Nascita
La crisi demografica in Italia
Italian Digital Media Observatory
Partner: Luiss Data Lab, RAI, TIM, Gruppo GEDI, La Repubblica, Università di Roma Tor Vergata, T6 Ecosystems, ZetaLuiss, NewsGuard, Pagella Politica, Harvard Kennedy School, Ministero degli Esteri, Alliance of Democracies Foundation, Corriere della Sera, Reporters Sans Frontières, MediaFutures, European Digital Media Observatory, The European House Ambrosetti, Catchy
La parola
Nascita
La piramide ribaltata di Filippo Cappelli
Da Nord a Sud l’Italia invecchia di Alessandro Villari
I dati sulla natalità in Europa di Gennaro Tortorelli
Il mondo oltre il 2100 di Simone Salvo
L’Alabama gela la speranza di tante donne di Federica Carlino
L’utero in affitto, scontro tra diritto e reato di Alessandro Imperiali
Inverno demografico di Nicole Saitta
I veleni dello smog nelle città fantasma di Lorenzo Pace
Gli orfani dell’inquinamento di Massimo De Laurentiis
“La missione delle donne è vivere” di Matilda Ferraris
La dieta mediterranea aiuta le nascite di Elisa Vannozzi
Sempre più figli in età tardiva di Valeria Costa
Un corsetto asfissia la Corea di Laura Pace
Photogallery
L’AI racconta la strage di Mosca a cura di Matilde Nardi
Reportage
La Xylella si può curare di Gabriele Ragnini
Anniversario
«Ilaria è una memoria da coltivare» di Silvia Della Penna
Esteri
La corsa delle destre in Europa di Luca Graziani
Viaggio a Strasburgo
di Michelangelo Gennaro
Lo sviluppo demografico dell’India di Matilde Nardi
Società
Dottor Guru e la morte di Roberta di Asia Buconi
Al neonato ci pensa la mamma di Pietro Angelo Gangi
Un abbraccio contro il tumore di Michelangelo Gennaro
Il mondo della prostituzione in Europa di Nicoletta Sagliocco
Economia
Le criptovalute, l’arma nascosta di Chiara Boletti
La pandemia del debito globale di Alessio Matta
Cultura
Puccini cento anni dopo di Lavinia Monaco
La biblioteca del mare di Giulia Rugolo
Spettacoli
“Un altro Ferragosto” di Paolo Virzì di Francesco Esposito
Sport
Il volto femminile del rugby di Isabella Di Natale
Fratello pitbull, moto Ducati di Caterina Teodorani
Parole
Numero 18
2024
English version
Nascita
Il presidente degli Stati
Uniti Franklin Delano Roosevelt (1933-1945) disse: «Una nazione non può prosperare a lungo senza genitori e figli. Non ci sarà mai abbastanza lavoro, non ci saranno mai abbastanza beni materiali se non ci sono abbastanza bambini nati per consumarli o produrli». Una frase che riflette a pieno la realtà presente e futura in Italia.
Nel nostro Paese, la denatalità continua a destare preoccupazione. Nel 2023, i dati Istat mostrano un calo di circa 3.500 nascite tra gennaio e giugno rispetto allo stesso periodo del 2022. Lo spopolamento però è più di un semplice numero. È una lente attraverso cui è possibile esplorare una serie di questioni cruciali che plasmano il nostro destino comune.
Dalla fertilità alla salute riproduttiva, ci sono tematiche che gettano ombre di incertezza sul futuro della società. La natalità nel nostro Paese è una di queste. Pur accogliendo numerosi immigrati non svanisce la prospettiva di una diminuzione della popolazione italiana. Questo si lega soprattutto alla figura della donna, che è madre e allo stesso tempo padrona della libertà di non esserlo.
La gestazione per altri, la procreazione assistita e la sfera sessuale femminile sono argomenti ancora divisivi, per i quali non sempre si è liberi di autodeterminarsi e decidere del proprio corpo.
Le dinamiche demografiche, le migrazioni, i sei milioni di connazionali residenti all’estero e l’impatto del cambiamento climatico sollevano sfide di portata internazionale, richiedendo una stretta collaborazione tra l’Europa e istituzioni come l’ONU.
Immaginare l’Italia nel 2100, comporta il confronto con l’impatto potenziale dell’innovazione tecnologica e delle criptovalute sul nostro stile di vita e sul mondo del lavoro, suscitando ulteriori interrogativi su come preservare e promuovere il futuro della nostra società. In questo numero del periodico Zeta, la natalità è il punto di partenza con statistiche, approfondimenti, interviste e reportage.
A cura di
Filippo Cappelli
Matilda Ferraris
Condirettori
Giorgio Casadio
Alberto Flores d’Arcais
Simone Salvo
Elisa Vannozzi
Alessandro Villari
Redazione
Viale Pola, 12 – 00198 Roma
Stampa
Centro riproduzione dell’Università
Contatti
0685225358
giornalismo@luiss.it
Una piramide ribaltata la crisi demografica in Italia
NUMERI
Dal 2008 perse
183.000 nascite. Per evitare di cadere nella trappola della bassa fecondità servono politiche sistemiche
Per la prima volta dall’Unità d’Italia, nel 2022 le nascite nel nostro Paese sono scese sotto quota quattrocentomila. Secondo l’ultimo report dell’Istituto nazionale di Statistica (Istat), sono state poco più di 393.000, settemila in meno del 2021 e inferiori di ben 183.000 unità rispetto al 2008, quando si registrò il valore più alto degli anni Duemila (576.659). Le stime per i primi sei mesi del 2023 evidenziano un ulteriore calo di 3.500 neonati. Il tasso di fecondità totale (TFT), l’indice che misura il numero medio di figli per donna, due anni fa era pari a 1,24, il terzo più basso d’Europa, e sarebbe ora di 1,22.
di Filippo CappelliÈ un decremento dovuto in maggioranza alla scarsa disponibilità di donne in età riproduttiva: le trentenni di oggi sono nate a metà degli anni Novanta, al culmine del cosiddetto “baby-bust”, la quarantennale fase di riduzione del tasso di fecondità, arrivato nel 1995 al minimo storico di 1,19. Il successivo recupero fra il 2002 e il 2008, che i demografi chiamano «ripresina», fu dovuto in gran parte al contributo delle straniere. Negli ultimi anni anche questo è venuto meno, come chiarisce Maria Rita Testa, professoressa di demografia
all’università Luiss Guido Carli di Roma: «Dal 2019 la fecondità delle italiane è rimasta invariata a 1,18 figli per donna, mentre quella delle immigrate era vicina a 2 ed è scesa a 1,87». Chi arriva in Italia, anche da Paesi ad altissima natalità, si adegua al contesto socio-economico, perché incontra le stesse difficoltà delle autoctone, nel conciliare cura dei figli e carriera lavorativa. L’inversione di tendenza negli anni Dieci è ben evidenziata dal grafico qui sopra, che correla il tasso di fecondità totale delle residenti con il tasso di natalità, ovvero il rapporto tra il numero dei nati in un anno e la media della popolazione, moltiplicato per mille. Il picco del 2008 è seguito da una continua diminuzione di entrambi gli indicatori, con la curva che si abbassa fino ai valori preoccupanti degli ultimi anni.
