato con Alma Pedretti dell’Ufficio delle scuole comunali del DECS Roberto Porta Si fa presto a dire… compiti. Per chi ha figli in età scolastica il tema è di quelli che invece fanno scorrere fiumi di parole, perché quel foglio che con frequenza più meno regolare appare sulla scrivania del proprio figlio non è soltanto un semplice esercizio ma rappresenta, a ben guardare, un vero e proprio strumento di comunicazione tra la scuola e i genitori stessi. Attraverso il compito mamma e papà possono capire quali sono i temi trattati in classe e intuire se il proprio figlio è riuscito ad assimilare il programma scolastico. Tra i genitori c’è chi li trova troppo facili, chi troppo complicati, chi ne vorrebbe uno al giorno, chi invece non li ritiene necessari. Insomma c’è un gran vociferare attorno a questo argomento. Non per nulla il collegio degli ispettori delle scuole comunali ha ritenuto necessario redigere un vademecum informativo destinato a chi ha figli alle scuole elementari. «L’esigenza – si sottolinea nel documento – nasce dalla necessità di indicare in modo univoco quale sia l’indirizzo attuale in merito a questo importante momento di contatto tra scuola e famiglia». Un testo di due pagine nel quale si legge tra l’altro che «la necessità di lavorare da solo al di fuori dalla scuola porta il bambino a prendere coscienza di ciò che ha imparato, ma anche ad individuare i propri limiti e le proprie difficoltà. Ciò contribuirà a insegnargli che per migliorare occorrono impegno e costanza, a volte anche sforzo, e che molto dipende dalla sua disponibilità».
Sul tema dei compiti il collegio degli ispettori delle scuole comunali ha redatto un vademecum informativo Il collegio degli ispettori ha pure preparato un secondo documento, destinato questa volta agli insegnanti, con una serie di raccomandazioni sul tema del compito a domicilio. Indicazioni che sono attualmente in fase di rielaborazione. «Il docente è chiamato a spiegare regolarmente agli allievi lo scopo dei compiti assegnati affinché i bambini stessi ne percepiscano il senso – ci dice Alma Pedretti, aggiunta
I genitori dovrebbero mostrare interesse sincero per il lavoro scolastico dei figli ma senza l’assillo del perfezionismo. (Marka)
del capo ufficio delle scuole comunali, presso il Dipartimento Educazione Sport e Cultura (DECS) – eviterà di assegnare frequentemente, addirittura sistematicamente, compiti che costituiscono esercitazioni sui contenuti delle lezioni apprese a scuola. Tuttavia è possibile che il docente avverta l’esigenza di estendere certe esercitazioni anche oltre le ore di lezione, allo scopo di aiutare gli allievi che ne avessero particolare bisogno». Da queste parole ci giunge la prima indicazione decisamente interessante: i compiti devono nella misura del possibile costituire una novità, non una ripetizione di quanto fatto in classe. E qui gli ispettori nel loro documento all’indirizzo dei docenti elencano diversi esercizi da assegnare. Alcuni davvero originali, come quello che per esempio porterà il bambino a «ritrovare e ricopiare i nomi degli inquilini» dell’edificio o della via in cui si abita, passando in rassegna le bucalettere o i campanelli. Oppure si tratterà di trascrivere e spiegare «le cifre e le lettere che si vedono sui comandi della cabina di un ascensore». Oppure ancora «verificare
con l’aiuto di una bilancia l’esattezza del peso scritto sull’imballaggio di alcuni generi alimentari». Insomma la fantasia non manca nel definire il contenuto del compito. Ma quale la frequenza ideale di questi esercizi da svolgere a casa? «Il docente di scuola elementare – ci dice Alma Pedretti – è chiamato a privilegiare il doppio compito settimanale. Salvo accordi specifici con questa o quella famiglia, si eviterà di assegnare compiti tutti i giorni e durante le vacanze previste dal calendario scolastico o durante il weekend. Il principio alla base di questa raccomandazione sta nel fatto che gli allievi si devono poter riposare, visto che il carico di lavoro in classe è già piuttosto elevato». Altro aspetto importante è quello della durata di un compito, che «dovrebbe variare tra i quindici minuti per i bambini del primo ciclo scolastico – indica ancora Alma Pedretti – e i trenta-quaranta minuti per gli allievi di terza, quarta e quinta elementare. Durate maggiori possono essere previste per compiti che necessitano un’attività di ricerca». Nelle loro informazioni alle fa-
miglie, gli ispettori raccomandano ai genitori «di prendere contatto con il docente, se il figlio dovesse impiegare sistematicamente un tempo ritenuto eccessivo per lo svolgimento dei compiti». E qui entra il gioco il ruolo dei genitori: devono aiutare i propri figli oppure lasciarli fare da soli? «Entrambe le cose – sottolinea Alma Pedretti – ciò che è importante è variare e dimostrare un interesse sincero per il lavoro scolastico dei propri figli». Al bando andrebbero messi da una parte le esigenze troppo elevate – l’«assillo per il perfezionismo» – e dall’altra l’indifferenza verso qualsiasi lavoro dei propri figli. Va pure detto, e qui apriamo un nuovo capitolo, che le scuole comunali hanno anche un regolamento, del 1996, in cui all’articolo 10 si parla delle sanzioni nei confronti degli allievi. Tra le altre cose vi si legge che è vietata «l’esecuzione di compiti supplementari attinenti all’insegnamento da eseguire a domicilio». In altri termini da circa vent’anni nelle scuole comunali ticinesi è stato messo al bando il castigo, sotto forma di compito a casa per chi dimostra di non
essere particolarmente disciplinato. Ma così facendo non si corre il rischio di un eccessivo permissivismo? «Alcuni docenti ricorrono ancora a questo strumento – precisa la vice-direttrice dell’ufficio scuole comunali – ma in generale si ritiene che il castigo sia ormai superato dai tempi. La scuola ticinese ha fatto dei passi avanti e mira a includere, non a escludere, il bambino. È importante contestualizzare sempre un episodio: se un allievo è stato indisciplinato e, come docente, so che a casa vive una situazione difficile, è inutile dargli un castigo, si sentirebbe ancora più ai margini della classe, ancor più penalizzato. Se invece un bambino dimostra ad esempio disinteresse per ciò che è stato fatto in classe, un compito supplementare può anche essere dato. In generale però non ne vediamo il senso». Insomma in una società in costante evoluzione, anche la scuola – e con essa lo strumento dei compiti – ha subito e subisce continui cambiamenti. C’è solo un aspetto che con cambia mai: quella domanda di genitori e docenti che assomiglia ad un ritornello, «hai fatto i compiti?».
Viale dei ciliegi di Letizia Bolzani Lorenz Pauli-Claudia de Weck, Soldi in vendita, Edizioni Casagrande. Da 4 anni Chissà perché, in un’editoria per la primissima infanzia non certo restia a sfornare (fin troppi) libri su temi delicati (come la morte o come l’omosessualità, ad esempio), il tema «denaro» è ancora un tabù. I libri che parlano di soldi ai bambini piccoli sono davvero pochissimi. Eppure potrebbero aprire interessanti finestre di riflessione e di dialogo sul valore del lavoro, sulle ingiustizie sociali, sulla necessità di evitare gli sprechi. Potrà far sorridere il fatto che a parlare di soldi ai più piccoli sia questo volume tutto svizzero (Lorenz Pauli è un affermato autore bernese, Claudia de Weck un’importante illustratrice zurighese, il libro è uscito in tedesco da Atlantis Verlag e in italiano dalle Edizioni Casagrande e il progetto è in collaborazione con Pro Juventute), ma non bisogna pensare a un manuale per futuri banchieri
elvetici. Tutt’altro: questo vivace albo illustrato (valorizzato, occorre dirlo, soprattutto dal tratto umoristico di Claudia de Weck) giunge alla conclusione che ben più importanti del denaro sono l’amicizia e la condivisione. Ciò non toglie che l’avventura dei due bambini protagonisti, il più ricco e suo malgrado viziato Milan e la più spartana Alma, passi attraverso tutta una serie di concetti che a buon diritto si possono definire economici: comprare, vendere, scambiare, regalare, guadagnare, risparmiare. La storia inizia con una casetta sull’al-
bero che Alma si sta costruendo e che desta l’ammirazione di Milan. Pronti via: la zelantissima mamma di Milan gli compra un kit per la costruzione di una casetta. Ma ad Alma servono alcune delle assi di Milan: è giusto che gliele compri? Dovrà aiutare Milan a costruire la sua casetta per guadagnarsele? E Milan ha fatto qualcosa per meritarsi quel legno? Quesiti profondi, trattati con semplicità e brio, e sottolineando la cooperazione dei due bambini. I quali, quando avranno bisogno di acquistare una corda per costruire una scala, aguzzeranno l’ingegno e dipingeranno dei «soldi»... da mettere in vendita! Ma senza cercare di accumulare tesori, perché la felicità è già a portata di mano, e per essere felici basta davvero poco. Nicoletta Costa, Tutti a scuola!, Emme Edizioni. Da 6 anni È sicuramente tra le più note illustratrici italiane: tutti i bambini cono-
scono Giulio Coniglio, o la nuvola Olga, o l’albero Giovanni, o la strega Teodora. Ora Nicoletta Costa ci propone una nuova serie ambientata non nei mondi fantastici di conigli, gatti, nuvole, alberi e streghe, ma nel mondo della scuola. In verità il mondo della scuola è già molto caro all’illustratrice triestina, che proprio a una maestra («La maestra dormigliona») aveva dedicato, alla fine degli anni Settanta, il suo primo libro. Una maestra che poi è diventata «La maestra Margherita», altro suo notissimo e simpatico personaggio.
Con questa nuova serie «Tutti a scuola!», Nicoletta Costa ci porta dentro la quotidianità della vita scolastica, con le piccole avventure (piccole, ma grandissime per chi le vive) che costellano le giornate in aula. Le maestre, i compagni, i libri, la mensa, le nuove scoperte, il divertimento e anche un po’ la nostalgia di casa e l’attesa di ritrovare mamma o papà all’uscita. I testi sono brevi e semplici, e tuttavia sanno raccontare non solo le vicende, ma anche le emozioni; il celebre tratto delle illustrazioni contribuisce a portarci dentro le storie. I primi 4 titoli (Benvenuti in classe!, Viva i libri!, Aiuto, la mensa!, Io però voglio la mamma) saranno in libreria da domani 14 marzo. Saranno apprezzati da chi ha iniziato da poco la scuola elementare e anche da chi frequenta l’ultimo anno della scuola dell’infanzia, per prendere confidenza con il nuovo – e appassionante – mondo che li aspetta.
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Società e Territorio L’evoluzione della tecnologia è stata rapida, ma, secondo Trivilini, abbiamo trascurato la preparazione dell’essere umano.
Difendersi dal cyberbullismo Zanshin Tech È nata in Italia la prima arte
marziale digitale che insegna a combattere e a prevenire gli attacchi online Stefania Prandi
Protagonisti del cambiamento
Libri Alessandro Trivilini ci spiega che cos’è l’Internet delle emozioni
Natascha Fioretti Immaginate di scendere in cucina di prima mattina e di sentire il frigorifero dirvi che è scaduto il latte, oppure, mentre vi guardate allo specchio, sentirlo raccontare che le vostre rughe sono aumentate e urge comprare la tal crema se non volete invecchiare precocemente e rimanere single a vita. L’idea vi piace? Meglio così, perché tutto questo è dietro l’angolo, come ci dimostrano le migliaia di prodotti presentati di recente al Consumer Electronic Show di Las Vegas. Si tratta di prodotti smart, intelligenti, capaci di apprendimento grazie alla connessione alla Rete e a software in grado di elaborare i dati ricevuti. Parliamo di un mercato da 3,5 miliardi di dollari che non è mera espressione di un’innovazione tecnologica in atto ma, soprattutto, di una rivoluzione culturale pronta ad impattare su ogni lato del nostro vivere quotidiano sociale e umano. «E non servirà a nulla sottrarsi», come ci racconta Alessandro Trivilini, diplomato in ingegneria informatica, docente ricercatore presso la SUPSI, esperto di informatica forense e autore del volume, appena uscito per SalvioniEdizioni, Internet delle emozioni. L’unica soluzione è adattarsi e informarsi per assumere quelle competenze e quelle conoscenze che ci renderanno protagonisti e non consumatori passivi alla mercé di aziende o criminali atti all’adescamento in Rete. Siamo di fronte ad un cambiamento epocale e per comprenderne la sostanza e la portata iniziamo a farci raccontare dall’autore come siamo passati dall’Internet delle cose all’Internet delle emozioni. «Oggi abbiamo la Rete internet e infrastrutture tali da permetterci di navigare in qualsiasi forma e dimensione e abbiamo oggetti sempre più piccoli che indossiamo e ci consentono di essere connessi, ci stimolano a produrre in continuazione dei dati digitali. Dati che hanno un valore strategico e faranno sì che presto tutto diventi cyber e intelligente ma che per poter essere utilizzati in modo produttivo dalle aziende e permettere loro di fare affari devono essere raccolti e analizzati secondo un metodo qualitativo e non quantitativo. Mi spiego: è come se ogni singolo dato fosse un’arancia e non ci basta sapere che c’è, tagliarla, sbucciarla e mangiarla per vedere se è succosa e dolce ma bisogna spremerla il più possibile per poi capire se quello che ne estraiamo ha valore. In futuro il vero
valore sarà dato dalle nostre emozioni». In altre parole abbiamo superato la fase dell’Internet delle cose (oggetti reali connessi a internet), oggi si parla di Internet delle emozioni, per cui una nuova generazione di software legge e interpreta le nostre emozioni. Ma si parla anche di Internet of everything, ovvero di un ecosistema determinato dall’interconnessione e dall’unione di entità prima a sé stanti in cui i dispositivi (smartphone, tablet, smartwatch, fitness tracker, elettrodomestici e altro), le persone, i processi e i dati, grazie ad una rete intelligente, sono in grado di comunicare tra loro ma anche di ascoltare, apprendere e rispondere offrendo nuovi servizi e funzionalità. Una sorta di nuova rivoluzione industriale che porterà maggiore sicurezza, semplicità e affidabilità nei più diversi settori. Pensare che questo sarà il nostro imminente futuro mette un po’ di ansia e vien da chiedersi se non saremo sopraffatti da tutta questa tecnologia, da un lato più performante, dall’altro prepotente nell’invadere la nostra sfera personale: «tutto dipenderà dal nostro approccio, se saremo semplici consumatori, allora non avremo gli strumenti e la consapevolezza per comprendere la portata e le opportunità del cambiamento; se, invece, saremo protagonisti, allora avremo dei vantaggi: guadagneremo tempo da spendere in qualità di vita, risparmieremo soldi, eviteremo relazioni inutili, ci sarà un risparmio di tante cose». E se qualcuno si rifiutasse di abbracciare tutta questa tecnologia? «Non c’è ritorno e non c’è modo di tenere questa rivoluzione fuori dalla porta di casa». A questo punto, l’autore mette in luce la necessità di un dialogo intergenerazionale: «i giovani hanno un ruolo primario in quella che è la condivisione di una conoscenza ma soprattutto di un’esperienza tecnologica. I figli adolescenti sono dei vettori di conoscenza incredibile, sono aggiornati, appassionati e con la loro esperienza sono in grado di ridefinire le regole di comportamento e di vita quotidiana all’interno della famiglia e, di riflesso, del tessuto sociale in generale. È soprattutto il confronto e lo scambio con loro che permetterà di fatto di compiere quel cambio di mentalità e di cultura di cui abbiamo bisogno». Saremo in grado di raccogliere la sfida, siamo pronti? «La tecnologia si è sviluppata tantissimo ma abbiamo trascurato la preparazione dell’essere umano, non lo abbiamo accompagna-
to in questo processo di innovazione. Ancora oggi nelle scuole non prepariamo gli studenti in modo adeguato ma insegniamo loro una concezione della tecnologia e dell’informatica vecchia e superata. La mia esperienza mi ha insegnato che le persone vanno responsabilizzate non nel premere i bottoni ma nel comprendere cosa implica, cosa c’è dietro un bottone». In questo scenario la moneta di scambio sarà data dai dati personali, quei dati che le aziende mirano a raccogliere e ad interpretare mettendo al centro la questione della privacy e dell’etica. «Etica e privacy sono due facce della stessa medaglia. In futuro per questa rivoluzione tecnologica, di società e di costume, dovremo pagare un prezzo e saremo pronti a decidere di che prezzo si tratta solo quando avremo gli ingredienti per osservare e valutare di quale tipo di tecnologia si tratta, dove viene integrata, con quale impatto e conseguenze, da chi è stata fatta, chi raccoglie i nostri dati, cosa ne fa. Per quanto riguarda la privacy, le aziende stanno lavorando al concetto privacy by design, secondo il quale i colossi dell’informatica si impegneranno ad essere più trasparenti e corretti nell’inserire nelle applicazioni quegli strumenti chiari, semplici che l’utente deve poter usare in qualsiasi momento e senza particolari conseguenze per decidere se vuole fornire i suoi dati oppure no. Qui c’è proprio un cambio di paradigma, il controllo passa nelle mani degli utenti». Mentre la chiacchierata volge al termine guardo fuori dalla finestra e mi sento quasi sollevata al pensiero che tra pochi istanti torno ad essere libera da questo mondo fatto di oggetti parlanti. Ma, riflettendo, mi rendo conto che ormai il mondo reale e quello digitale stanno convergendo in una unica e complessa realtà: «fa molto più scalpore leggere di una persona che ha imbrattato 500 muri di una scuola, che apprendere che il voto negli Stati Uniti è stato pilotato da un hackeraggio informatico. Nella percezione umana, il primo caso si riferisce a qualcosa di misurabile, mentre il secondo per molti è intangibile, fuori dalla realtà. La velocità del cambiamento è così elevata che le persone si ritroveranno in un nuovo mondo senza nemmeno accorgersi». Bibliografia
Alessandro Trivilini, Internet delle emozioni. La nuova frontiera della tecnologia, Salvioni edizioni 2016.
Si può imparare a difendersi dal compagno di scuola che manda messaggi continui e pieni di insulti, si può prevenire la pubblicazione di foto e video intimi sui social network, si può neutralizzare il bullo che schernisce sui gruppi WhatsApp, si può smascherare chi si aggira in rete con falsi profili e cattive intenzioni. Alice, una ragazzina di 14 anni, ha impiegato 9 minuti per mettere in fuga il suo molestatore, che l’aveva contattata su Facebook spacciandosi per un suo coetaneo. Prima gli ha chiesto di spostarsi su WhatsApp, quindi ha tracciato il suo numero di telefono e ha scoperto la sua identità: in realtà era un uomo di 25 anni, iscritto a chat e gruppi equivoci. Quando gli ha scritto per messaggio che aveva scoperto il suo vero nome e cognome, lui si è dileguato. Queste sono alcune delle tecniche che si imparano con lo Zanshin Tech, la prima «arte marziale digitale» per difendersi dalle minacce della rete. Nata in Italia, insegna ai ragazzi e alle ragazze non solo a combattere gli attacchi online, che portano a vere e proprie persecuzioni, con conseguente esasperazione ed esiti anche tragici, ma soprattutto a prevenirli. Fonde gli insegnamenti tradizionali delle arti marziali orientali (non violenza, rispetto dell’altro, serena concentrazione, disciplina) a conoscenze tecnologiche tratte dal mondo della cybersecurity. Zanshin è una parola giapponese che indica lo stato di vigilanza controllata e serena che il maestro di arti marziali deve avere prima, durante e dopo un’aggressione: si è coscienti di tutto ciò che c’è attorno (pericoli e aggressori inclusi) senza per questo cedere alla paura, all’ira o ad altri sentimenti. A inventarsi questa disciplina ibrida, o meglio «a scoprirla, come qualcosa che è apparso automaticamente appena ho svolto il rotolo», è stato Claudio Canavese, informatico e maestro di judo. «Ho cominciato a occuparmi di cyberbullismo con un’associazione che faceva software libero. Analizzando i meccanismi alla base del fenomeno, a un certo punto, quattro anni fa, ho iniziato a guardarli con gli occhi delle arti marziali, a riconoscerli come attacchi digitali. Quando i media si sono accorti del fenomeno, noi eravamo già avanti nelle nostre ricerche. Le scuole ci hanno chiamato per fare delle lezioni, ma ci siamo subito resi conto che gli incontri sporadici non erano sufficienti per cambiare l’atteggiamento dei ragazzi. E così abbiamo dato il via ai nostri corsi. Adesso, solo a Genova, ne abbiamo tre per chi ha dagli undici anni in su e uno per adulti. Nel frattempo stiamo formando un centinaio di nuovi insegnanti». Sono tredici le tecniche di «attacco» online che prevedono precise reazioni. Gli aggressori in genere agiscono sotto falsa identità, e dopo un primo contatto mettono in atto un meccanismo di seduzione, per raccogliere
Chi subisce attacchi online vive una situazione di esasperazione e stress.
informazioni e materiale compromettente. Poi sferrano il colpo, che è continuato, offensivo e sistematico. Può avvenire in privato, oppure in pubblico, sui gruppi WhatsApp o sulle pagine Facebook. «Riuscendo a ribaltare il punto di vista, insegnando ai ragazzi e alle ragazze a pensarsi come bersagli, e non come vittime, dimostriamo che dietro a un attacco c’è sempre una persona, che usa trucchi psicologici da smascherare e disinnescare. La padronanza di sé che si acquisisce con l’approccio delle arti marziali, insieme alle conoscenze informatiche che forniamo, permette di ottenere il controllo dell’aggressore, di portarlo dove non può fare male, anche quando si pensa di essere allo stremo si può sempre trovare una soluzione. Ovviamente in questo ultimo caso, se si è in presenza di reati, è necessario fare intervenire le forze dell’ordine». Lo Zanshin Tech si impara nel dojo, che in giapponese significa «luogo per la ricerca della via», una stanza con computer e tavoli, ma si sta diffondendo anche nelle palestre di arti marziali tradizionali. Ci sono dieci livelli, dal bianco al nero, e i colori in mezzo sono quelli del filo del cavo di rete. Chi decide di intraprendere il percorso deve rispettare le cinque regole fondamentali: non usare quello che si impara per fare male; bisogna avere rispetto per sé stessi e per l’aggressore che va allontanato senza accanirsi; ciò che si dice nel dojo resta nel dojo; si fa lezione solo se ci sono almeno tre allievi e due maestri per la tutela di tutti; si lascia il dojo come lo si è trovato. È un percorso che può durare pochi mesi oppure anni ed è tagliato su misura sul singolo allievo. È pensato anche per gli adulti, perché la tecnica del cyberbullismo è la stessa che viene usata per le estorsioni online. Ci si avvicina allo Zanshin Tech per passaparola oppure perché si sta subendo una violenza. «Da quando abbiamo cominciato sono stati risolti diversi casi. Siamo intervenuti in occasione di un’aggressione che durava da tre mesi, con una ragazzina che veniva attaccata da un’altra, con messaggi di insulti ogni ora. Alla base c’era una gelosia per una storia d’amore. La ragazza-bersaglio era in uno stato di stress elevatissimo, ha contattato uno dei nostri maestri, abbiamo analizzato la situazione e applicato una tecnica che si chiama azzeramento: bisogna smettere di rispondere, non bloccare l’aggressore perché altrimenti non si riesce a controllarlo, e accettare quello che arriva. A un certo punto la ragazza che mandava i messaggi offensivi ha smesso, cercando poi di ricucire il rapporto, dimostrando così che era lei ad avere bisogno di quella dinamica. L’aggressione, infatti, è una relazione tra due persone. Detto questo, l’azzeramento non funziona sempre, di sicuro non va attuato quando ci sono minacce o ricatti. Facciamo i corsi proprio perché ogni caso richiede tecniche specifiche, non si può improvvisare».
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Azione Settimanale della Cooperativa Migros Ticino • 13 marzo 2017 • N. 11
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Società e Territorio Rubriche
L’altropologo di Cesare Poppi Le vacche felici di Kobe Il Signor Kazuko Yuge ci si fa incontro alla porta del pulmino, fa un inchino profondo e dice: «Benvenuti alla fattoria delle vacche felici». Il mio collega mi lancia uno sguardo fra l’interrogativo e lo scettico. Già: dov’è capitato, stavolta, l’Altropologo? Bella domanda: dopo undici ore di volo Francoforte-Tokyo alle quali si aggiungano altre due TorinoFrancoforte e due ulteriori Tokyo-Kobe proprio avevo anch’io nozioni vaghe di dove si fosse. Il perché si fosse dall’altra parte del mondo altrettanto misterioso: raid di un commando di docenti dell’Università delle Scienze Enogastronomiche di Pollenzo – il braccio armato accademico del movimento Slow Food – organizzato dalla cellula Slow Food International Giapponese e dall’Università di Kobe. Scopo? Prendere conoscenza dei progressi del globale movimento enogastronomico in quelle lande antipodali e, in seconda battuta, insegnare una Master Class fulminante di tre giorni ad un gruppo di studenti selezionati. Kobe è famosa per la carne delle sue vacche che vengono massag-
giate regolarmente per far sì che il grasso si distribuisca a strati ed ottenere una carne (dicono) deliziosa e – soprattutto – che costi una bomba. Insomma, ci si presenta ancora mezzo rimbecilliti dal jet lag alla Lattière Yuge (sic, in francese: vedi peraltro yugefarm.com – stavolta in inglese) e il Signor Yuge ci saluta alla sua civilissima maniera. Il problema è che è vestito da cowboy texano: cappellone a larghe falde, camicia a scacchi, fazzoletto al collo, corpetto di pelle, cinturone con fibbia a tema cowboy, jeans e stivaletti col tacco. Insomma: fate conto una sorta di Yul Brynner nei Magnifici Sette (che peraltro col Giappone c’entravano perché erano copiati da I sette samurai di Akira Kurosawa). Grazie a Dio il Nostro non porta pistole e dunque ci si rilassa. Ci guida verso lo chalet dove verrà servito il pranzo. Lo chalet è in realtà una sorta di ibrido fra la baracca di un ranch texano, un rifugio alpino del Canton Grigioni e l’annesso ristorante di un tempio Shinto. La confusione s’infittisce vieppiù quando noto appesi al muro una serie di collari
da vacche tirolesi – più uno con la croce confederata. Accanto una bella sella da cavalli stile texano. Il mio collega mi guarda e scuote la testa. Che continuerà a scuotere sine die quando ci viene servito il primo piatto: una porzione minimalista di fromage frais con due fettine di pane tipo baguette che metà dei nostri amici giapponesi lascia sul piatto. «Perché?» – indaga l’Altropologo. «Perché se mangiamo latticini ci viene la diarrea». Insomma: salta fuori che a Kobe ed in pochi altri posti in Giappone dove si producono latticini la tradizione viene dai tempi in cui, con l’apertura dei porti di Yokohama e Kobe agli europei nella seconda metà dell’Ottocento, si cominciò a produrre latte e formaggi per i numerosi residenti europei che invece i latticini li digeriscono per uno di quei misteri dell’evoluzione sui quali ancora si discute. Bene: l’annunciato «stufato di carne» si riduce ad una ciotola di acqua calda nella quale galleggiano una noce di carne bianca e pochi detriti di verdure, carne rivelatasi in seguito essere pollo. E noi che si sognava la vacca di
Kobe. Scuoto la testa anch’io. Sì, perché, come spiegherà di lì a poco il Signor Kazuko, la Yuge Farm è un allevamento etico dove le vacche sono felici. Libere di girovagare per i cinque ettari della tenuta, le venti vacche su cinquanta che producono latte vanno a farsi mungere da un robot (che è di produzione svedese così come il mangime è americano «ma stiamo per sostituirlo con un tipo senza OGM») ogniqualvolta ne sentono il bisogno e si nutrono al silos robotizzato che dà loro esattamente la porzione di cibo programmata nella chip che le vacche portano al collo. Naturalmente c’è musica e magari le mandano pure in vacanza. «Qui le vacche invecchiano naturalmente, e quando vediamo che non ce la fanno più le vengono a prendere…». Svelato il mistero dell’assenza di carne di Kobe nell’allevamento di Vacche di Kobe (che poi sono di razza Holstein) veniamo condotti a vedere le vacche felici al pascolo libero. Ci si presenta una collina di terreno sabbioso sulla quale sopravvivono alcuni alberi d’alto fusto su un terreno peraltro ripulito da ogni
filo d’erba come se l’avessero asfaltato. Di vacche felici nemmeno l’ombra. Il Signor Yuge si profonde in scuse e spiega che da quando ha adottato il sistema della libera uscita le vacche gli hanno devastato il bosco e la collina. Hanno mangiato tutto il possibile fino ai cespugli ed ai germogli degli alberi che non crescono più. Quel che è peggio è che marciando su e giù per il pendio hanno eroso la collina tanto che adesso è piena di canaloni ed altri scoscendimenti nei quali le vacche scivolano e si azzoppano. Oggi è obbligato a lasciar liberi solo i vitelli: non arrivano ai germogli degli alberi e sono più leggeri. Nemmeno l’accenno di un sorriso: tutto maledettamente serio. Poi il colpo di grazia: «Io penso – dice – che le Alpi siano così alte e dirupate, così scavate e prive di alberi per via dei milioni di vacche che ci sono andate su e giù nel corso dei millenni». Mi volto a guardare il mio collega nelle retrovie: ha le lacrime agli occhi. Non capisco se rida o se pianga. Mi dirà che non lo sapeva manco lui. Ma forse era il jet lag.
sopraggiungere di due agenti chiamati dalla madre perché lo dissuadessero dal fumare spinelli, ha infiammato la fantasia di molti coetanei, sempre pronti all’emulazione. Non a caso ho ricevuto altre domande di aiuto di fronte a propositi di suicidio formulati dai figli, soprattutto alla madre. Non al papà, si noti, ma alla mamma perché più fragile emotivamente e più ricattabile affettivamente. Che cosa voleva ottenere Luciano ostentando quella minaccia? Probabilmente di essere lasciato in pace, di non subire interrogatori sui motivi di oscuri malumori che, forse, non conosce neppure lui. Sappiamo che, nella maggior parte dei casi, chi si suicida veramente, prima non ne parla affatto ma pone i familiari di fronte al fatto compiuto. Luciano invece, dando voce ai suoi fantasmi, li sta elaborando, razionalizzando. Cercando di renderli pensabili e dicibili, intende metterli in comune e, come vado ripetendo: «noi comprendiamo solo ciò che siamo in grado di condividere». Cambiando punto di vista, la dichiarazione di Luciano può essere letta come una domanda di
aiuto, di sostegno, di conforto. Il modo migliore di reagire potrebbe essere allora, evitando di aggiungere la vostra paura alla sua, di rivolgersi alla parte forte, resistente, orgogliosa del ragazzo, dicendogli qualche cosa del genere: «la vita è la tua ma è troppo preziosa per sprecarla. Ti attendono anni molto importanti in cui potrai raccogliere tutto quello che hai seminato studiando, impegnandoti, diventando adulto. Noi ci faremo man mano da parte ma su di noi potrai sempre contare». Purtroppo non ci sono formule magiche per esorcizzare i rischi del vivere. Ma un programma di alta protezione non serve a garantire i ragazzi dai pericoli e dagli errori. Saranno la vostra fiducia e il vostro esempio a convincere Luciano che ce la può fare, che ce la farà, perché ne vale la pena.
