Zeta Numero 3 | Maggio 2021

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Periodico della Scuola Superiore di Giornalismo “Massimo Baldini” Numero 3 Maggio 2021

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COVERSTORY

Piattaforme, giornali, tv il futuro dell’informazione 20

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SPECIALE

La notte Cuba, Castro, la fine di un’era 16

Greta Menchi, la musica che nasce sui social


Faculty: Roberto Saviano, Francesca Mannocchi, Bill Emmott, Jeremy Caplan, Sree Sreenivasan, Moises Naim, Jason Horowitz, Gianni Riotta


La parola Vaccini e piattaforme di Silvio Puccio

Periodico della Scuola Superiore di Giornalismo “Massimo Baldini”

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Numero 3 Maggio 2021

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Cover story

Il futuro dell’informazione online è il giornale di carta di Simone Di Gregorio

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di Lorenzo Ottaviani

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di Francesco Stati

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di Angelica Migliorisi

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di Martina Coscetta e Gian Marco Passerini

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di Enrico Dalcastagné

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Il calcio a portata di smartphone Da sfigati a influencer La parabola dei videogiocatori Statosauri, quando il progresso tecnologico fa paura Greta Menchi, la musica che nasce sui social

Ma la notte no! L’eredità di Arbore nella televisione di oggi

di Livia Paccarié

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di Erika Antonelli e Angelica Migliorisi

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di Jacopo Vergari

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di Giuliana Ricozzi e Chiara Sgreccia

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di Valerio Lento

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«Volevo solo le unghie rosse»

La lunga notte dei medici di guardia I vaccini in notturna nell’hub di Fiumicino All’alba vincerò

Photogallery

Roma, i volti nel buio di Mattia Lucia De Nittis

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Esteri

Afghanistan, il prezzo della guerra di Chiara Sgreccia

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di Gabriele Bartoloni

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di Carlo Ferraioli

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Cuba senza Castro, la fine di un’era Una rete per salvare Patrick Zaky

Sport

Matteo Mormile, un neolaureato ingegnere in F1 di Valerio Lento e Jacopo Vergari

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di Michele Antonelli

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Lo sport non muore, cambia canale

Cultura

La Tigre Bianca, sguardo oscuro sulla lotta di classe in India di Mattia Giusto

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di Natasha Caragnano

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di Elisabetta Amato

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Il box office cinese, scendere a patti con il Partito Open innovation, una nuova frontiera

La Guida di Zeta

I suoni di una notte d’estate a cura di Fadi Musa

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a cura di Livia Paccarié

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Genderless è il futuro della moda

Parole e immagini

a cura di Claudia Chieppa

Se c’è una cosa che questa pandemia ci ha insegnato è che non si può più fare a meno delle piattaforme. La musica, le informazioni, i film, persino la spesa: ce n’è ormai una per ogni cosa e, se non esiste, state certi che arriverà presto. Il Covid-19 ha accelerato un processo che, a dire il vero, è in atto da molti anni: i piccoli venditori scompaiono, schiacciati dal peso dei giganti. La novità, semmai, è che lo scontro si è spostato in rete, insieme alla nostra quotidianità. Quando le piazze di paesi e città si sono svuotate a causa del virus, è sulle agorà virtuali che ci siamo riuniti. Isolati da un nemico invisibile, abbiamo trovato rifugio e conforto sui social network. Se questa pandemia fosse avvenuta anche solo 20 anni fa, saremmo stati tutti soli, perduti, costretti in bolle di ferro, aggrappati a un solo telefono da litigarci con tutta la famiglia. Ma Facebook, Twitter, Instagram e i loro fratelli ci hanno permesso di creare casse di risonanza, organizzare flash mob, cantare per farci coraggio, condividere passioni e problemi con amici vicini e lontani, stringere nuovi legami, finire serie TV per cui non c’era mai tempo, perfino di scoprirci cuochi dilettanti. Tra riunioni infinite, videochiamate interrotte, relazioni frantumate dall’assenza di contatto fisico, la rete ci ha aiutato a guardare oltre, nonostante tutto. Non ci siamo fermati neanche durante

il lockdown: in un modo o nell’altro, le piattaforme ci hanno dato la vita. E anche da mangiare, tra il lavoro instancabile dei riders e le grandi catene di supermercati che portavano la spesa a casa di chi non poteva uscire. Oltre al contatto fisico, ciò di cui più ci ha privati il Covid-19 è la notte. È intorno a lei, vittima del virus, e alle piattaforme, protagoniste di mesi bui, che ruota questo numero del periodico di Zeta, ideato dai ragazzi della Scuola di Giornalismo “Massimo Baldini”. Se per qualcuno, come i medici delle terapie intensive, tra giorno e sera non cambiava nulla, altri si sono trovati a fare i conti con una solitudine inattesa e crudele: i lavoratori della strada. I giovani, animali della notte, sono stati ingabbiati in regole nuove, a loro sconosciute, come il coprifuoco. Misure che, per salvare vite, hanno spento fuochi forse irripetibili. Per qualcuno, movida. Per loro, vida. Ma forse, ciò che più si è perso delle ore piccole è il sentimento. Di notte si dorme, si sogna, si riflette dopo una giornata di lavoro intenso, si trova rifugio e conforto, si scrivono editoriali come questo. Stare sempre connessi ci ha derubato, direbbe Ugo Foscolo, dell’imago della fatal quïete, che ci aiuta a tornare in contatto con le secrete vie del cor. Una quiete che, dopo oltre un anno di vite stravolte, appare sì cara per dare nuova forza al nostro spirto guerrier e ripartire con slancio verso un nuovo giorno.

ZETA Periodico della Scuola Superiore di Giornalismo “Massimo Baldini” supplemento di Reporter Nuovo Registrazione Reg tribunale di Roma n. 15/08 del 21/01/2008

Redazione Viale Pola, 12 – 00198 Roma

Francesco Stati

La notte

La notte è piccola per noi, troppo piccolina

Piattaforme, la luce nella notte

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Direttore responsabile Gianni Riotta Condirettori Giorgio Casadio Alberto Flores d’Arcais A cura di Mattia Giusto, Francesco Stati, Chiara Sgreccia, Gian Marco Passerini, Livia Paccarié

Stampa Centro riproduzione dell’Università Contatti 0685225358 giornalismo@luiss.it

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La parola

Piattaforma s. f. [dal fr. plateforme, propr. «forma (cioè superficie) piatta»; o calco dell’angloamer. platform] 1. In informatica, base hardware o software su cui sono sviluppati o eseguiti programmi o applicazioni. In particolare, quelle digitali, sono infrastrutture in grado di connettere tra loro i sistemi diversi ed esporli agli utenti attraverso interfacce semplificate e integrate.

PIATTAF di Camillo Barone e Laura Miraglia

La citazione «Una volta un tale che doveva fare una ricerca andava in biblioteca, trovava dieci titoli sull'argomento e li leggeva; oggi schiaccia un bottone del suo computer, riceve una bibliografia di diecimila titoli, e rinuncia.” Umberto Eco 4 — Zeta


Musicali

Culturali

Spotify, Apple Music, Amazon Music, Musical.ly, Soundcloud: sono le nuove piattaforme che portano la musica nella quotidianità di oltre un miliardo di persone in tutto il mondo. Lontane anni luce dalla lentezza dei dischi e dei lettori mp3, con la pandemia di coronavirus le nuove piattaforme si sono riappropriate anche degli eventi musicali, sperimentando forme diverse di intrattenimento e svago all’insegna del distanziamento.

Andare in biblioteca e prendere un libro in prestito is for boys, sottoscrivere un abbonamento alle biblioteche virtuali is for men. La cultura non è più cartacea, e il futuro della fruizione dei libri ne è la prova: aumenta il consumo di audiolibri, podcast a puntate, e-book. Gli studenti universitari mettono in comune libri in formato pdf in cambio di un costo fisso mensile agli editori, e il prezzo della cultura diminuisce col passare degli anni.

Social Realtà parallela o realtà differente? Dov’è la vita vera? Chi non se lo è mai chiesto? Sono più di 4 miliardi i cittadini del mondo che fanno uso di almeno un social network per non meno di 3 ore al giorno. I social si sono riappropriati anche degli spazi informativi che gli editori davano per morti nei prossimi 20 o 30 anni, come la televisione, la radio e le notizie intese come storie da scrivere.

FORME Scolastiche

Aziendali

Addio vicino di banco, benvenuto vicino di piattaforma. Quanto durerà ancora la didattica a distanza? Non è dato saperlo, la pandemia è un’incognita, e la politica è divisa sull’efficacia della DAD. Lo studio è diventato perlopiù solitario, e le nuove piattaforme per i registri elettronici (Axios la fa da padrone) hanno sdoganato il controllo serrato dei genitori sulla vita scolastica dei figli.

Smart-working è la parola d’oro delle aziende che hanno resistito al tracollo economico-finanziario del 2020-2021. Abbattimento dei costi del lavoro legati agli affitti e alla gestione dei locali, velocità, autonomia e maggiore controllo sui dipendenti: le piattaforme di lavoro aziendali sopravvivranno al coronavirus, ma fino a che punto i lavoratori saranno disposti ad accettare le nuove condizioni?

Sportive Le palestre e le piscine chiuse hanno riportato gli allenamenti nelle case e nei grandi parchi cittadini. Lo yoga-zoom e il zumba-zoom sono solo due delle infinite opportunità che le piattaforme digitali sportive hanno offerto ai personal trainer spiazzati dalla pandemia. Nascono anche App di creazione di gruppi sportivi per appuntamenti all’aperto a numero limitato, e lo sport diventa così occasione di nuove forme di socialità. Zeta — 5


Vaccini

e piattaforme di Silvio Puccio

La necessità di avere dati certi, le piattaforme su cui reperire gli ultimi dati, sempre aggiornati, sull'amndamento delle campagne vaccinali nel mondo. Perchè un'informazione più accessibile rende la democrazia migliore DATI

Mai come in questo periodo il giornalismo ha avuto bisogno dei dati per raccontare la realtà. La pandemia, l'esplosione dei contagi e il ripetuto susseguirsi dei bollettini giornalieri hanno trasformato il modo di fare informazione nell'ultimo anno. Grafici di andamento, mappe e istogrammi sono diventati strumenti comuni, utilizzati per raccontare e far comprendere l'andamento dell'epidemia in Italia e nel mondo. Tuttavia, i dati per capire l'evoluzione del coronavirus non sono utili solo a chi dell'informazione ne ha fatto un mestiere. Istituzioni, riviste e piattaforme li hanno resi disponibili e sempre aggiornati, così da renderli fruibili a chiunque voglia approfondirli. Con un foglio di calcolo e un po' di pazienza. In questa pagina sono raccolte le principali fonti dalle quali è possibile attingere ai dati su vaccini e Covid-19. Utilizzando i codici QR accanto alle fonti con il proprio smartphone, è possibile collegarsi ai siti internet da cui scaricare i dati.

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Le fonti Our World in Data è una rivista scientifica che cataloga dati da una moltitudine di istituzioni pubbliche. La loro missione è racchiusa nel nome: spiegare il mondo attraverso i dati.


Our World in Data Dai dati sul cambiamento climatico a quelli sugli indicatori economici, sul portale OWID è possibile trovare e scaricare tutti i dataset necessari per approfondire i temi di interesse. Offre anche delle elaborazioni grafiche che è possibile embeddare sul proprio sito. Citata dalle principali testate internazionali, da quando è scoppiata la pandemia è possibile trovare e scaricare tutti i dati su coronavirus e vaccini. A livello mondiale

Protezione civile La Protezione Civile italiana è l'istituzione che, in questi mesi, si è occupata di pubblicare e diffondere i bollettini sull'andamento dei contagi e dei decessi da Covid-19. Per chi volesse andare oltre i comunicati diffusi dall'ente, è possibile scaricare i dati completi in formato aperto da Github, un database collaborativo raggiungibile scansionando il codice QR qui sotto

Per scaricare i dati presentati in queste pagine, è sufficiente inquadrare i Qr code con la fotocamera del proprio smartphone. I dispositivi di ultima generazione risconoscono in automatico i codici. In caso contrario, basta scaricare una app generica dal proprio app store preferito

ECDC

Il Centro Europeo per il controllo malattie mette a disposizione diversi dataset per monitorare l'andamento delle vaccinazioni in tutti i paesi comunitari. Contengono anche dati interessanti, come il numero delle dosi di vaccino rifiutate nei singoli stati. Oltre i dati, l'istituto per la salute pubblica con cadenza regolare report e bollettini sul tema somministazioni e contagi da coronavirus. Da tenere d'occhio

Ministero della Salute La fonte ufficiale per capire come sta andando la campagna di vaccinazione in Italia. Dalla repository Github del Ministero è possibile scaricare i dati sempre aggiornati sulle vaccinazioni quotidiane, sulle consegne dei farmaci divise per produttore, la fascia di età dei vaccinati e molte altre informazioni utili che riguardano la campagna di immunizzazione comingiata il 27 dicembre. I dati sono aperti e scaricabili scansionando il Qr code a destra Zeta — 7


Coverstory

Il futuro dell'informazione online è il giornale di carta

Come cambia il modello economico dei giornali. Tra crisi della carta stampata e nuove piattaforme EDITORIA

di Simone Di Gregorio

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Nel 2013, un ricercatore svizzero trentunenne crea un algoritmo che estrae articoli dai siti dei giornali, li divide per argomento e li raccoglie, per categorie, in una sola App per smartphone. Il giovane si chiama Elia Palme e studia computer science al Politecnico di Zurigo. Da una tesi di dottorato nasce Newscron, uno dei primi tentativi di stravolgere il modello economico dei giornali. «È stata una startup molto finanziata in Svizzera, Italia, fino in Germania, ma si è interrotta presto perché ha avuto pochi abbonati e pochi clienti», spiega Emanuele Bevilacqua, presidente del Teatro di Roma e Professore di Marketing dei Media all’università di Lugano.

I dati parlano chiaro, i giornali di carta diminuiscono le vendite di anno in anno. Stando ai dati di ADS, Repubblica nel 2003 produceva più di 42mila nuovi abbonati, undici anni dopo solo 1881. Un decremento superiore al 2000 %. Sorte simile per il Corriere della Sera, il Messaggero, il Fatto Quotidiano e Libero. Gli esperimenti paracadute fanno leva su un’idea centrale: creare un modello di business a metà tra l’abbonamento e l’on demand. Un Netflix, o uno Spotify dell’informazione, per intenderci. Non è un caso che in questo periodo esploda la piattaforma statunitense di streaming online, approdando in Europa. Nel 2012, fa il suo esordio in Gran Bretagna.


In Svezia, lo stesso anno nasce un servizio simile a Newscron. Si chiama Readly ed è un raccoglitore online di più di cinquemila riviste, ancora attivo. Al prezzo di un abbonamento, permette la fruizione di contenuti editoriali da tutto il mondo, in modalità all you can eat. Riviste e magazine, periodici insomma, ma non quotidiani. Ci prova anche Mark Zuckerberg che il 31 gennaio 2014 annuncia di voler assumere giornalisti e editor per la sua nuova app, Paper. Un’edicola digitale che tenta di introdurre il concetto di social news, sotto l’ala di Facebook. Solo due anni dopo, l’idea delle social news ispirata al modello Netflix naufraga.

male dei giornali non è bucare la notizia, ma avere la pretesa di darla in ritardo e ritenerla tale». Newsletter e Podcast sono formati che rispecchiano l’idea di risolvere la crisi dell’editoria con un’innovazione del prodotto. «Non sono modelli sbagliati, ma devono essere integrati in una strategia. Se sono esperimenti che seguono una moda, una tendenza senza che vengano iscritti dentro un abbonamento, non fanno altro che nuocere al cartaceo».

Dal 22 ottobre 2015, Netflix arriva in Italia e proprio quell’anno un consorzio di editori lancia Edicola Italiana. Digital Magics, incubatore di startup digitali, la finanzia con 1 milione di euro. Dentro ci sono le maggiori testate: Corriere della Sera, La Repubblica, Il Sole 24 Ore, La Gazzetta dello Sport, La Stampa, Il Messaggero, per citarne alcuni. Netflix funziona, Edicola Italiana no.

«Chi fa i giornali non ha il coraggio di dimenticarsi la paura di "bucare" una notizia» Emanuele Bevilacqua, professore di Marketing dei media a Lugano

«La differenza tra i giornali e Netflix? La durata dei contenuti nel tempo. Un film lo si può rivedere, le notizie invecchiano» Massimo Russo, direttore della rivista Esquire

«Netflix comincia come servizio di distribuzione, poi si evolve. Ora sforna prodotti propri per controllare l’intera catena del valore. È una questione di sopravvivenza», spiega Massimo Russo, direttore di Esquire. Nel 2013, il servizio di streaming online fondato nove anni prima da Reed Hastings e Marc Randolph entra nel settore della produzione con la sua prima serie, House of Cards. L’editore che accetta un modello del genere, quindi, deve essere pronto a vedersela con un partner che può evolvere in un competitor. «È anche un problema di prodotto. La differenza con Netflix è la durata dei contenuti nel tempo. Un film lo vedi e lo rivedi, un articolo no, scade. Le notizie invecchiano. Il web è molto più adatto a rispondere all’immediatezza dell’informazione». È d’accordo anche Bevilacqua: «Chi fa i giornali non ha il coraggio di dimenticarsi la paura di bucare una notizia. Nel 2016 fui invitato per una rassegna stampa, a Ivrea. Era sabato. La notte prima morì il pugile Cassius Clay e mi ritrovai a commentare i giornali che non ne parlavano. Citai comunque Mohamed Alì, il web mi aveva permesso di studiare e ripercorrere aneddoti sulla vita del pugile. La cosa peggiore fu che il giorno dopo, domenica, tutte le testate aprivano con la stessa foto sulla morte di Alì. Ecco, il

«Nel futuro vedo i giornali di carta che conservano una edizione costosa, periodica, ma conservano la propria anima sul digitale. Dall’altra, i digitali produrranno carta, per avere prestigio». Lo fa, ad esempio, Linkiesta. Un aumento del valore economico del cartaceo, quindi, con sempre meno pubblicità e sempre più sponsor. ■

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Coverstory

Il calcio a portata di smartphone 10 — Zeta


del 2018 Mediaset e Sky comunicarono il passaggio a quest’ultima della piattaforma Premium”. L'intesa avrebbe riguardato solo la parte di infrastruttura, non redazionale. In tal modo su Sky sarebbero tornati ad essere visibili i canali Mediaset, che erano stati criptati anni prima. “A metà 2019 l’operazione del passaggio di R2, la società si chiamava così, salta. Si temevano interventi avversi Antitrust che comunque poi sono arrivati. Perché anche a operazione ormai affossata l’Autorità ha imputato a Sky una posizione dominante sul mercato che va corretta. Per farlo decide che l'azienda non potrà avere esclusive per quanto riguarda il canale web fino a maggio 2022”.