Dietro al calo dei nati in Italia si nasconde anche la diffusione dei valori post-moderni, avviatasi in Europa negli anni Ottanta, che ha determinato un continuo e graduale posticipo della maternità. Tale ritardo è stato in parte compensato dall’aumento della fecondità fuori dal matrimonio nei Paesi nordici, mentre in Italia è cresciuta solo
negli ultimi due decenni: nel 1995 i nati da coppie non sposate erano l’8%, oggi sono il 41,5%, eppure la natalità continua a calare. «Una spiegazione risiede nelle differenze di genere, ancora molto marcate», dice Testa. Oltre all’ampio divario nei tassi di occupazione – quello femminile è pari al 55%, quattordici punti percentuali sotto la media dell’Unione europea, quello maschile al 75% – persiste una differenza nella distribuzione dei compiti all’interno della coppia: la donna è ancora la principale responsabile dei lavori domestici e della cura della prole. Il cambiamento valoriale sta avvenendo, inoltre, in una congiuntura sfavorevole. Alla stagnazione economica si aggiungono l’incertezza provocata dalle guerre e la “climate anxiety”, l’ansia per i cambiamenti climatici, che colpisce in particolare le nuove generazioni.
La demografia è caratterizzata da una forte inerzia, da un anno all’altro sembra cambiare poco, ma nel lungo periodo gli effetti sono devastanti: in sessant’anni, l’Italia ha perso il 60% dei nati. Fra le cause, anche la posticipazione dell’età media al parto. Il grafico dell’Istat in fondo alla pagina, con i tassi di fecondità specifici per età delle donne nel 1995, nel 2010 e nel 2022, parla chiaro: diciannove anni fa il valore era poco inferiore ai trent’anni, mentre nell’ultima rilevazione è pari a 32,4, più alto per le italiane (32,9) che per le straniere (29,6). Il dato preoccupante non è tanto il calo della popolazione, scesa nel 2023 per la prima
volta sotto la soglia dei sessanta milioni, ma il forte invecchiamento che ne deriva. Ogni 100 giovani, si contano oggi 184 anziani. Gustavo De Santis, docente di demografia all’Università di Scienze Politiche “Cesare Alfieri” di Firenze, afferma: «La piramide per età è da tempo ribaltata: la base, costituita dalle nuove generazioni, è molto stretta, mentre il vertice, formato dalle coorti degli over-sessantacinquenni, si allargherà sempre di più». La tendenza al ribasso delle nascite ha ricadute preoccupanti sull’economia e sul sistema previdenziale. I possibili rimedi non piacciono all’opinione pubblica. «Lavorare più a lungo, abbassare le pensioni o aprire le porte all’immigrazione sono soluzioni sgradite», continua De Santis. Le straniere inoltre non basterebbero a risollevare la situazione, per due motivi. Il primo è che sono selezionate, cioè fanno in media meno figli delle connazionali che restano nel Paese d’origine. Il secondo è che spesso l’Italia è per loro solo una tappa di passaggio: «Arrivano da noi per trovare un lavoro, ma dopo aver messo da parte un po’ di soldi, tornano a casa», spiega il professore.
Per le italiane è inoltre sempre più marcata la distanza fra intenzioni e realizzazioni riproduttive: si desiderano due figli, ma sempre più spesso se ne mette al mondo solo uno. È il “fertility gap”, che se confermato nel tempo potrebbe tradursi nella trappola della bassa fecondità, teorizzata dalla professoressa
Testa: «Se le nascite restassero a lungo sotto il livello di rimpiazzo di due nati per donna – spiega – le coppie adotterebbero come modello di riferimento la one-child family. Il cambiamento delle ambizioni delle giovani generazioni spingerebbe ancora più in basso la curva della fecondità, innescando una spirale viziosa irreversibile».
Di fronte a questa crisi, è essenziale pensare a politiche capaci di invertire il trend. «Servono pacchetti di policies continuative, flessibili e differenziate, come quelle adottate dai Paesi del Nord Europa», afferma la demografa. Affinché producano effetti tangibili, devono durare almeno trent’anni e rivolgersi non solo alle donne, ma anche alle giovani coppie. La Germania ha puntato sulla riconciliazione lavoro-famiglia: i congedi di maternità e di paternità combinati con un più agevole accesso agli asili. I Paesi scandinavi hanno perseguito l’uguaglianza di genere, dalla Francia possiamo imitare la varietà del sostegno. «Lo definirei un approccio sistemico, che esca dai confini della politica familiare –conclude Testa – Occorre una soluzione non solo demografica alla crisi delle nascite». ■
1. Curva di correlazione fra tasso di natalità e tasso di fecondità delle donne in Italia, 2002-2022. Nostra elaborazione su dati Istat
2. La posticipazione del parto nei tassi di fecondità specici per età delle donne in Italia. Nostra elaborazione su dati Istat
La busta paga non è una culla da Nord a Sud l'Italia invecchia
La condizione economica delle famiglie è peggiorata, il Tasso di fecondità è diminuito e il Mezzogiorno arranca Regioni
di Alessandro VillariSono quindici anni che in Italia si assiste in contemporanea a un costante calo delle nascite e a un aumento progressivo del reddito medio annuale delle famiglie, siano esse composte da lavoratori dipendenti o autonomi. La crescita della busta paga però non è stata reale perché bisogna tener conto dell’inflazione che non produce ricchezza per le famiglie.
Dal 2008 al 2022, i bambini venuti al mondo sono diminuiti con una variazione percentuale del 2.3% medio annuo: si è passati dai 576.659 nati vivi ai 393.333,
secondo i dati registrati dall’Istituto nazionale di statistica (Istat).
