Azione 27 del 2 luglio 2018

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Cooperativa Migros Ticino

Società e Territorio L’amicizia tra donne: una relazione affettiva dal valore inestimabile

Ambiente e Benessere Dal Dipartimento del territorio, dall’Azienda cantonale dei rifiuti e da Ticino Energia, un gioco da tavolo all’insegna dell’ecologia

G.A.A. 6592 Sant’Antonino

Settimanale di informazione e cultura Anno LXXXI 2 luglio 2018

Azione 27 Politica e Economia Il turco Erdoğan rieletto presidente almeno fino al 2023

Cultura e Spettacoli Un’originale iniziativa artistica a Carona lungo la Via Crucis della Madonna D’Ongero

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Guerra commerciale, conseguenze inattese

Le armature dei Samurai Al MUSEC di Lugano

di Peter Schiesser

di Daniele Bernardi

Nel febbraio del 2017, poco dopo essere entrato in carica, Donald Trump aveva invitato alla Casa Bianca i dirigenti della Harley-Davidson per sottolineare quanto apprezzasse gli sforzi di questa fabbrica e vera icona americana nel creare impieghi negli Stati Uniti. Il 25 giugno la Harley-Davidson ha annunciato di voler spostare parte della produzione in Europa, perché l’aumento dei dazi deciso dall’Unione Europea in risposta all’aumento dei dazi che l’Amministrazione Trump ha imposto su alluminio e acciaio importati dall’Ue a partire dal 1. giugno, comporterebbe un aumento medio del costo della motocicletta in Europa di 2200 dollari, ciò che certamente ridurrebbe il volume delle vendite. Un esempio emblematico di quel che può provocare la guerra commerciale di Trump contro il resto del mondo – senza distinzione fra avversari e alleati, visto che le sanzioni colpiscono Cina, Ue, Messico e Canada (mentre Corea del Sud, Australia, Brasile e Argentina l’hanno scampata fornendo le concessioni che gli Stati Uniti chiedevano). Tuttavia, resta difficile prevedere quali svolte prenderà questa guerra commerciale. La tattica di Trump è di usare la minaccia di un aumento dei dazi per ottenere concessioni. I più deboli si sono piegati, ma gli altri no e hanno annunciato a loro volta delle sanzioni contro gli Stati Uniti. Il tempo dirà fino a quale punto arriverà il livello di scontro fra i colossi economici mondiali (USA, Ue, Cina), tra sanzioni e controsanzioni. Tantomeno si può prevedere quali conseguenze potrà avere questa contesa sull’economia mondiale, su quella dei singoli Stati e in termini geopolitici. Ci saranno senz’altro aziende che ne approfitteranno, altre che ci perderanno, ma, data la complessità dell’intreccio che governa oggi la produzione manifatturiera mondiale, vincenti e perdenti si distribuiranno in tanti paesi del mondo. Alcuni vincenti potrebbero trovarsi all’estero e alcuni perdenti negli Stati Uniti. Due esempi, citati dal «New York Times» (25.6.2018): gli Stati Uniti importano componenti LED dalla Cina per 637 milioni di dollari (2017), un aumento dei dazi sull’importazione dei prodotti cinesi spingerebbe i clienti americani a rivolgersi ad altri mercati ma sempre asiatici, quello malaysiano e giapponese (da cui hanno importato prodotti per 593 milioni di dollari nel 2017); e come scrive nello stesso articolo il NYT, i dazi maggiorati sulle teste motrici per barche a motore importate dalla Cina mettono in difficoltà i produttori di motoscafi statunitensi, poiché i loro motori sono compatibili solo con quella componente di fabbricazione cinese. Ad ogni modo, per l’economia mondiale questa guerra commerciale è veleno: impone alle grandi aziende che vogliono sfuggire ai dazi maggiorati di ridisegnare la mappa delle loro produzioni mondiali, ciò che richiede tempo e denaro, chiusure di stabilimenti in certi luoghi, aperture in altri. Complessivamente, come mostra la storia, sul lungo termine una guerra commerciale ha solo perdenti. Risulterà «vincitore» il paese che riuscirà a digerire meglio i danni. Il presidente americano Trump è convinto di essere nella posizione migliore, poiché gli Stati Uniti esportano meno di quanto importano. E di certo avrà un tornaconto politico-elettorale a breve termine (le elezioni di Mid-Term al Congresso sono alle porte). Ma i danni che potrebbe provocare al sistema del commercio mondiale, alle alleanze geostrategiche (con l’Europa, il Canada, il Messico) su cui gli Stati Uniti hanno basato la loro supremazia nei decenni scorsi, alla stessa economia americana, sono ben superiori. Intanto, questa situazione sembra favorire un avvicinamento tra Unione Europea e Cina. Il 25 giugno, al termine del settimo incontro negoziale ai massimi livelli, Pechino e Bruxelles hanno annunciato di voler combattere il protezionismo (americano) ma anche di voler gettare le basi per una riforma dell’Organizzazione mondiale del commercio. L’Unione europea concorda con Washington sulle critiche rivolte alla Cina in merito alle pratiche commerciali scorrette (appropriazione della proprietà intellettuale, mancanza di reciprocità nell’accesso al mercato cinese, eccessivo sostegno pubblico alle aziende), ma ritiene che la via da seguire sia quella del dialogo e di un rafforzamento della WTO, non quella delle sanzioni unilaterali. Non possiamo sapere se l’attuale atteggiamento accondiscendete di Pechino sia pura tattica o rappresenti una reale volontà di adeguarsi per davvero a (nuove) regole mondiali. Anche perché con la nuova Via della Seta che dovrà collegare la Cina con i mercati asiatici e l’Europa (BRI), in realtà Pechino sta pianificando logisticamente la futura egemonia economica (e politica) mondiale della Cina. Considerato che sempre più Stati africani e asiatici stanno cadendo nella trappola del debito, accettando i crediti cinesi per le grandiose infrastrutture della BRI senza riuscire a ripagarli, c’è il sospetto che l’imperialismo del rinato Impero di Mezzo sia meno liberale di quanto voglia far credere Pechino.

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Azione Settimanale della Cooperativa Migros Ticino • 2 luglio 2018 • N. 27

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Attualità Migros

M Spontaneamente equi Votazione federale I l 23 settembre la Svizzera voterà sull’iniziativa popolare «Per alimenti

Chi è più Nostrano dentro?

equi». Già da parecchi anni la Migros è impegnata nella commercializzazione di prodotti equi Concorso Da oggi al 15 luglio i nostri e sostenibili. L’adozione dell’iniziativa complicherebbe questo sforzo e renderebbe il cibo lettori sono invitati a più costoso, come spiega Hansueli Siber, direttore del Dipartimento marketing della FCM inviare la foto di uno dei loro prodotti respingere senza controprogetto l’iniMigros si impegna da anni con miporre direttamente migliori condizioni a km zero preferiti Thomas Tobler* Benessere degli animali, lavoro equo e generi alimentari del territorio. Si tratta di principi, quelli che l’iniziativa popolare «Per derrate alimentari sane, prodotte nel rispetto dell’ambiente e in modo equo» vuole promuovere per legge, che la Migros rispetta spontaneamente già da decenni, sia in Svizzera che all’estero. Ad esempio, con l’etichetta «Nostrani del Ticino», Migros e le sue cooperative sostengono da 19 anni i produttori e i fornitori regionali. L’iniziativa «Per alimenti equi» è stata lanciata dal Partito dei Verdi. È appoggiata anche dal PEV, dalla Protezione svizzera degli animali (PSA) e dall’associazione dei piccoli contadini. Il progetto di legge chiede alla Confederazione standard legali minimi, che rafforzino l’offerta di generi alimentari prodotti in Svizzera nel rispetto dell’ambiente. Il Consiglio federale e il Parlamento raccomandano di

ziativa «Per alimenti equi». Secondo il governo, per raggiungere gli obiettivi dell’iniziativa non è necessaria un’ulteriore modifica della Costituzione.

Hansueli Siber, i promotori di Fair-Food si schierano a favore di alimenti prodotti tenendo conto dell’ambiente e del benessere degli animali. Perché Migros è contraria a questa iniziativa?

Migros vuole offrire ai suoi clienti primariamente prodotti sostenibili di origine svizzera. I promotori, nel caso dell’attività di Migros e di altre aziende per il commercio al dettaglio, sfondano quindi delle porte aperte, perché da tempo noi abbiamo creato degli standard propri e delle strategie anche per l’importazione di prodotti sostenibili. L’iniziativa però va chiaramente troppo lontano. È implementabile solo con una mole enorme di lavoro burocratico, porterà ad aumenti dei prezzi e ridurrà gli assortimenti.

sure volontarie e con progetti specifici per un assortimento sostenibile e prodotto in modo equo. Questi sforzi, in Svizzera e all’estero, sono troppo limitati?

No. Anche gli stessi promotori dell’iniziativa apprezzano molto il nostro lavoro. Nella forma con cui si esprime, l’iniziativa è rivolta a stigmatizzare le «pecore nere». Ma per influire sul loro lavoro una modifica costituzionale non è il metodo giusto.

I promotori dell’iniziativa lamentano innanzitutto la qualità dei prodotti importati. In che modo un cambiamento della legge in Svizzera potrebbe migliorare la qualità della produzione all’estero?

Il punto dolente è proprio questo: molto poco. Produttori che non sono condizionati da uno smercio in Svizzera non saranno tenuti a una modifica del loro metodo di produzione. Inoltre, diversamente da Migros, che è in contatto diretto con i suoi produttori e può im-

di produzione, alla Confederazione mancano questi contatti.

Come controlla Migros che i produttori esteri introducano e mantengano le misure per il benessere degli animali e gli standard sociali per i collaboratori?

Da una parte gli esperti di Migros rendono visita regolarmente ai nostri fornitori e produttori. D’altro canto delle istanze di controllo esterne verificano che le regole siano rispettate. Se delle infrazioni si verificassero ripetutamente, interromperemmo i rapporti commerciali. I media riferiscono costantemente di casi di maltrattamento nell’allevamento degli animali in Svizzera. L’iniziativa potrà migliorare questa situazione?

La legge per la protezione degli animali e le prescrizioni legate ai vari marchi di qualità sono ben conosciute dai produttori. Chi non rispetta queste regole, lo fa quindi intenzionalmente. Neppure questa iniziativa popolare potrà cambiare questo stato di cose. Che effetti avrebbero sui clienti le modifiche legislative proposte dal testo dell’iniziativa?

Il tè freddo della Migros viene prodotto con foglie che vengono dall’India, certificate dal marchio di sostenibilità UTZ. (MM)

L’iniziativa pone delle prescrizioni così restrittive sugli alimenti d’importazione che una parte non potrà più essere importata in Svizzera. In questo modo si ridurrebbe l’offerta. La Confederazione dovrebbe fissare le condizioni di produzione di ogni arancio e seme di soia. In una fase ulteriore sarebbero da controllare all’estero tutti gli ingredienti di una pizza surgelata. I costi necessari sarebbero riversati sui contribuenti e sui consumatori tramite aumenti di prezzo dei vari prodotti. * Redattore di Migros Magazin

Servizio alla clientela

Migros Ticino Formazione costante

per gli operatori a diretto contatto con il pubblico

A partire da oggi Migros Ticino propone, sull’arco di due settimane, un avvincente concorso fotografico aperto a tutti coloro che apprezzano i sapori esclusivi dei prodotti Nostrani del Ticino. Per prendere parte al concorso basta scattare una fotografia originale, simpatica, artistica o creativa che includa almeno uno degli oltre 300 prodotti dell’assortimento Nostrani del Ticino Migros: formaggi, latticini, colorate verdure, saporiti salumi, carne e persino i coloniali, potranno essere il soggetto perfetto di un magnifico scatto. La lista di prodotti è consultabile online all’indirizzo https://www. migros.ch/it/cooperative/migrosticino/i-nostrani-del-ticino.html Si potrà partecipare con un massimo di tre fotografie attinenti al tema. Al termine del concorso una giuria di Migros Ticino determinerà, tra tutti i partecipanti, i 25 scatti più originali, i quali saranno premiati con uno splendido set di 4 tazzin firmato «Nostrani del Ticino». Questi recipienti sono stati realizzati dagli utenti della Fondazione Diamante, un’istituzione che da oltre 40 anni è attiva nell’integrazione delle persone disabili e con cui Migros Ticino collabora in diversi settori della propria attività. Le foto contenenti almeno un prodotto della linea Nostrani del Ticino Migros potranno essere inviate a partire da oggi e fino a domenica 15 luglio secondo le seguenti modalità: Facebook Migros Ticino

Carica la tua foto nei commenti del «Post Facebook» dedicato al concorso. E-mail

La soddisfazione dei propri clienti dipende da numerosi fattori. Tra questi, soprattutto nel commercio al dettaglio, giocano senza dubbio un ruolo fondamentale l’accoglienza e la consulenza che si ricevono nel punto vendita al momento in cui si effettua un acquisto. Per questo motivo, ormai da diversi anni, nell’ambito del proprio programma di formazione continua la nostra azienda ha dato il via ad un ampio progetto rivolto ai collaboratori dei banchi a servizio e agli operatori di cassa, figure chiave che hanno un contatto diretto e continuo con la clientela

e devono fornire un’assistenza completa, professionale e soddisfacente. Il percorso formativo prevede diversi moduli, sia informativi e teorici sia pratici. Nelle scorse settimane si è svolta la valutazione dell’operato dei team per la stagione 2017-18. Sul primo gradino del podio è salito il «team cassa» di Sementina, a seguire Mendrisio Sud e Molino Nuovo. Per i banchi a servizio, al primo posto troviamo invece la filiale di Mendrisio, con a ruota Tesserete e Mendrisio Sud. Ai vincitori vanno i più sinceri complimenti e un grande grazie per il lavoro svolto.

Azione

Sede Via Pretorio 11 CH-6900 Lugano (TI) Tel 091 922 77 40 fax 091 923 18 89 info@azione.ch www.azione.ch

Settimanale edito da Migros Ticino Fondato nel 1938 Redazione Peter Schiesser (redattore responsabile), Barbara Manzoni, Manuela Mazzi, Monica Puffi Poma, Simona Sala, Alessandro Zanoli, Ivan Leoni

La corrispondenza va indirizzata impersonalmente a «Azione» CP 6315, CH-6901 Lugano oppure alle singole redazioni

Invia il tuo scatto delle dimensioni massime di 5 Mb all’indirizzo concorso@migrosticino.ch, specificando nella mail nome, cognome e indirizzo Posta

Nella foto (da sin.) i gerenti delle sei filiali vincitrici: Luigi Maggiotto (Tesserete), Bilin Kresimir Gacina (Mendrisio), Stefano Barbi (Sementina), Tindara Rano (Mendrisio Sud), Roberto Basile (Molino Nuovo). Editore e amministrazione Cooperativa Migros Ticino CP, 6592 S. Antonino Telefono 091 850 81 11 Stampa Centro Stampa Ticino SA Via Industria 6933 Muzzano Telefono 091 960 31 31

Tiratura 101’766 copie Inserzioni: Migros Ticino Reparto pubblicità CH-6592 S. Antonino Tel 091 850 82 91 fax 091 850 84 00 pubblicita@migrosticino.ch

Invia la tua foto stampata su carta fotografica (dimensione massima A4) all’indirizzo: Servizi Marketing, Concorso fotografico Nostrani del Ticino, Via Serrai 1, Casella Postale 468, 6592 S. Antonino. Specificare sulla busta il proprio nome, cognome e indirizzo. I vincitori saranno avvisati per iscritto tramite e-mail o lettera. Tutte le condizioni di partecipazione al concorso sono pubblicate su www.migrosticino.ch Abbonamenti e cambio indirizzi Telefono 091 850 82 31 dalle 9.00 alle 11.00 e dalle 14.00 alle 16.00 dal lunedì al venerdì fax 091 850 83 75 registro.soci@migrosticino.ch Costi di abbonamento annuo Svizzera: Fr. 48.– Estero: a partire da Fr. 70.–


Azione Settimanale della Cooperativa Migros Ticino • 2 luglio 2018 • N. 27

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Società e Territorio Le novità dell’E3 di Los Angeles È la principale fiera dedicata ai videogiochi a livello mondiale e quest’anno ha ospitato 200 espositori e 3250 nuovi prodotti pagina 4

Incontro con Guido Locarnini L’ex direttore del «Corriere del Ticino» sta per compiere cento anni, un traguardo che lo spinge a raccontare il passato e riflettere sul presente dei media e della società pagina 5

Sono molti i benefici che si hanno lavorando con un’amica. (Marka)

L’importanza di avere un’amica

Psicologia Un serie di libri indagano il valore delle relazioni tra amiche e il bisogno del loro riconoscimento sociale Stefania Prandi Ci sono legami forti come quelli familiari (a volte anche di più) che non vengono ancora riconosciuti dalla società nella loro importanza. L’affetto tra amiche è uno di questi. Lo sa bene chi ha una cara amica sulla quale potere contare nei momenti di crisi, certa che sarà sempre al suo fianco, capace di essere felice per i suoi successi e traguardi. Del valore di questo tipo di relazione si sta discutendo negli Stati Uniti dopo la pubblicazione di una serie di testi. Tra questi Text Me When You Get Home: The Evolution and Triumph of Modern Female Friendship (Mandami un messaggio quando arrivi a casa: l’evoluzione e il trionfo della moderna amicizia femminile) della giornalista e scrittrice Kayleen Schaefer. Nel libro, l’autrice spiega che per molte persone le amicizie contano tanto quanto le relazioni romantiche. «Non c’è solo una storia d’amore nella nostra vita» scrive. «Se siamo fortunate, le amiche saranno le protagoniste di svariate relazioni. È ora che iniziamo a vederla in questo modo». Il titolo stesso evoca una tipica solidarietà femminile: «Sappiamo tutte cosa significhi trovarsi sole per strada di notte o tornare in un appartamento

vuoto. Chiedere di mandare un messaggio è un modo per ribadire: anche se sei da sola, io sono lì con te». Se certi sentimenti possono essere così intensi, allora perché non vengono riconosciuti come un’istituzione e non hanno gli stessi privilegi e diritti di un matrimonio? Se una cara amica sta male ed è all’ospedale, sul lavoro non è contemplata la possibilità di potersi assentare per assisterla, come invece si può fare con un parente stretto. Lo stesso vale per il lutto. Schaefer analizza il caso di una donna che ha perso la sua migliore amica in un incidente stradale. Oltre alla fatica di dovere superare il dolore, si è trovata ad affrontare persone che non capivano perché stesse così male. È giusto che la società abbia regole così ferree nel definire a chi e come dobbiamo volere bene? Se lo domandano alcuni giuristi che stanno discutendo di quella che viene chiamata «legge sull’amicizia». Rachel Moran, professoressa di diritto all’Università della California di Los Angeles, sostiene che i vincoli platonici debbano contare non solo «nella mia vita privata, ma anche agli occhi della legge». In Text Me When You Get Home, Schaefer smonta lo stereotipo che vuole che le donne siano cattive le une con

le altre e che siano mosse da sentimenti come l’invidia e la competizione. Mettendo insieme analisi culturali, interviste a celebrità ed elementi della propria autobiografia, arriva alla conclusione che i legami tra donne rappresentano un rifugio sicuro in una vita che spesso non va secondo i piani. Il libro traccia poi l’evolversi della rappresentazione dell’amicizia femminile nella cultura pop e Hollywoodiana, in film e serie tv come Thelma e Louise, Il diario di Bridget Jones, Sex and the City e Grace and Frankie. A supporto di queste idee Andrea Brandt, psicologa di Santa Monica, che spiega in un articolo pubblicato su «Psicology Today» che si parla molto di diete sane, esercizio regolare e relazioni romantiche per essere felici, mentre l’amicizia viene sempre ridotta a un affare da commedia. Eppure non è così: la Harvard Medical School ha fatto una ricerca su come le infermiere reagiscono dopo la morte del partner e ha scoperto che le donne con un’amica molto stretta sono in grado di sopravvivere alla perdita senza ulteriori complicazioni o «mancanza permanente di vitalità». Lo stesso vale per chi aveva fatto esperienza di divorzio, aborto o altri eventi traumatici. All the Sin-

gle Ladies. Il potere delle donne single (questo il titolo completo nella traduzione italiana di Fandango) di Rebecca Traister, giornalista del «New York Magazine» e collaboratrice di «Elle», racconta come il calo del tasso di matrimoni tra donne adulte sia dovuto a un ribaltamento dei valori e a nuove forme di libertà. Per l’inizio del 2019 è prevista la pubblicazione di Work Wife. Il titolo del volume letteralmente significa «moglie da lavoro», espressione che rivisita un modo di dire tipicamente americano, «work spouse» (coniuge da lavoro), per riferirsi a un collega, di sesso opposto, con il quale si trascorre molto tempo e si ha un’intesa professionale speciale. Le autrici sono Erica Cerulo e Claire Mazur, imprenditrici statunitensi che hanno fondato una famosa piattaforma di e-commerce e altre attività di successo e che raccontano la devozione dell’una per l’altra. Amiche intime dal 2002, hanno cominciato a lavorare insieme nel 2010 e, come hanno dichiarato in un’intervista a «The Cut», la loro collaborazione e amicizia è la condizione fondamentale della buona riuscita dei progetti che avviano. Per questo hanno voluto indagare le dinamiche alla base della loro rela-

zione e di quelle di altre dodici «mogli da lavoro». Nuove esperienze di team femminili basati su un solido legame stanno emergendo in questo periodo: «si tratta di qualcosa da celebrare e documentare». Nello specifico Cerulo e Mazur hanno individuato cinque benefici nel lavorare con un’amica: si mantengono standard alti perché non la si vuole deludere; anche se non si ha un capo, è come se lo si avesse perché ci si dà delle regole ferree; non si passano notti in bianco per le consegne perché ci si organizza in tempo; quando la situazione sembra precipitare, si è certe che la partner ce la sta mettendo tutta per risollevare la situazione; nei meeting si possono assumere diversi ruoli e riformulare le proprie idee in modi alternativi per essere più convincenti. Secondo diversi studi, le donne che si aiutano con le altre nel posto di lavoro contribuiscono a combattere la disparità di genere, le disuguaglianze e le discriminazioni. Inoltre, una ricerca condotta da Gallup, società americana che studia le tendenze socioeconomiche e demografiche di tutto il mondo, su più di cinque milioni di dipendenti, ha scoperto che un’amicizia in ufficio rende più coinvolti e produttivi.


Azione Settimanale della Cooperativa Migros Ticino • 2 luglio 2018 • N. 27

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Società e Territorio

Los Angeles, capitale dei videogiochi E3 All’edizione 2018 dell’Electronic Entertainment Expo più di 200 espositori hanno presentato 3250 nuovi prodotti Davide Canavesi Ogni anno, la seconda settimana di giugno, Los Angeles si anima non solamente di stelle del cinema ma anche di stelle dei videogames. Tra conferenze stravaganti, party esclusivi e infinite giornate spese a correre da un lato e l’altro del Los Angeles Convention Center, l’E3 (Electronic Entertainment Expo) si riconferma anche nel 2018 come la principale fiera dedicata ai videogiochi a livello mondiale. Quest’anno quasi 70’000 persone, tra membri di stampa, industria e semplici fan si sono dati appuntamento per scoprire tutte le principali novità in arrivo nei prossimi anni. Presenti 200 espositori con 3250 nuovi prodotti dai giochi ad altissimo budget fino ai titoli indipendenti, mostrati sia in fiera che in alcuni eventi satellite. Quella del 2018 è stata un’edizione dell’E3 particolarmente interessante. Stiamo entrando nell’ultima fase del ciclo di vita di PlayStation 4 e Xbox One, questo significa che i vari studi di sviluppo hanno un ampio bagaglio di conoscenze tecniche riguardo le due console e sono quindi in grado di sfruttarne ogni singolo transistor di potenza. Microsoft, produttrice di Xbox, ha organizzato una conferenza stampa in grande stile nella quale ha mostrato in 90 minuti ben 52 giochi, tra cui 19 esclusive per console. Dopo essersi trovata in difficoltà negli scorsi anni, specialmente a causa di PlayStation che ha saputo offrire giochi di altissimo livello a gettito continuo, Microsoft ha

puntato sui numeri per stupire il suo pubblico. Non solo giochi nuovi ma anche nuovi studi di sviluppo: il gigante di Redmond ha aggiunto alla propria scuderia 5 nuovi team. Tra le esclusive sono stati mostrati i giochi d’azione Halo Infinite e Gears 5 e l’automobilistico Forza Horizon 4 ma non sono mancati altri titoli attesissimi dai fan quali gli action Shadow of the Tomb Raider, Cyberpunk 2077 e Kingdom Hearts III. Sony, dal canto suo, ha risposto concentrandosi su una decina di titoli attentamente selezionati di enorme impatto. Per cominciare, Death Stranding, il nuovo titolo dell’osannato game designer giapponese Hideo Kojima di cui però nessuno sa ancora nulla di concreto. Mostrati anche The Last of Us – Part II, Marvel’s Spider-Man e Ghost of Tsushima, un nuovo gioco ambientato nel Giappone feudale ed ispirato alle opere cinematografiche di Akira Kurosawa. Nintendo ha mostrato ancora meno titoli ma tutti certamente interessanti per i suoi fan: il più importante è stato sicuramente Super Smash Bros. Ultimate, la versione per Nintendo Switch del popolarissimo picchiaduro. Ma non sono nemmeno mancati i Pokémon, con la doppia versione Pokémon Let’s Go Pikachu e Let’s Go Evee e Super Mario Party le quali puntano a riunire i giocatori del gioco mobile Pokémon GO e quelli della serie classica che conosciamo sin dagli anni 90. L’arrivo, durante i giorni della fiera, del famoso Battle Royale Fortnite su Switch ha saputo colpire nel segno, entusiasmando i fan del marchio nippo-

nico. Gli sviluppatori di terze parti, non legati ad una console particolare quindi, non sono di certo rimasti a guardare. Ubisoft ha mostrato diversi titoli degni di nota tra cui il nuovo Assassin’s Creed Odyssey ambientato nell’antica Grecia, il nuovo gioco di Michel Ancel, Beyond Good and Evil 2, e Transference, il nuovo titolo in realtà virtuale realizzato in collaborazione con l’attore Elijah Wood. Nei prossimi mesi arriveranno poi anche i nuovi capitoli di serie apprezzatissime quali FIFA 19, Call of Duty Black Ops 4 e Battlefield V. Dovendo scegliere il gioco più interessante in assoluto per l’E3 2018, la scelta cadrebbe su Cyberpunk 2077, titolo in sviluppo sin dal 2012 da parte dei polacchi di CD Projekt Red. Lo studio di Varsavia sta creando un mondo ipertecnologico basato sui giochi di ruolo cartacei Cyberpunk e Cyberpunk 2020, usciti tra il 1988 e il 1990. Nel mondo futuristico del gioco di CD Projekt Red il gamer impersonerà un mercenario alle prese con la sopravvivenza nella pericolosissima Night City, una metropoli fittizia dell’altrettanto inventato Stato Libero della California del Nord. Cyberpunk 2077 ha impressionato favorevolmente stampa e pubblico con delle meccaniche di gioco che miscelano in modo quasi inedito diversi generi: sparatutto in prima persona e gioco di ruolo. In questo titolo saremo liberi di scorrazzare per la metropoli, interagendo con un enorme numero di personaggi dediti ai loro loschi affari: dai boss della malavita agli agenti corrotti di malvage e potentissime corpo-

Il pubblico scopre le novità Nintendo. (multivu.com)

razioni. Il tutto condito con una salsa di impianti cibernetici e un discreto grado di violenza e altri temi adulti. Sfortunatamente non è stata annunciata una data d’uscita ma dagli sviluppatori della fortunata saga di videogiochi The Witcher, ci aspettiamo grandi risultati. Se dall’E3 ci aspettavamo qualche novità tecnologica, siamo però rimasti un po’ insoddisfatti. L’unica vera innovazione l’ha presentata Nvidia, un costruttore di schede grafiche per PC. Nel suo stand è stato mostrata una pri-

ma versione di una tecnica denominata ray tracing. Si tratta di una tecnologia usata dagli studios d’animazione e di effetti speciali per il cinema che sta per arrivare anche nei videogiochi. Peccato che per usare questa tecnologia serva un computer dal costo di 60’000 dollari statunitensi. Tuttavia, quando i costi saranno più abbordabili vedremo un salto qualitativo decisamente degno di nota per quanto riguarda il grado di realismo dei videogames. Il progresso tecnologico non si arresta mai. Annuncio pubblicitario

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Società e Territorio

I media riflettono la società

Incontri Guido Locarnini sta per compiere cento anni, ci racconta l’esperienza come direttore

del «Corriere del Ticino» e riflette sul vuoto spirituale che oggi contagia anche i media Natascha Fioretti Quando ci incontriamo nello studio di casa sua a Lugano, la prima cosa che l’ex direttore del «Corriere del Ticino» mi racconta pieno di orgoglio, come se fosse stato ieri, è la visita di Hubert BeuveMéry, numero uno di de Gaulle, fondatore e direttore di «Le Monde», al suo giornale, al quotidiano che diresse dal 1969 al 1982. «C’era una certa simpatia tra di noi. Citavamo spesso “Le Monde” e venne a vedere che cosa facevamo». Per quest’uomo originario di Monte Carasso, nato a Bellinzona nel 1919 ma formatosi Oltralpe, felicemente imbevuto della cultura germanistica respirata prima in famiglia, poi durante gli studi a Heidelberg e a Berna e i suoi primi incarichi in Svizzera tedesca, quando assunse la direzione del CdT, «apertura» e «sguardo al futuro» furono da subito due concetti chiave sui quali costruire la sua idea di giornale. Come scrisse nel suo editoriale del 2 giugno 1969, era un momento cruciale per la testata, «un periodo di delicata provvisorietà» visto che si stava lavorando da due anni per unire tipografia e redazione e trasferirle in una nuova e unica sede. Il termine provvisorietà, che va a braccetto con cambiamento, ci riporta alla nostra attualità e allora con Guido Locarnini siamo partiti proprio da qui, dagli inizi e dal tipo di quotidiano che si è trovato a dirigere. «La situazione che trovai come direttore del CdT era, ovviamente, radicalmente diversa da oggi: alle notizie diffuse dalle due agenzie stampa svizzere si aggiungevano quelle di cronaca locale. La redazione del CdT era costretta a lavorare entro ristretti limiti di uno spazio locale estremamente esiguo. Per il direttore si trattò di sondare – meglio “scardinare” – un mondo ancora tradizionalmente chiuso sul passato dell’Ottocento ticinese, senza che si rendesse conto di quanto andava perso negandosi all’apertura

verso orizzonti nuovi di regioni confinanti, come la Svizzera tedesca. Il futuro era già da tempo imperante nei giornali più importanti e nelle agenzie stampa d’Oltralpe e della Germania, ove io stesso avevo già fatto le mie prime, positive esperienze giornalistiche. Mi sono trovato a che fare con un piccolo mondo locale rimasto retrogrado nelle mani di interessi vari, ma sempre personali, mai degli interessi generali della comunità. Al CdT ho operato su due piani: all’interno della redazione, cercando di ottenere una sola voce comune grazie al confronto delle opinioni personali dei redattori: la voce del giornale, la voce di un lavoro di gruppo. E per quel che concerne l’esterno, mi sono adoperato a favore dell’apertura verso i lettori di altri regioni, non da ultimo con l’introduzione di una particolare rubrica dove i lettori potevano esprimere liberamente suggerimenti, consensi e anche dissensi. A pari tempo, l’apertura verso l’esterno è stata facilitata dai rapidi progressi della tecnica tipografica e dei sistemi di spedizione. La voce del nuovo CdT poteva così raggiungere anche i suoi lettori a Berna, Zurigo e Ginevra ma anche a Milano, Roma e Parigi». Assiduo lettore di «Le Monde», l’«Express», la «Frankfurter Allgemeine Zeitung», il «Corriere della Sera», estimatore di Montanelli, Spadolini e Raymond Arond, per il suo giornale scelse una strategia chiara «libertà, democrazia, lavoro di squadra per la comunità e apertura al futuro, una formula che incontrò rapidamente il consenso del pubblico». Era un momento fervente per il giornale e anche in ambito scientifico, tecnologico e sociale stavano avvenendo importanti cambiamenti. Ma, allo stesso tempo, si accentuava il divario tra le conquiste materiali dell’uomo e la sua crescente insoddisfazione spirituale, proprio come oggi «i vertiginosi

Biografia Guido Locarnini è nato a Monte Carasso nel gennaio 1919. Dopo le scuole a Bellinzona e il liceo Papio ad Ascona, studia a Berna, Heidelberg e di nuovo a Berna, dove nel 1946 consegue la laurea in germanistica; in seguito studia diritto. Lavora nell’ambito giuridico ma, grazie alla sua versatilità assume ruoli di alto livello nelle redazioni giornalistiche; infatti dopo un lungo periodo alla direzione dell’agenzia di stampa Corrisponden-

za politica svizzera (SPK), è incaricato dalla Fondazione «Corriere del Ticino» della ristrutturazione del giornale e dell’istituzione di un complesso editoriale. Dopo la sua partenza dal «Corriere del Ticino» è stato membro del Comitato nazionale svizzero dell’Istituto internazionale della stampa, membro del Consiglio della stampa della Federazione svizzera dei giornali e direttore dei Corsi di giornalismo della Svizzera italiana.