La partita tra Sky e Dazn ha contraddistinto le scorse settimane e gli sviluppi non sono ancora chiari. Il futuro del pallone si sposta sempre di più sulle App MEDIA

di Lorenzo Ottaviani

Dalle partite sentite per radio a Novantesimo Minuto, fino alle dirette televisive di interi eventi. Lo sport si evolve, così come cambia il modo di seguirlo. Il nuovo passo avanti è rappresentato dalle piattaforme, che permettono di assistere alle gesta dei propri campioni preferiti direttamente dallo smartphone. Un mondo di sport nel palmo della mano. Seppur fruito in maniere diverse il calcio è emozione, agonismo, passione e business. Quantificare le prime tre caratteristiche è impossibile, ma per la quarta possiamo provarci. Prendiamo una piattaforma televisiva famosa come Sky, che trasmette prodotti di qualità in grado di coprire diversi campi dell’intrattenimento, e 131 possibili fruitori raggiunti per passaparola e attraverso i social. Abbiamo posto al nostro campione tre semplici domande: hai un abbonamento Sky? Cosa guardi maggiormente? E senza la Serie A ti abboneresti lo stesso? Delle 131 persone ascoltate solo 25 non hanno mai fatto un abbonamento Sky. Tutti gli altri sono abbonati (85), o lo sono stati in passato almeno una volta (21). Questo dato dimostra che la piattaforma gode di buona salute. Più della

metà di loro è oggi abbonato. Sky non copre solo lo sport con i suoi canali, ma anche altri settori dell’intrattenimento. Ha importanti canali d’informazione, tra cui una all-news, e produce prodotti cinematografici e serie televisive di successo. Tra queste “Romanzo Criminale”, “Gomorra”, e l’ultima in ordine di uscita “Speravo de morì prima”. Abbiamo chiesto a coloro che hanno, o hanno avuto un abbonamento Sky, quali dei tre macro-settori dell’intrattenimento coperti dalla piattaforma guardano maggiormente, e queste sono le loro risposte. Lo sport canalizza ancora la maggioranza del nostro campione, seguito però subito dopo dai prodotti cinematografici e dalle serie tv. Se però Sky non trasmettesse più le partite di calcio della Serie A, il nostro campione annullerebbe il suo abbonamento? Il 45% degli ascoltati non rinnoverebbe. Una delle piattaforme più di successo in Italia perderebbe quasi la metà del nostro piccolo campione di fruitori. Mentre il 55% rimarrebbe abbonato, probabilmente trattenuto dagli altri sport, dai canali d’informazione, ma soprattutto dai film e dalle serie tv prodotte e trasmesse dalla piattaforma. 131 persone non possono essere una fotografia fedele di quello che davvero potrebbe succedere, ma ci dà un’idea della forza economica del calcio nel nostro paese. Di fronte a questi dati possiamo comprendere molto meglio la contesa oggi in atto fra Sky e Dazn. In ballo non c’è l’intera serie A, ma la posta in gioco rimane alta. Il tema è caldo ed in itinere, ma per capirlo bisogna fare un passo indietro. Andrea Biondi, giornalista de Il Sole 24 Ore sta seguendo il caso, e ci aiuta a fare chiarezza: “Il venerdì di Pasqua

E' per questo che giorni fa la Lega ha attribuito a Dazn i pacchetti uno e tre, comprendenti 7 partite su tutte le piattaforme in esclusiva più 3 partite in co-esclusiva solo sul web. “Dato il rifiuto dell'offerta formulata da Sky per il pacchetto due (3 partite in co-esclusiva da trasmettere su tutte le piattaforme), verrà aperto un nuovo bando al quale potranno partecipare anche altre aziende”. Come andrà a finire? Presto per dirlo, anche perché per ora Sky sembra aperta a ragionare con Dazn, mentre Dazn dice che non sta parlando con nessuno. “Bisogna capire come andrà a finire il bando e definire il ruolo di Tim, che dà 340 milioni l'anno a Dazn perché sono in partnership. - precisa Biondi Chiaramente Tim vuole aumentare gli abbonati alla banda larga, facendo leva sulle partite di calcio”. C'è dunque la possibilità che Dazn mandi le partite in diretta su Tim Vision? “Se ti abboni alla fibra puoi avere accesso a Tim Vision, che ti consente di accedere a vari contenuti ma anche ad una serie di applicazioni, tra cui Dazn. Tim e Dazn devono ad ora spiegare in che cosa si sostanzierà questa partnership. A quanto per ora si sa Dazn potrebbe essere proposta in esclusiva su Tim Vision, lasciando fuori gli altri “decoder” Vodafone Tv o Sky Q” Dopo Amazon che ha messo le mani su una serie di sfide del mercoledì di Champions League, ecco un nuovo colpo a favore delle piattaforme streaming rispetto alle televisioni. Il futuro si muove in questa direzione, ma la portata del cambiamento ci sarà chiara solo nelle settimane a venire. ■ Zeta — 11


Coverstory

Da sfigati a influencer, la parabola dei videogiocatori Come le piattaforme videoludiche hanno "salvato" i gamer dalla solitudine GAMING

di Francesco Stati

Fumo di sigaretta, luci blu e, nel silenzio generale, un rumore continuo di tasti premuti. Doveva presentarsi più o meno così una sala giochi negli anni Ottanta, quando i videogames si fecero conoscere attraverso i “cabinati”, cabine con una o due pulsantiere e uno schermo, con un singolo videogioco installato. Un’attività vista come da “sfigati”, nerd se preferite, emarginati sociali che si isolavano davanti un monitor con colori sgargianti e lotte fra agglomerati di pixel. Con il passare del tempo, però, il mondo videoludico è cambiato. A porre le basi della transizione, l’idea che quei nerd potessero uscire dai cabinati per incontrarsi tra loro e creare una comunità. Oggi ci sembra normale un gioco come Fortnite (Epic Games), un battle royale (tutti contro tutti) dove attraverso qualsiasi piattaforma si fa amicizia con giocatori di tutto il mondo, ma la strada per arrivarci è stata lunga e tortuosa. Già l’avvento di internet 12 — Zeta

Social e piattaforme - le evoluzioni e le piattaforme dedicate ai videogiocatori in una linea del tempo. In blu, i social network, da IRC a Discord; in rosso, le piattaforme su console, dal Sega Dreamcast (e il suo Alien Front Online) al PlayStation Network.


aveva generato vivaci gruppi online di videogiocatori su PC, anche grazie a servizi come IRC (protocollo di messaggistica istantanea creato nel 1988) ma la scarsa diffusione del mezzo telematico rendeva il tutto confinato a pochi eletti. Tra questi, la segretaria di Fratelli d’Italia, Giorgia Meloni, attiva su mIRC (una community basata su IRC) con il nickname di Khy-ri la draghetta. Le console, invece, restavano appannaggio di individui isolati. A fare da apripista, almeno per il grande pubblico, Alien Front Online (WOW Entertainment), uno sparatutto (gioco in cui si devono sconfiggere orde di nemici con un’arma da fuoco) dove per la prima volta fu permesso non solo di giocare a squadre (per un massimo di 8 giocatori, 4 contro 4), ma anche di comunicare. Con il videogame, infatti, era venduto un microfono per la console di gioco, il Sega Dreamcast, che grazie alle sue avanguardistiche funzionalità di rete consentiva di collegarsi con altri giocatori. Né il titolo, né il Dreamcast ebbero grande fortuna, vuoi per la poca espansione di internet, vuoi per la concorrenza della ben più famosa PlayStation targata Sony, ma la strada era ormai aperta.

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Fu poi Microsoft a capire appieno le potenzialità di rete e videogames combinati. Con il lancio nel 2001 della sua prima console, l’Xbox, venne predisposta l’infrastruttura per un servizio privato di gioco online, che fu poi rilasciato l’anno successivo. Xbox live, questo il nome della piattaforma, aveva come modello l’esperienza già maturata a supporto del Dreamcast, progetto in cui Microsoft aveva partecipato come supporto operativo (e attento osservatore). Esattamente un anno dopo l’uscita dell'Xbox, Bill Gates e soci rilasciarono l’Xbox Live starter pack: una cuffia, un abbonamento da 50 dollari, una buona connessione internet, e il mondo del multigiocatore online era a portata di joypad. Con il passare degli anni (e delle console), Microsoft ha ulteriormente ampliato il servizio, rendendo gratuita la comunicazione tra utenti e lasciando a pagamento solo l’esperienza cooperativa di rete. Ben prima dei social network, Xbox live permetteva la creazione di gruppi e liste di amici con cui parlare, passare del tempo, giocare insieme e, secondo qualcuno, preparare attentati (Jean Jambon, ministro degli affari federali del Belgio, affermò che l’attacco terroristico di Parigi, del 2015, fosse stato preparato attraverso la comunicazione su queste piattaforme). Anche Sony ha intuito le potenzialità del servizio di rete abbinato al gaming: già la Playstation 2 offriva la possibilità di acquistare un ingombrante adattatore di rete, ma è con il lancio sul mercato della Playstation 3 (2006) che viene presentato un servizio vero e proprio, il PlayStation Network. Le funzionalità sono le stesse di Xbox Live, con l’aggiunta in un secondo momento di due titoli gratuiti per chi sottoscriveva l’abbonamento al servizio “Plus” (equivalente del “Gold” di casa Microsoft). La maggiore diffusione del

2 1. Headset e rivoluzione - Il microfono venduto con tutte le console Xbox360, utile per chattare su Xbox Live 2. Capostipite - Forma bizzarra, gommapiuma verde, questo il microfono abbinato ad Alien Front Online, il primo gioco per Sega Dreamcast che permetteva la chat vocale tra i giocatori

prodotto “Made in Japan” ha reso questo servizio disponibile su grandissima scala. Come collegare due reti sì grandi, ma rivali? A questa esigenza hanno risposto le piattaforme Discord (2015) e Twitch (2011). Già TeamSpeak, nel 2001, aveva dato ai gamer da PC la possibilità di interagire tra loro attraverso un sistema VoIP (Voice over IP, un mezzo che permette di comunicare attraverso la rete come se si fosse al telefono), migliorando quanto offriva loro IRC; questi due servizi, però, integrano la funzionalità vocale con le caratteristiche dei social network. Se Discord aggiunge a TeamSpeak la facoltà di condividere il proprio schermo e di creare trasmissioni radiofoniche, Twitch (oggi di proprietà di Amazon) porta l’esperienza di condivisione videoludica su un altro livello. Combinando le funzionalità di YouTube alle piattaforme testuali, lo strumento consente di trasmettere in diretta ciò a cui si sta giocando e permette agli spettatori di intervenire e commentare in tempo reale. Una funzionalità ripresa anche dal social di Google, con minori fortune. C’è chi, grazie alla sua passione e a questi strumenti, ha trasformato il suo hobby in un lavoro, fatturando migliaia di euro al mese combinando la sua abilità nei videogiochi a doti di intrattenitore: adulti che hanno preso il gioco molto sul serio. Oltre che professionisti, i padroni di queste piattaforme sono influencer: non gli esuberanti protagonisti di Instagram, con le loro clip divertenti, ma quegli “sfigati” che solo 30 anni fa sarebbero finiti emarginati nelle sale giochi. ■ Zeta — 13


Coverstory

Statosauri, quando il progresso tecnologico fa paura 14 — Zeta


Nel nuovo libro di Massimo Russo, come le grandi piattaforme hanno ridisegnato le nostre vite e quelle degli Stati nazionali LIBRI

di Angelica Migliorisi

Il mondo non esiste più. Almeno per come abbiamo imparato a conoscerlo, ad abituarci a esso, alle sue forme e ai suoi contenuti. E se quel mondo è un ricordo, quale stiamo vivendo adesso? Nel suo ultimo libro, Statosauri, guida alla democrazia nell’era delle piattaforme (Quinto Quarto Edizioni, 2021), Massimo Russo, direttore della rivista maschile Esquire Italia e direttore digitale per i Paesi dell’Europa occidentale del gruppo editoriale Hearst Corporation, individua la risposta nel passaggio dall’era delle Macchine all’era della Rete (Net age). Protagonisti del cambiamento, quei colossi tecnologici che hanno imposto, negli ultimi vent’anni, paradigmi unici e sfide sempre più complesse. Nel nuovo mondo dominato dai giganti digitali (big tech), nuovi devono essere gli strumenti utilizzati per governare la complessità: «Come accade per le tecnologie superate, è ora di cambiarle, di mutuare proprio da queste piattaforme alcuni dei meccanismi che le hanno rese così grandi», scrive il giornalista. Nel mirino del cambiamento, anche gli Stati nazionali, «tecnologie obsolete» che sfruttiamo come Statosauri impauriti, che trovano nel vecchio la sicurezza della conoscenza e nel nuovo l’incertezza dell’imprevedibilità. Un quadro pasticciato ancor di più da una pandemia, che porta con sé dubbi e preoccupazioni per il futuro. Eppure, come argomentato nel libro, sono proprio questi «i migliori anni della nostra vita»: nuovi poteri spettano alla nuova umani-

tà, nuovi scenari e prospettive l’attendono, se è disposta a farsi carico di nuove responsabilità. E a chi teme il salto nel vuoto, il giornalista risponde che «è spesso proprio l’incertezza ad aprirci nuove strade, nuove opportunità, a tenerci sulla corda, stimolando la nostra creatività. Chiamatela, se vi va, tensione vitale». Russo esplora i meccanismi e i processi dell’era della Rete, scompone le piattaforme ispezionandone caratteristiche, rischi e opportunità; analizza il rapporto tra big tech e Stati, individuando i terreni di scontro che ne impediscono una coesistenza pacifica. E tutto per identificare quel quid che ha determinato il successo degli imperi digitali così da trasferirlo alla nuova democrazia. Per farlo, il libro passa in rassegna tre modelli: Stati Uniti, Cina ed Europa. Il primo, una società aperta ed egualitaria dove il nuovo può fiorire grazie agli scambi e agli «incroci tra persone, società, imprese». Proprio negli Usa, «la guida del processo di innovazione e di crescita sia passata saldamente nelle mani delle piattaforme», fino a creare «un vero e proprio nuovo centro di potere geopolitico, per molti versi superiore a quello dello Stato federale». Il secondo, per cui piattaforme e Impero coincidono, tanto da rendere difficile distinguere le une dall’altro, dando origine a un’«autocrazia tecnologica». Basti pensare che la Repubblica Popolare rilascia documenti rilevanti, come la patente di guida, attraverso WeChat, l’app tuttofare «che [in Cina, ndr] rappresenta oltre il 98% delle destinazioni che altrove sono siti web». Il terzo, un continente che per mancanza di lungimiranza non è stato in grado di creare un terreno favorevole allo sviluppo di piattaforme di respiro internazionale: come sottolinea Russo, «mentre le aziende digitali dell’Ue [Unio-

ne europea, ndr] restano vicine a casa, limitando le opportunità di espansione, società come Netflix e Amazon hanno conquistato posizioni dominanti nell’Unione». A pesare, l’assenza di un mercato unico per i servizi e, più in generale, di una prospettiva veramente comunitaria. Tuttavia, nulla è perduto. Perché proprio l’Europa, per ragioni culturali (su tutte, i diritti, la meritocrazia, un’idea inclusiva di cittadinanza) ancor prima che economiche, rappresenta la candidata ideale per realizzare il processo di superamento dello Stato nazionale e adeguare le strutture esistenti all’età della Rete: ossia, «la missione – dice il giornalista – di costruire un neoumanesimo per il presente, di abbracciare l’incertezza, grazie all’apparente fragilità di un apparato di valori liberali, in realtà antifragile». Anche per l’Italia, la partita resta aperta. Complici alcuni fattori internazionali, ac-

«Siamo Statosauri impauriti, che trovano nel vecchio la sicurezza della conoscenza e nel nuovo l’incertezza dell’imprevedibilità» celerati dalla pandemia, «nei prossimi 36 mesi [il Paese, ndr] sceglierà la strada che percorrerà per i successivi 30 anni. Come direbbero le sorelle Wachowsky [registe della trilogia cinematografica di Matrix, ndr]: pillola rossa, ovvero il sentiero della libertà, della responsabilità, l’abbraccio dell’incertezza e del cambiamento, il rischioso salto nella Net age; pillola blu, ovvero la rendita, per chi ancora ce l’ha, e il declino (che – una volta finiti i soldi – potrebbero somigliare più a un avvitamento rapido che a un malinconico tramonto sorrentiniano)». A noi la scelta. ■ Zeta — 15


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Greta Menchi, la musica che nasce sui social di Gian Marco Passerini e Martina Coscetta 16 — Zeta

"Blody" è una delle artiste della Gen Z che hanno raggiunto notorietà grazie alle piattaforme digitali anche se oggi non le bastano più: «mi piace il contatto umano, soprattutto ora che manca così tanto» MUSICA


Menchi”, che ha raggiunto con velocità oltre un milione di iscritti. «Facevo tutto io, non ho mai avuto una squadra che mi aiutasse con le riprese, i suoni, le idee, il montaggio». «I social mi hanno aiutata a creare una professione ex novo. Quando ho iniziato nessuno sapeva davvero come usarli, mi capitava persino di essere contattata da aziende importanti per promuovere i loro prodotti, senza che però avessero in mente il modo giusto per farlo. La mia “generazione” in questo senso ha creato un format, che poi è stato perfezionato anche da quella che ci ha seguito, e ha ridefinito il concetto di “personal branding” in chiave social».