Il reddito è, invece, in teoria, aumentato del 22% per i salariati, dal 2003 al 2021, e del 29% per quanto riguarda quello degli autonomi: nel primo caso i redditi medi in Italia erano di 30.597€ e 35.196€ rispettivamente per i dipendenti e per gli autonomi, mentre dopo meno di diciotto anni si è passati a 37.414€ e 45.392€.
Il dato reale è un altro: l’inflazione non ha fatto aumentare i redditi, ma li ha fatti scendere: -8% il lavoro dipendente e -3% quello autonomo.
Un altro elemento da prendere in considerazione è il Tasso di fecondità totale (TFT), che indica il numero medio di figli per donna. Se il valore è prossimo al 2 vorrà dire che la progenie permetterà alla popolazione di mantenere la struttura demografica, se sarà inferiore si potrà osservare una tendenza a rimandare la genitorialità. Nell’arco di tempo che va dal 2008 al 2021, il TFT italiano è sceso da 1.44 a 1.25.
In valore assoluti, significa che il numero di bambini concepiti è inferiore di 183.326 unità, ma, trasformando il numero assoluto nella percentuale, si comprende meglio il problema della natalità: -31.8%. Il dato, però, è misurato su scala nazionale e non tiene conto della diversità geografica.
Dividendo la penisola in cinque macroaree- Nord-ovest, Nord-est, Centro, Sud e Isole- è possibile osservare come alla fine del XX secolo, i nati vivi nella parte Nord-ovest del Paese fossero 129.025 (con un TFT nel 2012 di 1.48 e nel 2021 di 1.26), mentre i nati vivi nel Nordest erano 93.271 (con il tasso di fecondità sceso da 1.49 a 1.31). Ventitré anni dopo, si contano 102.717 parti a occidente e 77.569 nel Nord-est con una variazione percentuale negativa, rispettivamente, del 20% e del 17%. In numeri assoluti è come se fosse scomparsa la città sarda di Alghero perché ci sono stati 42.010 parti in meno nell’intero Nord del paese. La città di Milano è un caso significativo
perché è nato il 32% (10.729) di bambini in meno: da 33.403 a 22.674 negli ultimi venticinque anni.
La diminuzione delle nascite dipende da vari fattori: dalla variazione della popolazione, dal numero di donne in età fertile, ma anche dalle condizioni economiche. Nel Nord Italia, infatti, si è assistito a una decrescita del reddito del 4% nella parte occidentale per il lavoro dipendente e ad un -0.4% per quanto riguarda il lavoro autonomo. Si è passati da 32.501€ e 39.901€ a 31.079€ e 39.741€; mentre nelle regioni orientali il decremento è stato ancora più consistente per i lavoratori dipendenti (-8%) anche rispetto a quello dei lavoratori autonomi (-3%). La decrescita maggiore si può osservare nel Veneto: il reddito annuo delle famiglie con lavoro alle dipendenze si è ridotto dell’11%, mentre quello dei lavoratori autonomi è arrivato a essere più basso dell’8%. In valori assoluti, c’è stata una variazione, rispettivamente, di -3.626€ e di -2.902€.
Nel Centro Italia, la situazione è similare: si è registrato complessivamente un calo delle nascite pari al 26%: il TFT da 1.41 è divenuto 1.19. Questo significa che i nati vivi sono diminuiti di 25.167 unità dai 96.553 del 1999 ai 71.386 del 2022. In particolare, la regione Lazio e la città di Roma hanno sentito maggiormente il crollo della natalità, perdendo rispettivamente 14.596 e 11.314, vale a dire il 29% e il 30% del totale.
Un caso simile si registra nelle Mar-
che e nel capoluogo Ancona: regione e città hanno visto calare i concepimenti del 28%. Analoghi sono i dati del reddito medio delle famiglie del Centro: il profitto da lavoro salariato è diminuito del 15% (-4.861€) rispetto ai 32.498€ del 2003, mentre quello autonomo è diminuito del 12% (-4.265€) sui 35.907€ dell’inizio dell’intervallo di tempo.
C’è una regione, il Lazio, che è sotto la media della macroarea per quanto riguarda il lavoro stipendiato: -16% (-5.228€) rispetto a diciotto anni prima passando dai 32.676€ ai 27.449€, mentre la Toscana presenta la variazione nella busta paga annua di un lavoratore con partita Iva una percentuale maggiore, in confronto alle altre regioni del Centro, con un decremento del 16% (-6.433€): da 40.802 € a 34.370€.
I dati riguardanti la natalità nel Mezzogiorno sono i più allarmanti: comprendendo Sud e Isole si è avuto, in media, un crollo del 35% pari a -76.732 parti nell’arco di ventitré anni: da 218.393 a 141.661. La stessa percentuale si riscontra nel Sud perché si è passati dai 149.914 parti a meno di centomila (97.148), significa che, nel meridione, ci sono 52.766 neonati in meno: il TFT era 1.34 nel 2012, invece dopo nove anni è diventato 1.23. Nelle Isole, la situazione è similare (il tasso di fecondità è sceso da 1.35 a 1.27). I casi di Bari e di Cagliari sono emblematici: le città capoluogo di regione hanno subito una contrazione di natalità, rispettivamente, del 50% (-8.538) e del 66% (-3.999), passando dai 17.104 e 6.050
bambini nel 1999 a 8.566 e 2.051 nel 2022.
Tutto questo è confermato da un decremento generale del reddito medio annuo pari a -8% (-2.014€) per il lavoro dipendente e a -9% (-2.393€) per quello autonomo passando da una retribuzione di 25.899€ e 27.330€ dell’inizio del nuovo millennio a 23.876€ e 24.938€ nel 2021.
Molise (-39% di nati), Puglia e Napoli (-38%), Basilicata (-43%), Potenza (-44%) indicano che il territorio meridionale, se tali continueranno a essere i dati, subirà uno spopolamento dovuto alla diminuzione di nascite, a cui si aggiungerà il continuo spopolamento dovuto alla migrazione interna verso il Nord del paese, con conseguenze che avranno ripercussioni a livello economico-sociale su tutto il Sud.