Guido Locarnini è stato direttore del CdT dal 1969 al 1982. (CdT Gonnella)

progressi della scienza e della tecnica (non da ultimo nel campo dei media), come pure il diffondersi e il prevalere del materialismo sono all’origine della crescente insoddisfazione spirituale e della profonda crisi che caratterizza la società odierna. Stiamo vivendo una crisi di civiltà. Certo: ma le grandiose scoperte della scienza e della tecnologia dell’immediato dopoguerra, superando le spaventose distruzioni della seconda ancor più terribile guerra mondiale, hanno portato l’uomo a calcare per la prima volta il suolo lunare, lo hanno portato alla ricerca dell’origine dell’universo e, nel contempo, alla ricerca della sua stessa origine, della mirabile complessa macchina umana». Nell’epoca delle bufale non si può non chiedersi, quando si parla di crisi di civiltà, se i media non hanno qualche responsabilità: «i giornalisti riportano quello che è la società come tale, dominata dal materialismo dilagante, riflettono la società in cui si muovono, quindi non bisogna rendere nei loro confronti un verdetto di colpevolezza. Emblematico, il caso del “Caffé”: i giornalisti hanno riportato un caso di malasanità. Dal processo nei loro confronti è scaturita la priorità della libertà di stampa. I giornalisti hanno esercitato un dovere morale di informazione. I giornali e i giornalisti che diffondono notizie spazzatura, invece, incarnano, in negativo, il ruolo di giornalista e ri-

specchiano la perdita di valori della società odierna. Viviamo le conseguenze di una crisi di crescita civile e di un vuoto spirituale anche nel mondo dei media». Il «Corriere del Ticino» di allora aveva i suoi corrispondenti dall’estero e guardava al di fuori dei suoi confini con molta attenzione e interesse. Nell’era della globalizzazione si tagliano risorse e lo sguardo diventa sempre più locale «la globalizzazione è una “rivoluzione” che ha comportato il mutamento radicale della società moderna. A questo mutamento radicale si aggiunge, ultimo in ordine di tempo, l’avvento di una nuova forma di rivoluzione, quella informatica e, di pari passo, di una nuovissima forma di informazione globale: i suoi numerosi vettori, quali internet e i social media, sono all’origine di un nuovo assetto dell’informazione internazionale che ha già mietuto delle vittime in seno al panorama mediatico nazionale e internazionale». Questo ci porta al triste epilogo del «Giornale del popolo», unico quotidiano cattolico della Svizzera «la perdita di un giornale è grave. Riduce e minaccia insieme la forza del gruppo già minoritario della Svizzera trilingue, una delle basi costitutive del nostro Paese e, in generale, costituisce una grave perdita per il pluralismo culturale». A proposito di cultura, la felice stagione della direzione di Guido Locar-

il papà allena la squadra juniores di Malters e la mamma lavora come parrucchiera. L’autore, supportato anche dall’illustratrice Anna-Lina Balke, ci fornisce ritratti in chiaroscuro dei tre atleti, dei quali fa emergere, certo, la passione, la tenacia, il talento, ma anche le fragilità e le zone d’ombra. Le occasioni mancate di vittorie spettacolari per Messi, la sua genialità in campo, le controversie fiscali, le diagnosi mediche, il suo carattere riservato; il lungo successo di Buffon ma anche la depressione, la dipendenza dalle scommesse, la solitudine tra i pali; il chiodo fisso di voler diventare la «migliore calciatrice del mondo», che porterà Ramona Bachmann a interrompere gli studi e a gettarsi in campo con «l’ossessione di fare bella figura», pensando più a sé che alla squadra. I campioni e le campionesse

sono esseri umani: cadono, sbagliano, ma si rialzano, e in fondo è questo che li rende campioni davvero.

nini partorì, con il prezioso apporto di Giovanni Croci, un supplemento culturale quindicinale dal respiro europeo che ebbe un grande successo non solo in Ticino ma anche in Italia, tanto che molti lettori chiesero di averlo in abbonamento separato dal giornale «le cose stanno in piedi quando qualcuno le sostiene. Era un quindicinale di pura letteratura al quale collaboravano firme di tutto rispetto, italiane e ticinesi». Guido Locarnini, lei sta per raggiungere un traguardo importante, un secolo di vita. Con quale riflessione vuole congedarsi dai lettori? «Il genio umano che ha portato l’uomo sulla luna, ha lanciato verso Marte la sua sonda d’avanguardia, ha permesso interventi a cuore aperto, la fecondazione in provetta, ha operato il proprio cervello, ha affidato alla mano di robot interventi chirurgici, non è riuscito a far tacere il peggiore istinto dell’uomo: quello che provoca e alimenta le spaventose e più umilianti guerre, quelle fratricide, nei popoli e nelle stesse nazioni più civili del mondo». Fonti

Mario Agliati, La storia del Corriere del Ticino, Volume II, Edizioni San Giorgio. Enrico Morresi, Giornalismo nella Svizzera italiana 1950-2000, Armando Dadò Editore.

Viale dei ciliegi di Letizia Bolzani Martin Helg (illustrazioni di Anna-Lina Balke), Campioni di calcio. Talento, passione e rischio. Lionel Messi, Gianluigi Buffon, Ramona Bachmann, ESG. Da 10 anni «Nonostante ci siano altri dieci argentini responsabili della sconfitta, il numero 10 porta da solo il peso della delusione sulle sue spalle sottili». A volte i campioni possono anche essere raccontati così. Fragili e delusi. Non solo festanti, trionfanti, performanti. Le spalle sottili dietro le quali campeggia, su sfondo bianco e azzurro, il numero 10, sono quelle di Lionel Messi, dopo la finale di Coppa America contro il Cile, persa 2 a 4 ai rigori, quando il suo pallone «supera la traversa e si perde nel cielo stellato». A raccontarci Messi, e Buffon, e la fuoriclasse svizzera Ramona Bachmann,

è il giornalista sportivo della NZZ Martin Helg nella serie «Campioni di calcio» delle ESG Edizioni Svizzere per la Gioventù, giunta con questo libretto al secondo capitolo (il primo era dedicato a Cristiano Ronaldo, Xherdan Shaqiri e Zlatan Ibrahimovič; e altri ne seguiranno). Questo «Campioni di calcio 02» capita proprio in clima da Mondiali e potrà costituire una lettura estiva per parecchi ragazzini. Dei tre campioni viene raccontata la vita, soffermandosi anche, e con efficacia, sugli anni giovanili, quando ad esempio un piccolo Lionel adolescente, a Barcellona, ha nostalgia di casa; o quando Gigi, in vacanza dagli zii in Friuli, tira in porta tra due mucchietti di neve e passa le serate a sistemare le figurine dei calciatori con il cugino; mentre la bimbetta Ramona trascorre i sabati in un passeggino a bordo campo, mentre

Beatrice Masini, Quello che ci muove. Una storia di Pina Bausch. Illustrazioni di Pia Valentinis, Edizioni Rue Ballu. Da 11 anni Non le interessava come si muovono le persone, ma «quello che le muove». Non era una danza «carina» e codificata di corpi giovani, levigati ed eleganti, la sua. Ma una danza rotta dal dolore, illuminata dall’energia vitale, affaticata dal peso degli anni, una danza bellissima e tragica come la vita, una danza che cercava instancabilmente di portare alla luce ciò che le persone hanno dentro, quello che le muove, appunto. Rendere visibile l’invisibile, questo è stato il lavoro della grande coreografa tedesca Pina

Bausch (1940-2009) e del suo Tanztheater. I suoi ballerini, giovani e vecchi, per lei sono delle «perle», uno per uno, e ciascuno in forma diversa. Spesso ricordano che lei diceva loro «la tua fragilità è la tua forza». Pochi altri maestri hanno saputo scavare così in fondo alle origini del gesto. Ma se è sempre difficile esprimere in parole qualcosa di così immediato, precario e visivo come la danza, immaginiamoci quanto sia ancor più arduo rendere l’idea della danza di Pina Bausch, che non racconta, ma, fugacemente, esprime. Servono parole delicate e precise, che facciano luce su squarci di scena, che diano respiro alle emozioni. Affidandosi alla scrittura di Beatrice Masini (con il controcanto delle immagini di Pia Valentinis) la casa editrice non poteva fare scelta migliore. Lettura consigliatissima, non solo alle giovani ballerine.


Azione Settimanale della Cooperativa Migros Ticino • 2 luglio 2018 • N. 27

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Società e Territorio Rubriche

L’altropologo di Cesare Poppi La nave dei folli Come spesso succede in questi casi in principio era il ventre molle e profondo di una cultura popolare in uscita dal Medioevo che coniugava, annaspando nel nuovo che si intravvedeva all’orizzonte, arcaiche paure ed aspettative ancora sfuocate. Nessuno può dire quando quelle ombre presero corpo, per così dire, ma è probabile che alla radice di tutto vi sia stata la credenza, per quanto vaga, delle origini oltremarine della Peste Nera che fra il 1347 ed il 1352 si portò via un terzo della popolazione europea. Maturarono forse allora dicerie, mezze verità o semplici «sentito dire» presto diventati certezze e quindi paure e dunque ossessioni relative a quella che divenne famosa come la Stultifera Navis – la Nave dei Folli nelle fonti italiane, Narrenschiff in quelle tedesche, Ship of Fools per le fonti inglesi. La sostanza della credenza si riferiva ad una nave carica di pazzi che vagava lungo i fiumi e le vie d’acqua interne al continente quando ancora il trasporto fluviale era di gran lunga più importante del pressoché inesistente trasporto

via terra. Così come la peste, La Nave dei Folli colpiva senza preavviso attraccando nottetempo per poi scatenare il suo equipaggio in letali, contagiose scorribande nelle operose città mercantili del Nord Europa – e non solo. Erano, si badi, gli anni nei quali si guardava con fare inquisitorio ad ogni forma di diversità: così come gli ebrei e le streghe erano ritenuti primi responsabili della diffusione della Peste Nera, così l’idea di una pazzia contagiosa pronta a sovvertire l’ordine costituito serpeggiava fra taverne e mercati pronta a venire a galla – per così dire – in occasionali, improvvise esplosioni di panico tanto virali quanto effimere. Come spesso accade per quelle vox populi destinate a diventare pregiudiziali paure, le credenze relative alla Stultifera Navis avevano una fonte fattuale nelle politiche di salute pubblica – per così chiamarle – praticate dalle autorità nei confronti della follia patologica. Come ricordava Michel Foucault nell’indimenticata Storia della Follia nell’Età Classica, spesso i «matti» erano catturati e messi su

battelli fluviali che li avrebbero trasportati in altre città e quivi abbandonati al loro destino. Così toccò ad un folle che girava nudo per la città di Francoforte nel 1399. Qualche anno dopo la stessa sorte toccò ad un pazzo criminale a Magonza. Spesso questi passeggeri scomodi venivano buttati a terra prima della destinazione pattuita (quando non venissero – possiamo aggiungere – gettati in acqua senza tante cerimonie). Come quel fabbro di Francoforte, pazzo sì ma non abbastanza da non riuscire a tornare per ben due volte, prima di essere definitivamente confinato a Kreuznach. Ma, come altrettanto spesso accade, la credenza popolare non era totalmente figlia di se stessa né frutto di mera ignoranza. L’idea di una Nave dei Folli compare nelle fonti letterarie per la prima volta nella Repubblica di Platone (487b-497a). In questo passaggio Socrate discute la metafora di un equipaggio incompetente ed indisciplinato che cerca di sottrarre il comando ad un capitano bolso e poco esperto. Da veri populisti – direbbero alcuni di noi

oggi – gli ammutinati credono che per rimediare all’inefficacia del comandante basti prendere il controllo del timone – laddove il pilota esperto e prudente che prova a far notare come la nave si governi facendo anzitutto attenzione ai venti ed alle correnti, agli astri ed alle stagioni, viene trattato come un sognatore con la testa fra le nuvole e messo da parte. Con la pubblicazione nel 1494 dell’opera Stultifera Navis da parte di Sebastian Brandt, la metafora della Nave dei Folli acquista una vis polemica che accompagnerà la riflessione sulla Follia per tutta l’Età Moderna. Il giovane Brandt, docente all’Università di Basilea, pubblica il suo capolavoro in occasione del famoso Carnevale di Basilea. In settemila versi narra il viaggio disastroso, grottesco e demenziale di una nave carica di folli – che per il Medioevo sono sinonimo dei peccatori – che navigano allo sbaraglio nel periodo che precede la Quaresima, metafora di punizione eterna se non preceduta dal pentimento. L’opera di Brandt diven-

terà il modello retorico per tutta una serie di opere – dall’Elogio della Follia di Erasmo da Rotterdam a Rabelais col suo Gargantua et Pantagruel e tanti altri – laddove la Follia diviene, paradossalmente, da un lato capro espiatorio e dall’altro specchio della verità di un mondo – quello sì – ormai impazzito e reso ingovernabile dai «pazzi veri» che pretendono al contrario di agire in nome della Ragione. Da Shakespeare a Bachtin, ecco allora che la Stultifera Navis dei giullari e dei buffoni – che minaccia ad ogni marea favorevole di attraccare al primo porto d’approdo – diviene invece misura di Ragione. Così come, paradossalmente, ricerche recenti delle Università di Ferrara e di Oslo certificano che i 25 milioni di morti della Peste Nera non siano dovuti alle pulci portate dai ratti dall’Oriente ma ai nostranissimi pidocchi che parassitavano gli uomini – ebrei, streghe, pazzi o normalissimi cristiani che fossero. Tutti assieme, senza sconti per nessuno. Ogni riferimento a fatti o persone realmente esistenti etc…

bellissimo, suscita negli altri (soprattutto nella massa informe dei connessi digitali) successo e ammirazione. In noi adulti, o «più che adulti», i comportamenti sgarbati che ne conseguono provocano irritazione, uno stato d’animo che condivido pienamente con lei, ma solo pochi hanno il coraggio di reagire perché tutto sembra ormai inevitabile. Le conseguenze più gravi riguardano però i giovani e in particolare gli adolescenti. Rimasti privi di valide figure di riferimento, sottoposti alle suggestioni della «società dello spettacolo», si sentono inadeguati rispetto agli ideali estetici proposti, anzi imposti da messaggi insinuanti e insistenti. Cercano allora di omologarsi agli altri sino a diventare indistinguibili. In un mondo piatto come un elettroencefalogramma piatto, tutti vengono trattati come giovinastri ed è questo il modello che gli stranieri recepiscono e a cui si conformano. Col paradosso che il mio portinaio mi dà del «tu» mentre io gli

rispondo con il «lei», anche se potrei essere sua madre. Gli osservatori più pessimisti traggono da questi comportamenti previsioni catastrofiche sul futuro della nostra civiltà. Ma io non sarei così negativa, penso che il crollo di un’organizzazione sociale plurisecolare, come il patriarcato, non possa essere sostituto nel giro di poche generazioni da un altro modello di convivenza. Ci vorrà molto tempo perché la parità superficiale, la familiarità anaffettiva e l’insignificanza verbale che caratterizzano la nostra epoca si trasformino realmente in eguaglianza, solidarietà, fratellanza. È con questa speranza che dobbiamo procedere oltre le rovine del passato.

che al convegno di Trento, affrontando il tema dell’automazione che, certo, porta via lavoro, ma, si precisa, soprattutto nelle attività più faticose e meno produttive. E, quindi, apre occasioni da cogliere, sul piano della ricerca scientifica e delle specializzazioni tecniche. Da qui, l’invito rivolto in particolare alle donne, ancora latitanti in questo settore, anche in Svizzera. Allora, ragazze datevi da fare scegliendo indirizzi che non rientrano nella tipica tradizione femminile. Tanto più che le differenze di genere non concernono l’intelligenza. Con la tecnologia più avanzata bisogna, infine, imparare a convivere. Com’è successo nell’ambito domestico, in cucina. Forni a microonde, frullatori, pentole a vapore, alimenti base già pronti, ecc. non hanno eliminato il contatto diretto con la preparazione del cibo. Anzi, si sta assistendo a una

reazione di segno opposto: il ritorno ai fornelli, però volontario e persino ambizioso. Grazie al supporto di utensili efficienti, sembra rinato il piacere per l’invenzione di nuove ricette e tendenze, favorito dal rilancio generale della gastronomia, che va di moda. E che, talvolta, viene associata alla nostalgia: i famosi piatti della nonna, sani e genuini, frutto di fatiche altrettanto sane e spontanee, di cui riappropriarsi. Al punto da riproporre persino il bucato a mano, di cui, per loro fortuna, i giovani non hanno ricordo. Nella mia memoria ha lasciato l’indelebile immagine di un piccolo inferno casalingo, dove lavandaie, dalle mani gonfie e screpolate, erano alle prese con lenzuola fumanti, estratte da caldaie roventi. Ma, negli USA, un’organizzazione di benpensanti anti-tecnologia invita a ripristinare l’usanza «romantica» dei panni lavati in casa e appesi ad asciugare sui balconi.

La stanza del dialogo di Silvia Vegetti Finzi Una parità superficiale Gentile Signora Finzi, mi rivolgo a lei per una risposta ad un problema seppur banale, del quale non so se io sia in torto. Sempre più spesso nei negozi ti danno del tu, «ciao, cara, amore», persone che potrebbero essere mie figlie o addirittura nipoti. Questo modo di fare mi dà fastidio, ed un giorno alla signora che mi serviva al negozio del paese le ho fatto notare quale sia il mio nome di battesimo, come pure le ho detto che poteva pure darmi del tu come dire ciao visto che quasi ogni giorno mi reco per la spesa, ma tutte queste paroline a me non garbavano. Il giorno seguente ha chiesto per quale motivo, al che ho risposto che lo trovavo inopportuno, «oltretutto non conoscevano nemmeno il mio nome», come pure sia una mancanza di rispetto. Apriti cielo, ora non salutano quasi più, se sono alla cassa ti si rivolgono in modo gelido e, prima se avevo la moneta me la chiedevano, ora rispondono negativamente. Queste signore sono straniere, però mi chiedo se ora pure

nelle scuole di apprendistato hanno questa teoria? La ringrazio per la sua gentil risposta. / F. Gentile signora, spesso, come in questo caso, le questioni più piccole svelano i problemi più grandi. Dietro l’eccessiva familiarità della sua negoziante si scorge infatti, in filigrana, il crollo della società tradizionale. La struttura verticale delle relazioni sociali, dove il vertice della gerarchia era occupato dal padre e da tutte le figure che lo rappresentavano, il re, il papa, il comandante in capo, il prefetto, il preside, il primario, sino al caporeparto e al poliziotto, è collassata, sciolta in quella che il filosofo Bauman definisce la «società liquida». Dalla fine del Patriarcato non è emersa una collettività matriarcale, ma una personalità individualista, indifferente, centrata sull’Io e suo Mio. Insensibile alle regole e alle Leggi, il nuovo Narciso ignora le differenze: le gerarchie di età, professionalità, esperienza e autorevo-

lezza. Gesti di riconoscimento come alzarsi in piedi quando entra in classe l’insegnante, cedere il posto sui mezzi pubblici alle persone anziane, aprire le porte lasciando il passo a una signora sono ormai entrati in disuso. E non è tanto una questione di galateo quanto di identità e di reciprocità. Nello stesso tempo parole affettive come «caro», «amore», «ciao», mortificate in un chiacchiericcio insensato, spese a vanvera, rivelano un’inflazione della lingua che depaupera la nostra cultura. Spesso sembra di essere all’asilo infantile, ma i bambini sono più saggi di noi. «Uno vale uno» è lo slogan dell’organizzazione politica che meglio esprime questo superficiale appiattimento. La struttura verticale della società tradizionale imponeva un’etica, per certi versi discutibile – come quando l’autorità si trasforma in autoritarismo – ma pur sempre un’etica. Ora gli ideali sono rappresentati invece da un’estetica massmediatica sempre più esigente. Vale chi, essendo riconosciuto bello, anzi

Informazioni

Inviate le vostre domande o riflessioni a Silvia Vegetti Finzi, scrivendo a: La Stanza del dialogo, Azione, Via Pretorio 11, 6900 Lugano; oppure a lastanzadeldialogo@azione.ch

Mode e modi di Luciana Caglio C’è anche una tecnologia amica: delle donne È una voce fuori del coro, che merita di essere ascoltata. Arriva da una fonte autorevole: il recente Festival dell’economia di Trento, dove , affrontando il tema «Lavoro e tecnologia», si è dato risalto agli aspetti positivi, persino virtuosi, di uno sviluppo spesso demonizzato. Ma a vanvera, senza tener conto di quanto e come la tecnologia, con le sue molteplici applicazioni pratiche, abbia agevolato la vita quotidiana a tutti, in particolare alle donne. Insomma, è il caso di definire il progresso tecnico-industriale «women friendly»: con le sue invenzioni e acquisizioni ha creato premesse favorevoli all’emancipazione femminile. Sganciate dalle pesanti mansioni domestiche, che un tempo spettavano esclusivamente alle casalinghe, si apriva per le donne un nuovo spazio di vita, un tempo libero da impiegare diversamente. In attività professionali retribuite, primo passo

verso l’autonomia e una parità, ancora lontana. Ma, appunto, queste conquiste materiali, a prima vista modeste, contribuirono ad abbreviare le distanze. Tutto era cominciato, con la prima rivoluzione industriale, quando nelle città dei paesi più evoluti, l’acqua corrente, necessaria nelle fabbriche, arrivò anche nelle abitazioni. Fu, poi, la volta dell’elettricità, del gas, dei termosifoni, come dire ambienti caldi e illuminati, cibi subito cotti e pulizie agevolate dall’aspirapolvere. Dapprima a tappe lente, il ritmo del cambiamento si accelera nell’ultimo dopoguerra. Sarà il momento topico, segnato dall’avvento in massa di frigoriferi, congelatori, lavatrici, lavastoviglie, asciugatrici, destinati a un pubblico ormai allargato, di consumatori. Fu chiamata la «rivoluzione degli elettrodomestici bianchi»: aveva reso accessibili le

cucine, cosiddette da sogno, che, prima di allora, si vedevano soltanto nei film americani. Quel periodo, dagli anni 50 ai 70, comportò, anche da noi, in un Ticino in pieno risveglio bancario e imprenditoriale, una radicale trasformazione di abitudini e di mentalità. Protagoniste, appunto, le donne che maturarono nuove scelte e nuove ambizioni, anche sfruttando le opportunità offerte da una tecnologia che stava toccando ogni ambito. Alimenti surgelati, liofilizzati, tessuti ingualcibili, idrorepellenti, indumenti termici, pranzi pronti da asporto, biancheria usa e getta, e via enumerando prodotti e strumenti, sempre più performanti, che ci aiutano. E addirittura ci sostituiscono, come sta succedendo nell’era dei robot, anche a uso domestico. Con la loro autonomia sorprendono e allarmano. Si è parlato di «incombenti robot» an-


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Azione Settimanale della Cooperativa Migros Ticino • 2 luglio 2018 • N. 27

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Azione Settimanale della Cooperativa Migros Ticino • 2 luglio 2018 • N. 27

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Ambiente e Benessere L’indeterminata Bangkok Non una grandeur in salsa thai, ma una città che unisce la cultura al senso della vita pagina 9

I multiformi stampi da cucina Alcuni cibi non potrebbero essere realizzati senza un contenitore ad hoc che dia loro una forma precisa

Settant’anni di Porsche Un’esposizione speciale resterà aperta nel Museo Porsche di Stoccarda sino al 6 gennaio ’19

La natura schiva dell’orso Marco Croze, cacciatore e collaboratore della rivista «Wilde» narra la sua esperienza

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Libertà ma anche cultura Viaggiatori d’Occidente Il continuo cambiamento è la natura profonda di Bangkok

Massimo Morello, testo e foto

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«Bangkok sta a cavallo del confine tra acre e dolce, soffice e duro, sacro e profano. È una sega circolare di seta, un martello pneumatico laccato, una seduzione cinta d’acciaio, una preghiera digitale» ha scritto Tom Robbins nel romanzo Villa Incognito. Il libro è del 2003 ma ancora oggi è difficile trovare una descrizione migliore di Bangkok.

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Si vince rispettando le risorse ambientali

Bangkok è, in parte, un laboratorio della complessità, dall’altra è considerata invece un santuario di vizi

Estate sostenibile Si chiama Eco-percorrendo, il gioco dell’oca in versione ecologica che fa riflettere

su risorse ambientali, energia, mobilità, rifiuti, rumori e biodiversità

Questa la tavola da gioco scaricabile da internet attraverso il seguente link: https://bit. ly/2ttEd9o.