«Sarebbe stato bello avere vent’anni senza social. Uscire di casa e gestire solo la realtà, senza averne un’altra “parallela” online. Magari, però, se avessi avuto questa età nel 1975 e mi avessero detto che attraverso uno schermo luminoso sarei stata in grado di connettermi con un’altra persona sarei stata “in fissa”». Sono le parole di Greta Menchi, in arte “Blody”, ad oggi una cantante che, nel giro di pochi anni, ha raggiunto quasi due milioni di followers su Instagram. Proprio in quel 1975 al Saint Martin’s College di Londra salivano per la prima volta sul palco i Sex Pistols, il gruppo preferito di Greta. Era il 6 novembre e Johnny Rotten, il frontman del gruppo, decise di prendersi la scena suonando in quello che in teoria sarebbe dovuto essere il concerto di una rock-band chiamata Bazooka Joe. Quella serata finì in rissa, ma sin da subito si capì che i Sex Pistols avrebbero scritto pagine importanti della musica punk. Da quel momento sono passati diversi anni e mai come durante questa pandemia siamo stati abituati a seguire i pochi concerti che si sono organizzati in tv, ma soprattutto sul nostro smartphone perché, grazie alle piattaforme digitali, gli artisti hanno dovuto trovare metodi alternativi per far ascoltare la propria musica. Scrollando nelle nostre home page e tra le stories Instagram ci capita spesso di fermarci a sentire i nostri cantanti preferiti esibirsi nel salotto di casa e

non è troppo lontano nemmeno il ricordo dei canti di balconi durante il primo lockdown Tra gli artisti, quelli della Generazione Z sono stati senza dubbio quelli più avvantaggiati perché si sono potuti confrontare con un mondo, come quello del digitale, nel quale sono nati. Tra questi c’è anche Greta Menchi che ha iniziato la sua carriera proprio sul web: «La notorietà è arrivata un po’ per caso, quando ero ancora al liceo Righi di Roma. Dall’adolescenza all’età adulta la mia vita è stata online e non ho mai avuto un momento per me, per capire chi fossi e cosa volessi davvero. La cosa che è cambiata di più con la fama è la percezione della mia persona da parte di chi mi stava vicino, ma non ho mai pensato che in qualche modo mi abbia cambiata» racconta Greta. I suoi video musicali contano migliaia di visualizzazioni, ma è con Youtube, piattaforma di condivisione e visualizzazione di contenuti multimediali, che ha iniziato a farsi conoscere. È stata una delle youtuber più seguite della vecchia generazione di creator e da nativa digitale conosce anche i limiti e i difetti di queste piattaforme: «È complicato distinguere ciò che è reale da ciò che non lo è, senza perdercisi dentro» racconta Greta. Era il 2014 quando online apparve per la prima volta il suo canale, MyBlogGreta, successivamente modificato in “Greta

Oggi, tra le piattaforme che stanno crescendo di più c’è senza dubbio Twitch che, oltre al classico format del gaming, permette di fare dibattito e spesso lascia spazio anche alla musica. Anche Greta passa sempre più tempo su Twitch e l’aspetto che più le interessa è la possibilità concreta di creare una comunità, un rapporto con i propri fan che vada oltre la semplice condivisione della sua vita quotidiana.

“ I social permettono di avere accesso a tutto, ma bisogna distinguere ciò che è reale da ciò che non lo è senza perdercisi dentro” «In ambito musicale credo che le piattaforme digitali aiutino soprattutto a creare un personaggio. Il futuro della musica, ma anche di moltissimi altri settori, è legato allo sviluppo delle piattaforme. Per quanto riguarda le vendite di CD e vinili penso che resterà sempre il fascino, per un gruppo di nicchia, di inserirli in un dispositivo e riprodurre la musica manualmente. Però il futuro è del digitale». Dopo aver fatto l’attrice, la doppiatrice, aver scritto un libro, nell’ultimo anno Blody oltre a lavorare a un nuovo EP, ha pubblicato un singolo intitolato “Euphoria”, prodotto dall’ex chitarrista di Achille Lauro Boss Doms, brano che è disponibile su tutte le piattaforme come Spotify, Tidal, Amazon e Apple Music, piattaforme che per Greta «continueranno per molto tempo a egemonizzare questo settore. Non vedo molti spazi per nuovi player». ■ Zeta — 17


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Ma la notte no! L’eredità di Arbore nella televisione di oggi

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Sono passati 36 anni da «Quelli della notte», successo televisivo con Arbore e Frassica. Com’è cambiata la comicità nell’era delle piattaforme, da Amazon a RaiPlay TELEVISIONE

di Enrico Dalcastagné 18 — Zeta

«Lo diceva Neruda che di giorno si suda, ma la notte no! Rispondeva Picasso, io di giorno mi scasso, ma la notte no!». Dall’oscurità dello schermo, quando la giornata televisiva era ormai conclusa, spuntava Renzo Arbore con la sua banda. Con quelle rime comicamente forzate, la sigla d’apertura bastava a spiegare un intero programma. Con Arbore la notte dilatava i suoi confini e diventava un fatto di costume, dispensava cultura senza fare accademia. Sono passati 36 anni da «Quelli della notte», la trasmissione-culto andata in onda per 32 pun-

tate nella primavera del 1985. Scritta da Arbore e Ugo Porcelli, era programmata ogni giorno alle undici di sera, sulla «seconda rete del servizio pubblico». Un’ora e mezza sottile e caciarona, tra nonsense e momenti di comicità trascinante, spesso frutto di improvvisazione. Lo show ebbe un successo inaspettato: arrivò a punte del 51% di share e i suoi tormentoni sono ancora in voga. Poco più di un mese di messa in onda per entrare nella storia. Il programma aveva un cast variegato, composto soprattutto da esordienti. C’erano Riccardo Pazzaglia, il filosofo


che cercava di «alzare il livello» della trasmissione, e Massimo Catalano, il jazzista dai ragionamenti lapalissiani: «Meglio essere ricchi e in salute che poveri e malati. Meglio sposare una donna ricca, bella e intelligente che una donna brutta, povera e stupida». C’era Nino Frassica nelle vesti di fra’ Antonino da Scasazza e Maurizio Ferrini, comunista romagnolo rappresentante di pedalò (suo il proverbiale «Non capisco ma mi adeguo»). E poi la signora Marchini e la cugina Laurito, oltre al «lookologo» Roberto D’Agostino, che dissertava sui nuovi trend sociali. Andy Luotto interpretava Harmand, che in un arabo di fantasia traduceva per «i fratelli dell’altra sponda del Mediterraneo». Il personaggio finì nel mirino dei musulmani italiani e di alcune ambasciate mediorientali; l’attore fu minacciato di morte e all’ultima puntata lasciò la trasmissione. Era il 14 giugno ’85, a solo un mese dal debutto. Nel mezzo un’unica battuta d’arresto, con lo stop al programma dopo la strage dell’Heysel. «Quelli della notte» si colloca nella fase di maggior successo di Arbore e del suo gruppo, in un percorso cominciato nel decennio precedente con «Alto gradimento» e «L’altra domenica». «Un periodo di forte sperimentazione in cui lui definì la sua cifra, quell’idea di tv popolare e di ricerca che unisce sempre più livelli» ci spiega Luca Barra, che insegna storia della radio e della televisione al DAMS di Bologna. Arbore dissacra il linguaggio dell’epoca e smaschera l’inconsistenza dei salotti tv di quegli anni, da Costanzo in poi. La tv prende in giro sé stessa, in una parodia dei talk show.

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4 1. Un dietro le quinte di «Quelli della notte». Al centro, Nino Frassica e Maurizio Ferrini 2. Frassica con Renzo Arbore, conduttore e regista del programma 3. Il cast di «LOL - Chi ride è fuori» 4. Valerio Lundini e Emanuela Fanelli, protagonisti di «Una pezza di Lundini»

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Nelle trasmissioni di Arbore non conta tanto il singolo quanto il gruppo, quella coralità che è tipica di tanti programmi comici e che ha segnato diverse epoche televisive: dal gruppo di Dandini e Guzzanti su Rai3 ai comici riuniti attorno alla Gialappa’s negli anni 90. L’unione di più voci con sfumature diverse che miscelano vari modelli di comicità e raggiungono un pubblico eterogeno: c’è lo spettatore più «semplice» che ride per i tormentoni e i personaggi buffi e quello più «intellettuale» (o presunto tale) che ride per gli aspetti surreali. Alla coralità di chi fa la tv corrisponde poi la nascita di una comunità: quella di chi la televisione la guarda. Il successo di «Quelli della notte» sta nel mix tra la presenza di un evento «unico» e la costruzione di un appuntamento. È qui che si inserisce la notte, uno spazio marginale colonizzato da Arbore e legato a un’abitudine, un rituale. In definitiva a un culto. La «seconda serata» si rivela perfetta per un programma che vuole essere periferico, laterale rispetto alla tv convenzionale: a tarda sera il pubblico diventa più maschile e si assottiglia, favorendo una complicità al limite del cameratismo. Ma cosa resta di quell’esperienza nella tv di oggi, in un contesto segnato dalla televisione in streaming? Lo spazio per un certo tipo di comicità e di complicità si è certamente ridotto. Secondo Barra, i programmi di Arbore avevano caratteristiche che sono venute a mancare: la possibilità di far durare poco un programma che funziona bene e di occupare la seconda serata con un appuntamento fisso. Un esempio è quello di «Propaganda Live», nato su Rai3 come «Gazebo» e poi adattato alla prima serata di La7. Il programma di Diego Bianchi è già alla settimana stagione e ogni puntata dura tre ore. Tutto si è complicato con l’avvento delle piattaforme, che stanno puntando su

produzioni originali. Show comici che sfruttano le contraddizioni dello scenario mediale e ottengono successi forse inattesi. È il caso di «LOL - Chi ride è fuori», il game show di Amazon Prime Video che è esploso nell’ultimo mese. Il programma non può contare su una sincronizzazione sociale – ognuno lo vede in un orario diverso, perlopiù da solo: la condivisione non scatta durante ma dopo la visione, con gif e meme su Instagram e Twitter. La tv italiana ha privilegiato forme di comicità lontane da quella di Arbore. Un’eccezione recente si è avuta con «Una pezza di Lundini», di cui è appena parti-

“ Propaganda Live, nato su Rai3 come Gazebo e poi adattato alla prima serata di La7, è alla settima stagione ” ta la seconda stagione su Rai2. I punti di contatto con «Quelli della notte» non mancano, a partire da una comicità spalmata su più strati, con diversi pubblici che ridono per motivi diversi. Non a caso Nino Frassica ha indicato Valerio Lundini come suo erede. Il programma del 35enne romano è molto scritto, provato, cesellato; ben più di quanto sembri, proprio come i successi di Arbore. L’improvvisazione spunta quando meno te l’aspetti in un posto in cui poco è lasciato al caso. Se valutato in base a criteri tradizionali – il verdetto dell’Auditel sugli ascolti tv – «Una pezza di Lundini» è un esperimento quasi fallito. Ma il suo exploit è fuori discussione. «La Rai è tornata a fare una comicità alta che porta recensioni sui giornali e critiche positive a non finire» spiega ancora Barra. E poi Lundini ha dalla sua i meccanismi della viralità digitale: un pubblico giovane che lo segue su RaiPlay anziché su Rai2, il giorno dopo anziché in diretta, e che inonda i social di video e battute. ■ Zeta — 19


«So che la notte non è come il giorno: che tutte le cose sono diverse, che le cose della notte non si possono spiegare nel giorno perché allora non esistono». (E. Hemingway)

La notte

In questo numero, la notte declinata sotto diverse visioni, diversi sguardi. I mestieri della notte, la notte dei medici, dei portieri notturni, dei riders, la notte per le sex workers, la notte dei panettieri, dei netturbini, dei farmacisti, degli scaffalisti, la notte dei tassisti e del cibo di strada. L'antropologia, l’immaginario della notte nei titoli dei libri, nei testi delle canzoni, come il coprifuoco ha cambiato la visione comune della notte. Le nuove abitudini, i modi fantasiosi in cui la gente ha aggirato il coprifuoco. Il Poker, con i professionisti che lavorano di notte e i tornei in notturna perché di giorno la gente lavora. Le storie d’amore nate da notti insonni.


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La notte è piccola per noi, troppo piccolina di Livia Paccarié

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I vaccini in notturna nell'hub di Fiumicino di Giuliana Ricozzi e Chiara Sgreccia

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«Volevo solo le unghie rosse» di Erika Antonelli e Angelica Migliorisi

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All'alba vincerò di Valerio Lento

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La lunga notte dei medici di guardia di Jacopo Vergari

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Photogallery: Roma, i volti nel buio

di Mattia Lucia De Nittis, Collettivo Ammodo Studio


La notte è piccola per noi, troppo piccolina di Livia Paccarié

Sopra Joan Miró. Figure di Notte, dalla serie Costellazioni, 1940. Tecnica: Acquerello e Gouache su Carta, 37,9 x 45,7 cm. Philadelphia Museum of Art Nella pagina accanto Gemelle kessler, durante due performance in RAI negli anni Sessanta

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Degli amanti e dei solitari, dei sognatori e dei fantasmi, dei vizi e dei bagordi, così le anime della notte sono state rappresentate nella letteratura, nell’arte, nella musica ARTI

Studio Uno, 1965. Alice ed Ellen Kessler cantano La notte è piccola per noi, “troppo piccolina”. Le Gemelle iniziavano a cambiare l’Italia degli anni Sessanta che per una frase a doppio senso era solita correggere i programmi televisivi. Notte piccola per fare cosa, si chiedeva la censura. Ma i palinsesti cambiarono e la televisione iniziò a tenere compagnia agli italiani anche nelle loro notti piccoline. Nel 1985 Renzo Arbore appariva nel suo salotto surreale alle 23.00 dialogando con i suoi amici della notte nel primo programma notturno, Quelli della notte. La parte del giorno che il sole trascorre sotto l’orizzonte iniziava ad avere vita propria, diversa da quella condotta sotto la luce del sole. Ma era sempre stato così. Gli uomini antichi guardavano le stelle e associavano il proprio destino alle diverse costellazioni, i moderni alzavano lo sguardo e non riuscivano a trovare le risposte alle cause prime dell’esistenza, nella contemporaneità la notte è un limbo in cui deformare il tempo, per ritardare l’arrivo del giorno con le sue responsabilità.

La Notte

tra i bagordi e le bische mentre all’inizio dell’Ottocento la notte diventava lo spazio, a volte accogliente, altre inospitale, dell’interiorità. Nascevano le tematiche notturne imperniate sulla malinconia, sul desiderio dell’infinito, sulle nostalgie. Una delle opere più rappresentative di una notte “gotica” e del preromanticismo tedesco è Inni alla notte di Novalis, in costrasto con la fiducia razionalistica dell’Illuminismo.

inglese, in alcuni versi che scrisse in una lettera a un suo amico dopo i bagordi e i festeggiamenti notturni del Carnevale, definisce la notte come “creata per amare”. Anche I ragazzi che si amano di Jacques Prevert si baciano, in piedi, “Contro le porte della notte”. E in pittura non si può non pensare agli amanti di Chagall che abbracciati fluttuano in cielo o appoggiano il viso dell’uno sull’altro, cullati dal blu della notte.

Di pari passo alla letteratura, nello stesso periodo, si evolve un genere musicale dedicato alla notte: il notturno. L’antecedente della Piccola serenata notturna di Mozart aveva poco a che fare con gli astri di questo immaginario, l’aggettivo notturno era associato a una musica da suonare all’aperto, alle feste, nei circoli della nobiltà. Ma i pentagrammi iniziano presto ad avvicinarsi al nuovo modo di vivere la notte della poetica romantica che si stava facendo largo nel cuore dell’Europa e diventano più lirici, quasi sentimentali, malinconici e intimisti. Fu il fascino di questo stile a colpire il giovane Chopin che scrisse il primo Notturno nel 1827, a 17 anni. Primo dei 19 che ne seguirono, un corpus che costituisce l’opera di maggior spessore del compositore.

L’arte è stata un bacino inesauribile di raffigurazioni notturne, dagli uomini primitivi che disegnavano le volte celesti nelle loro caverne, alle stelle dipinte da Giotto nella Cappella degli Scrovegni, alle notti degli impressionisti, fino alla famosa Notte Stellata di Van Gogh e alle notti “geroglifiche” di Joan Miro.

Oltre a essere lo spazio dell’uomo solo davanti al dubbio e alle sue riflessioni più intime, la notte è il momento d’elezione per l’incontro degli amanti. Lord Byron, uno dei maggiori poeti del romanticismo

Sono pittoresche, e romantiche, anche le descrizioni delle quattro notti insonni del giovane sognatore de Le notti bianche di Fëdor Dostoevskij, dedicato al notturno dei giovani, all’incontro di un ingenuo solitario con la sua Nasten’ka, nella luce crepuscolare dell’estate pietroburghese. Un romanzo giovanile che lascia spazio infatti ai dubbi e alle timidezze, a quelle domande “da giovani, molto da giovani”, che si pongono sotto al cielo “così stellato, così luminoso”, proprio di “una di quelle notti che forse esistono soltanto quando si è giovani”. ■

La notte non ha mai smesso di stimolare la fantasia degli artisti, fino a diventare un affascinante topos letterario, musicale e pittorico. Per dirla con Leopardi «Le descrizioni della notte sono poeticissime», in virtù della loro vaghezza, che ammanta e confonde, simile a quell’inconfondibile sensazione ovattata che accompagna, di solito, le notti d’estate, notti senza vento. Leopardi lo scriveva nello Zibaldone ma restituì le sue riflessioni in uno degli incipit più famosi della sua produzione, il “Dolce e chiara è la notte e senza vento” de La sera del dì di festa dell’estate 1820. L’immaginario della notte aveva appena virato verso una direzione nuova. Solo qualche decennio prima Giuseppe Parini celebrava la notte del “Giovin signore” della nobiltà tardo settecentesca Zeta — 23


«Volevo solo le unghie rosse»

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La Notte

mi avevano chiesto di partecipare ma io avevo sempre rifiutato». Mentre quegli adolescenti passano le giornate a correre per le vie di Rocinha e a inseguire un pallone, C. sogna ancora una bambola di pezza. «Uno di loro mi ha raggiunto e ha iniziato a sferrarmi calci e pugni. Gli altri guardavano, non hanno detto niente. Sentivo un dolore lancinante all’occhio. “Ora muoio – ho pensato – almeno incontrerò papà”». Non c’è traccia di malinconia nella sua voce quando ricorda questo episodio. Ha ancora un piccolo segno sotto l’occhio destro, che considera la fessura da cui è passato il cambiamento. Da quel giorno, la sua vita non sarebbe stata più la stessa.