È sempre più evidente che le famiglie fanno meno figli perché non c’è respiro: una piccola oscillazione del reddito provoca una contrazione delle nascite più forte. La diminuzione della natalità colpisce di più il Sud: l’atavica questione meridionale non solo è ancora lontana dalla soluzione, ma è destinata ad aggravarsi. ■
Quando le cicogne tornarono a volare sul nostro cielo
DATI
Negli ultimi trent’anni, molti Paesi sono riusciti ad arrestare la denatalità grazie a una maggiore uguaglianza di genere, welfare e sostegno all’occupazione femminile
di Gennaro TortorelliGli italiani fanno pochi figli, l’età media alla nascita del primogenito è sempre più alta e l’inverno demografico è uno dei temi più affrontati dalla politica. Il paragone con gli altri Stati europei rende ancora più evidente l’anomalia, ma fornisce anche spunti interessanti su quali siano le ricette più efficaci per contrastare la crisi delle nascite.
Il principale indicatore statistico per confrontare la natalità di popolazioni diverse è il tasso di fecondità, che misura il numero medio di figli per donna. Quando per la prima volta sono stati osservati, all’inizio degli anni Novanta, i tassi inferiori a 1,3 figli per donna hanno spinto i demografi a utilizzare una nuova categoria per indicare questo trend: bassissima
fecondità (lowest-low fertility). Da quel momento, la maggior parte dei Paesi europei è riuscita a recuperare e si attesta oggi su medie superiori a quella soglia. L’Italia fa eccezione.
Il drastico calo dei nuovi nati a partire dagli anni Settanta ha coinvolto tutta l’Europa ed è associato all’entrata mas-
siccia delle donne nel mercato del lavoro. È la fine del modello del male breadwinner, in cui il capofamiglia, maschio, si occupava di fornire sostentamento economico e alla donna era assegnato il lavoro domestico. La fine della specializzazione dei ruoli non ha avuto la stessa transizione ovunque.
Il retaggio patriarcale e il perpetrarsi di norme sociali tradizionaliste hanno spesso costretto le donne a sostenere un doppio incarico: al lavoro di cura in casa si è aggiunto l’impiego salariato. Oggi più alti tassi di fecondità sono riscontrabili in Paesi egualitari e sono associati a un maggior grado di benessere e alla presenza di un welfare state che permette la riconciliazione di vita familiare e lavorativa.
I dati suggeriscono che per avere famiglie più numerose è necessario discostarsi dal modello tradizionale. Una divisione paritaria del lavoro domestico e politiche di sostegno all’occupazione femminile giocano un ruolo cruciale.
L’immaginario della donna in carriera che antepone il lavoro alla famiglia è uno stereotipo non supportato dai numeri. In assenza di strutture pubbliche adeguate, sono sempre di più le famiglie di reddito medio-alto a potersi permettere di fare outsourcing, delegando a terzi le mansioni domestiche.
Se non avere figli resta per le donne italiane uno stigma sociale difficile da tollerare, averli è diventato un privilegio di classe. A farne le spese sono mobilità sociale, solidità del sistema previdenziale e, soprattutto, equità intergenerazionale. Un Paese che invecchia lascia sempre meno margine ai giovani per
decidere il loro futuro. Demografia e democrazia possono collidere e con un peso elettorale risicato sarà difficile dare rilevanza a questioni generazionali come la crisi climatica.
Le migrazioni sono spesso individuate come possibile cura all’invecchiamento della società, tuttavia, l’impatto sulla natalità è sempre più contenuto. Il numero medio di figli delle donne straniere in Italia è passato da 2,79 nel 2007 a 1,87 nel 2021. Con quasi un figlio in meno in soli quattordici anni, le famiglie straniere si sono adeguate in fretta alle abitudini riproduttive di quelle italiane.
Nessun effetto è scontato e anche i Paesi scandinavi negli ultimi anni hanno registrato un calo nella fecondità, ma la buona notizia è che le culle vuote non sono un destino ineluttabile. Le espe-
rienze di Francia, Germania e Nord Europa suggeriscono che invertire la rotta è possibile. Servono un nuovo modo di guardare ai ruoli sociali all’interno delle famiglie e politiche pubbliche mirate.
Osservando l’iniziale crisi della natalità e la successiva ripresa nei Paesi con minori disuguaglianze tra donne e uomini, alcuni demografi hanno parlato di twopart gender revolution, una rivoluzione di genere in due momenti. Neanche questa sarà un pranzo di gala e a sparecchiare, stavolta, ci dovranno pensare i papà. ■
1. Mappa europea dei tassi di fecondità (fonte: UN DESA)
2. Correlazione tra tasso di fecondità totale e occupazione femminile nei paesi dell'Europa occidentale (fonte: Eurostat)
3. Tassi di fecondità dal 1970 a oggi (fonte: World Bank)
Il mondo oltre il 2100
Sempre meno, sempre più vecchi
Smontato il mito della sovrappopolazione fuori controllo. La sfida di fine secolo sarà il calo delle nascite, in Europa come in Africa
Le immagini di famiglie africane numerose come squadre di calcio appartengono al passato. Il Paese in cui si fanno più figli resta il Niger, dove ogni donna in periodo fertile porta a termine una media di sei gravidanze. Anche qui, però, il tasso di natalità è diminuito di quasi due unità rispetto ai livelli di fine Novecento. Uno studio del The Lancet prevede un crollo del total fertility rate (TFR) nel 97% dei Paesi: nel 2100 solo sei nazioni avranno un saldo naturale positivo. Infondata, dunque, la paura di una crescita senza limiti: la popolazione mondiale raggiungerà un picco nella seconda metà del 21esimo secolo, per poi contrarsi in modo inesorabile.
bai e Delhi due formicai con oltre 50 milioni di cittadini. Altre megalopoli cresceranno come funghi e capitali africane oggi poco conosciute si piazzeranno ai primi posti in classifica, stravolgendo i riferimenti attuali: New York o Londra scivoleranno in 22ª e 86ª posizione, soppiantate dai nuovi giganti. È lo scenario predetto dagli studiosi americani Daniel Hoornweg e Kevin Pope, sulla base dei trend demografici in corso. Una rivoluzione degli equilibri mondali, in cui le nostre latitudini non giocheranno alcun ruolo.
di Simone SalvoGli effetti del declino non saranno visibili ovunque allo stesso tempo. Il Sud del mondo ha ancora davanti decenni di boom demografico prima di unirsi all’Occidente nella caduta ripida: abbastanza per rivoluzionare il volto del Pianeta come oggi lo conosciamo. La Nigeria, a fine secolo, diventerà il terzo Paese più popoloso, con più di 540 milioni di abitanti: 80 milioni solo nella capitale, Lagos. L’India, che da poco ha sorpassato la Cina, continuerà a fare da capolista, con un miliardo e mezzo: Mum-
L’Europa è l’unico continente destinato a subire un calo netto di popolazione entro il 2100. Si parla di un passivo di venti milioni, a meno di flussi migratori dovuti a guerre, cambiamenti climatici e altre variabili che fonti dell’Eurostat definiscono «difficili da quantificare». Non è tanto la contrazione della popolazione a preoccupare, ma il conseguente shift anagrafico. Vecchio continente di nome e di fatto, l’Europa è già avviata verso un progressivo aumento dell’età media: quella che un tempo era denominata “piramide delle età” oggi somiglia a un rombo, la cui diagonale minore scivola ogni anno più in alto sull’asse delle ordinate.