Cresce, anche in Svizzera, la collettività degli analfabeti di ritorno o funzionali: persone che, sia per questione di origine sia per trascuratezza o pigrizia, non hanno saputo mantenere vivo il bagaglio delle conoscenze scolastiche. In pratica, disarmati di fronte a un testo di media difficoltà e di uso comune come un comunicato ufficiale, una scheda di voto, il foglietto illustrativo di un medicinale. Mentre, e qui sta il paradosso, aumentano i canali proposti dalla tecnologia proprio per scrivere e comunicare. Ma come? Sviluppando modi espressivi particolari, semplificati nell’ortografia e nella grammatica. Ne sanno qualcosa i docenti, in particolare quelli delle Medie, dove arrivano ragazzini che ignorano un tormentone che afflisse le passate generazioni, in quarta e quinta elementare: l’analisi logica e il congiuntivo. Ma erano
gradini da superare per ottenere un’effettiva licenza di scrivere e di esprimersi correttamente, la cosiddetta competenza linguistica. Ciò che avveniva lungo un percorso faticoso, che, oggi, si cerca di agevolare. Non da ultimo, scegliendo la scorciatoia della semplificazione e del semplicismo. In altre parole, non spingere verso l’alto ma tendere verso il basso. In proposito, si registrano indizi discutibili. Ha fatto parlare, oltre Gottardo, l’iniziativa di un gruppo di curatori di musei, decisi a modificare le didascalie, che accompagnano le mostre, per renderle comprensibili a tutti i visitatori. Mentre, com’è stato obiettato, i visitatori dovrebbero affrontare un museo o una galleria con il dovuto impegno. Ma qui, un’osservazione è d’obbligo: per i critici d’arte, autori di certe presentazioni, la chiarezza è rimasta un tabù.
La stanza del dialogo di Silvia Vegetti Finzi I propositi di suicidio degli adolescenti Gentile signora Silvia, leggo sempre la sua rubrica perché vi trovo fatti e riflessioni che mi interessano. Ma questa volta, prima di leggere, sono io a scriverle. Siamo una famiglia media, con due genitori impiegati e due figli, il primogenito, Luciano, che fa la prima liceo, e un fratello di dieci. Durante la loro infanzia non abbiamo avuto problemi. Tutti e due sono cresciuti bene, sani, sereni. Solo ultimamente a Luciano è stato diagnosticato un diabete autoimmune di tipo 1, cioè congenito. Il fratello invece sta benone. Quando è stata fatta questa diagnosi, un anno fa, ci è caduto il mondo addosso. Tanto più che il medico curante ci ha tenuto a specificare, dinanzi al bambino, che la malattia non era guaribile, che l’avrebbe dovuta gestire per tutta la vita, una vita diversa da quella degli altri. In un primo momento il ragazzino ha reagito rimuovendo la questione, e solo recentemente, da quando le cure si sono intensificate, sembra aver preso atto del problema. Si chiede come mai questa disgrazia sia capitata solo a lui. Ciò nonostante Luciano è bravo a scuola, è popolare tra i
compagni, va in piscina, gioca a calcio e scia. Solo ogni tanto lo vediamo chiudersi in se stesso, assentarsi con la mente. L’altro giorno, dopo essersi fratturato il mignolo mentre giocava a calcio, in un momento di umor nero, ha esclamato, di fronte alle mie rassicurazioni: «lasciami perdere, non me ne va bene una, meglio che mi butti giù dalla finestra!!». Da allora non ho più pace, avrei l’impulso di controllarlo a vista ma, se gli stiamo addosso s’incupisce ancora di più. Cosa possiamo fare? / Una mamma in pena Un figlio adolescente costituisce sempre un problema per i genitori perché non è facile uscire da un’infanzia protetta e felice per entrare nei travagli del mondo in prima persona, assumendosi progressivamente la responsabilità della propria vita. Tanto più nella nostra epoca, quando il percorso di crescita non è più tracciato dalla tradizione. La vostra famiglia poi, inutile negarlo, sta affrontando una difficoltà in più, quella di una malattia cronica. Il medico, parlando con il ragazzo, ha fatto male a definirla incurabile perché la speranza non si
toglie mai a nessuno, tanto meno a una persona giovanissima. In tutti i campi la medicina sta compiendo passi da gigante. Vi consiglio pertanto di chiedere al medico di famiglia di rassicurare Luciano, non per illuderlo, ma per metterlo di fronte alla verità: che in tutto il mondo si stanno facendo grandi ricerche sulle malattie autoimmuni e che si prevedono, a medio termine, nuove scoperte. Ma, oltre a considerare la particolare condizione di salute di vostro figlio, tenete presente che, intorno ai 16 anni, uno sviluppo ormonale particolarmente tumultuoso turba frequentemente l’equilibrio emotivo dei ragazzi, per cui gli stati d’animo cambiano rapidamente e il pensiero tende a ragionare in modo assoluto, oscillando tra il sempre e il mai, il tutto e il niente. Basta spesso una piccola frustrazione, come un brutto voto, l’esclusione da una gara sportiva, lo sgarbo di un amico, l’indifferenza di una ragazza, per gettarli nello sconforto. In questo periodo poi la notizia, divulgata dai mass-media con grande clamore, del suicidio di un ragazzo che, in Liguria, si è gettato dalla finestra al
Informazioni
Inviate le vostre domande o riflessioni a Silvia Vegetti Finzi, scrivendo a: La Stanza del dialogo, Azione, Via Pretorio 11, 6900 Lugano; oppure a lastanzadeldialogo@azione.ch
Mode e modi di Luciana Caglio Scrivi come parli: la lingua allo sbando? Tutto è cominciato con un urgente bisogno di chiarezza. Si trattava di un’ulteriore esigenza democratica: abbreviare, nell’era delle comunicazioni di massa, le distanze fra testi cosiddetti alti, implicitamente riservati alle élites, e testi di tipo corrente, accessibili a tutti, insomma vicini all’oralità quotidiana. Serviva, quindi, un altro linguaggio, ancora da inventare, a disposizione di chi usa, professionalmente, la scrittura. A cominciare dal giornalismo dove, nella sfera linguistica italiana, precursore e poi maestro, fu Indro Montanelli, nella seconda metà del secolo scorso. Discusso sul piano ideologico dove si mosse a zigzag, diventò invece, sul piano concreto, un modello stabile, da manuale. Dalla sua penna, dalla sua leggendaria Olivetti Lettera 22, sono usciti commenti, cronache, reportage, polemiche, titoli,
aforismi che hanno fatto epoca: da «votare turandosi il naso» a «radical chic». Con ciò, Montanelli non ha ceduto alla tentazione della faciloneria, in cerca di popolarità a ogni costo. La sua invidiabile chiarezza non ha certo comportato il rifiuto delle regole fondamentali della grammatica e della sintassi: in nome di una sedicente libertà espressiva, ispirata al tutto è concesso, che andava di moda anche scrivendo. Con le conseguenze di un degrado e addirittura di una nuova forma di analfabetismo che giustificano l’allarme, e non soltanto degli addetti ai lavori, i puristi di vecchio stampo. Certo, la denuncia parte dall’alto: secondo Francesco Sabatini, presidente onorario della Crusca, oggi si parla e si scrive «un italiano per principianti», povero, approssimativo, zeppo di errori che sembrano accettati, appunto in nome
di una malintesa libertà. Questo severo giudizio è stato affidato alle pagine di «Repubblica», e quindi non è un discorso da specialisti, piuttosto la constatazione di un disagio, avvertito da un pubblico allargato. Si assiste, infatti, a un fenomeno diffuso, che presenta aspetti inattesi e persino contraddittori. Come osservava Sabatini, è una forma di regresso, rispetto a un passato recente. Negli anni 60, la lingua corretta, in bocca e in mano a tutti, sembrava un fatto acquisito, in un’Italia impegnata a debellare l’analfabetismo, anche grazie alla televisione nazionale, con la storica rubrica «Non è mai troppo tardi». Invece, rieccolo comparire, sotto mentite spoglie e sotto l’urto di imprevedibili situazioni politiche e umane: i flussi migratori stanno sconvolgendo il quadro linguistico nazionale. E non soltanto in Italia.
Azione Settimanale della Cooperativa Migros Ticino • 13 marzo 2017 • N. 11
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Ambiente e Benessere Reportage dal Gujarat Il primo Stato al mondo diventato vegetariano per legge: qui è vietato macellare animali
Il bottigliere del Papa Sante Lancerio «Sommelier ante litteram» e il vino nell’alto Clero, tra papi e porporati pagina 16
Smart electric drive Il nuovo modello della Smart va a completare l’intera offerta della sua gamma che volge verso la trazione elettrica
La cognizione animale Siamo pronti ad accettare l’idea di confrontarci con l’intelligenza animale?
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L’80 per cento della plastica nei mari si trova nei primi due o tre metri dalla superficie. (Keystone)
Lasciate che la spazzatura venga a me Progetti del futuro Boyan Slat ha ideato una tecnologia che, se avrà successo, potrà rimuovere in soli dieci anni
circa la metà della plastica che galleggia nella chiazza del Pacifico, contro i previsti 79mila anni necessari alla natura per ottenere gli stessi risultati Nicola Iachini Immaginiamoci di andare su un’isola della Grecia per fare immersioni e, al momento di entrare in mare, ci capitasse di vedere più rifiuti che pesci. Cosa faremmo? Probabilmente la maggior parte di noi esprimerebbe il proprio disappunto con qualche mugugno, smetterebbe di fare immersioni e resterebbe semplicemente sulla spiaggia a prendere il sole. Beh, Boyan Slat, un ragazzo olandese che nel 2011, quando aveva 16 anni, si è trovato in questa situazione, ha avuto una reazione diametralmente opposta: si è chiuso in camera a studiare e, dopo molte ricerche, ha trovato un modo per pulire gli oceani dalla plastica. «Per me – racconta – era diventata una vera ossessione. Ci ho pensato notte e giorno per un anno, anche dopo l’inizio dei miei studi in ingegneria aeronautica». E dopo tutte queste riflessioni ha trovato un sistema assolutamente geniale. «Perché dovremmo essere noi a muoverci tra i mari, se sono già loro a muoversi?», si è chiesto Boyan. Un professore gli aveva infatti spiegato che era proprio lo spostamento permanente dei rifiuti nell’oceano a rendere difficile il loro recupero. «Mi sono allora chiesto – ricorda – se non fosse possibile
utilizzare questo movimento per far sì che la plastica venisse da noi». Partendo da questa idea, ha ideato un sistema per sfruttare le correnti marine grazie a una barriera fluttuante a forma di V profonda tre metri, che verrà ancorata ai fondali con al centro una piattaforma funzionante a energia solare, nella quale la corrente spingerà la spazzatura e dalla quale sarà poi semplice prenderla e riciclarla. Boyan ha presentato la sua idea al mondo nel 2012 (a 17 anni), parlando in un TED in un intervento intitolato «How the Oceans can Clean themselves», ossia come gli oceani possono pulire se stessi (che tra l’altro è possibile trovare su Youtube). E la rispondenza che ha trovano a livello mondiale è stata immediata e incredibile: la presentazione è stata vista milioni di volte, e centinaia di ingegneri e specialisti, oltre che migliaia di volontari, si sono offerti di aiutarlo. Boyan ha anche lanciato un progetto che è stato finanziato attraverso il crowfunding, che gli ha permesso di raccogliere due milioni di dollari da 38mila donatori di 160 Paesi del mondo. Le offerte vanno da un contributo di circa cinque franchi per raccogliere un chilo di plastica, a 25 franchi per cinque chili, e a 620 franchi per 120 chili. Il compito che Boyan si è dato co-
munque non è facile. È stato calcolato che se nessuno interverrà, entro il 2050 gli oceani conterranno più plastica che pesci. Ogni anno vi vengono scaricati otto milioni di tonnellate di plastica, i quali vengono convogliati, a causa di venti e correnti, in cinque zone negli oceani. E addirittura un terzo del totale è concentrato in quella che viene chiamata Great Pacific Garbage Patch (la grande chiazza di immondizia del Pacifico). Con effetti drammatici sulla salute del pianeta e anche di noi uomini: i materiali cancerogeni vengono ingeriti dai pesci, che poi finiscono nei nostri piatti. Ma se la tecnologia ideata da Boyan avrà successo, potrà essere usata per rimuovere in soli dieci anni circa la metà dei pezzi di plastica che galleggiano nella chiazza del Pacifico. Invece, senza questo sistema, è stato calcolato che ci vorrebbero 79mila anni per avere gli stessi risultati. Ma a che punto siamo col progetto? Dal 2013 al 2015 Boyan e il suo team hanno condotto ricerche sulla plastica in acque marine. Infatti i raggi ultravioletti e le onde hanno un effetto degradante su questo materiale, che si divide in piccole parti che poi si disperdono ancora di più nel mare. Nell’agosto 2015 ha lanciato un’operazione della dura-
ta di tre settimane, denominata Mega Expedition, nella quale ha mobilitato trenta battelli per controllare la zona fra le Hawai e la California. La presenza di plastica è stata di dieci volte superiore alle previsioni e, fra gli oggetti raccolti, come caschi da cantiere o console da gioco, alcuni avevano oltre venti anni. Questi studi hanno permesso di stabilire che circa l’80 per cento della plastica può essere trovata nei primi due o tre metri dalla superficie. Da allora si è passati alla fase di implementazione del sistema di pulizia: lo scorso anno è stata posta una barriera nel Mare del nord a circa 23 chilometri dalla costa olandese, dove resterà per un anno. Essa è profonda cinque metri e lunga cento e rappresenta il primo modello posto in acque marine. Il prototipo è concepito per sopportare un carico di ottanta tonnellate e per catturare piccoli pezzi di plastica fino a un millimetro di diametro. La zona del test è stata peraltro scelta proprio a causa della potenza delle correnti marine. «Il mare del Nord – spiega Boyan – registra tempeste più forti del Pacifico. Perciò se resiste qui, può resistere ovunque». Il sistema delle barriere è stato scelto perché, contrariamente alle reti, permette a pesci e agli altri abitanti degli oceani, fra cui il plancton e le tartaru-
ghe marine, di non restare impigliati nel dispositivo, ma di passare sotto la linea di galleggiamento. Il passo successivo è previsto per quest’anno, quando verrà effettuata l’installazione nell’oceano Pacifico di una barriera lunga diversi chilometri, che servirà per svolgere tutta una serie di test di fattibilità prima di arrivare al progetto completo. «Col mio sistema la plastica si muove verso il centro, dove la concentrazione aumenta di 100mila volte, fino a poter davvero camminare sull’acqua», spiega Boyan. Ma l’obiettivo finale, ambizioso e per questo ancora più suggestivo, è quello di coprire un’area di oltre cento chilometri entro il 2021, il che permetterebbe di pulire la maggior parte dell’oceano Pacifico. Ma Boyan, visto l’inizio incoraggiante, non è certo il tipo da fermarsi qui. Ora spera di riuscire a utilizzare la sua tecnologia per ripulire i fiumi e le coste, ossia prima che i rifiuti arrivino in mare aperto. Per giunta, nella sua squadra ha fatto entrare alcuni scienziati con il compito di studiare il modo per riciclare la plastica raccolta col suo sistema. Se si riuscisse a trasformarla in energia, potrebbe portare benefici all’intera umanità. Non male, per una storia iniziata con una vacanza in Grecia per vedere i pesci sott’acqua…
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Ambiente e Benessere Gujarat, Dwarka. Sotto: la torre dello Jain Temple; un atto di adorazione in acqua; santoni indù; e un murale.
Il paradiso dei vegetariani Viaggiatori d’Occidente Nello Stato indiano del Gujarat il consumo di carne è vietato per legge
Marco Moretti, testo e foto Dopo settimane di cibo vegetariano, intravedo un guizzo nel canale e chiedo dove si può mangiare del pesce. La mia domanda crea imbarazzo, risolto da un pellegrino che compra un dolce di riso, latte e zucchero, lo riduce in palline e lo sparge in acqua. Qui gli uomini non mangiano i pesci, li nutrono. Siamo a Dwarka, la cittadina sulla costa del Gujarat dove il mito indù vuole sia vissuto Krishna, il dio dalla pelle azzurra, volato qui con le sue seimila mogli da Mathura, la sua città natale in Uttar Pradesh. La saga ha trasformato Dwarka nella meta di pellegrinaggio d’ogni buon indù. A Dwarka, nella montagna jainista di Palitana, a Somnath e in altre cittadine sacre sparse nella penisola del Saurashtra, il consumo di carne e uova è vietato da leggi comunali, mentre la macellazione dei bovini è punita da leggi statali. Per storia e cultura, il Gujarat è percepito come lo Stato più vegetariano dell’India, scrigno dei valori indù. Qui, a Porbandar, nacque il Mahatma Gandhi, il profeta della non violenza che nel suo percorso di verità e rinuncia fu un vegetariano rigoroso: «La grandezza d’una nazione e il suo progresso morale possono essere valutati dal modo in cui vengono trattati i suoi animali». Su questi principi ad Ahmedabad, la più popolosa città dello Stato, Gandhi fondò il suo ashram. Per avere minor impatto sulla natura, Gandhi eliminò anche i latticini dalla sua dieta. Ma quest’ultima è una scelta vegana estranea ai costumi indù: infatti il latte è legato al mito della creazione ed è prasad, cibo sacro. Il vegetarianesimo indù (come quello buddhista e jainista) nasce dall’estensione della compassione al mondo animale. In India essere vegetariani non è una scelta. Ogni indù (l’80 per cento della popolazione) mangia solo quello che deve mangiare. Norme e divieti alimentari lo accompagnano fin dalla nascita. Se diventa vegetariano è perché è nato in una famiglia con analoghi principi. Sono i paria (gli intoccabili) e le altre basse caste a macellare, vendere e consumare carne (ovini e pollame). I bramini, al vertice della piramide castale, s’astengono anche dalla vista e dal contatto con
la carne, considerata frutto di sofferenza e fonte d’impurità. Ci sono vegetariani ortodossi anche tra le caste medio basse, come artigiani e agricoltori. I Veda, le scritture sacre induiste, pongono la vacca al vertice del mondo animale, in quanto dea-madre, «colei che nutre il mondo» e simbolo della vita. Mangiare la sua carne è un sacrilegio. I bovini sono parte della famiglia indù: nelle feste vengono adornati con stendardi e ghirlande di fiori, e la nascita d’un vitello è celebrata con offerte agli dei, invocati anche per evitare che gli animali s’ammalino. In Gujarat le vacche anziane o malate sono ospitate in ricoveri governativi e privati, questi ultimi finanziati dalle offerte dei fedeli: si trovano coloratissimi donation box
sui ghat (le scale usate per le abluzioni), nei templi e alle casse dei ristoranti. Lo stesso Gandhi individuava nella protezione della vacca una delle più alte affermazioni di civiltà: «Porta l’essere umano oltre i limiti della sua specie, afferma l’identità dell’uomo con tutto ciò che vive». Il mondo contadino dà anche una spiegazione razionale alla sacralità bovina. Oggi le campagne del Gujarat sono piene di trattori, ma per millenni la mucca è stata il fulcro dell’economia rurale. I bovini aravano i campi e trasportavano il raccolto, erano la fonte sicura di latte per nutrire i bambini. Erano considerati la principale ricchezza e la loro morte era l’inizio della rovina. Se
durante una carestia li si doveva macellare, si mangiava subito ma non si aveva futuro. Dunque era quasi meglio perdere un parente di stenti che abbattere l’animale che garantiva l’avvenire del clan. Ancora oggi ogni famiglia contadina ha una coppia di bovini. Il vegetarianesimo rigoroso di questa terra origina dall’ahimsa, l’assenza di male e di violenza, è il principio portante della morale indù: un concetto che affonda le radici nel periodo buddista, dal III secolo a.C. al IV secolo d.C., e diventa disciplina totale con l’affermarsi del jainismo, una fede nata duemila anni or sono dal disgusto per il mondo materiale. Il jainismo impone il totale rispetto per la vita e ha influenzato il Gujarat più d’ogni altro Stato indiano. Vegetariani intransigenti, i jainisti s’astengono dall’uccidere qualsiasi essere vivente: coprono la bocca con una mascherina per non ammazzare i microrganismi e spazzano il selciato con uno scopino per non schiacciare gli insetti. Mangiano solo vegetali di cui si può cogliere il frutto senza far morire la pianta, dunque nessuna radice. Non lavorano i campi per non ferire i vermi con la vanga, una scelta che li ha trasformati in una setta elitaria, specializzata in commercio e artigianato: per esempio sono i più rinomati tagliatori di diamanti. Il loro luogo di riferimento è il monte di Palitana, dove tremilatrecento gradini portano a un dedalo di cesellate colonne in marmo e pietra arenaria, a centinaia di cappelle che racchiudono sculture di divinità nude. Al di là della percezione, secondo il Registrar General of India, nel 2014 in Gujarat i vegetariani erano il 61,8 per cento della popolazione (al nord e al confine col Pakistan gli abitanti sono in gran parte musulmani e dunque carnivori) contro la media nazionale del 28,85 per cento. Ma – come ha evidenziato una recente inchiesta di «The Times of India» – oggi il Gujarat ha meno vegetariani dei vicini Rajahstan e Maharastra, anche a causa del boom economico che negli ultimi venti anni ha secolarizzato parte delle nuove generazioni nelle grandi città. Nel mio prossimo viaggio, forse, potrò finalmente mangiare pesce…
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Ambiente e Benessere
Il «Sommelier ante litteram»
Il vino nella storia Tra Papi e porporati vigeva la credenza secondo cui il vino fosse addirittura medicamentoso
Davide Comoli È nelle corti rinascimentali che nasce la vera gastronomia. I rappresentanti della nobiltà (veri cultori di ciò che è bello e particolare) infatti, lo dimostrano facendo costruire fastosi palazzi impreziositi da arredi unici. La gran vita di corte si esprime anche a tavola e il successo dei banchetti viene affidato ai cosiddetti Scalchi, una sorta di odierno maître d’hôtel, i quali coordinano gli offitiali della tavola, cioè di coloro che, a ognuno il suo, si occupano dell’approvvigionamento, dell’apparecchiare l’ambiente, del taglio delle carni (i trincianti), della selezione dei vini (i bottiglieri). Un bottigliere passato alla storia è sicuramente Sante (1500-1560) Lancerio, sommelier ante litteram di Sua Santità Paolo III Farnese. «Bottigliere» era il nome dato agli incaricati di servire il vino, ma il Lancerio era un vero scopritore e degustatore di vini. Doveva essere molto esperto nel suo mestiere, perché di tanti vini provenienti anche da paesi lontani, descrive con dovizia di particolari il profumo, il colore, il sapore, usando una terminologia ancora oggi attuale, lodando e criticando in modo sensato. Potremmo accusarlo di essere un po’ sciovinista, perché i vini non prodotti in Italia, vengono definiti quasi tutti cattivi. Nel suo I vini d’Italia, l’autore non divaga mai dall’argomento, fatta eccezione per poche volte, per dirci dei luoghi dove insieme al buon vino si trovano anche delle belle donnette. Licenza perdonabile in quel tem-
po in cui non si trova niente di strano nel fatto che i Papi abbiano dei figli. Gran personaggio questo Sante Lancerio: egli accompagnava il Pontefice in ogni suo viaggio, lo consigliava in tutto, persino sui problemi di salute, ma il suo vero compito era quello di tener conto dei vini che Sua Santità apprezzava e di quelli che rifiutava. A conti fatti, in realtà, era l’uomo di fiducia del Papa. Gli argomenti sul vino variavano: dalla qualità si passava agli abbinamenti con il cibo, alla schiettezza del prodotto, agli effetti medicamentosi, alla pericolosità sull’organismo, alla positività dell’euforia per passare all’influenza negativa sul comportamento umano. Sante Lancerio aveva l’abitudine di fare la cronaca dei suoi viaggi al seguito del Pontefice e spesso ne rendeva partecipe tramite lettere il cardinale Guido Ascanio Sforza. Il Pontefice non risparmiava sui vini e se li faceva mandare dalle zone d’origine. Prediligeva l’Aglianico e amava la Malvasia, quella dell’isola di Candia e in tutte e tre le tipologie: nel dolce per il dessert, vi inzuppava le ciambelline; il secco lo amava per la cena; e l’aspro lo usava come disinfettante per la gola. Paolo III era convinto come molti nel Rinascimento che il vino avesse spesso validissime funzioni terapeutiche. La cognizione del Pontefice (grazie al Lancerio) era così vasta e sofisticata che si permetteva il lusso di scegliere tra un’infinità di vini non solo come abbinamento al cibo, ma anche in accordo con le occasioni ufficiali,
Ritratto di Papa Paolo III Farnese di Tiziano (1546).
con i momenti privati, con le stagioni o la temperatura atmosferica e addirittura con lo stato d’animo. Trebbiano in autunno, Chiarello in estate, Rossese quando tirava la tramontana, l’Asprino per dormire tranquillo, il vino della Magliana (Cesanese) prima di una battuta di caccia. Ma di sicuro il vino favorito dal Pontefice fu il Greco di Somma, coltivato a 12 km da Napoli, come precisa il Lancerio, Sua Santità ne beveva ad ogni pasto 2 o 3 coppe e lo voleva sempre con sé, perché questo vino non patisce i viaggi e anche perché tutte le mattine S.S. ne voleva per bagnarsi gli occhi e anche le parti virili, precisa il nostro sommelier. Insomma Paolo III beveva in tutte le occasioni: non è stato un grande Pon-
tefice, in gloria alla Chiesa, ma di sicuro è stato il pontefice tra i più bevitori e il più bevitore tra i pontefici. Il parlare di Sante Lancerio, porta fatalmente alla Roma dei Papi. Capitava a volte tra i porporati che si abusasse della teoria secondo cui il vino avesse un effetto favorevole e addirittura medicamentoso. Con il Giubileo del 1300 arrivarono a Roma più di un milione di pellegrini. Il vino venduto in quel periodo si divideva in quattro categorie: il romanesco, coltivato nei fondi intorno a Roma; il forestiero, proveniva dal resto dell’Italia; l’ellenico di viti di origine greca; e lo straniero. Non solo gli osti compresero quanto rendesse il consumo del vino, ma anche i Papi, a cominciare da Bonifacio VIII (1294-1303) che amava il Cesanese del Piglio e impose subito regole molto severe sulla mescita e salatissime multe per i truffatori. La «gabella sul vino» fu ideata più tardi da Clemente VII (1592-1605) e fu sicuramente una delle entrate fiscali principali per la Chiesa. Nel 1450 Roma contava ufficialmente 202 osterie autorizzate, ma in realtà pare che fossero più di 1000, e la città contava 45mila abitanti. Tutt’intorno le colline erano un mare di vigne, con tanta abbondanza. Questo ci porta a una logica conseguenza: ovvero che non solo i cittadini, ma anche i successori di Pietro, non fossero insensibili ai piaceri del frutto della vite, senza essere irriverenti nei confronti della Chiesa. Agostino Parravicini Baglioni nella sua La vita quotidiana alla corte dei papi ben scrive di
questo. Giulio II (1503-1513) quando si sentiva indisposto beveva come «medicina» un boccale di vino generoso; da malato grave, volle bere nonostante la proibizione dei medici, i quali furono rinchiusi a Castel Sant’Angelo per la loro insistenza nel negare il vino, pare invece che a ridonare la salute al vizioso Pontefice fu la cura a base di dolce Malvasia. I vini che giungevano nelle cantine e poi venivano serviti alle tavole Papali, erano vini di alta qualità che arrivavano a Roma da terre lontane, soprattutto dopo il ritorno dei Papi da Avignone. Urbano V portò con sé a Roma, il 16 ottobre 1367, 60 botti di vino proveniente da Beaune, da Lunel e dal sud della Francia. Il vino, come aveva suggerito il Petrarca esortando il Papa a ritornare in Italia, arrivava dalla Città Eterna per via mare e risaliva poi il Tevere. Senza ricorrere all’alibi della medicina, Paolo IV (1555-1559) se la godeva a tavola, si narra che venissero servite non meno di 25 portate. Di lui l’ambasciatore Bernardo Navagero scrisse: «Beve molto di più di quello che mangia» e continua «è un vino nero, possente e gagliardo, tanto spesso che lo si potria tagliare». Il vino è identificato come il Mangiaguerra, vitigno coltivato presso Avellino da dove era originario il Pontefice. Gli eccessi consumati nel segreto delle celle papali, non devono però dare del Rinascimento un’idea di smodate e irresponsabili abitudini enoiche, la moderazione veniva raccomandata nelle prescrizioni mediche, nei trattati sui vini e nei saggi sul buon vivere. Annuncio pubblicitario
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Ambiente e Benessere
Difficile ma non impossibile Gastronomia Non tutte le ricette sono da preparare, alcune sono solo da… sognare, altre però
Una gentile lettrice mi chiede come mai, ogni tanto, io scrivo ricette «difficili» – anche se aggiunge che la maggior parte sono facili… Gentile signora, la mia risposta è relativamente semplice: perché una ricetta è scritta per essere poi eseguita ma anche, qualche volta (non sempre) per sognare un po’ – e quindi non è necessario rifare la sella all’Orlov per apprezzare questo mitico piatto; in sintesi, si mangia anche con gli occhi.