La storia di C., una giovane trans brasiliana arrivata in Italia e finita in strada STRADA

di Erika Antonelli e Angelica Migliorisi

C. ha le mani nodose e le unghie laccate di rosso. È nata a Rocinha, la baraccopoli più grande che sorge ai margini di Rio de Janeiro, in Brasile. Una sorta di grande città nella città, costellata di case costruite con lamiere e materiali di fortuna. C. è anonimo, gracile e non ama giocare a pallone. «Per anni ho pensato che non mi interessasse nulla del calcio perché sono cresciuto solo con mia madre e non ho mai conosciuto mio padre. Mi sentivo in colpa vedendo gli altri bambini che giocavano euforici, mentre io sognavo disperatamente di avere una bambola di pezza». Ha perso il padre quando aveva un anno e la mamma non parla volentieri di lui. «Fin da piccolo ho dovuto farmi bastare i suoi silenzi, lo sguardo severo ogni volta che provavo a chiedere di più. Ho imparato che le faceva del male ricordarlo e ho seppellito dentro di me la curiosità di conoscerlo». C’è un giorno che C. ha stampato nella mente, il 13 giugno del 2002. Ha 15 anni e sta camminando per una strada dello slum. Quattro ragazzini iniziano a seguirlo. «Frocio», gli urlano, mentre lui accelera il passo con il cuore a mille. «Giocavano sempre a calcio davanti casa mia, più volte

Nessuno gli ha regalato la sua bambola di pezza, ma C. ha capito di esser nata nel corpo sbagliato. «Guardavo le mie mani con le dita grandi e sognavo di averle affusolate come quelle di mia madre». Quando lei non c’è, C. accenna qualche passo instabile nelle scarpe buone della donna, troppo piccole, e non rimpiange di preferire i tacchi ai tacchetti. I giorni e le notti passano tutti uguali, fuggire da quell’inferno di lamiera è la luce che le permette di continuare a sperare. Non c’è solo quello, però. «Un pomeriggio di gennaio promisi a me stessa che sarei andata via. E che la prima cosa che avrei comprato sarebbe stata uno smalto rosso porpora». Un giorno, vede un ragazzone che si aggira curioso tra cunicoli e baracche. Ride forte, segue una folla di turisti italiani. «È ben vestito, penso “sarà il solito turista ficcanaso”. Mi offre una sigaretta e cominciamo a parlare». P. è arrivato in città da poco. «Passiamo tutta la giornata insieme. Era sorridente, gentile. In Brasile non capita spesso di incontrare uomini così». Da quel momento, i due non si mollano un attimo. «Non sono una persona sdolcinata, ma sentivo sempre più il bisogno di stare con lui». Il tempo passa e si avvicina la sua partenza. «Sapevo che non sarebbe potuta durare in eterno, che presto avrebbe fatto rientro a Roma. Ero triste e felice al contempo. Triste perché non l’avrei più rivisto, felice per averlo anche solo conosciuto», C. sorride e si sposta una ciocca nera da davanti gli occhi.

Rio, mi vergognavo a entrare in luoghi simili. Adesso trovavo il coraggio di farlo. Comprai quello smalto che tanto avevo desiderato. Color porpora, ovviamente. Non l’ho mai cambiato», racconta mentre mostra le mani. Le loro vite procedono tra alti e bassi. «Io non lavoravo, lui si arrangiava. A volte tornava a casa pieno di contanti, ma evitavo di chiedergli spiegazioni». Poi, la pandemia. I soldi sono sempre meno, le discussioni sempre più frequenti. Una sera, la lite. «Mi minacciò di cacciarmi di casa, se non avessi trovato un lavoro. Erano mesi che cercavo e ricercavo, senza successo. Essere una lei in un corpo maschile mi chiudeva tutte le porte. “Se proprio non sai fare niente, vai a battere”. Lo avevo già fatto in Brasile, non era una cosa negativa per me».

«Iniziai a prostituirmi. Credevo che con P. la mia vita sarebbe cambiata, che mi amasse davvero. Non era così. Non abbiamo rotto, ma tra noi ci sono tanti, troppi silenzi» A ferirla, la sensazione di esser tornata, dopo tanto scappare, tra le lamiere di Rocinha. «Iniziai a prostituirmi. Credevo che con P. la mia vita sarebbe cambiata, che mi amasse davvero. Non era così. Non abbiamo rotto, ma tra noi ci sono tanti, troppi silenzi». Eppure, C. non perde il sorriso: «I miei clienti mi trattano bene, a volte sono loro ad aver paura di me. In Brasile, temevo ogni giorno per la mia vita. Non è il lavoro più gratificante del mondo, ma è il mio lavoro. E non è detto che debba farlo per sempre». ■

Poi, la proposta: «“Partiamo insieme”, mi dice. Lo dovette ripetere più volte prima che io capissi. Avevo 23 anni, lui 40. Ho pensato che era stato il destino a farmelo incontrare. Che se avessi rinunciato a quest’occasione, non ne avrei avute altre. Accettai senza esitare». C. e P. arrivano in Italia, nel quartiere romano di Torre Maura. Lì l’uomo ha una casetta, che per lei è «il posto più bello del mondo». Appena sotto al portone c’è una profumeria. «A Zeta — 25


Il Policlinico Universitario Umberto I, il maggior ospedale di Roma

La lunga notte dei medici di guardia Durante la pandemia il turno nella fascia oraria 20.00-8.00 è cambiato. Competenze nuove, quadri clinici imprevedibili, un dispendio di energie fisiche e mentali maggiore SANITÀ

di Jacopo Vergari

«Una patologia che segna tutti. Mai avrei immaginato di sentire un paziente al telefono dire: ‘Mi stanno per intubare, volevo avvisarti’. Una procedura di solito destinata a chi si trova in condizioni critiche e non è cosciente. Ma è successo, più di una volta. Per me è stato destabilizzante e fatico a raccontarlo». Vito Trinchieri, 62 anni, è medico infettivologo al Policlinico Umberto I di Roma. Di guardie notturne nella fascia oraria 20.00-8.00 ne ha fatte tante in carriera. È quello il momento in cui si rimane soli, la città dorme, nelle luci soffuse delle corsie si sentono i bip dei monitor e dalla cucina arriva l’odore pungente del caffè. Ma con la pandemia tutto è cambiato. Il virus ha costretto a subire e imparare, prima di ri26 — Zeta

lanciare. E ha lasciato una certezza: questa professione non sarà più la stessa. Prima l’infettivologo di guardia era responsabile dei vari reparti di Malattie Infettive, svolgeva le consulenze al DEA (Dipartimento di Emergenza Urgenza e Accettazione) e in tutto l’ospedale. Oggi si è reinventato, adeguandosi a un preciso percorso del malato. Qualcuno è destinato al Pronto Soccorso Febbre. Altri, come il dottor Trinchieri, lavorano in unità subintensiva: «Un anno fa l’arrivo di una patologia sconosciuta. All’improvviso ti ritrovi a sistemare caschi CPAP (ventilazione meccanica a pressione positiva continua, ndr) e altri supporti respiratori, a gestire quadri insidiosi, a chiederti come andrà a finire. Il destino delle mie notti è legato alle im-


La Notte

pennate nella curva dei casi. A marzo e aprile 2020 è stato terribile. Non c’erano strumenti, percorsi dedicati, presidi sufficienti. E non conoscevi la malattia. Le ore sembravano non passare mai, dallo stress della vestizione alla paura del contagio, che mi ha costretto a stare due mesi lontano dalla famiglia. Ora è diverso, Covid-19 è entrato nella nostra routine e sappiamo affrontarlo, nonostante aspetti ancora da chiarire». Il medico racconta del rapporto con i pazienti. «La mascherina, la visiera e la tuta di protezione fanno perdere il contatto visivo. Allora il malato ti guarda negli occhi, ha imparato a leggerli. Li interpreta. Più di prima, la chiave è nell’approccio alla persona, che va rassicurata: conosce COVID-19, ne sente parlare ogni giorno e ha paura di morire. Quando gli metti il casco è terrorizzata, sa che il passo successivo sarà l’intubazione in rianimazione. ‘Un sorriso e una battuta valgono più di una compressa’, dico sempre agli specializzandi che lavorano con me. Ma che soddisfazione una volta che se lo levano. Quasi tutti piangono. E capisci perché ami questa professione». Anche per un medico con esperienza le ore che precedono la guardia non sono più le stesse. «Sono meno tranquillo, so di andare ‘in trincea’. C’è un dispendio di energie fisiche e nervose maggiore. Basti pensare che lavoriamo a stretto contatto con i rianimatori, con cui una o due volte al giorno facciamo il punto della situazione. Un filo diretto che ci permette di individuare in maniera precoce pazienti critici e inviarli in terapia intensiva». E la percezione del tempo? «La stessa, alcune notti riesci a riposare qualche ora, altre no. È cambiata l’atmosfera. Non c’è turno che dall’oblò delle stanze io non controlli di continuo monitor e saturimetri. Prima il reparto era ‘prevedibile’, un occhio esperto permetteva di valutare in breve tempo la situazione. Oggi l’imprevisto è dietro l’angolo. Anche il momento del caffè in cucina, la battuta sulla partita o il film in prima serata sono più rari. Il rapporto con il personale si è modificato. Mantenere il distanziamento e i vari presidi incidono, l’ambiente è meno rilassato». Ma c’è un aspetto che a Malattie Infettive del Policlinico Umberto I neanche il COVID è riuscito a cambiare: «la tradizione della colazione a fine guardia è rimasta. Un riconoscimento per lo specializzando che mi ha supportato, e a volte sopportato, durante il turno. È bello rilassarsi, lasciar scivolare tensione e fatica davanti a cappuccino e cornetto». ■

I mestieri che il coprifuoco non ferma Portieri notturni

Riders

Scaffalisti

Netturbini

Un mestiere che sta scomparendo. Molti hotel da quando c’è il coprifuoco hanno deciso di automatizzare i sistemi di sicurezza «oppure lasciamo un biglietto all’ingresso con il cellulare da chiamare in situazioni di emergenza che però sono pochissime. Alle 10 gli ospiti sono tutti in camera» spiega Federica dello staff di un albergo di Firenze.

La maggior parte dei supermercati chiude alle 20, ma dietro le porte scorrevoli le luci sono spesso accese. È notte, Dennis fa una pausa mentre i suoi colleghi continuano a sistemare la merce sugli scaffali che lentamente si riempiono. Fissa il buio fuori dalla vetrata, per strada non c’è nessuno.

Federico lavora come rider da poco più di un anno. Dall'inizio della pandemia il suo lavoro è aumentato moltissimo. Attraversa la città in bici e riceve le consegne direttamente sullo smartphone. «Di notte non c’è traffico - dice sorridendo - Roma è irriconoscibile. Però d’inverno fa veramente freddo».

Per raccogliere l'immondizia delle città gli operatori ecologici erano abituati a fare lo slalom tra le auto e i motorini. Ora, con il coprifuoco, le vie sono deserte e tra i pochi abitanti notturni delle città ci sono anche quelle persone che si prendono cura della pulizia delle strade come Luca: «adesso si lavora con più rapidità e riesco ad arrivare a casa prima dell'alba».

Farmacisti

«È frustrante lavorare di notte. Da quando c’è il Covid i farmacisti sono gli unici a ricevere i pazienti che non vanno in ospedale per paura. “Hai la febbre? Vai in farmacia a comprare la Tachipirina” consigliano i medici» Così racconta Andrea, titolare della farmacia centrale Osimo.

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I vaccini in notturna nell'hub di Fiumicino All’aeroporto Leonardo da Vinci medici e infermieri al lavoro fino alle 24. Un esperimento riuscito per velocizzare la campagna di immunizzazione SALUTE

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di Chiara Sgreccia e Giuliana Ricozzi


La Notte

Non c’è coda all’hub vaccinale di Fiumicino. Qualcuno conversa davanti all’ingresso, mantenendo la distanza, con la mascherina ffp2 a coprire bocca e naso sul volto illuminato dalle luci al neon verdi, bianche e rosse. Da lontano è un enorme tricolore che ravviva il buio della periferia vicino all’aeroporto Leonardo da Vinci di Roma. Nessuno è in fila per entrare, i familiari di chi è dentro per il vaccino aspettano all’esterno. È notte, sono da poco passate le 22 - l’ora del coprifuoco da novembre 2020 - però il centro di Fiumicino non si spegne. Da fine marzo, dalle 20 alle 24, c’è l’ultimo turno della giornata, quello serale, per somministrare i vaccini a chi di giorno non può o non riesce ad andare. Tutto intorno le strade sono silenziose e vuote, ogni tanto passa un’auto che rallenta e entra nel parcheggio. Una ragazza legge seduta su grossi separatori di plastica, di solito usati per deviare il traffico o interrompere il passaggio lungo la carreggiata quando i lavori sono in corso. Delimitano quella che una volta era l’area di parcheggio di lunga sosta per i viaggiatori diretti all’aeroporto, ora in parte occupata dal centro vaccini. «Qui passa chi deve entrare, qui chi va via» spiegano Francesco Sforza e Giorgio Liberati Petrucci, due medici neolaureati che lavorano per la Croce Rossa nella campagna vaccinale. Le enormi tensostrutture che sembrano i padiglioni di una fiera dell’artigianato o del design coprono 1500 metri quadrati e sono ge-

stite dalla Croce Rossa Italiana. L’hub di Fiumicino ha aperto lo scorso 11 febbraio grazie alla collaborazione tra Regione Lazio, Aeroporti di Roma e Croce Rossa. Il brusio di sottofondo è interrotto da qualche battuta che saltuariamente supera il volume medio. Tra il personale si conoscono bene, abituati a lunghi turni di lavoro. Sono quasi tutti molto giovani: medici, infermieri e volontari che tengono sotto controllo la

situazione. All’entrata avvengono le operazioni di sanificazione e si utilizza il termoscanner per misurare la temperatura, poi c’è l’area amministrativa, sulla scrivania plichi altissimi di moduli da far compilare. Nei primi box, tra le pareti azzurre, i medici fanno l’anamnesi, nei secondi gli infermieri somministrano il vaccino.

“ Sono da poco passate le 22 - l'ora del coprifuoco da novembre 2020- ma il centro di Fiumicino non si spegne. Da fine marzo, dalle 20 alle 24, c'è l'ultimo turno della giornata” L’inoculazione del vaccino, solo AstraZeneca, è veloce. Non provoca alcun dolore, si vede dall’espressione di chi è seduto con il braccio scoperto. Le dosi sono conservate ad una temperatura di 4° dentro frigoriferi grigi. Poco prima della somministrazione una dottoressa prepara le fiale. Alla fine del percorso c’è la sala d’attesa, uno stanzone pieno di sedie perfettamente allineate, dove chi ha appena fatto il vaccino aspetta 15 minuti per verificare che non ci siano effetti collaterali immediati. Subito fuori, oltre l’ultima porta a vetri, c’è il centro di primo soccorso, vuoto ma pronto all’evenienza. Escono tutti sorridenti dall’hub, sono

l’unico del Lazio e tra i pochi in Italia ad offrire questo servizio, «è stato introdotto per chi non può andare di giorno per motivi di lavoro e per aumentare e ottimizzare la capacità funzionale del centro spiega il dottor Sforza - perché altrimenti tutte le dosi che stiamo somministrando stasera sarebbero state rimandate a domani». A Fiumicino ci si vaccina solo su prenotazione, sette giorni su sette, fino alle 24. La struttura include 25 postazioni che permettono di inoculare 3000 dosi al giorno. Una modalità nuova per accelerare la campagna di immunizzazione che funziona. ■ In alto a sinistra L’hub di Fiumicino ha aperto lo scorso 11 febbraio grazie alla collaborazione tra Regione Lazio, Aeroporti di Roma e Croce Rossa In basso a sinistra La struttura è gestista dai volontari della Croce Rossa Italiana In alto a destra L'inoculazione di una dose del vaccino AstraZeneca dura pochi secondi. Ci sono 25 postazioni che permettono di somministrare fino a 3000 dosi al giorno In basso a sinistra Il percoso all'interno della struttura è guidato. Nell'area amministrativa chi deve vaccinarsi compila i moduli Qui in basso Nei primi box, tra le pareti azzurre, i medici fanno l’anamnesi, nei secondi gli infermieri somministrano il vaccino

over sessanta, la fascia di età della popolazione a cui finora spetta la vaccinazione. Qualcuno è venuto di notte perché di giorno lavora, la maggior parte perché «era il primo posto disponibile», come spiega una signora, «ma sono contenta, non ho trovato traffico».«È stata mia moglie a prenotare, meglio di sera che in orario lavorativo» si giustifica un altro. Per andare a fare il vaccino di notte è necessaria l’autocertificazione. Il turno serale al centro vaccinale di Fiumicino, Zeta — 29