Il professor Alessandro Rosina, docente di demografia e statistica sociale presso l’Università Cattolica di Milano, descrive il fenomeno con un neologismo: “degiovanimento”. Entro il 2100 i cittadini over 70 saranno tanto numerosi quanto quelli nella fascia di età 18-69. Per dirla in altre parole, a ogni europeo in fase produttiva corrisponderà un pensionato da mantenere.«È l’inevitabile conseguenza del progresso medico-scientifico», spiega il professore. «Abbiamo deciso di sconfiggere la morte prematura e vivere più a lungo. La sfida è far sì che all’allungamento corrisponda un miglioramento della qualità di vita.
Il problema non interessa il solo sistema previdenziale: oltre alle pensioni dobbiamo garantire cura e assistenza per la terza età e per farlo sono necessari medici, infermieri, autisti, operatori sociali. Abbiamo bisogno di ricchezza e forza lavoro, che sarà sempre più difficile reperire se la popolazione attiva continuerà a contrarsi a causa del degiovanimento». La questione è più complessa di quanto immaginiamo: «Una società in cui non si riesce a garantire il welfare per tutti è difficile da governare. Le fasce più anziane, che non vedranno tutelati i loro diritti, voteranno a difesa dei propri interessi, creando spaccature con il resto dell’elettorato».
Per il professore non esiste un solo rimedio, ma un cocktail di possibili soluzioni: «Abbiamo vari modelli da emulare. Il Giappone ha deciso di puntare tutto sull’automazione e la robotica per aumentare la pro-
duttività di una popolazione in declino, ma ha fatto poco sul fronte dell’occupazione femminile e dell’immigrazione». Altri Paesi stanno fomentando i flussi migratori, sfruttando la risorsa a proprio vantaggio. «In Italia, il dibattito sulla questione è limitato all’aspetto della sicurezza: non abbiamo capito come incentivare un’immigrazione di “qualità”, convogliando forza lavoro qualificata sui giusti canali per produrre ricchezza».
Queste misure, tuttavia, rappresentano delle “toppe” al problema e non una soluzione sul lungo termine: «Per combattere la crisi di natalità, dobbiamo far sì che i giovani tornino a fare figli», continua il professore. «È difficile pianificare una gravidanza quando a trent’anni si vive ancora con i genitori: a volte quella di non avere bambini diventa una decisione obbligata».
«I giovani vogliono essere al centro del cambiamento»
Nel nostro Paese la crisi di natalità è sostenuta anche da una progressiva “desertificazione”, figlia di decenni di politiche sbagliate: «I giovani ambiziosi sempre più spesso si trasferiscono all’estero per costruirsi un futuro. Non è una scelta legata soltanto alla carriera: i ventenni e trentenni di oggi sognano di vivere in realtà dinamiche. Vogliono essere al centro del cambiamento
e prendervi parte». Non basta la prospettiva di un buon lavoro: a rendere appetibile una nazione sono la tutela dei diritti civili, i servizi e l’offerta culturale. «Evitare che i ragazzi facciano le valigie e attrarne di nuovi è l’investimento più grande che si possa fare per mettere un freno all’emorragia demografica ed essere competitivi nel futuro». Guardando le statistiche Eurostat appare evidente come alcuni Stati lo stiano facendo meglio di altri: aree metropolitane come Madrid e Barcellona stanno sperimentando una fase di crescita sostenuta e guadagneranno alcuni milioni di abitanti entro la fine del decennio.
Saranno proprio le realtà urbane più stimolanti a difendersi dallo spopolamento nel corso del secolo, anche nel nostro Paese. Impossibile prevedere con esattezza quale sarà la demografia dello Stivale tra 75 anni. Il professore, però, non si aspetta grosse sorprese: «L’Italia settentrionale dovrebbe confermarsi l’area più popolosa. Milano, Napoli e Roma continueranno a essere i poli più importanti, attorno ai quali graviteranno milioni di persone».
Qualche prospettiva di crescita si avrà per le zone rurali ben collegate alle metropoli: «Molti decideranno di scappare dallo smog delle città, ma non vorranno rinunciare alla possibilità di raggiungere il centro in poco tempo».Il profondo Sud e le province più remote, invece, saranno destinati a svuotarsi: l’isolamento non piace oggi e piacerà ancora meno alla fine del secolo. ■
In Alabama il diritto divino gela la speranza di tante donne
DIRITTILa decisione dei giudici statunitensi modifica la disciplina sugli embrioni congelati, rischi per la procreazione
medicalmente assistita
di Federica Carlino«La sentenza dell’Alabama va oltre il diritto, si può parlare di teologizzazione», queste le parole di Sergio Sulmicelli, dottorando in studi giuridici comparati ed europei all’Università di Trento, riguardo al giudizio che equipara gli embrioni prodotti con fecondazione in vitro (Fivet) a dei bambini. Aggiunge: «Perché è una decisione che fa continui riferimenti alla Bibbia e alla santità della vita». La Fivet è l’incontro mirato tra ovulo e spermatozoo fuori dall'utero, si svolge con precisione e cura all'interno di laboratori specializzati.
Dalla prima nascita, nel 1978, la Fivet è stata una delle tecniche più impiegate nel campo della procreazione medicalmente assistita (Pma). Il caso in esame ai giudici dell'Alabama ha origine dalla distruzione, per negligenza, degli embrioni crioconservati presso il Center for reproductive medicine. In seguito a questo incidente tre coppie di genitori colpiti dalla perdita dei loro embrioni hanno intentato una causa contro la clinica. In prima istanza la richiesta è stata respinta, perché gli
embrioni congelati in vitro non potevano essere considerati, ancora, delle persone. Al contrario, i giudici supremi hanno stabilito che nonostante non ci sia una nascita effettiva, gli embrioni devono essere considerati già bambini, rispetto al riconoscimento dei danni punitivi derivanti dalla loro distruzione.