Tra gli ingredienti: cervella di vitello, salsiccia, maiale, agnello, coniglio, pollo, porcini, carciofi, carote, zucchine, cavolfiore, amaretti secchi... Poi le ricette «difficili» che ogni tanto pubblico in realtà sono (o cercano di essere, a volte sbaglio…) di certo lunghe da preparare ma altrettanto di certo non richiedono quelle perizie tipiche dei grandi cuochi che noi appassionati non abbiamo, io per primo. Quindi sono ricette che se si ha metodo, pazienza e tempo si possono comunque fare. Conta di più la voglia di far contenti sé stessi e gli amici. Oggi propongo una di queste ricette, forse quella da me più amata: il fritto misto alla piemontese. Ingredienti per 6 persone: 200 g di cervella di vitello, 100 g di filoni di vitello, 200 g di salsiccia a metro, 100 g di fegato di maiale, 100 g di fegato di vitello, 6 bistecchine di vitello, 6 costolettine di agnello, 6 bistecchine di coniglio, 6 bistecchine di pollo, 150 g di funghi porcini, 3 carciofi, 200 g di carote, 200 g di zucchine, ½ cavolfiore, 6 fiori di zucchina, 2 mele renette, 18 amaretti secchi, 4 uova intere, Porto rosso o Marsala, farina bianca, pan-
grattato, burro, burro chiarificato, sale. Per il semolino dolce: 130 g di semolino, 5 dl latte, la scorza grattugiata di ½ limone, 1 bustina di vanillina, 100 g di zucchero semolato, 2 uova intere, 50 g di brandy, 40 g di burro, sale. Per il semolino: portate a bollore il latte con lo zucchero, la scorza di limone e un pizzico di sale, versate il semolino a pioggia e cuocete per 15 minuti, sempre mescolando. Togliete dal fuoco e incorporatevi le due uova, amalgamate bene e versate in una teglia, livellando a uno spessore di circa 2 centimetri, lasciate raffreddare e tagliate a losanghe di 4 cm di lato. Lessate per 5 minuti cervella e filoni in acqua bollente salata, scolateli, tagliateli in bocconcini e tenete a parte. Tagliate la salsiccia a rocchetti e i due tipi di fegato a dadini. Affettate i funghi, tagliate a spicchi i carciofi, riducete a bastoncini le zucchine e le patate e a cimette il cavolfiore. Private del pistillo il fiore di zucchina. Sbucciate, detorsolate e tagliate a rondelle le mele. Bagnate gli amaretti in un bicchiere di Porto o Marsala e sgocciolate immediatamente. Preparate una pastella con 2 uova, 2 cucchiai di farina e latte sufficiente da ottenere un composto consistente, nel quale si passeranno i fiori di zucca, le zucchine, i carciofi e le mele dopo averli infarinati. Infarinate, passate nelle uova sbattute e poi nel pangrattato le bistecchine di vitello, le costolette di agnello, la cervella, i filoni, gli amaretti e i funghi. Passate nell’uovo sbattuto e nel pangrattato il semolino dolce. Infarinate i due tipi di fegato che andranno fritti in poco burro spumeggiante, così come la salsiccia. Friggete tutti gli altri ingredienti in burro chiarificato, immergendo i pezzi poco per volta, girandoli ne necessario, sgocciolateli quando saranno dorati e passateli man mano su carta assorbente da cucina, friggendo per ultimi gli elementi dolci. Salate le carni e le verdure, disponete su un vassoio da portata e servite ben caldo.
CSF (come si fa)
Dirk Vorderstrasse
Allan Bay
www.insiemecongusto.com
possono essere entrambe le cose, come il fritto misto alla piemontese
Vediamo come si fanno tre ricette a base di birra. Utilizzate la birra che volete, secondo il vostro gusto. Un consiglio però: se è ad alta gradazione alcolica, come molte top birre di oggi, sobbollitela per 3’ prima di aggiungerla, per privarla della parte alcolica, che darebbe ai piatti un tocco di amaro. Se invece è una birra a bassa gradazione alcolica, usatela così com’è, anche se è sempre meglio scaldarla.
Salsicce alla birra. Ingredienti per 4 persone. Scaldate in una padella antiaderente olio e aglio, adagiate 8 salsicce e cuocetele a fuoco lento per circa 15’, bagnando con birra. Per la salsa, fate bollire in un pentolino 2 dl della stessa birra, aggiungete 50 g di farina e altrettanto formaggio morbido amalgamando il tutto con una frusta. Una volta raffreddata aggiungete al composto della maionese e mescolate il tutto, regolando di sale e di pepe. Servite le salsicce nappate con la salsa e accompagnate con purè di patate. Galletti alla birra. Per 4. Scottate 4 galletti da 400 g l’uno con olio, sale e aromi in forno a 200° per 10’. Abbassate il forno a 160° e cuocete per altri 30’ irrorando continuamente con burro. Sgrassate e tenete in caldo. Nel frattempo riducete una bottiglia da 1
terzo di litro di birra, poco aceto, scalogni, dragoncello e pepe in grani a 3 quarti. Filtrate la riduzione e montatela a caldo con burro e panna, regolate di sale e di pepe. Servite il pollo nappato con questa salsa. Nodini alla birra. Per 4. Sciogliete un po’ di burro in una larga padella che possa contenere la carne ben distesa. Infarinate 4 nodini di vitello scuotendoli poi per eliminare la farina in eccesso e fateli rosolare nel burro ben caldo da entrambi i lati, poi sfumate con un bicchiere di birra. Unite salvia, rosmarino e 150 g di pancetta tagliata a dadini; regolate di sale e pepe. Portate a cottura a tegame coperto e a fuoco lento, bagnando quando necessario con birra, girando ogni tanto la carne. Servite accompagnando con purè di patate.
Ballando coi gusti Oggi vi do due ricette di sughi. Quello di verdure è dai mille usi, e quindi va bene su tutto. Ma anche quello di salmone va bene su quasi tutto…
Sugo alle verdure
Sugo al salmone e panna
Ingredienti per 4 persone: 400 g di pomodori maturi · 1 cipolla · 1 carota, 1 porro
Ingredienti per 4 persone: 60 g di salmone affumicato · 50 g di formaggio grana ·
· 1 gambo di sedano · 1 zucchina · 1 patata · 1 peperone giallo · 1 spicchio di aglio · prezzemolo · vino bianco secco · olio di oliva · sale e pepe.
Sbollentate i pomodori per pochi istanti, scolateli, sbucciateli, privateli dei semi e dell’acqua di vegetazione e spezzettateli. In un tegame fate stufare la cipolla, la carota, il porro e il gambo di sedano, tagliati più o meno grandi a piacere per 30’ o di più se i pezzi sono grossi. Sfumate con 1 bicchierino di vino sobbollito per 3’ e unite i pomodori, mescolando. Lavate la zucchina, la patata e il peperone, tagliateli a tocchetti e fateli rosolare con un filo di olio e l’aglio. Quando saranno appassiti, uniteli al sugo di verdure e mescolate per qualche minuto; spolverate con il prezzemolo tritato e aggiustate di sale e pepe.
2 dl di panna · 50 g di burro · sale e pepe.
Tagliate il salmone a pezzetti. Mettete sul fuoco una piccola casseruola con il burro e, quando si sarà sciolto, unite il salmone. Lasciatelo insaporire, spegnendo il fuoco prima che il burro colorisca. Aggiungete la panna e il grana grattugiato, fate addensare e regolate di sale e pepe.
Azione Settimanale della Cooperativa Migros Ticino • 13 marzo 2017 • N. 11
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Ambiente e Benessere
Basta scegliere quella che si vuole
Motori È Smart la prima casa automobilistica a offrire la scelta completa – versione elettrica e tradizionale –
su tutta la sua gamma
Mario Alberto Cucchi Nessuna Casa automobilistica sino ad oggi ha proposto tutti i suoi modelli sia con motorizzazione tradizionale sia elettrica. A due posti, a quattro posti o cabrio. Benzina, diesel o elettrica. È Smart a offrire per prima la scelta completa su tutta la sua gamma. Nella primavera 2017 il marchio tedesco svolta verso l’elettrico. Era il 1998 quando dalla collaborazione tra Swatch e Mercedes Art nacque la prima Smart, sono dunque passati quasi due decenni. Oggi i tempi sembrano maturi per un’evoluzione del progetto di mobilità sostenibile che ha dato origine alla comoda e simpatica utilitaria. Smart electric drive, questo il nome del nuovo modello che arriverà nelle concessionarie questa primavera e il cui prezzo verrà reso noto a breve. Non si tratta della prima versione di Smart a trazione elettrica, ma senz’altro si tratta della versione più evoluta. Gli ingegneri sono partiti da un dato: l’utilizzatore di una Smart percorre mediamente 35 chilometri al giorno. Ecco allora che gli è stata «cucita» su misura un’autonomia ottimale per questo tipo di esigenza: 160 chilometri. Insomma tre-quattro giorni senza pensieri. Se da una parte aumenta l’autonomia, dall’altra scendono i tempi di ricarica che si riducono sino a 45 minuti. «Inizialmente ha contribuito la ricerca tecnologica sugli smartphone. Oggi possiamo contare su
una produzione e uno sviluppo delle batterie realizzato direttamente da noi, garantendo una durata di otto anni e 100mila chilometri», dicono i tecnici Mercedes. Le 96 celle agli ioni di litio si trovano sotto i sedili, in ottima posizione per garantire la massima sicurezza e abbassare il baricentro dell’auto. La capacità è come prima di 17,6 kWh, ma hanno una densità maggiore e pesano 20 kg in meno. Si arriva a un peso totale di 160 chilogrammi. Per ricaricarle all’80 per cento da un attacco a ricarica normale, come quello di casa, servono circa quattro ore. Ma come detto prima la novità è che dall’autunno 2017 sarà disponibile su richiesta un caricabatterie rapido particolarmente potente da 22 kW, che consentirà di ricaricare la smart electric drive in tempi nettamente più brevi: meno di 45 minuti (0-80 per cento) se, in base alle condizioni locali, è possibile una modalità di ricarica trifase. Inoltre l’app «smart control» consente di sorvegliare la ricarica da remoto e azionare molte altre funzioni, come la ricarica intelligente. Ma come va la nuova Smart elettrica? Innanzitutto va detto che, indipendentemente che si tratti di Fortwo o Forfour, la compatta cittadina è davvero divertente da guidare. L’accelerazione supera le aspettative. Al semaforo si scatta in avanti come al volante di una supercar e il tutto ovviamente nel più completo silenzio. La potenza massima è salita a 81 cavalli e la coppia, disponibile tutta
La nuova Smart electric drive.
e subito come in ogni auto elettrica, è di 160 NewtonMetro. La velocità massima è di 130 km/h autolimitata. Una chicca è la modalità di guida ECO. In fase di rilascio o in frenata l’energia cinetica della vettura viene convertita in energia elettrica, operando il recupero di energia. Su Smart
il recupero dell’energia avviene con assistenza radar. In pratica tramite un sensore radar viene monitorata la circolazione stradale e selezionato il livello di recupero di energia più adatto alla situazione del momento. Inoltre per risparmiare energia e guadagnare ancora più autonomia la smart electric
drive dispone della funzione di preclimatizzazione. Quest’ultima consente di impostare la temperatura interna desiderata quando la vettura è ancora collegata alla presa elettrica. In questo modo si può trovare l’abitacolo della propria auto già caldo oppure fresco quando si scende in garage. Annuncio pubblicitario
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Azione Settimanale della Cooperativa Migros Ticino • 13 marzo 2017 • N. 11
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(N. 9 - Il portatore della accola olimpica)
Menti non umane 1
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Ambiente e Benessere
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F I L I P P I R I S R A T O S E L E R A D un’astrazione assoluta», ha affermato il Aprofessore di FfilosofiaIteoretica L dell’UA niversità di Catania Alberto Giovanni Biuso, concludendo: «L’umanità non è S O L E la controparte dell’animalità, ne rappresenta una specificità, dunque non Sha senso C chiedersi I quale A siaMl’animale P più intelligente, poiché basiamo questa un unico modello di inAdomanda I su E M I telligenza». Secondo Biuso: «Abbiamo paura dell’animale che noi stessi siamo, Muna paura E atavica, basata C sulla E necesN
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Mondoanimale I nuovi orizzonti della zooantropologia vivono una vera rivoluzione sul tema 9 10
della cognizione animale
Maria Grazia Buletti «Prima di domandarci se gli animali posseggano o meno un certo tipo di intelligenza, specialmente quella che tanto apprezziamo in noi stessi, dobbiamo superare la nostra resistenza interna anche solo a considerare quest’evenienza». Il pensiero del primatologo olandese Frans de Waal riassume i toni delle relazioni degli esperti intervenuti a Bologna, il 29 e 30 ottobre scorso, nell’ambito delle Giornate Internazionali sulla Relazione Uomo Animale organizzate dalla Scuola internazionale uomo animale (Siua, scuola fondata dallo zooantropologo Roberto Marchesini).
Biuso: «Abbiamo paura dell’animale che noi stessi siamo, una paura atavica, basata sulla necessità di (…) differenziarci dalle altre specie» Il tema della mente «non umana» ha sempre affascinato scienziati e filosofi. A partire da René Descartes, che aveva delimitato nettamente i confini fra uomo e animale, sancendo per quest’ultimo il solo dominio delle cose misurabili (res extensa), a differenza dell’essere umano a cui, sempre secondo Descartes, spettava il privilegio del «cogito». Di avviso diametralmente contrario fu Charles Darwin, nel suo libro L’espressione delle emozioni nell’uo-
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14 15 16 nel 1872. 17 mo e13 nell’animale pubblicato Solo a partire dagli anni Settanta si è ricominciato a parlare di «mente ani- 19 18 20 male», grazie alla nascita delle scienze cognitive e la conseguente formulazio22 23 ne di21ipotesi sui processi elaborativi. Tutto questo grazie all’etologo Donald Griffin. 24 25 26 In seguito, la primatologia degli ultimi trent’anni ha contribuito parec28 chio 27 nello studio della mente animale, in particolare per quanto attiene alle aree della consapevolezza, della comusità di marcare il territorio e stabilire nicazione, della messa a punto di adeuna gerarchia, differenziandoci dalle guati strumenti e del loro uso. Si è dunaltre specie». La sfida sta dunque nel que iniziato a comprendere che, come «superare questo concetto di centralità, per i sensi, non è corretto approfondire perché ci troviamo in un labirinto dove la cognizione animale usando l’essere non c’è nessun centro». umano come termine di paragone, perDal canto suo, il filosofo ed etologo ché ogni specie ha sviluppato un «proDominique Lestel (forte della sua espein modo plurale. (William H. Calvin. PhD) filo 1performativo peculiare»: bisogna rienza maturata nelle parecchie indagi2 3 4 Bisogna 5 pensare alla 6 mente 7 non umana 8 dunque pensare alla mente non umana ni sulla relazione tra umani e animali) in modo plurale in quanto le diverse Ciò dimostra che la mente anima- ad esempio che cornacchie e polipi ri- ha presentato al pubblico una nuova 9 10 non sono 11 i relatori, ancora intelligenze delle varie specie le è plurale e, secondo conoscono le facce umane, i pesci san- corrente di pensiero, lo zoo-futurismo: sovrapponibili, non essendo state pla- oggi un continente per lo più inesplo- no passare le informazioni apprese da «Con questo termine si intende l’asmate rato. Nel Novecento l’attribuzione di una generazione all’altra e le scimmie nimalizzazione dell’essere umano: è 12 dagli stessi selettori. 13 14 Parecchi gli esempi portati a sup- capacità cognitive ed emotive agli ani- sono in grado di imparare dagliper errori GENI una posizione al contempo filosofica e N. 49 Schema porto di quanto sopra. Il cane, per ci- mali era considerata assurda e ascien- dei propri simili. Durante la due giorni, artistica in corso di elaborazione, nel15 16 tarne uno noto, è membro di una «spe- tifica, per cui gli scienziati vedevano gli molti sono stati gli interventi degni di la quale si tratta di riattivare la nostra 2 8 animalità, 5 cie virtuosa» nell’intelligenza sociale in animali come automi stimolo-risposta, nota, a cominciare dall’introduzione esplorando le capacità che quanto al convegno di Roberto Marchesini: abbiamo ricevuto dalla nostra storia 17 «capace di muoversi all’interno 18 dotati geneticamente di «istinti utili». 7 di- filogenetica e che abbiamo 1 perso o4non di prefigurazioni relazionali; poi vi La rivalutazione di alcune specie è arri- «Viviamo in un’epoca di costante sono specie più portate alla soluzione vata in seguito e risulta essere relativa- struzione del mondo vivente, dove uno abbiamo avuto l’occasione di speri19 20 di problemi (con «intelligenza enigmi- mente recente. Lo dimostra lo scrittore dei problemi principali è l’antropocen4 3 mentare fino in6fondo in quanto Homo stica») quali il gatto. Le specie antropo- e saggista statunitense Jonathan Safran trismo». Secondo lo zooantropologo, in Sapiens». morfe sono portate all’astrazione Foer nel libro Se niente importa, dove questa società basata sull’individualiIl Simposio ha ruotato per inte21con22 8 cettuale, mentre i roditori fanno parte scrive: «Nel 1992 solo 72 articoli par- smo diventa fondamentale riscoprire ro attorno al concetto di accettazione delle specie capaci di costruire mappe lavano dell’apprendimento dei pesci. il rapporto con gli altri, mettendo in dell’intelligenza animale. Resta da ca23 24 6 per- pire se, ora, siamo 7 pronti ad aprirci2alle cognitive dell’ambiente. E per finire, Dieci anni dopo ce n’erano 500 e oggi si discussione il nostro egocentrismo le nocciolaie sono specie in grado di arriva a 640». sonale e di specie. altre intelligenze e a percorrere un ter25 ricordare un enorme numero di riferiGrazie a questa apertura di diversi «Pensare l’uomo come coscien- ritorio 2 8ancora «largamente inesplora9 menti territoriali. pensatori e scienziati, oggi sappiamo za separata dallo spazio e dal mondo è to», quello delle menti non umane.
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(N. 10 - Tredici mesi, più di sessanta)
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7 6 5 2 Vinci una delle 3 carte regalo da 50 franchi 9 5 con 7 il cruciverba e una delle carte regalo da 50 franchi con il sudoku (N. 11 - I fondi di ca èo con2 aceto) 4 9
Giochi Cruciverba Per togliere gli odori sgradevoli dal frigorifero basta mettervi un bicchierino con … Scopri il resto della frase leggendo, a soluzione ultimata, le lettere evidenziate. (Frase: 1, 5, 2, 5, 1, 3, 5)
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P I FN. 50 F per E GENI R O Soluzione: 2I R Scoprire i 3 numeri U N O D corretti da inserire nelle caselle R E N1 D 6 C 3I colorate. Giochi per “Azione” - Febbraio 2017 5 StefaniaS Sargentini T A3 N C O 18 19 7 accola olimpica) A E F I N ‘ F I 4L I1 P P O O CI R I N O E S R T A T O S E R R AL D E E R AR D EE 8 6 33 S U L L A F I L A E O L E O AC A C I TA CR S 4 O L R S C I A M P I AG RI A T A M 4I DO 8Z R I E 8
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ORIZZONTALI 1. Strumento a fiato 7. Un numero 8. Parlar 9. Appuntamento a Londra 11. 101 romani 12. Senza più energie 14. Le iniziali dell’attore Fantastichini 15. Malfidate, subdole 20. Antica lingua provenzale 22. Un avverbio 24. Legno pregiato 25. Un verbo da barbiere 28. Sono sempre in giro 29. Il perfetto tra i primi 30. Ha una pelle famosa 32. Preposizione articolata
34. Il soccorso del Pascoli 23. Letto al contrario non cambia 35. Lo fanno i fannulloni 26. Principio di deterioramento VERTICALI 27. La ninfa che amò Narciso (N. 10 Tredici mesi, più di sessanta) 1. Puro a Parigi 31.-Poli alfabetici 2. Fu amata da Vasco de Gama 33. Le iniziali del cantante Ruggeri 1 2 3 4 5 6 7 8 3. Battesimale nel battistero 4. La 1fede nel2 cuore3 4 9 5 6 10 7 811 9 10 5. Piccoli mammiferi 12 13 14 6. Costellazione equatoriale 16 11 12 13 15 14 Vincitori del concorso Cruciverba 10. Fu amata da Apollo 17 18 su «Azione 09», del 27.2.2017 13. Un anagramma di arato 15 di un famoso ente investigativo 16 17 19 M. Berguglia, 18 P. Pescia, 16. Sigla 20 W. Cavagna 17. Misura lineare inglese 21 22 18. Le19iniziali dell’indimenticabile 20 Vincitori del 21 concorso Sudoku 22 23 24 su «Azione 09», del 27.2.2017 attore Niven R. Galli, A. Simoni 19. Isole del Tirreno 25 23 24 25 26 21. Vicini al cuore
Regolamento per i concorsi a premi pubblicati su «Azione» e sul sito web www.azione.ch
27 cinque carte regalo 28 Migros 29 I premi, Partecipazione online: (N. 11 - I fondi di ca è o coninserire aceto) la del valore di 50 franchi, saranno sor- soluzione del cruciverba o del sudoku 1 2 3 4 5 6 teggiati tra i partecipanti che avranno nell’apposito formulario pubblicato 30 31 32 fatto pervenire la soluzione corretta sulla pagina del sito. 7 8 entro il venerdì seguente la pubblicaPartecipazione postale: la lettera o 9 10 11 33 34 la cartolina 35postale zione del gioco. che riporti la so-
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Soluzione della settimana precedente GENI -del DICEMBRE BIS 2016 MESI. CURIOSITÀ TRASUDOKU LE DUNE – PER La gravidanza cammello dura: TREDICI I litri che riesce a bere in una sola volta sono: PIÙ DI SESSANTA. N. 49 per GENI Schema Soluzione
(N. 12 - Peccato confessato mezzo perdonato)
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S O P O M 9 2 7 luzione, corredata da nome, 5 cognome, è possibile 9 4 un 7 pagamento 2 1 8 in6 contanti 5 3 2 indirizzo, email delEpartecipanteZ deve Adei premi. IN vincitori avvertiti R I O3saranno Z2 8 I 1 5 6 7 9 4 1 6 3 4 4Azione, per iscritto. Il nome dei vincitori sarà Pessere I Fspedita F Ea «Redazione R O 8 3 su2«Azione». 4 9 7 1 Concorsi, C.P. 3 5 6315, 6901 Lugano». ED Icorrispondenza I sui T pubblicato E 5R 6 Partecipazione O I C UNon N siOintratterrà R P riservata esclusivamente 7 8 3 6 53 1a lettori 2 9 che 4 7 8 6 1 Rconcorsi. E N Le Dvie legali C sono I escluse. Non risiedono in Svizzera. 4 1 D 5 I 3 P O I4 1 9 8E 7 2X 5 T3 6 R
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Azione Settimanale della Cooperativa Migros Ticino • 13 marzo 2017 • N. 11
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Politica e Economia Russia-gate e WikiLeaks Sospetti, accuse, spionaggio e scandali dell’intelligence: è sempre più questa l’America di Trump
Cina-Corea del Nord ai ferri corti Mai come in questo periodo i due alleati sono stati più distanti: l’atteggiamento sempre più aggressivo di Pyongyang ha scatenato una corsa al riarmo in Giappone e in altri paesi asiatici che temono l’emergere della potenza cinese
Scandalo Odebrecht La grande impresa di costruzione brasiliana è accusata di finanziare le Farc colombiane
Che fare degli utili? Il Consiglio federale vuole rivedere il freno all’indebitamento, affinché gli avanzi di esercizio non servano solo a ridurre il debito pubblico pagina 28
pagina 26
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AFP
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Non è Europa l’Europa a 2 velocità
Versailles Per salvare l’Ue da stallo e disintegrazione, i restanti leader dei Ventisette – Francia, Italia, Germania
e Spagna – hanno rilanciato il progetto europeo. Che l’allontanamento dell’America ha reso ancora più evanescente Lucio Caracciolo I quattro superstiti «grandi» dell’Unione Europea – Francia, Italia, Spagna e Germania – si sono ritrovati il 7 marzo a Versailles, nella reggia dove fu firmata nel 1919 l’omonima pace, per (ri)lanciare l’idea dell’«Europa a due velocità». Un modo per dare un senso non puramente rievocativo all’incontro di Roma del 25 marzo, in occasione del sessantesimo anniversario dei trattati che fondarono le Comunità europee, oggi Unione Europea. Le intenzioni possono apparire lodevoli, ma la sostanza resta che l’Ue è avviata lungo un piano inclinato disintegrativo. Ciascuno dei 28 (presto 27, con la secessione del Regno Unito) persegue i propri interessi nazionali, mascherandoli talvolta da europei, senza preoccuparsi di mettere in piedi un percorso davvero comune verso un traguardo condiviso. Ad allestire questa esibizione di buona volontà sono stati d’altronde tre leader in parabola discendente o che nel prossimo futuro dovranno affrontare una prova elettorale (Angela Merkel, Paolo Gentiloni, Mariano Rajoy,
nella foto), mentre il quarto, François Hollande, ha rinunciato a partecipare alle elezioni presidenziali francesi nella consapevolezza di non avere alcuna possibilità di vincerle. La precarietà di questi leader riflette la crescente delegittimazione della politica nella gran parte dei paesi comunitari, in molti dei quali emergono partiti e movimenti euroscettici, quando non eurofobi. Che senso ha, in questo contesto, parlare di «Europa a due velocità»? Di fatto, equivale ad ammettere che il processo di integrazione ha ingranato la marcia indietro. Semplicemente, i soci dell’impresa comunitaria non condividono gli stessi interessi. E senza questa concreta piattaforma, non serve a nulla evocare scenari futuri di «cooperazioni rafforzate». Anzi, queste formule rischiano di ridursi a cortina fumogena, a pura retorica destinata a mascherare il fallimento. Stanno venendo al pettine i nodi non affrontati né tantomeno sciolti da quando l’Europa comunitaria ha cessato di essere occidentale. Perché l’impresa fu avviata, dopo la Seconda guerra mondiale, per ragioni essenzialmente
strategiche, non propriamente ideali: gli Stati Uniti d’America avevano bisogno di riaggregare la loro Europa, quella non raggiunta dall’Armata Rossa, rimetterne in piedi le economie (di qui il Piano Marshall nel 1947), agganciarne le residue risorse militari alle proprie (ecco la Nato, 1949) e formalizzare la nascita di un blocco di nazioni euro-occidentali legate a Washington (Roma 1957). I sei fondatori – Italia, Lussemburgo, Germania, Olanda, Francia e Belgio – venivano così a partecipare dell’ordine della Guerra fredda, nel comune interesse di evitare la penetrazione ulteriore dell’Unione Sovietica in Europa e di contrastare il virus comunista. Scomparsa l’Urss, siamo ancora alla ricerca di un progetto altrettanto robusto e condiviso, tale da unire cuori e menti degli europei. Se l’obiettivo iniziale era dunque – echeggiando il motto della Nato – di tenere «gli americani dentro, i russi fuori e i tedeschi sotto», oggi possiamo constatare che sta avvenendo l’esatto opposto. Gli Stati Uniti non sono mai stati tanto lontani dall’Europa nel dopo-Seconda guerra mondiale. La Russia non ha affatto
rinunciato ad accrescere la propria influenza nel Vecchio Continente, cui è legata da profonde radici culturali, economiche e geopolitiche. La Germania è la potenza numero uno in Europa, anche se è lungi dal determinarne i destini, come immaginavano i profeti del «Quarto Reich». Il fattore geopolitico più rilevante in questo processo è l’allontanamento relativo degli Usa dall’Europa. Trump ha accentuato, per ora verbalmente, una postura che Washington ha scelto da diverso tempo. Semplicemente, gli americani considerano gli alleati europei inaffidabili, sconcertanti ed esosi. Li accusano di viaggiare a sbafo sul treno della sicurezza atlantica. Questo produce in alcuni paesi, Germania in testa la tentazione – o la necessità – di riarmarsi, non potendo più completamente contare sull’ombrello Usa. Gli scenari di cooperazione militare fra alcuni paesi europei, evocati a Versailles, non produrranno un esercito comunitario. Serviranno semmai da copertura per l’irrobustimento di alcune Forze armate nazionali. La scelta delle «cooperazioni rafforzate» è in effetti l’ultima carta che
resta in mano ai leader europei. La stessa azzardata con Schengen e con l’euro. Ma ora il primo accordo è di fatto affossato, in nome dell’emergenza (o presunta tale) determinata dai flussi migratori. Quanto a Maastricht, l’euro è in modalità difensiva, a rischio di imminente, fatale crisi. L’unico percorso possibile per uscire dall’impasse sarebbe un’Europa 2.0. Una costruzione parallela rispetto ai trattati vigenti, sterili e immodificabili. Si tratterebbe di tracciare insieme, fra chi ci sta, un progetto di Stato europeo a tutto tondo, con il suo governo, il suo parlamento, il suo Tesoro e le sue Forze armate. E come tale, abilitato a giocare su scala globale, in competizione/ cooperazione con i protagonisti della scena internazionale. Un simile progetto avrebbe se non altro il merito di rilanciare una vera discussione sul futuro dell’Europa, che continua a latitare. Proprio per questo, è estremamente improbabile che le attuali élite, abituate a tabuizzare il tema, si imbarchino in tale impresa. Scopriremo allora che l’«Europa a due velocità» è sinonimo di non-Europa.