Elia Stampanoni I tradizionali giochi da tavolo – come scriveva Guido Grilli su «Azione» del 18 dicembre 2017 – sono ancora d’attualità e, nell’era dei videogiochi e delle tecnologie moderne, non escono per nulla sconfitti e neppure sembrano prossimi all’estinzione. A confermarlo è pure una versione moderna del gioco dell’oca pubblicato l’anno scorso dal Dipartimento del territorio, dall’Azienda cantonale dei rifiuti e da Ticino Energia, dove ad essere riviste non sono tanto le modalità o le semplici regole, ma i principi che permettono di avanzare di una, due o tre caselle, di perdere un turno oppure di retrocedere. Il gioco, Eco-percorrendo – perfetto per trascorrere le giornate estive in compagnia – si sviluppa su un tavoliere sul quale è disegnato un cammino, contrassegnato con numeri e immagini. Se nella variante tradizionale le caselle speciali rappresentano delle oche, da cui il nome del gioco, in questa troviamo disegni e azioni con un riferimento all’ambiente. Non vengono

comunque stravolti i concetti del gioco, ossia il percorso, la numerazione e l’applicazione di certe strutture numeriche, dando seguito a un divertimento d’origini molto antiche che nella sua forma moderna si presuppone sia nato nella seconda metà del XVI secolo. L’adattamento ecologico si basa sulla gestione sostenibile dell’ambiente, toccando settori come i rifiuti, la mobilità, i consumi e il territorio. Chi per esempio approda alla casella numero tre potrà avanzare velocemente fino al numero sei per aver consegnato correttamente il vetro al centro di raccolta del proprio comune. Un’abitudine assai popolare nel nostro Paese, dato che sono molte le economie domestiche a operare una separazione accorta del vetro, il cui tasso si avvicina sempre più al 100%, come dimostrano i dati di VetroSwiss. Un’operazione facilitata di certo dai circa 15mila contenitori per la raccolta presenti oggi in tutta la Svizzera, gestiti principalmente da comuni e città. Altri comportamenti adatti che permettono di procedere nel gioco sono

il riutilizzo delle bottiglie in PET, il Pedibus, spegnere le luci prima di uscire dalla propria camera o raccogliere la spazzatura da terra durante una gita. Quest’ultimo atteggiamento è per esempio premiato con un balzo di quattro caselle e nella realtà diventa viepiù d’attualità con l’aumento del littering, il malcostume che vede i rifiuti gettati o abbandonati con noncuranza nelle aree pubbliche. Un gesto spesso eseguito senza volontà, quasi come un automatismo mal assimilato e dalle conseguenze negative: nefaste per l’ambiente e dispendiose per il contribuente. Il gioco dell’oca prosegue il suo viaggio sostenibile verso la casella numero 100 superando altri ostacoli in tema di rifiuti e risparmio energetico che invogliano i giocatori a riflettere sull’importanza della gestione delle nostre risorse e del nostro territorio. Perde per esempio un turno chi libera la sua tartaruga esotica nel fiume, chi disturba il vicino con il volume troppo alto della sua radio oppure chi getta nella spazzatura un panino mangiato solo a metà.

Sul tavoliere ci sono anche le tradizionali caselle di arretramento: usi il WC o il caminetto come spazzatura, butti la lattina nel prato, apri il frigo e non lo richiudi, mangi frutta e verdure fuori stagione, getti gli scarti dei lavori di giardinaggio nel sacco dei rifiuti? Tutti modi di fare che penalizzano il giocatore nel suo viaggio verso la meta. Molte sono però le opportunità per fare un balzo in avanti, per tirare due volte il dado e quindi per avvantaggiarsi sugli avversari con azioni adeguate. Tenere spenti gli apparecchi elettrodomestici inutilizzati o ridurre gli imballaggi sono alcune delle caselle che permettono di giocare un’altra volta. Il gioco è adatto alle famiglie ma è rivolto anche alle scuole, come ci conferma Mara Bolognini, addetta all’informazione per l’Azienda cantonale dei rifiuti, ACR: «Sì, con il settore scolastico da anni si collabora attivamente e proficuamente proponendo momenti di formazione, giornate di sensibilizzazione, animazioni e attività didatti-

che. Questo Eco-percorso è una sorta di gioco dell’oca in cui si toccano diversi temi ambientali che ogni docente potrà in seguito elaborare a piacere, per esempio agganciandosi alla realtà comunale o alle azioni quotidiane dei singoli alunni». Proprio in quest’ottica il tabellone propone anche spunti da approfondire con esperienze pratiche, esercizi, percorsi didattici o letture, visitando i portali internet proposti. «Lo scopo – precisa Mara Bolognini – è anche far discutere e riflettere su argomenti come la biodiversità, l’energia, la mobilità, l’aria, l’acqua, i rifiuti, il rumore o le foreste». La versione digitale del gioco in formato A2 si può scaricare direttamente dai siti sotto indicati, mentre in formato cartaceo è ottenibile gratuitamente facendone richiesta a m.bolognini@aziendarifiuti. ch o info@ticinoenergia.ch.

«La città del collasso»: così la definiva Gaia Scagnetti, studiosa della complessità, quando insegnava alla Chulalongkorn University, il più antico ed esclusivo ateneo della Thailandia. Il suo era un pensiero critico, non una critica. «È un collasso positivo: la città vecchia e quella nuova non si sono trasformate in qualcosa d’altro, sono collassate nello stesso punto… come una radice che riproduce altre piante». Attraverso queste contaminazioni si espande Bangkok. «Se vuoi capire Bangkok, però, devi scegliere se focalizzarti sui luoghi o sul movimento che generano. È il principio d’indeterminazione» dice Christopher G. Moore, scrittore che vive e ambienta qui i suoi noir. «Ho focalizzato la mia attenzione sulla contraddizione creata dal confronto tra tradizione e modernità, specie nella surrealtà urbana» concorda Tew Bunnag, scrittore e maestro di arti marziali, appartenente a una delle più nobili famiglie dell’ammart, l’élite thai, che ha scelto di vivere in bilico tra le contraddizioni. «La ricerca, anche nel fraintendimento, è importante» dice. «Serve per arrivare alla nozione di Dio». Nonostante Bangkok si riveli sempre di più un laboratorio della complessità, un incubatore di quel «pensiero debole» che ha preso atto della dissoluzione delle certezze e dei valori assoluti, da molti è rappresentata con un certo torbido compiacimento come un santuario di vizi, un «cuore di tenebra». È un’immagine alimentata anche dagli stessi noir di Christopher Moore o di John Burdett, ex avvocato inglese che fa muovere il suo personaggio, un investigatore con trascorsi da monaco, tra maghi, trafficanti e prostitute. Il romanzesco è anche realtà. Par-

La skyline di Bangkok ripresa dalla riva destra del fiume. (Sul sito www.azione.ch la galleria fotografica completa)

te della città, si dice, sta collassando per l’acqua pompata dal sottosuolo per alimentare le jacuzzi delle sale massaggio – un eufemismo per bordelli – grandi come alberghi: 120, quelle registrate. È un fenomeno che ha ragioni altrettanto profonde dell’acqua; si alimenta in una cultura edonistica, in una religione che non considera il sesso come un peccato capitale, nella storia degli anni Settanta, quando Bangkok divenne la meta dei militari americani in licenza dal Vietnam. In quegli stessi anni, Bangkok era l’ultimo terminale dei «vagabondi dell’Asia», in cerca di misticismi e paradisi artificiali. Per anni poi Bangkok è stata lo snodo di traffici d’ogni genere e santuario di trafficanti e rifugiati. Infine è divenuta la meta prediletta dagli espatriati (expat) attratti dal Paese del sorriso, del sanuk, la filosofia del divertimento, dove la pensione vale di più e la vecchiaia sembra sospesa. Alcuni ci riescono, per molti altri si rivela una delusione e scatena depressione, tanto da indurli al suicidio. È una vera e propria sindrome culturale. «È come confrontarsi con la prima nobile verità del Buddha, il dukka, l’inevitabile sofferenza che segna l’esistenza» dice Tew Bunnag. «A Bangkok vivi nella sensazione di questo sottile

equilibrio tra il dukka e il tentativo di cogliere ogni attimo di piacere che ti offre la vita». Un buon posto per trovare questo equilibrio, meditando in sale disse-

Un dettaglio dell’alta MahaNakhon Tower.

minate di cuscini a forma di pietra, è il BIA, il Buddhadasa Indapanyo Archives: un edificio dall’architettura organica, con le sue colonne sull’acqua del laghetto nel parco di Suan Rot Fai (accanto al famosissimo mercato di Chatuchak). Prende nome da Buddhadhasa Bhikkhu, «pensatore buddhista per il mondo moderno», secondo cui secolare e spirituale non sono entità separate. È anche alla sua filosofia che si ricollegano molti artefici dell’ultima metamorfosi di Bangkok che, come direbbe Gaia Scagnetti, sta facendo collassare gli stereotipi: sessuali, criminali, culturali. Parte del cambiamento, bisogna ammetterlo, va accreditato alla giunta militare al governo dal 2014, che vuole fare della capitale un simbolo di cambiamento, ordine, sviluppo: Bangkok 4.0 è lo slogan, l’obiettivo è trasformarla in una nuova Singapore, in termini strutturali e finanziari, grazie anche al sostegno della Cina. Il simbolo è la MahaNakhon Tower, il grattacielo più alto di Bangkok (314 metri), sovrastante il Central Business District. Non a caso è stato progettato da Ole Scheeren, archistar tedesco che lavora con l’Office for Metropolitan Architecture di Pechino. L’intero perimetro della torre è stato scomposto in parallelepipedi di cristal-

Siti utili

www.ti.ch/sviluppo-sostenibile, www.aziendarifiuti.ch, www.ticinoenergia.ch

Le insegne dei locali in un quartiere a luci rosse di Bangkok.

Un ristorante nel Lhong 1919 in stile postindustriale.

lo, una sorta di nastro tridimensionale di pixel che ha radicalmente cambiato lo skyline della città. Altri lavori in corso stanno ridisegnando il lungofiume: presto sarà segnato da nuove torri, da un megacentro commerciale della compagnia giapponese Takashimaya e da una promenade per collegare il tutto. Su questa linea di rinnovamento s’inserisce il progetto della Biennale d’arte: la prima edizione dovrebbe svolgersi a fine 2018, in contrapposizione a quella già collaudata di Singapore. Un’altra iniziativa di marketing governativo è l’edizione della prima guida Michelin dedicata a Bangkok. Ha riscosso più attenzione mediatica del rinvio delle elezioni al 2019 e soprattutto ha fatto notizia l’assegnazione di una stella al Jay Fai, un umile ristorante a pochi passi dal quartiere dei backpacker (ma l’omelette al granchio è davvero stellare). «Bangkok ha bisogno di una visione» dice l’architetto Duangrit Bunnag, uno degli artefici del rinascimento culturale di Bangkok, sostenitore del caos creativo, dell’entropia del riutilizzo piuttosto che della nuova costruzione. La sua visione dunque non è quella della grandeur in salsa thai. Anzi è molto critico nei confronti dell’attuale politica e vorrebbe collegare la cultura al senso della vita. Bunnag ha messo in pratica la sua visione come artefice del Creative District, un’area su entrambe le rive del fiume in cui vecchi edifici e magazzini sono divenuti gallerie d’arte, studi di design, concept store, librerie, ristoranti. Anche il vecchio edificio delle poste è stato trasformato nel Thailand Creative & Design Center, Bunnag lo definisce un luogo di «intrattenimento culturale». A questo modello si è ispirato anche il restauro e riutilizzo del Lhong 1919, lo scalo sul fiume, un tempo il terminale dei traffici mercantili tra Cina e Thailandia, dove i magazzini sono stati trasformarti in boutique e gallerie d’arte. «Thai significa libero» dice Bunnag. «Il futuro della Thailandia sta tutto in una nuova generazione di creativi che pensino liberamente».


Azione Settimanale della Cooperativa Migros Ticino • 2 luglio 2018 • N. 27

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Azione Settimanale della Cooperativa Migros Ticino • 2 luglio 2018 • N. 27

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Ambiente e Benessere L’indeterminata Bangkok Non una grandeur in salsa thai, ma una città che unisce la cultura al senso della vita pagina 9

I multiformi stampi da cucina Alcuni cibi non potrebbero essere realizzati senza un contenitore ad hoc che dia loro una forma precisa

Settant’anni di Porsche Un’esposizione speciale resterà aperta nel Museo Porsche di Stoccarda sino al 6 gennaio ’19

La natura schiva dell’orso Marco Croze, cacciatore e collaboratore della rivista «Wilde» narra la sua esperienza

pagina 11

Libertà ma anche cultura Viaggiatori d’Occidente Il continuo cambiamento è la natura profonda di Bangkok

Massimo Morello, testo e foto

pagina 12

«Bangkok sta a cavallo del confine tra acre e dolce, soffice e duro, sacro e profano. È una sega circolare di seta, un martello pneumatico laccato, una seduzione cinta d’acciaio, una preghiera digitale» ha scritto Tom Robbins nel romanzo Villa Incognito. Il libro è del 2003 ma ancora oggi è difficile trovare una descrizione migliore di Bangkok.

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Si vince rispettando le risorse ambientali

Bangkok è, in parte, un laboratorio della complessità, dall’altra è considerata invece un santuario di vizi

Estate sostenibile Si chiama Eco-percorrendo, il gioco dell’oca in versione ecologica che fa riflettere

su risorse ambientali, energia, mobilità, rifiuti, rumori e biodiversità

Questa la tavola da gioco scaricabile da internet attraverso il seguente link: https://bit. ly/2ttEd9o.

Elia Stampanoni I tradizionali giochi da tavolo – come scriveva Guido Grilli su «Azione» del 18 dicembre 2017 – sono ancora d’attualità e, nell’era dei videogiochi e delle tecnologie moderne, non escono per nulla sconfitti e neppure sembrano prossimi all’estinzione. A confermarlo è pure una versione moderna del gioco dell’oca pubblicato l’anno scorso dal Dipartimento del territorio, dall’Azienda cantonale dei rifiuti e da Ticino Energia, dove ad essere riviste non sono tanto le modalità o le semplici regole, ma i principi che permettono di avanzare di una, due o tre caselle, di perdere un turno oppure di retrocedere. Il gioco, Eco-percorrendo – perfetto per trascorrere le giornate estive in compagnia – si sviluppa su un tavoliere sul quale è disegnato un cammino, contrassegnato con numeri e immagini. Se nella variante tradizionale le caselle speciali rappresentano delle oche, da cui il nome del gioco, in questa troviamo disegni e azioni con un riferimento all’ambiente. Non vengono

comunque stravolti i concetti del gioco, ossia il percorso, la numerazione e l’applicazione di certe strutture numeriche, dando seguito a un divertimento d’origini molto antiche che nella sua forma moderna si presuppone sia nato nella seconda metà del XVI secolo. L’adattamento ecologico si basa sulla gestione sostenibile dell’ambiente, toccando settori come i rifiuti, la mobilità, i consumi e il territorio. Chi per esempio approda alla casella numero tre potrà avanzare velocemente fino al numero sei per aver consegnato correttamente il vetro al centro di raccolta del proprio comune. Un’abitudine assai popolare nel nostro Paese, dato che sono molte le economie domestiche a operare una separazione accorta del vetro, il cui tasso si avvicina sempre più al 100%, come dimostrano i dati di VetroSwiss. Un’operazione facilitata di certo dai circa 15mila contenitori per la raccolta presenti oggi in tutta la Svizzera, gestiti principalmente da comuni e città. Altri comportamenti adatti che permettono di procedere nel gioco sono

il riutilizzo delle bottiglie in PET, il Pedibus, spegnere le luci prima di uscire dalla propria camera o raccogliere la spazzatura da terra durante una gita. Quest’ultimo atteggiamento è per esempio premiato con un balzo di quattro caselle e nella realtà diventa viepiù d’attualità con l’aumento del littering, il malcostume che vede i rifiuti gettati o abbandonati con noncuranza nelle aree pubbliche. Un gesto spesso eseguito senza volontà, quasi come un automatismo mal assimilato e dalle conseguenze negative: nefaste per l’ambiente e dispendiose per il contribuente. Il gioco dell’oca prosegue il suo viaggio sostenibile verso la casella numero 100 superando altri ostacoli in tema di rifiuti e risparmio energetico che invogliano i giocatori a riflettere sull’importanza della gestione delle nostre risorse e del nostro territorio. Perde per esempio un turno chi libera la sua tartaruga esotica nel fiume, chi disturba il vicino con il volume troppo alto della sua radio oppure chi getta nella spazzatura un panino mangiato solo a metà.

Sul tavoliere ci sono anche le tradizionali caselle di arretramento: usi il WC o il caminetto come spazzatura, butti la lattina nel prato, apri il frigo e non lo richiudi, mangi frutta e verdure fuori stagione, getti gli scarti dei lavori di giardinaggio nel sacco dei rifiuti? Tutti modi di fare che penalizzano il giocatore nel suo viaggio verso la meta. Molte sono però le opportunità per fare un balzo in avanti, per tirare due volte il dado e quindi per avvantaggiarsi sugli avversari con azioni adeguate. Tenere spenti gli apparecchi elettrodomestici inutilizzati o ridurre gli imballaggi sono alcune delle caselle che permettono di giocare un’altra volta. Il gioco è adatto alle famiglie ma è rivolto anche alle scuole, come ci conferma Mara Bolognini, addetta all’informazione per l’Azienda cantonale dei rifiuti, ACR: «Sì, con il settore scolastico da anni si collabora attivamente e proficuamente proponendo momenti di formazione, giornate di sensibilizzazione, animazioni e attività didatti-

che. Questo Eco-percorso è una sorta di gioco dell’oca in cui si toccano diversi temi ambientali che ogni docente potrà in seguito elaborare a piacere, per esempio agganciandosi alla realtà comunale o alle azioni quotidiane dei singoli alunni». Proprio in quest’ottica il tabellone propone anche spunti da approfondire con esperienze pratiche, esercizi, percorsi didattici o letture, visitando i portali internet proposti. «Lo scopo – precisa Mara Bolognini – è anche far discutere e riflettere su argomenti come la biodiversità, l’energia, la mobilità, l’aria, l’acqua, i rifiuti, il rumore o le foreste». La versione digitale del gioco in formato A2 si può scaricare direttamente dai siti sotto indicati, mentre in formato cartaceo è ottenibile gratuitamente facendone richiesta a m.bolognini@aziendarifiuti. ch o info@ticinoenergia.ch.

«La città del collasso»: così la definiva Gaia Scagnetti, studiosa della complessità, quando insegnava alla Chulalongkorn University, il più antico ed esclusivo ateneo della Thailandia. Il suo era un pensiero critico, non una critica. «È un collasso positivo: la città vecchia e quella nuova non si sono trasformate in qualcosa d’altro, sono collassate nello stesso punto… come una radice che riproduce altre piante». Attraverso queste contaminazioni si espande Bangkok. «Se vuoi capire Bangkok, però, devi scegliere se focalizzarti sui luoghi o sul movimento che generano. È il principio d’indeterminazione» dice Christopher G. Moore, scrittore che vive e ambienta qui i suoi noir. «Ho focalizzato la mia attenzione sulla contraddizione creata dal confronto tra tradizione e modernità, specie nella surrealtà urbana» concorda Tew Bunnag, scrittore e maestro di arti marziali, appartenente a una delle più nobili famiglie dell’ammart, l’élite thai, che ha scelto di vivere in bilico tra le contraddizioni. «La ricerca, anche nel fraintendimento, è importante» dice. «Serve per arrivare alla nozione di Dio». Nonostante Bangkok si riveli sempre di più un laboratorio della complessità, un incubatore di quel «pensiero debole» che ha preso atto della dissoluzione delle certezze e dei valori assoluti, da molti è rappresentata con un certo torbido compiacimento come un santuario di vizi, un «cuore di tenebra». È un’immagine alimentata anche dagli stessi noir di Christopher Moore o di John Burdett, ex avvocato inglese che fa muovere il suo personaggio, un investigatore con trascorsi da monaco, tra maghi, trafficanti e prostitute. Il romanzesco è anche realtà. Par-

La skyline di Bangkok ripresa dalla riva destra del fiume. (Sul sito www.azione.ch la galleria fotografica completa)

te della città, si dice, sta collassando per l’acqua pompata dal sottosuolo per alimentare le jacuzzi delle sale massaggio – un eufemismo per bordelli – grandi come alberghi: 120, quelle registrate. È un fenomeno che ha ragioni altrettanto profonde dell’acqua; si alimenta in una cultura edonistica, in una religione che non considera il sesso come un peccato capitale, nella storia degli anni Settanta, quando Bangkok divenne la meta dei militari americani in licenza dal Vietnam. In quegli stessi anni, Bangkok era l’ultimo terminale dei «vagabondi dell’Asia», in cerca di misticismi e paradisi artificiali. Per anni poi Bangkok è stata lo snodo di traffici d’ogni genere e santuario di trafficanti e rifugiati. Infine è divenuta la meta prediletta dagli espatriati (expat) attratti dal Paese del sorriso, del sanuk, la filosofia del divertimento, dove la pensione vale di più e la vecchiaia sembra sospesa. Alcuni ci riescono, per molti altri si rivela una delusione e scatena depressione, tanto da indurli al suicidio. È una vera e propria sindrome culturale. «È come confrontarsi con la prima nobile verità del Buddha, il dukka, l’inevitabile sofferenza che segna l’esistenza» dice Tew Bunnag. «A Bangkok vivi nella sensazione di questo sottile

equilibrio tra il dukka e il tentativo di cogliere ogni attimo di piacere che ti offre la vita». Un buon posto per trovare questo equilibrio, meditando in sale disse-

Un dettaglio dell’alta MahaNakhon Tower.

minate di cuscini a forma di pietra, è il BIA, il Buddhadasa Indapanyo Archives: un edificio dall’architettura organica, con le sue colonne sull’acqua del laghetto nel parco di Suan Rot Fai (accanto al famosissimo mercato di Chatuchak). Prende nome da Buddhadhasa Bhikkhu, «pensatore buddhista per il mondo moderno», secondo cui secolare e spirituale non sono entità separate. È anche alla sua filosofia che si ricollegano molti artefici dell’ultima metamorfosi di Bangkok che, come direbbe Gaia Scagnetti, sta facendo collassare gli stereotipi: sessuali, criminali, culturali. Parte del cambiamento, bisogna ammetterlo, va accreditato alla giunta militare al governo dal 2014, che vuole fare della capitale un simbolo di cambiamento, ordine, sviluppo: Bangkok 4.0 è lo slogan, l’obiettivo è trasformarla in una nuova Singapore, in termini strutturali e finanziari, grazie anche al sostegno della Cina. Il simbolo è la MahaNakhon Tower, il grattacielo più alto di Bangkok (314 metri), sovrastante il Central Business District. Non a caso è stato progettato da Ole Scheeren, archistar tedesco che lavora con l’Office for Metropolitan Architecture di Pechino. L’intero perimetro della torre è stato scomposto in parallelepipedi di cristal-

Siti utili

www.ti.ch/sviluppo-sostenibile, www.aziendarifiuti.ch, www.ticinoenergia.ch

Le insegne dei locali in un quartiere a luci rosse di Bangkok.

Un ristorante nel Lhong 1919 in stile postindustriale.

lo, una sorta di nastro tridimensionale di pixel che ha radicalmente cambiato lo skyline della città. Altri lavori in corso stanno ridisegnando il lungofiume: presto sarà segnato da nuove torri, da un megacentro commerciale della compagnia giapponese Takashimaya e da una promenade per collegare il tutto. Su questa linea di rinnovamento s’inserisce il progetto della Biennale d’arte: la prima edizione dovrebbe svolgersi a fine 2018, in contrapposizione a quella già collaudata di Singapore. Un’altra iniziativa di marketing governativo è l’edizione della prima guida Michelin dedicata a Bangkok. Ha riscosso più attenzione mediatica del rinvio delle elezioni al 2019 e soprattutto ha fatto notizia l’assegnazione di una stella al Jay Fai, un umile ristorante a pochi passi dal quartiere dei backpacker (ma l’omelette al granchio è davvero stellare). «Bangkok ha bisogno di una visione» dice l’architetto Duangrit Bunnag, uno degli artefici del rinascimento culturale di Bangkok, sostenitore del caos creativo, dell’entropia del riutilizzo piuttosto che della nuova costruzione. La sua visione dunque non è quella della grandeur in salsa thai. Anzi è molto critico nei confronti dell’attuale politica e vorrebbe collegare la cultura al senso della vita. Bunnag ha messo in pratica la sua visione come artefice del Creative District, un’area su entrambe le rive del fiume in cui vecchi edifici e magazzini sono divenuti gallerie d’arte, studi di design, concept store, librerie, ristoranti. Anche il vecchio edificio delle poste è stato trasformato nel Thailand Creative & Design Center, Bunnag lo definisce un luogo di «intrattenimento culturale». A questo modello si è ispirato anche il restauro e riutilizzo del Lhong 1919, lo scalo sul fiume, un tempo il terminale dei traffici mercantili tra Cina e Thailandia, dove i magazzini sono stati trasformarti in boutique e gallerie d’arte. «Thai significa libero» dice Bunnag. «Il futuro della Thailandia sta tutto in una nuova generazione di creativi che pensino liberamente».


Azione Settimanale della Cooperativa Migros Ticino • 2 luglio 2018 • N. 27

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Ambiente e Benessere

Il vino nell’Encyclopédie degli Illuministi

Scelto per voi

Bacco nella storia Nel 1700 l’enologia ha tratto vantaggio dal progredire

delle conoscenze scientifiche

Davide Comoli Il 1700 fu un secolo importante per la storia del vino. In quel periodo infatti il vino poté avvalersi di nuove scoperte, soprattutto in fatto di chimica. Grazie alla chimica, si poterono scoprire certi componenti e comportamenti del vino. Vennero per la prima volta identificati i componenti dell’etanolo. A quest’opera contribuì in modo fondamentale Antoine Lavoisier (1743-1794), il padre della chimica moderna, che alla fine del 1700 riuscì a dimostrare che i componenti dell’etanolo sono: carbonio, idrogeno e ossigeno. Tra i chimici che studiarono i meccanismi della fermentazione al seguito di Lavoisier, bisogna senz’altro citare Jean A. Chaptal, che ebbe la cattedra di chimica all’università di Montpellier e che all’inizio del 1800 fu Ministro francese degli Interni del governo di Napoleone. Chaptal si interessò alle applicazioni pratiche della chimica anche per migliorare l’enologia.

A Chaptal si deve la messa in equazione del fenomeno della fermentazione, calcolando che per ottenere un grado alcolico nel vino si deve trasformare ca. 17 grrammi di zucchero. È nel XVIII sec. che Diderot (17131784) e D’Alambert (1717-1783) realizzano l’Encyclopédie, 43 volumi pubblicati tra il 1751 e il 1776, cercando di raccogliere tutto il sapere umano in un’unica opera. A questa impresa collaborarono i più autorevoli e brillanti spiriti francesi dell’epoca, Rousseau (16711741), Condillac (1715-1780), Helvétius (1715-1771), Target (1733-1807), Buffon (1707-1788), Voltaire (1694-1778). Le voci «Vigne et Vin», pubblicate dall’Encyclopédie furono redatte da Louis de Jaucourt (1704-1780), seguendo la metodologia della classificazione sistematica della materia, seguita dai due enciclopedisti fin dall’inizio. Le due voci sono descritte fin nei minimi dettagli, per esempio la «Vigne» viene descritta prima attraverso il suo fiore corolla secondo la classifi-

In aggiunta alle oltre 400 etichette In aggiunta alle oltre 400 etichette In aggiunta alle oltre 400 etichette

Incisione che illustra la produzione di botti. (encyclopédie.eu)

cazione del botanico Tournefort (XVII sec.). Alla voce «Vin», l’autore descrive tutti i procedimenti per produrre il vino: fermentation, effervescent, éthère. Se l’uso del vino è opposto all’uso della ragione dei filosofi in quanto non permette la lucidità di spirito e di mente, Voltaire stesso non era di certo indulgente con l’ebbrezza che considerava dannosa per la ragione e per la salute, da appunti del grande filosofo che ci sono pervenuti, si pensa tuttavia che lui stesso ogni tanto si facesse qualche bicchierino. Scrivendo a proposito del piacere afferma che: «Assomiglia ai vini delicati, bisogna pur darsene un assaggio, il piacere sta assai bene al saggio; bevete, senza però essere inebriati». E Jean Jacques Rousseau gli fa eco affermando: «Spesso la condotta di un uomo riscaldata dal vino non è che l’effetto di ciò che, negli altri momenti avviene nel suo cuore». Anche uno degli autori dell’Encyclopédie, Denis Diderot nativo della zona dello Champagne, scrisse il libro dal titolo: Jacques le fataliste et son maître. Nell’opera il personaggio principale, Jacques, ha nel vino un ottimo compagno, viene descritto come un uomo che non sapeva resistere al fascino femminile e a un bicchiere di vino. Sempre secondo l’Encyclopédie il vino era composto da: «sale, zolfo, spirito infiammabile, acqua e terra», le diverse tipologie di vino, i sapori e le sue proprietà erano da attribuirsi alle proporzioni in cui questi componenti erano miscelati. Oltre che un toccasana per il corpo, il vino, così ci fa notare l’Encyclopédie, è considerato un’ottima medicina per l’anima; infatti asseriscono gli enciclopedisti che una bella sbronza combatte tristezza e dispiaceri. Secondo gli esperti dell’epoca, i

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Con più di 5000 ettari vitati, il Vallese è il primo cantone vinicolo svizzero. Protetto a nord dalle Alpi Bernesi e a sud dalle Alpi Pennine e in parte dal massiccio del Monte Bianco, gode di un clima favorevole alla coltivazione della vite, dove non va dimenticato il grande aiuto dato dal Foehn, il vento caldo che soffia da sud e che a settembre permette un’ottima maturazione delle uve, venendo in aiuto ai molti vigneron. Percorrendo la strada da Martigny a Loèche attraverserete 24 comuni in 50 km e vi potrete rendere conto del ricco patrimonio ampelografico vallesano (più di 60 le varietà coltivate) e degli ottimi vini prodotti. La bella stagione c’invita a bere un buon bicchiere rinfrescante, servito tra i 12-14° C; «Le Moineau», un Dôle Blanche prodotto con uve di Pinot Nero e Gamay, vinificate in bianco, fa proprio al caso nostro. Fresco e vinoso questo Dôle Blanche coniuga la vivacità e l’eleganza di un vino bianco con la solidità di un vino rosso in un insieme armonico, equilibrato e molto profumato. Ottimo come aperitivo, da bere giovane e da abbinare ai piatti di salumeria nostrana, carne secca, primi piatti leggeri, insalata di pollo, ratatouille e a piatti al curry leggeri. / DC

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migliori vini erano quelli di media età, cioè quei vini che avevano più di quattro mesi e meno di un anno. Così li definiva l’Encyclopédie: «Sono buoni in quanto i loro componenti hanno avuto abbastanza tempo per miscelarsi gli uni con gli altri, ma non ne hanno avuto abbastanza per dissociarsi». Se nel 1700, fu la chimica a dare il suo contributo al vino, nel 1800 ad essere protagonista fu la microbiologia. Solo a partire dagli studi di Louis Pasteur, gli Études sur le vin, nel 1867 certe malattie dei vini poterono essere identificate e quindi prevenute e curate. Ma proprio quando nuovi studi sull’enologia si stavano sviluppando, una gigantesca catastrofe si abbatté sui vigneti europei. Fu tra il 1850 e il 1870 che tre terribili calamità colpirono ed infestarono le vigne europee: l’oidio, la filossera e la peronospora. Questi tre flagelli rappresentati da un piccolo insetto e da due funghi attaccarono le viti e in pochi anni arrecarono gravissimi danni ai vigneti. Tali eventi trasformarono radicalmente le vigne europee. Cambiarono le varietà coltivate e anche l’estensione della loro coltivazione, cambiarono i modi di gestire i vigneti e si cominciò a coltivare i vitigni senza mescolare le varietà. Il panorama ampelografico della prima metà dell’800 era molto complesso e segnato da una buona dose di confusione. Era difficile destreggiarsi tra i vitigni, i loro nomi, i loro sinonimi locali e termini dialettali, anche su quali fossero i migliori vitigni adatti alla vinificazione, su quali fossero quelli più produttivi e sulla loro adattabilità all’ambiente pedoclimatico, insomma regnava una grande confusione ed incertezza. Fu solo verso la fine della seconda metà dell’800 che si creò il moderno vigneto.