All'alba vincerò

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Al casinò o davanti a uno schermo, nel poker un solo obiettivo: arrivare ricchi alle 5 del mattino. Ma per i pro il “Texas Hold’em” non è solo un gioco, è il «lavoro più bello del mondo» GIOCO

di Valerio Lento

Quando cala la notte e la città si spegne, provate a posare gli occhi dove non guardereste mai: dai seminterrati e dai locali privi di insegna filtra una luce fioca, si sentono persone discutere di bluff e rilanci, di tris e di scale. Le fiches ammonticchiate sui tavoli, lanciate e rigirate tra le dita, generano un picchiettio che non si ferma mai: è il suono del poker. Sui server digitali, intanto, si raduna il mondo: i tavoli e le carte sono virtuali, il denaro è intangibile ma reale. Collegati ad un pc fino all’alba molti perdono, pochi incassano, nessuno dorme. Per la maggior parte dei giocatori il poker è il sogno di arricchirsi in una notte, con un po’ di pazienza e tanta fortuna; per altri è «il lavoro più bello del mondo», l’unico dove lo stipendio non si guadagna, ma si vince. Come, il poker un lavoro? Proprio così, ma c’è poker e poker: il “Texas Hold’em”, la variante americana del classico “cinque carte”, si basa su regole tanto semplici da imparare quanto complesse da padroneggiare: in un singolo torneo può vincere chiunque, ma più a lungo si gioca, più la fortuna cede il posto all’abilità. La differenza tra chi punta solo perché pensa di avere buone carte e chi non investe una singola fiche senza prima

«Ho iniziato a capire che non era solo fortuna, perché vincevo sempre io» Andrea Corbu

aver calcolato la percentuale di probabilità di chiudere un colore o di aggiudicarsi il piatto in bluff, è quella che passa tra chi può vincere qualche mano e chi a fine serata si alzerà dal tavolo con molti più soldi di quando si era seduto. Matematica, non fortuna. E se per vincere tanto basta essere bravi, ecco che anche il poker diventa un mestiere con le sue regole, i suoi orari e i suoi professionisti. «Ho capito che non era solo fortuna, perché vincevo sempre io». Andrea Crobu, 26 anni, è un pro dell’Hold’em da quando,

La Notte

appena maggiorenne, vinse 40mila euro arrivando primo in un torneo online: «Quel giorno ce l’ho tatuato sul braccio. Da una notte all’altra sono passato dal vincere pochi spicci nelle partite con gli amici, a ritrovarmi sulle testate regionali (La Nuova Sardegna, ndr) come uno dei più giovani vincitori di torneo. È stato allora che ho deciso di darmi al professionismo». Da lì in poi tutto in discesa? Non proprio: «È una scelta di vita che richiede totale abnegazione: se giochi a poker non puoi fare molto altro. Le mie sessioni online durano 10-12 ore al giorno, dal tardo pomeriggio fino alle 6 di mattina; mi sveglio a pranzo e studio la teoria, analizzo le mani della sera prima. E poi alle 18 si ricomincia». Anche a poker, quindi, serve studiare: «Richiede un aggiornamento continuo, oggi anche di più rispetto a dieci anni fa perché ci gioca molta più gente e il livello medio si è alzato. In compenso lo studio è ora alla portata di tutti, esistono programmi e software che velocizzano l’apprendimento e l’analisi del gioco. Io ho dovuto imparare con la mia testa e, i primi tempi, con l’aiuto di un coach». Lavoro notturno, orari estenuanti, tempo libero ridotto al minimo. Il poker assomiglia tanto a quei mestieri che nessuno vorrebbe fare: «Ti direi che è un lavoro come un altro, se non fosse che è anche più impegnativo. Non mi sono mai diplomato, non potevo andare a letto alle 5 e poi alle 7 andare a scuola. Per anni ho sognato di fare il calciatore, ma il poker ti impegna il fisico e la mente, e se la sera prima hai perso soldi non riesci a concentrarti sul pallone. Ci sono state notti in cui mi sono addormentato piangendo per una brutta mano o per aver mancato una grossa vincita. Tra alti e bassi riesco a guadagnare in media 4-5 mila euro al mese e a vivere notti adrenaliniche». Proprio i soldi, l’idea di farne tanti, subito e magari divertendosi, è la molla che spinge frotte di neofiti ad affacciarsi a questa realtà, in un periodo storico in cui trovare un lavoro stabile e remunerativo appare una chimera. Quando poi si sparge la voce che un italiano ha vinto oltre 14 milioni di dollari in sedici anni di carriera, il richiamo delle carte diventa il canto delle sirene. Parliamo di Dario Sammartino, vice campione del mondo al Main Event delle World Series of Poker 2019, nonché il professionista italiano ad aver incassato di più con quello che definisce “il miglior lavoro del mondo”. «Ma Wikipedia si sbaglia – ironizza con il suo accento napoletano – perché non tiene conto delle perdite. Avrò vinto al massimo una decina di milioni». Anche in

Dario Sammartino vice campione del mondo al Main Event delle World Series of Poker 2019, il professionista italiano ad aver incassato di più

questo caso niente di più difficile: «Per avere successo a poker bisogna farsi il mazzo. Prima di arrivare secondo alle WSOP ho giocato milioni di mani per migliaia di ore, ho sacrificato una storia d’amore, ho lasciato Napoli e la mia famiglia. Ma era quello che volevo: non ho mai giocato per i soldi – quelli, se sei bravo, prima o poi arrivano - ma per passione». Non siamo sicuri di aver capito bene, Dario è ai Caraibi per un

«Il giorno in cui persi mio nonno, mio padre venne da me e mi disse: - Oggi ti insegno il gioco più bello del mondo, dove i più forti vincono sempre - Da allora ho fatto all in sul Texas Hold'em» Dario Sammartino

torneo e la connessione va e viene: «Per dirti: quando persi l’heads-up finale a Las Vegas sapevo di avere comunque vinto sei milioni di dollari, ma ci ho messo giorni a farmi passare l’incazzatura, finché i miei amici non mi hanno dato una svegliata – Dario, hai vinto un sacco di soldi, ma puoi tenere ‘sta faccia imbronciata? – a quel punto sono rinsavito e abbiamo festeggiato. Però a ripensarci aver perso mi brucia ancora, perché avevo giocato bene». «Il poker è entrato nella mia vita come una medicina – prosegue in tono più serio – l’ho conosciuto il giorno in cui persi mio nonno, ero un ragazzo. Mio padre venne da me per tirarmi su il morale, sapeva che ero un patito delle carte, briscola, tresette e roba simile. Mi guardò e mi disse “Oggi ti insegno il gioco più bello del mondo, dove i più forti vincono sempre”. Da quel giorno ho fatto all-in sul Texas Hold’Em togliendomi infinite soddisfazioni e vedendo albe milionarie. Ma se pensate che la fortuna c’entri qualcosa, non avete mai fatto sul serio con il poker. Al massimo ci avrete giocato». ■ Zeta — 31


Photogallery

Roma, i volti nel buio Da quando c’è il coprifuoco sono in pochi a camminare tra le strade della capitale. C’è chi si affretta a tornare a casa per evitare le sanzioni e chi invece di notte lavora ancora PHOTOGALLERY

Il racconto fotografico di Mattia Lucia de Nittis, del collettivo Ammodo Studio, di una notte a Roma

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1. Giordana di rientro dalla seconda casa porta a passeggiare il suo cane Panda 2. Giorgio, proprietario del ristorante Città d'Oriente, sistema gli incassi della giornata mentre lo staff prepara la chiusura del locale, al termine della vendita d'asporto 3. Gian Paolo, si dirige a passo svelto verso casa. La riunione per il volontariato Scout a cui ha partecipato è finita tardi 4. Il supermercato Carrefour di viale XXI Aprile, prima aperto 24/7, da novembre chiude alle 21 5. Stefano, autista Atac, guida il bus il 310 fermo al capolinea deserto di piazza Vescovio 6. Renato, tassista, attende i clienti. Da quanto c'è il coprifuoco sono al massimo 5-6 a notte


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Esteri

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Afghanistan, il prezzo della guerra Il presidente Usa Joe Biden annuncia il ritiro delle truppe dal Paese a vent’anni dall'operazione Enduring Freedom MEDIO ORIENTE

di Chiara Sgreccia

«La pace è peggiore della guerra quando non c’è giustizia». Malalai Joya parla al telefono da Kabul, ha soltanto 30 minuti di autonomia prima che cada la connessione wi-fi. Vive con la scorta, si nasconde da anni, da quando nel 2007 è stata sospesa dal parlamento afghano, dove sedeva come il più giovane membro mai eletto, per aver denunciato la presenza di criminali e signori della guerra tra i deputati. I signori della guerra hanno combattuto i talebani ma sono spesso altrettanto fondamentalisti. Parliamo di grandi proprietari terrieri che controllano con la violenza e il 34 — Zeta

clientelismo intere aree del paese e che, si dice, godono dell’appoggio delle forze statunitensi. Il numero da cui Malalai Joya chiama non è il suo. Parla tutto d’un fiato, come se si aspettasse le nostre domande e non avesse tempo per le formalità. É cresciuta nei campi per rifugiati di Iran e Pakistan, poi ha scelto di tornare in Afghanistan a lottare per i diritti umani e per quelli delle donne, per questo cambia casa in continuazione, troppi la considerano una nemica ed è sopravvissuta a più di un attentato. «La condizione catastrofica delle donne in Afghanistan è stata una delle scuse che gli Stati Uniti hanno utilizzato per giustificare l’occupazione ma la situazione dal 2001 ad oggi non è cambiata molto, al contrario di quanto vogliono far credere i media occidentali – continua Malalai Joya -. Si tratta di una grande bugia. Le donne qui continuano a subire violenze, vengono umiliate in pubblico, picchiate e stuprate senza ottenere giustizia. Poche settimane fa una bambina di 9 anni a Kabul, la capitale, è

stata stuprata mentre stava studiando. Sebbene i genitori l’avessero portata in ospedale in pessime condizioni, nessuno ha fatto nulla per aiutare la famiglia a scoprire il colpevole. Molte donne che coprono posizioni di potere non rappresentano la vera condizione delle afghane ma gli interessi degli Stati Uniti. La ministra dell’Istruzione Rangina Hamidi aveva promosso una legge per cui le ragazze con più di 12 anni non avrebbero potuto cantare durante gli eventi pubblici, se non in quelli a partecipazione totalmente femminile. Questa è discriminazione. La legge non è passata solo grazie all’indignazione che il popolo afghano ha mostrato attraverso i social media. Gli Stati Uniti hanno sostituito il regime barbaro dei talebani con quello dei signori della guerra, anche loro fondamentalisti e con le mani insanguinate». Per Malalai Joya l’annuncio del presidente degli Stati Uniti Joe Biden, che ha proclamato il ritiro delle truppe dall’Afghanistan, è una buona notizia. «Non sarà semplice ma se gli americani se ne andranno via con one-


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stà anche gli altri attori in campo, come Russia e Cina, smetteranno di finanziare le associazioni terroristiche e perderanno interesse nel paese che non sarà più il terreno di gioco delle potenze mondiali. Libertà e democrazia non possono essere portati dagli stranieri, raggiungere questi obiettivi spetta al popolo afghano unito. Vent’anni di conflitto stanno a dimostrarlo. In questo periodo sono morte migliaia di persone, l’economia è diventata mafia, l’ambiente è stato rovinato». È d’accordo il fotogiornalista australiano Travis Beard, che ha vissuto in Afghanistan e ha realizzato il documentario RocKabul, dove racconta la vita quotidiana durante il conflitto attraverso il processo di formazione, ascesa e declino dei District Unknown, band heavy metal: «In vent’anni la società afghana si è trasformata più volte, all’inizio dell’invasione Usa si respirava un’aria positiva, di progresso. Dal 2006 è iniziata l’escalation di violenza, con l’aumentare delle truppe e dei fondi internazionali per supportare il paese, è cresciuta la competizione tra entità governative e non, sono aumentati gli expats e gli attacchi dei terroristi». Quando nel 2011, dopo l’uccisione di Osama Bin Laden, il leader di al-Qaeda considerato responsabile dell’attacco alle Torri Gemelle dell’11 settembre 2001, sembrò che l’obiettivo per 1. Centro medico chirurgico di Emergency per le vittime di guerra, a Lashkar-gah, Afghanistan 2. Il 50% dell'Afghanistan sperimenta ogni giorno active fighting, veri e propri combattimenti 3. Il Buzkashi è uno sport afghano in cui non ci sono squadre, non ci sono distanze definite, non ci sono falli. Ma i giocatori sanno esattamente come fare. Ha regole incomprensibili per gli stranieri. Lo stesso potrebbe dirsi per la società civile, difficile da comprendere per chi osserva da fuori

cui gli Stati Uniti avevano invaso l’Afghanistan fosse stato raggiunto, si cominciò a ipotizzare la riduzione della presenza militare nel paese. Il ritiro è iniziato nel 2015 (ed è terminato con Trump), quando l’operazione Enduring Freedom è stata sostituita da Freedom’s Sentinel, parte della missione Nato Resolute Support che non coinvolgeva più i militari in azioni di combattimento ma nell’addestramento e nell’assistenza alle istituzioni e alle forze di sicurezza afghane. «Con il ridimensionamento delle truppe e l’interruzione dei programmi di sostegno internazionali l’economia afghana è precipitata – dice ancora Beard-. Il tasso di disoccupazione è molto alto, c’è tanta corruzione. Molti hanno lasciato il paese, non c’è sicurezza. Per capire cosa succederà dopo il prossimo 11 settembre, quando gli americani

lasceranno il paese, ci vorrà tempo». Secondo lui potrebbe perfino accadere che i talebani formino un partito e partecipino al governo, giacché sono stati legittimati come soggetto politico a Doha, in Qatar, quando, a febbraio 2020, le delegazioni statunitense e talebana hanno firmato l’accordo che ha dato il via ai negoziati di pace intra-afgani prevedendo il ritiro delle truppe americane entro la fine di aprile di quest’anno e, in cambio, l’impegno dei talebani a rompere con alQaeda. Per Nadia Hashimi, nata a New York da genitori afghani, pediatra e celebre scrittrice con i diritti delle donne nel cuore, quello che succederà dopo l’11 settembre 2021, quando a vent’anni dall’attentato alle Torri Gemelle i militari statunitensi e Nato si ritireranno dall’Afghanistan, dipende dall’ influenza che i talebani avranno nel governo. «Tra il 1996 ed il 2001, quando il paese era per la maggior parte sotto il controllo dei talebani, le donne avevano difficoltà nell’accedere all’istruzione e al sistema sanitario. Non potevano rivestire ruoli di spicco nell’amministrazione pubblica. Potrebbe accadere di nuovo qualcosa di simile e porterebbe all’aumento del tasso di mortalità, all’iniquità di genere, a matrimoni precoci e a famiglie inadeguate a prendersi cura dei figli, povertà e analfabetismo. Ma d’altra parte in questi vent’anni la società afghana è anche progredita, ci sono donne nel parlamento, nei media, nell’arte, nel design, nella moda, atlete, rappresentanti del governo afghano nel mondo. Se si raggiungesse un accordo di pace l’Afghanistan potrebbe crescere molto. Ogni negoziato, però, prevede un prezzo da pagare, la paura è che quello richiesto dai talebani sia troppo alto». ■

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Esteri

Cuba senza Castro la fine di un'era

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L’uscita di scena di Raul apre nuove prospettive sul futuro dell’isola. Si affaccia una nuova generazione che, nel mezzo di una pandemia, dovrà fare i conti con i problemi del passato SCENARI

di Gabriele Bartoloni

L’inizio dell’Ottavo Congresso del Partito comunista comincia con la fine di un’era. Raul Castro Ruz, ex presidente della Repubblica e fratello del líder máximo Fidel, si dimette dalla guida del Pcc. Prende la parola davanti ad una platea dimezzata dal distanziamento. Un seggiolino vuoto separa un delegato dall’altro. «Niente mi obbliga a questa decisione», sottolinea prima dell’ovazione che lo accompagnerà verso l’uscita di scena. Si conclude così la dinastia dei Castro: Fidel e Raul, fratelli al potere dal 1959. Sarà Miguel Diáz-Canel a guidare il partito unico dell’isola caraibica. Nel 2018 fu proprio Raul a consegnargli le chiavi della presidenza della Repubblica. Canel, 61 anni, ora rappresenta la nuova guardia del socialismo cubano.

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Alessandro Zarlatti gestisce una scuola di italiano all’Avana. Negli occhi degli studenti che la frequentano riconosce i tratti di una nuova generazione. La stessa che ha potuto vivere la rivoluzione solo attraverso il racconto dei genitori, «che ha viaggiato di più, che ha saputo mettere in


“ Cuba è un Paese che sta esportando medici, ma a cui, allo stesso tempo, viene impedito di importare respiratori ” prospettiva la propria realtà». Una generazione, insomma, in grado di conciliare le uniformi «verde oliva» degli anziani rivoluzionari con gli abiti informali dei nuovi vertici. Il Congresso, infatti, ha conferito il potere ad una classe dirigente più giovane e - per motivi anagrafici - meno ancorata al mito della rivoluzione castrista. Personalità storiche, come quella del novantenne José Ramón Machado Ventura - ormai ex secondo segretario del Pcc - e del comandante rivoluzionario Ramiro Valdés, hanno deciso di seguire Raul Castro verso l’addio alla vita politica. Vecchio e nuovo, continuità e rinnovamento: rette parallele che tracceranno il percorso dell’isola, con l’obiettivo di ricomporre i cocci di un Paese assediato dalla crisi economica. Ancor prima di diventare segretario, Diáz-Canel era riuscito ad approvare una riforma epocale, aumentando da 127 a oltre 2 mila i settori in cui viene consentito l’esercizio delle attività private. Un’idea di economia in controtendenza con la visione dello Sta-

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to socialista, ma «necessaria» secondo Alessio Carli, imprenditore italiano che vive e lavora a Cuba da più di vent’anni. «Spesso parlo con piccoli imprenditori che vorrebbero fare impresa, ma che allo stesso tempo si ritrovano a fare i conti con una matassa di lacci e lacciuoli; con un sistema che mette ostacoli dappertutto per giustificare la sua esistenza». Con la sua azienda, Carli vende prodotti al governo dell’Avana. È abituato a confrontarsi con un Paese in cui «la politica conta più del business». Per questo sostiene che la liberalizzazione si stia concretizzando «più sulla carta che nei fatti». Ma anche se ci fosse la piena volontà di aprire al privato, ad oggi difficilmente la riforma voluta da Diáz-Canel troverebbe terreno fertile sul quale svilupparsi. La diffusione del Covid-19 ha messo in seria difficoltà un Paese con un’economia poco diversificata, colpendo una delle principali fonti di guadagno per le casse pubbliche: il turismo. Le misure restrittive imposte dalla pandemia hanno azzerato il flusso di visitatori, lasciando senza entrate quella rete di piccole attività fatte di ristoranti e case vacanza. Secondo il ministero degli Esteri italiano, nel 2020 il Pil di Cuba è crollato dell’11,3% rispetto al 2019.