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Azione Settimanale della Cooperativa Migros Ticino • 13 marzo 2017 • N. 11
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Politica e Economia
Il potere al tempo di Big Data Spionaggio politico Dal Russia-gate, ossia i legami misteriosi fra Trump e Putin, allo scandalo Cia
che ha sviluppato nuovi sistemi di hackeraggio ma non è stata in grado di proteggersi da Wikileaks Federico Rampini Si è dovuto attendere fino all’8 marzo per vedere la prima mossa un po’ «distensiva» di Donald Trump sul Russiagate, dopo un’escalation di sospetti, accuse e contro-accuse infamanti, con sullo sfondo l’imminente avvio di un’indagine parlamentare. Almeno la nomina del nuovo ambasciatore americano a Mosca, annunciata la sera dell’8, sembra essere fatta per placare gli animi. Trump vuole mandare in Russia Jon Huntsman, imprenditore di religione mormone, ex governatore dello Utah, ex candidato alla nomination presidenziale repubblicana nel 2012 (eliminato da un altro mormone, Mitt Romney). La scelta fatta da Trump appare abile, quasi bipartisan. Perché Huntsman pur essendo repubblicano è così moderato che Barack Obama lo volle anche lui ambasciatore: in Cina. Viene ricordato come un diplomatico abile, in parte aiutato dalla sua profonda conoscenza della Repubblica Popolare (parla il mandarino). Della Russia non è altrettanto esperto, però Huntsman porta con sé il bagaglio di moderazione, indipendenza, lealtà verso Obama. È una scelta quasi soprendente alla luce di quanto accaduto pochi giorni prima, quando Trump arrivò a diffamare personalmente Obama («persona cattiva o malata») in un tweet in cui lo accusava di avere ordinato intercettazioni illegali sul telefono privato della Trump Tower. La scelta di Huntsman certo non basta a diradare la fitta nebbia di sospetti sul Russia-gate o Putin-connection, sui legami stretti e misteriosi fra l’entourage di Trump e la Russia. Di quello si occuperà la commissione d’inchiesta che il Senato dovrebbe mettere in piedi. Di tutt’altro tenore era stato il weekend precedente. Quando proprio contro Obama l’attuale presidente aveva lanciato via Twitter un’accusa enorme: intercettazioni illegali sul suo telefono privato «come Nixon/Watergate». L’allusione nel tweet di Trump si riferiva allo scandalo che costò la presidenza a Richard Nixon nel 1974: allora il presidente repubblicano aveva davvero organizzato un’operazione di spionaggio illegale ai danni dei suoi rivali democratici. Dovette dimettersi per evitare l’impeachment.
La Cia è sotto tiro. Trump non le perdona di avere indagato nel 2016 sul Russia-gate e la attacca violentemente: cosa mai vista nella storia degli Stati Uniti È il tentativo di ribaltare lo scandalo che ha messo Trump in difficoltà. Due mesi dopo il suo insediamento ha dovuto sbarazzarsi del suo consigliere per la sicurezza nazionale, il generale Flynn, che aveva mentito sui suoi contatti con l’ambasciatore russo. Poi il neo-segretario alla Giustizia, Jeff Sessions, ha dovuto ricusarsi dalle indagini sulla Putin-connection: perché lui stesso ebbe contatti con il diplomatico russo e dunque è nella posizione d’indagato potenziale in un’inchiesta che dovrà essere condotta dal suo dicastero. Infine il Russia-gate coinvolge il «cerchio magico» dei famigliari, il primo genero Jared Kushner, elevato al rango di consigliere e influentissimo insieme alla moglie Ivanka. Pure lui tesseva una rete di contatti coi russi. Quel grande «inciucio» coi rappresen-
tanti di Mosca rilancia l’alone di sospetto sulla campagna elettorale, nella quale gli hacker russi violarono i siti del partito democratico per diffondere veleni su Hillary Clinton. Torna su Trump l’immagine malefica del «Manchurian Candidate», favorito da una potenza straniera. Molti repubblicani sono in imbarazzo: hanno un debito di potere verso Trump, ma non sono mai stati filo-russi. Perciò Trump ha reagito con quel feroce attacco a Obama, l’unico presidente della storia recente a non essere mai stato lambito personalmente da scandali di alcun tipo. Trump ha lanciato la sua accusa infamante contro Obama senza prove, se non un articolo apparso sul sito Breitbart: officina delle fake-news, diretto fino a poco tempo fa da Stephen Bannon, l’ideologo di estrema destra che è l’eminenza grigia del presidente. Breitbart a sua volta ha ripreso una teoria del «golpe silenzioso in atto contro Trump e ordito dai servizi segreti», lanciata da una radio di estrema destra. È il metodo Trump in azione: diffondere via Twitter voci incontrollate, che comunque hanno effetti deflagranti nel discorso pubblico. E distolgono l’attenzione dal vero scandalo. Di vero c’è che il controspionaggio vigilò sui contatti fra i collaboratori di Trump e la Russia, perché questo è un dovere dell’intelligence: verificare se nell’entourage di un candidato presidenziale ci siano infiltrazioni e influenze di una potenza straniera. Nulla a che vedere con il Watergate. La storia si ripete. Trump fece le sue prove generali pre-candidatura nel 2012 lanciando la menzogna su Obama nato in Kenya, quindi ineleggibile e impostore. Allora Trump era solo un affarista e uno showman. Più di recente, una volta eletto, ha attribuito lo scarto di voti assoluti in favore di Hillary a «milioni di brogli» (zero prove; ampie smentite anche da destra). Ma la fortuna – o qualcosa di simile – ha distolto l’attenzione dalla menzogna di Trump: WikiLeaks ha pubblicato una nuova ondata di rivelazioni sui metodi di hackeraggio della Cia. Un altro colpo all’intelligence Usa, proprio mentre è sfiduciata apertamente dal suo presidente. Un’altra fuga di notizie che oggettivamente indebolisce l’America, a conferma dei sospetti che WikiLeaks agisca «a senso unico» (mai contro Vladimir Putin). E un pizzico di veleno sul bilancio di Barack Obama, perché queste rivelazioni riguardano cose accadute negli ultimi tre anni della sua presidenza. La nuova ondata di rivelazioni di WikiLeaks, su come la Cia può usare «l’Internet delle cose» (tipo i sensori della tv di casa) per spiare il mondo intero, non poteva capitare in un momento più delicato per l’agenzia d’intelligence. Visto dagli Stati Uniti il potenziale risvolto di politica interna è perfino più grave delle ripercussioni internazionali. In questo momento la Cia è sotto tiro, Trump l’ha attaccata pubblicamente, violentemente: cosa mai vista prima nella storia degli Stati Uniti. Ciò che l’attuale presidente non perdona alla Cia, così come all’Fbi, è di avere indagato nel 2016 sul Russia-gate. Va ricordata quell’uscita memorabile per la sua durezza, quando Trump volle denigrare le rivelazioni della Cia sul suo Russia-gate: «Questi sono gli stessi che ci raccontarono che Saddam Hussein aveva le armi di distruzione di massa». Qualsiasi cosa possa mettere in difficoltà la Cia è gradita a Trump. In questo caso, se visto nell’ottica americana, lo scandalo non è che la Cia abbia sviluppato nuovi e sofisticati metodi di hackeraggio; lo scandalo è che l’intelligence è un colabrodo, incapace
Il logo della Cia nel quartiere generale dell’Agenzia in Virginia. (AFP)
di proteggersi dalle gole profonde, da quei «leaks» (fughe) che danno il nome all’organizzazione di Julian Assange. Una delle polemiche preferite di Trump è proprio contro le gole profonde che si annidano dentro la sua amministrazione e danno notizie alla stampa. WikiLeaks gli ha fatto un regalo, sotto questo profilo. Un nuovo regalo, per la precisione. Fu proprio WikiLeaks il messaggero scelto dai servizi russi per disseminare in campagna elettorale tutti i segreti trafugati nei server informatici e nelle banche dati della campagna Clinton e del partito democratico. Se c’è una vera complicità, un asservimento di Assange a Putin, oppure una semplice convergenza operativa e d’interessi, chissà quando lo scopriremo. Quella parte d’America che è angosciata dalla vittoria di Trump e dal ruolo che può avervi giocato la Russia, vede ripetersi un gioco di squadra che ha già segnato le elezioni nel 2016. Poi c’è l’aspetto che riguarda Obama e l’Europa. Parte dell’opinione pubblica europea e governi alleati da Berlino a Parigi a Roma, rimpiangono il presidente che ha concluso il suo secondo mandato a gennaio. Più Trump sembra instabile e irresponsabile, più il suo predecessore viene ingigantito nella memoria. Però WikiLeaks ci ricorda che sotto Obama lo spionaggio ameri-
cano fece cose turpi agli alleati europei: intercettando perfino il telefonino di Angela Merkel. I giganti californiani della tecnologia digitale ricordano quell’intervento di Donald Trump, alla fine della campagna elettorale, quando lui affrontò il tema della cyber-sicurezza con queste parole: «Da presidente radunerò tutti i grandi imprenditori della Silicon Valley, e loro mi aiuteranno a sconfiggere i terroristi, a rendere più sicura l’America». In realtà, qualcuno l’aveva fatto prima di lui: Obama. È molto ambigua la storia dei rapporti – talora conflittuali, talvolta incestuosi – tra i due grandi poteri: lo Stato, e le imprese più potenti del mondo che si concentrano quasi tutte in un angolo della West Coast. Quante sono le zone d’ombra inconfessate, gli episodi di cooperazione tra i giganti digitali e il governo di Washington, nella fattispecie le sue agenzie d’intelligence? Nella Silicon Valley opera da quasi un ventennio un ramo della Cia che fa… venture capital, cioè investe capitale di rischio nelle startup. E c’è Darpa, l’agenzia di ricerca del Pentagono, che fu all’origine dello sviluppo di Internet. Dietro gli allarmi e le proteste indignate, che cosa ci nasconde la Silicon Valley? Sullo sfondo c’è una lunga storia d’amore fra gli apparati di sicurezza degli Stati Uniti, il com-
plesso militar-poliziesco-industriale, e il business hi-tech. È dall’11 settembre 2001 che la comunità dell’intelligence ha imboccato una deriva verso il feticismo tecnologico, abbracciando Big Data. L’idea è che il progresso tecnologico ha moltiplicato a dismisura la capacità di raccolta dati. Solo perché la tecnologia «consente» di farlo, le agenzie d’intelligence sono convinte che «devono» farlo. Abbiamo appreso da WikiLeaks dell’esistenza di un’enorme rete globale da Grande Fratello costruita dalla National Security Agency (NSA) nel suo innamoramento per Big Data. La dimensione sconfinata di questa raccolta fa sì che bisogna parlare di meta-dati: per esempio nella stragrande maggioranza dei casi non s’intercettano i contenuti delle telefonate ma solo i numeri chiamati, che possono svelare segnali su reti di contatti. Ma è possibile farne un uso davvero efficace? Non ci sono risorse umane per interpretare masse di dati così sterminate; anche l’intelligenza artificiale non ha dato risultati soddisfacenti: dall’attentato alla maratona di Boston, alle stragi di San Bernardino e Orlando, gli ultimi attacchi terroristici sono avvenuti nell’era di Big Data, in barba alla formidabile potenza tecnologica dello spionaggio.
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Azione Settimanale della Cooperativa Migros Ticino • 13 marzo 2017 • N. 11
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Politica e Economia
È la Libia il fronte di Putin Mondo arabo Nel caos libico e alla luce di una sempre più lontana alleanza con Trump,
la Russia si riconferma protagonista
Mosca scommette sul generale Khalifa Haftar per ricostruire l’asse filorusso in Medio Oriente. (AFP)
Anna Zafesova «Per otto anni la Russia ha prevalso sul presidente Obama, diventando sempre più forte, prendendo la Crimea e incrementando i missili. Debole!». Il tweet di Donald Trump può anche essere letto più come un attacco al suo predecessore che a Vladimir Putin, ma insieme alla dichiarazione del portavoce della Casa Bianca che la Russia deve «restituire» la Crimea all’Ucraina, viene letta a Mosca come la fine del grande sogno di un’alleanza con un’America che passa dalla parte dei russi. Il presidente del comitato Esteri della Duma Leonid Slutsky ammette sconsolato: «Noi pensavamo che Trump potesse essere filorusso, ma è prima di tutto filoamericano». E il viceministro degli Esteri Serghey Riabkov confessa alla camera bassa del parlamento russo che «il livello delle relazioni russo-americane è sotto zero», e che non è in vista alcuna agenda condivisa e condivisibile tra Mosca e Washington. Intanto i dossier della discordia continuano a moltiplicarsi. Anche se si cerca di ignorare lo scandalo mediatico sulle «Russian connections» del nuovo presidente americano, che ha creato nell’establishment Usa un fronte antirusso bipartisan, e concentrandosi solo sulla Realpolitik, sul versante militare è arrivato lo scontro sullo scudo antimissile americano in Corea del Sud, e il Cremlino ha già promesso una risposta simmetrica al progetto di Trump di incrementare l’arsenale nucleare degli Stati Uniti. Per quanto riguarda l’economia, il progetto di abolire le sanzioni imposte alla Russia per l’annessione della Crimea e l’intervento nel Donbass pare essere stato accantonato a causa dell’opposizione del Congresso, e i piani di svincolare le esplorazioni petrolifere rischiano di abbassare il prezzo del barile, e quindi colpire le casse russe. Il vertice DonaldVladimir, che a un certo punto veniva dato per imminente, è stato spostato in fondo all’agenda della Casa Bianca, e pare che i due presidenti si incontreranno per la prima volta soltanto al G20 di giugno, un appuntamento a margine di un summit internazionale. Sul piano internazionale la situazione è altrettanto poco promettente. Il «Wall Street Journal», citando fonti europee, sostiene che Bruxelles ha avuto da Washington garanzie che «gli Usa
non consegneranno l’Ucraina e l’Europa dell’Est alla sfera d’influenza russa». Trump ha già mostrato di considerare come rivale strategico la Cina, importante alleato economico e strategico di Mosca, e l’Iran, con cui il Cremlino ha un’intesa soprattutto in Siria. «Ci toccherà fare una scelta», dice a Gazeta.ru l’orientalista della Scuola superiore di economia di Mosca Leonid Isaev: «Tentare il reset con gli Usa, senza nessuna garanzia di proiettarne l’eventuale successo sull’Ucraina e le altre zone di crisi, oppure restare con l’Iran, rendendoci conto che gli americani, Trump incluso, non vorranno cooperare con noi». Sui potenziali attriti con Teheran pesa anche l’eventuale spartizione della Siria, nella quale russi e iraniani andrebbero a competere per la stessa zona, Damasco e i territori controllati dal loro comune alleato Bashar al-Assad. Tra pochi giorni a Mosca dovrebbe arrivare il presidente iraniano Hassan Rohani, anticipato dalla proposta del presidente del parlamento di Teheran, Ali Larijani di una «alleanza strategica con la Russia in Medio Oriente». E intanto Putin ha incontrato Recep Tayyip Erdogan, con il quale sembra aver definitivamente superato le recenti divergenze, per discutere della partita siriana.
La Russia ha suggellato la sua influenza sullo scacchiere libico con un importante accordo petrolifero In attesa di tornare nemici come prima con Washington, Mosca sta usando il suo intervento in Siria come leva per tornare protagonista in Medio Oriente, regione che non si trova in cima agli interessi della nuova amministrazione di Trump, e che il Cremlino sente di aver perduto con la fine dell’Unione Sovietica, e con le primavere arabe. Il nuovo fronte russo sembra aprirsi ora in Libia, dove Mosca è entrata con prepotenza, scommettendo sul generale Khalifa Haftar, ospite frequente della capitale russa nell’ultimo anno. Secondo alcune indiscrezioni, i guerriglieri dell’uomo che controlla la zona della Libia più ricca di petrolio sono stati mandati a curarsi in Russia, e a gennaio il generale è salito a bordo della
portaerei russa Admiral Kuznetsov per una videoconferenza con il ministro della Difesa russo Serghey Shoigu, durante la quale, secondo Al Jazeera, avrebbe promesso ai russi basi militari a Tobruk e Bengasi. La Libia è importante per i russi per le sue riserve petrolifere – la major statale Rosneft ha appena firmato un contratto di cooperazione con la controparte libica Noc – che permetterebbero ai russi di espandere i propri interessi ben oltre i propri giacimenti, avviati verso l’esaurimento, controllando più o meno direttamente una fonte di idrocarburi cruciale per l’Europa, intenzionata ad affrancarsi dalla dipendenza energetica da Mosca. Ma ancora più rilevante è l’aspetto politico: Vladimir Putin era contrario all’intervento occidentale in Libia (in quel momento il presidente era Dmitry Medvedev, non aveva fatto ricorso al veto all’Onu, facendo infuriare Putin, all’epoca capo dell’esecutivo), e aveva vissuto l’atroce fine del colonnello Gheddafi come un sinistro presagio di quello che gli occidentali volevano avvenisse ai leader a loro sgraditi. Recuperare la Libia, e presentarsi come colui che sana le ferite causate dall’ingerenza occidentale, sarebbe un segnale importante non solo per il resto del mondo arabo – nel quale è diffusa l’opinione che l’America con Obama avesse voltato le spalle agli alleati – ma soprattutto per i russi. Senza contare che la stabilizzazione libica è cruciale per l’Europa, che spera così di fermare l’ondata di profughi, e un contributo russo farebbe sicuramente guadagnare punti diplomatici al Cremlino. Molti europei sono però preoccupati che l’appoggio dei russi ad Haftar possa avvenire a scapito dell’unità libica, e il ministro degli Esteri Serghey Lavrov ha invitato nei giorni scorsi a Mosca il capo del governo di Tripoli Faiez Serraj, per ribadire di rimanere allineata alla diplomazia internazionale. Haftar è appoggiato dall’Egitto del presidente al-Sisi, la cui alleanza con Mosca si sta consolidando di mese in mese, e se Putin riuscisse a portare Haftar al potere in Libia, ricostruirebbe in Siria un nuovo asse filorusso, formato da Haftar, Assad e al-Sisi, gli eredi dell’alleanza di dittatori arabi laici che orbitavano intorno alla Mosca comunista. Il ministro della Difesa britannico Michael Fallon ha ammonito i russi: «L’orso tenga le zampe lontane dalla Li-
bia», per sentirsi rispondere da Shoigu che «non tutti i gatti sono leoni, nel vostro zoo non ci sono animali che possano fermare l’orso». L’ipotesi di una fascia del Mediterraneo controllata dai russi, anche militarmente, confermerebbe che la diplomazia di Mosca pensa di continuare a giocare il suo risiko contro gli Usa, anche alla luce delle elezioni presidenziali che si terranno nel 2018, e che forse verranno spostate nella data del quarto anniversario dell’annessione della Crimea, in una consacrazione imperiale del regime. La Russia sta giocando su più fronti, sfruttando tutto il capitale di immagine accumulato nella guerra in Siria, che però sta presentando un conto economico e umano sempre più pesante. Mentre gli scenari più lontani sembrano promettenti, il Cremlino però ora fatica a ricucire fratture nel cosiddetto «vicino estero» dell’ex Urss. Putin ha appena compiuto un tour nell’Asia Centrale, dove ha dovuto accettare il drastico taglio dell’impegno del Kyrgyzistan a mantenere la base militare russa a Kant, da 49 a soli 15 anni. Il presidente kirghizo Almazbek Atambaev si è anche lamentato della partecipazione del suo Paese all’Unione economica euroasiatica, la «antiUe» creata da Putin (gli interscambi tra i membri nel 2016 sono scesi del 16-18%), incassando dai russi diversi miliardi di aiuti e finanziamenti. La seconda tappa di Putin è stato il Tagikistan, che non ha ancora ratificato il contratto di proroga della base militare russa, aspettandosi gli stessi privilegi dei kirghizi. Prossimamente il presidente russo dovrebbe recarsi anche in Uzbekistan, che per ora si rifiuta di aderire all’Unione euroasiatica. Ma la minaccia principale alle alleanze postsovietiche di Putin sta provenendo ora dalla fedelissima Bielorussia, che sta contestando Mosca su tutto, dal prezzo che deve pagare per il gas ai piani russi di fondare una base della sua aviazione a Bobruysk. Il leader bielorusso Lukashenko si rifiuta di chiudere le frontiere con l’Europa alle merci sanzionate dalla Russia, e le indiscrezioni dei media parlano di una uscita di Minsk da tutte le alleanze con Mosca, incluso il patto sulla sicurezza collettiva, scoprendo il Cremlino sul suo versante più strategico, al confine con l’Europa e la Nato.
Fra i libri di Paolo A. Dossena Jeremy Rifkin, The European Dream, Il sogno europeo, Der europäische Traum, El sueño europeo, varie edizioni in varie parti del mondo Il vertice a quattro sull’Europa, tenuto a Versailles lo scorso 6 marzo, ha stabilito una linea comune e un preciso impegno per il rilancio di un grande progetto nato 60 anni fa. È un dato di fatto che, dalla fine della Seconda guerra mondiale a oggi, l’Europa ha vissuto il periodo di pace in assoluto più lungo della sua storia plurimillenaria. Gli scavi archeologici ci raccontano di scontri tribali tra gli uomini dell’età della pietra: dalle prime battaglie a colpi di clava del paleolitico superiore, nel secolo scorso si è passati ai bombardamenti aerei della Seconda guerra mondiale, che hanno polverizzato città come Coventry o Dresda. Scrive quindi il grande economista e attivista americano Jeremy Rifkin: «Rispetto agli Stati e agli imperi del passato, le cui origini sono intrise di miti di vittorie eroiche sui campi di battaglia, l’Ue rappresenta una novità, nel senso che è la prima istituzione politica della storia che nasce dalle ceneri di una sconfitta: invece di commemorare un nobile passato, cerca di garantire che il passato non possa più ripetersi. Dopo migliaia di anni di continui conflitti, guerre e spargimenti di sangue, le nazioni europee sono uscite distrutte dall’incubo di due guerre mondiali combattute in meno di mezzo secolo: la popolazione civile colpita e decimata, gli antichi monumenti distrutti, le infrastrutture in rovina, le ricchezze materiali disperse, lo stile di vita cancellato. Determinate a non prendere più le armi una contro l’altra, le nazioni d’Europa hanno cercato un meccanismo politico che potesse unirle e far loro superare le rivalità». Jeremy Rifkin racconta: noi americani dicevamo che vale la pena di morire per il Sogno Americano. Il nuovo Sogno Europeo è invece qualcosa per la quale vale la pena di vivere. Ecco quindi sul tappeto il problema della differenza tra Europa e America: mentre l’Ue ha abbandonato il modello dello Stato-nazione (così come lo conosciamo dalla rivoluzione francese in avanti) negli Stati Uniti questo modello è tutt’ora un dogma. La prima edizione inglese del libro di Jeremy Rifkin risale al 2004 ed è ristampato ogni anno in tutto il mondo. Tredici anni dopo, i titoli dei nuovi libri sull’Europa, appaiono allarmati e finiscono tutti con un punto di domanda. Alcuni esempi: Crisi e fine dell’Europa? di Étienne Balibar, professore emerito dell’Università di Paris X-Nanterre (Bollati Boringhieri, novembre 2016); Se l’Europa fallisce? di Joschka Fischer, ex ministro degli esteri tedesco (Ledizioni, 2015); L’Europa è finita? di Enrico Letta, ex presidente del consiglio italiano, e Lucio Caracciolo (Add editore, 2010). Già nel 2004 Rifkin avvisava gli europei di quattro rischi pendenti sulla loro testa. Primo: crollo della natalità, invecchiamento della popolazione e contemporaneo emergere di paesi «giovani», quelli che Federico Rampini definì nel 2010 L’impero di Cindia (Mondadori), il dragone e l’elefante, la Cina e l’India. Secondo: il problema irrisolto della lealtà, che per diversi europei va ancora alle istituzioni nazionali anziché a quelle pan-europee della Ue. Terzo: lo scontro tra identità nazionale e multiculturalismo, quando l’islamismo militante provoca ostilità all’integrazione. Quarto: il problema del rapporto con gli Stati Uniti, che non prendono sul serio l’Europa e che hanno abbandonato il multilateralismo.
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Politica e Economia
Pacifico Test missilistici, minacce nucleari, omicidi misteriosi:
Pyongyang si conferma una realtà difficile da decifrare, che sta esasperando l’alleato Pechino Beniamino Natale Sono molti anni, ormai, che si sentono grida di «al lupo, al lupo». Ma forse questa volta il lupo – una crisi mortale della Corea del Nord provocata dalla fine degli aiuti cinesi – sta davvero per arrivare. In Cina le critiche aperte al Paese vicino e alleato si sono moltiplicate fin dagli ultimi anni di potere di Kim Jongil, il padre e mentore dell’attuale dittatore nordcoreano Kim Jong-un, morto nel 2011: imprenditori esasperati dopo aver atteso invano per anni la sempre promessa e mai realizzata apertura del mercato, funzionari e semplici cittadini che si chiedevano cosa mai il piccolo e chiuso vicino – che i media anglosassoni chiamano «the hermit kingdom» – desse alla Cina in cambio dei massicci aiuti finanziari che gli hanno permesso di sopravvivere nonostante il crescente isolamento e il collasso economico.
Il sistema antimissili Usa Thaad dispiegato dalla Corea del Sud in funzione anti Pyongyang è temutissimo dai cinesi Le voci critiche hanno raggiunto vette mai toccate in precedenza con l’assassinio a Kuala Lumpur di Kim Jongnam – il primogenito di Kim Jong-il e fratellastro del dittatore in carica – e la seguente raffica di test missilistici che ha indotto la Corea del Sud ad accelerare lo spiegamento del Terminal High Altitude Aerea Defense o Thaad, un sistema di difesa americano (è fabbricato dalla Martin-Lockheed) temutissimo dagli strateghi cinesi. Il Thaad, secondo gli esperti di armamenti, è un sistema estremamente avanzato che, se schierato in Corea del Sud, potrebbe intercettare i missili cinesi diretti verso gli Usa e il Giappone, con conseguenze evidenti per le ambizioni strategiche della Cina. L’atteggiamento aggressivo della Corea del Nord, inoltre, ha scatenato una corsa al riarmo che coinvolge lo stesso Giappone e altri Paesi asiatici che temono l’emergere della potenza cinese, come il Vietnam e l’Indonesia. Gli osservatori ritengono che
Pyongyang non sia lontana dal raggiungere la capacità di colpire con i suoi missili e con le sue testate nucleari non solo la Corea del Sud e il Giappone ma anche le coste degli Stati Uniti. Non per niente John Mattis, segretario alla difesa dell’Amministrazione Trump, si è recato di persona a Seul per caldeggiare un’accelerazione dell’installazione del Thaad. Non per niente si è tornato a parlare dello schieramento in Corea del Sud di armi atomiche americane. E non per niente – per la prima volta – si sente parlare di un possibile attacco preventivo americano contro le installazioni nucleari e missilistiche della Corea del Nord. A complicare la situazione c’è la crisi politica in corso nella Corea del Sud: dopo le dimissioni forzate da uno scandalo della presidente Park Geunhye il governo del Paese è guidato da un leader provvisorio, il primo ministro Hwang Kyo-han, ed è diviso tra chi – l’esercito e i suoi molti sostenitori nel mondo politico – ritiene indispensabile lo schieramento in tempi accelerati del Thaad e una larga parte dell’opinione pubblica, che è ostile ad un rafforzamento della presenza americana nel Paese. È proprio per timore di sviluppi come quelli che si stanno verificando che la Cina, per oltre dieci anni, da quando la Corea del Nord realizzò il suo primo test nucleare, nel 2006, ha cercato di promuovere la cosiddetta «denuclearizzazione della penisola coreana», cioè la rinuncia di Pyongyang al proprio programma nucleare, accoppiata alla riduzione – e idealmente all’eliminazione totale – della presenza dei militari americani in Corea del Sud. Pechino ha promosso i «Six-party talks» (le due Coree, gli Usa, la Cina, il Giappone e la Russia), di fatto un tentativo fallito di avviare un dialogo tra Pyongyang e Washington. Se l’opinione pubblica cinese è piuttosto critica verso la Corea del Nord, i suoi maggiori sostenitori sono i militari. Il pensiero strategico cinese è infatti basato sulla prospettiva di un futuro confronto nel Pacifico con gli Usa – un confronto che non implica necessariamente una guerra ma che dovrebbe portare all’affermazione della Cina come potenza dominante nell’Asia meridionale ed orientale. In vista di questo
non è certo facile, per gli strateghi cinesi, rinunciare ad un alleato agguerrito e – fino a ieri – affidabile come la Corea del Nord. Quanto all’assassinio di Kim Jongnam all’aeroporto di Kuala Lumpur – che sembra uscito dalla sceneggiatura di un film di James Bond – anche se non ci sono prove definitive gli osservatori sono unanimi nell’attribuirlo al fratellastro, il dittatore Kim Jong-un. Il primogenito di Kim Jong-il viveva tra Pechino e Macao, sotto la protezione dei servizi di sicurezza cinesi e qualcuno ha ipotizzato che avrebbe potuto essere il candidato cinese per un regime change. Di sicuro, l’assassinio ha provocato un ulteriore isolamento di Pyongyang, rovinando le sue relazioni con tre Paesi della regione. Non solo con la Malaysia – per ragioni evidenti – ma anche con Vietnam e Indonesia, dato che una donna vietnamita e una indonesiana sono state arrestate perché sospettate di essere le killer che hanno ucciso Kim Jong-nam. La Corea del Nord non diffonde statistiche ma già prima di questi sviluppi si riteneva che il 90% del suo commercio avesse luogo con la Cina. I Paesi del Sudest asiatico, e in particolare la Malaysia, avevano comunque mantenuto relazioni amichevoli con Pyongyang e scambi commerciali limitati ma comunque importanti per un Paese isolato come la Corea del Nord. Dopo l’assassinio di Jong-nam, Pechino ha bloccato le esportazioni di carbone verso la Corea del Nord, senza fornire motivazioni. Un portavoce del Ministero della difesa, Ren Guoqiang, ha risposto alla domanda di un giornalista sulla preparazione della Cina di fronte ad un eventuale collasso della Corea del Nord, affermando che «i militari cinesi prenderanno le misure necessarie» per «proteggere la sicurezza e la sovranità» del Paese. In altre parole, Pechino è pronta a fronteggiare un’ondata di profughi provenienti dall’«hermit kingdom». In una mossa inspiegabile, almeno sulla base delle informazioni disponibili, Pyongyang ha sparato a zero sulla sua protettrice, accusando «un Paese vicino» di «atteggiarsi a grande potenza» ma in realtà «ballando sulla musica degli Usa». Il commento, dell’agenzia nordcoreana KCNA, non nomina la Cina ma il suo bersaglio è evidente.