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Azione Settimanale della Cooperativa Migros Ticino • 2 luglio 2018 • N. 27

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Ambiente e Benessere

Il piacere della forma Allan Bay Parliamo di un piccolo grande argomento: gli stampi da cucina. Sono contenitori di fogge e dimensioni diverse, usati per dare una forma alle preparazioni che solidificano con la cottura o con il raffreddamento. Alcune preparazioni non potrebbero essere realizzate senza un contenitore ad hoc: ne è un esempio lo stampo da soufflé, indispensabile per la riuscita del piatto. Ma anche la vaschetta del ghiaccio altro non è che uno stampo per ottenere dall’acqua i cubetti di ghiaccio. Le diverse funzioni degli stampi influiscono sia sui materiali con cui sono realizzati sia sulla loro forma. In genere in ogni singola ricetta è indicata la dimensione e la forma dello stampo più consono.

Possono avere le fogge più svariate ed essere fatte con i materiali più diversi: tutto dipende dalla funzione che devono svolgere Per la cottura in forno i materiali più utilizzati sono la ceramica e il vetro, resistente alle alte temperature; ma sono apprezzati anche l’alluminio, l’acciaio rivestito con materiale antiaderente e il rame; però oggi, il miglior materiale per gli stampi è il moderno silicone. Prima di riempirlo, qualsiasi stampo (silicone escluso) va unto all’interno, con l’aiuto di un pennello da cucina, con burro (per cotture al forno) o con olio (per preparazioni a freddo senza gelatina) oppure leggermente inumidito (per budini), per facilitare poi l’estrazione del contenuto. A volte può essere indicato spolverizzare lo stampo – dopo averlo unto – di farina o pangrattato.

Si distinguono i seguenti tipi di stampi principali: per budino, rotondo o a tronco di cono con bordi svasati, lisci o ondulati; per charlotte, a tronco di cono, con bordi alti e lisci dotati di due prese per poterli impugnare; per plum cake (ma può essere utilizzato anche per preparare pâté o terrine), rettangolare e stretto, con pareti alte e lisce, sia diritte sia svasate; per savarin e ciambella, ad anello, cioè rotondo e con un buco in mezzo, a bordi alti; per zuccotto, semisferico; per soufflé, rotondo, con i bordi alti, lisci e diritti, per consentire al composto di alzarsi oltre il bordo superiore (la dimensione più usata è da 0,9 litri, quelli più grandi rischiano di non far cuocere bene il soufflé al centro); analoghe ma di dimensioni molto più piccole sono le cocottine, per soufflé individuali o creme; per crostate, rotondo, con il bordo svasato, liscio o scanalato e, per le torte più fragili, che rischiano di rompersi, a cerniera, ossia con il bordo che si stacca dalla base. Sono sempre della gran famiglia degli stampi anche le classiche terrine per composti di verdure o carni, solitamente in ghisa, o i recipienti per il gratin, sia rettangolari sia ovali; e ancora: gli stampi mignon, piccoli stampini per la preparazione di pasticcini, salatini, timballi, aspic ecc., e le teglie multiple per i muffin o i pudding, composte da vari stampini. Lo stampino può essere oblungo, svasato e con le estremità a punta – detto «barchetta» – oppure rotondo, con un diametro di 10-12 cm, con bordi più o meno alti e svasati, sia scannellati sia lisci; è generalmente realizzato in alluminio, acciaio inossidabile, ferro brunito, latta, silicone o metallo antiaderente, ed è adatto sia alle cotture in forno sia al raffreddamento in frigorifero. Per le mousse, le gelatine, le bavaresi, o tutto ciò che deve solo raffreddare, le forme sono le più svariate (a stella, a fiore, a pesce ecc) e i materiali più utilizzati sono la plastica, il silicone o il PVC.

Marka

Gastronomia Anche l’occhio vuole la sua parte: molte preparazioni richiedono una presentazione adeguata

CSF (come si fa)

Oggi vediamo come si fanno 4 amate salse. Salsa madeira, classicona. Muore su arrosti di carne. In un tegame fate sciogliere a fuoco dolce 30 g di burro, unite 50 g di fecola di patate mescolando costantemente con un mestolo di legno e cuocete fino a che il composto non inizierà ad assumere un colore dorato, unite 250 ml di brodo a filo, continuando a mescolare. Cuocete mesco-

lando per 10’. Unite 300 ml di vino di Madeira (o Porto, o Marsala), mescolate ancora e lasciate sul fuoco per altri 15’. Togliete il tegame dal fuoco e unite altri 30 g di burro tagliato a piccoli pezzi, mescolate in modo da formare un composto liscio e lucido. Salsa maltese. Muore su carne fredda. Grattugiate la parte gialla della scorza di 1 arancia non trattata, non quella bianca che è amara; spremete il resto dell’arancia e filtratelo. Frullate col frullatore a immersione 3 tuorli con 1 punta di senape, versando a filo 40 g di olio di semi di mais. Unite 4 cucchiai di succo d’arancia, 1 cucchiaino di curcuma e 1 pizzico di sale e mescolate. Versate la salsa in una ciotola e guarnite con la buccia grattugiata dell’arancia. Salsa Nantua. Muore su pesci bolliti. Tritate molto finemente 200 g di

code di gamberi sgusciate e mondate. Preparate la besciamella seguendo la vostra solita ricetta, mettetela in una casseruola. Unite 200 g di panna e fate ridurre della metà. Toglietela dal fuoco, unite immediatamente gamberi e 100 g di burro. Mescolate energicamente, salate, pepate. Salsa di prugne. Muore su tutto. Denocciolate 600 g di prugne secche e spezzettatele finemente. Mettetele in una casseruola, versate 1 bicchiere di vino sobbollito per 3’, unite 2 cucchiai di soffritto di cipolle e cuocete, a fuoco dolce, per circa 30’, mescolando e unendo poca acqua bollente se necessario. Conditele con 4 cucchiai di miele, 1 presa di zenzero, 1 presa di chiodi di garofano pestati, 1 presa di cannella in polvere, 1 pizzico di sale e 4 cucchiai di miele liquido.

Ballando coi gusti Le frittelle sono piatti facili da fare e non deludono mai.

Frittelle di riso dolci

Frittelle al miele

Ingredienti per 4 persone: riso g 500 · 4 arance · zucchero g 100 · 4 arance · farina

Ingredienti per 4 persone: farina g 500 · lievito di birra g 30 · miele liquido · vino

Con un pelapatate, separate il giallo della buccia delle arance e tagliatelo a pezzetti. Spremete le arance e filtrate il succo. Versate in una pentola il succo e 1 litro di acqua, unite le scorze tagliate e il riso, portate al bollore e cuocete a fuoco medio, mescolando di tanto in tanto, finché il liquido non sarà consumato. Lasciatelo raffreddare, fatelo riposare per qualche ora in frigorifero. Togliete dal frigorifero; prelevate il riso a cucchiaiate, impastate con la farina e formate delle delle palline a forma di piccolo uovo. Scaldate dell’olio in un tegame, poi fatevi friggere le palline, poche per volta, girandole per dorarli uniformemente. Scolatele, passatele su carta assorbente a perdere l’unto in eccesso, disponetele su un piatto da portata e cospargetele con lo zucchero.

Stemperate il lievito sbriciolato in poca acqua tiepida leggermente salata. Setacciate la farina a fontana in una ciotola e al centro versate il lievito sciolto; impastate, unendo tanta acqua tiepida quanta ne occorre per ottenere un impasto morbido e omogeneo; continuate a lavorare con le mani fino a che l’impasto non si staccherà dalle pareti della ciotola, quindi copritelo con un canovaccio e lasciatelo lievitare in luogo tiepido per circa 3 ore. In una capace padella fate scaldare abbondante olio. Con un cucchiaio bagnato prelevate delle piccole porzioni di impasto, tuffatele, poche per volta, nell’olio, e friggetele fino a che non saranno dorate. Scolatele, passatele su carta assorbente da cucina perché perdano l’unto in eccesso, disponetele su un piatto da portata, cospargetele con zucchero a velo, spuzzatele con il vino e pennellatele con un filo di miele. Servitele calde.

· olio per friggere.

dolce tipo Porto bianco o simili · zucchero a velo · olio per friggere · sale.


Azione Settimanale della Cooperativa Migros Ticino • 2 luglio 2018 • N. 27

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Ambiente e Benessere

Un’anziana che non va in pensione Motori Per i suoi settant’anni la Porsche si rivela più vivace che mai e, oltre al suo museo,

propone agli appassionati un nuovissimo modello pieno di grinta Mario Alberto Cucchi Compie settant’anni ma non li dimostra per nulla. Stiamo parlando di Porsche, la Casa automobilistica che con le sue sportive ha riempito i sogni di più generazioni. Amata da nonni e nipoti oggi festeggia il suo compleanno con una mostra – https://www. porsche.com/museum/en/ – e tante novità. «70 anni di auto sportive Porsche» così si chiama l’esposizione speciale allestita presso il Museo Porsche di Stoccarda che resterà aperta sino al 6 gennaio 2019. Vi si possono ammirare oltre 75 modelli. Dalla leggendaria Porsche 356 «Numero 1» Roadster del 1948 alla recente Porsche Mission E a emissioni zero. Proprio in occasione dell’inaugurazione della mostra, Porsche ha ufficialmente scelto la denominazione della sua prima auto a trazione esclusivamente elettrica che verrà prodotta in serie. Arriverà nelle concessionarie nel 2019 ed è derivata proprio dalla concept Mission E. Come si chiama? Taycan. Un nome di origine orientale che si può approssimativamente tradurre come «puledro vivace». Un nome che vuole richiamare l’immagine raffigurata dal 1952 al centro dello stemma di ogni Porsche. Un disegno che raffigura un destriero pronto a saltare. La sportiva a zero emissioni della Casa tedesca è equipaggiata con due motori sincroni a magneti permanenti con potenza complessiva

La Speedster Concept, versione dalle soluzioni mozzafiato.

di sistema di oltre 600 cavalli per un’accelerazione da 0 a 100 orari in meno di 3,5 secondi e per un’autonomia superiore ai 500 chilometri. Porsche ha inoltre confermato che raddoppierà a 6 miliardi di euro gli investimenti nella mobilità elettrica entro il 2022. Se da una parte si guarda al futuro,

dall’altra progettisti e ingegneri Porsche hanno deciso per questo speciale settantesimo di fare un regalo a tutti gli appassionati guardando al passato. Si chiama 911 Speedster Concept e con le sue linee mozzafiato conquista al primo sguardo. Si tratta di una cabriolet sportiva con due posti secchi del cui

sviluppo si è occupato il reparto Motorsport che ha già dato alla luce 911 GT2 RS e 911 GT3 RS. La carrozzeria larga della concept car realizzata nei tradizionali colori Silver GT e Bianco è stata presa a prestito dalla 911 Carrera 4 Cabriolet. Attenzione però: i parafanghi, il cofano anteriore e il carter poste-

riore sono stati realizzati in materiale composito in fibra di carbonio ultra leggera. Dettagli da «corsa» come anche il tappo del serbatoio centrale stile anni ’50 posizionato proprio nel mezzo del cofano anteriore. I numeri sono da far girare la testa. Sotto il cofano si cela infatti un motore sei cilindri da oltre 500 cavalli e che raggiunge i 9000 giri al minuto. La scocca bicolore copre un telaio che deriva dalla supersportiva 911 GT3. Belli i cerchi Fuchs da 21 pollici, per la prima volta proposti con dado centrale. Monolitici i due scarichi centrali realizzati in titanio. Il cambio è un tradizionale manuale a sei rapporti. Guardandola attentamente ci si accorge di una speciale copertura in fibra di carbonio collocata dietro i sedili anteriori che nasconde la struttura di protezione in caso di ribaltamento e crea quell’andamento a «doppia bolla» che da sempre caratterizza la linea di queste vetture sportive. Insomma un richiamo alla 911 Speedster del 1988. Due lamelle a contrasto di colore nero collocate fra le due «gobbe» aggiungono un tocco di aerodinamicità, mentre sul deflettore dell’aria in plexiglas trasparente campeggia l’incisione del logo ’70 anni di Porsche. Una decisione sulla trasformazione da prototipo in realtà produttiva di serie sarà presa nei prossimi mesi e in ogni caso la vettura non sarà presentata prima del 2019. Questa Speedster è obiettivamente bella, incrociamo le dita. Annuncio pubblicitario

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13 C A N D E L E 7 8 Ambiente e Benessere A L A R E A 9 10 11 P A S T A 12 13 14 O T I T E C 15 16 17 18 19 D I T O N I C O L A 20 21 22 Mondoanimale Trovarsi a tu per tu con un orso induce forti e contrastanti A Oemozioni S T I C A O L 23 24 25 26 SUDOKU PER N C A R C A O R A 27 28 29 30 sferte in Slovenia: «Sono andato nella N U O R A A FACILE S parecchio: E R «Oltre che naturalmente da Maria Grazia Buletti N.L 21 zona di Kocevje, numerosi boscaioli, anche da tantissimi 31 nella riserva Medved, 32 O R M E C A T E turisti N Ea piedi e in bicicletta che oltre«Vorrei parlare dell’emozione che dove «medie» in lingua slava, significa Schema

L’emozione di un incontro provoca l’incontro con l’orso e il piacere che si prova sapendo che questo plantigrado si trova nelle nostre zone di caccia»: parla bene e razzola male Marco Croze, cacciatore e collaboratore della rivista bimestrale «Wilde» nel cui numero di maggio – giugno ha voluto raccontare (e raccontarci) quello che davvero può capitare nell’animo dell’essere umano se e quando dovesse trovarsi al cospetto di un orso in carne, pelo e ossa. Eventualità che un giorno potrebbe realizzarsi anche nel nostro canton Ticino, come abbiamo riportato nell’articolo precedente (Un orso rossoblù, «Azione 25»). Per questo l’esperienza di Croze ci ha intrigato assai.

L’esperienza di chi ha veramente incrociato il plantigrado e il parere di un’esperta Dicevamo che parla bene (e questo lo vedremo presto) e, da cacciatore, razzola male perché non troveremo scene di orsi presi a fucilate, anzi, ci sorprenderà! «Molti anni fa sono andato all’orso in Croazia, ma proprio a causa dell’emozione sono riuscito ad esibirmi in una madornale padella». Che tradotto significa più o meno: Croze si è così emozionato nel vederne uno che non ha pensato nemmeno per un momento di fare quello per cui era lì, cioè sparare. Egli racconta di non essere nuovo a tra-

Giochi

orso». Dice che essere cosciente di cacciare nel paese degli orsi nulla ha tolto (N. 22 - Nome proprio di luogo geografico) 6 alla sua emozione quella volta che si trovò per davvero a tu per tu con il primo. 1 2 3 4 5 E spiega come è successo questo N O M 1I N incontro così emozionante da restare 6 7 8 ben limpido nel suo cuore: «Stavo avA P I 5S 3 viandomi a un’altana quando vidi a9 una 10 P R O I ventina di metri di distanza, tra alcuni 8 6 11 un 12 bassi cespugli a fianco del sentiero, P A M O grosso ammasso di pelo bruno: non si 13 e io14non 15 16 cosa fos17 vedeva la testa capivo 9 L A U R A C A L1 se…». Quando il suo accompagnatore pronunciò la18 parola «medved!», Cro-19 5 O R G E T 3O 7G A ze capì di essere per davvero dinanzi a 20 21 22 un orso: «Era un’orsa di un centinaio L E O G E 7R 3I N 2 di chili che23poi rivedemmo24dall’alta25 26 na mentre perlustrava cespuglio dopo L’orso M13, abbattuto nella regione di Poschiavo A N il 19 febbraio F A2013. N(admin.ch)A D 4 cespuglio alla ricerca di piccoli di cer27 28 C Cplantigrado I S che, A venuto Aa vo». Egli descrive come «divertente» di frequenza in quella Riserva, non ho A un giovane il vedere l’orsa adottare la stessa tecni- mai avuto dimostrazione di aggressi- cibarsi del mais sparso per i cinghiaca che adottano le volpi per catturare vità, tranne forse con una grossa fem- li, se la diede a gambe all’arrivo di una i topi: «Faceva un balzo verso l’alto e mina accompagnata da tre piccoli». La piccola scrofa con i suoi tre piccoli, e piombava sul(N. cespuglio le zampe madre degligradi orsetti, per difenderli, di- venne a rifugiarsi proprio sotto la sca23 - con Duecentosettanta sotto zero) anteriori». In quell’occasione non vide grignò i denti verso l’auto in cui si tro- la della nostra altana». Inevitabile, a andare a buon fine la ricerca dell’orsa vava Croze: «Solo per farci ben capire questo punto, il paragone con la regio1 2 3 4 6 7 8 perché probabilmente le cerve aveva- che5 la nostra presenza non era gradita». venetaMdalla in D Une O Oquale egliTproviene, E C no nascosto a dovere i loro piccoli. E il Un’altra interessante informazione che quanto la Slovenia ha una superficie di 9 10 suo racconto non finisce qui, perché nei egli ci dà attraverso la sua esperienza Uri- NpocoTsuperiore O al Veneto S eEin quell’area T A giorni seguenti dice di aver incontrato guarda i danni che l’orso potrebbe arrevivono dai sei ai settecento esemplari 11 12 13 parecchi altri esemplari: «Ma l’incon- care ai nostri animali domestici: «ProE Ndi orsi: T «Però tutte V leAvociNconcordano E tro di un grosso maschio che mi guarbabilmente dovuto all’abbondanza di nell’affermare che per l’ambiente que14 15 16 17 N è assolutamente I O I dava con calma prima di girare il grosso ungulati in quella zona, mai o quasi mai I sta O presenza unRvalore testone e allontanarsi con l’orso aggiunto». …e se lo dice un cacciatore, 18 19 dignità è sta20 ha provocato danni agli animaRdi cheBpure Erincara: A «Sono tutti D concordi E N to qualcosa di ancor più emozionante e li domestici, tanto che può capitare indescrivibile». vederlo pascolare tranquillo in mezzo a che l’orso vada comunque gestito e che 21 22 23 I Eeventuali R I abbattimenti S O A proposito della natura schiva una mandria di vacche». debbano ri25 dell’orso, egli24conferma ciò che la nostra Un aneddoto su questi orsi «dili- guardare quelli problematici (ndr: i faT RmosiE«gradassi»To «problem O T bear»)». Di esperta Joanna Schönenberger ci ha più genti» e per niente «gradassi» ci è subi26 27 volte ripetuto: «In quasi quindici anni to servito: «Una volta vidi da un’altana fatto, in Slovenia il bosco è frequentato

N. 22 MEDIO 5 9

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ORIZZONTALI 1. Fu reso zoppo da Zeus 7. Molto piccolo 10. Nome femminile 11. Un codice d’accesso 12. European Defence Agency 13. Voce del tennis 14. Quattro romani 15. Spoglie 17. Castagne pregiate 18. A metà percorso 19. Una Croce internazionale 20. «Ut» per Guido d’Arezzo 21. Le separa la «b» 22. Si forma davanti ai botteghini 23. Le iniziali dell’attrice Incontrada 24. Colorato 25. Isola della Sonda 27. La mitica giovenca 28. Cadono in fondo 29. Pallida rosa 30. Un quinto di five 31. Non hanno calzature 33. Pronome personale 34. Illumina il viso Regolamento per i concorsi a premi pubblicati su «Azione» e sul sito web www.azione.ch

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1 2 3 T O Z E L 7T -IGiugno O SGiochi S perA“Azione” R 50 O 2018 8 6 Vinci una delle 3 carte regalo da franchi con il cruciverba

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Stefania Sargentini

e(N.una delle carte regalo da 50 franchi con il sudoku 4 21 - “Delle patate2con il salame”)

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(N. 23 - Chi semina spine deve ricordare di non stare scalzo) 1

Cruciverba Trova il proverbio nascosto, leggendo a cruciverba ultimato, le lettere nelle caselle evidenziate. (Frase: 3, 6, 5, 4, 9, 2, 3, 5, 6)

tutto dormono in tenda, da cercatori di funghi e via dicendo». 9 Eppure Croze 4 ci tiene 5 a dire che gli incidenti sono davvero pochissimi eE3 sono anni 7 che non 9se ne verificano: 6 «Probabilmente gli orsi sanno quando è O meglio stare per conto proprio». R 7 Ancora una volta egli conferma quanO R to raccontano anche i nostri esperti: 3l’irreparabile bisogna «Perché 5 succeda D I andarsela a cercare, oltre che proprio essere dotati di una buona dose di sforE BL’esempio classico è quello di un tuna». soggetto che se1 ne va in giro per il4 boI sco con il proprio cane senza tenerlo al guinzaglio come dovrebbe: «Il cane si I 8 in un’orsa 1 con i allontana e si imbatte piccoliI(ndr: un maschio se ne andrebbe D 3 sdegnato, dice),9comincia ad abbaiare, I O l’orsa percepisce il pericolo e mentre i piccoli 1 si3rifugiano sotto 2 gli alberi, insegue il cane che naturalmente si rifugia dal padrone, con le prevedibili conseguenze». Uno scenario che ci permette di comprendere, ancora una volta, che la consapevolezza umana della presenza H E dell’orso dovrebbe implicare la conoscenzaTdi una serie di regole di convivenza che mettano al riparo da qualsiasi bruttaAesperienza: «Anche con un’evenT tuale presenza dell’orso penso si possa N G tranquillamente continuare a frequentare i boschi, forse con un po’ di pruT denzaE e di responsabilità in più, rendendosi conto che un bosco non è un parco cittadino e, con una corretta gestione, si potrà garantire all’orso stesso una buona sopravvivenza senza polemiche», conclude Marco Croze.

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C A N D E L E Sudoku A RHE AI AA LN C S E M I N I 9 10 11 P A S T A 10 11 Soluzione: 12 13 14 M R I S A P I N O TA 5N 1 Scoprire i 3 I T E 2C 15 16 17 18 19 12 13 14 numeri T O L A ED Icorretti E DN7AI C O N E T1 I V 20 21 22 da inserire nelle A O S T I C A O L 15 16 17 23 24 25 26 caselle colorate. NN CU D I A REC A MO A R AR R O N 27 28 29 30 9 5 8 18 19 20 N U O R A L A S E R 31 32 C O CR O S S A D O O R M E A T E N E 21 22 23 8 7 SUDOKU R E PER S AZIONE S A- GIUGNO V 2018 I (N. 22 - Nome proprio di luogo geografico)A C 24 25 26 N. 21 FACILE 1 2 3 4 5 D ISchema P N IO MN I TN EO N I 4Soluzione A 6S 9 7 8 28 29 6 27 I SO R O T E 6 2 A79 9 8 A4 3 6 4AOP 1 5N I O9 9 10 P R O I O R 30 31 32 4 1 8 3 7 5 9 1 3 7 9 6 11 12 R O N E S C A L Z I P A M O D I 9 5 3 6 1 2 4 5 3 7 13 17 33 34 14 15 16 L A U R A C A L E B 8 4 I6 S 8 E 6 S 5S 3 I S O R R 18 19 6 1 7 5O3 41 O R G E T O G A 8 I 5 2 9 1 8 4 6 7 9 1 20 21 22 L E O G E R I N I VERTICALI ombreggiate 25 3 7 58 2 3 9 1 8 3 7 5 1 4 2323. Strade24 26 A N F A N A D D I 1. Epilogo liturgico 25. Vicino a Londra 7 3 2 4 6 8 5 7 3 2 8 1 27 28 2. Ti... seguono in cantina 26. Indossato dai frati A C C I S A A I O 1 8 4 5 2 9 6 4 3 3. Fede professata 29. Si alternano nel tacere Soluzione della 9 settimana precedente 5 spazio 6 9è: 1 3 7 2 1 3 SPAZIALI 2 4. Nascondere a Londra 30. Bocca in latino TEMPERATURE – La temperatura nello (N. Duecentosettanta gradi sotto zero) 5. Isabella per gli amici 31.23 Le -iniziali dell’attore Orlando DUECENTOSETTANTA GRADI SOTTO ZERO. 5 3 N. 22 MEDIO 6. Le iniziali dell’attrice Autieri 32. Le ali di Zeus 1 2 3 4 5 6 7 8 5 D U O 3 M O 6 T E C H E 7. Copricapo vescovile 5 7 8 3 2 4 6 9 7 9 10 8. Simbolo chimico dell’indio 9 U N 5 1 9 3 6 5 1 8 7 T O S E T A T 9. Un tasto del computer 11 12 13 I vincitori 2 T 5 8 E N V A N E3 T A 4 4 1 2 9 6 7 13 7 11. Smarrita 14 15 16 17 9I O N I O 2 8 6 9 4 3 1 2 R I N G 13. La maggiore isola delle Cicladi 19 20 Cruciverba del concorso 14. Uno dei Paesi più popolati del mondo 18 Vincitori 1 3 R 7 B E 5 A 3 4 7 8 5 2 1 D E N T E 18.06.2018 16. Il comico De Santis 21 su 22 «Azione 25», del 23 4 O 8 1 2 5 6 7 9 4 I E R 7I S 17. Fermenta nelle botti M. Lozio, M. Richelli, M.L. Mina 4 6 8 24 25 7 1 2 3 7 5 1 2 8 3 9 T R E T O T Vincitori del concorso Sudoku 19. Nel Nord America si chiamano 26 27 caribù su «Azione 25», del 18.06.2018 8 2 8 4 1 79 6 5 T O Z 6 E L 8T 2 21. Ricorrere H. Baur, R. Bocassini 28 4 R I O 2 6 9 3 7 4 5 8 O S S A 22. Si contendono il palio 1

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N. 23 DIFFICILE Partecipazione online: inserire la luzione, corredata da nome, cognome, è possibile un pagamento in contanti (N. 23 - Chi semina spine deve ricordare di non stare scalzo) 23 6I vincitori 4 3 18saranno 7 5 avvertiti 1 9 2 indirizzo, 1 del cruciverba o del 7sudoku email del 5partecipante deve 8 M deiI premi. 6 1soluzione 2 3 4 5 6 8 9 A N C H I S E N I nell’apposito formulario pubblicato 7 essere spedita a «Redazione Azione, per iscritto. Il nome dei vincitori 7 8 5 9 1 6 2 3 sarà 4 1 10 11 sulla pagina del sito. Concorsi, C.P. 6315, 6901 Lugano». pubblicato su «Azione». Partecipazione M A R I S A P I N N 4 9 1 3 2 4 5 8 6 7 9 5 8 7 12 13 Partecipazione postale: la lettera o 14 Non si intratterrà corrispondenza sui riservata esclusivamente a lettori che E E D A N E T I V 5 9in Svizzera. 6 8 7 3 4 2 1 8 7 la cartolina postale17 che riporti la so- concorsi. Le vie legali sono escluse. Non risiedono 15 16 N U D 8 3I 7 1 2 4 6 9 5 4 E 6 9 M A R R O N


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Azione Settimanale della Cooperativa Migros Ticino • 2 luglio 2018 • N. 27

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Politica e Economia L’Italia sulle orme di Trump Quali analogie fra il populismo americano e quello italiano?