«La Corte suprema, per giustificare la scelta, cita l’Italia (insieme a Nuova Zelanda e Australia) come esempio occidentale che in tema di maternità si è molto esposto. In particolare – dice Sulmicelli - sostiene che la normativa italiana ha imposto un divieto di crioconservazione». Il dottorando specifica che tale limite è stato abrogato dalla Corte costituzionale nel 2009, ma che questo aggiornamento non è stato contemplato dai giudici americani. In Italia la materia della Pma è disciplinata dalla legge 40/2004, e «come ogni norma espressione della politica, - aggiunge - si intravede la difficoltà del legislatore a pronunciarsi in tema di progresso scientifico». I giudici costituzionali infatti sono
dovuti intervenire più volte, su di un testo considerato, in ambito giuridico, troppo religioso e perciò colmo di divieti ritenuti irragionevoli.
La legge 40/04 continua ad avere un problema di linearità con la disciplina italiana, come nel caso delle coppie omosessuali che possono unirsi in matrimonio, senza la possibilità di una fecondazione eterologa. Sul tema la Corte costituzionale si è detta non competente, lasciando la questione al Parlamento, dove l’equilibrio tra morale e diritto è sempre difficile da trovare.
La sentenza dell’Alabama vuole riconoscere una personalità giuridica dell’embrione, che porterebbe ancora una volta a un divieto del diritto all’aborto. Arrivare a quest’idea significa limitare un aspetto della Pma, che è a sua volta però una pratica pro-vita. ■
L'utero in affitto, scontro tra diritto e reato
Destra e sinistra dibattono sulla gestazione per altri. Parlano Grazia Di Maggio e Rachele Scarpa
di Alessandro Imperiali
Una pratica «abominevole» secondo Fratelli d’Italia (FdI), «necessaria», invece, per il Partito Democratico (Pd). Il tema è la maternità surrogata, una forma di procreazione assistita in un cui una donna provvede alla gravidanza per conto di altri, che acquisiranno la responsabilità genitoriale.
Uno scontro che nasce già dalla definizione usata per parlarne: “utero in affitto” a destra e “gestazione per altri” a sinistra. Lo scorso luglio con il governo Meloni è divenuto reato universale. Come può esserlo se in altri Paesi è legale? Il termine si riferisce all’obbligo da parte dei magistrati di perseguire i cittadini italiani a prescindere da dove l’abbiano effettuato.
«Nessuna donna al mondo vorrebbe prestare il proprio utero, creare un legame biologico con un bambino che porta dentro di sé per nove mesi, per poi metterlo al mondo e vederselo strappare dopo il primo vagito. Se l’umanità va in questa direzione, noi siamo dall’altra parte», afferma Grazia Di Maggio, ventinovenne deputata di Fratelli d’Italia. Proprio sull’utilizzo delle parole risponde Rachele Scarpa, ventisettenne onorevole del Pd: «Parlare di utero in affitto dà l'idea di una pratica commerciale: la gestazione per altri può avere ben altre finalità, di sfondo solidaristico».
Il contrasto reale è sul concetto di genitorialità: «La destra pensa ci sia un tipo di famiglia che chiama tradizionale, oltre quello non immagina nulla. Non accetta –continua Scarpa - che non serve avere un rapporto genetico con la prole per amare e crescere dei figli. O altre cose che sono viste come devianti da un ordine "naturale" delle cose». Per questo aggiunge: «L’utero in affitto è stato un feticcio con cui occupare la discussione nei due rami del Parlamento e con cui proseguire una chiara operazione di criminalizzazione
della comunità Lgbtqia+». Non è d’accordo Di Maggio che rilancia: «La sinistra ne ha fatto una battaglia ideologica ma ha creato un cortocircuito persino con le più ferventi femministe, che in diverse occasioni hanno condannato la pratica». Una questione, secondo lei, che non è solo politica ma culturale: «La maternità e la paternità devono tornare ad avere un valore socialmente riconosciuto, perché soltanto attraverso il rafforzamento della famiglia si può avere una società forte e curiosa di fronte alle opportunità del domani. L’idea – conclude - che un bambino diventi merce, si scelgano da un catalogo il colore degli occhi e dei capelli e si porti a casa un prodotto pronto e impacchettato a noi non piace».
Posizioni tra loro così distanti che si incontrano sul grave problema demografico che vive l’Italia. La gestazione per altri, utero in affitto o maternità surrogata, «non risolverebbe il problema» secondo nessuna delle due deputate. «La prima cosa che si dovrebbe fare è rendere la genitorialità conveniente», conclude Scarpa. «Sono sfide che si vincono nel lungo periodo», fa eco Di Maggio. ■
Giovani senza speranza in un inverno demografico
La Onlus Pro Vita e Famiglia in prima linea a difesa delle nascite
di Nicole Saitta«Stiamo vivendo un inverno demografico». Così, il portavoce dell’associazione Pro Vita e Famiglia Jacopo Coghe descrive la situazione della natalità in Italia. Nel 2022 si era già registrato un calo dell’1,7%, e i dati del 2023 non sono migliori: da gennaio a giugno, le nascite sono state circa 3.500 in meno rispetto all’anno precedente.
La Onlus, con a capo l’imprenditore Toni Brandi, si pone come obiettivo la promozione della vita: «Bisogna far capire che fare figli è bello, non è un peso e non contrasta con il voler intraprendere una carriera professionale», dice Jacopo. Secondo lui, la crisi delle nascite è da imputare a due temi: la mancanza di sostegni economici sostanziosi e il cambio di mentalità.
Il portavoce ricorda il baby boom del Secondo dopoguerra che, seppure momento di grave crisi economica, risultò prolifico. Per questo motivo, la drastica riduzione delle nascite non può essere ascrivibile solo al denaro che una coppia ha a disposizione: «Il governo sta facendo molto bene riguardo agli incentivi, ma i
giovani non si sposano più, non credono più nel valore della famiglia, nell’unione stabile e duratura», prosegue.
Il calo della natalità è un problema soprattutto culturale. «Si sta perdendo il valore delle cose e il significato del sacrificio. Mi sono sposato a ventiquattro anni, adesso io e mia moglie ne abbiamo trentanove e aspettiamo il sesto figlio. Oggi trovare giovani che mettono al primo posto la famiglia rispetto al valore di una soddisfazione professionale è difficile», spiega Coghe. I ragazzi ormai trovano un impiego troppo tardi, intorno ai trent'anni, quando «l’asticella della fertilità della coppia si è persa».