Soldati americani in una base militare della Corea del Sud addetti all’installazione del Thaad. (AFP)
Scandalo Odebrecht anche in Colombia Paso doble L ’azienda brasiliana di
costruzioni, già al centro dell’inchiesta sul finanziamento illecito ai partiti in Brasile, è accusata di aver pagato tangenti alla guerriglia delle Farc
AFP
Cina-Corea del Nord mai così nemiche
Angela Nocioni L’accusa a una grande impresa di costruzioni di aver pagato per anni una tassa alla narcoguerriglia delle Forze armate rivoluzionarie della Colombia, per riuscire a lavorare liberamente sul territorio controllato dai guerriglieri senza temere assalti e sequestri, infiamma in questi giorni il dibattito politico colombiano. Si tratta dell’impresa brasiliana Odebrecht, una delle principali aziende latinoamericane, già al centro dell’inchiesta sul finanziamento illecito ai partiti in Brasile e recentemente accusata in altri paesi del Continente, Colombia compresa, di pagare tangenti a politici di vari schieramenti per aggiudicarsi appalti. Secondo la popolare rivista brasiliana «Veja», alcuni dirigenti della Odebrecht avrebbero dichiarato che l’impresa negli ultimi venti anni ha pagato ogni mese tra i 50 mila e i 100 mila dollari alle Farc per avere garantita la sicurezza nel territorio controllato dalle milizie e poter costruire, tra i tanti cantieri in piedi, quello della Ruta del Sol, la strada di collegamento tra il centro del paese e le città costiere. Le fonti citate dalla rivista sono due dirigenti della Odebrecht che hanno parlato non con i giornalisti, ma con la Procura generale della repubblica brasiliana. Si tratta quindi di una classica fuga di notizie, avvenuta ad opera di inquirenti o di avvocati a conoscenza dei fatti e interessati per qualche ragione a far scoppiare lo scandalo. La Odebrecht campeggia già da settimane nei titoli dei giornali colombiani perché sospettata di aver finanziato i più alti dirigenti politici colombiani in cambio di favori. Il 7 febbraio scorso, nel giorno in cui il governo di Bogotà iniziava i negoziati di pace a Quito, in Ecuador, con l’Ejercito de Liberación Nacional (la seconda maggiore guerriglia originariamente di ideologia marxista ancora attiva in Colombia, nata come le Farc nel 1964) il presidente della repubblica Juan Manuel Santos è stato accusato di avere finanziato la sua ultima campagna elettorale con le tangenti di Odebrecht. Grana doppia per Santos, insignito dell’ultimo premio Nobel per la pace proprio per essere riuscito a compiere il miracolo politico di un accordo di pace tra Farc e Stato colombiano, accordo i cui termini sono stati prima bocciati da un referendum popolare e poi in parte rivisti. Santos è quindi ora nel mirino del suo avversario (ex padrino politico) più insidioso, l’ex presidente Alvaro Uribe, contrarissimo a qualsiasi soluzione politica del conflitto con la guerriglia, che lo può additare non solo come colui che ha voluto favorire un esito secondo lui troppo morbido della guerra contro le Farc, ma anche come colui che si è fatto finanziare la campagna elettorale da
un’impresa straniera che finanziava anche le Farc. Al di là della furiosa lotta politica tra Uribe e Santos e dei relativi scandali che ne scandiscono i tempi, colpisce la sconcertante ipocrisia che accompagna il clamore suscitato dalla fuga di notizie sui pagamenti della Odebrecht alle Farc. E non solo perché in Colombia è stranoto che la guerriglia fosse pagata da tutti coloro che attraversavano per qualsiasi motivo il territorio controllato dalle Farc (per molti anni arrivato ad estendersi oltre la metà del territorio dello stato colombiano), ma perché soltanto nel 2016 sono state aperte inchieste nei confronti di ben 57 imprese per aver pagato le Farc. Se qualsiasi auto si sia avventurata in questi anni nel territorio guerrigliero non ha potuto sperare di arrivare a destinazione senza subire sequestri e senza pagare la guerriglia, come si può pensare che un’impresa straniera peraltro ricchissima non abbia fatto altrettanto e sia riuscita comunque a impiantare cantieri stradali nel mezzo del territorio in mano alle Farc? Secondo quanto trapelato dall’inchiesta in corso, l’accordo per il pagamento mensile della Odebrecht alla guerriglia sarebbe arrivato proprio dopo il primo sequestro di due dirigenti dell’impresa avvenuto durante gli anni Novanta. I consulenti statunitensi della compagnia, ottimi conoscitori della zona di conflitto, avrebbero raccomandato alla Odebrecht di proporre un pagamento fisso alla guerriglia come unica possibilità per riuscire a lavorare senza assalti, boicottaggi, sequestri e omicidi in serie. A scorrere le cronache degli ultimi venti anni, è fitta la lista delle notiziole di cronaca che rivelano pressioni ed estorsioni da parte delle Farc ai molti cantieri Odebrecht montati sul territorio guerrigliero. A parte i sequestri, non si contano gli attentati. Alcuni contro la strada ferrata utilizzata per i lavori. Il Frente 19 delle Farc era specializzato nel far saltare in aria pezzi di ferrovia, così da poter far deragliare locomotiva e vagoni. Negli anni Novanta Odebrecht ha costruito impianti di estrazioni di petrolio nelle regioni di Casanare, Antioquia e Boyacà, tutte stazioni del gigantesco oleodotto Cusiana-Coveñas. Gli assalti compiuti dalla guerriglia furono centinaia. La stessa cosa è successa nel 1999, quando Odebrecht partecipò all’allargamento della miniera di carbone El Cerrejòn, nella zona della Guajira. Tutti sanno che è il metodo della guerriglia per taglieggiare le impresa e ottenere così una sorta di illegale, ma non certo misteriosa, tassa di passaggio. Il finanziamento a qualsiasi titolo della guerriglia in Colombia è un reato tanto grave quanto diffuso. La multinazionale tedesca Mannesmann è stata costretta ad abbandonare il Paese dopo il pagamento di 8 milioni di dollari alla guerriglia della Eln.
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Politica e Economia
Debiti degli uni, crediti degli altri Bilancia commerciale La visione «a tutto tondo» è in economia imprescindibile
per comprendere la complessità del mondo globalizzato
Edoardo Beretta Una sempre valida base di partenza nel ragionare in termini «macroeconomici» consiste nel riconoscere quanto la contabilità a partita doppia (cioè il principio, con cui crediti e debiti vengono universalmente registrati) sia tutt’altro che trascurabile. Ma, nella realtà, funziona davvero così? La percezione è, invece, che Governi e decisori economico-politici tendano troppo spesso a sottovalutare complessità di relazioni commerciali e finanziarie (inter)nazionali. Eppure, in una società strutturalmente interconnessa come quella globale è bene evitare di prendere in considerazione soltanto una parte, cioè dimostrare una mentalità «spartiacque». O creditori o debitori, dunque? Osservando la tematica evergreen dell’indebitamento estero, limitarsi a «puntare il dito» contro le sole
Nazioni debitrici senza esaminare il lato creditorio (che è l’altra faccia della medesima medaglia) sarebbe fuorviante. In altri termini, il disavanzo commerciale di certi Paesi, cioè il fatto che essi importino beni e servizi in sovrappiù rispetto a quanti ne esportino, è evidentemente compensato da un flusso finanziario di segno opposto (cioè positivo) verso il resto del mondo. Semplificando, debitori commerciali netti sono contemporaneamente creditori finanziari netti: viceversa, ovviamente, creditori commerciali netti sono debitori finanziari netti. La responsabilità dei cosiddetti «squilibri globali» (comunemente chiamati global imbalances), cioè di condizioni economiche opposte fra Paesi, non può perciò essere esclusivamente attribuibile ai debitori, ma anche ai creditori stessi. È lo stesso Trattato di Maastricht (1992) a prescrivere un «tet-
Saldi commerciali dell’UE a 28 Paesi nei confronti dei principali partner (mld. €) 2002 2004 2006 2008 2010 2012 2014 2016 USA 65,09 76,00 96,38 65,28 68,45 84,16 102,23 115,27 Cina –55,32 –80,82 –132,12 –170,80 –170,48 –147,91 –137,53 –174,51 Svizzera 10,99 13,10 16,97 17,97 24,98 27,71 43,73 20,82 Russia –30,74 –38,80 –71,20 –65,28 –75,77 –91,69 –79,22 –46,23 Turchia 1,97 7,32 8,09 8,19 18,87 26,67 20,28 11,38 Giappone –30,32 –31,45 –33,68 –34,08 –23,32 –9,34 –3,29 –8,25 Norvegia –19,90 –24,56 –43,54 –52,23 –37,09 –49,63 –34,90 –14,56 Sud Corea –7,02 –12,87 –18,13 –14,25 –11,57 –0,21 4,42 3,09 India 0,62 0,75 1,60 1,72 1,52 1,07 –1,52 –1,47 Canada 6,20 5,66 5,39 0,38 2,01 1,11 4,21 6,11 Elaborazione propria sulla base di http://appsso.eurostat.ec.europa.eu/nui/ submitViewTableAction.do
to» in termini di deficit pubblico pari al 3% annuo rispetto al PIL, ma − più recentemente dal 2013 (senza risultati degni di nota) − la Commissione Europea ha anche «bacchettato» Nazioni con surplus delle partite correnti superiori al 6% rispetto al PIL per più di tre anni consecutivi. Nelle scienze economiche è, pertanto, indispensabile che si ragioni in termini di «vasi comunicanti» ‒ principio comunque valido anche in un’economia chiusa, cioè in assenza di scambi con il resto del mondo: anche in tal caso (ormai costituito da solo una manciata di Nazioni), le stesse regole si applicherebbero. A livello nazionale, ne è esempio la relazione fra depositi e prestiti bancari dove il risparmio dell’uno è la concessione di credito all’altro. Quindi, se una Nazione presenta un forte disavanzo commerciale, ciò significa che altri partner possano essersi «abituati» a farle sistematicamente credito. Ecco che i dibattiti a carattere nazionalistico dovrebbero tenere conto di tali nessi, cioè che ‒ a mero titolo esemplificativo, ma certamente non esaustivo ‒ per ridurre il debito estero di alcune Nazioni è necessario che altre taglino il proprio credito nei confronti degli stessi. Non si può nemmeno escludere che la persistente presenza di tali squilibri internazionali possa avere «impigrito» i Paesi coinvolti, convincendoli che lo status quo sia incontrovertibile senza che essi debbano apportare alle loro politiche quelle modifiche richieste ai soli altri. Ciò potrebbe essere il caso degli
Il Trattato di Maastricht è conservato nel caveau di una banca: contiene anche regole per gli Stati con un surplus di esportazioni nelle partite correnti. (Keystone)
Stati Uniti d’America, che dal Secondo Dopoguerra in poi hanno accumulato i più elevati saldi (negativi) delle partite correnti della bilancia dei pagamenti (passati da un «flebile» surplus pari a 2,62 mld. $ nel 1970 ad uno «spaventoso» disavanzo di 462,96 mld. $ nel solo 20151). Una ragione potrebbe essere rappresentata dalla necessità di essere stati «fornitori» di liquidità per il resto del mondo, essendo la moneta americana a lungo stata l’unico mezzo di pagamento internazionalmente accettato. Se tale problema non è più così pressante (essendosi aggiunte altre monete globalmente spendibili), la Nazione americana ha ormai «plasmato» la propria economia domestica su quella suddivisione dei ruoli. Alcuni altri Paesi come la Cina (ma meno la Germania, che fa
leva sulla propria influenza egemonica europea) stanno sempre più «scommettendo» su crescita economica meno export-led, cioè altamente dipendente dal settore delle esportazioni, avendo presa consapevolezza del fatto che (in presenza di crisi economica a carattere pandemico) scarso sia l’affidamento possibile su perduranti incrementi della domanda internazionale come nel passato. Perché è chiaro, qualora non si sia oggi imparato a pensare in termini di «causa-effetto» o «parte-controparte», il risultato sarebbe perlomeno parziale ‒ se non del tutto errato. Nota
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Politica e Economia
Come utilizzare gli avanzi d’esercizio? Conti della Confederazione La maggioranza dei consiglieri federali vorrebbe allentare il freno all’indebitamento
e impiegare gli avanzi d’esercizio, nonostante lo scetticismo del Dipartimento federale delle finanze. Il dilemma affidato a un gruppo di esperti esterni Ignazio Bonoli Presentando il bilancio 2016 della Confederazione, avevamo accennato alla possibilità che venisse rivisto il freno all’indebitamento, soprattutto nell’ottica di non utilizzare tutti gli utili dell’esercizio corrente per ridurre il debito pubblico. Essendo quest’ultimo sceso al di sotto dei 100 miliardi di franchi e quindi a soltanto il 15% del PIL, è probabile che nei prossimi mesi le discussioni su questo tema possano tornare a riaccendersi. È anche vero che la Svizzera è particolarmente fortunata in questo campo, se la si confronta con altri paesi – per esempio quelli dell’Unione Europea – che spesso faticano a mantenersi sotto la soglia-limite del 60% del PIL. Ragione di più per non ridurre ulteriormente questo debito, ma di usare le eccedenze per altri scopi, che potrebbero essere il sostegno all’economia, alle istituzioni sociali e via dicendo. In realtà lo strumento che permette una riduzione del debito non è tanto il freno alla spesa (in senso stretto), ma piuttosto il «Freno all’indebitamento», codificato nell’articolo 126 della Costituzione e accettato, in votazione popolare, nel 2011 con quasi l’85% di voti favorevoli ed entrato in vigore con il preventivo 2013.
Forse giova ricordare brevemente che lo scopo di questo «freno» è quello di equilibrare a lungo termine le entrate e uscite della Confederazione. Solo in caso di fabbisogno eccezionale gli importi possono essere aumentati, rispettando i limiti fissati dal «Freno alla spesa», previsti all’art. 159 (limiti alle spese e maggioranze parlamentari). Le uscite in eccesso devono essere compensate negli anni successivi. Nell’applicazione di questi vincoli costituzionali, gli anni di esperienza maturati nel frattempo permettono di dire che il freno costituzionale è stato molto efficace e ha permesso perfino di diminuire il debito lordo della Confederazione. In realtà il meccanismo imporrebbe al governo di accumulare gli avanzi d’esercizio in un conto di compensazione. Non si tratta però di un conto particolare, ma praticamente del margine a disposizione per eventuali interventi straordinari, senza incidere sull’aumento del debito. Per questo la diminuzione del debito lordo, in caso di bilanci attivi, corrisponde al citato margine di manovra. E – sempre in applicazione dello stesso principio – il governo deve fare in modo che – a preventivo – le uscite non superino le entrate. Ma questo non avviene quasi mai. In realtà una gran parte dell’avanzo
Il capo del Dipartimento federale delle finanze, Ueli Maurer, è poco propenso a rivedere i meccanismi del Freno all’indebitamento. (Keystone)
d’esercizio consiste quasi sempre in crediti non utilizzati. Secondo l’amministrazione federale delle finanze, questo fenomeno si ripeterà anche nei prossimi anni, per un importo di circa un miliardo di franchi ogni anno. Perciò una maggioranza dei consiglieri fe-
derali vorrebbe poter utilizzare questi soldi per altre opere, il che non sarebbe contrario all’articolo costituzionale, ma manca tuttora di un’apposita legge. Di fronte alle resistenze (in particolare del Dipartimento finanze) è quindi stato costituito un gruppo di lavoro ester-
no con l’incarico di esaminare la possibilità di un allentamento del «freno». In particolare di valutare la possibilità dell’uso delle eccedenze di bilancio da un punto di vista economico. Vi potrebbero essere tre possibilità. Non cambiare nulla dal momento che la regola non ha avuto finora effetti importanti sull’economia e la riduzione del debito lordo apre comunque spazi per eventuali interventi straordinari. Oppure, senza cambiare le regole, continuare a ridurre il debito fino a zero e poi costituire capitale proprio. Da un punto di vista economico non si può dire quale livello di debito sia ottimale. Il debito della Confederazione è comunque già molto basso. Si potrebbero quindi correggere di volta in volta avanzi o disavanzi. La decisione è prettamente politica. In terzo luogo, considerato che una riduzione del debito non è obbligatoria, è bene che la Confederazione si preoccupi dei grossi problemi che si dovranno affrontare, soprattutto a causa dell’invecchiamento della popolazione e della salute. La riduzione del debito a zero potrebbe durare un secolo, ma i grossi problemi si presenteranno fra 30 o 40 anni e il freno all’indebitamento non può risolverli. Per cui costituire oggi riserve per casi estremi sembrerebbe giudizioso. È la risposta che daranno gli esperti nel rapporto? Annuncio pubblicitario
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Politica e Economia Rubriche
Il Mercato e la Piazza di Angelo Rossi Congiuntura: interpretazioni contrastanti? Qualche volta la lettura delle pagine dei giornali dedicate all’economia può sollevare più di un interrogativo, specialmente se si consultano solo i titoli. Prendiamo per esempio l’edizione del primo marzo del «Corriere del Ticino». A pagina 18 si può leggere «KOF La crescita sta accelerando» e il lettore si frega le mani soddisfatto. Poi il suo sguardo si porta sulla pagina di fianco e legge «Industria: Una lenta uscita dalla crisi». E allora si domanda: Ma la congiuntura sta pigiando sull’acceleratore oppure continua a viaggiare con le marce più basse? Il dilemma si chiarisce leggendo i due articoli perché di fatto la valutazione che essi fanno della crescita è praticamente uguale. Dove i loro pareri differiscono è a proposito della questione a sapere se l’economia svizzera ha o meno riassorbito gli effetti negativi del superfranco. Il KOF si occupa del presente: il suo barometro congiunturale dimostra che la crescita sta accelerando. Il barometro è uno strumento di misura, dedotto da un insieme di indicatori
economici (attualmente sono più di 400). Misura, ogni mese, la pressione congiunturale del momento. Quando i suoi valori salgono vuol dire, come nel caso della meteorologia, che l’economia va verso il bel tempo. Se diminuiscono, invece, si annunciano periodi più o meno lunghi di maltempo. Nel febbraio di quest’anno il barometro della congiuntura ha fatto un balzo in avanti di 5,2 punti, rispetto al mese precedente, raggiungendo un valore pari a 107,2 e ritornando così al livello che aveva segnato per l’ultima volta alla fine del 2013. Si tratta di un valore nettamente superiore a 100, ossia al valore medio degli ultimi dieci anni. Nel suo insieme, quindi, l’economia viaggia a gonfie vele. Che cosa dice ora Swissmem, ossia l’organizzazione della meccanica, della metallurgia e dell’elettrotecnica, vale a dire il fior fiore dell’industria svizzera il cui comunicato stampa ha ispirato il secondo articolo del «Corriere». Swissmem commenta l’andamento nel 2016 e ricorda che lo scorso anno si è
avuta, almeno nei primi tre trimestri, una riduzione del fatturato. Il numero delle nuove commesse è però aumentato del 9,5% il che fa ben sperare per il 2017. Sappiamo per esperienza che se le ordinazioni aumentano nella chimica, nell’orologeria e, soprattutto, nel settore rappresentato da Swissmen, la congiuntura nel settore industriale sarà buona. E se il settore industriale tira è difficile che il resto dell’economia non segua. Di fatto quindi sia le aspettative di crescita del KOF, sia quelle di Swissmem sono positive. Per il momento non c’è ragione per modificare le previsioni fatte alla fine dell’anno che anticipavano un tasso di crescita del Pil del 2% per quest’anno contro l’1,3% del 2016. Se i due comunicati convengono nella valutazione delle prospettive economiche essi differiscono invece, come si è già ricordato, nell’apprezzamento delle conseguenze della rivalutazione del franco svizzero a metà gennaio del 2015 che, come tutti ricordano, era stata un vero e proprio choc per le aziende esportatrici. Il KOF,
basandosi sull’aumento del suo indice congiunturale nell’ultimo mese, sostiene che, oramai, per quel che concerne l’economia nel suo insieme, lo choc della rivalutazione del franco è stato superato. Per Swissmem, invece, la forza del franco continua a creare problemi a molte aziende anche se le ordinazioni sono in aumento. Per provare questa affermazione cita percentuali relativi ai margini di guadagno realizzati dalle stesse. Stando a questi dati, nel 2016 il 23% delle aziende del metalmeccanico avrebbe chiuso con un EBIT (guadagno prima degli oneri finanziari e delle tasse) negativo. Prima della rivalutazione del franco, nel 2014, la quota di aziende in perdita era solamente del 7%. La rivalutazione continua dunque ad avere un impatto negativo. Osservo ancora che la differenza nel giudizio non è dovuta al maggiore ottimismo degli uni o al maggiore pessimismo degli altri. È semplicemente dovuta al fatto che mentre il KOF giudica basandosi unicamente sulle aspettative di sviluppo delle ordinazio-
ni – e quindi del fatturato – Swissmem apprezza la situazione tenendo conto anche dell’evoluzione dei margini di guadagno. Per un’azienda del settore privato crescere è un’esigenza, ma altrettanto importante è realizzare un guadagno. La rivalutazione del franco ha ridotto i margini di guadagno delle aziende esportatrici. E, nel 2016, questa riduzione non era ancora stata riassorbita, almeno per quel che riguarda le aziende del metalmeccanico. Swissmem ha quindi ragione: a fine 2016, l’effetto choc della rivalutazione del franco sui margini di guadagno si sentiva ancora. Ma anche il Kof non ha torto quando sostiene che questo effetto è stato riassorbito almeno per quel che riguarda la crescita delle ordinazioni. La morale di questo confronto è che gli effetti di un cambiamento nell’economia possono essere giudicati da più punti di vista e che a seconda del punto di vista scelto il giudizio può essere diverso. Tuttavia ricordiamoci che non è che vendendo in perdita si guadagni sulla quantità.
dello Studio Ovale è sembrato anche a molti antipatizzanti che l’accanimento nei suoi confronti fosse eccessivo. In questa corsa alla sopravvivenza grande peso hanno due elementi: gli umori di Trump e quel che dicono i due custodi del progetto trumpiano, Stephen Bannon e Stephen Miller. Sugli umori del presidente si scrive ormai di tutto, i giornali sono pieni di indiscrezioni, e più ci sono indiscrezioni più l’umore del presidente peggiora: Trump è furioso. Per gli attacchi dei «mediacontro-Trump-a-tutti-i-costi», come li ha definiti il fedelissimo Sean Hannity su Fox News, e per lo scontro con la comunità d’intelligence, che procede a colpi di accuse e controaccuse rendendo mainstream quella enorme teoria del complotto che si chiama «deep state», i servizi segreti deviati. I custodi del progetto trumpiano fanno di tutto per calmare l’animo del presidente ed eccitare quello degli elettori, ribadendo con
forza il legame con il popolo e non con il palazzo, deviato o no che sia. Di Bannon s’è scritto e detto molto, è una figura al tempo stesso affascinante e spaventosa, che ama questo suo ruolo da Rasputin. Miller è meno noto, ma altrettanto rilevante nella costruzione del progetto trumpiano: 31 anni, è l’unico ad aver avuto una qualche esperienza di governo, lavorando al Congresso per otto anni – anche con Jeff Sessions, attuale ministro della Giustizia finito in uno scandalo ancora tutto da analizzare per i suoi rapporti con la Russia e le sue presunte menzogne durante le audizioni di conferma al Senato. Miller era famoso al Congresso perché produceva documenti e dichiarazioni appassionantissime, fuori dagli schemi istituzionalnoiosi delle procedure parlamentari, e questa sua passionalità si ritrova anche nei discorsi di Trump, su cui Miller lavora più degli altri. Dimostrando già di avere un’abilità politica che forse altri
non hanno, o non mostrano: Miller ha predisposto un discorso per l’inaugurazione della presidenza incendiario e polemico, ma quando il pubblico è diventato il Congresso, Miller ha scritto per Trump un discorso posato, ragionevole. In realtà si trattava di tatticismo comunicativo raffinato, visto che poco dopo, su Twitter, Trump ha recuperato toni e follie consueti, ma questo modo di muoversi, modulando l’offerta, è uno dei tratti distintivi di Miller, il quale finora è comparso poco in televisione ma quando lo ha fatto si è mostrato molto composto (e con il nodo della cravatta più piccolo dell’Amministrazione) ed efficace al punto di conquistarsi gli applausi pubblici di Trump (ambitissimi). Ma il bello deve ancora venire: Miller deve uscire dalla retorica, deve ideare provvedimenti che non vengano bloccati dai giudici, deve diventare quello che dice di essere già, l’«implementer» della rivoluzione di Trump.
restituire all’utente almeno la forma, il design e l’esperienza tattile a cui è sempre stato abituato per esprimere la propria creatività, o più semplicemente per lavorare e studiare». Scarto subito l’idea che queste parole siano dettate da strategie di marketing o suggerite solo da bisogni pubblicitari. Penso piuttosto che la scelta del produttore tedesco possa essere nata nel settembre di due anni fa, quando Tim Cook, andando contro i dettami di Steve Jobs, aveva presentato una Apple Pencil per lavorare meglio sul nuovo Mac Pro. E poi, a guardare bene, l’alleanza con la Samsung non cambierà di molto le strategie di globalizzazione della Staedtler: oltre a inviare tronchi americani in Cina, ora realizzerà matite anche nella Corea del sud con barrette esagonali di plastica rese «magiche» dalla digitalizzazione elaborata da Samsung. I più critici sostengono che usandola su un tablet o su un laptop non sarà mai come disegnare su un foglio vero, ma pare che Samsung e
Staedtler abbiano raggiunto un buon compromesso tra analogico e digitale. Un giudizio che cambia un po’ le carte in tavola: a rischio di estinzione non è la matita ma piuttosto il foglio di carta, soppiantato da display elettronici. Ma allora, le matite digitali, garantiranno davvero «un feeling col passato»? La domanda mi ricorda quanto ha scritto Mario Botta nel suo Quasi un diario: «Mi sento un operatore lontano dall’attualità elettronica: mi piace sentire la presenza della matita nella mano, mi piace osservare i suoi piccoli movimenti, le pause e le successive accelerazioni. (…) Personalmente mi trovo in difficoltà a leggere un disegno sullo schermo di un computer (…) Per questo preferisco la matita, porta con sé una maggior consapevolezza critica: come un sismografo riesce a registrare le nostre emozioni». Mi sa che se qualcuno alla Staedtler legge quest’ultima frase, chiederà a Mario Botta di poterla usare per pubblicizzare la Noris digitale!