Uno tsunami che parte dall’Africa Il continente africano diventerà la grande questione del secolo. A cominciare dall’indicatore demografico che porterà l’Africa a invadere il mondo. E questo moto sarà accelerato dal climate change

Borsa svizzera sotto pressione Il mancato riconoscimento dell’equivalenza da parte dell’UE comporterebbe seri pericoli pagina 20

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Erdoğan con la moglie ringrazia il Paese per la sua vittoria. (AFP)

Erdoğan sultano assoluto

Turchia Con la sua rielezione di domenica scorsa è diventato un presidente esecutivo a tutti gli effetti

ma in un contesto solo formalmente democratico dopo la controversa riforma con la quale aveva accentrato la gran parte dei poteri politici del Paese

Marcella Emiliani Anche l’ultimo tassello è andato a posto. Con le elezioni anticipate del 24 giugno scorso – elezioni al tempo stesso legislative e presidenziali – Recep Tayyip Erdoğan non solo è stato riconfermato alla massima carica dello Stato, ma si è garantito la ricandidatura alla medesima anche dopo il 2023. Così la Turchia è diventata una Repubblica presidenziale sul filo della dittatura come previsto dal referendum dell’anno scorso, anche quello fatto piovere dall’alto da un rais (un capo alla turca o sarebbe meglio tradurre un boss) interessato solo a consolidare il proprio potere e spazzar via qualsiasi forma di opposizione. E come per il referendum del 2017, anche il 24 giugno scorso la teoria del complotto ha finito per avere la meglio su qualsiasi argomentazione politica: la Turchia sarebbe attorniata da nemici che ne vogliono la rovina, sempre pronti ad imbracciare le armi come è successo col fallito colpo di Stato militare del 15 luglio 2016 ad opera della bestia nera di Erdoğan, Fethullah

Gülen. Da allora il presidentissimo ha imprigionato o fatto licenziare migliaia di oppositori – veri o presunti –, ha imbavagliato la stampa e l’universo dei media, ha messo in riga le università, le scuole nonché l’intera burocrazia, è ripartito lancia in resta a perseguitare i curdi in patria e all’estero (leggi in Siria e in Iraq) e non si stanca di chiedere agli Stati Uniti l’estradizione di Gülen, le cui colpe – peraltro – sono tutte da provare. Ma avere un capro espiatorio è utile anche se l’ossessione di Erdoğan per il predicatore che ha grandemente contribuito alle sue fortune politiche ha qualcosa di edipico, attiene alla tragedia greca, o, se si preferisce, alla mania omicida del capitano Achab contro Moby Dick, la balena bianca. Tutti i dittatori mediorientali del resto hanno attacchi periodici di «complottite» con la quale giustificano qualsiasi forma di repressione o ampliamento dei propri poteri politici. Così oggi Erdoğan – sparita la figura del premier – può scegliere i candidati al parlamento, confezionarsi il governo che più gli aggrada senza che

né lui né l’esecutivo debbano rispondere del proprio operato all’assemblea legislativa; può intervenire direttamente nelle decisioni economiche e, in fatto di giustizia, nominare non solo i pubblici ministeri ma anche i membri dell’equivalente turco del nostro Consiglio Superiore della Magistratura. Sarà insomma un presidente esecutivo a tutti gli effetti ma in un contesto solo formalmente democratico visto che proprio lui ha totalmente «svuotato» la democrazia turca nei suoi 16 anni al potere come primo ministro dal 2003 al 2014 e da allora come presidente della Repubblica. Fino alla vigilia del voto, comunque, una vittoria schiacciante del presidente non era affatto scontata, come non era scontata quella del suo partito, l’Akp, acronimo locale di Partito per la giustizia e dello sviluppo. Con l’aumento del deficit pubblico, l’inflazione al 12,5% e il vistoso calo degli investimenti stranieri lo scontento aveva cominciato a serpeggiare anche nelle fasce popolari della Turchia profonda, quella della penisola anatolica, che co-

stituiscono il suo elettorato. Erdoğan ne era perfettamente cosciente al punto da anticipare a quest’anno le elezioni in calendario per il 2019 e presentarsi agli elettori assieme all’Mhp (Partito del movimento nazionalista ) di Devlet Bahçeli, nella Coalizione per la Repubblica. L’Mhp, per intenderci, è il braccio politico dei famigerati Lupi grigi cui apparteneva Ali Ağca, che tentò di uccidere Giovanni Paolo II il 13 maggio 1981. In questa formazione Erdoğan, sull’onda di un’affluenza alle urne dell’88% dell’elettorato, alle presidenziali ha ottenuto il 52,6% dei voti – evitando così il ballottaggio con Muharrem İnce – mentre la Coalizione della Repubblica ha vinto 344 seggi su 600 del parlamento coi quali potrà strapazzare a suo piacimento la Costituzione. Per la precisione, l’Akp, ha portato a casa 295 seggi e l’Mhp 49, il che sta a significare che il presidente potrà mantenere la maggioranza assoluta solo e soltanto col favore del lupo Devlet Bahçeli. E cosa significhi questo lo si è visto già il 26 giugno scorso quando Bahçeli ha

smentito in pubblico una delle tante promesse elettorali di Erdoğan ovvero di porre fine allo stato d’emergenza in vigore dal fallito golpe del 2016. C’è stato invece poco da fare per le opposizioni e i loro candidati alla presidenza: Muharrem İnce del Partito popolare repubblicano (Chp) ha ottenuto il 30,6% dei voti; Meral Akşener – unica donna in lizza – del Partito del bene, il 7,3%, e il povero Selahattin Demirtaş del Partito democratico dei popoli (Hdp) filo-curdo che è stato costretto a fare la campagna elettorale dalla prigione col cellulare di sua moglie ma è riuscito comunque a guadagnare per sé l’8,3%, dei consensi e a far superare all’Hdp la soglia di sbarramento del 10% nelle legislative. «Poco» si dirà, ma almeno un’opposizione esiste e si spera possa rafforzarsi anche se non sarà facile. La Turchia uscita dalle urne del 24 giugno, infatti, è un Paese che ha virato ulteriormente a destra, è profondamente islamo-nazionalista e innamorata dell’utopia di rinverdire i fasti ottomani visto che la «cattiva» Europa le ha chiuso le porte in faccia.


Azione Settimanale della Cooperativa Migros Ticino • 2 luglio 2018 • N. 27

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Politica e Economia

Cosa impara Salvini da Trump

Strategie parallele Il presidente americano vola nei sondaggi e il premier italiano è uscito bene dall’ultima tornata

elettorale: quali analogie esistono fra i populismi di questi due Paesi? E in particolare fra le sinistre?

Federico Rampini Donald Trump vola nei sondaggi. Matteo Salvini pure. I media americani sono a maggioranza ostili al loro presidente; anche il ministro degli Interni italiano incassa una robusta dose quotidiana di critiche. C’è qualcosa che Salvini ha imparato da Trump? Da osservatore americano delle vicende italiane, credo che le analogie siano numerose. All’origine probabilmente il successo di Trump fu la conseguenza di un’onda lunga dei populismi che avevano avuto in Italia un laboratorio primordiale fin dagli anni Novanta. Adesso il rapporto di filiazione, imitiazione, emulazione, chiude il cerchio: i populismi europei guardano all’America come un modello e un motore trainante. Le sinistre sono in crisi di fronte a questi fenomeni, tutte fanno fatica a reagire e a risollevarsi dopo le disfatte elettorali: in Italia le ultime elezioni locali hanno confermato la caduta del Pd; negli Stati Uniti il prossimo test arriva a novembre, e i democratici farebbero bene a non sottovalutare le risorse di Trump. (Altrove, i socialisti francesi sono «missing in action», la Spd tedesca è il fantasma del partito che fu di Willy Brandt e Helmut Schmidt). Tra i parallelismi America-Italia ne segnalo alcuni, che riguardano sia le strategie parallele di Trump e Salvini, sia le trappole in cui continua a cadere la sinistra. I populisti hanno il dono della provocazione, eccitano l’allarme dei media liberal: e così facendo ne monopolizzano l’attenzione. Sono sempre loro a dettare l’agenda, a decidere i titoli dei tg e dei giornali. La sinistra li denuncia, condanna quello che fanno; ma continua a rincorrere i temi che impongono loro. I sovranisti rivalutano il nazionalismo in tutte le sue forme, dal protezionismo commerciale alla difesa dei confini contro i flussi migratori. La sinistra, pur di distinguersi, non esita a fare il tifo per dei leader stranieri. Negli Stati Uniti c’è chi, pur di dare addosso a Trump, oggi esalta il ruolo di Xi Jinping come nuovo difensore del globalismo. Pessima idea: nel merito è un errore perché il presidente cinese difende la globalizzazione solo in quanto la Cina ne trae vantaggio in modo abnorme, spesso grazie a regole asimmetriche e squilibrate. In generale non si conquistano voti presentandosi come «il partito dello straniero». Accade in Italia che il mondo progressista simpatizzi con Emmanuel Macron quando attacca Salvini. Credo che sia anche in questo caso un errore, anche se coerente con la tradizione esterofila delle élite italiane: ma conferma appunto il sospetto che la sinistra sia establishment, e pronta a svendere gli interessi nazionali. Inoltre è un’illusione scambiare Macron per un europeista: è un tradizionale nazionalista francese, che dell’Italia si servirà finché gli è utile, ma per piegarla ai propri interessi.

Qualcosa di simile accade sull’immigrazione. È il terreno sul quale Trump sembrava incappato in un infortunio grave, la vicenda dei «bambini in gabbia». Eppure il presidente sfiora il 90% dei consensi tra gli elettori repubblicani. Non è un risultato da poco. Per ritrovare un repubblicano così popolare tra i suoi bisogna risalire a George W. Bush nel periodo immediatamente successivo all’11 settembre 2001, che creò una forte coesione tra il leader e la sua base. Il sondaggio su Trump è stato fatto subito prima della «crisi dei bambini al confine», l’emergenza umanitaria sulle separazioni genitori-figli tra gli immigrati. È probabile però che anche quella abbia effetti diametralmente opposti nelle «due Americhe». Tra i democratici c’è indignazione per il trattamento dei bambini e l’ostilità verso Trump ne trae nuovo alimento. A destra la narrazione di questa crisi nei notiziari della tv Fox News è molto diversa. Viene sottolineato che sono gli immigrati clandestini ad aver violato le leggi americane esponendo i propri figli ad ogni rischio. È stato anche notato che certi metodi duri coi minori erano già usati sotto l’Amministrazione Obama, nell’indifferenza dei media. Comunque per la base repubblicana lo slogan della tolleranza zero è la conferma che Trump capisce le loro paure, e vuole mantenere le promesse fatte in campagna elettorale. Qualcosa di simile è già accaduto con il protezionismo, o la Corea del Nord. I dazi sull’acciaio europeo o sulle tecnologie cinesi sollevano un coro di critiche non solo all’estero ma anche sulla stampa progressista, dal «New York Times» al «Washington Post» non passa giorno senza qualche analisi allarmata sugli effetti-boomerang del protezionismo, e la previsione che finirà per danneggiare la stessa economia americana. A queste reazioni negative si uniscono quelle del mondo confindustriale, favorevole al libero scambio. Però chi applaude i dazi è proprio la base operaia che fu decisiva per l’elezione di Trump alla presidenza. Qui tra l’altro le mosse del presidente fanno breccia tra gli operai che votano democratico. Sulla Corea del Nord i media liberal hanno ridicolizzato il summit con Kim; quelli di destra si chiedono se avrebbero reagito allo stesso modo di fronte a un incontro tra Obama e il dittatore. È presto per valutare le ricadute sull’elezione legislativa di mid-term che si terrà a novembre. Gli uni e gli altri stanno giocando sull’elemento cruciale che è l’affluenza al voto. Tradizionalmente nel voto di metà termine c’è un «effetto disillusione» verso il presidente in carica, che fa salire l’assenteismo tra gli elettori del suo partito. I democratici sperano che la propria base voti in massa, per conquistare una maggioranza al Congresso che blocchi questo presidente. Trump si adopera

Donald Trump con Barack Obama nello studio ovale della Casa Bianca nel novembre del 2016. (AFP)

perché i repubblicani facciano quadrato in sua difesa. Al suo attivo: il Muslim Ban è costituzionalmente valido. La Corte suprema si è pronunciata così nel merito del decreto presidenziale con cui Trump chiuse le frontiere a diversi paesi a maggioranza musulmana. Il verdetto è una netta vittoria per il presidente, su un terreno per lui cruciale, dove s’intersecano le politiche dell’immigrazione e la lotta al terrorismo. Il Muslim Ban fu il primo atto di questa presidenza, l’ordine esecutivo venne firmato da Trump pochi giorni dopo il suo ingresso alla Casa Bianca. Immediatamente venne bloccato da una serie di ricorsi giudiziari, presentati da diversi Stati USA e accolti come validi da alcuni tribunali federali. I ricorsi contestavano l’incostituzionalità del divieto d’ingresso mirato su paesi a maggioranza musulmana, sostenendo che operava una discriminazione in base al credo religioso. Trump dovette riscrivere quel provvedimento in varie versioni. Già in un precedente pronunciamento – di metodo – la Corte suprema aveva deciso di lasciare in vigore l’ultimo Muslim Ban. Ora il massimo tribunale americano ha deciso anche sulla sostanza. Con una maggioranza risicata di 5 contro 4 – e una spaccatura che rispetta rigorosamente l’equilibrio fra giudici di nomina repubblicana e de-

mocratica – la Corte ha stabilito che non c’è discriminazione religiosa, e che il presidente agisce nell’ambito dei suoi poteri. Quest’ultimo aspetto è essenziale, conforta Trump sul fatto che lui si è mosso correttamente: la Corte dice che è il presidente l’arbitro decisivo in materia di sicurezza nazionale, ha il diritto di chiudere le frontiere ad alcune categorie di stranieri se pensa che possano nuocere. Ecco un altro parallelismo possibile fra l’iperpopulista americano e il suo seguace italiano. Salvini continua a battersi contro l’immigrazione e continua a salire sui sondaggi, mentre la sinistra che vuole una politica di accoglienza continua a scendere. È probabile che anche in Italia i democratici siano diventati nella percezione di molti «il partito degli immigrati», e non abbiano capito che una vasta parte della popolazione considera un diritto quello di decidere chi può entrare e chi no. «Obama, where are you?» La copertina del «New York magazine» lancia la domanda in tono angosciato, quasi straziante, ed è un sintomo dello stato d’animo della sinistra americana. Orfana dell’unico leader vivente... In effetti Obama è sparito, non appaiono più neanche i gossip sulle sue vacanze da giovane pensionato. Sta scrivendo il suo libro, dicono i collaboratori. Riapparirà al momento opportuno, settembre, per fare un po’ di campagna

in appoggio a candidati democratici per le legislative. Peraltro è abbastanza normale che un ex presidente sparisca. Fece così George W. Bush durante la presidenza Obama, guardandosi bene dal criticare il successore anche se certo non ne condivideva le scelte. Ma al tempo stesso quella domanda del «New York magazine» tradisce il panico di un partito democratico che ancora non ha né leader nuovi né una strategia chiara, si avvia verso le elezioni di mid-term con delle discrete probabilità di rimonta, ma sa che il successo potrebbe rivelarsi fragile ed effimero. Altro segnale di disorientamento dell’opposizione: la «caccia ai trumpiani nei luoghi pubblici». Episodi recenti hanno colpito la portavoce Sarah Sanders, la ministra della Homeland Security Nielsen, il consigliere Stephen Miller, tutti contestati rumorosamente o cacciati da ristoranti della capitale. Una deputata afroamericana della California, Maxine Waters, ha esortato i militanti a moltiplicare episodi di questo genere. Che invece altri considerano un segno d’impotenza, uno sfogo fine a se stesso, che non incide sui rapporti di forze reali nel Paese. La sinistra italiana rischia di apparire altrettanto agitata: ma i toni indignati non sostituiscono l’elaborazione di una strategia nuova, e la selezione di una nuova leva di dirigenti. Annuncio pubblicitario

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Azione Settimanale della Cooperativa Migros Ticino • 2 luglio 2018 • N. 27

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Politica e Economia

Un mondo di profughi Rapporto Onu Per il 7. anno consecutivo

AFP

i flussi sono aumentati

L’Africa ci invaderà? Questione africana Entro il 2050 la popolazione africana

raddoppierà e alla fine del 2000 quadruplicherà, mentre in tutti gli altri continenti la curva demografica è in calo. Gli europei stanno cercando di fermare con uno muro uno tsunami provocato dal clima Pietro Veronese Ci si è messo perfino il presidente francese Macron a cercare di convincere gli italiani che non esiste alcuna «emergenza emigrazione» in questa estate 2018 e che anzi gli sbarchi si sono fortemente ridotti per numero e per entità. Dell’80 per cento, ha precisato l’inquilino dell’Eliseo. Si potrebbe obiettare che la Francia, opposta all’Italia in una diatriba sempre più acrimoniosa sull’accoglienza e la gestione dei migranti, è una fonte di notizie sospetta. Ma i dati citati dal capo dello Stato francese sono confermati dagli osservatori governativi al di qua delle Alpi. E menzionati ad ogni occasione dagli esponenti del precedente governo, in particolare dall’ex ministro dell’Interno Minniti, alla cui iniziativa – i discussi accordi con i capotribù libici – si deve la riduzione del flusso migratorio dall’Africa verso le coste italiane.

Si parla tanto di «emergenza emigrazione» ma quanto è destinato a durare il fenomeno? Il problema attuale, per usare ancora le parole pronunciate da Macron nella sua conferenza stampa al termine della recente visita a Roma, non sono gli sbarchi quanto la «crisi politica interna all’Europa dovuta ai movimenti secondari». Cioè agli spostamenti – o i tentativi di spostamento – dei migranti dai Paesi di primo arrivo verso altre nazioni dell’Unione. Impediti per esempio dal blocco imposto dalla Francia ai valichi di frontiera, in particolare a Ventimiglia. L’«emergenza emigrazione» è dunque piuttosto una questione intergovernativa comunitaria, senza alcun rapporto con un presunto aumento dei barconi e dei loro passeggeri. Ma come politologi, sociologi e psicologi sociali non cessano di spiegarci, quello che conta nei comportamenti collettivi – per esempio nelle scelte elettorali – non è tanto la realtà dei fatti, quanto la percezione che singoli individui e collettività ne hanno. E non c’è dubbio che l’elettorato italiano del 2018 sia convinto di affrontare una «emergenza emigrazione». Lo attestano non solo il successo della Lega nel voto dello scorso marzo, quanto anche il vasto consenso alle draconiane decisioni del ministro dell’Interno e vicepresidente del Consiglio Salvini. La

chiusura dei porti alle navi delle ong cariche di migranti soccorsi in mare è stata accolta positivamente da un’ampia maggioranza di italiani, incluso un certo numero di elettori del PD. A un dibattito su questi argomenti alcune settimane prima del voto del 4 marzo, l’allora ministro degli Interni Minniti aveva ricordato come qualche anno prima il PD avesse perso per la prima volta nelle sua storia le elezioni amministrative a Bologna sul tema della sicurezza. Le statistiche dicevano che il capoluogo emiliano era una delle città più sicure d’Italia e che la microcriminalità era ovunque in calo; eppure l’elettorato era convinto di rischiare ad ogni passo una rapina a mano armata e aveva scelto i partiti «securitari» della destra. Allo stesso modo Minniti, l’artefice degli accordi con la Libia, sarebbe stato bocciato dagli elettori il 4 marzo (salvo essere ripescato grazie ai meccanismi previsti dalla legge). La percezione è dunque sovrana. È semmai compito dei media, nei limiti delle loro possibilità, cercare di riaccostare la percezione collettiva alla reale portata dei fatti. Il fenomeno migratorio apparirebbe allora non come una transitoria emergenza, bensì come un mutamento enorme, di cui quanto abbiamo visto sin qui è appena l’inizio. Esso è parte di un sommovimento secolare che sta mutando per sempre il volto dell’Africa e il suo posto, il suo ruolo nel mondo. In un recente articolo sulla «New York Review of Books», lo studioso americano Howard W. French usa l’espressione «questione africana», affermando: «La questione africana incombe come una sfida umana epocale per il resto di questo secolo». Se questa affermazione è vera, allora la percezione è sbagliata: non per eccesso, ma per grandissimo difetto. Il problema non sono i barconi, gli sbarchi, la cattiva accoglienza che trasforma i quartieri delle nostre periferie in baraccopoli africane, il senso di ritrovarsi in minoranza a casa propria. Il problema è che siamo all’inizio di un rivolgimento storico di immensa portata al quale siamo e continuiamo ad essere del tutto impreparati, noi cittadini europei e i nostri governanti non meno di noi. Il primo dato alla base della «questione africana» è demografico. Fino alla seconda metà del XX secolo il continente nero è stato il meno popoloso, o meglio il più sottopopolato. Alcuni studiosi fanno risalire questa situazione ai lunghi secoli dello schiavismo, per l’effetto combinato delle costanti razzie di popolazione in età riproduttiva e della generale precarietà e conflittuali-

tà dell’esistenza. Tra il 1700 e il 1850 la popolazione africana stagnò intorno ai 50 milioni di individui; senza la tratta degli schiavi, stimano alcuni demografi, sarebbe raddoppiata. Ma dopo le indipendenze di metà Novecento la curva demografica africana ha preso ad impennarsi e intorno alla fine del secolo ha superato trionfalmente la soglia del miliardo di individui. Oggi gli africani sono un miliardo e 250 milioni. Secondo gli uffici competenti delle Nazioni Unite (https://esa.un.org/unpd/wpp/), saranno il doppio alla metà del secolo: due miliardi e mezzo. E alla fine degli anni 2000, stando a un calcolo medio, quattro miliardi e 400 milioni. Un numero ancor più rilevante se lo consideriamo in relazione agli altri continenti: lo sviluppo economico e la massiccia urbanizzazione hanno infatti già da qualche tempo rallentato la crescita demografica dell’Asia, in particolare dei colossi Cina e India. Quanto all’Europa, come ben sanno gli italiani, la sua popolazione indigena stagna o diminuisce. Sono questi i dati dai quali dovrebbe partire la riflessione pubblica: le cifre su cui dovrebbe porre le fondamenta la nostra «percezione». Sarebbe allora immediatamente chiaro che affrontare il fenomeno migratorio con il blocco dei porti e il respingimento dei natanti non è molto diverso dall’affrontare uno tsunami armati di un secchio e di uno straccio. Perché la crescente popolazione dell’Africa è sottoposta a una pressione anch’essa crescente e anch’essa ancora a stento percepita da noi europei malamente informati. Questa pressione è costituita dal cambiamento climatico, il secondo grande fattore della «questione africana». Se la causa maggiore del mutamento del clima terrestre è l’emissione di gas serra, allora l’Africa è il continente che vi contribuisce meno di ogni altro, perché resta il meno industrializzato, il meno motorizzato, il meno urbanizzato. Ma poiché la gran parte della sua estensione è compresa nella fascia tropicale del pianeta, dove uno o due gradi di differenza nella temperatura porterebbero a superare la soglia di sostenibilità dell’agricoltura e dell’allevamento, è anche quello che rischia di patirne più acutamente le conseguenze. E infatti tutti gli studi in materia prevedono un incremento dei flussi migratori come effetto del climate change. L’Europa, dice Howard French, «sembra rifiutare di affrontare la portata delle trasformazioni che si annunciano». Prima le accetterà, meglio sarà per lei. La «questione africana» non accetterà rinvii.

Una domanda semplice: qual è il continente che ospita il più gran numero di rifugiati? Probabilmente la maggior parte delle risposte si dividerebbero tra Nord America ed Europa, ma sarebbero sbagliate. La risposta esatta è l’Africa. Il continente più povero di posti di lavoro, di risorse, di infrastrutture, di riserve alimentari è anche quello più ospitale. Contrariamente all’idea che possono avere le nostre opinioni pubbliche europee, la stragrande maggioranza dei milioni di africani costretti alla fuga dalle guerre, dalle persecuzioni, dalle carestie, non vanno in cerca di un porto e di un barcone per raggiungere l’altra sponda del Mediterraneo. Si fermano nel Paese vicino, spesso appena oltre la frontiera, e aspettano solo il momento di poter tornare a casa.

Contrariamente a quanto si pensa, l’Africa è il continente che ospita il più grande numero di rifugiati C’è di più. In alcuni Paesi, per esempio l’Uganda che ha accolto di recente l’immensa ondata di fuggiaschi scappati dalla guerra civile del Sud Sudan – per un totale, al momento, di 1,4 milioni di persone – ai profughi è consentito muoversi liberamente e cercare un’occupazione. Nei campi per loro allestiti non sono rinchiusi, ma possono andare e venire a piacimento, così come coltivare la terra, contribuendo alla propria sicurezza alimentare; possono competere sul mercato del lavoro, commerciare, avviare imprese. Le autorità ugandesi sono convinte che questa politica giovi sia ai rifugiati che ai loro cittadini, perché crea ricchezza e posti di lavoro. Altri Paesi stanno avviandosi nella stessa direzione. Naturalmente non sono tutte rose e fiori: basti pensare alle ricorrenti ondate di violenze xenofobe in Sud Africa, specie contro i profughi dello Zimbabwe. C’è un motivo se l’Africa è così accogliente verso i rifugiati: è anche il continente che ne produce di più. Accresciuto nel corso del 2017 dalla crisi della Repubblica democratica del Congo e dalla guerra civile in Sud Sudan, il loro numero non fa che aumentare, del resto non solo in Africa, ma anche in altre parti del pianeta. Basta pensare ai Rohingya della Birmania, che per sfuggire alle persecuzioni si sono rovesciati a centinaia di migliaia in Bangladesh. Per il quinto anno consecutivo i flussi di profughi si sono gonfiati, e altri se ne sono aggiunti raggiungendo la cifra di 68 milioni e 500 mila persone. Un record assoluto nella storia del mondo. Anche se 5 milioni hanno potuto fare

ritorno ai loro luoghi di origine, ben 16 milioni e 200 mila hanno dovuto mettersi in cammino abbandonando le case e quasi tutti i loro averi. Il Paese che ne produce di più è la Siria, 6 milioni e mezzo di persone. Viviamo in un mondo di uomini, donne, bambini – moltissimi bambini – in fuga. Questo ci dicono i dati, che comprendono i rifugiati veri e propri, i richiedenti asilo e gli sfollati interni, contenuti nell’ultimo rapporto Global Trends dell’Alto Commissariato Onu (http://www.unhcr. org/statistics/unhcrstats/5b27be547/ unhcr-global-trends-2017.html). Il rapporto, che è stato diffuso in giugno e contiene i dati del 2017, smentisce molti luoghi comuni e percezioni sbagliate. No, la stragrande maggioranza dei profughi non è ospitata nei Paesi ricchi d’Europa o d’America: l’85 per cento rimane accampata in Paesi in via di sviluppo a basso o bassissimo reddito. No, non siamo noi i più accoglienti: il Paese che ne ospita di più è la Turchia, 3 milioni e mezzo di persone. Il primo Paese europeo della classifica, la Germania, è solo quinto con 970 mila persone. E il Libano, come accade da moltissimi anni, è quello che ne ha il maggior numero in rapporto alla sua popolazione: uno ogni 4 abitanti. Quando l’Alto Commissariato per i Rifugiati fu istituito dalle Nazioni Unite alla fine degli anni 40 del secolo scorso, il suo mandato sarebbe dovuto scadere dopo tre anni. Il suo compito era di provvedere alla sistemazione della lunga scia di profughi e sfollati che si era lasciato dietro il Secondo conflitto mondiale. Una questione europea (dei palestinesi si doveva occupare un organismo creato ad hoc). Ma le emergenze presero a moltiplicarsi nei contesti più imprevisti. È chiaro da decenni che il problema è infinito e riguarda l’intero pianeta. L’italiano Filippo Grandi, che guida l’agenzia, torna a chiedere «un approccio molto più globale affinché i singoli Paesi e le singole comunità non siano lasciate sole ad affrontarlo». È gran tempo. Un rapporto pubblicato dalla Banca Mondiale alcuni mesi fa (http:// w w w.worldbank.org/en/news/infographic/2018/03/19/groundswell--preparing-for-internal-climatemigration) annuncia imminenti e catastrofici spostamenti di popolazione dovuti al cambiamento climatico. I raccolti insufficienti, la mancanza d’acqua, l’alzarsi del livello dei mari costringeranno decine di milioni di persone tra le più povere della Terra a mettersi in movimento. Quasi 150 milioni, di qui al 2050, di cui 86 milioni in Africa e il resto in Asia e America Latina. Solo agendo subito contro il riscaldamento globale, ammonisce la BM, l’onda può essere fermata. Altrimenti il mondo rischia di esserne travolto. / PV

Rifugiati sudanesi in coda per essere registrati a Ngomoromo, Uganda. (AFP)


Azione Settimanale della Cooperativa Migros Ticino • 2 luglio 2018 • N. 27

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Politica e Economia

Le pressioni sulla borsa svizzera

Svizzera-Unione Europea È in pericolo la sopravvivenza della borsa, dopo il 2019, se la Svizzera non fa passi

concreti in direzione dell’accordo con l’UE. Quali le misure di difesa?