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dell’epidemia. Parla dei settori d’eccellenza, quelli su cui - complice l’emarginazione sul piano internazionale - il governo è stato costretto ad investire per garantire la sopravvivenza dei propri cittadini. È il caso del comparto sanitario: pubblico, efficiente e capillare, grazie al quale l’isola è riuscita a contenere l’epidemia, quella che ora punta a sconfiggere attraverso i suoi cinque candidati vaccini messi a punto nel giro di un anno. Tempi record per un Paese del Terzo Mondo. ■

«Ancora una volta dovrà contare solo su sé stessa per potersi rialzare», è la convinzione di Michele Curto. Con la sua associazione, accompagna le imprese italiane sul mercato cubano. Prima della pandemia passava gran parte dell’anno sull’isola, «circa centoquaranta giorni all’anno, anche due volte al mese». Curto racconta un Paese in continuo cambiamento. Il passaggio di consegne tra Castro e Diáz-Canel è solo l’ultimo in ordine di tempo. «Difficile non accorgersi dell’innovazione che ha vissuto Cuba negli ultimi anni», spiega. «Per quanto sia corsa in avanti, qualcuno ha sempre cercato di tirarla indietro». Il riferimento è all’embargo imposto dagli Stati Uniti come effetto della rivoluzione socialista del 1959. Il bloqueo ha relegato il Paese in una condizione di isolamento, danneggiandone l’economia interna e il commercio con l’estero. Una misura che ha portato l’Assemblea generale dell’Onu a votare più di venti risoluzioni contro la stretta voluta dagli Usa. «Cuba è un Paese che sta esportando medici, ma a cui, allo stesso tempo, viene impedito di importare respiratori». Curto ha avuto anche la possibilità di vedere da vicino il lavoro dei medici cubani. Da volontario ha seguito una delle brigate arrivate dall’Avana per aiutare gli ospedali italiani durante la prima ondata

6 1. Una Cadillac corre lungo Passeo de Martì, storico viale alberato della capitale 2. Plaza de la Revolución, il volto di Che Guevara sul muro del Ministero dell’interno 3. Il Capitolio Nacional, imponente edificio costruito nel 1929 a L'Avana sotto la direzione dell'architetto Eugenio Raynieri Piedra ai tempi di Batista 4. Fidel e Raul Castro durante una riunione della Asamblea Nacional del Poder Popular 5-6. La Habana vieja

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Esteri

Attorno a lui il buio della prigione di Tora, sud del Cairo. Dentro, la consapevolezza di non essere solo. Fuori, la certezza di una piattaforma, di un porto sicuro pronto ad accoglierlo. Patrick Zaky è ancora in carcere. Ma per lo studente egiziano arrestato più di un anno fa con l’accusa di propaganda sovversiva ai danni del regime di al-Sisi, qualcosa si muove. Lo scorso 14 aprile, infatti, con 208 voti a favore e nessun contrario, il Senato ha approvato la mozione che impegnerà l’esecutivo a conferire cittadinanza italiana a Zaky. Fra i 33 astenuti, le senatrici e i senatori di Fratelli d’Italia. Non solo. La mobilitazione si è subito spostata nei comuni, con diversi centri che hanno accolto lo stesso testo: «Pisa non è un caso isolato, c’è una staffetta per Patrick. Prima di noi c’erano state Bologna, poi Milano, Roma e Ferrara. Ora si attende anche Firenze. Ma sono molti altri i centri che si stanno muovendo. Si spera che il governo proceda rapidamente nonostante le prime dichiarazioni infauste di Mario Draghi. Zaky poteva essere un nostro studente e potremmo essere tutti noi. Non riusciamo a capire cosa ancora aspetti l’Italia a ritirare il suo ambasciatore dall’Egitto. Così come per il commercio di armi, delle fregate di recente vendute. Non possiamo chiedere la scarcerazione di Zaky con la mano sinistra mentre con la destra stringiamo accordi», sottolinea Francesco Auletta, consigliere comunale a Pisa e propositore della mozione in assemblea.

Una rete per salvare Patrick Zaky Il ricercatore egiziano, in carcere da più di un anno, ha ricevuto il sì del Parlamento per il passaporto italiano. Ora tocca al governo DIRITTI

di Carlo Ferraioli

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Zaky, 29 anni, nella primavera 2018 era stato il manager della campagna presidenziale di Khaled Ali, oppositore dell’attuale presidente al-Sisi. È tutt’ora collaboratore dell’associazione Eipr (Egyptian initiative for personal rights) e a Bologna è iscritto al master Gemma, un corso in studi di genere dell’università Alma Mater. Elementi che hanno contribuito alle accuse di terrorismo e diffamazione da parte dello stato egiziano. «Ho apprezzato le mozioni. Si è fatta richiesta al governo di utilizzare tutti gli strumenti previsti dalla Convenzione delle Nazioni Unite contro i reati di tortura e punizioni crudeli del 1984. Mi sembra che si voglia creare un solco, attivare un nuovo percorso diplomatico. Tutto ciò per noi dell’università è fondamentale e ne siamo davvero molto grati. Crediamo da sempre nel valore del popolo che si unisce per chiedere libertà, non solo di Patrick, ma per quanti sono in prigione ingiustamente», dice Rita Monticelli, direttrice del master Gemma.


La storia di Zaky non è infatti l’ultima in ordine di tempo che vede il governo di Al-Sisi protagonista di minacce e soprusi. Lo scorso 1 febbraio un altro studente egiziano, Ahmed Samir, è stato arrestato al rientro in patria con nessun tipo di accusa. Ahmed vive a Vienna, è ricercatore presso la Central European University. Cinque giorni dopo l’arresto è stato iscritto nel registro degli indagati per un’inchiesta in cui sarebbe coinvolto su “terrorismo, diffusione di notizie false e utilizzo di un account social per la diffa-

“ È necessario che si cessi questa lunga incoerenza sui diritti umani in Egitto: se otto giorni fa il Parlamento ha battuto un colpo, due giorni prima il governo aveva dato il via libera alla partenza della seconda fregata militare a loro destinata ” mazione dell’Egitto”. Anche Ahmed è nel carcere di Tora. La sua colpa, aver condotto ricerche su Islam e aborto. Durante l’udienza del 23 febbraio scorso ha riferito di essere tenuto in isolamento, in una cella fredda, senza possibilità di accesso né a indumenti né a biancheria da letto. «Anche solo se per un valore simbolico, è un gesto che fa onore al Parlamento

italiano. Quanto all’efficacia, è difficile dirlo. Il percorso è lungo e complicato. È necessario che si cessi questa lunga incoerenza sui diritti umani in Egitto: se otto giorni fa il Parlamento ha battuto un colpo, due giorni prima il governo aveva dato il via libera alla partenza della seconda fregata militare a loro destinata. Non si può parlare nei giorni pari di diritti umani, magari a bassa voce, e nei dispari portare avanti affari. Bisogna unire le forze. Penso all’Austria, con lo studente Ahmed Samir dell’università di Vienna, che a un anno di distanza rappresenta la storia gemella di Patrick», ribadisce Riccardo Noury, portavoce di Amnesty International Italia. ‘Ci sono centinaia come Regeni. È una goccia dentro al mare’, ha di recente detto un ex agente segreto egiziano nell’ambito del processo sul sequestro e l’omicidio del ricercatore italiano, ucciso in una stanza del Ministero degli Interni egiziano nel 2016. Il testimone, denominato Epsilon, è indagato dalla Procura di Roma in nuovi verbali assieme ad altri due, anch’essi egiziani tenuti per protezione sotto anonimato. «È difficile pesare l’impatto che possono avere tali iniziative. Ci sono cultori della realpolitik che sconsigliano azioni che possano indispettire i regimi. C’è chi invece come me pensa che manifestazioni e forme di pressione siano non solo doverose, ma preziose e utili per tenere accesa la luce. Patrick in cella ha notizia di tutto ciò, ma sconta un forte senso di solitudine e di sconcerto. C’è bisogno di responsabilità, che non vuole

“ C’è bisogno di responsabilità, che non vuole dire prudenza, cautela, ma essere capaci di rispondere davvero delle proprie azioni. Dobbiamo sentirlo, in tutto ciò che facciamo per lui ” dire prudenza, cautela, ma essere capaci di rispondere davvero delle proprie azioni. Dobbiamo sentirlo, in tutto ciò che facciamo per lui», indica Filippo Sensi, deputato del Partito Democratico, fra i maggiori propositori della cittadinanza onoraria al ricercatore. «Il mio stato mentale non sta molto bene dall'ultima udienza. Continuo a pensare all'università e all'anno che ho perso. Speravo di trascorrere le feste con la mia famiglia ma non accadrà per la seconda volta a causa della mia detenzione. Ho ancora problemi alla schiena e ho bisogno di un forte antidolorifico e di prodotti che mi aiutino a dormire meglio», scrive Zaky in una lettera dal carcere a dicembre 2020. Il 27 dello stesso mese gli fa visita la sorella: «Non sta bene, è molto angosciato per il suo futuro e per i suoi studi». Infine, lo scorso 24 aprile, riesce a vedere la madre e il padre dopo più di sei mesi dall’ultima volta: «Congratulazioni ai miei compagni che stanno per laurearsi». ■

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Sport

Matteo Mormile, un neolaureato ingegnere in F1

Intervista a un ragazzo che al termine degli studi ha raggiunto il suo sogno. Con fantasia e passione, guardando il mare MOTORI

«Ma quale cervello in fuga, la Formula Uno è l’occasione della vita».

di Valerio Lento e Jacopo Vergari

Ad Anzio, 50 km da Roma, c’è una terrazza che si affaccia sul mare. Nei tardi pomeriggi di fine estate capita che giochi di luce possano trarre in inganno, perché il punto in cui cielo e acqua si incontrano non è mai lo stesso. È lì che Matteo Mormile, 28 anni, sin da bambino andava a rincorrere i suoi pensieri. Domande, riflessioni su un futuro ancora indecifrabile, lontano. Poi eccolo, all’improvviso, a oltre 300 km/h. Come una Freccia d’argento, la monoposto della casa automobilistica Mercedes, regina della Formula Uno. Quella vettura che da bambino sognava di trovare sotto l’albero e, un giorno, di progettare. Laurea triennale in Ingegneria Meccanica all’Università degli Studi di Roma ‘La Sapienza’, il biennio specialistico è in Ingegneria dei Veicoli, sempre nell’ate40 — Zeta

neo capitolino. Poi, nel 2019, la svolta: si trasferisce a Northampton, Inghilterra, 110 km a nord di Londra, per lavorare come ingegnere presso la Mercedes AMG HPP. Contratto a tempo indeterminato col ruolo di analista strutturale e un sogno diventato realtà. A Zeta Matteo ha raccontato la sua storia. Come sei arrivato a lavorare in Mercedes? «Tutto ha avuto inizio in Inghilterra, sul circuito di Silverstone, durante una gara di Formula Student, un Campionato mondiale tra monoposto ideate, prodotte e guidate da studenti universitari. L’evento prevedeva, oltre alla competizione in pista, anche la discussione del progetto di fronte a una commissione incaricata di valutare il talento degli aspiranti inge-

gneri. Feci colpo sui giudici della sezione motori, che il caso ha voluto fossero della Mercedes AMG HPP, e alla fine della prova mi consigliarono di darmi da fare per un posto di lavoro da loro. Da lì è iniziato quel processo di selezione che mi ha portato dove sono oggi». Che ambiente di lavoro hai trovato in Mercedes? «Da sogno. L’azienda è enorme, fornita di tutto ciò che occorre per produrre o testare componenti. Ancora ricordo lo stupore la prima volta che ci ho messo piede». Il tuo lavoro si svolge ai box, oppure lontano dal Gran Premio? «Oggi il mio ruolo è in azienda e ri-


guarda soprattutto il calcolo strutturale nella fase di progettazione. Consiste nel capire, tramite simulazioni al computer, se le componenti della vettura siano resistenti e sicure durante il loro utilizzo in gara. In passato, però, ho anche svolto compiti specifici per il Gran Premio. Siamo tutti pronti a dare supporto per ogni evenienza». Hai avuto opportunità di conoscere i piloti? «Sì, un giorno me li sono ritrovati davanti per una foto di gruppo. Hamilton, Bottas, Toto Wolff e James Allison. Purtroppo non sono riuscito a parlarci, siamo oltre mille dipendenti, immagina quanto tempo servirebbe per conoscere tutti. Ma l’occasione era troppo ghiotta per farsela sfuggire, così mi sono fatto coraggio e ho chiesto una foto a Valtteri (Bottas, ndr)». La Mercedes trionfa nel Campionato mondiale costruttori di Formula Uno da 7 anni. Quale è il segreto di questa supremazia? «Una fame di vittorie insaziabile. Le persone qui sono sempre alla ricerca dell’idea che possa portare un valore aggiunto: anche il più piccolo aggiornamento fa la differenza in termini di punti e prestazioni. Non conosco le altre scuderie, non azzardo paragoni, ma in Mer-

cedes c’è una voglia matta e costante di Guardia”». tramutare intuizioni in vittorie». L’inglese ha rappresentato un Quanto ti ha dato la formazione ostacolo per te? universitaria? «No, almeno per quel che riguarda i «È fondamentale, quella italiana non termini tecnici, altrimenti sarebbe stata ha eguali. Per quello che ho vissuto in pri- dura passare i test di selezione. Mi sono ma persona, dico che si potrebbero inse- sempre trovato a mio agio, ma non posso rire più laboratori per conoscere software definirmi madrelingua; ancora oggi scoindispensabili nel mondo del lavoro, allo- pro parole nuove». ra sarebbe completa a 360 gradi. Non mi ritengo un “cervello in fuga”, non sono Quanto è importante per Roma stato costretto ad andar via. Mi avevano ospitare due tappe del Campionato contattato tre aziende leader dell’auto- mondiale di Formula E? motive e della Motor Valley italiana. Avevo sempre desiderato entrare nel giro, «Credo significhi molto, soprattutto l’idea era farmi le ossa e verso i 40 anni per sponsor, conferenze, attività comcoronare un’onesta carriera con approdo merciali. Sono stato spettatore delle priin Formula Uno. Non potevo immagina- me due edizioni e devo dire che il format re che l’offerta della vita sarebbe arrivata è molto intrigante, con tante attività concosì presto. Da neolaureato, all’Olimpo. centrate in un solo giorno». Chi direbbe di no?». Cosa ti manca di Anzio? Oltre alla tua passione per la Formula Uno, hai altri sport nel cuore? «La possibilità di isolarmi e fare due passi nei luoghi d’infanzia. Sono una «Sono un maniaco dello sport, è l’am- persona socievole, ma ho il mio lato sobiente dove il merito vince sempre. Seguo litario. A casa, quando sentivo di voler in particolare il motomondiale e la palla- staccare dal mondo, camminavo verso il canestro. Quando presi la patente comin- mare con la musica a tutto volume. Era il ciai a seguire in trasferta l’Anzio Basket mio modo per rilassarmi. Un po’ di relax, Club, di cui sono tifoso sin da ragazzino. quanto mi manca». ■ Posso dire di far parte di quel gruppo di supporters storici, definito “Vecchia Zeta — 41


Sport

Lo sport non muore, cambia canale di Michele Antonelli 42 — Zeta

Dalle tv ai cellulari, passando per social network e serie. Gli eventi sportivi hanno resistito ai colpi della pandemia anche grazie allo schermo VIDEO


Luigi gioca a calcio, impazzisce per Cristiano Ronaldo. È nato il primo marzo e nel 2020 ha compiuto 8 anni. Per quel giorno - una domenica - mamma Laura e papà Franco avevano deciso di fargli un regalo speciale: "C’è Juventus-Inter, andiamo allo stadio". Un brivido, l’attesa: "Non ho dormito per una settimana". Di lì a poco però cambia ogni cosa: Luigi allo stadio non va, come nessun altro. Il calcio si guarda a casa, a distanza di sicurezza come tutti gli altri sport. Niente più cori, traversate in autobus e striscioni in spalla: gli eventi ridisegnano la loro teatralità e il pubblico, da sempre parte integrante della festa, diventa spettatore. Stavolta per davvero, impotente al di là della barriera dello schermo. I tasti premuti sul telecomando diventano automatismi, i canali sono sempre gli stessi e la tv, solitaria e a volte alienante, tiene in piedi un mondo pronto a sparire. Fin dall’inizio, quando con il lockdown e in assenza di una programmazione di eventi live, la prima risposta capace di tenere milioni di teste davanti allo schermo arriva da Sky. "Classic", il meglio del calcio amarcord. Un progetto nato per rivivere sfide memorabili in un periodo difficile e riavvicinare la gente a uno spettacolo svanito. Carta vincente? "Orgoglio italiano", uno speciale dedicato alle imprese della Nazionale campione del mondo in Germania nel 2006. Racconti, aneddoti, telecronache complete: storie capaci di dare nuova linfa in attesa della ripartenza - a porte chiuse - dello sport. Perché la passione resta inchiodata ai suoi eroi e al cul-

to dei miti. Non solo all’evento, ma al suo passato e a tutto il contorno. Si spiegano così i numeri in crescita di piattaforme come Amazon Prime (che ha acquisito i diritti della Champions League per il triennio 2021-2024) e DAZN (che per lo stesso periodo si è assicurata tutta la Serie A, con 7 partite su 10 in esclusiva). Lo sport ha resistito alla pandemia e al tempo anche così, con un nuovo punto di vista autoriale e intriso di contemporaneità come quello delle serie tv. Tra gli esempi, il successo di "All or nothing" (produzione Amazon), che in pochi anni ha narrato le storie di dieci squadre dell’elité globale, in una lista pronta ad arricchirsi già al termine della stagione (dopo le franchigie Nfl, gli All Blacks, i top team della Premier League e il Brasile, toccherà alla Juventus mettere per iscritto l’esordio tricolore nel format). Parola d’ordine? Curiosità. In questo senso, leader sul mercato resta Netflix, che - secondo i dati di Ampere Analysis, relativi al quarto trimestre del 2020 - ha chiuso la scorsa annata con 3,78 milioni di clienti. Poi Amazon Prime Video (2,3 milioni), TIM Vision (2,06 milioni) e DAZN (1,6 milioni). E sulla piattaforma di Reed Hastings ha trovato nuova vita la Formula 1 con "Drive to Survive" che - fuori da poco con la terza stagione - ha puntato i riflettori sulla difficile gestione dei Gran Premi in era Covid e sul polemico addio di Sebastian Vettel dalla Ferrari. Spazio poi a basket - con il successo di "The Last Dance", la produzione su Michael Jordan -, football, rugby, cricket, ginnastica artistica e ciclismo.