Affari Esteri di Paola Peduzzi Alla corte di re Trump Nella Casa Bianca di Donald Trump vige la regola darwiniana, il più forte resiste, gli altri soccombono, anche in modo brutale. La misura di questa forza non riguarda la tenuta fisica – che pure ci vuole: chiedete ai giornalisti americani che si occupano di Trump in che frenesia vivono, vi diranno che rimpiangono i sabati in cui rubavano lo stipendio perché non accadeva nulla – quanto piuttosto la fedeltà, e la capacità di esprimerla. Fedeli sono un po’ tutti, naturalmente, non ti siedi alla corte di Trump se non sai omaggiare il tuo re in modo adeguato (il «team of rivals» lincolniano è sepolto), ma c’è chi riesce a rendere credibile il trumpismo anche al di fuori del cerchio magico e chi invece balbetta un filo troppo. I secondi sono nel mirino del presidente che come si sa consuma tantissima televisione e trova anche il tempo di guardare il suo portavoce Sean Spicer durante la conferenza stampa quotidiana, una passione
irrituale. Ma ogni giorno salgono e scendono le quotazioni dei consiglieri trumpiani, a seconda delle ire del presidente e delle performance pubbliche: nelle ultime settimane sono scese quelle di Reince Preibus, il chief of staff, che non è amato dagli ideologi di Trump ma che serve al presidente come collegamento – invero fragile – tra la Casa Bianca e il Partito repubblicano. Nella faida darwiniana Preibus però non è solo, e gli amori e i disamori oscillano in modo convulso: Spicer sembrava finito e invece è lì che mette il guinzaglio agli odiatissimi media, ha soltanto cambiato il colore dell’abito su istruzioni del presidente. Anche Kellyanne Conway, il volto di Trump nelle televisioni, ex capa della campagna elettorale, è attaccatissima dalla stampa – lei ci mette del suo, ogni tanto fa errori pacchiani, altre si rifugia, ironia, nel misoginismo – ma quando si è discusso per giorni della sua posizione poco ortodossa sui divanetti
Zig-Zag di Ovidio Biffi Una matita per disegnare emozioni? Un paio di anni fa lo scrittore e blogger Antonio Pascale volendo spiegare la globalizzazione descrisse la produzione di una matita. La sua dimostrazione mi è rimasta impressa perché seguendo la produzione di uno strumento semplicissimo e utilissimo come la matita, toccava le grandi strategie economiche e le implicazioni socio-politiche. L’esempio era basato sul fatto che per diventare strumento di scrittura le matite hanno bisogno dapprima di grafite che si trova in Cina, nello Sri Lanka o in Zimbabwe; poi di un certo tipo di argilla che, reperita in miniere europee e miscelata con la grafite, garantisce elasticità alle matite; terzo elemento il legno, che per le matite economiche proviene in prevalenza da pini piantati in 100 chilometri quadrati nello Stato di Minas Gerais, in Brasile e, per quelle di alta qualità, dai cedri che crescono in California o nell’Oregon; i tronchi vengono spediti via nave a Tianjin, in Cina, dove vengono tagliati e sagomati per finire la lavorazione inserendo
la mina e generando i diversi tipi di matita da recapitare ai committenti (l’esempio riguardava la tedesca Faber Castell) . Avviso: sorvolo sugli scrupoli di chi protesta per inquinamenti causati o eco-sostenibilità violate e privilegio piuttosto le decine di migliaia di bocche sfamate in tre continenti, come pure sui problemi delle poche persone che forse potrebbero ancora vivere fabbricando matite rispettando le antiche regole artigianali. Preferisco porre in risalto una notizia degli scorsi giorni: in occasione del recente Mobile World Congress di Barcellona la ditta tedesca Staedtler, che da circa 180 anni produce matite e strumenti per disegnatori, ha annunciato una collaborazione con la Samsung per fabbricare matite in campo digitale. Il produttore giustifica la sua scelta con questa semplice spiegazione: produco semplici matite, ma dovendo affrontare la concorrenza della scrittura digitale, per sopravvivere diventa essenziale trovare la
soluzione più economica. Nell’annuncio si ammette che al posto del legno e della grafite, arriva la plastica, ma si aggiunge subito che la nuova S Pen sarà identica alla mitica matita Noris lanciata all’inizio del ’900. Anche gli esperti che l’hanno testata non hanno dubbi: la Noris digital «restituisce, alla prima impugnatura, un feeling col passato mai interrotto» visto che anche la forma e la sua lunghezza superiore alle penne digitali in circolazione la rendono unica. Inoltre, spiega Pier Luigi Pisa su «Repubblica», la matita digitale è più leggera e confrontandola con una vera Noris non presenta particolari differenze, se si esclude l’assenza della classica mina appuntita. L’azienda tedesca, andando oltre al fatto che con il digitale stanno cercando di ovviare ad un declino quasi sicuro delle loro secolari e preziose matite, ha fatto sapere che con la Noris digital ha puntato «a costruire un ponte tra questi due mondi e a rivoluzionare la matita che conosciamo (…) per
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Azione Settimanale della Cooperativa Migros Ticino • 13 marzo 2017 • N. 11
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Cultura e Spettacoli Julia Fischer al LAC La musicista tedesca, ora artist in residence al LAC, e il suo rapporto con la musica pagina 34
Quel che resta dei Beatles Il regista Ron Howard ha cercato di raccontare in un film quello che ancora non era stato detto sui Fab Four
Il passato di Pontecorvo La moglie del regista traccia il ritratto di un uomo lucido e misterioso
La Cina delle donne Il locarnese Patrik Soergel ha realizzato un documentario sulle imprenditrici cinesi
pagina 35
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L’oggetto tra spirito e memoria
Mostre Le opere di Louise Nevelson
alla Cortesi Gallery di Lugano
Alessia Brughera Nel panorama artistico del secondo dopoguerra alcune figure si sono distinte per la loro capacità di rileggere e reinterpretare le avanguardie attraverso una personale idea dell’arte e una soggettiva visione del mondo. In una totale libertà di espressione, hanno prelevato dai diversi movimenti gli stimoli per una ricerca originale, contribuendo a creare un clima eterogeneo e ricco di soluzioni formali che, sottraendosi alle logiche di una specifica corrente, hanno travalicato i perimetri delineati dai percorsi comuni. Tra coloro che hanno portato avanti un linguaggio in cui la singola indagine si pone come inevitabile e necessaria c’è Louise Nevelson, artista ucraina naturalizzata statunitense (nata a Kiev nel 1899 e morta a New York nel 1988) che ha saputo distinguersi nella produzione scultorea del XX secolo per la sua carica innovativa. Innovativo non è stato soltanto l’apporto che la Nevelson ha dato allo sviluppo e alla ridefinizione della poetica dell’oggetto con i suoi assemblages e i suoi collages, ma anche il suo sapersi imporre come protagonista femminile in un momento in cui l’arte americana, dominata dall’Espressionismo astratto, era pressoché totale appannaggio degli uomini. Il suo repertorio creativo rimanda alle sperimentazioni dadaiste e surrealiste, trova affinità con il cubismo picassiano ed è imbevuto di suggestioni provenienti dalla scultura africana e da quella precolombiana, nonché dalla pittura murale messicana (fondamentale in questo senso è stata la sua esperienza di lavoro con Diego Rivera). Eppure l’artista ha dato forma a una modalità linguistica inedita che, se da un lato si è appunto arricchita grazie a un rapporto dinamico e aperto con varie correnti, dall’altro è stata sempre
tesa ad approfondire, prima di tutto, riflessioni intime e moti dell’anima. L’arte della Nevelson ha raggiunto la piena maturità e il punto di svolta nella seconda metà degli anni Cinquanta, quando incominciano a vedere la luce i singolari assemblaggi monocromatici costituiti da legni di scarto recuperati dalla strada e poi montati tra loro a generare complesse strutture dall’equilibrio sapientemente casuale. L’estremo interesse suscitato da queste creazioni porta l’artista, quasi sessantenne, a partecipare all’esposizione collettiva «Sixteen Americans» che il Museum of Modern Art di New York organizza nel 1959: accanto ai lavori di giovani nomi quali Robert Rauschenberg, Frank Stella e Jasper Johns, a quei tempi all’inizio delle loro carriere, la sua monumentale opera in bianco dal titolo Dawn’s Wedding Feast, allestita nella sala più ampia del museo, sorprende e suggestiona. Una mostra alla Cortesi Gallery di Lugano, organizzata in collaborazione con la Fondazione Marconi di Milano, raccoglie un significativo nucleo di sculture di questa audace interprete dell’arte del Novecento, fra i primi autori americani ad aver trasformato la tecnica dell’assemblaggio in piccole e grandi architetture astratte che racchiudono un microcosmo lirico e immaginario. Dagli assemblages presenti a Lugano, molti dei quali emblematici della stagione produttiva degli anni Settanta e Ottanta, affiora la peculiare poetica dell’artista, improntata al riscatto degli oggetti umani abbandonati, gli avanzi delle «cose» dell’uomo, per conferire loro una nuova vita spirituale. Frammenti in legno appartenuti a sedie, sgabelli, tavoli, letti, scatole, colonne e balaustre di ogni tipo vengono sottoposti a una sorta di purificazione artistica dalla realtà esterna che cancella la loro
Louise Nevelson, Royal Winds, 1960. Legno dipinto di oro, cm 83 x 34 x 29. (Foto di A. Zambianchi, courtesy: Cortesi Gallery, Londra – Lugano, Fondazione Marconi, Milano)
funzione originaria e gli affida un significato più nobile. «Ricostruisco il mondo smembrato in una nuova armonia», diceva la Nevelson. E difatti nelle sue opere sono custoditi, come in armadi ben ordinati, elementi di un mobilio non più utilizzabile, relitti e oggetti fuori uso che vengono meticolosamente allestiti attraverso una prassi che procede per addizione, dando vita a quadri scolpiti, spesso di grande formato, che mantengono la bidimensionalità della pittura e che trovano nella monocromia del nero, del bianco o dell’oro lo strumento per intensificare profondità e movimenti chiaroscurali. Queste strutture, in cui ogni det-
taglio è stato posizionato con cura per accordarsi con il tutto, diventano preziosi scrigni evocativi che conservano tracce di un’esistenza personale e collettiva, altari a cui è stato consacrato un universo interiore e simbolico fatto di memorie stratificate e di pensieri trasfigurati. Sono spazi affollati ma organizzati, costituiti da anfratti segreti e scomparti regolari dove trovano posto materiali portatori di un vissuto e di una dimensione temporale. Manufatti che la Nevelson rigenera nella trama di garbati accostamenti e di serrate associazioni, assurgendoli a oggetti affettivi che si fanno espressione dell’inconscio e del ricordo. Insieme agli assemblaggi troviamo
in mostra anche una serie di collages che l’artista elabora tra gli anni Sessanta e gli anni Ottanta giustapponendo su fondi monocromatici lamine di metallo, elementi lignei e carte. Anche questi lavori testimoniano la capacità della Nevelson di creare composizioni sospese tra calcolo e casualità, in una miscela di istinto e ragione, di materia e spirito. Dove e quando
Louise Nevelson. Assemblages e Collages 1960-1980. Cortesi Gallery, Lugano. Fino al 7 aprile 2017. Orari: lu-ve 10.00-18.00. www.cortesigallery.com
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Cultura e Spettacoli
Le immagini devono essere guardate Pubblicazioni È uscito per i tipi di Adelphi Il primo giorno del mondo, di Mino Gabriele, in cui si fa riferimento
all’apparire della luce nella persona del dio della luce
Maria Bettetini È un bel giovane alato, potrebbe essere Eros, dio bellissimo per coloro che seguivano i misteri orfici, nella Grecia antica, dotato di ali come nel racconto Eros e Psiche delle Metamorfosi di Ovidio. Potrebbe però essere anche Alessandro Magno, spesso ritratto con capelli non corti, a differenza dei Romani, e un poco mossi. O un Achille, un Narciso. Ma il suo corpo è avvolto dalle spire di un serpente, i piedi sono caprini, sopra e sotto di lui la metà di una forma ovale da cui esce il fuoco, nelle mani la folgore e lo scettro. È una lastra votiva del II secolo d.C., rappresenta il dio orfico Phanes, che è la luce dell’inizio (l’uovo infuocato che si apre, il primo apparire delle fiamme luminose nell’universo): phaos è il sostantivo maschile che indica la luce, phaino significa illumino. Al principio, tutto è contenuto nell’uovo, tutto è uno, non ci sono differenze, poi col primo istante ecco il maschile e il femminile, che la nostra divinità presenta nelle forme della luna e del sole che gli sono vicine. Il serpente non è altro che il cammino del sole (indicato anche dalla cornice di segni zodiacali): come i serpenti ogni anno mutano la pelle e quindi tornano forti come prima, così il sole sembra morire ma poi torna vigoroso, ogni anno. Perché tanto interesse per una delle tante lastre marmoree conservate alla Galleria Estense di Modena? Perché la figura dal nome poco noto (che però potrebbe essere anche Mithra, anche Pan) e dalle caratteristiche poco familiari è in verità un fedele compagno delle vicende umane, come tante immagini che da millenni seguono come fiumi carsici la storia umana, e ogni tanto riappaiono, e spesso è difficile o impossibile sapere come e perché, dove si è data la contaminazione. Ne parla Mino Gabriele in un volume che è una gioia per gli amanti delle immagini
e della loro storia, dal titolo Il primo giorno del mondo (Adelphi, Milano, pagg. 430, belle illustrazioni) con riferimento appunto all’apparire della luce nella persona del dio della luce. Spiega l’autore che le immagini non sono autosufficienti, hanno bisogno di essere guardate e interpretate per spiegare la loro potenza. Come le parole della Bibbia «crescono» con le successive letture (questo il senso degli studi rabbinici), così le immagini hanno in un certo senso bisogno di noi per «crescere». La debolezza ad esse attribuita, il fatto di non essere mai del tutto afferrabili, non traducibili in concetti e vocaboli certi, è proprio ciò che consente il margine di crescita e di potenziamento del significato. La commistione di paganesimo, religioni monoteiste e la forza del Rinascimento hanno fatto sì che il mondo cosiddetto occidentale abbia un’importante ricchezza di immagini potenti. Come nel caso di Phanes e del serpente del tempo. Infatti, se da un lato stupisce la sopravvivenza nei secoli di una lastra votiva chiaramente pagana, del paganesimo più vicino agli oscuri culti orfici («misterici» perché non svolti alla luce del sole e noti solo agli affiliati, quindi «misteriosi»), dall’altro non è per nulla ovvio ritrovare la stessa immagine in decorazioni di Padova, Venezia e Firenze del XVI secolo. Il grande momento del neopaganesimo e della riscoperta dell’orfismo stava ormai tramontando, Gemisto Pletone, che ne era stato il miglior portavoce, da un secolo giaceva nel sepolcro a fianco del Tempio Malatestiano di Rimini. Eppure Phanes, o Mithra, ci guarda ancora dall’Odeo (teatro coperto) Cornaro di Padova (ca. 1540), da un sottarco della Libreria Sansoviniana di Venezia (1538), da un Sole degli affreschi di Palazzo Vecchio a Firenze, dipinti da Francesco Salviati intorno al 1544, anche se in questo caso sappiamo di un
Immagine di uroboro proveniente dall’Uraltes Chymisches Werk di Abraham Eleazar, Lipsia, Germania 1760. (Keystone)
viaggio veneziano del pittore. L’immagine, però, cambia un poco: a Firenze il «Sole» ha i piedi in un braciere ardente, non nel mezzo guscio d’uovo fiammeggiante. L’immagine è solo «cresciuta» ancora, aggiungendo al sole, oltre alla luce dell’inizio, all’amore universale, anche il riferimento al Cupido di Petrarca, che appare «sovr’un carro di foco un garzon crudo», ossia nudo, e che non fa altro che riprendere una caratteristica della dea dell’amore, Venere, spesso raffigurata con una fiaccola ardente, così come il figlio Cupido lancia dardi infuocati. Pochi decenni più tardi, sarà l’alchimia la culla dei nuovi sensi di antiche immagini: il nostro Phanes, con piccoli mutamenti, ben potrà diventare l’unità dell’unica materia che però muta grazie all’alchimista, con l’aiuto
di fuoco e mercurio. Il serpente è sempre lo scorrere del tempo, ma nelle immagini alchemiche ritorna un’altra immagine antica, antichissima: l’ouroboros o uroboro, il serpente che si mangia la coda, già dipinto nel sarcofago più interno di Tutankhamon, il faraone morto nel 1323 a.C., quasi tre millenni prima delle immagini alchemiche. Il termine ha almeno due etimologie, dal greco oura (coda) e boros (divoratore) si avrebbe «colui che si mangia la coda», mentre gli orfici avrebbero preferito un re serpente, dal copto ouro (re) e dall’ebraico ob (serpente). Quale che sia l’origine del termine, certo è che questa figura ha attraversato i millenni, mantenendo la simbologia che rimanda a un ritorno che è anche rinascita, all’unità di tutto ciò che è, all’unico governo dell’universo, all’unica materia prima e
così via, prestandosi di volta in volta a significare la resurrezione della carne dei cristiani, come le trasformazioni alchemiche o l’eterno ritorno del tutto di Nietzsche e altri pensatori. L’uroboro ha evitato di cristallizzarsi in un’allegoria, un’immagine che rimanda necessariamente a un concetto astratto, quale per esempio la donna bendata con la bilancia in mano, da tutti intesa come la giustizia che soppesa le azioni umane senza far preferenze. L’uroboro è rimasto simbolo di tutto ciò che ha bisogno di esprimere il senso di un ritorno, quale che sia il contesto. Un’immagine che chiede di essere interpretata, come tante che possiamo divertirci a cercare sui muri delle nostre vie, nei romanzi fantasy, nelle espressioni del sacro, nella grande arte e nel lavoro dell’artigiano.
«Mi sento più una monaca che una star»
Incontri A colloquio con la violinista Julia Fischer, «artist in residence» al Lac di Lugano nelle prossime settimane Enrico Parola A 34 anni da compiere il 15 giugno Julia Fischer non fa più parte delle «lolite dell’archetto», la generazione di violiniste belle e brave come Hillary Hahn e Janine Jansen che nell’ultimo ventennio, dopo l’archetipo Anne-Sophie Mutter, si sono accese nel firmamento musicale classico. Perché per la virtuosa bavarese l’estetica conta poco: «Scelgo i vestiti in base alla comodità, salirei sul palco senza trucco ma la volta che l’ho fatto ci sono state tante di quelle storie… Ho anche ricevuto un’offerta per un servizio su “Playboy”, non l’ho neppure presa in considerazione». Soprattutto perché per lei la musica «è una religione: io mi sento più una monaca che una star, suonare è un atto di fede perché credo, come diceva il filosofo russo Solov’ev, che solo la bellezza salverà il mondo; nel mio piccolo lo sperimento quando devo suonare e sono di cattivo umore: lì la riuscita del concerto non dipende da me, anzi sono io la prima ad essere sollevata da quello che suono. Non riesco a stare senza musica: se una settimana non ho concerti vado comunque a teatro a sentire quelli degli altri». Facile capire perché alla Fischer non interessi essere considerata la migliore: «È un concetto che si applica allo sport, non alla musica; non ho l’ossessione di fare tutte le note giuste, mi preparo al meglio ma l’errore è umano; e a diffe-
renza di alcuni sport i soldi non contano: certo, ne guadagno, ma lascio fare tutto al mio agente; intervengo solo se mi interessa fare una cosa ma non c’è il budget: lì suono anche gratis». Sarà comunque regolarmente pagata per le due serate al LAC dove è «artist in residence» di LuganoMusica: il 28 accompagnata dalla BBC Philharmonic Orchestra nel Concerto di Britten, il giorno dopo col violoncellista Daniel Müller-Schott, proponendosi anche nell’assai più desueta veste di pianista: accompagnerà il concittadino nella sonata Arpeggione di Schubert, incastonata tra quelle per violino e violoncello di Ravel e Kodaly. «Io ho iniziato col pianoforte: mia mamma lo insegnava e a tre anni iniziò a darmi lezioni; però lo suonava anche mio fratello maggiore e così i miei genitori mi proposero di passare al violino, per dare un po’ di varietà in famiglia e poter fare musica assieme; accettai di buon grado e presto fu amore: la sera toglievo la bambola dal suo lettuccio e ci mettevo a dormire il violino; ma non ho mai abbandonato gli 88 tasti». Anzi: nel 2008, per il concerto di Capodanno all’Alte Oper di Francoforte, si è concessa il lusso più unico che raro di suonare il terzo concerto per violino di Saint-Säens e il concerto per pianoforte di Grieg: «Era molto rischioso, prima di provare Grieg ho chiesto scusa in anticipo agli orchestrali per gli errori che avrei commesso; ma alla fine andò bene».
Julia Fischer e il suo violino Guadagnini del 1742. (© Kasskara - IMG Artists)
Con Müller-Schott la Fischer ha inciso dischi e ha suonato spesso, in particolare il Doppio Concerto di Brahms: «Un brano fantastico perché mi permette di unire le due dimensioni che amo, quella del concerto solistico e quella cameristica, dove gli strumenti dialogano alla pari; in Brahms dialogo con Daniel mentre l’orchestra ci accompagna». Quasi a scusarsi di queste parole, che sembrano suggerire una superiorità del solista sull’orchestra, la Fischer sottolinea: «Non è detto che il solista suoni meglio dell’orchestrale, sono due carriere diverse che richie-
dono caratteristiche e predisposizioni diverse; talvolta imboccare una strada piuttosto che l’altra dipende dalla fortuna». La sua fortuna è stata solo quella di avere un talento fuori dal comune: a 12 anni iniziò a vincere alcuni dei più importanti concorsi internazionali e le si spalancarono le porte dell’Olimpo concertistico. Da quei primi passi sono trascorsi vent’anni di vita pubblica, una vita illuminata dalle luci della ribalta. Solo quella pubblica però: «Non amo mettere sotto i riflettori la mai vita privata: ho una famiglia, una figlia, ma non rispondo ai giornalisti che mi fanno domande su questi temi né tantomeno sono attiva sui social per condividere quel che faccio quando non suono». Le uniche relazioni che accetta di raccontare sono quelle con i suoi violini: se la donna è monogama e fedele, la musicista ha avuto vari amori, nonostante alla fine abbia cercato un legame stabile anche con lo strumento: «Ne ho cambiati tanti, come è inevitabile. Ho imbracciato il primo violino 4/4 (cioè della dimensione standard, non quelli per bambini da 2/4 e 3/4, ndr) a dieci anni, ma parallelamente alla mia crescita artistica ho avuto tra le mani strumenti sempre migliori: prima un Ventapane, poi un Gagliano, quindi un Testore, nel 1998 un Guarneri del Gesù, ma nonostante fosse prezioso e bellissimo non mi ci trovavo».
È come con gli uomini: non è solo questione di bellezza o bravura, perché scatti la scintilla ci vuole qualcosa di particolare. «Infatti non mi è bastato neppure lo Stradivari che la Nippon Music Foundation mi mise a disposizione: era il «Booth» del 1716, aveva un suono eccezionale, mi soddisfaceva, ma dopo quattro anni sentii il desiderio di averne uno tutto mio; l’occasione arrivò nel 2004, grazie alle segnalazione del primo violino dell’Academy of St. Martin in the Fields (orchestra con cui la Fischer si è spesso esibita, ndr), che è un caro amico: a Londra comprai un Guadagnini del 1742. Da allora non l’ho più cambiato; ma le confesso che ci sono giorni in cui mi sembra che non suoni bene e il pensiero di cambiarlo mi viene… poi mi dico che sono forse io il problema e allora si va avanti insieme». Anche perché il giorno dopo ecco ricrearsi la magia della musica: «Che è la possibilità di provare sentimenti ed esperienze che nella vita reale non si sono ancora vissuti: quando da bambini si esegue un brano in tonalità minore e si inizia a provare quella tristezza che non si sapeva di avere dentro, o quando suono Sostakovic e percepisco che cosa avesse dovuto essere la disumana oppressione del regime sovietico. È la grandezza della musica, la cui bellezza è tutt’altra cosa rispetto all’entertainment».
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Cultura e Spettacoli
I quattro astronauti che cambiarono il pop
Quando Wolverine si fa riflessivo
DVD Pubblicato in home video il documentario Eight Days A Week di Ron Howard
Zeno Gabaglio «Come molti americani della mia generazione ricordo il momento esatto in cui, a dieci anni, vidi per la prima volta quella nuova band inglese all’Ed Sullivan Show. Mi colpirono perché, a differenza delle band tradizionali sempre guidate da un unico leader, i Beatles sembravano quattro amici che suonavano insieme». Se oggettivamente si dovesse pensare a un gruppo – o a una realtà musicale – a proposito del quale è ormai già stato detto tutto (e anche più di tutto) questi non possono che essere i Beatles. Continuando il ragionamento ci si dovrebbe poi chiedere: cosa si può raccontare ancora su di loro? Può aver senso rimettere mano agli archivi per cercare di raccontare qualcosa di nuovo? A chi servirebbe un ennesimo film che parlasse della grandezza dei Fab Four? I passaggi mentali dev’esserseli fatti tutti, Ron Howard, per muoversi dalla genuina fascinazione giovanile riportata in incipit alla vincolante decisione – mezzo secolo più tardi – di dedicare proprio ai Beatles la sua più recente fatica cinematografica, ora disponibile in home video. E la risposta affermativa a tali amletici dubbi si sorregge principalmente su due motivi: la focalizzazione tematica precisa e circoscritta, e le rare disponibilità (archivi, interviste, brani musicali) che si offrono se a muoversi in tal senso è un pluripremiato regista Oscar. Il documentario Eight Days A Week copre quindi il periodo che va dall’inizio del gennaio 1963 alla fine dell’agosto 1966: tre anni e mezzo durante i quali i Beatles si impegnarono in
un tour de force dal calendario semplicemente incredibile: oltre 350 spettacoli in una quindicina di Paesi di cinque continenti, due film lungometraggi realizzati, innumerevoli trasmissioni televisive e radiofoniche, oltre 120 canzoni scritte, registrate e pubblicate in dodici singoli di grande successo e sette album, tutti consecutivamente al primo posto nelle classifiche inglesi. L’accento, nel film, non viene però tanto posto sull’eroismo dei musicisti, sulla loro irripetibile genialità, sulla capacità di captare le nuove onde socioculturali, sull’importanza storica di ogni loro mossetta di spalle: questo è già stato tutto raccontato e sacralizzato. Il punto messo in discussione da Howard è più umano, quasi antropologico: come hanno fatto quattro ragazzi – per certi versi ancora molto sprovveduti – a sopportare anni di pressione continua e soffocante, senza mai smettere di divertirsi, creare e sostenersi a vicenda? «Per tutta la vita, e in tutta la mia carriera da regista, sono stato affascinato da storie di piccoli gruppi di persone unite da una causa comune o da un comune obiettivo. In Apollo 13 quello che mi interessava raccontare era il dramma di alcuni individui – gli astronauti – chiusi in una capsula, costretti ad affrontare insieme un momento molto difficile». Come si erano organizzati? Come si erano aiutati e come avevano preso le loro decisioni in quelle circostanze eccezionali? «In questa prospettiva non esiste forse una storia vera da raccontare più interessante di quella dei Beatles e della loro straordinaria carriera, una band composta da ragazzi con personalità molto diverse ma sempre uniti, anche nei momenti
Cinema L’ultimo
capitolo degli X-Men e dell’eroe Jackman Fabio Fumagalli
**(*) Logan – The Wolverine (Logan), di James Mangold, con Hugh Jackman, Patrick Stewart, Dafne Keen, Richard E. Grant (Stati Uniti 2016)
I Beatles, una storia entrata nel mito.
in cui erano sottoposti ad una grande pressione». Musicisti come astronauti, quindi. Di sicuro questo a proposito dei Beatles non era mai stato detto. E il titolo del film Eight Days A Week – pur essendo preso a prestito da una hit beatlesiana che parlava di un semplice flirt amoroso – sembra rimandare proprio all’impossibilità di far quadrare tempo, aspettative e scelte esistenziali. Poi si sa che nel 1966 – delusi dalla scarsa qualità dei tour: suono pessimo, folle scatenate, critiche da parte dei media e
condizioni generali poco soddisfacenti – i Beatles decisero di non presentarsi più in concerto per chiudersi «semplicemente» in studio a rivoluzionare la popular music. Si sa anche che l’epopea del gruppo terminò nel 1970 – a soli dieci anni dal suo inizio – con strascichi romanzati che han voluto porre in maggior evidenza i dissidi tra i quattro musicisti. Ron Howard in qualche modo prova (e riesce) a mettere ordine, ricordando come i Beatles siano stati il più unito e più coeso gruppo di tutta la storia della creazione musicale.
Logan–The Wolverine appartiene al filone cinematografico, non sempre esaltante, dei supereroi. Per sua fortuna, rimonta però nell’ispirazione ai tempi della Marvel Comics, i gloriosi fumetti che, a partire dal 1939, portarono alla luce l’Uomo Ragno, Hulk, gli X-Men, Conan il barbaro e tanti altri ancora. Prima di finire, nel 2009, nell’accogliente calderone della Disney. Salvo (probabili) ripensamenti, Logan dovrebbe poi costituire l’atto finale dei dieci film sugli X-Men. E, dettaglio ancor più rilevante per la legione di fedelissimi della saga sparsi in tutto il mondo, rappresentare anche l’ultima apparizione di Hugh Jackman nei panni sempre più sdruciti del mutante Wolverine. Tutte questa scadenze, oltre alla recidiva di un regista ambizioso come James Mangold (Walk the Line, su Johnny Cash), hanno prodotto effetti benefici. Alquanto dissacrato, in questa sua terza avventura e a 140 anni dalla nascita, il leggendario mutante dagli artigli d’acciaio si ritrova a fare l’autista di limousine: invecchiato, ammaccato, compromesso nella celebre invulnerabilità da un virus che ne ha intaccato la corazza di adamantium (siamo nel 2029). Verrà facilmente localizzato, nei pressi del
Le insicurezze stilistiche di Amy Macdonald CD Per quanto meditato, il nuovo album della cantante scozzese non può evitare
di deludere chi sperava in una virata meno commerciale Benedicta Froelich Se è vero che l’industria discografica sforna con frequenza pressoché continua nuovi «fenomeni» musicali (immancabilmente presentati come esempi di assoluta genialità compositiva), non si può negare che, a volte, l’entusiasmo possa essere, per quanto prematuro, in parte giustificabile – almeno se stiamo parlando di performer dotati di voci particolarmente interessanti, come la giovane cantante scozzese Amy Macdonald, assurta all’onore delle classifiche nel 2007 con il tormentone radiofonico This Is the Life: un successo forse troppo travolgente e difficile da replicare, come dimostra il fatto che i due album pubblicati dall’artista dopo l’esordio (rispettivamente nel 2010 e 2012) sono passati piuttosto sotto silenzio fuori dal Regno Unito. La pressione alla quale un debutto di grande risonanza sottopone qualsiasi giovane musicista ha senz’altro avuto il suo peso sulla produzione più recente della cantautrice; ciononostante, Amy ha mostrato una certa maturità, in quanto si è (giustamente) presa il proprio tempo per la realizzazione del quarto, attesissimo lavoro. Così, dopo oltre quattro anni di silenzio discografico – durante i quali la sua fama sembrava essere stata momentaneamente soppiantata dal polverone mediatico che ha circondato altri nomi del pop-rock femminile quali Adele e Florence Welch – la performer
ha dimostrato di aver conservato l’affetto del suo ampio e fedele pubblico, subito pronto a inneggiare al capolavoro alla pubblicazione di questo nuovo Under Stars. Purtroppo, però, la prima cosa che risalta in questo ritorno sulle scene è il fatto che la Macdonald non è risultata immune alla medesima «smania di uniformazione» che già aveva colpito la collega Adele: infatti, Amy – che agli esordi, appena ventenne, aveva costituito un classico esempio di bella e simpatica ragazzona scozzese un po’ in carne – si è presto ritrovata sottoposta a un totale restyling, tanto da apparire, oggi più che mai, come una snella pinup dall’aria aggressiva e la faccia troppo spigolosa, provvista di tatuaggi pacchiani e vistoso make-up. Fortunatamente, ciò non altera il fatto che la voce
La Amy di oggi (qui sul nuovo album) è lontana dalla ragazza degli esordi.
corposa e seducente di cui la Macdonald è dotata sia caratterizzata da un timbro che, in termini interpretativi, è senza dubbio uno dei più interessanti offerti dalla scena femminile degli ultimi anni; anche per questo, è un vero peccato constatare come tale dono rimanga perlopiù al servizio di canzoni che, per quanto gradevoli, faticano a ergersi al di sopra di un buon pop orecchiabile di medio livello. Ecco quindi che anche il singolo di lancio del nuovo album, Dream On, costituisce un ideale esempio di rock easy listening talmente amabile e accattivante da lasciar presagire un successo pressoché garantito; per contro, Under Stars, la title track del CD, suona come una via di mezzo tra una canzone d’amore e una sorta di ottimistico inno all’emancipazione – e, forse per questo, risulta a tratti un po’ troppo didattica, finendo per rivelarsi un’occasione in parte perduta. Questa sorta di «calo di tensione» si riscontra purtroppo anche in altri brani, apparentemente concepiti quasi come semplici riempitivi – tra cui lo scialbo Automatic, pezzo uptempo somigliante ad almeno altre trenta canzoni pop incise negli ultimi vent’anni dagli artisti più disparati. Per fortuna, Under Stars offre anche tracce come la grintosa Feed My Fire, un ottimo esempio di canzone rock incentrata sulla potenza devastante del desiderio fisico, che, seppur non originalissima, permette alle capacità interpretative di Amy di brillare in tutta la loro versati-
lità. Lo stesso si può dire di un brano atipico come The Leap of Faith, non a caso l’unica «topical song» dell’intero CD, ispirata al referendum per l’indipendenza scozzese svoltosi nel 2014 (la Macdonald era un’ardente sostenitrice del «sì»). Forse meno efficace la cavalcata rock Prepare To Fall, la quale, sebbene non esattamente memorabile, resta comunque abbastanza mossa e piacevole da poter entusiasmare i fan più sfegatati dell’artista. Tuttavia, è quando Amy «torna alle origini», ovvero alle radici del proprio background musicale, che le cose si fanno davvero interessanti, come dimostra Down By the Water, classica ballata nella scia della tradizione folk angloamericana (e, come tale, decisamente un gradino sopra il resto della tracklist). Il che ci porta a riflettere sull’evoluzione che la Macdonald potrebbe dare alla propria musica, se solo decidesse di allontanarsi un po’ dal taglio alquanto commerciale conferito alla maggior parte del suo lavoro per concentrarsi piuttosto su quell’eredità musicale anglo-scozzese che è, in realtà, parte integrante della sua formazione (come dimostra, del resto, il peculiare stile vocale di Amy). In altre parole, sovvertire la formula finora adottata potrebbe dimostrarsi salvifico per un’artista dell’età e determinazione della Macdonald; pertanto, possiamo solo sperare che il futuro possa vederla trovare in sé il coraggio necessario per compiere un simile passo.