Ignazio Bonoli Forse non è stata presa subito sul serio la specie di minaccia formulata verso la fine dello scorso anno dall’UE nei confronti della borsa svizzera. La Commissione UE aveva, infatti, comunicato di riconoscere il regolamento della borsa svizzera solo per un anno. Questo perché, nell’ambito delle trattative per l’accordo quadro, le autorità svizzere sembravano voler tirare le cose per le lunghe. In realtà, una prima reazione a Berna c’è stata. L’allora presidente della Confederazione, durante una conferenza stampa indetta il 21 dicembre, aveva letto una dichiarazione del Consiglio federale, nella quale si diceva che il governo aveva incaricato il Dipartimento delle finanze di Ueli Maurer di presentare entro fine gennaio 2018 proposte al Consiglio federale, tendenti a rinforzare la borsa e la piazza finanziaria svizzera. Nella stessa dichiarazione si poneva in primo piano la soppressione della tassa di bollo. Tema certamente impegnativo, ma formulato in modo piuttosto vago e con scarsa convinzione. Tant’è vero che una delle cose concrete da fare, cioè la soppressione della tassa di bollo, a metà dell’anno «di grazia» concesso dall’UE è ancora nei cassetti dell’Amministrazione federale. Del resto, questa operazione non sarebbe nemmeno di prima priorità, come dice un rapporto di esperti del gruppo «Futuro della piaz-

za finanziaria», creato dal Consiglio federale e diretto dal professor Aymo Brunetti. La prima priorità consisterebbe invece in una completa riforma dell’imposta preventiva. Confrontato con l’importanza della piazza finanziaria, il mercato svizzero dei capitali sarebbe «fortemente sottosviluppato» e l’ostacolo principale al suo sviluppo sarebbe proprio l’imposta preventiva. Le grandi imprese svizzere si servono spesso dei mercati esteri per emettere i loro prestiti ed evitare così il 35% di imposta preventiva, che all’estero, per emittenti esteri, è applicata solo in parte o perfino non prelevata. Si è calcolato che una diversa impostazione dell’imposta preventiva presso i grandi gruppi svizzeri potrebbe portare a un valore aggiunto tra i 300 e i 600 milioni di franchi, contribuendo così ad attirare o mantenere in Svizzera circa un migliaio di posti di lavoro, in campo finanziario, ben pagati. Il gruppo di esperti Brunetti non chiede la soppressione dell’imposta preventiva, ma una diversa applicazione a livello di obbligazioni e titoli del mercato del denaro, che, esentando le emittenti estere, favorirebbe l’attrattività internazionale del mercato elvetico. Il Consiglio federale si era già avviato su questa strada, ma si è fermato in attesa dell’esito dell’iniziativa sul segreto bancario che creava certe incompatibilità sul piano fiscale. L’iniziativa è stata ritirata e, nonostante qualche difficoltà di procedure, in rapporto con

il segreto bancario interno e il fisco, si potrebbe ora riformare l’imposta preventiva con impatto finanziario neutro. Le altre priorità sarebbero ora la soppressione della tassa di bollo sulle emissioni di capitale proprio e la soppressione della tassa sul commercio di titoli. Viste le connessioni, il Consiglio federale punta, però, sulla riforma della tassazione delle imprese e prevede il voto su un eventuale referendum nel febbraio 2019. Seguirebbe anche un nuovo voto sulla tassazione delle famiglie (soppressione della penalizzazione delle coppie sposate) e poi la riforma dell’imposta preventiva. Nel frattempo, il Consiglio federale ha trovato un’altra via d’uscita: chiedere alle borse delle piazze europee come Francoforte o Parigi, attraverso un’ordinanza, di riconoscere l’equivalenza della borsa svizzera anche dopo il 2019. L’ordinanza verrebbe emanata solo se questa equivalenza non fosse riconosciuta. In questo caso, alle borse europee verrebbe vietato di trattare titoli svizzeri. Maurer l’ha definita la «migliore delle soluzioni peggiori». Effettivamente, senza protezioni, la borsa svizzera soffrirebbe. Circa la metà delle transazioni sui «BlueChips» provengono dall’area UE e la borsa svizzera potrebbe anche non sopravvivere a un tale salasso, oppure lasciare la piazza svizzera. Per il momento, la situazione non è ancora così tragica. Quello della borsa è un altro mezzo di pressione verso l’accordo qua-

La sede della Borsa svizzera a Zurigo: lo stallo nei negoziati con Bruxelles rappresenta un pericolo da non sottovalutare. (Keystone)

dro da trovare con la Svizzera, dopo di che il problema si risolverebbe da solo. In caso contrario, entro la fine dell’anno, resteranno il tentativo di chiedere un ulteriore prolungamento del termine all’UE e/o prevedere misure di difesa della piazza svizzera. Il Consiglio federale è pronto ad agire, ma non ha

ancora detto con quali misure concrete. Una delle misure da adottare sarebbe la citata soppressione della tassa di bollo. Tutto dipenderà ancora una volta dai progressi che saranno stati fatti sull’accordo quadro. Accordo che nelle trattative con l’UE non è forse mai stato così vicino. Annuncio pubblicitario

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Azione Settimanale della Cooperativa Migros Ticino • 2 luglio 2018 • N. 27

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Politica e Economia Rubriche

Il Mercato e la Piazza di Angelo Rossi Ricchi e poveri Di ricchi ticinesi in Ticino ce ne sono pochi. I miliardari si possono contare sulle dita di una mano. Per tener conto anche dei multimilionari, sotto il miliardo di sostanza, basterà far ricorso alla seconda mano. Di questi tempi i nostri Paperoni usano riunirsi nella villa di un compaesano a Montecarlo per disputare il loro Trofeo Turistico misurandosi in gare di nuoto a ostacoli, di boccia, di pétanque, e in tornei di scopa e tresette. Chi ha mai detto che il denaro non fa felici: in realtà anche i ricchi ticinesi si divertono nelle loro oasi fiscali. I multimilionari residenti in Ticino sono intorno al centinaio. Sono stranieri che beneficiano della tassazione globale e pagano quindi meno tasse di quanto dovrebbero fare nel loro paese di origine. Il discorso sui ricchi può terminare qui. Nel nostro cantone, invece, molto più numerosi sono i poveri. Gli stessi si dividono

grosso modo in due categorie: i poveri che lavorano e i poveri che non lavorano. La prima categoria comprende quei lavoratori che ricevono un salario o uno stipendio così bassi da non consentire loro di far fronte ai loro impegni di spesa. La seconda categoria include in particolare i disoccupati che non hanno più diritto alle indennità dell’assicurazione contro la disoccupazione ma anche persone come i richiedenti l’asilo che, pur risiedendo in Ticino, non possono esercitarvi un’attività lucrativa. L’annuario statistico ticinese dedica un intero capitolo, il penultimo, alla situazione economica e sociale della popolazione, ossia alla statistica della povertà. Il lettore che volesse approfondire questo tema dal profilo dei numeri e delle percentuali farà bene a consultare questa pubblicazione. Sono due le domande alle quali la statistica può dare una risposta:

quanti sono i poveri e come evolve il loro numero. Precisiamo subito che la risposta a queste due semplici domande non è facile perché la stessa dipende dal modo come si definisce la povertà. Per molto tempo e, soprattutto, a livello di politiche sociali, la povertà è stata definita fissando una soglia di reddito, la soglia di povertà per l’appunto, al disotto della quale si trova la popolazione povera. Di solito questa soglia di povertà si situa verso il 60% della mediana del reddito disponibile. Così per esempio il nostro annuario ritiene come soglia per calcolare il tasso di rischio di povertà il 60% del reddito mediano disponibile in Svizzera. Con questa soglia, la quota dei poveri in Ticino superava, nel 2016, il 30% della popolazione: si tratta di una percentuale elevatissima, tenuto conto che, per la Svizzera il tasso di rischio di povertà, sempre nel 2016, non arrivava al

15%. Perché in Ticino dovrebbe esserci una quota di popolazione a rischio di povertà superiore al doppio della quota media della Svizzera è difficile da spiegare. Ancora meno comprensibile poi è il fatto che questa differenza, tra la quota media svizzera e la quota ticinese, si sia formata, come indica il grafico allegato, in soli 5 anni, a partire dal 2011. Dopo la crisi finanziaria del 2008 e fino al 2011, infatti, i valori dei tassi di rischio di povertà medio svizzero e ticinese erano molto più vicini. Ma , come si è già ricordato, la ricerca recente è molto critica nei confronti di definizioni del fenomeno della povertà in base a una soglia di reddito. Preferisce chiamare poveri le persone che soffrono di privazioni come l’essere in ritardo con i pagamenti, il non poter concedersi una vacanza, o un piatto di carne regolarmente, il dover rinunciare alla televisione a colori, a un riscal-

damento adeguato dell’appartamento, alla lavatrice, al telefono o all’automobile. Nel 2016, il 7,6% della popolazione ticinese si trovava in queste difficoltà. A livello svizzero, invece, il tasso di privazione non era che del 5,3%. Dopo la crisi del 2008, la quota in questione è dapprima diminuita, fino al 2011, per poi ricominciare a risalire sia in Ticino che in Svizzera. L’aumento della quota dei poveri, che si manifesta, a partire dal 2011, indipendentemente dalla definizione del fenomeno di povertà, domanda di essere spiegato. Ci sono più fattori come, ad esempio, l’aumento dell’effettivo dei rifugiati, l’aumento di quello dei disoccupati che non ricevono più indennità dall’assicurazione contro la disoccupazione, ecc, che potrebbero concorrere a una spiegazione. Finora però nessuno si è preoccupato di eseguire questa analisi. Ecco un bel tema per una tesi di master.

vedere nella polvere. Purtroppo gli amici di Salvini hanno interessi antitetici a quelli dell’Italia. Seehofer e i bavaresi, proprio come l’austriaco Kurz e i governi di Budapest, Varsavia, Praga e Bratislava, non soltanto non intendono ospitare la loro quota di migranti, ma vorrebbero rispedirci quelli sbarcati sulle nostre coste che sono riusciti ad andare altrove. A parole sono ovviamente tutti d’accordo nel voler combattere gli scafisti; a tremila chilometri di distanza, però. Per questo il compito di Conte, il debolissimo presidente del Consiglio, è tanto difficile. Ormai è chiaro, al di là delle rassicurazioni verbali partorite da ogni riunione, che l’Europa rischia di saltare non su Maastricht ma su Schengen, non sull’euro ma sui migranti. Del resto il principio di libera circolazione delle persone fu pensato per permettere a ogni cittadino dell’Unione di studiare e lavorare negli altri Paesi come se fosse a casa; non per consentire agli immigrati africani di approdare – grazie a un traffico gestito da criminali – in un’isoletta in mezzo al Mediterraneo e proclamare

«siamo in Europa e non potete più mandarci via». L’Europa ha il dovere di salvare le vite e accogliere i profughi, andando se necessario a prenderli nei loro Paesi, e ha il diritto di respingere i flussi che valuta di non poter integrare. Finora, però, la questione è stata trattata come un affare interno ai vari Paesi; e il gruppo di Visegrad intende continuare così. Altro che asse con Roma. Il governo italiano fa bene a rintuzzare gli attacchi irrispettosi delle libere scelte degli elettori, e a far notare a Macron l’atteggiamento francese sulla frontiera tra Ventimiglia e Mentone, rigido al limite della crudeltà. Ma, anziché inasprire il rapporto con un alleato storico da cui non potrebbe comunque prescindere, considerato quanto sono intrecciate le due economie, il governo dovrebbe guardarsi dai falsi amici. E sbaglierebbe a ritirarsi sdegnosamente dalla scena europea. La politica della sedia vuota storicamente non ha mai pagato; soprattutto se la sedia vuota è quella di un Paese come l’Italia, che non è una grande potenza ma può avere un ruolo cruciale proprio in virtù delle sue capacità di mediazione. La Cancelliera

non riscuote grandi simpatie; in questo momento resta però il miglior interlocutore che si possa avere in Germania. I suoi successori potrebbero farla rimpiangere. E comunque dall’Italia si guarda con ammirazione alla Svizzera, non solo perché gioca i Mondiali da cui gli azzurri sono esclusi. La Svizzera ha schierato in Russia un’interessante squadra multietnica, segno dell’apertura del Paese al mondo; anche se colpisce che Shaqiri giochi con lo stemma del Kosovo su una scarpina, mentre Xhaka e Shaqiri hanno mimato dopo il gol l’aquila a due teste, simbolo della Grande Albania. Gli svizzeri di origine kosovara vogliono che il loro Paese d’origine sia indipendente, o che faccia parte di un altro Stato più grande? Forse, più che rivendicazioni politiche, si tratta di un richiamo identitario. Si può amare la patria d’adozione, e giocare per lei, senza dimenticare la propria terra d’origine. Magari gli italiani sapessero integrare profughi e immigrati. Invece le apparizioni in Nazionale di Balotelli – che litiga spesso con Salvini – continuano a provocare polemiche.

Ora, è abbastanza normale che la federazione elvetica escluda a priori che la sua nazionale rimanga in lizza fino alla finale: se anche succedesse il miracolo, tutti i giocatori rossocrociati (salvo uno, mi pare) militano in campionati esteri e quindi avrebbero comunque tempi di recupero. È però deplorevole che una simile programmazione venga rifilata senza tenere in considerazione le esigenze di migliaia di sportivi e tifosi. Ma a Berna cosa pensano? Che dopo una mesata all’insegna del mantra fantozziano «frittatona di cipolle, familiare di birra gelata, tifo indiavolato e rutto libero» davanti al televisore, oltretutto spalmato su tre o quattro partite al giorno, il popolo del calcio elvetico possa rimettersi subito in piedi, anzi: in marcia per recarsi negli stadi a seguire un campionato «super» di nome, ma recitato da giocatori che non fanno parte della nazionale svizzera? Questo modo di agire è un’indiretta

conferma che a programmare gli eventi sportivi sono sempre più le televisioni, sempre più impanicate dall’estate vuotissima (e da metà luglio priva persino di un «Russo ma non dormo»). Qualcuno crede ancora che a gestire inizio e date dei campionati nazionali di calcio siano le federazioni? Ma quelle ormai incassano soltanto; chissenefrega degli stadi vuoti! I club devono marciare e basta, dal momento che una fetta dei soldi delle televisioni (dai diritti di ritrasmissione per i tornei mega-galattici a quelli per derby e carabattole) se la spartiscono tra di loro, i programmi li fissa chi paga. I giocatori sono stanchi? È il rovescio della medaglia, bellezza; in linea con i milioni dei contratti televisivi e delle vendite, come pure degli stipendi che le società versano ai giocatori. E i tifosi? Che si arrangino! Dopo decine di portate (pardon: partite) con cuochi e ingredienti sopraffini, per il loro «rutto

libero» dovranno tornare al minestrone riscaldato, ai wienerli con patate o ai bratwurst allo stadio. Insomma, Fifa, Uefa e federazioni non hanno tempo da perdere: devono fissare date e dettare scadenze seguendo teorie e tempi del marketing televisivo. E stanno già pensando al prossimo mondiale (ma guarda tu: proprio nel Qatar... Come trasmissione serale prevedo un «C’ho il catar e non sto neanche troppo bene») a cui vanno aggiunte quattro Champions e Euro League, poi gli Europei, l’Africa Cup, la Copa America e via dicendo sino ai mondiali Under qualcosa e femminili. Tutti eventi da trasmettere in rapida successione, in diretta planetaria, in chiaro o streaming, presto anche in confezioni spray pur di tenere in vita il mantra fantozziano. Calcio e altri sport, ormai tele-dipendenti in tutto e per tutto, avviati sempre più verso l’estinzione? Bella domanda e... risposta solo dopo la pubblicità.

In&outlet di Aldo Cazzullo Immigrati, Europa e aquila a due teste L’Europa non riesce a fermare i migranti e non riesce neppure a mettersi d’accordo su come gestire qualche decina di migliaia di persone. Non c’è una crisi migratoria in corso; c’è una crisi politica, interna all’Italia e alla Germania. E il nervosismo è evidente. I leader politici di Italia e Francia non si erano trattati così male neppure quando si facevano la guerra. La dichiarazione del 10 giugno 1940 fu consegnata anzi in un clima quasi amichevole, con l’ambasciatore André François-Poncet che con preveggenza ammonisce Ciano: «I tedeschi sono padroni duri, ve ne accorgerete anche voi». Oggi il presidente francese parla di «lebbra populista» a proposito dell’Italia, e i due vicepremier lo attaccano tutti i giorni: per Di Maio è «il nemico numero uno» del nostro Paese, per Salvini è un «arrogante che beve troppo champagne». È evidente: più Emmanuel Macron attacca il capo della Lega, più lo rafforza, almeno in Italia. Siccome «Manu» (ma guai a chiamarlo così in pubblico, vi rimprovererebbe con durezza come ha fatto con un ragazzino impertinente) è tutt’altro che uno sprovveduto, se

insiste nel criticare Salvini è perché ha interesse a farlo. Macron i populisti li ha in casa; ma non sono loro a fargli paura. Anzi, ne ha bisogno, per mantenere la sua centralità ed essere rieletto. Sa che in un ballottaggio con Marine Le Pen (o con sua nipote Marion) vincerebbe grazie ai voti del centrosinistra, e in un ballottaggio con Mélenchon vincerebbe grazie ai voti del centrodestra. Il suo regno sarebbe in pericolo se emergesse – più facilmente in campo neogollista che in quello socialista – una personalità credibile; che però all’orizzonte non si vede. Il macronismo è invece isolato in Europa, dove – tranne forse lo spagnolo Sanchez, che però è un premier a tempo – non ha sponde per il suo disegno europeista. Ma la guerra di carta con il presidente francese, per quanto inutile e controproducente, non deve ingannare. Il bersaglio grosso di Salvini non è Macron; è Angela Merkel. Ovviamente non può farla cadere lui; ma ha simpatia per tutti quelli che – da Trump a Putin, dal gruppo di Visegrad al ministro dell’Interno tedesco Seehofer – la vorrebbero

Zig-Zag di Ovidio Biffi Nessun rispetto per «rutto libero» Nonostante il titolo, tratto avvenimenti sportivi. Uno «live», che di più non si può: l’avvio dei mondiali di calcio in Russia, con la scontata vittoria dei padroni di casa su un’Arabia Saudita neofita in tutto, anche nelle trappole della pubblicità. I sauditi hanno scoperto l’intero perimetro dello stadio tappezzato da insegne «casualmente» acquistate da Qatar Airways, cioè dalla compagnia di bandiera del piccolo Stato che Arabia Saudita, Emirati Arabi Uniti, Bahrein ed Egitto hanno sottoposto a embargo. L’altro avvenimento, assai meno «eclatante», annunciato anch’esso il giorno della partita inaugurale di Mosca: in Svizzera il campionato di calcio inizierà sabato 21 luglio. Ce ne sarebbe un terzo: la nascita della trasmissione «Russo ma non dormo» della RSI. Non siamo ancora in cima alla palmita, ma l’avvio è di quelli che consentono di dire: finalmente qualcosa di diverso. Il Shaqiri della situazione,

irriverenti «aquilate» comprese, e Niccolò Casolini inatteso mattatore, ma un po’ tutti (dall’esordiente regista ai conduttori) meritano plauso. La consegna ora è «non esagerare». Torno alle due notizie per spiegare che, anche se riguardano entrambe il calcio, giungono da due mondi diversi. Russia 2018 è avvenimento planetario e Putin gongola; il campionato svizzero invece è equiparabile a delle tante porte d’ingresso di un formicaio, anche se pomposamente viene denominato «Super League», rigorosamente in inglese, forse perché la Svizzera c’è la sede della Fifa proprietaria della «Champions League». Cercando di privilegiare un pizzico di ironia, mi soffermo allora sulla quasi concomitanza fra i due eventi: Putin chiuderà il torneo mondiale la sera del 15 luglio e nemmeno una settimana dopo, il 21 luglio per la precisione, la federazione svizzera arriva a proporre l’esordio del suo campionato.


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Azione Settimanale della Cooperativa Migros Ticino • 2 luglio 2018 • N. 27

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Cultura e Spettacoli Brodsky e Baryshnikov Uno spettacolo teatrale celebra l’amicizia tra due dei più importanti artisti russi in esilio

Il romanzo del Dott. Mengele La vita del criminale nazista, tra storia e finzione, raccontata dallo scrittore francese Olivier Guez pagina 25

Via Crucis a Carona Un percorso spirituale che diventa spazio di una ricerca artistica contemporanea pagina 26

pagina 24

Shakespeare all’Opera Va in scena alla Fenice una versione del Riccardo III musicata da Giorgio Battistelli

pagina 27

Samurai in armatura. (musec.ch)

I gusci della battaglia

Mostre Dal 4 maggio al 26 agosto la nuova sede del Museo delle Culture di Lugano ospita

Il samurai. Da guerriero a icona, un’esposizione dedicata all’immagine dei nobili soldati nipponici Daniele Bernardi Quando al termine di un percorso didattico accompagno un gruppo di teatranti al debutto – può trattarsi di adolescenti, giovani alle prime armi o, ancora, utenti psichiatrici – riporto quanto, molti anni fa, Cristina Castrillo ripeteva ai noi attori dello spettacolo Il ventre della balena (Teatro delle Radici, 2004). Parafrasando il maestro del teatro polacco Jerzy Grotowski, la regista ci ricordava che, sul palcoscenico, l’attore dovrebbe comportarsi come un samurai. Per andare in battaglia, i guerrieri dell’antico Giappone dimenticavano quel che avevano imparato – le precise posture del combattimento, le mosse mortali, i gesti di difesa – e, svuotata la mente, lo mettevano in pratica senza esitare (nell’Hagakure, celebre testo sulla formazione del combattente redatto da Tsunetomo Yamamoto nel 1716, è scritto che ogni decisione andrebbe presa «nello spazio di sette respiri»).

Inevitabilmente, la medesima asserzione mi accompagna oggi, mentre visito la mostra temporanea Il samurai. Da guerriero a icona negli spazi di Villa Malpensata, la nuova sede del MUSEC – Museo delle Culture della città di Lugano. Concepito come una sorta di anteprima di ciò che, fra un anno, sarà la dimora della collezione, questo piccolo evento è un vero gioiello; il suo centro irradiante sono le dieci splendide armature che Paolo Morigi, da sempre appassionato sostenitore della struttura, ha donato al museo; a queste si aggiungono delle xilografie tematiche risalenti al XVIII e XIX secolo e una serie di fotografie all’albumina eseguite tra la fine dell’Ottocento e gli anni Venti. Raggiunto lo Spazio Cielo (così si chiama il terzo piano espositivo dell’edificio) il visitatore è dapprima accolto da un raffinato brano orientale che serpeggia tra i cinque locali della mostra. Varcata la soglia, come gusci di insetto compaiono le corazze. La maggior parte di queste appartiene a epoche successive all’unificazione del Giappone (1603)

da parte dello shōgun Tokugawa Ieyasu; si tratta dunque, soprattutto, di vestiari pensati per parate e cerimonie, fittamente decorati e di grande impatto. Di stanza in stanza, ecco fare capolino un’armatura blu elettrico, sul cui elmo a trentadue piastre troneggia un cimiero a forma di drago; un armatura dorata, simile a un idolo, con gli immancabili baffi che biancheggiano sulla maschera; un’armatura nera come il petrolio, con un fiore dipinto sull’addome; una meravigliosa armatura degli anni Venti-Trenta, anch’essa di colore scuro ma attraversata da fettucce di seta viola, due corna di cervo ai lati dell’elmo e un aspetto complessivo che rammenta Dart Fener, indimenticabile figura della saga cinematografica Star Wars (l’influenza che l’iconografia del samurai ha avuto sulla cultura di massa, si sa, è enorme, e anche a questa la mostra dedica un breve video). Ma di tutte, forse la più affascinate per la sua ruvidezza è una semplice corazza da guerra degli inizi del Seicento: con le sue piastre laccate di un ros-

so degno del Ran di Kurosawa, seduta sulla sua cassa di legno sembra guardarci con gli occhi vuoti di un antico crostaceo. Non meno ricca è la parte del percorso dedicata alle stampe e alle fotografie. Nelle prime troviamo rappresentate immagini di battaglia, solitari guerrieri a cavallo, duelli fra eroi, soldati in fuga su spiagge battute dalle onde, spettacolari combattimenti su ponti vermigli e ricurvi. In queste scene, perlopiù atte a illustrare racconti popolari – come quello celebre dei Quarantasette rōnin che, vendicato il padrone ucciso, eseguirono collettivamente il suicidio rituale seppuku col consenso dello shōgun –, è evidente la tendenza dell’arte nipponica «a un marcato geometrismo che volge all’asimmetria», alla «ricerca del valore propositivo del vuoto» e al desiderio di cogliere «l’atmosfera di un attimo fuggente». Fra i nomi degli artisti esposti, troviamo quelli di Katsushika Hokusai, Utagawa Kuniyoshi e Tsukioka Yoshitoshi.

Nelle fotografie è invece la rappresentazione di un esotismo ammiccante alla curiosità occidentale a farsi sentire; si tratta infatti di scatti vòlti a irretire quei viaggiatori affamati di Oriente che, dalla fine dell’Ottocento, grazie a scrittori quali Lafcadio Hearn ed Ernest Fenollosa, coltivavano il mito del «Giapponesismo». Ecco che nelle immagini della Scuola di Yokohama – principale centro di propagazione del fenomeno – troviamo allora ricostruzioni della vita quotidiana e dei rituali che non rispettano tanto l’autenticità, quanto il vago immaginario dello straniero in visita; valga come esempio fra tutti il grottesco ritratto di un giovane che compie harakiri in stile europeo! Ma non sono solo l’insieme dell’allestimento e i pezzi esposti al MUSEC ad avere grande fascino, pure il ricco catalogo a cura di Moira Luraschi è una miniera di storie, informazioni, riflessioni e ulteriori immagini da scoprire. Insomma, una chicca, questo Il samurai. Da guerriero a icona, che lascia ben sperare per i progetti futuri del museo.


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Cultura e Spettacoli

Un dialogo poetico sul palcoscenico Teatro Brodsky/Baryshnikov mette in scena l’amicizia tra uno dei maggiori ballerini

e uno dei più grandi scrittori russi

Matteo Campagnoli Il diminutivo di Mikhail, Misha, in russo suona quasi come mysh, «topolino», ed è così che Brodskij chiamava affettuosamente Baryshnikov. Come molti ballerini classici, anche lui è piuttosto minuto, ma a settant’anni il suo fisico è ancora prodigioso e anche solo quando cammina sul palco si capisce che è stato uno dei più grandi danzatori di sempre.