L’associazione Pro Vita e Famiglia, promotrice di manifestazioni sul tema, ha denunciato un altro tassello del puzzle della natalità: l’interruzione volontaria di gravidanza. «Non è possibile parlare del fenomeno delle nascite senza toccare questo argomento». Il 4 marzo 2024, la Francia è diventato il primo Paese al mondo a inserire il diritto all’aborto in Costituzione. Sui social, il presidente Macron si è detto fiero della decisione, ma per Jacopo si tratta di una mossa politica: «Esisteva già una legge che lo consentiva. Il punto è che si avvicinano le elezioni europee e bisognava mandare segnali a un certo tipo di elettorato. La Francia non si basa più su liberté, egalité e fraternité, ma sulla soppressione di un essere umano innocente».
Inoltre, anche sui nuovi metodi che permettono alle coppie di avere figli, la Onlus ha una posizione chiara: «Utero in affitto, fecondazione in vitro e procreazione medicalmente assistita sono barbare e contrarie alla dignità». Nonostante il calo della natalità, per il portavoce, questi procedimenti non possono essere considerati soluzioni: «Penso che si stia parlando più di un diritto al figlio, che di diritti del figlio».
La natalità continua ad essere una questione spinosa per l’Italia e Coghe conclude con un sollecito: «Non possiamo pensare solo all’attualità, altrimenti siamo miopi. Io non ho fatto sei figli per lo Stato, ma non si può non capire che sono un bene per la società. Tra quindici anni pagheranno le pensioni». ■
I veleni dello smog nelle città fantasma
Lo studio del professor Antonio La Marca rileva che l'esposizione alle polveri sottili danneggia le donne
di Lorenzo PaceInquinamento e natalità. Problemi seri per l’Italia, lontana dagli obiettivi green europei e con il numero di nascite più basso dall’Unità del 1861. Questioni che sembrano distinte, ma che trovano un punto comune nella parola «fertilità». Non bisogna pensare soltanto a chi non vuole figli, c’è anche chi non può averli. Una delle cause può essere l’aria sporca che respiriamo.
«Per le donne che vivono in un'area con più polveri sottili, il rischio di avere uno svantaggio riproduttivo è tre volte maggiore». È ciò che rileva lo studio di Antonio La Marca, medico e professore di Ginecologia dell’università di Modena,
che è stato riconosciuto a livello internazionale da quotidiani come il Guardian e il Times. «Ci siamo basati sui dati di 1.318 donne residenti nella nostra provincia –dice - incrociandoli con quelli dell’EmiliaRomagna relativi all'esposizione a fattori ambientali, come il Pm10, il Pm2.5 e il biossido di azoto, tra il 2007 e 2017».
La quantità di polveri nelle città è stata correlata al numero di follicoli presenti nelle ovaie, parametro principale per valutare la fertilità femminile. «Nelle aree provinciali più inquinate c’è un rischio maggiore di avere una bassa riserva ovarica – spiega il docente – mentre fra gli uomini si sta consolidando una riduzione dello
spermiogramma, cioè la concentrazione di spermatozoi nel liquido seminale, negli ultimi decenni».
Le soluzioni per il breve periodo sono dentro casa. Quello su cui possiamo lavorare è «l'ambiente indoor» per La Marca: «Oggi esiste una serie di architetture che ha lo scopo di migliorare gli interni ed evitare di respirare aria contaminata dentro le nostre abitazioni. Il camino, ad esempio, genera una quantità di Pm2.5 che fa paura».
Per rendere accettabili i livelli di inquinamento in Italia serve tempo. Lo smog raggiunto a Milano ha allarmato la Società italiana della Riproduzione (S.i.d.R.), secondo cui serve un cambio di passo «se vogliamo garantire alle prossime generazioni nuove prospettive di crescita e una vita sana e prospera».
Dati preoccupanti emergono anche dalle città in cui è stato effettuato lo studio di La Marca. Nessuna provincia rispetta i limiti di polveri sottili richiesti dalla Commissione europea, che dovranno essere raggiunti entro il 2030. A Modena, nel 2023, il valore medio di Pm10 è stato di ventotto microgrammi per metro cubo di aria: otto punti in più rispetto a quanto chiede l’Ue.
La situazione più complicata si registra in Veneto. Padova, Vicenza e Verona sono i centri peggiori del report “Mal’Aria di città” di Legambiente, con trentadue microgrammi di Pm10 per metro cubo. Sono state rilevate altre sessanta province che sforano gli standard europei, sia al Sud, ad esempio Cagliari (30) e Avellino (29), sia al Centro, come Frosinone (28). Soltanto venticinque rispettano il limite. La migliore è L’Aquila (15), ma anche le province della Liguria come Genova, Savona e La Spezia raggiungono valori accettabili. ■
SCIENZAGli orfani dell'inquinamento in un deserto senza futuro
AMBIENTE
Lo psichiatra
Innocenti e la filosofa Brunschweiger raccontano l'angoscia dei genitori
di Massimo De Laurentiis«Molti pazienti vorrebbero mettere su famiglia, ma non lo fanno per paura di far vivere i figli in un mondo devastato dagli effetti del riscaldamento globale», racconta Matteo Innocenti, psichiatra e psicoterapeuta presidente dell’Associazione Italiana Ansia da Cambiamento Climatico (Aiacc).
In un Paese che nel 2023 ha registrato appena 380 mila nuove nascite e ha uno dei tassi di natalità più bassi d’Europa, un nuovo fattore sembra aggiungersi alle cause della crisi demografica. Le ragioni di questa tendenza sono diverse, dal generale calo della fertilità della specie per ragioni biologiche e genetiche alla mancanza di stabilità economica che disincentiva i giovani ad avere bambini. Negli ultimi anni però, è comparso un fenomeno inedito e fino a qualche tempo fa impensabile: sempre più persone decidono di non fare figli per ragioni connesse al cambiamento climatico.
È questo il caso di chi soffre di ecoansia, riconosciuta dall’American psychological association come uno stato di “paura
persistente per una catastrofe ambientale”. Questa condizione si manifesta con sintomi come preoccupazione, insonnia, tensione, battito accelerato, e può portare chi ne è colpito a uno stato di angoscia paralizzante, impedendogli di vivere la propria quotidianità.