Nuove angolazioni di storie in apparenza sature. Tutto a portata di mano e sullo schermo, anche di un cellulare. Da Facebook a Instagram passando per Tik Tok, il legame tra tifosi a casa e l’universo sportivo è rinato sui social network, canali abili a rovesciare la prospettiva assottigliando sempre di più il grado di separazione da idoli, squadre del cuore e avversari. Un valore aggiunto al tempo della pandemia, che ha permesso di assistere alla ricreazione dell’evento da dietro le quinte. Senza perdere contatto. Il biglietto per lo stadio, antico rituale di un’epoca consumata dalla velocità, resta intanto sbiadito in un cassetto. Almeno per ora. Questione di abitudini, che cambiano e assecondano la storia. ■

«Leader sul mercato resta Netflix, che secondo i dati di Ampere Analysis relativi al quarto trimestre del 2020 ha chiuso la scorsa annata con 3,78 milioni di clienti. Poi Amazon Prime Video (2,3 milioni), TIM Vision (2,06 milioni) e DAZN (1,6 milioni)»

«Di lì a poco però cambia ogni cosa: Luigi allo stadio non va, come nessun altro. Il calcio si guarda a casa, a distanza di sicurezza come tutti gli altri sport. Niente più cori, traversate in autobus e striscioni in spalla»

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Cultura

La tigre bianca, sguardo oscuro sulla lotta di classe in India Il Il film del regista Ramin Bahrani, candidato alla miglior sceneggiatura agli ultimi Oscar racconta un sistema di caste quasi medievale ancora in vita nell’India contemporanea CINEMA

di Mattia Giusto

«Detestiamo i nostri padroni dietro una facciata d’amore, o li amiamo dietro una facciata di disgusto?» si chiede l’autista-servo Balram, guardandosi allo specchio. È una delle scene di The White Tiger, thriller di Netflix, scritto da Ramin Bahrani e basato sull’omonimo romanzo di Aravind Adiga del 2008, vincitore del Booker Prize, segue l’ascesa di un giovane – di grandi speranze e scarsi mezzi – tra i ranghi del sistema di caste dell’India per raggiungere la propria libertà.

qui?». «Per me questo è come vivere nel Taj Mahal, Sir». «Il Taj Mahal è una tomba, Balram, nessuno ci vivrebbe dentro».

Il film non è condiscendente nei confronti del pubblico, scherza ma non ride, e trova nel rifuggire i messaggi specifici la sua chiave. Come nei romanzi complessi ha la mirabile capacità di far empatizzare con eroi “ambigui”. Non con il classico eroe buono, ma con uno molto più complesso ed estremo, che prende parte a una narrazione in un certo senso La scena de “l’odore dei poveri” che “machiavellica”, che per sua stessa natuavevamo visto in un film come Parasite è ra fa un salto a piè pari oltre le leggi della qui sostituita da una serie di immagini in morale. cui il giovane padrone va a vedere con i suoi occhi le condizioni in cui vivono nei La Tigre Bianca si regge sul simboliseminterrati del suo palazzo domestici smo. Il pollaio e l’animale esotico che da il e autisti, stupendosi di quel sudiciume, titolo all’opera quali metafore contrappodegli insetti e del buio. «Tu davvero vivi ste. Balram, nelle sue parole di narratore,

afferma che la stragrande maggioranza dei poveri dell’India sono come i polli da macello, intrappolati in una gabbia mentre vedono i propri simili fatti a pezzi lì fuori. Sanno di essere i prossimi, ma è come se fossero consci che solo la servitù e la morte li aspettano, e non considerano mai la fuga o il mutamento di questa condizione come una delle opzioni sul piatto. Ma c’è anche la tigre bianca, una animale esotico e raro che Balram vede una volta in uno zoo. «Una bestia nata solo una volta in una generazione» e destinata a liberarsi dal suo recinto, a uscire dalla propria condizione di sofferenza. Durante le scuole elementari, la famiglia del protagonista – dopo la morte del padre per tubercolosi – lo costringe a rinunciare alla sua borsa di studio per una prestigiosa scuola di Delhi, per farlo invece lavorare in un negozio di tè per pochi centesimi. Una prospettiva per loro molto più reale e certa. La sua responsabilità e il suo posto nel mondo sono quelli di guadagnare per l’avida e arcigna vecchia nonna, matriarca incontrastata di quel disordinato nucleo. Anche quando gli viene offerta la possibilità di uscirne, la sua famiglia si rassegna al pollaio. Il mondo del cinema è ancora sconvolto dal capolavoro di Bong Joon-ho, Parasite, e la lotta di classe sembra essere tornato un tema al centro dell’interesse della pubblico. La Tigre Bianca non è differente, dato l’affresco che offre nell’esplorazione psicologica della povertà indiana. Nonostante siano una nazione incredibilmente diversificata di oltre 1,3 miliardi di persone, i film ambientati in

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India, probabilmente anche grazie all’influenza di Bollywood e a pellicole come Slumdog Millionaire, portano ancora con loro tutta una serie di aspettative specifiche. Colori vividi, action tamarre, musica di un certo tipo, e un vago quanto ingenuo alone di ottimismo a speziare il tutto. In White Tiger, il regista Ramin Bahrani, adattando il successo letterario di Aravind Adiga, gioca proprio su quelle aspettative, ribaltandole, per offrire qualcosa di completamente diverso: una prospettiva intima sulla sottomissione e sulla fiducia, assieme a un’accurata critica sociale attraverso una storia oscura e avvincente. Un’esplorazione di classe, casta, cultura e capitalismo che invece non è particolarmente solare, e in cui certo non si balla sui Panjabi MC. Il servitore Balram è l’affidabilità personificata, al punto che arriva spesso a odiarsi per questo. Quando viene incastrato da persone più influenti di lui per un fatto che nemmeno ha commesso, si abbandona come un ingenuo al volere dei suoi capi «senza nemmeno aver considerato per un attimo di avere altre opzioni». La Tigre Bianca dipinge l’affidabilità come la debolezza primigenia: i ricchi del film ottengono il loro potere attraverso la corruzione, attività che svolgono di continuo, trasportando grosse somme di rupie in sontuose borse di cuoio rosso, mentre i poveri credono con religioso puntiglio nel valore del lavoro onesto. Entrambi sono estremi. Persino l’eroina dei poveri, una funzionaria eletta

soprannominata e venerata come “The Great Socialist” estorce regolarmente grosse tangenti a ricchi uomini d’affari per deregolamentare il mercato per loro. Emerge una critica acuta dei politici indiani che reclamizzano il socialismo per ottenere voti dai poveri, salvo poi incrementare il divario di ricchezza a vantaggio personale una volta eletti. La famiglia di Balram si arrocca stoica nella servitù generazionale del chiosco del tè ed evita le opportunità di lavoro meglio retribuite perché continua a confidare nell’affidabilità, anche quando questa gli dà prova del contrario.

mente abbiano abbandonato è una cosa che ancora agli occhi di gente che sta più in alto “non si cancella”.

L’India è un luogo complesso, un luogo che fa della complessità la sua stessa essenza, ma fortunatamente Balram ha confezionato molte analogie per aiutarci a capire mentre ci guida con la sua voce. Dice più e più volte che nonostante le mille caste, l’India ha fondamentalmente due mondi: la luce e l’oscurità. Due classi: padrone e servo; quelli con la pancia gonfia e quelli con la pancia asciutta. Balram, ovviamente, proviene dal mondo oscuro, la classe dei servi, nello speci«Il ritratto del ciclo di povertà siste- fico da una casta nota per la produzione matica è avvincente e inquietante», af- di dolciumi. È un bambino prodigio il cui ferma Abraham George, autore di India preside promette che un giorno otterrà Untouched: The Forgotten Face of Rural “ Come nei romanzi Poverty e fondatore della Shanti Bhavan Foundation, un’organizzazione senza complessi ha la mirabile scopo di lucro che ha educato oltre 400 capacità di far empatizzare bambini svantaggiati negli ultimi 23 anni, circa la metà dei quali provenienti da vilcon eroi “ambigui”. Non laggi rurali. Quello che nella sua interprecon il classico eroe buono, tazione manca alla vicenda di Balram, è che se l’istruzione e il riscatto economico ma con uno molto più sono spesso la chiave per risollevarsi dalla povertà e dagli abusi verbali – come quelli complesso ed estremo, che Balram ha subito per anni in silenzio quasi machiavellico” da parte della famiglia del suo datore di lavoro – non è così semplice. Anche con una buona istruzione, le donne povere una borsa di studio per una prestigiosa in particolare hanno difficoltà a trovare istituzione a Delhi. Ma, sovvertendo posizioni ben retribuite, e anche persone le aspettative fin da subito, questa non che economicamente si siano riscattate deve essere una storia sui fortunati, le uscendo dalla povertà, si trovano ancora eccezioni alla regola, quei ragazzi borsia dover fare i conti con la loro provenien- sti che continuano a prosperare seguenza di casta, che nonostante economica- do le regole. ■ Zeta — 45


Cultura

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Il box office cinese, scendere a patti con il Partito Nell'era di Mao, il cinema era un mezzo di intrattenimento pedagogico. Oggi è sì un'industria guidata dal mercato ma opera sotto il controllo dell'apparato, spronata a realizzare film divertenti che illustrino la linea e le politiche del PCC PROPAGANDA

di Natasha Caragnano

Un gruppo di soldati viene accolto con urla di gioia e canti in un piccolo villaggio della Cina continentale. Alcune donne si avvicinano a loro per infilargli del cibo nelle tasche dell’uniforme, mentre sul muro i contadini scrivono la nuova legge agraria del Partito Centrale Comunista (Pcc). Dachun è tornato a casa con l’esercito rosso per liberare la sua amata Xi’er dagli abusi del proprietario terriero, a cui era stata data in sposa due anni prima. La luce del fuoco illumina il suo volto tra le montagne e rivela ciò che sembra essere un fantasma dai lunghi capelli bianchi piuttosto che la giovane ragazza. La scena del film La ragazza dai capelli bianchi è considerata un’icona della cultura visiva del Pcc ed è uno degli esempi migliori per comprendere il controllo che 46 — Zeta

quest’ultimo ha avuto, e mantiene in parte, sulla produzione cinematografica del Paese. «Durante gli anni di presidenza di Mao Zedong, dal 1954 al 1959, il cinema era considerato uno strumento d’intrattenimento pedagogico nella Repubblica Popolare Cinese. Agli studi cinematografici, di proprietà dello stato, veniva chiesto di produrre film che illustrassero la politica del governo» spiega Chris Berry, professore di studi cinematografici al King’s College di Londra ed esperto di cinema cinese e dell’Asia orientale. Ne La ragazza dai capelli bianchi, ad esempio, il malvagio proprietario terriero viene circondato da una folla di contadini che vogliono punirlo per gli anni d’oppres-

sione: azione intrapresa dal governo di Mao durante la riforma agraria che vide lo sterminio di massa di questa classe e la redistribuzione delle terre ai contadini del villaggio. Solo perseguendo i valori comunisti alla base della Repubblica Popolare Cinese, infatti, la giovane Xi’er torna ad avere i capelli neri e lo sguardo vivo mentre nell’ultima scena del film lavora nei campi con il suo amato Dachun. Dagli anni ’80 in poi l’industria cinematografica in Cina inizia un lento processo di trasformazione che la porterà a seguire la logica del mercato, pur continuando ad operare sotto il rigido controllo dell’apparato Partito-Stato. È in questi anni che nei film e nei documentari iniziano a vedersi le prime critiche al governo. «L’atmosfera di Pechino è deprimente», dice Zhang Dali con lo sguardo vuoto, ripreso in una stanza dal regista Wu Wenguang nel 1990. Dopo la laurea nel 1986 ha deciso di trasferirsi nella capitale per fare il pittore «Ma sono stanco dell’ambiente culturale che c’è qui», continua.

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minuti È la durata del documentario "La lunga notte di Wuhan", del regista Lan Bo, che mostra la quarantena a cui è stata sottoposta la città

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milioni Sono gli abitanti che dal 23 gennaio 2020 fino ad aprile hanno dovuto rispettare le misure di lockdown imposte dalle autorità di Wuhan


“ Noi registi sopravviviamo in uno spazio ristretto. Balliamo con le catene, ma vogliamo ancora ballare. Vogliamo esprimerci ” Li Yang

La scena in Bumming in Beijing: The Last Dreamers, è una delle prime a mostrare la vita reale, le difficoltà di un gruppo d’artisti che vivono nella periferia di Pechino agli inizi degli anni ’90. La produzione dal budget limitato risente del taglio dei finanziamenti statali avvenuto dopo le proteste degli studenti e degli operai contro il governo avvenute in piazza Tian’anman nel 1989, culminate in una violenta repressione. Ma questa generazione di registi riuscì a trovare i fondi necessari, spesso ad Hong Kong o in Giappone, per creare film ispirati al neo-realismo italiano che potessero raccontare cose davanti a cui la maggior parte delle persone chiudeva gli occhi in quel periodo. «Questo genere di documentari, raccolti sotto il nome “The New Chinese Documentary Film Movement”, venivano tollerati dal Partito purché non toccassero questioni delicate», spiega Chris Berry che a questo movimento ha dedicato un saggio uscito nel 2010 per la Hong Kong University Press. Temi che invece affronta il regista Zhang Yimou ad un anno dalla produzione del documentario di Wu con Lanterne Rosse, vincitore agli Oscar come miglior film straniero nel 1992. La storia di Songlian, da studentessa universitaria a concubina dopo la morte del padre, è la denuncia di una società che annulla la volontà e l’identità della donna. Ma la

pellicola dai toni rossi, tipici delle lanterne cinesi, non riuscì a superare i controlli del Partito. «Oggi, invece, il mercato cinematografico cinese funziona come nella maggior parte dei Paesi occidentali: la produzione si basa su un sistema che considera le attrici e gli attori più famosi al momento e i generi più visti. Ma nessun film può esser rilasciato senza aver oltrepassato il muro della censura, determinata dalla politica tanto quanto dalle norme comunitarie», afferma il Professor Berry. Ci sono limiti alle importazioni straniere che incoraggiano i registi cinesi a competere col mercato, ma non permettono loro di essere sopraffatti da Hollywood o da altre industrie straniere. Una strategia che non ha come unico obiettivo la crescita dell’industria cinematografica nazionale, ma che funziona anche come filtro per evitare che temi delicati possano diffondersi nel Paese. È il caso di Nomadland di Chloé Zhao,ad esempio, vincitore come

“ Ma nessun film può esser rilasciato senza aver oltrepassato il muro della censura, determinata dalla politica tanto quanto dalle norme comunitarie ” Chris Berry

miglior film e migliore regia agli Oscar 2021. Una vittoria ignorata nel suo Paese d’origine a causa di un'intervista che la regista ha rilasciato nel 2013, in cui ha raccontato che la sua infanzia in Cina era stata piena di «bugie ovunque». La partecipazione agli Oscar di Zhao e del documentario sulle proteste ad Hong Kong,

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Do not split, del regista norvegese Anders Hammer hanno addirittura portato il governo a censurare la cerimonia degli Oscar per la prima volta in 52 anni. «Questa concorrenza controllata e la crescita economia del Paese hanno portato il box office cinese ad essere il secondo più grande al mondo prima della pandemia. E, probabilmente, è destinato ad arrivare in vetta alla classifica al termine dell’attuale crisi sanitaria», spiega Chris Berry. Negli ultimi anni le trame dei film sono sempre più semplici, riciclate da un immaginario collettivo, come in The mermaid film campione d’incassi in Cina nel 2017 che racconta la storia di una sirena che cerca di salvare la riserva naturale in cui vive da un imprenditore senza di scrupoli, di cui però s’innamora. Commedie e film romantici sono i generi più prodotti, mentre la censura del Presidente Xi Jinping sembra acquisire sempre più forza. «Noi registi sopravviviamo in uno spazio ristretto. Balliamo con le catene, ma vogliamo ancora ballare. Vogliamo esprimerci», ha detto in un’intervista all’emittente televisiva statunitense Abc news Li Yang, uno dei registi più apprezzati del cinema indipendente, che per poter distribuire il suo ultimo film nel 2018, Blind Way, ha deciso di scendere a patti con la censura del Partito. ■