Una delle locandine del nuovo film con Hugh Jackman.
confine con il Messico, dagli inseguitori guidati dal raccapricciante dottor Zander Ric. Ma, pur se costretto a prendersi cura del suo vecchio professore (e in pratica, padre virtuale) morente, riscoprirà una propria umanità, proteggendo con le sue ultime energie Laura, la ragazzina dotata, a sua somiglianza, di strabilianti poteri soprannaturali. Senza abdicare ai tradizionali effetti iper-violenti marveliani (avviso agli allergici) quest’ultimo Logan è allora infinitamente preferibile a un ennesimo action movie. Interiorizzato, tutto agli antipodi dei sempre meno eccitanti effetti speciali precedenti, il film è quasi un melodramma. Perfino un western, accorato e crepuscolare, non privo di momenti intimi, sulle tracce melanconiche di pellicole come Gli Spietati di Clint Eastwood o di Shane di George Stevens (1953), il capolavoro certamente ignorato dalle nuove generazioni, e qui doverosamente rievocato in sottofondo. Un po’ prevedibile nella violenza, monocorde nella scelta del road movie, Logan è però saggiamente discreto nei trucchi. A sorpresa, politico e attuale nel suo modo di costringerci a riflettere sulla crudele assurdità dei confini. Nel ripeterci, nel suo bel finale, quanto poco fantasiosi siano quei giovani migranti costretti ad affrontare l’eterna condizione del diverso.
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Azione Settimanale della Cooperativa Migros Ticino • 13 marzo 2017 • N. 11
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Cultura e Spettacoli
Un teatro del corpo con nudi occidentali Palcoscenico Bestie di scena, il nuovo spettacolo di Emma Dante Giovanni Fattorini Nel teatro di oggi, in Occidente, attori e attrici completamente nudi non sono certo una novità. Tre soli esempi che appartengono al nuovo millennio. Nella Medea di Euripide rielaborata nel 2006 da Antonio Latella (la motivazione della sua recente nomina a direttore della Biennale Teatro di Venezia lo definisce «autore di riscritture sceniche che allargano l’orizzonte del testo»), i figli della mitica maga non erano due fanciulli ma due giovanotti privi di indumenti che si dilettavano a stiracchiarsi reciprocamente il prepuzio. In uno spettacolo del 2004, firmato anch’esso dal regista napoletano, Danilo Nigrelli (che senza varcare i confini di un materasso recitava un florilegio dei Trionfi
Si ha l’impressione che Emma Dante abbia espresso tutto quanto di originale volesse esprimere di Giovanni Testori) esibiva la nudità indifesa di un corpo che lo sguardo dello spettatore, seduto a poca distanza, poteva percorrere a proprio piacimento e dal quale esalava l’odore acuto di un’abbondante traspirazione. Dei lavori di Jan Fabre – popolati a volte di nudi integrali – mi limito a ricordare The Crying Body (2004), rigorosa partitura con dieci attori-ballerini (cinque uomini e cinque donne), volta a celebrare il corpo umano attraverso i suoi movimenti e i suoi umori (sudore, lacrime, urina, saliva). Anche Emma Dante, prima dello spettacolo attualmente in scena al
Piccolo Teatro di Milano – che lo ha coprodotto col Biondo di Palermo, la Compagnia Sud Costa Occidentale e il Festival di Avignone – si è cimentata con l’uso espressivo del nudo integrale. Cani di bancata – opera poco riuscita del 2006 – terminava con una svestizione di gruppo all’altezza del proscenio. E in uno spettacolo altrettanto poco riuscito del 2004, La scimia, liberamente tratto da un romanzo breve di Tommaso Landolfi, aveva uno straordinario rilievo la figura di Tombo, turbolento quadrumane interpretato dal bravissimo Sabino Civilleri, che si spostava in avanti e all’indietro con balzi frenetici, in perfetta nudità. Tombo-Civilleri ritorna in Bestie di scena come citazione del tutto confacente al titolo dello spettacolo (che salvo pochissime battute dialettali è senza parole, senza racconto, e ha inizio quando il pubblico sta ancora affluendo in platea e in galleria). Disposti a cerchio sul palcoscenico (una grande scatola nera e vuota), i quattordici attori in tenuta da training (sette uomini e sette donne) eseguono degli esercizi di riscaldamento, mentre gli spettatori si fanno sempre più silenziosi. Poi il cerchio si rompe. Gli attori cominciano a muoversi singolarmente sulla scena, finché si compattano in un piccolo scaglione che spostandosi in varie direzioni (come accadeva all’inizio delle Sorelle Macaluso) fa pensare di volta in volta a un allenamento sportivo, a una prova di danza, a un’esercitazione militare. Nel rumore marcato dei passi e nei rapidi cambiamenti di direzione si avverte una tensione crescente, l’imminenza di un atto risolutivo. E infatti, staccandosi dal gruppo a due o tre per volta, gli attori si portano più volte all’altezza del pro-
Le bestie di Emma Dante. (© Masiar Pasquali)
scenio, dove si liberano gradualmente di tutti gli indumenti, fino a restare completamente nudi. Il disagio derivante dalla condizione di nudità (l’impossibile recupero di una paradisiaca innocenza creaturale) si esprime nel gesto reiterato con cui uomini e donne, allineati di fronte al pubblico, si coprono a vicenda i genitali, le natiche, il seno. All’improvviso, dalle quinte, viene gettata sulla scena (un’idea suggerita, a mio avviso, dagli Atti senza parole di Beckett) una tanica legata a una catena. È il primo di una serie di oggetti (alcuni petardi, una bambola parlante, un fioretto, un secchio, stracci per il pavimento, spazzoloni, noccioline) che danno origine a quadri in sé compiuti, in cui domina di
volta in volta la paura, il gioco, l’aggressività, la fatica, lo sgomento, e in cui si ritrovano i modi espressivi di Emma Dante (gli allineamenti degli attori all’altezza del proscenio, l’utilizzo dello spazio scenico in ogni punto e direzione, l’alternanza di ritmi lenti e veloci, gli scoppi di fisicità convulsa, la preferenza data al linguaggio del corpo), nonché alcune figure che si erano già viste in altri suoi spettacoli (ad esempio, oltre alla già menzionata scimmia, la ballerina meccanica de Le pulle). Il quadro conclusivo (un mix di figurazioni trascelte dai quadri precedenti) è interrotto dal lancio in scena degli indumenti inizialmente dismessi. Gli attori della compagnia, come sempre, sono ammirevoli. Ma riandan-
do col pensiero al passato (e ricordando ad esempio Vita mia, che ho amato in modo particolare), mi vado sempre più convincendo che il teatro di Emma Dante, negli ultimi tempi, si è notevolmente depotenziato, e che nei suoi primi anni di attività – al netto degli evidenti tratti epigonali – l’artista palermitana ha felicemente espresso quasi tutto quello di originale che aveva da dire. A parte alcuni passaggi di notevole intensità, Bestie di scena, a mio parere, è una partitura gestuale rigorosa ma di maniera. Dove e quando
Milano, Piccolo Teatro Strehler, fino al 19 marzo; Lugano, LAC, 21 e 22 marzo.
La musica interiore di Gillo Pontecorvo Personaggi Sfogliando il suo album di famiglia con la moglie Maria Adele Blanche Greco Gli occhi azzurri, lo sguardo scintillante, il sorriso appena accennato e quell’ironia indomita che era la cifra del suo umorismo, molti ricordano ancora così Gillo Pontecorvo, regista famoso che ha trionfato in Italia e all’estero con un pugno di film, mai dimenticati e di cui uno, La Battaglia di Algeri del 1966 è diventato l’emblema di un popolo e a cinquant’anni di distanza, resta un film mitico e moderno allo stesso tempo. Ma perché allora questo regista internazionalmente amato e rispettato, pluripremiato, realizzò solo sei pellicole? La risposta forse la troviamo nello sterminato album fotografico di famiglia, nella storia di Gillo Pontecorvo, scomparso dieci anni fa, ma soprattutto la troviamo, nelle parole di sua moglie Maria Adele, detta Picci, sua complice di una vita, che abbiamo incontrato a Roma: «Quando l’ho conosciuto dicevano di lui che avesse “il dono della semplicità” perché Gillo aveva un modo intuitivo di affrontare la vita, smontando i problemi; riuscendo a valutare ogni cosa per ciò che era. Questo lo aveva salvato più volte durante la Seconda Guerra Mondiale, e in seguito è stato quello che, insieme alla passione, gli ha permesso di affrontare nel cinema, progetti complicati e difficili». Pochi conoscono il passato avventuroso di Gillo Pontecorvo che, quando la famiglia, di origine ebraica, sotto la minaccia delle leggi razziali nel 1938 si sparse per l’Europa nel 1938,
raggiunse a Parigi il fratello fisico, Bruno Pontecorvo. Ecco in una foto Gillo maestro di tennis in Francia, lui che ne era stato un campione. Poi lo vediamo con Picasso; quindi insieme a Sartre in istantanee a margine di servizi giornalistici del suo periodo come fotoreporter. Scatti diventati la sua passione, quasi una sorta di diario per immagini, decine e decine di rullini, in alcuni casi stampati postumi dai figli. Così vediamo la foto del tandem con il quale fuggì da Parigi all’arrivo dei tedeschi, e, pedalando raggiunse la Costa Azzurra. Un suo ritratto a Saint Tropez mentre esce dall’acqua con delle magnifiche cernie, di cui, grazie alla sua passione per la pesca, riforniva un noto ristorante del luogo, attività che con il tennis e la fotografia gli permisero di mantenersi in un esilio quasi «dorato». Ma poi lo ritroviamo in un’i-
Il regista sul set di Queimada, 1969. (Istituto Luce)
stantanea, per le strade di Milano, un anno dopo, maldestramente camuffato: era il partigiano Barnaba ed era ricercato dai nazisti. In un’altra foto lo vediamo nel 1945, gli anni della politica, con un giovane Enrico Berlinguer; e poi a Roma con gli amici registi Citto Maselli e Carlo Lizzani, ormai conquistato dal cinema di Roberto Rossellini e dal neorealismo, il linguaggio ideale per raccontare la realtà di quegli anni, e le terribili esperienze e i ricordi della guerra appena conclusa. «Quando lo conobbi parlava continuamente di un film al quale stava lavorando e che avrebbe portato in concorso al Festival di Venezia» racconta Picci Pontecorvo ridendo. «Mi sembrò uno sbruffone. In fondo Kapò era solo il suo secondo film». Ispirato al libro di Primo Levi Se questo è un uomo, con una sceneggiatura firmata insieme allo scrittore Franco Solinas, il film venne presentato al XXI Festival di Venezia nel 1960 e l’anno dopo premiato con il Golden Globe e nominato agli Oscar come miglior film straniero. Malgrado la sua «gobba», come lui chiamava «l’indecisione», quella «malattia dello spirito» che si portava dietro e che forse si accentuò con gli anni, nonostante le tante passioni e gli entusiasmi, lui in quel film ci aveva sempre creduto. Nelle fotografie sul set con la protagonista, una giovane Susan Strasberg, minuta nella divisa a righe del campo di concentramento, appaiono entrambi fiduciosi. La stessa cosa gli successe per La Battaglia di Algeri, da una sceneggia-
tura scritta con Franco Solinas, il film, di produzione italo-algerina, fu girato nella casbah di Algeri, senza attori professionisti, con la popolazione che attorniava il set e forniva i protagonisti, le comparse e le moltitudini delle scene di massa. Un film dove realtà e finzione si mescolano nell’ultimo cruento confronto tra i colonialisti francesi e il popolo algerino, in un bianco e nero pastoso che, come disse lo stesso Gillo Pontecorvo, voleva «raccontare il dolore, la fatica, gli sforzi immensi di tutta una popolazione che vuole nascere a tutti i costi, come nazione libera». Il film vinse il Leone d’Oro, ed ebbe tre Nomination agli Oscar, ma fu proibito in Francia sino al 1971, e ancora oggi viene programmato raramente nelle sale francesi. In Algeria è un film epico, fonte di orgoglio e ogni anno viene proiettato nei cinema di tutto il paese. «Arrivai ad Algeri in nave, mi apparve una città candida e splendida» ricorda Picci Pontecorvo. «Nostro figlio Ludovico aveva un anno, e Gillo ci voleva assolutamente accanto a lui sul set. All’alba di quello che sarebbe dovuto essere il primo giorno di riprese, i carri armati invasero le strade, la popolazione pensò che fossero iniziate le riprese di quella pellicola che tutti attendevano, invece era un colpo di stato. Ma Gillo era tranquillo, perché da mesi aveva in testa il tema musicale del film. Quella musica che sorgeva dai suoi pensieri e diventava una sorta di ossessione, era essenziale per lui, era una sorta di conferma delle sue intuizioni e del progetto». Ennio Morricone
a cui erano state affidate le musiche della Battaglia di Algeri, alla fine si arrese e accettò il tema di Pontecorvo (che aveva uno spiccato talento musicale), e la stessa cosa successe nel 1969 per il film Queimada, con Marlon Brando, sul colonialismo e il razzismo; e poi per Ogro 1979 sul regime franchista e l’Eta. Ma per tante altre pellicole non bastò l’avere trovato il tema musicale perfetto: Pontecorvo, ad esempio, non realizzò mai Il tempo della fine, il film sul Cristo; e neppure quello sugli indiani Sioux, che gli aveva proposto Marlon Brando. Anni di ricerche di cui restano fotografie, provini, spezzoni girati nel deserto; o nella riserva Sioux in America dove Pontecorvo aveva vissuto un mese con gli indiani. Molti sono stati i progetti che ha amato, pensato, scritto, e poi rifiutato a causa dei problemi sorti con la produzione americana, oppure da lui abbandonati. «Gillo amava il periodo delle ricerche» rivela Picci Pontecorvo. «Per il film sull’arcivescovo salvadoregno Romero, casa nostra per mesi diventò la succursale del vaticano, con un grande andirivieni di preti sudamericani. All’epoca del progetto sulla Mafia, parlò con decine di giornalisti, scrittori e con Giovanni Falcone. Ma i tempi erano cambiati, il cinema era diverso, il mondo era cambiato. Gillo sempre più spesso negli ultimi tempi, ricordava agli interlocutori che fare un film non era un obbligo, ma la passione per un’idea, e lui, a quel punto, al cinema, forse preferiva le piante del suo splendido giardino, la botanica e la musica».
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Cultura e Spettacoli
L’altra metà del cielo cinese
Incontri Il documentarista locarnese Patrik Soergel racconta
il suo documentario dedicato alle imprenditrici cinesi – dopo Soletta e Zurigo, sarà possibile vederlo anche in Ticino
Nicola Falcinella Presentato in anteprima al Festival di Zurigo e a quello di Soletta, sarà proiettato mercoledì 15 marzo al Festival Sguardi altrove di Milano dentro un focus dedicato alle donne cinesi per poi arrivare al Cinema Lux di Massagno a fine mese. È il documentario The Other Half of the Sky del locarnese Patrik Soergel, ritratto inedito delle donne cinesi imprenditrici, seguendone quattro tra le più influenti: Yang Lan, regina dei talk show, Zhang Lan, magnate della ristorazione, Dong Mingzhu, dirigente di una grande azienda di elettrodomestici e Gill Zhou, leader dell’informatica. Patrik Soergel, come nasce l’idea?
Nasce da una forte curiosità verso la Cina, che mi ha sempre affascinato per la sua ricca storia e cultura. Mi interessa la trasformazione che ha vissuto dalla Rivoluzione culturale a oggi. Cercavo una chiave di lettura e, quando ho scoperto donne manager molto potenti e influenti che avevano vissuto in prima linea i cambiamenti degli ultimi decenni, ho capito che sarebbero state le protagoniste.
La protagoniste sono state scelte da Patrik Soergel secondo due precisi criteri Come mai le imprenditrici?
Le imprenditrici rappresentano bene la nuova Cina, globalizzata e moderna e nel contempo radicata nel contesto storico e sociale. È un Paese di contrasti: dal comunismo al capitalismo, dalla povertà alla ricchezza, da una vita modesta e priva di sbocchi
a una vita con tante opportunità. Il mio è un piccolo sguardo su un Paese complesso.
Come ha scelto le protagoniste?
Secondo due criteri: aver vissuto la Rivoluzione culturale e l’apertura economica ed essere molto affermate nel loro campo. Le ho trovate grazie ad articoli di giornale, diversi viaggi e incontri preliminari e alla mediazione dell’associazione delle donne imprenditrici cinesi. Non è stato facile, ne ho conosciute oltre 20, senza filmarle, alcune hanno rifiutato, infine ho scelto le quattro che potete vedere. Noi occidentali abbiamo la sensazione che i cinesi siano restii a raccontarsi.
Inizialmente appaiono chiusi e riservati, ma, se si crea fiducia, si aprono. Hanno accettato di partecipare e raccontarsi: volevano farlo e ci hanno aperto il loro mondo. Mi spiace non aver potuto approfondire la sfera famigliare. Le donne sono tutte madri e nel documentario ne parlano, ma purtroppo non è stato possibile filmarle con i figli. Ha avuto altre difficoltà?
La principale è la lingua, perché non parlo il cinese ed era necessario un buon interprete sia in fase di riprese sia di montaggio. Ho deciso che le protagoniste dovessero esprimersi nella loro lingua madre e non in inglese, e lavorare con una lingua che non conosco è stato faticoso. Ho avuto poco tempo a disposizione con loro, in tutto solo tre, quattro giorni pianificati nei dettagli con ciascuna. Ho filmato nel corso di cinque viaggi su un periodo di oltre un anno. Che idea si è fatto degli imprenditori cinesi?
Tengono a dimostrare che sono innovatori. La Cina è conosciuta per il made in China: spesso colleghiamo i suoi prodotti al basso prezzo e alla cattiva qualità. Ora è forte l’ambizio-
ne del «creato in Cina», vogliono che il prodotto cinese sia riconosciuto come originale, innovativo e di qualità. Mi hanno colpito anche la perseveranza, il senso di lealtà all’azienda e la totale dedizione al lavoro: Dong Minghzu non ha preso un giorno di vacanza in vent’anni.
Qual è il ruolo della donna nella società cinese?
Mao Zedong le definiva «l’altra metà del cielo» e da qui viene il titolo del film. Il comunismo ha favorito una certa parità dei sessi in Cina: tranne in politica, le donne svolgono quasi tutti i lavori. Nella finanza e nell’economia, molte donne hanno un incredibile successo, rafforzando l’immagine della donna cinese forte e intraprendente. I cinesi sono molto competitivi: affermarsi è difficile tra un miliardo e mezzo di persone, ma è possibile. Restano le questioni aperte: conciliare famiglia e lavoro, le ferite del passato maoista, gestire l’attuale momento di consumismo e benessere materiale. Abbiamo anche la sensazione che la Cina ci stia «conquistando».
Non credo ci sia un disegno preciso di conquistare l’Occidente. Sicuramente la Cina esercita una forte influenza probabilmente destinata a crescere, magari prenderà il ruolo di superpotenza. La Cina ha già vissuto il suo momento d’oro di crescita economica e non può crescere in eterno, dovrà ridimensionarsi. L’Europa è per la Cina più un partner che terreno di conquista. Quali sono i suoi prossimi progetti? Si cimenterà con la finzione o si dedicherà esclusivamente al documentario?
Non escludo di cimentarmi con la finzione in futuro, ma ora mi concentro sulla documentaristica, lavorando per la rubrica della Rsi, Storie. Il prossimo progetto riguarda i videogiocatori professionisti.
Identità forti, identità da trovare In scena Dal classico al contemporaneo
con un teatro che sappia essere attuale
Giorgio Thoeni Fa sempre bene assistere alla rilettura di un classico, soprattutto quando è corroborata da una brillante versione. Il Teatro di Locarno ha ospitato Il borghese gentiluomo di Molière con la regia di Armando Pugliese, una «comédie-balet» che, sebbene scritta nel 1670 come divertimento di corte, conserva tutta la crudeltà satirica con cui descrive la società del tempo, per certi caratteri così simile a quella attuale. La vicenda è nota ma va ripercorsa almeno nei suoi tratti principali. Il ricco Monsieur Jourdain è a caccia di un titolo nobiliare e si circonda di maestri che lo sfruttano. La figlia Lucille ama il borghese Cléonte ma è osteggiata dal padre che invece cerca per lei un conte o un marchese. La commedia si divide in due parti. La prima è dedicata alle esilaranti lezioni dei «maestri di nobiltà» di Jourdain mentre nella seconda si assiste a un finto cerimoniale dove un sedicente Gran Turco riveste il borghese Jourdain di un finto titolo nobiliare per sposarne la figlia. In una società dove la nobiltà in senso lato (intellettuale, politica, economica, sociale, ecc.) sta sparendo a grandi falcate, è evidente che in una commedia così ci si specchia facilmente. Soprattutto se l’ironia e il divertissement satiro-farsesco della regia di Pugliese trovano terreno fertile e vengono assecondati da una compagnia di ottimi attori con uno spirito che ripercorre i generi. Da Emilio Solfrizzi, vulcanico protagonista (nella foto) all’autorevole Anita Bartolucci nel ruolo della moglie e tutti gli altri attori. Un plauso speciale alle musiche di Antonio Sinagra. E il pubblico ha gradito assai. Alla ricerca di un’identità
Una delle quattro donne cinesi protagoniste del documentario di Patrik Soergel.
Ci piace seguire l’evoluzione di giovani compagnie. Quella del «Grande Giro» nasce nel 2013 per iniziativa di Valentina Bianda, Lea Lechler e Loris Ciresa con l’intento di promuovere la cultura sul territorio, obiettivo me-
ritevole affiancato da immancabili domande identitarie: una visione comune a molte realtà artistiche che richiede sforzi non indifferenti per uscire dai luoghi comuni. Avevamo già registrato questo tentativo con I am, spettacolo visto al Teatro Foce di Lugano e che aveva la dichiarata ambizione di adottare il registro espressivo del «teatro danza». Quella produzione ne conteneva però solo alcuni degli ingredienti necessari: l’avevamo letto come segnale di un potenziale sviluppo, concludendo che dai giovani ci si doveva attendere un maggiore coraggio espressivo e una giusta dose di umiltà, per esempio affidandosi a una regia esperta o a un dramaturg, figura professionale tornata in voga e spesso utilizzata per riordinare gli elementi espressivi della comunicazione teatrale. Torniamo a questa riflessione dopo aver recentemente visto la seconda produzione del «Grande Giro» al Teatro Foce, dove ha debuttato Fremde – Radici in tasca di e con Lea Lechler, con la messa in scena di Daniele Bianco e Valentina Bianda nelle vesti di «coach artistico» e le musiche originali di Manuel Beyeler. La locandina avverte che è un primo studio scenico per l’assolo di teatro fisico della protagonista. Il tema è nuovamente quello dell’identità questa volta sviluppato sul tema del viaggio di una «nomade della vita»: una senzatetto, rifugiata, migrante o girovaga alla ricerca del senso della vita. Senza nulla togliere alle buone intenzioni di una ricerca nutrita da autorevoli spunti letterari, l’impressione che ne abbiamo tratto è quella di un esercizio incompleto, dove la protagonista mette in campo una performance appena sufficiente per un’esibizione senza sorprese in cui il peso specifico della parola ha una presenza troppo importante rispetto al movimento offrendo un risultato ancora lacunoso e che lascia troppe concessioni alla dimensione amatoriale a scapito di una professionalità che richiede confronti severi ed esigenti.
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La carne «Dry Aged Beef» è frollata all’osso fino a 6 settimane
Il segreto della carne «Dry Aged» è la tradizionale maturazione a secco all’osso che si protrae fino a sei settimane in speciali celle a temperatura e umidità costanti. Grazie a questo procedimento le fibre si ammorbidiscono, conferendo al taglio di carne una tenerezza ineguagliabile e un sapore particolarmente aromatico. Una selezione accurata
Le migliori carni svizzere destinate alla frollatura all’osso vengono selezionate con molta cura da specialisti del settore: devono infatti presentare una «marmorizzazione» ben uniforme, poiché sono proprio le striature di grasso a veicolare il sapore nel taglio di carne. I tagli prescelti vengono quindi posti a maturare su ripiani di legno di abete in un ambiente con tasso di umidità dell’80 per cento e temperatura di 2°C. Durante questo processo – che dura da tre fino a sei settimane – la carne perde il 20 percento del suo peso e acquisisce il suo delicato sapore nocciolato. A questo punto la carne «Dry Aged» viene messa a riposare in uno speciale umidificatore ubicato nei principali supermercati Migros, dove il cliente la può «ammirare» nei differenti stadi di frollatura: 3, 4, 5 o
6 settimane. Più la carne è scura, maggiore è il tempo di maturazione e, conseguentemente, più pronunciato sarà il sapore. La parte secca presente sulla superficie è un ulteriore indizio di qualità e viene delicatamente rimossa dal macellaio prima dell’acquisto. La preparazione ottimale
La carne di manzo «Dry Aged» è in vendita come entrecôte e costata. Lo spessore ideale dovrebbe essere di almeno tre centimetri. Per poter gustare appieno il gusto di questi pregiati tagli è bene seguire alcune semplici regole. Togliere la carne dal frigo almeno un’ora prima di cucinarla. Rosolarla a fuoco vivo in poco olio da entrambi i lati per massimo 4 minuti per parte. Metterla da parte e
lasciarla riposare per qualche minuto. Continuare la cottura in forno a 120°C fino al raggiungimento della temperatura interna desiderata, misurandola con l’ausilio dell’apposito termometro: al sangue (50-55°C), media (56-62°C), ben cotta (62-66°C). Essendo una carne già molto aromatica, si consiglia di non eccedere con i condimenti: un pizzico di sale grosso e pepe macinato di fresco prima di servire sono più che sufficienti. La carne «Dry Aged Beef» è disponibile sotto forma di entrecôte e costata presso i banchi macelleria di Migros Lugano e Agno. L’entrecôte è ottenibile anche a libero servizio nelle filiali di S. Antonino, Serfontana, Taverne, Pregassona e Locarno.
Maurizio Marzullo, capo macellaio a Migros Lugano Centro, vi consiglia di assaggiare la carne «Dry Aged»: «La carne è così morbida che si scioglie in bocca». (TiPress)
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Azione Settimanale della Cooperativa Migros Ticino • 13 marzo 2017 • N. 11
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Idee e acquisti per la settimana
19 marzo: Festa del papà dizionali, nella fattispecie i tortelli di San Giuseppe. Sono fatti con pasta bignè cotta al forno e farciti con finissima crema al marsala e, per finire, spolverati con zucchero a velo. Il laboratorio di pasticceria Migros di S. Antonino per l’occasione propone ancora la torta a forma di cuore con farcitura alle fragole o alla frutta mista. Tortelli di S. Giuseppe ripieni 100 g Fr. 3.40 Cuore di sfoglia alle fragole 100 g Fr. 3.20 Cuore di sfoglia alla frutta 100 g Fr. 3.20 I prodotti sono in vendita solo il 18 marzo presso i banchi pasticceria di Migros Ticino.
Flavia Leuenberger
Se in Ticino ed in altri paesi a tradizione cattolica quali Italia, Portogallo, Spagna e Andorra, la Festa del papà coincide con la festività di San Giuseppe – nelle sacre scritture padre putativo di Gesù – in altri paesi la ricorrenza è celebrata in altre date. In Germania, per esempio, la festa cade il giorno dell’Ascensione; nel resto della Svizzera la prima domenica di giugno; in Austria e Belgio la seconda domenica di giugno; mentre in nazioni quali Regno Unito, Stati Uniti, Giappone, Francia e Irlanda la terza domenica di giugno. In tutti i paesi, tuttavia, è usanza regalare qualcosa al proprio papà e viziarlo per tutta la giornata. Tra le molte idee regalo dell’assortimento Migros, non possono nemmeno mancare i dolci tra-
Golosità sempre a portata Bocconcini giapponesi di mano Azione 20% Su tutto l’assortimento di sushi
In nuovi marrons glacés «Snack to go» della Sandro Vanini di Rivera calmano la voglia di dolci fuori pasto, sia un ufficio sia durante le attività all’aria aperta. Proposti in una confezione da 150 grammi richiudibile, forniscono pure la giusta energia per affrontare con brio il resto della giornata. Le castagne utilizzate vengono dapprima cotte lentamente a vapore. Dopo essere state candite diversi giorni in una soluzione di zucchero, sono ricoperte di una delicata glassa e infine spezzettate e confezionate. La Sandro Vanini vanta una lunga tradizione nella produzione artigianale di marrons glacés: le specialità sono preparate ancora oggi seguendo le medesima ricetta originale utilizzata dal nonno del fondatore nel 1871, anno in cui ne avviò per primo una produzione artigianale a Lugano. Il pratico sacchetto entra facilmente in qualsiasi borsa o tasca. Marrons Glacés «Snack to go» 150 g Fr. 5.20 In vendita nelle maggiori filiali Migros
Flavia Leuenberger
Dal 14 al 18 marzo
Gli amanti della cucina del Sol Levante questa settimana hanno di che essere felici: oltre ad un’offerta imperdibile su tutto l’assortimento di sushi della Migros, presso il supermercato di Agno dal 16 al 18.3 si potranno pure degustare alcune di queste piccole prelibatezze asiatiche a base di riso, pesce fresco, alghe e verdure. Le specialità di sushi sono considerate un piacere non solo per il palato, ma anche per gli occhi,
dato che sono esteticamente sempre ben presentate. I bocconcini sono preparati ad arte, con una tecnica artigianale e con ingredienti freschissimi: li crea un’azienda svizzera con una pluriennale esperienza nel settore. Che si tratti di Sashimi, Futomaki, Hosomaki, Nigiri o Gunkan… il sushi è ottimo sia come spuntino tra i pasti, sia come antipasto, oppure come pasto leggero ricco di gusto.