I due artisti, entrambi esuli in America, sono tra i migliori nei rispettivi campi espressivi Come dichiara il titolo, Brodsky/Baryshnikov è uno spettacolo personale, intimo, la ramificazione estrema di un dialogo fra due amici che va avanti da più di mezzo secolo, benché da tempo a parlare per Brodskij, prematuramente scomparso nel 1996, siano solo le sue poesie. E a queste Baryshnikov dà voce, corpo e anima in una performance che è insieme teatro e vita: il suo legame con i versi del poeta russo è profondo e risale a quando, giovane astro nascente al teatro di Riga, li leggeva e li imparava a memoria sfidando la censura sovietica che li aveva proibiti. Era stato poi il violoncellista Mstislav Rostropovič a farli incontrare, a

New York nel 1974. Brodskij aveva alle spalle due anni di esilio preceduti da diversi arresti e da una condanna al confino per «parassitismo sociale» che, grazie a una trascrizione clandestina del processo circolata in Occidente, invece di zittirlo lo aveva reso famoso. L’Unione Sovietica Baryshnikov l’aveva invece lasciata volontariamente qualche mese prima, benché in patria fosse idolatrato: durante una tournée canadese del balletto Mariinskij, era uscito dal retro del teatro in cui si era appena esibito e aveva corso per due isolati fino all’auto che lo avrebbe portato al sicuro, ma anche verso l’incertezza di una nuova vita. Quella sera a casa di Rostropovič, Brodskij lo aveva visto entrare e come se si conoscessero da sempre gli aveva detto: «Siediti qui, abbiamo delle cose da dirci». Da allora non avevano più smesso di parlarsi. A legarli per più di vent’anni è stata un’affinità elettiva ma anche un talento smisurato e una dedizione alla propria arte che avrebbero portato Brodskij a vincere il Nobel per la letteratura a soli quarantasette anni e Baryshnikov a imporsi sui più importanti palcoscenici del mondo. Ma le carriere nella danza classica, diversamente da quelle letterarie, finiscono presto. Dopo quattro anni con l’American Ballet Theatre e due con il New York City Ballet di Balanchine, per l’erede di Nijinskij e Nureyev erano arrivati i primi veri problemi: una grave tendinite, l’età. Baryshnikov è stato però capace di far de-

Un momento dell’allestimento. (J. Deinats)

fluire la sua vena artistica nelle più disparate direzioni, dalla danza moderna a Hollywood, da Sex and the City al teatro concettuale di Bob Wilson. Ora, fantasma e alter ego del suo amico, non danza ma interpreta, incarna, si lascia plasmare dalla prosodia russa, duetta con la voce di Brodskij che, registrata, ci sorprende come dall’aldilà. Sorretta dalla raffinata scenografia di Kristīne Jurjāne, la messa in scena del regista Alvis Hermanis coniuga es-

senzialità e decadenza in un’atmosfera retrò: un gazebo, una sedia, alcuni oggetti del passato. La scelta dei testi è tutta volta a sottolineare il distacco, la transitorietà, le sottrazioni del tempo, alle quali però si contrappone in modo struggente la poesia, che della memoria è la forma più duratura anche quando canta la perdita. Baryshnikov perlopiù ricuce frammenti ma alcune composizioni vengono recitate per intero, o quasi, come «1972», ampia e splendida

poesia sulla vecchiaia scritta a soli trentadue anni, e la mozartiana «Farfalla». Dopo il debutto napoletano di fine giugno, ai primi di luglio Baryshnikov sarà a Firenze e poi a Venezia, città amata da Brodskij che le ha dedicato alcune poesie indimenticabili e un meraviglioso libretto di prose, Fondamenta degli Incurabili, e nella quale è ora sepolto sull’isola di San Michele, là dove a danzare, indifferenti ai regimi e al tempo, sono i riverberi del sole sulle onde. Annuncio pubblicitario

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Cultura e Spettacoli Un gruppo di ufficiali SS ad Auschwitz: il primo da sinistra è Mengele. (Keystone)

Il folle redattore di lemmi per il dizionario Editoria Esce da Adelphi il romanzo

di Simon Winchester Il Professore e il pazzo Mariarosa Mancuso

Il criminale morale

Editoria Un romanzo dello scrittore francese Olivier Guez

ricostruisce e ricrea la biografia di Josef Mengele Luigi Forte Lo chiamavano l’angelo della morte. Aveva dissezionato, torturato, bruciato bambini, spedito nelle camere a gas di Auschwitz quasi quattrocentomila persone, come ci racconta lo scrittore e sceneggiatore francese Olivier Guez nel suo intenso romanzo La scomparsa di Josef Mengele edito da Neri Pozza nell’ottima traduzione di Margherita Botto. Era nato nel 1911 a Günzburg, in Baviera, dove suo padre possedeva una florida azienda di macchine agricole. Ma lui aveva altro per la testa: voleva diventare medico e ricercatore ed essere ricordato per qualche importante scoperta. Divenne invece tristemente famoso come uno dei maggiori criminali nazisti. Laureato in antropologia e in medicina, già nel 1937 Mengele era assistente di Otmar von Verschuer, illustre scienziato noto per gli studi sulla genetica, che gli trasmise l’interesse per i gemelli da lui analizzati e sezionati nei ventuno mesi di permanenza nel lager di Auschwitz a partire dal maggio del 1943. L’ambizioso dottore non aveva perso tempo: appena ventenne entrò nell’organizzazione paramilitare «Elmetti d’acciaio» per poi confluire nelle SA, le «camicie brune» di Ernst Röhm. Diventerà presto membro del partito nazionalsocialista e l’anno dopo, nel 1938, delle SS, fino a conseguire il grado di capitano per i suoi meriti di guerra nell’aprile del 1943. Fu però Auschwitz il suo «trionfo». Ossessionato dal gusto dei dettagli, dall’efficienza e dalla cura dei particolari, vi trovò il laboratorio ideale per proseguire alla perfezione le sue ricerche. Poteva analizzare, operare, sezionare qualsiasi soggetto e inviare al professor Verschuer i suoi preziosi prelievi: midollo, occhi, sangue, organi di esseri umani. Freddo e instancabile, convinto di agire da uomo morale, come racconterà all’amico Hans Ulrich Rudel colonnello della Luftwaffe, incontrato con tanti altri ex nazisti a Buenos Aires. Perché ad Auschwitz – ribadisce – lui aveva curato il corpo della razza e lottato contro i nemici interni: omosessuali e asociali e soprattutto ebrei, «quei microbi che da millenni operano per distruggere l’umanità nordica». Non è bastato il crollo del Terzo Reich per mettere fine alla sua paranoia. Continua a pontificare in terra argentina nell’ambiente della casa editrice nazista Dürer, dove passa per un intellettuale e ha modo di conoscere molti camerati che ancora aspirano a riconquistare la Germania. Per tutti vale il motto dell’aviatore Rudel, il pilota più decorato della storia tedesca: «È perduto solo chi si lascia andare». E lui ha pensato bene di mettersi al sicuro in un paese dove i sogni im-

perialistici del futuro dittatore Perón lasciano ben sperare. Si mimetizza dietro un paio di baffi e un documento di viaggio della Croce Rossa: alla dogana argentina lo prendono quasi per un hidalgo con quella carnagione e quei capelli così scuri. Dal 22 giugno del 1949 quando sbarca nel nuovo continente si chiama Helmut Gregor, è cittadino tedesco di nazionalità italiana, cattolico, di professione meccanico. Qui comincia la lenta, inesorabile discesa agli inferi di Josef Mengele che Guez segue con grande estro in una narrazione oscillante fra l’invenzione romanzesca e la testimonianza storica. La ricca documentazione di cui si è servito rivive come sullo schermo cinematografico con il ritmo incalzante di un thriller. Perché questa è la storia di una fuga, di una sempre più misera clandestinità dove l’inafferrabile principe delle tenebre, il moderno Caino, che adora i romantici tedeschi e la musica di Wagner, si trasforma in un commerciante, in un esperto svizzero di allevamento, in un contadino. Lavora in aziende agricole nella savana, si sposta fra l’Argentina, il Paraguay del dittatore Stroessner e infine il Brasile, dove si adatta a vivere in un bungalow, una catapecchia fatiscente nella periferia degradata di San Paolo. Certo, ci sono stati anche momenti belli e felici che per un attimo gli hanno fatto credere di essere finalmente al sicuro. È vero che la moglie Irene e il figlio Rolf non l’hanno seguito, ma ben presto si consola con la cognata Martha rimasta vedova che lo raggiungerà con il proprio figlio. Lui ottiene un prestito e acquista una splendida villa con piscina. La vita gli sorride: ha di nuovo una famiglia, molti amici che lo proteggono, una posizione regolare presso le autorità argentine e i parenti bavaresi sempre disposti a sostenerlo finanziariamente. Nessuno – è ormai convinto – riuscirà ad arrestarlo. Destino individuale e background storico si fondono in un unico racconto e rendono via via sempre più animata la scena del romanzo con gruppi di vecchi, recidivi nazisti fra cui spicca la figura di Eichmann rapito da agenti del Mossad nel maggio del 1960, spie, dittatori da operetta e icone femminili come Evita Perón osannata e venerata dalle folle. Ma già si annunciano le prime crepe. Mengele viene arrestato per aver procurato degli aborti clandestini; se la cava corrompendo un ufficiale di polizia. Nel frattempo un giornalista di Ulm sporge denuncia contro di lui e il suo nome rimbalza sulla stampa tedesca perché una ex governante ha raccontato che vive in Sudamerica. L’uomo, in preda al panico, fugge di casa e si trasferisce da solo ad Asunción in Paraguay. Ma sembra ormai impossibile bloccare la slavina che rischia di

travolgerlo. Un comunista austriaco sulle sue tracce trasmette un dossier al ministro federale della Giustizia, mentre il procuratore di Friburgo spicca un mandato di cattura nei suoi confronti e il governo di Bonn ne chiede l’estradizione a Buenos Aires. Però anche stavolta l’aguzzino ce la fa grazie al denaro e ad amici compiacenti e riesce ad ottenere in brevissimo tempo la cittadinanza paraguaiana. Ormai il caso Mengele è all’ordine del giorno; anche il Mossad è sulle sue tracce. Ora vive in Brasile in una vecchia fattoria nella savana presso gli Stammer, una coppia di ungheresi. Ma la fortuna è dalla sua parte: il servizio segreto israeliano dovrà presto occuparsi d’altro e tralascia la ricerca, mentre il governo della Rft nel suo tentativo di estradizione va a sbattere contro un muro di omertà e indifferenza. Il racconto di Guez è ancora più avvincente quando scivola nella quotidianità del personaggio, perché l’invenzione romanzesca lascia nel lettore la sensazione di un nucleo profondo di veridicità storica. È il miracolo di questo libro nel quale anche la fantasia sembra filtrata dai documenti. In realtà l’autore è penetrato così a fondo nel personaggio da rendercelo verosimile perfino nei momenti più privati: nelle angosce e nelle fobie di Mengele come nei suoi rapporti intimi con la signora Stammer o nei violenti contrasti con il marito. Come anche nel rapporto problematico con il figlio Rolf che, ormai adulto, andrà a trovarlo per porgli una domanda fondamentale: che mi dici di Auschwitz, papà? Non ci sarà risposta ma solo un farfugliare di vecchia retorica nazista e l’eterna inaccettabile giustificazione: non ero che una rotella dell’ingranaggio come tanti altri. Poi diventerà una sorta di fantasma, introvabile, irraggiungibile, l’icona impalpabile di quel Male assoluto che la mente umana stenta perfino a immaginare. La sua fine ce la racconta uno degli ultimi compagni, un certo Bossert, ex caporale della Wehrmacht. È il 7 febbraio 1979, quando Mengele in stato quasi confusionale, dopo una breve passeggiata con l’amico, si butta in mare e annega. Verrà sepolto a Embu sotto falsa identità. Ma negli anni ottanta Bossert vuota il sacco e i medici legali identificano «con ragionevole certezza scientifica» lo scheletro riesumato come appartenente al criminale nazista Josef Mengele. Il caso è archiviato, ma Guez ci ricorda con il suo splendido libro di mantenere viva la memoria e la resistenza a ogni insidia del male. Bibliografia

Olivier Guez, La scomparsa di Josef Mengele, traduzione di Margherita Botto, Neri Pozza,p. 202, € 16,50.

Di tanto in tanto si discute, in toni curiosi o polemici, delle nuove parole ammesse nei dizionari. Lo Zingarelli edizione 2019 – che affianca al solito volume un’edizione pop in cofanetto con una t-shirt firmata Valentino Rossi, a cui si deve anche la voce d’autore «velocità» – ne ha un migliaio (su 450 mila voci e 380 mila significati). Anno dopo anno, sono entrati nel grande registro della lingua italiana le parole «chatbox» e «burkini», «Uber» e «influencer», «tamarrata» e «apericena». L’Accademia della Crusca, che della lingua italiana è invece il salotto buono, ha su internet un sito dedicato alle parole nuove. Alla M abbiamo trovato un orrendo «microondabile», alla G un «girotondo», che ormai non sta solo per il classico gioco «tutti giù per terra», ma per certe manifestazioni della sinistra italiana nate da un’idea di Nanni Moretti (tutti a prendersi per mano circondando i centri del potere). Alla P troviamo «pentastellato» (aspettavamo di trovare anche «petaloso», franato nel ridicolo dopo pochi giorni). Alla H c’è «hipster», ovvero i giovanotti con la barba e in qualche caso lo chignon che indossano calzoni stretti e corti, mostrando caviglie nude o calzini colorati. Alla «I» c’è impiattare, giusto per dimostrare che non è solo l’inglese a rovinare «la nostra bella lingua», come dicono i fanatici della materia. Diamo i dizionari per scontati, bisognosi ogni tanto di un’aggiustatina. Non pensiamo mai che un giorno sono stati compilati a partire da zero. Per la lingua inglese – che batte tutte le altre, quanto a numero di parole – il primo a sobbarcarsi il compito fu il dottor Samuel Johnson. Fece tutto da solo, cominciando nel 1746 e impiegando nove anni (si era illuso di farcela in tre). Lavorava con i volumi della sua biblioteca, più altri presi in prestito dagli amici (e ridotti in pessime condizioni). Compilò 42 mila voci. In La fiera delle vanità di William Makepeace Thackeray, il dizionario di Samuel Johnson viene donato alle allieve che lasciano Chiswick Mall. Ne riceve uno Amelia Sedley, studentessa che ha pagato la retta. Ma la direttrice Miss Pinkerton rifiuta di sprecarne un altro per Becky Sharp, che era stata accolta per carità (figlia di un pittore e di una ballerina francese, pagava dando

È nato in Inghilterra nel 1944 ma vive negli Stati Uniti. (Youtube.com)

lezioni). Il dizionario non regge fino alla fine del vialetto. Becky Sharp lo strappa dalle mani di Amelia e lo scaraventa fuori dalla carrozza. Il dizionario di Samuel Johnson regnò incontrastato per più di un secolo. Fino a che la Philological Society di Londra, nel 1857, avviò i lavori per l’Oxford English Dictionary. La direzione fu affidata a Sir James Murray, il primo volume uscì nel 1884, il decimo nel 1928, gli ultimi aggiornamenti comprendono «selfie» e «mansplain» (vale a dire le spiegazioni date dai maschi alle femmine con il tono «Io grande cacciatore, tu piccola donna bianca»). Su questo sfondo arriva la magnifica storia – magnificamente raccontata da Simon Winchester, cosicché il piacere non raddoppia ma viene elevato al cubo – in Il professore e il pazzo (Adelphi). Ogni capitolo inizia con una voce tratta dall’Oxford English Dictionary, da «murder» a «philology» passando per «diagnosis». Per non perdersi neppure una parola, sir James Murray decise di far collaborare l’Inghilterra intera. Chiunque sapesse leggere e scrivere poteva redigere una o più voci voci, che poi sarebbero state vagliate dai linguisti. Dopo qualche anno, il più assiduo collaboratore su base volontaria era un certo W.C. Minor. Una ricerca rivelò che le lettere arrivavano dal manicomio criminale di Broadmoor. Siccome aveva i suoi pregiudizi, come tutti noi, il filologo capo pensò che l’infaticabile collaboratore fosse il direttore del carcere. Sbagliato. Era uno dei ricoverati. Il manicomio criminale di Broadmoor esiste ancora, lì è cresciuto il romanziere Patrick McGrath (sotto un altro nome, fa da sfondo al suo romanzo Follia). Al ricoverato W.C. Minor il direttore aveva consentito di tenere in cella la propria collezione di libri antichi. Era costui un medico dell’esercito americano che aveva trovato rifugio nei bassifondi di Londra, pur non essendo sprovvisto di mezzi. In preda a un attacco di follia paranoide uccise un passante. Sir James Murray andò a trovarlo più volte, insieme discorrevano di parole rare come «chaloner», un tessuto leggero di lana per fodere, o «gondola». Il compilatore carcerato mandò migliaia di schede. Tutte a proposito, su lemmi in lavorazione, come se fosse dotato di sesto senso. Matto, ma preziosissimo.


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Cultura e Spettacoli

Lungo la via dell’arte Via Crucis A Carona le cappelle che portano al santuario

della Madonna d’Ongero accolgono le opere di quattordici artisti contemporanei

Alessia Brughera Il legame tra Carona e l’arte può ben dirsi solido se si pensa che proprio questo piccolo villaggio sovrastante il Ceresio ha dato i natali a molti di quei «magistri» che tra il XV e il XVIII secolo hanno impreziosito con il loro lavoro diverse città europee: architetti, pittori, scultori, scalpellini e stuccatori partivano dal borgo ticinese alla volta delle corti più prestigiose, richiestissimi com’erano per la grande abilità con cui sapevano costruire e decorare edifici di culto e palazzi. L’appellativo di «paese degli artisti» calza dunque a pennello a Carona, dove queste stesse maestranze hanno lasciato tracce del loro operato negli ornamenti delle chiese e delle dimore locali, visibili passeggiando per le viuzze del nucleo storico. Tra le testimonianze artistiche più significative presenti a Carona c’è il santuario della Madonna d’Ongero, splendida architettura barocca raggiungibile dall’abitato percorrendo un breve sentiero in mezzo al bosco: faggi e castagni conducono a una radura in cui una Via Crucis di quattordici cappelle dà vita a un suggestivo percorso verso l’edificio religioso. Disposte su due file, queste stazioni immerse nel silenzio della natura sono diventate lo scenario di una mostra che rinnova e rende ancor più forte il rapporto che il paese ha con l’arte, in una

feconda fusione di creatività e contemplazione. La rassegna è un progetto culturale del tutto nuovo per il nostro cantone, unico nel creare una connessione così diretta e audace tra arte contemporanea e sacralità del passato: curata dalla Buchmann Galerie di Agra e Lugano, dalla Galleria Daniele Agostini di Lugano e dal critico d’arte Dalmazio Ambrosioni, raccoglie le opere di quattordici maestri internazionali provenienti da diversi Stati e artisti legati al territorio, tutti chiamati a confrontare la propria ricerca con un luogo intriso di storia e devozione. Ogni cappella, come accade nella «Via della Croce», costituisce la tappa di un cammino, questa volta artistico, in cui vengono fatti dialogare i lavori di autori già molto affermati nel panorama contemporaneo mondiale con quelli di giovani talenti ticinesi. Ciò che più colpisce osservando le cappelle è la varietà delle opere collocate nelle nicchie, testimonianza dei differenti modi in cui ciascun artista ha coniugato il proprio linguaggio espressivo con l’ispirazione tratta dal complesso della Via Crucis. In alcuni lavori il richiamo al misticismo del luogo si può cogliere con chiarezza. È il caso, ad esempio, dell’opera della luganese Fiorenza Bassetti, che ha rielaborato attraverso la sua visione intimista l’iconografia della Crocifissione, una delle immagini più potenti che appartengono alla storia

dell’umanità. In altri lavori il rimando al sacro viene evocato da sottili connessioni che vanno ricercate e interpretate. Il tedesco Wolfgang Laib, maestro per cui l’ascetismo è ritenuto fondamentale, ha dato vita a una delle sue opere poetiche e universali, colorando di un bianco abbacinante l’incavo della cappella e riportandovi quel celebre «memento mori» che campeggia austero nell’affresco della Trinità di Masaccio a Firenze. Tatsuo Miyajima ha concepito l’opera dal titolo Counter Wreath in cui tecnologia e spiritualità convivono per invitare a meditare sull’impermanenza delle cose: l’artista giapponese, di religione buddista, dispone a cerchio tanti piccoli display a led, in cui le cifre da 1 a 9 si susseguono senza sosta, per dare forma a un’installazione che richiama la corona di spine di Gesù, portandoci a riflettere ancora una volta sulle grandi questioni esistenziali. L’australiano Lawrence Carroll ha realizzato uno dei suoi romantici e delicati lavori capaci di estendere le valenze simboliche dei materiali poveri di cui sono fatti, inserendo nella cappella un manufatto di cartone che pare sospeso in un’atmosfera metafisica. L’artista italiano Alberto Garutti dialoga con il luogo seguendo la sua concezione dell’arte come strumento di relazione e pungolo del pensiero, e lo fa attraverso un’opera in filo di ottone nata dalla scoperta e dalla perlustrazione fisica del

Visione d’insieme del percorso. (A. Maniscalco)

territorio, di cui riesce a racchiudere il senso mistico. Per molti artisti, poi, l’interazione con le cappelle ha avuto come approccio l’esplorazione delle loro caratteristiche formali. L’installazione Detour della bellinzonese Miki Tallone è un semplice profilo in ferro che riproduce la sagoma dell’edicola a cui è affiancato, una sorta di imprevisto per lo sguardo portato così a soffermarsi su qualcosa che interrompe l’ordinata sequenza delle cappelle. Livio Bernasconi, che a Carona vive e lavora, stravolge la nicchia con un’opera in acrilico tutta geometria e colore, espressione della sua pittura che da sempre si discosta dal reale. Marta Margnetti, ha scelto l’undicesima stazione, quella in cui Gesù viene inchiodato sulla croce, per sbarrarla con una rude lastra di cemento su cui ha riportato alcune parole connesse al tema della Crocifissione e su cui ha inciso piccoli disegni suggeriti dalle tracce umane scovate nel bosco circostante. Ancora, Tonatiuh Ambrosetti, giovane luganese, ha sigillato la cappella con una tavola di legno tagliata a for-

ma di portale e carbonizzata: l’ha intitolata La Soglia, un ingresso verso una dimensione di memoria e di mistero. Un doppio di questo lavoro dell’artista è collocato sulla parete della Galleria Buchmann di Agra che guarda al santuario della Madonna d’Ongero, riportandoci dove tutto è incominciato, con la gallerista Elena Buchmann che ammirava quel santuario dal giardino dello spazio espositivo a Collina d’Oro chiedendosi come avrebbe potuto legare il fascino della sua spiritualità alle suggestioni dell’arte contemporanea. Dove e quando

14 Artisti – Via Crucis – Madonna d’Ongero – Carona. Fino al 16 settembre 2018. In occasione della mostra verranno presentate alcune opere degli artisti partecipanti nello spazio cittadino Buchmann Lugano e presso la Buchmann Galerie di Agra. Per informazioni: +41 (0)91 980 08 30; buchmann.lugano@bluewin.ch. Visite guidate in italiano e in inglese si terranno domenica 15 luglio e domenica 29 luglio alle ore 11.00. Annuncio pubblicitario

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Cultura e Spettacoli

Il primo dopo Verdi

Jennifer, dopo un lungo silenzio

Opera Alla Fenice di Venezia un’ambiziosa partitura porta sulle scene

una trama shakespeariana, il Riccardo III Enrico Parola Giorgio Battistelli è uno dei compositori italiani più quotati e richiesti, nel suo catalogo figurano oltre venti opere liriche tra cui CO2 commissionatagli dal Teatro alla Scala per Expo 2015. Eppure il Richard III che in questi giorni debutta in Italia, alla Fenice di Venezia, suscita un’emozione e una trepidazione speciali nel 65enne musicista romano: «Perché prima di me l’ultimo italiano che aveva trasformato in melodramma il teatro shakespeariano era Verdi; a lungo avevo sognato di arrivarci anch’io, ma quando ho iniziato a capire che il sogno poteva davvero trasformarsi in realtà mi sono tremate le vene e i polsi». Non solo per l’enormità dell’autore con cui confrontarsi, ma per il pudore ad entrare nella storia della musica direttamente dalla porta principale: Verdi aveva messo in note Macbeth nel 1847, quarant’anni dopo Otello (anche Rossini) e nel 1893 Falstaff (dalle Allegre comari di Windsor. Poi per 112 anni nessun altro. Finché è arrivato lui, col Riccardo III. «Perché questo titolo? Era già parecchio tempo che volevo scrivere un’opera sul potere, ma non trovavo mai l’idea giusta e mi trovavo sul tavolo idee o proposte che non mi convincevano; proprio nei mesi in cui decisi di affrontare Shakespeare c’era una richiesta per comporre un’opera su Nureyev». C’è però un altro motivo: «Sapevo benissimo che nessuno quanto il Bardo aveva mostrato su un palcoscenico teatrale che cosa l’uomo può diventare o può fare quanto è preso dal potere, ma forse non avevo mai osato avvicinarmi». A convincerlo è stato Ian Burton, poeta, letterato e alla fine autore del libretto dell’opera, così come per Verdi erano stati Maffei, Piave e Boito. Ma forse osando ancora di più di quanto avessero fatto gli illustri predecessori: «Burton ha voluto mantenere in tutti i momenti cruciali i versi originali di Shakespeare, e infatti il libretto è in inglese. Pensi che impressione può fare

mettersi a lavorare sulle parole di Shakespeare per rivestirle di note, in quale mondo ci si trova immersi seguendo la sua narrazione». Anche se dopo il timore reverenziale dell’inizio «la matita è iniziata a correre sul pentagramma, senza mai più fermarsi; l’ho musicata in 14 mesi, dall’inizio alla fine senza saltare una sola parola». Nonostante si trovasse davanti a personaggi di una complessità e profondità impareggiabili, ad iniziare ovviamente da Riccardo III: «Un uomo ossessionato dal potere fin da quando suo fratello Edward diviene re. Fa uccidere l’altro fratello George e quando Edward, sentendosi colpevole, muore di dolore ne fa rinchiudere i due figli e legittimi eredi al trono nella torre di Londra, adducendo falsi motivi di sicurezza. Mi impressiona la falsa modestia e l’affettata ritrosia con cui “accetta” dal popolo di Londra di essere incoronato, mentre già sta macchinando altri crimini per ottenere il potere». La musica cerca di amplificare questa ossessione: «Sonorità cupe, gravi, ritmi talvolta assillanti; ma allo stesso tempo è una musica seducente, così come lo è Richard, che sa affascinare non solo i familiari ma anche i sudditi. E alla fine sa anche essere tremendamente ironico, quando offre il suo regno per un cavallo: sembra una boutade, invece è il tardivo riconoscimento e l’amara ammissione della vanità e della vacuità del potere». Battistelli, trattandosi di musica, non ha potuto riflettere su Shakespeare prescindendo da Verdi: «Anzi, non sono in grado di contare le volte che ho visto e ascoltato il suo Otello. Non per copiarne stile e linguaggio, ché anzi il mio è profondamente diverso, ma per capirne la drammaturgia: Verdi era un genio drammaturgico, sapeva sempre trovare il ritmo teatrale perfetto – va sottolineato come la lirica abbia leggi e dinamiche sue, ben diverse da quelle della prosa. Le sue opere non languiscono mai, non c’è mai un passaggio a vuoto o un calo della tensione dram-

CD L’antica reginetta

delle interpreti statunitensi, torna a stupire il pubblico

Benedicta Froelich

Una scena dell’allestimento di Robert Carsen. (A. Augustijns )

matica». È probabilmente la stessa osservanza della struttura verdiana ad aver ispirato a Battistelli «un’opera formalmente assai tradizionale, con arie, duetti, terzetti, scene d’assieme come la grande battaglia dove si confrontano due cori distinti». A cui vanno aggiunti un altro coro, di bambini e ben sedici personaggi: «Alla fine è risultata un’opera esigente ed ambiziosa: 700 pagine divise in due volumi per due ore e mezza di musica; forse per questo ha dovuto aspettare per essere allestita in Italia». Richard III era infatti stato commissionato dalla Vlaamse Opera di Anversa, dove era andata in scena il 30 gennaio 2005; tredici anni da quel debutto alla «prima» italiana sono tanti, anche se Battistelli vuol tenersi lontano da ogni polemica: «Certo, in Italia si ha paura ancor più che proporre opere contemporanee a investire risorse negli allestimenti: si teme che venga poco pubblico e quindi pensano che sia inutile investire troppo nella messinscena. Credo sia più altro questo il motivo per cui in Italia Richard III ci ha messo così tanto ad arrivare».

Era rimasta sei-sette anni sul tavolo del Teatro Regio di Torino («piaceva molto all’allora direttore musicale Gianandrea Noseda»), ma non se n’è fatto nulla. «Poi un giorno mi arrivò la telefonata del sovrintendente della Fenice, Fortunato Ortombina; mi disse che aveva appena finito di suonare al pianoforte la partitura e ne era rimasto entusiasta. Non so se rimasi più sorpreso dal fatto che finalmente Richard III arrivasse in Italia o che un sovrintendente invece di bilanci e libri contabili leggesse pentagrammi». Altra piacevole sorpresa è essersi visti affiancare da uno dei registi più importanti d’oggi, Robert Carsen: «Un privilegio lavorare con lui, non solo perché è un genio teatrale, ma perché è l’unico regista oltre a Ronconi che ho visto provare sul palco tenendo in mano la partitura: conosce e capisce nel profondo la musica, la rispetta e cerca di farla emergere attraverso le scene e i gesti, come la scena dell’incoronazione dove Riccardo si mette a fumare: lì c’è tutto l’estro di Carsen; e spero tutta la mia musica».

Ecco il factotum della nostra città! Opera A 150 anni dalla morte di Rossini il LAC presenterà a settembre

un proprio allestimento del Barbiere Zeno Gabaglio «Dopo la morte di Napoleone c’è stato un altro uomo del quale si parla ogni giorno a Mosca come a Napoli, a Londra come a Vienna, a Parigi come a Calcutta. La gloria di quest’uomo non conosce limiti, se non quelli del mondo civile, ed egli non ha ancora trentadue anni!». Ed è proprio a questo grande uomo – per il quale nel 1823 Stendhal non risparmiava la più eloquente enfasi qui riportata – che il LAC di Lugano dedica la prima opera prodotta (con tutti i crismi della professionalità) nella Svizzera italiana: Gioacchino Rossini e il suo Barbiere di Siviglia saranno infatti in scena a Lugano in giorni alterni dal 3 al 9 settembre prossimi. Del cast fanno parte – in una coproduzione, inevitabilmente complessa, promossa da RSI, LAC Lugano Arte e Cultura, Lugano Musica, LuganoInScena – I Barocchisti e il Coro della Radiotelevisione svizzera diretti da Diego Fasolis, Carmelo Rifici alla regia e nei ruoli principali Edgardo Rocha (Conte d’Almaviva), Riccardo Novaro (Bartolo) e Lucia Cirillo (Rosina). L’opera lirica è quel tipo di manifestazione culturale e spettacolare che da

Il tenore Edgardo Rocha è l’interprete principale.

molti viene definita la più complessa e difficile da realizzare, ma proprio il tipo di produzione per cui il LAC era stato pensato e voluto. E infatti tutte le forze artistiche del polo culturale (museo escluso, a dire il vero…) sono riunite per dar vita a un sogno che vuole anche essere sentito omaggio per il 150° anniversario dalla morte di Rossini. Il più grande operista italiano – dicono alcuni in perenne dissidio con chi invece celebra l’eterno Verdi o l’insuperabile Puccini – capace di comporre

trentanove opere (quasi tutte di grandissimo successo, dal Guglielmo Tell a L’Italiana in Algeri, da La Gazza ladra al Mosè in Egitto) in soli vent’anni salvo poi ritirarsi – appena trentaseienne – a vita privata e agiata. Genio e sregolatezza, verrebbe da chiosare, come quelli che portarono Rossini a scrivere l’intero Barbiere in soli tredici giorni (secondo alcune testimonianze, diciannove secondo altre) per un incontenibile trionfo di comicità e pathos derivati da una vicenda (originariamente di Beaumarchais, nella versione teatrale) che riflette i tipici schemi della commedia degli equivoci: il giovane e prestante conte d’Almaviva giunge a Siviglia dove immediatamente s’innamora della giovane e bellissima Rosina, malauguratamente ospite dell’anziano tutore don Bartolo, che la vorrebbe sposare per garantirsi la sua cospicua ricchezza. Il conte ingaggia quindi il barbiere della città – Figaro – che conosce tutto e tutti, che lo aiuterà con mille sotterfugi e travestimenti a sconfiggere la sorte avversa e a realizzare i propri piani amorosi. Tutto bene è quel che finisce bene. Ma all’interno di un simile plot – che oggi facilmente può apparire

scontato – la meraviglia si realizza, con invenzioni musicali sorprendenti e profonde al punto da esser considerate per secoli la massima incarnazione musicale dello spirito e della cultura italiani. E infatti è proprio nel trionfo dell’italianità che Stendhal rilevò uno dei massimi valori di quest’opera, tratteggiandone un significato non solo musicale, non solo artistico, ma anche antropologico: «Ecco una cosa veramente italiana, dove un innamorato si permette tutto: l’amore è una scusa che ricopre ogni cosa agli occhi degli indifferenti. L’amore, nel nord, è invece timido e tremante». E questo malgrado – fuori dall’enfasi retorica – svariati critici asseriscono che l’adorazione stendhaliana per il Barbiere e per il suo autore fosse soprattutto un attacco al mondo musicale francese (presentato come vecchio e accademico) rispetto alla forza giovanile rappresentata dal compositore italiano. Che per questo ritratto bohèmien – «un improvvisatore pigro, facile, che copiava se stesso senza ritegno e senza ritegno si divertiva a comporre. Tutto il contrario di un artista, e quindi il vero artista, il vero romantico» – non nascose di provare un certo risentimento.