“ Questa concorrenza controllata e la crescita economica del Paese hanno portato il box office cinese ad essere il secondo più grande al mondo prima della pandemia ”

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1. La lunga notte di Wuhan, del regista Lan Bo, in cui una troupe cinematografica bloccata nel capoluogo dello Hubei decide di raccontare la città deserta 2. Nomadland, di Chloé Zhao, Leone d'Oro alla 77ª Mostra internazionale d'arte cinematografica di Venezia 3. Songlian, interpretata dall’attrice Gong Li, in una scena del film Lanterne rosse

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Cultura

Open innovation, una nuova frontiera Il “padre intellettuale” di questo modello analizza i nuovi studi e gli approcci degli ultimi tempi LIBRI

di Elisabetta Amato

L’open innovation è la nuova frontiera per fare impresa in modo intelligente. Unire le conoscenze, non solo interne a un’azienda ma anche utilizzando risorse esterne. Henry Chesbrough, creatore di questo paradigma, lo spiega nel suo libro “Il futuro della open innovation. Creare valore dall’innovazione aperta nell’era della tecnologia esponenziale”. Bisogna puntare sul nuovo paradigma, non tagliando i costi come si è fatto in passato. L’autore analizza la necessità di puntare sul nuovo modello, su tre punti di vista: della generazione, della disseminazione e dell’assimilazione. Chesbrough parte dal paradosso esponenziale, secondo cui le innovazioni tecnologiche si moltiplicano e la produttività cresce a ritmi sempre più lenti. Tutto questo rende necessaria l’adozione dell’open inno48 — Zeta

vation. Tanti gli esempi presenti nel libro, dal caso della NASA, che per prevedere le eruzioni solari decise di rivolgersi al mondo esterno, invece che a un algoritmo, ai villaggi rurali e al caso della Cina. Per l’esempio della NASA, però, l’autore sottolinea come non siano mancate le reazioni da parte di un ingegnere, che si è chiesto “Qual è il mio ruolo in un’impresa di open innovation?”. Il paradigma è usato anche per sfuggire alla povertà, come nel caso dell’India. È l’iniziativa Smart Villages del 2016: l’obiettivo è trasformare il villaggio di Mori in un villaggio intelligente. Qui “le imprese partecipanti cercano di creare nuovi prodotti e servizi destinabili alle famiglie alla base della piramide sociale e di individuare i modelli di business

adatti a servire queste persone”. C’è poi il caso della Cina, che ha applicato il modello dell’open innovation in modo diverso dalle economie occidentali e dell’ex Unione Sovietica. Non manca l’esempio tutto italiano di Enel, dove l’innovazione è stata applicata in modo efficace, unendo le conoscenze tradizionali a quelle più innovative per energie nuove e più verdi. Mano a mano che si va avanti con la lettura del libro si è convinti sempre di più che valga la pena adottare l’open innovation, per ottenere risultati di innovazione più promettenti. Chesbrough si dimostra, dunque, attento al futuro. Affida ai lettori il lavoro di assimilazione, lasciando anche la possibilità di contattarlo per trovare cos’altro serve per mettere in pratica le idee di open innovation e per fargli sapere se il libro è piaciuto.■


di Henry Chesbrough

«È un paradosso esponenziale. La tecnologia sta accelerando mentre la crescita della produttività e dei redditi rallenta o è ferma. C’è qualcosa che non va. È la ragione per cui ho scritto questo libro. Tra poco prenderò in esame alcune possibili spiegazioni di questo paradosso, ma consentitemi di esporvi innanzitutto la mia idea, di modo che sappiate in quale direzione intendo andare: la radice del problema sta nel modo in cui gestiamo e investiamo in innovazione, sia all’interno delle imprese sia nella società più ampia. Non è sufficiente creare nuove tecnologie. Dobbiamo pensare anche a disseminarle ampiamente e ad assimilarle, se vogliamo trarne vantaggi economici. di Andrea Prencipe

«Aristotele, Platone e forse (secondo la testimonianza di quest’ultimo) anche Socrate, tre massimi filosofi greci, concordano nel riconoscere agli uomini un naturale desiderio di sapere e lo collegano alla meraviglia, intesa come il primo passo nel cammino della conoscenza. (…) Questo stimolo conoscitivo, infatti, attiva un processo che è poi la dinamica stessa del progresso: una volta acquisita la spiegazione di un determinato fenomeno, la ricerca delle cause non si arresta ma prosegue, cercando nuove risposte a ulteriori domande. Noi esseri umani siamo alla continua ricerca di risposte. L’esigenza di ottenerle sembra essere connaturata all’esperienza stessa della vita. (…) L’open innovation fa tesoro in maniera sistematica di collaborazioni, idee e risorse esterne rispetto al perimetro societario classicamente inteso, promuovendo l’interazione delle competenze tra settori diversi e offrendo soluzioni multidisciplinari e aggiornate in un’ottica orientata al progresso e alla novità. (…) Henry Chesbrough è a giusto titolo ritenuto il “padre intellettuale” del concetto di open innovation, cui ha dedicato un lavoro ormai quasi ventennale. (…) Il volume Open Innovation Results, che presentiamo qui in traduzione italiana, è forse il lavoro più ambizioso di Chesbrough: partendo dall’entusiasmo (talvolta eccessivo) che circonda l’open innovation in molti contesti, l’autore rivela quali sono gli ambiti in cui vengono conseguiti i risultati migliori e dimostra come le imprese possano ottenere vantaggi concreti dall’adozione di questo paradigma».■

Questa conclusione ha implicazioni tanto per le imprese quanto per la società più ampia all’interno della quale queste operano. Molte aziende considerano l’innovazione un lusso: quando le cose vanno bene la amano e la fanno, ma non appena le prospettive peggiorano è la prima cosa che riducono. O accade che si la sciano distrarre da ogni scintillante novità prodotta dal progresso tecnologico. E troppo spesso il front end del processo di innovazione procede senza connessioni con le unità di business tenute a commercializzare le nuove tecnologie. All’interno della società più ampia accade qualcosa di analogo. Celebriamo le conquiste di imprenditori come Elon Musk, Jeff Bezos o Jack Ma, e però prestiamo troppo poca attenzione alla successiva disseminazione e all’effettivo utilizzo di queste conquiste nella nostra società. Quante sono le imprese che stanno effettivamente traendo vantaggio dall’intelligenza artificiale o dalla scienza dei dati, per citare solo due dei temi attualmente caldi?

innovazioni è per il momento minimo. Per dare realizzazione alle potenzialità delle tecnologie esponenziali dobbiamo spostare la nostra attenzione agli aspetti dell’innovazione veramente importanti (…) E riusciremo a farlo solo se metteremo in discussione il nostro modo di concepire l’innovazione sia all’interno delle aziende sia nella società nel suo complesso. Per quanto l’open innovation sia stata, per alcune delle imprese “migliori”, un grande successo, affinché questa loro esperienza si prolunghi nel tempo e si estenda al resto delle aziende, sono necessari investimenti dello Stato. Solo a questa condizione potremo godere pienamente dei vantaggi del processo di open innovation». ■

«Solo nel 2003, digitando su Google le parole “open innovation” non avreste ottenuto nessun risultato chiaro. Oggi la stessa ricerca vi conduce a centinaia di milioni di risposte»

Al momento della stesura di questo libro, la risposta è: molto poche. Così, alcune singole aziende prosperano grazie all’uso di queste nuove possibilità, ma l’impatto sociale complessivo di queste In alto a sinistra. Il futuro della Open Innovation, Luiss University Press, pag. 238, 25,00 euro In basso Henry Chesbrough, economista e scrittore statunitense. Professore e direttore esecutivo del Garwood Center for Corporate Innovation presso la Haas School of Business presso l'University of California a Berkeley. Nel 2003 teorizza il processo di Open Innovation, diventando il massimo esperto al mondo.

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La Guida di Zeta

I suoni di una notte d'estate a cura di Fadi Musa

L’estate entrante sarà accompagnata dalle note musicali che di solito allietano le lunghe serate estive? Secondo molti cantanti e musicisti la risposta è… Sì I protocolli di sicurezza non consentiranno il "tutto esaurito", consentendo come capienza massima il 50% di quella massima autorizzata, ma gli artisti scalpitano per tornare su un grande palco e sono tanti i concerti pianificati per l’estate 2021. Ecco chi, quando e dove si suonerà

Colapesce e Di Martino Reduci del grande successo riscosso al Festival di Sanremo, porteranno la loro musica leggerissima in un tour che toccherà diverse location: Cattolica (Arena della Regina), 10/07/2021 / Bitonto (Masseria Lama Balice), 16/07/2021 / Roma (Auditorium Parco della Musica), 26/07/2021 / Riola Sardo (Parco dei Suoni), 31/07/2021

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Green Day

Slipknot Dopo cinque anni di silenzio in studio sono tornati con un nuovo album “We Are Not Your Kind”, e nel loro tour di presentazione passeranno anche per l’Italia. Suoneranno al Castello Scaligero di Villafranca il 27 luglio

Il 16 giugno Milano ospiterà nello stadio di San Siro ospiti molto speciali, i Green Day. Il concerto era previsto per l’anno scorso, ma il Covid-19 lo ha fatto slittare a questa estate. Billie Joe Armstrong, Mike Dirnt e Tré Cool riporteranno il punk nel capoluogo lombardo

Venditti & De Gregori Lo Stadio Olimpico di Roma il 17 luglio 2021 si tingerà di un rosso diverso da quello della As Roma, ospitando due grandissimi cantautori italiani: Antonello Venditti e Francesco De Gregori

Una Nessuna Centomila Il Concerto che avrebbe visto sullo stesso palco Fiorella Mannoia, Emma, Alessandra Amoroso, Gianna Nannini, Giorgia, Elisa e Laura Pausini è stato posticipato all’anno prossimo, ma allo Stadio Artemio di Firenze è confermata l'esibizione di Gianna Nannini per il 29 maggio

Lucca Summer Festival A Lucca andrà in scena il Lucca Summer Festival, e sul palco di Piazza Napoleone saliranno grandi nomi della scena musicale nazionale e internazionale: Liam Gallagher (7 luglio), John Legend (10 luglio), Celine Dion (17 luglio), Ben Harper (18 luglio), Paolo Conte (24 luglio) e Brunori Sas (25 luglio) Zeta — 51


La Guida di Zeta

Genderless è il futuro della moda a cura di Livia Paccarié

Cinque tendenze della primavera estate 2021 fashion fluid, non solo un trend ma un fenomeno sociale Che si tratti di Jaden Smith che indossa una gonna ricamata per Louis Vuitton o di Gaurav Gupta che mostra la fluidità di genere all’India Couture Week 2020, la moda gender-fluid è tornata mainstream. La riflessione della moda, iniziata intorno agli anni Cinquanta come correttivo al rigido stereotipo di genere, ha sempre rispecchiato una più ampia conversazione sociale. Negli ultimi anni sempre più marchi si concentrano solo su collezioni unisex, da Gucci a Marc Jacobs. Di seguito cinque tendenze unisex in vista dell’estate

Bermuda larghi Di cotone, di lino, di fresco lana. I bermuda fanno parte dei musthave dell’estate, meglio se di colori tenui. Quest’anno il taglio largo a vita alta, la lunghezza al ginocchio, o appena sopra, il dettaglio plissettato e le tasche all’americana rendono questo capo comodo e versatile senza genere. Da Prada a MSGM fino ai marchi più accessibili

Nike Air Jordan Il primo paio di “Jordan” è stato lanciato da Nike nel 1984, ispirato al campione di basket Micheal Jordan, detto “Air” per le sue straordinarie elevazioni per andare a canestro. Come Jordan ha segnato la storia di questo sport, le sue scarpe quella delle sneakers, diventate leggenda per chi veste street. Un capo hype che non tramonta mai acquistabile per lo più in reselling

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Stampa a bandana Tra sfilate e presentazioni che anticipano la moda dei prossimi mesi, si delineano in parallelo le soluzioni di stile più ricorrenti per le stampe. Oltre che sul tradizionale fazzoletto portato a mo’ di copricapo alla Jimi Hendrix, la stampa a bandana è dappertutto: su bucket hat, puffer jacket, giacche-camicia, t-shirt e bermuda oversize

Occhiali rettangolari Gli occhiali da sole rettangolari sono il trend più glam del momento. Da uomo o da donna, con lenti scure o colorate, riportano un po’ indietro agli anni ’90. Se l’anno scorso la regola era una montatura sottile quasi invisibile, quest’anno la lente può essere accompagnata anche da linee più spesse. Tagli geometrici, forme lunghe e strette, colori sobri o sgargianti, questi occhiali si abbinano ai look più disparati, posh e sporty, per la spiaggia o per un’occasione

Smalti Lo smalto sulle mani è ormai un dettaglio unisex. E tra gli uomini non solo per le star, che lo hanno sempre adorato. Dai veterani Lou Reed e Steven Tyler, ai maledetti Marilyn Manson e Pete Doherty fino ai Tokio Hotel. Oggi Damiano, Achille Lauro e Bass Doms. E non sono più semplici manicure con lo smalto nero di memoria un po’ dark. Rosse, fucsia, blu, tinta unita o con disegni di esperte nail artist, le unghie danno un tocco in più a ogni look, soprattutto l’estate La novità è NooN, la linea di smalti lanciata da Fedez in collaborazione con Lyla Cosmetics. Sei smalti con colori scelti dal rapper che da mesi sfoggia unghie colorate ed estrose. Sono semipermanenti, facili da applicare e in tonalità accese che cambiano e diventano fluorescenti a seconda della luce. Non di meno, hanno un packaging sostenibile, al 100% compostabile

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Parole e immagini di Claudia Chieppa

SERIE

LIBRO

Questo è il piacere

Zero

Mary Gaitskill

Paola Randi, Ivan Silvestrini, Margherita Ferri, Mohamed Hossameldin

Einaudi Supercoralli 96 pagine 15 euro

Netflix Fabula Pictures Red Joint Film

Già dal suo esordio con la raccolta di racconti “Cattiva condotta” (Mondadori), Mary Gaitskill si è guadagnata la reputazione di scrittrice fredda e brutale, complici i temi narrati nei suoi libri - dolore, intimità, sesso e potere - ma anche la sua biografia da “dura”. A 15 anni fugge di casa dopo che i genitori avevano provato ad internarla a causa del suo comportamento ribelle (era il 1969); a 16 vende fiori a San Francisco e si guadagna da vivere facendo la spogliarellista. In “Questo è il piacere”, edito in Italia da Einaudi, Gatskill affronta con un taglio originale il tema del #MeToo. Quin Saunders è un affascinante editore inglese trapiantato a New York che, per “sentirsi vivo”, ha bisogno di flirtare costantemente con le donne che ha intorno, comprese le sue colleghe d’ufficio. La vicenda è narrata dal suo punto di vista e da quello di Margot, un’editrice sua amica diventata tale dopo aver fermamente rifiutato una sua avance, o meglio, una sua molestia. Mentre erano a cena insieme, una sera, lui le aveva senza 54 — Zeta

complimenti allungato una mano sotto la gonna. La donna non particolarmente sconcertata dall’accaduto, prende a raccontare l’avvenimento negli eventi mondani come fosse un qualcosa di divertente e, i due, diventano amici. Quando Quin però è accusato di molestie sul posto di lavoro a causa di un video inviato a una collega giudicato sconveniente, Margot inizia a sentirsi a disagio: da quando conosceva Quin queste “microaggressioni” l’avevano sempre divertita. Perché a ripensarci adesso, non le trova più così divertenti? La donna, tuttavia, tende a difende l’essenziale bontà dell’amico. Introiezione del patriarcato, diranno alcuni. Altri, invece - che vorranno adottare il punto di vista di Gaitskill - leggeranno questo breve racconto come una riappropriazione delle tante sfumature che separano le categorie ‘vittima/carnefice’ e ‘buoni/cattivi’. I buoni libri servono anche a questo: a porre interrogativi per conoscere meglio noi stessi e la realtà che ci circonda.

Quello che viene in mente guardando la nuova serie Netflix scritta da Antonio Dikele Distefano insieme a Menotti (ovvero Roberto Marchionni, sceneggiatore di “Lo chiamavano Jeeg Robot”) è che il mélange di generi diversi - crime, supernatural e racconto di formazione - non sempre porta a risultati impeccabili. Liberamente ispirata al romanzo “Non ho mai avuto la mia età” (Mondadori), dello stesso Distefano, la serie ruota attorno a Omar (Giuseppe Dave Seke), nato e cresciuto a Milano, in un quartiere che nella storia viene chiamato il “Barrio”. Omar si sente un emarginato e quindi “invisibile”. Invisibile non tanto per il contesto sociale in cui vive: in un quartiere pieno di criminalità e costretto a fare il rider per mettere da parte i soldi per trasferirsi all’estero, quanto per la sua condizione psicologica: non ha amici, non ha legami nel quartiere - dove non l’hanno mai visto - e dopo la scomparsa della madre non ha un buon rapporto

con il padre. Quando Omar scopre di avere il potere di diventare invisibile, l’escamotage narrativo di Distefano diventa esplicito: grazie al suo super potere, nato come metafora della condizione esistenziale del protagonista, Omar riesce a farsi degli amici e a costruire quel senso di appartenenza e di realizzazione che aveva pensato fino a quel momento di poter ottenere solo facendo il fumettista all’estero. Come nel più classico dei racconti di formazione, il protagonista scopre tuttavia che sono i legami sociali a dar significato all’esistenza (“La felicità è reale solo se condivisa”, recita un’inflazionatissima citazione). I momenti meglio riusciti sono quelli verosimili e realistici, mentre la componente soprannaturale sembra un di più, a tratti fastidioso, e risolto in maniera non sempre originale, come la scelta di esplicitare la connessione tra il mondo interiore del protagonista e il super potere dell’invisibilità.


Faculty: Roberto Saviano, Francesca Mannocchi, Bill Emmott, Jeremy Caplan, Sree Sreenivasan, Moises Naim, Jason Horowitz, Gianni Riotta

Reporter Nuovo — 55


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