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Azione Settimanale della Cooperativa Migros Ticino • 13 marzo 2017 • N. 11
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Idee e acquisti per la settimana
Frey
Dolcezza pasquale Gli ovetti a pois Freylini sono uno dei grandi classici dell’assortimento pasquale di Migros. Il nuovo gusto di quest’anno è costituito dall’edizione limitata Mango Crunchy Nuts: una combinazione fruttata di cioccolato al latte e cremoso ripieno di mango avvolto in croccante alle noci. Gli ovetti Freylini sono disponibili in diversi gusti e sacchetti oppure in bellissime scatole regalo. E in occasione di questa Pasqua, i popolari praliné Adoro si presentano in una forma particolarmente smagliante.
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M-Industria crea numerosi prodotti Migros, tra cui anche i cioccolatini di Chocolat Frey.
Azione Settimanale della Cooperativa Migros Ticino • 13 marzo 2017 • N. 11
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Azione Settimanale della Cooperativa Migros Ticino • 13 marzo 2017 • N. 11
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Idee e acquisti per la settimana
1 Fino al 1997 le bevande dolci venivano proposte in bottiglie di vetro. 2 Una veduta del vecchio sito di produzione. 3 Dal 1961 Aproz Sources Minérales SA trasporta i suoi prodotti su ferrovia. 4 L’azienda Aproz nel 2006 prima dell’ampliamento. Oggi qui sono impiegati 134 collaboratori.
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Novità Jarimba Arancia-Mango 0,5 l Fr. –.90
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Jarimba Kiwi-Fragola 6 x 1,5 l Fr. 5.25* invece di 10.50
M-Industria crea numerosi prodotti Migros, tra cui anche le bevande Jarimba.
Jarimba
Un fruttato dissetante in piccolo formato
1
Le bevande Jarimba sorprendono con nuovi aromi fruttati e una pratica bottiglietta da mezzo litro. Per produrle Aproz utilizza da oltre 70 anni acqua delle alpi vallesane
Aproz Sources Minérales è stata fondata ad Aproz – in Vallese – e undici anni dopo è entrata a far parte del Gruppo Migros. L’azienda è stata per molti anni leader in Svizzera nel settore delle acque minerali e produce, oltre all’acqua, anche sciroppi e bibite dolci. L’apprezzata bibita al lampone è stata introdotta sul mercato nel 1975 e, dal 1986, ha preso il nome di «Himbo». Dal 2007 le bibite dolci sono disponibili sugli scaffali Migros sotto il marchio Jarimba. Da subito le varianti Arancia-Mango e Himbo sono vendute nella pratica bottiglietta da mezzo litro. Le varietà Arancia, Kiwi-Fragola, Limone e Pompelmo completano l’assortimento di queste fruttate bibite.
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Novità Jarimba Himbo 0,5 l Fr. –.90
Azione Settimanale della Cooperativa Migros Ticino • 13 marzo 2017 • N. 11
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Idee e acquisti per la settimana
1 Fino al 1997 le bevande dolci venivano proposte in bottiglie di vetro. 2 Una veduta del vecchio sito di produzione. 3 Dal 1961 Aproz Sources Minérales SA trasporta i suoi prodotti su ferrovia. 4 L’azienda Aproz nel 2006 prima dell’ampliamento. Oggi qui sono impiegati 134 collaboratori.
*Azione 50% su tutte le bevande Jarimba nella confezione da 6 dal 14 al 20 marzo
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4.20 invece di 5.60 Filetto di tonno (pinne gialle) Oceano Pacifico, per 100 g, fino al 18.3
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1.30 invece di 2.60 Cordon bleu di maiale TerraSuisse per 100 g
33% Ali di pollo Optigal al naturale e condite, per es. al naturale, Svizzera, al kg, 9.– invece di 13.50
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Bistecche di manzo fini TerraSuisse Svizzera, imballate, per 100 g
Luganighetta Svizzera, conf. da 2 x 250 g
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9.10 invece di 13.10 Cordon bleu di pollo Don Pollo in conf. speciale carne del Brasile/dell’Argentina, prodotto in Svizzera, 4 x 150 g
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2.80 invece di 4.– Prosciutto al forno in conf. speciale Svizzera, per 100 g
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8.95 invece di 13.– Prosciutto cotto 1956 Ferrarini Italia, affettato, conf. da 2 x 120 g
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3.95 invece di 5.40
3.60 invece di 7.20
Punte d’asparagi verdi Messico, conf. da 200 g
Jean-Louis Tomme à la crème conf. da 2 x 200 g
a partire da 2 pezzi
35%
Cetrioli Spagna, per es. 2 pezzi, 2.– invece di 3.20, a partire da 2 pezzi, 35% di riduzione
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25% La Pizza in conf. da 2 4 stagioni o Margherita, per es. 4 stagioni, 2 x 420 g, 11.20 invece di 15.–
25%
18.20 invece di 24.35 Caseificio Leventina prodotto in Ticino, a libero servizio, al kg
20%
3.– invece di 3.80 Insalata del mese Anna’s Best 200 g
20%
1.80 invece di 2.25 Formentino Ticino, imballato, per 100 g
Migros Ticino OFFERTE VALIDE SOLO DAL 14.3 AL 20.3.2017, FINO A ESAURIMENTO DELLO STOCK
25%
7.90 invece di 10.70 Robiola 2 x 100 g e Gorello 300 g prodotti in Ticino, in confezione (Robiola e Gorello)
25%
2.60 invece di 3.50 Insalata filante Ticino, conf. da 200 g
20%
33%
2.60 invece di 3.90
4.70 invece di 5.90
Arance Tarocco extra Italia, al kg
33%
2.90 invece di 4.40 Patate resistenti alla cottura Svizzera, busta da 2,5 kg
Mirtilli Spagna, conf. da 250 g
Hit
5.–
Cesto primaverile Eva, con piante il pezzo
15%
5.85 invece di 6.90 Tulipani M-Classic, mazzo da 10 disponibili in diversi colori, per es. gialli
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2.05 invece di 2.60 Tortine pasquali, 2 pezzi per es. senza uva sultanina, 2 x 75 g
Consiglio
20% Tutti i cake della nonna per es. marmorizzato, 360 g, 2.95 invece di 3.70
20% Tutti i gelati Crème d’or da 750 ml e 1000 ml per es. al cioccolato, 1000 ml, 7.80 invece di 9.80
MORSI PRELIBATI Che cosa c’è di più gustoso di un panino al prosciutto? Un panino al prosciutto e camembert. Il crem oso formaggio a pasta molle conferisce al panino una marcia in più. La ricetta la trovi su migusto.ch e tutti gli ingr edienti freschi alla tua Migros.
20%
4.20 invece di 5.30 Camembert Suisse Crémeux 300 g
20% Tutte le torte e i tranci alle carote per es. torta alle carote, 10 cm, 255 g, 4.– invece di 5.–
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2.05 invece di 2.60 Tortine pasquali, 2 pezzi per es. senza uva sultanina, 2 x 75 g
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20% Tutti i cake della nonna per es. marmorizzato, 360 g, 2.95 invece di 3.70
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Pesce fresco selezionato in vaschetta per la cottura al forno, per es. filetto di salmone al limone e coriandolo, d’allevamento, Norvegia, 420 g, 12.60 invece di 15.80 20%
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Michette precotte M-Classic in conf. da 1 kg e panini al latte precotti M-Classic in conf. da 600 g, TerraSuisse, in bustina, per es. michette, 1 kg, 3.85 invece di 5.75 33%
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Menu Anna’s Best in conf. da 2, Thai e Asia, per es. chicken satay, 2 x 400 g, 12.40 invece di 15.60 20% Pane rustico Pain Création, 400 g, –.50 di riduzione, 3.30 invece di 3.80
Tutto l’assortimento di alimenti per gatti Gourmet, per es. mousse Gourmet Gold, 4 x 85 g, 3.20 invece di 4.– 20% Tutto l’assortimento Axe, a partire da 2 pezzi 20% ** Tutti i gel e le schiume da barba Gillette (confezioni multiple e gel e schiuma per la rasatura Gillette Venus esclusi), a partire da 2 pezzi 30% **
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Olio d’oliva Monini Monello, 75 cl, 12.45 invece di 15.60 20% Tutti i brodi Bon Chef, per es. brodo di verdure, 5 x 20 g, 2.– invece di 2.50 20%
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Tutto l’assortimento Riso Scotti, per es. Riso Carnaroli, 1 kg, 3.80 invece di 4.80 20%
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Red Bull kiwi-mela, The Green Edition, 250 ml, 1.70 Novità ** Stoviglie in vetro Cucina & Tavola, Bowl Athen e Riga, Wave Bowl in set da 3, vassoio ovale e vassoio per cake, per es. bowl Riga, Ø 28 cm, il pezzo, 16.80 Novità ** Docciaschiuma trattante Creme Oil Pearls Cherry Blossom Nivea, 250 ml, 3.20 Novità ** Deodorante aerosol Protect & Care Nivea Men, 150 ml, 3.05 Novità **
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Azione Settimanale della Cooperativa Migros Ticino • 13 marzo 2017 • N. 11
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Idee e acquisti per la settimana
Elan
«Oggi “giochiamo” con i profumi molto di più che in passato»
*Azione 50% sui detersivi Elan a partire da due pezzi (a scelta) fino al 20 marzo
Il profumo è un criterio importante per il successo di un detersivo. In qualità di responsabile dello sviluppo dei detersivi liquidi presso Mibelle Group, Karin Hess si preoccupa che i prodotti Elan abbiano un profumo primaverile o estivo Intervista Dora Horvath; Foto Basile Bornand
Elan Spring Time 2 l Fr. 6.95* invece di 13.90
Elan Flower Moments 2 l Fr. 6.95* invece di 13.90
Elan Summer Breeze 2 l Fr. 6.95* invece di 13.90
La nuova profumazione promette bene? La responsabile dello sviluppo da Mibelle Karin Hess si mette nei panni dei consumatori.
I prodotti Elan si differenziano dagli altri detersivi Migros per il loro profumo duraturo. Quest’ultimo è contenuto in microcapsule che, per contatto o sfregamento, viene rilasciato sui tessili.
un momento in un’altra realtà quando annusano la biancheria appena lavata. Potrebbe per esempio essere un’isola tropicale, un campo di lavanda fiorita in Provenza oppure un prato in montagna.
Karin Hess, qual è il profumo della biancheria pulita?
Le nostre idee nascono dall’osservazione del mercato, di cui fanno parte settori quali l’alimentare, la cura del corpo, le tendenze di colore o reportage delle aziende profumiere. Da qui possono spiccare immagini o colori come per esempio montagne o blu. Da questo mondo attingiamo idee per un profumo.
alle aziende profumiere che sviluppano la fragranza. Tuttavia non forniamo troppe informazioni, affinché il profumiere, nel limite delle possibilità, possa avere spazio sufficiente per idee proprie. A proposito: anche per un detersivo la fragranza ha forma piramidale con le note di testa, di cuore e di base, proprio come un profumo. Riceviamo sempre diverse proposte. Quindi le testiamo per capire se le fragranze possano essere incorporate in un detersivo. Verifichiamo la sensazione che può dare una fragranza sia dal flacone che dal sacchetto, nella biancheria umida e asciutta.
Questo abbozzo di idee viene inviato
No. Talvolta seguiamo una tenden-
Il pulito è spesso associato a note di freschezza tradizionale, sapone, limone e fiori. C’è stato un cambiamento in questo ambito?
Con i profumi oggi «giochiamo» di più che in passato: introduciamo i consumatori in nuovi mondi di fragranze. Essi dovrebbero immergersi
Dove trova l’ispirazione?
Come si procede in seguito?
I profumi vengono copiati?
za, come per esempio nel 2015 con la «Fresh Lavender». Il profumo di lavanda allora viveva una vera rinascita. Altrimenti sviluppiamo profumi propri, che ben chiaramente si distinguono dalla concorrenza.
Elan Fresh Lavander 2 l Fr. 6.95* invece di 13.90
Le note intense di legno o cuoio, attualmente molto in voga nei profumi, sono un tema per lei?
No. Nella profumazione dei detersivi la sensazione di freschezza rimane il punto cardine. Inoltre gli abiti dovrebbero avere un altro profumo rispetto all’Eau de Toilette. Ci sono già stati dei flop?
No, perché effettuiamo sempre dei test presso i consumatori, anche per il profumo.
M-Industria crea numerosi prodotti Migros, tra cui anche i detersivi universali di Elan.
Azione Settimanale della Cooperativa Migros Ticino • 13 marzo 2017 • N. 11
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Azione Settimanale della Cooperativa Migros Ticino • 13 marzo 2017 • N. 11
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Idee e acquisti per la settimana
Da sapere
Di corsa verso il successo
Running
La stagione della corsa può iniziare
Muoversi regolarmente all’aria fresca tempra la mente e rafforza il corpo. La corsa attiva il sistema cardiocircolatorio. Una ragione in più per allacciarsi le scarpe sportive e mettersi in moto
*Azione 20%
Ideale per le debuttanti: scarpa da donna dalla forma moderna con ammortizzazione in gel nella zona del tallone. Scarpa Running da donna Asics Gel Innovate 7 Azione 30% di sconto Fr. 69.90 invece di 99.90 Da SportXX
Testo Sonja Leissing; Foto Yves Roth; Styling Mirjam Käser
Una buona attrezzatura è tutto. T-shirt, giacche e pantaloni ad elevata performance sono leggeri, riparano dal vento e dalla pioggia e si asciugano in fretta. I completi da training di cotone sono meno adatti, poiché assorbono il sudore. Per la scelta delle scarpe è d’obbligo la consulenza di un esperto.
di sconto su tutti i capi d’abbigliamento sportivi per la corsa e il fitness nei negozi SportXX, ad eccezione delle scarpe. Assorbe il sudore e si asciuga velocemente: la maglietta dai colori vivaci crea un bel contrasto con i pantaloni da corsa neri. Asics Shirt Ladies diversi colori, taglie S-XL Azione Fr. 27.90* invece di 34.90 Da SportXX
Comode da portare con sé: le compresse effervescenti riequilibrano i sali minerali.
Ideale per fasciare saldamente le articolazioni e fissare le bende: i fissaggi sportivi offrono forza adesiva ed elevato sostegno e si attaccano anche alla pelle sudata.
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M-Plast Sport Tape al pezzo Fr. 7.60
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Preparato a base di magnesio con vitamine B, per i muscoli e i nervi. Il contenuto delle bustine può essere ingerito senza acqua.
L’alimentazione è importante Principianti o professionisti che siano, gli adepti della corsa dovrebbero seguire una dieta equilibrata, ricca di frutta, verdura, proteine e carboidrati. Questi ultimi sono indispensabili se si corre regolarmente, per rifare il pieno di glicogeno. In tal modo l’organismo può approfittare al massimo delle proprie riserve di energia anche sotto sforzo continuo. Corsa ai premi SportXX presenta in tutta la Svizzera una serie di corse poste sotto il motto «Più corri, più approfitti». I partecipanti vengono premiati con buoni acquisto di SportXX, Migros Parchi Fitness e di altri rivenditori. Per informazioni: www.sportxx.ch/serie-corse Fra le varie gare, segnaliamo la Stralugano, prevista il 20 e 21 maggio 2017.
Axamine Magnesio Sticks 24 bustine Fr. 13.80
Vestibilità perfetta: pantaloncini da corsa da uomo con slip integrato. Lo speciale materiale assicura una rapida fuoriuscita dell’umidità. Pantaloncini da uomo Asics Race 2 in 1, 7 inch taglie S-XL Azione Fr. 55.90* invece di 69.90 Da SportXX
Consigli Impuls
Il prezioso magnesio: questo minerale sostiene la funzione dei muscoli e dei nervi ed aiuta in caso di affaticamento.
I dieci errori degli sportivi debuttanti
Actilife Magnesio Aroma limone, 20 compresse effervescenti Fr. 5.70
Vuoi provare a cimentarti nello sport? Benissimo! Allora scopri quali sono i dieci errori da evitare quando si inizia: migros-impuls.ch
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IMpuls è la nuova iniziativa della Migros in favore della salute.
Azione Settimanale della Cooperativa Migros Ticino • 13 marzo 2017 • N. 11
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Azione Settimanale della Cooperativa Migros Ticino • 13 marzo 2017 • N. 11
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Idee e acquisti per la settimana
Da sapere
Di corsa verso il successo
Running
La stagione della corsa può iniziare
Muoversi regolarmente all’aria fresca tempra la mente e rafforza il corpo. La corsa attiva il sistema cardiocircolatorio. Una ragione in più per allacciarsi le scarpe sportive e mettersi in moto
*Azione 20%
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Testo Sonja Leissing; Foto Yves Roth; Styling Mirjam Käser
Una buona attrezzatura è tutto. T-shirt, giacche e pantaloni ad elevata performance sono leggeri, riparano dal vento e dalla pioggia e si asciugano in fretta. I completi da training di cotone sono meno adatti, poiché assorbono il sudore. Per la scelta delle scarpe è d’obbligo la consulenza di un esperto.
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Comode da portare con sé: le compresse effervescenti riequilibrano i sali minerali.
Ideale per fasciare saldamente le articolazioni e fissare le bende: i fissaggi sportivi offrono forza adesiva ed elevato sostegno e si attaccano anche alla pelle sudata.
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M-Plast Sport Tape al pezzo Fr. 7.60
Riscalda e rilassa i muscoli dopo lo sport: olio da massaggio con estratto d’arnica. Kneipp Olio da massaggio muscoli & sport 100 ml Fr. 11.80
Preparato a base di magnesio con vitamine B, per i muscoli e i nervi. Il contenuto delle bustine può essere ingerito senza acqua.
L’alimentazione è importante Principianti o professionisti che siano, gli adepti della corsa dovrebbero seguire una dieta equilibrata, ricca di frutta, verdura, proteine e carboidrati. Questi ultimi sono indispensabili se si corre regolarmente, per rifare il pieno di glicogeno. In tal modo l’organismo può approfittare al massimo delle proprie riserve di energia anche sotto sforzo continuo. Corsa ai premi SportXX presenta in tutta la Svizzera una serie di corse poste sotto il motto «Più corri, più approfitti». I partecipanti vengono premiati con buoni acquisto di SportXX, Migros Parchi Fitness e di altri rivenditori. Per informazioni: www.sportxx.ch/serie-corse Fra le varie gare, segnaliamo la Stralugano, prevista il 20 e 21 maggio 2017.
Axamine Magnesio Sticks 24 bustine Fr. 13.80
Vestibilità perfetta: pantaloncini da corsa da uomo con slip integrato. Lo speciale materiale assicura una rapida fuoriuscita dell’umidità. Pantaloncini da uomo Asics Race 2 in 1, 7 inch taglie S-XL Azione Fr. 55.90* invece di 69.90 Da SportXX
Consigli Impuls
Il prezioso magnesio: questo minerale sostiene la funzione dei muscoli e dei nervi ed aiuta in caso di affaticamento.
I dieci errori degli sportivi debuttanti
Actilife Magnesio Aroma limone, 20 compresse effervescenti Fr. 5.70
Vuoi provare a cimentarti nello sport? Benissimo! Allora scopri quali sono i dieci errori da evitare quando si inizia: migros-impuls.ch
Scarpa da corsa stabile con ammortizzazione in gel nella zona del tallone. Scarpa Running da uomo Asics Gel Innovate 7 Azione 30% di sconto Fr. 69.90 invece di 99.90 Da SportXX Tutte le offerte speciali sono valide dal 14 al 27 marzo; fino ad esaurimento scorte.
IMpuls è la nuova iniziativa della Migros in favore della salute.
Azione Settimanale della Cooperativa Migros Ticino • 13 marzo 2017 • N. 11
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Azione Settimanale della Cooperativa Migros Ticino • 13 marzo 2017 • N. 11
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Idee e acquisti per la settimana
Noi firmiamo. Noi garantiamo.
Progressi in lavatrice
La storia
Innovativi da sempre
Total è uno dei prodotti più antichi della Migros. Lanciato nel 1931 con il nome di «Ohä», il detersivo è stato costantemente rielaborato. Come spiega nel dettaglio Michael Lang, direttore del reparto Ricerca e Sviluppo di Mibelle Group, una società della Migros Testo Thomas Tobler; Foto Paolo Dutto
Una confezione gigante presentata da una modella dal sorriso smagliante. Questa pubblicità Total risale al 1967 e con l’etichetta «Bio-Enzym» metteva in risalto già all’epoca i progressi ottenuti dalla ricerca sui detersivi. Pochi anni dopo, nel 1971, veniva lanciato sul mercato il primo Total senza fosfati. La star della settimana
Il collaudato Il sapone fa parte dei primi sei prodotti della Migros sin dal 1925. 92 anni dopo, il marchio proprio Total garantisce un bucato pulito e da anni è il detersivo più venduto della Svizzera. Total ha alle spalle una lunghissima tradizione. Nel 1931 si chiamava «Ohä», vent’anni dopo Linda Maximal e nel 1962 fu battezzato Total. Oggi costituisce un collaudato prodotto di lavaggio della Migros per qualsiasi tipo di macchia e programma di lavaggio. Maggiori informazioni su Total al sito www. noifirmiamo-noigarantiamo.ch Foto-indovinello Quanto costava una confezione grande di Total nel 1967? Scopri la risposta in una delle foto pubblicate su queste pagine. Trovi tre opzioni di risposta anche su www.noifirmiamonoigarantiamo.ch/total Partecipare conviene: in palio ci sono carte regalo Migros per un valore complessivo di 150 franchi.
Signor Lang, quali sono le macchie più ostinate?
Ad esempio quelle di vino rosso, di curry o di salsa di pomodoro contenente olio d’oliva. I coloranti rossi sono avvolti e intinti di olio vegetale, per poterli sciogliere il detersivo deve dapprima spezzare questa mistura. In linea di massima, tutte le macchie costituite da più sostanze devono necessariamente essere trattate con un detersivo. Come fa un detersivo a spezzare una fibra vegetale?
Con un enzima, che in questo caso si chiama amilasi. Gli enzimi sono corpi proteici simili a quelli che si formano nel latte
o nella carne. Gli enzimi detergenti sono predisposti specificamente a sciogliere lo sporco a bassa temperatura. Questi enzimi agiscono anche nei detersivi universali?
Solo in modo limitato. In un detersivo universale c’è la candeggina che, appunto, sbianca le macchie. Di conseguenza esso è adatto per lavare capi di bucato bianchi ad alta temperatura. Gli enzimi in esso contenuti agiscono solo fino a 40 gradi, mentre a una temperatura maggiore vengono denaturati. Ciò significa che la loro struttura si modifica tramite l’acqua calda e perdono la loro funzione.
Da quanto tempo si lava con gli enzimi?
Sono diventati uno standard circa 20 anni fa. La loro forza pulente si è talmente sviluppata nel corso degli anni, che con Total si ottengono buoni risultati di lavaggio già a temperature di soli 30 o addirittura 20 gradi. Questo costante progresso delle prestazioni significa che bisogna continuamente sviluppare nuovi detersivi?
Naturalmente cerchiamo di sviluppare nuovi prodotti innovativi. Nella maggior parte dei casi tuttavia sviluppiamo quelli già esistenti e cerchiamo di migliorarli
sempre di più. In fondo, il problema del bucato è stato risolto con l’invenzione del sapone di Marsiglia. Cosa significa «migliorare»?
Per esempio, vogliamo continuare a ridurre il consumo di energia durante il lavaggio. La stragrande maggioranza dell’energia è necessaria per riscaldare l’acqua. I costi energetici si dimezzano se si lava a 40 gradi al posto di 90. Inoltre, produciamo i nostri imballaggi in modo sempre più ecologico. Ad esempio, non esiste un altro rivenditore al dettaglio che abbia in catalogo più confezioni di ricarica della Migros.
Quanto tempo resta sul mercato un detersivo prima di essere rielaborato?
Adattiamo la formula dei detersivi Total all’incirca ogni due anni, a volte più spesso a volte meno. Inoltre, riflettiamo su come semplificare ulteriormente i processi di lavaggio per i consumatori. Ad esempio, con prodotti predosati, come le cosiddette pastiglie, grazie alle quali i clienti non devono più quantificare da sé la dose giusta di detersivo. Inoltre, stiamo lavorando sui cosiddetti concentrati detergenti, che comportano una sensibile riduzione della quantità di detersivo.
Nel 1934 veniva avviata la produzione di detersivo negli stabilimenti Gifa della Migros (foto in alto). Tre anni prima, la Migros aveva lanciato «Ohä», un detersivo che costava appena la metà del detersivo allora leader del mercato, il «Persil» della Henkel. Il nome «Ohä» si basava sul gioco di parole «Ohne Hänkel», ossia «senza Henkel». La frase con il doppio senso fu però eliminata dopo una denuncia della Henkel e venne coperta da una foglia di fico (foto a sinistra). Il detersivo continuò però a chiamarsi «Ohä».
Azione Settimanale della Cooperativa Migros Ticino • 13 marzo 2017 • N. 11
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Idee e acquisti per la settimana
Noi firmiamo. Noi garantiamo.
Progressi in lavatrice
La storia
Innovativi da sempre
Total è uno dei prodotti più antichi della Migros. Lanciato nel 1931 con il nome di «Ohä», il detersivo è stato costantemente rielaborato. Come spiega nel dettaglio Michael Lang, direttore del reparto Ricerca e Sviluppo di Mibelle Group, una società della Migros Testo Thomas Tobler; Foto Paolo Dutto
Una confezione gigante presentata da una modella dal sorriso smagliante. Questa pubblicità Total risale al 1967 e con l’etichetta «Bio-Enzym» metteva in risalto già all’epoca i progressi ottenuti dalla ricerca sui detersivi. Pochi anni dopo, nel 1971, veniva lanciato sul mercato il primo Total senza fosfati. La star della settimana
Il collaudato Il sapone fa parte dei primi sei prodotti della Migros sin dal 1925. 92 anni dopo, il marchio proprio Total garantisce un bucato pulito e da anni è il detersivo più venduto della Svizzera. Total ha alle spalle una lunghissima tradizione. Nel 1931 si chiamava «Ohä», vent’anni dopo Linda Maximal e nel 1962 fu battezzato Total. Oggi costituisce un collaudato prodotto di lavaggio della Migros per qualsiasi tipo di macchia e programma di lavaggio. Maggiori informazioni su Total al sito www. noifirmiamo-noigarantiamo.ch Foto-indovinello Quanto costava una confezione grande di Total nel 1967? Scopri la risposta in una delle foto pubblicate su queste pagine. Trovi tre opzioni di risposta anche su www.noifirmiamonoigarantiamo.ch/total Partecipare conviene: in palio ci sono carte regalo Migros per un valore complessivo di 150 franchi.
Signor Lang, quali sono le macchie più ostinate?
Ad esempio quelle di vino rosso, di curry o di salsa di pomodoro contenente olio d’oliva. I coloranti rossi sono avvolti e intinti di olio vegetale, per poterli sciogliere il detersivo deve dapprima spezzare questa mistura. In linea di massima, tutte le macchie costituite da più sostanze devono necessariamente essere trattate con un detersivo. Come fa un detersivo a spezzare una fibra vegetale?
Con un enzima, che in questo caso si chiama amilasi. Gli enzimi sono corpi proteici simili a quelli che si formano nel latte
o nella carne. Gli enzimi detergenti sono predisposti specificamente a sciogliere lo sporco a bassa temperatura. Questi enzimi agiscono anche nei detersivi universali?
Solo in modo limitato. In un detersivo universale c’è la candeggina che, appunto, sbianca le macchie. Di conseguenza esso è adatto per lavare capi di bucato bianchi ad alta temperatura. Gli enzimi in esso contenuti agiscono solo fino a 40 gradi, mentre a una temperatura maggiore vengono denaturati. Ciò significa che la loro struttura si modifica tramite l’acqua calda e perdono la loro funzione.
Da quanto tempo si lava con gli enzimi?
Sono diventati uno standard circa 20 anni fa. La loro forza pulente si è talmente sviluppata nel corso degli anni, che con Total si ottengono buoni risultati di lavaggio già a temperature di soli 30 o addirittura 20 gradi. Questo costante progresso delle prestazioni significa che bisogna continuamente sviluppare nuovi detersivi?
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sempre di più. In fondo, il problema del bucato è stato risolto con l’invenzione del sapone di Marsiglia. Cosa significa «migliorare»?
Per esempio, vogliamo continuare a ridurre il consumo di energia durante il lavaggio. La stragrande maggioranza dell’energia è necessaria per riscaldare l’acqua. I costi energetici si dimezzano se si lava a 40 gradi al posto di 90. Inoltre, produciamo i nostri imballaggi in modo sempre più ecologico. Ad esempio, non esiste un altro rivenditore al dettaglio che abbia in catalogo più confezioni di ricarica della Migros.
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Nel 1934 veniva avviata la produzione di detersivo negli stabilimenti Gifa della Migros (foto in alto). Tre anni prima, la Migros aveva lanciato «Ohä», un detersivo che costava appena la metà del detersivo allora leader del mercato, il «Persil» della Henkel. Il nome «Ohä» si basava sul gioco di parole «Ohne Hänkel», ossia «senza Henkel». La frase con il doppio senso fu però eliminata dopo una denuncia della Henkel e venne coperta da una foglia di fico (foto a sinistra). Il detersivo continuò però a chiamarsi «Ohä».
Prezzi bassi, prestazioni elevate.
Incl. i d o t i d e cr fr. 15.–
Fr. 39.90 invece di fr. 49.90 Wiko K-Kool
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