Salita alla ribalta nei primi anni 80 grazie al celeberrimo tormentone Up Where We Belong, stellare (per quanto un po’ zuccheroso) duetto con Joe Cocker tratto dalla colonna sonora di Ufficiale e Gentiluomo, Jennifer Warnes è riuscita, nel corso di una lunga carriera, a costruirsi una nicchia di tutto rispetto nel cuore del pubblico internazionale, specialmente grazie al successo dell’album Famous Blue Raincoat (1987), interamente dedicato a rivisitazioni del repertorio del suo grande amico e collaboratore Leonard Cohen. Tuttavia, differentemente da quanto accaduto a molti nomi di spicco dell’effimero decennio degli «eighties», la Warnes (il cui debutto era avvenuto già nel 1968) ha sempre condotto la propria carriera secondo dettami personali quanto insindacabili, ostinandosi a voler incidere seguendo i propri tempi e arrivando così a lasciar passare anche un decennio tra un disco e l’altro; una scelta che l’ha infine portata a sparire letteralmente dai radar, finendo per essere ricordata soprattutto per il grande successo di (I’ve Had) The Time of My Life, altra hit cinematografica da classifica (stavolta proveniente da Dirty Dancing, cult movie anni 80 per eccellenza). Il ritorno dell’artista dopo ben diciassette anni di silenzio discografico ha costituito, per i suoi ammiratori, un evento epocale, anche in virtù della scelta di Jennifer di ritagliarsi su misura un nuovo songbook personale – accostando, in questo CD, generi tra loro anche molto differenti. E in effetti, Another Time, Another Place conferma pienamente il mood musicale suggerito dal titolo, calando l’ascoltatore in atmosfere pervase da un gusto dichiaratamente vintage: nello specifico, a cavallo tra il sapore allo stesso tempo swing e jazzato tipico del repertorio americano anni 40 e le suggestioni di stampo più cantautorale da sempre care alla cantante e riscontrabili già nel singolo di lancio del CD, il poetico Just Breathe, brano sorprendentemente delicato firmato dai Pearl Jam nel 2009 e i cui accenti si rivelano a dir poco perfetti per la voce della Warnes – permettendole di prodursi così in un ottimo esempio di ballata romanticoesistenzialista, in grado di emozionare senza, tuttavia, scadere in melensi cliché sentimentali. Jennifer ha saputo fare suo ognuno dei brani selezionati, piegandolo alla grazia della propria voce dando l’impressione che l’intera tracklist sia stata composta per lei; una capacità non da poco, che si spera possa oggi bastare a ricordare al grande pubblico il nome e le credenziali della Warnes.

La copertina dell’album.


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Azione Settimanale della Cooperativa Migros Ticino • 2 luglio 2018 • N. 27

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Una pagnotta tonda, dalla crosta scura e saporita. Il profumo della mollica soffice che si spande mentre tagliamo la crosta croccante. Immagini e sensazioni che scatenano i cibi con il fascino della loro storia e la sapienza della tradizione. Come la pagnotta Val Morobbia, un pane che ricorda il passato e la vita nelle valli ticinesi. Ma come nasce questo pane? Ce lo siamo fatti raccontare da Graziella Rizzi, responsabile della sede Jowa a S. Antonino. «Il pane Val Morobbia, lanciato con successo nei

supermercati Migros nel 2002, nasce dall’intuizione dell’allora responsabile delle vendite. In quegli anni si iniziava a rivolgere lo sguardo ai prodotti tradizionali, così abbiamo deciso di proporre una pagnotta che riprendesse le caratteristiche dei pani delle valli, che un tempo venivano cotti nei forni a legna». Pur non cuocendo più con questa tecnica è stata studiata una ricetta apposita per ottenere una crosta ben cotta e spessa, resa saporita dall’uso di farina bigia e farina di segale. «Lo stesso responsabile, viven-

do in Val Morobbia, ha pensato poi di battezzare il pane con questo nome», ci rivela la signora Rizzi. Il Val Morobbia si sposa a meraviglia con i tradizionali affettati della nostra regione, ma si presta anche a diversi altri usi, ad esempio per panini, bruschette oppure per accompagnare la carne grigliata che in questo periodo è spesso in tavola. Il mio suggerimento? Una buona zuppa fredda di barbabietola, ortaggio ricco di ferro, sali minerali e vitamine, tutti elementi essenziali per affrontare la calura estiva,

da accompagnare con delle fette di pane tostato spennellato con olio e timo essiccato. Per 4 persone vi basterà frullare 400 grammi di barbabietola già cotta in 1 litro di acqua. Salate e pepate a piacere ed eventualmente date un tocco in più con della scorza di limone grattugiata. Alla vostra zuppa potete anche aggiungere un’altra verdura consigliatissima contro la calura, il cetriolo, idratante, depurativo e ricco di vitamine per un estate all’insegna del benessere . Buon appetito! / Luisa Jane Rusconi, food blogger


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L’insalata da idrocoltura Novità Un sistema innovativo che ha cura del gusto e dell’ambiente

I maggiori supermercati di Migros Ticino hanno introdotto l’insalata svizzera da idrocoltura, un prodotto che, oltre ad essere tenero, croccante e freschissimo, rispetta anche l’ambiente. Grazie a questo sistema di coltivazione innovativo è possibile diminuire il consumo d’acqua, la produzione di CO2 e la superficie coltivata. Si ritiene che questo sistema possa essere una buona soluzione per il futuro dell’agricoltura svizzera, dal momento che le superfici coltivabili si riducono sempre di più. L’insalata da idrocoltura è coltivata a un metro dal suolo, all’interno di canali che vengono irrigati regolarmente con acqua arricchita di fertilizzante e sostanze nutritive che l’insalata assorbe attraverso le sue radici. L’acqua non viene sprecata, infatti viene riciclata per mezzo di un circuito chiuso. Questo metodo di produzione contribuisce a risparmiare fino al 70% di acqua e di utilizzare il 60% in meno di fertilizzanti rispetto alla produzione convenzionale. Inoltre, il dosaggio preciso delle sostanze permette un maggior rendimento per metro quadro, con relativo utilizzo di una superficie coltivabile ridotta. Infine, questo metodo di coltivazione riduce gli attacchi dei parassiti. L’insalata da idrocoltura che trovate sugli scaffali Migros riunisce tre varietà di diversi colori tra le più apprezzate dai consumatori: lattuga foglia di quercia verde, lollo rossa e lollo verde. Il tris vinee venuto con le proprie radici in un sacchetto speciale, così il prodotto mantiene più a lungo la sua freschezza. Si consiglia di annaffiare la zolla di radici ogni giorno con un po’ d’acqua. Conservare l’insalata in frigorifero nell’imballaggio originale e lavarla bene prima del consumo.

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Quella voglia matta di costine Azione 20% Costine carré di maiale (spareribs) Svizzera, imballate, 100 g Fr. 1.90 invece di 2.40 dal 3 al 9 luglio

Cosa sarebbe l’estate senza delle buone specialità alla griglia come le costine? Ricche di gusto, succose e morbidissime, fanno venire l’acquolina in bocca a chiunque. Tra le più gettonate troviamo le «corte» spareribs, conosciute alle nostre latitudini anche come costine carré di maiale. Il termine inglese «spareribs», che può essere scritto anche separato («spare ribs»), deriva dal tedesco «Rippenspeer», che significa letteralmente «costole allo spiedo», infatti, in origine questo taglio di carne veniva cotto su lunghi spiedi. Una «pezza» di

costine carrè deve avere tra le 11 e le 13 costine singole per essere definito tale e, di solito, per una grigliata si calcolano circa 700 g a persona. Una variante molto speziata delle spareribs? Per 4 persone marinare la carne per due ore in una salsina composta da 3 cucchiai di salsa di soia, 1 cucchiaino di pepe nero, 1,5 dl di salsa BBQ, 2 cucchiai di zucchero bruno e 2 cucchiaini di pepe di cayenna. Grigliare le spareribs intere a fuoco medio, girandole di tanto in tanto, per un’oretta. Tagliare tra le ossa e servire subito.


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. a z z e h c s e fr lo o s e e r p Sem 30%

2.75 invece di 3.95 Prosciutto speziato M-Classic in conf. speciale Svizzera, per 100 g

25%

2.– invece di 2.70 Orata reale 300–600 g Grecia/Croazia, per 100 g, fino al 7.7

30% Filetto di salmone bio per es. con pelle, d’allevamento, Norvegia, per 100 g, 3.75 invece di 5.40

40%

9.90 invece di 16.90 Salmone affumicato scozzese in conf. speciale d’allevamento, Scozia, 260 g

CONSIGLIO

COMBINAZIONE VINCENTE

conf. da 5

Il cervelas alla griglia è già ottimo da solo, ma aggiunto a un’insalata con pezzetti di baguette tostata, cavolo rapa e condimento al wasabi diventa semplicemente insuperabile.

50%

Trovate la ricetta su migusto.ch/consigli

6.10 invece di 12.25 Cervelas TerraSuisse in conf. da 5 5 x 2 pezzi, 1 kg

20%

4.55 invece di 5.70 Costolette di vitello TerraSuisse Svizzera, imballate, per 100 g

25%

9.50 invece di 13.– Cosce di pollo Optigal Svizzera, in conf. da 4 pezzi, al kg

25%

5.95 invece di 8.– Costata di manzo Black Angus Svizzera, al banco a servizio, per 100 g

HIT DELLA SETTIMANA PER IL GRILL.

33%

20%

5.30 invece di 6.65 Piatto misto prodotto in Ticino, affettato in vaschetta da 140 g

25%

2.85 invece di 3.85 Salametti di cervo prodotti in Ticino, in conf. da ca. 180 g, per 100 g

Migros Ticino OFFERTE VALIDE SOLO DAL 3.7 AL 9.7.2018, FINO A ESAURIMENTO DELLO STOCK

20%

1.90 invece di 2.40 Costine carré di maiale (spare ribs) Svizzera, imballate, per 100 g

3.80 invece di 5.70 Carré d’agnello M-Classic in conf. speciale Nuova Zelanda / Australia / Irlanda / Gran Bretagna, per 100 g


Hit

40%

1.95 invece di 3.40

4.90

Pesche piatte Italia, imballate, 500 g

25%

2.60 invece di 3.50 Anguria a fette Italia, al kg

20% Tutte le rose dell’altopiano Fairtrade, mazzo da 9 disponibili in diversi colori, lunghezza dello stelo 50 cm, per es. di colore rosa, il mazzo, 13.50 invece di 16.90

Zucchine bio Ticino, imballate, al kg

40%

2.40 invece di 4.20 Pomodori a grappolo Ticino, al kg

40%

1.50 invece di 2.60 Cetrioli bio Svizzera, il pezzo

conf. da 2

25%

4.40 invece di 5.90 Lamponi Svizzera, in conf. da 250 g

Hit

5.–

Phalaenopsis, 2 steli, vaso, Ø 12 cm disponibile in diversi colori, il pezzo, per es. di colore rosa

Migros Ticino OFFERTE VALIDE SOLO DAL 3.7 AL 9.7.2018, FINO A ESAURIMENTO DELLO STOCK

25%

3.30 invece di 4.40 Tomino del boscaiolo con speck in conf. da 195 g

20%

1.70 invece di 2.15 Formaggella Cremosa prodotta in Ticino, in self-service, per 100 g

20%

4.45 invece di 5.60 Lattuga rossa Anna’s Best in conf. da 2 2 x 150 g

20%

1.50 invece di 1.90 Gruyère piccante in self-service, per 100 g

20%

2.30 invece di 2.90 Carote Svizzera, imballate, 1 kg

conf. da 2

20% Prodotti Cornatur in conf. da 2 Grill Ribs o nuggets, per es. Grill Ribs, 2 x 200 g, 7.80 invece di 9.80

20% Tutto il pane e tutti i panini cotti su pietra per es. rombo scuro cotto su pietra, bio, 250 g, 2.– invece di 2.50


Hit

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4.90

Pesche piatte Italia, imballate, 500 g

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Zucchine bio Ticino, imballate, al kg

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conf. da 2

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Phalaenopsis, 2 steli, vaso, Ø 12 cm disponibile in diversi colori, il pezzo, per es. di colore rosa

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20% Tutto il pane e tutti i panini cotti su pietra per es. rombo scuro cotto su pietra, bio, 250 g, 2.– invece di 2.50


. te r e p io m r a p is r te r e Le nostre off conf. da 2

conf. da 3

20%

20%

6.– invece di 7.50 Caprice des Dieux in conf. da 2 2 x 200 g

–.90

20%

di riduzione

4.50 invece di 5.40

Tutti gli yogurt Passion per es. stracciatella, 180 g, –.75 invece di –.95

Uova svizzere da allevamento all’aperto 9 x 53 g+

conf. da 2

20% Tutti i tipi di Caffè Latte Emmi per es. Macchiato, 230 ml, 1.55 invece di 1.95

20% Yogurt Greek Style Oh! in conf. da 2 per es. alla pesca, 2 x 170 g, 2.95 invece di 3.70

OFFERTE VALIDE SOLO DAL 3.7 AL 9.7.2018, FINO A ESAURIMENTO DELLO STOCK

1.–

di riduzione Tutte le torte, 2 pezzi per es. torta svedese, 2 x 121 g, 4.50 invece di 5.50

4.65 invece di 5.85 Mozzarella Galbani in conf. da 3 3 x 150 g

50%

6.10 invece di 12.20

a par tire da i 2 confezion

20%

Tutti i sofficini M-Classic surgelati, a partire da 2 confezioni, 20% di riduzione

conf. da 4

40%

Pizza M-Classic in conf. da 4 Filetti di pangasio Pelican in conf. speciale, ASC del padrone o margherita, per es. del padrone, 4 x 400 g, 12.90 invece di 21.60 surgelati, 1 kg

33%

11.95 invece di 18.– MegaStar in conf. speciale alla mandorla, alla vaniglia e al cappuccino, per es. alla mandorla, 12 x 120 ml

conf. da 2

20% Pasta fresca Anna’s Best in conf. da 2 ricotta e spinaci, aha! o Triondo di funghi, per es. Triondo di funghi, 2 x 250 g, 8.60 invece di 10.80

conf. da 3

33% Biscotti freschi nidi alle nocciole, biscottini al cocco o discoletti in conf. da 3 per es. biscottini al cocco, 3 x 204 g, 5.60 invece di 8.40


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Tutti gli yogurt Passion per es. stracciatella, 180 g, –.75 invece di –.95

Uova svizzere da allevamento all’aperto 9 x 53 g+

conf. da 2

20% Tutti i tipi di Caffè Latte Emmi per es. Macchiato, 230 ml, 1.55 invece di 1.95

20% Yogurt Greek Style Oh! in conf. da 2 per es. alla pesca, 2 x 170 g, 2.95 invece di 3.70

OFFERTE VALIDE SOLO DAL 3.7 AL 9.7.2018, FINO A ESAURIMENTO DELLO STOCK

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Tutti i sofficini M-Classic surgelati, a partire da 2 confezioni, 20% di riduzione

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conf. da 6

conf. da 3

30%

33%

Tavolette di cioccolato Frey da 100 g in confezioni speciali, UTZ disponibili in diversi gusti, per es. Noxana in conf. da 6, 6 x 100 g, 8.60 invece di 12.30

50%

9.80 invece di 19.60 Praliné Collection Frey, UTZ Summer Edition, 420 g

a par tire da i 2 confezion

– .5 0

di riduzione Tutta la frutta secca bio o tutte le noci bio (Alnatura escluse), a partire da 2 confezioni, –.50 di riduzione --, per es. pinoli, 100 g, 6.80 invece di 7.30

conf. da 2

20% Chips Farm e Royal in conf. da 2 per es. chips Farm al naturale, 2 x 150 g, 4.30 invece di 5.40

a par tire da 2 pe z zi

20%

Cialde finissime o biscotti Taragona M-Classic in conf. da 3 per es. cialde finissime, 3 x 150 g, 3.30 invece di 4.95

Tutte le capsule Café Royal in conf. da 10 o da 33, UTZ a partire da 2 pezzi, 20% di riduzione

conf. da 2

20% Jumpy’s alla paprica, Pom-Bär alla paprica e Original nonché popcorn M-Classic in conf. da 2 per es. Jumpy’s alla paprica, 2 x 100 g, 3.65 invece di 4.60

20% Zampe d’orso da 760 g, bastoncini alle nocciole da 1 kg e sablé al burro da 560 g per es. bastoncini alle nocciole, 1 kg, 6.70 invece di 8.40

conf. da 2

20% Soft Tortillas e Nacho Chips Pancho Villa in conf. da 2 per es. Soft Tortillas, 2 x 326 g, 7.30 invece di 9.20

a par tire da 2 pe z zi

30%

Tutte le salse per insalata pronte o i crostini per insalata non refrigerati, a partire da 2 pezzi, 30% di riduzione

conf. da 3 conf. da 12

15% Mars, Snickers o Twix in conf. da 12 10 pezzi + 2 gratis, per es. Snickers, 600 g, 4.15 invece di 5.–

OFFERTE VALIDE SOLO DAL 3.7 AL 9.7.2018, FINO A ESAURIMENTO DELLO STOCK

33% Ripieno per vol-au-vent M-Classic in conf. da 3 Forestière o con funghi prataioli e carne, per es. con funghi prataioli e carne, 3 x 500 g, 8.10 invece di 12.15

33% Tutti i tipi di 7up e 7up H2Oh! in conf. da 6 x 1,5 l o6x1l per es. Regular, 6 x 1,5 l, 7.80 invece di 11.70

20% Tutto l’assortimento di alimenti per gatti Gourmet per es. mousse Gold, 4 x 85 g, 3.20 invece di 4.–


conf. da 6

conf. da 3

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conf. da 3

20%

20% Tutto l’assortimento Zoé per es. crema da giorno rassodante Revital, 50 ml, 10.80 invece di 13.50, offerta valida fino al 16.7.2018

conf. da 3

33% Shampoo Nivea in conf. da 3 per es. Classic Care, 3 x 250 ml, 6.50 invece di 9.75, offerta valida fino al 16.7.2018

3 per 2 Tutti i pannolini Milette (inserti per pannolini monouso esclusi), offerta valida per 3 prodotti con lo stesso prezzo, per es. maxi 4+, 9–18 kg, 3 x 39 pezzi, 23.60 invece di 35.40, offerta valida fino al 16.7.2018

20% Lame di ricambio Gillette Venus in conf. da 6 o da 8 per es. Venus, 8 pezzi, 19.50 invece di 24.40, offerta valida fino al 16.7.2018

20% Tutti gli assorbenti igienici Secure, Secure Discreet e Always Discreet (confezioni multiple escluse), per es. Secure Light Plus, 24 pezzi, 4.55 invece di 5.70, offerta valida fino al 9.7.2018

OFFERTE VALIDE SOLO DAL 3.7 AL 9.7.2018, FINO A ESAURIMENTO DELLO STOCK

Fazzoletti e salviettine cosmetiche Linsoft, Kleenex e Tempo in confezioni multiple per es. salviettine cosmetiche Linsoft in conf. da 3, 4.55 invece di 5.70, offerta valida fino al 16.7.2018

conf. da 2

20% Collutori Listerine in conf. da 2 per es. protezione per denti e gengive, 2 x 500 ml, 8.30 invece di 10.40, offerta valida fino al 16.7.2018

a par tire da 2 pe z zi

20%

Tutti i prodotti per la depilazione I am (prodotti I am men e confezioni multiple escluse), a partire da 2 pezzi, 20% di riduzione, offerta valida fino al 16.7.2018

40% Carta per uso domestico Twist in confezioni multiple Deluxe e Classic, per es. Deluxe, FSC, 12 rotoli, 9.35 invece di 15.60, offerta valida fino al 16.7.2018

40%

7.20 invece di 12.– Tutto l’assortimento di calzetteria da uomo e da donna (calzetteria SportXX esclusa), per es. collant Vitale Ellen Amber, color porcellana, tg. M, il pezzo, offerta valida fino al 9.7.2018

conf. da 3

conf. da 10

9.90

17.90

Hit

Calzini da uomo John Adams in conf. da 3 disponibili in nero o antracite, numeri 39–42 o 43–46, per es. neri, numeri 43–46, offerta valida fino al 16.7.2018

Hit

Calzini da donna Ellen Amber in conf. da 10, Bio Cotton neri, numeri 35-38 o 39-42, per es. numeri 39-42, offerta valida fino al 16.7.2018

conf. da 2

20% Detersivi Elan in conf. da 2 per es. Fresh Lavender, 2 x 2 l, 22.20 invece di 27.80, offerta valida fino al 16.7.2018

conf. da 2

50%

14.90 invece di 29.80 Calze da escursionismo Salomon in conf. da 2 disponibili in grigio-rosso e nero-blu nonché in diversi numeri, per es. numeri 39-42


conf. da 3

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conf. da 3

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6.05 invece di 12.10 Cornetti al prosciutto Happy Hour in conf. speciale surgelati, 24 pezzi

OFFERTA VALIDA SOLO DAL 3.7 AL 9.7.2018, FINO A ESAURIMENTO DELLO STOCK


Azione Settimanale della Cooperativa Migros Ticino • 2 luglio 2018 • N. 27

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Idee e acquisti per la settimana

Cake Creations

Un quartetto di cake artistici Fresca composizione Il biscotto così come la glassa della torta all’arancia contengono veri pezzetti di zenzero. Abbinamenti fusion, che portano varietà nel piatto del dessert.

Piccola gioia La torta al cioccolato con glassa al cioccolato è decorata con coloratissimi confetti di cioccolato. La candela inclusa trasforma in un attimo il cake in una torta di compleanno.

Nucleo succoso La parte inferiore composta da un impasto al caffè è ricoperta da una spumosa crema di cocco. Con la pipetta acclusa è possibile spruzzare caffè fresco a piacere sulla torta.

Piacere fruttato La torta senza glutine e senza lattosio con lampone e yogurt è particolarmente spumosa. La glassa di bacche è la ciliegina sulla torta.

Azione 20X Punti Cumulus sull’assortimento Cake Creations fino al 9 luglio *Nelle maggiori filiali

La nuova linea «Cake Creations» fa tendenza e stupisce con i raffinati abbinamenti delle torte e le appetitose presentazioni. Fruttati o esotici, al gusto di cioccolato o di caffè: non è certo facile scegliere tra le quattro novità. Gli appassionati delle torte possono scegliere anche tra l’offerta di altre due linee di dolci: «Cake della nonna» e «M-Classic Cake» – tutti con una nuova ricetta rivisitata. La degustazione delle torte può avere inizio.

Chocolate and Sweets Cake 210 g Fr. 4.95

Ginger and Orange Cake 210 g* Fr. 4.95

Raspberry and Yoghurt Cake 170 g* Fr. 4.95

Cappuccino and Coconut Cake 210 g Fr. 4.95


Azione Settimanale della Cooperativa Migros Ticino • 2 luglio 2018 • N. 27

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Azione Settimanale della Cooperativa Migros Ticino • 2 luglio 2018 • N. 27

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Idee e acquisti per la settimana

Alnatura

Spuma dorata

L’assortimento Alnatura della Migros offre numerose alternative al classico latte. Un latte dorato con curcuma, per esempio, può essere preparato con i drink di avena, anacardi o mandorle di Alnatura. E in più: è possibile fare una schiuma perfetta anche con il latte di avena and Co

Diventa scopritore Alnatura con i pacchetti di prova gratuiti Su www.alnatura.ch è possibile vincere uno dei 1000 pacchetti di prova e scoprire Alnatura. Cosa prepari con la tua alternativa al latte preferita? Posta la tua ricetta su #alnaturascopritori e condividi la tua scoperta con altri scopritori di Alnatura.

Variante 2

Con il drink di anacardi è possibile preparare la schiuma, proprio come con la bevanda di mandorle. Il gusto ha una leggera nota di nocciola.

Foto Claudia Linsi

Variante 1

Con il drink di mandorle è possibile ottenere una bella schiuma bianca, stabile tanto quando quella fatta con il latte. Nel gusto si riconosce una leggera nota di marzapane.

Alnatura Drink di cocco non zuccherato 1l* Fr. 3.30 Alnatura Drink di anacardi non zuccherato 1l* Fr. 3.30

Variante 3

Il drink di avena è leggermente dolce e il suo gusto ha una nota che rimanda ai cereali. È possibile preparare la schiuma, che però cede più velocemente rispetto a quella preparata con i drink di mandorle e di anacardi.

Il latte dorato può essere preparato e gustato anche freddo.

Alnatura Drink di mandorle non zuccherato 1l Fr. 3.15

Alnatura Drink di avena con calcio 1l* Fr. 2.20

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Ricetta

Latte dorato Alnatura Ingredienti per 2 persone 1 cucchiaio colmo di curcuma 0,75 dl di acqua 3 cm di zenzero 4 dl di latte o di un drink a scelta 1 cucchiaino di olio di cocco 1 pizzico di pepe macinato 1 pizzico di cannella Sciroppo d’acero, sciroppo di dattero o miele per addolcire Preparazione 1. Mettere la curcuma e l’acqua in un pentolino. Aggiungere lo zenzero grattugiato. Portare a ebollizione mischiando e lasciar sobbollire mescolando di tanto in tanto, fino a che

Alnatura Drink di riso con calcio 1l Fr. 2.15

non si ottiene un impasto. Mettere in una ciotola e lasciar raffreddare. 2. Portare a ebollizione il latte. Sciogliere circa 1 cucchiaino colmo di impasto di curcuma e aggiungere l’olio di cocco. 3. Insaporire il latte con cannella e pepe, addolcire. Aggiungere schiuma di latte a piacere e servire.

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Alnatura è il marchio bio per uno stile di vita responsabile al passo con i tempi. Vengono utilizzati solo ingredienti di alta qualità e davvero indispensabili.

Tempo di preparazione Ca. 20 minuti Per persona Per persona ca. 7 g proteine, 11 g di grassi, 17 g di carboidrati, 850 kJ/200 kcal

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Azione Settimanale della Cooperativa Migros Ticino • 2 luglio 2018 • N. 27

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Azione Settimanale della Cooperativa Migros Ticino • 2 luglio 2018 • N. 27

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Idee e acquisti per la settimana

Alnatura

Spuma dorata

L’assortimento Alnatura della Migros offre numerose alternative al classico latte. Un latte dorato con curcuma, per esempio, può essere preparato con i drink di avena, anacardi o mandorle di Alnatura. E in più: è possibile fare una schiuma perfetta anche con il latte di avena and Co

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Variante 2

Con il drink di anacardi è possibile preparare la schiuma, proprio come con la bevanda di mandorle. Il gusto ha una leggera nota di nocciola.

Foto Claudia Linsi

Variante 1

Con il drink di mandorle è possibile ottenere una bella schiuma bianca, stabile tanto quando quella fatta con il latte. Nel gusto si riconosce una leggera nota di marzapane.

Alnatura Drink di cocco non zuccherato 1l* Fr. 3.30 Alnatura Drink di anacardi non zuccherato 1l* Fr. 3.30

Variante 3

Il drink di avena è leggermente dolce e il suo gusto ha una nota che rimanda ai cereali. È possibile preparare la schiuma, che però cede più velocemente rispetto a quella preparata con i drink di mandorle e di anacardi.

Il latte dorato può essere preparato e gustato anche freddo.

Alnatura Drink di mandorle non zuccherato 1l Fr. 3.15

Alnatura Drink di avena con calcio 1l* Fr. 2.20

Alnatura Drink di soja con vaniglia 1l* Fr. 1.90

Ricetta

Latte dorato Alnatura Ingredienti per 2 persone 1 cucchiaio colmo di curcuma 0,75 dl di acqua 3 cm di zenzero 4 dl di latte o di un drink a scelta 1 cucchiaino di olio di cocco 1 pizzico di pepe macinato 1 pizzico di cannella Sciroppo d’acero, sciroppo di dattero o miele per addolcire Preparazione 1. Mettere la curcuma e l’acqua in un pentolino. Aggiungere lo zenzero grattugiato. Portare a ebollizione mischiando e lasciar sobbollire mescolando di tanto in tanto, fino a che

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Tempo di preparazione Ca. 20 minuti Per persona Per persona ca. 7 g proteine, 11 g di grassi, 17 g di carboidrati, 850 kJ/200 kcal

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© 2018 The Coca-Cola Company. Coca-Cola, Coke, the Dynamic Ribbon, the Contour Bottle and the slogan TASTE THE FEELING are trademarks of The Coca-Cola Company.

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