«Negli ultimi tempi i nostri studi si stanno concentrando sull’evoluzione dell’ecoansia, ovvero l’ecoparalisi», racconta il dottor Innocenti, specializzato in questi temi sia nella ricerca che nella pratica clinica. «Si tratta di uno stato di frustrazione tale da alterare alcuni comportamenti che diventano anti-evolutivi: non si cerca lavoro, non si pensa al futuro, non si fa nulla perché si è rassegnati al fatto che il mondo sarà devastato». Il
presidente dell’Aiacc evidenzia che si tratta di un problema recente, ma sempre più diffuso e destinato ad aumentare in modo esponenziale, con possibili effetti sulla crisi demografica.
«Il mio obiettivo è rendere il mondo un posto migliore e questo implica salvare l'ambiente»
Gli interventi per trattare questo disturbo sono diversi: «Prima di tutto l’ascolto e la terapia. Lo psicologo deve essere preparato sul tema, perché i pazienti vogliono qualcuno che prenda sul serio il problema e ne sappia quanto loro». Ci sono poi delle attività che possono aiutare chi soffre di ecoansia a gestire meglio il problema. Incentivare comportamenti ecologisti migliora il senso di autoefficacia, riducendo il senso di colpa e coinvolgendo di più il soggetto, soprattutto se queste attività vengono svolte in gruppo, spiega Innocenti. Infine, è importante riscoprire il contatto con la natura: «Molti sono preoccupati per l’ambiente, ma passano tutto il tempo in città, lontano da spazi verdi. Con la nostra associazione promuoviamo sessioni di forest-bathing che aiutano a cambiare la percezione del soggetto. La preoccupazione acquisisce un’accezione positiva, passando dalla paura del disastro a un atteggiamento di cura verso un bene prezioso».
Riguardo al timore di lasciare alle
generazioni future un mondo invivibile, il ricercatore dell’Aiacc afferma: «I miei studi sono volti a risolvere il problema dell’ipogeneratività. Io sono un grande amante della natura e dell’ambiente, e voglio avere figli a cui insegnare a non commettere i nostri stessi errori. Ho la speranza che si possa cambiare rotta».
D’altro canto, c’è chi, in base ai dati sulla sovrappopolazione e sul cambiamento climatico, decide di non dare alla luce dei bambini per ridurre al minimo il proprio impatto sull’ambiente. Tra questi, Verena Brunschweiger, autrice e filosofa tedesca, sostiene una tesi che fa dell’antinatalismo il principio cardine.
«Il mio obiettivo è rendere il mondo un posto migliore e questo implica salvare l’ambiente. Ci sono diversi modi per farlo, ma quello che ha il maggiore impatto è non riprodursi», dice Brunschweiger mostrando un grafico che spiega come non procreare sia l’azione più ecologica che si possa compiere.
Le sue idee hanno suscitato molte critiche e stupore per la loro radicalità, ma la filosofa ritiene che questo sia soltanto frutto di un pregiudizio culturale europeo, non presente in altri Paesi come l’Inghilterra o gli Stati Uniti. «Fare figli è moralmente sbagliato, – continua – portando un nuovo consumatore nel nostro mondo privilegiato io mi sentirei in colpa. Non è una scelta privata, perché ogni cosa che facciamo ha conseguenze sugli altri. Mettere al mondo nuove persone è un’azione che contribuisce a un futuro peggiore per il Sud globale, alimentando
migrazioni e guerre per le risorse essenziali. Non è giusto far soffrire chi già esiste soltanto perché vuoi il tuo bambino, con i tuoi occhi azzurri. Se ami i bambini così tanto adottane uno, abbiamo molti orfanotrofi pieni».
Per quanto riguarda la crisi demografica che diversi Paesi, tra cui l’Italia, stanno vivendo, l’autrice sostiene che il problema non esista: «Dovremmo accogliere gli immigrati, che diventerebbero nuovi lavoratori nei nostri Paesi. Un’altra questione che viene sempre sollevata è quella delle pensioni, ma cosa ce ne faremo di una pensione fra trent’anni se non avremo più acqua e aria da respirare? Credo che avremo problemi più gravi, ci concentriamo sulle cose sbagliate».
Per salvare l’ambiente, la strada maestra sarebbe quella della riduzione della popolazione, che, secondo Brunschweiger, deve partire dai Paesi più industrializzati. «Penso che sia nostro dovere iniziare questo processo, dato che siamo i maggiori responsabili del cambiamento climatico. Un’ intera classe scolastica africana usa in media le stesse risorse di un singolo bambino tedesco, quindi dovremmo cominciare noi. Se poi c’è chi vuole unirsi in altre parti del mondo, perché no? L’antinatalismo è per tutti, io credo molto nell’educazione e voglio aumentare la consapevolezza su questo tema». ■
1. Verena Brunschweiger, autrice e filosofa, sostenitrice dell'antinatalismo.
2. Matteo Innocenti, psichiatra e psicoterapeuta, si occupa di ecoansia. 2 1
"La missione delle donne non è fare figli, ma vivere"
Eve e Francesca sfidano i luoghi comuni: la prima rompendo il modello tradizionale di genitorialità, la seconda rifiutando la maternità
“Egoista, “individualista”, "carrierista”, sono solo alcuni dei commenti che le donne si sentono rivolgere quando rispondono “no” alla domanda “vuoi avere figli?”, spesso seguita da un “ma dai, cambierai idea”.
Francesca di conversazioni simili ne ha avute tante, da quando è adolescente ha chiara una cosa: non vuole bambini. «A diciotto anni ho deciso di operarmi, ma ho dovuto aspettare di averne ventitré per farlo. Ho faticato molto per trovare un medico che mi prendesse sul serio, mi trattavano con fare paternalistico. Alcuni mi avevano detto che per operarmi avrei dovuto prima sposarmi e avere il consenso del marito». di Matilda Ferraris
Nel 2017 si è sottoposta a una salpingectomia bilaterale, la rimozione totale delle tube di falloppio, un’operazione che le consente di non rimanere incinta durante i rapporti sessuali. «Ho riflettuto molto sulla decisione che ho preso e non la rimpiango, sono sicura». Non è una scelta irreversibile perché se in futuro dovesse cambiare idea potrebbe ricorrere ad altri metodi come la fecondazione in vitro o l’adozione, ma il terrore di rimanere incinta e trovarsi intrappolata in quella situazione l'ha portata a compiere una scelta radicale.
Quando ha deciso di sottoporsi all’intervento ha avuto il sostegno di tutti i suoi cari, nessuno l'ha giudicata. Poi ha
raccontato la sua storia al Gazzettino di Padova, e lì sono cominciati gli insulti: «La libertà dà fastidio, quando storie come la mia vengono diffuse il rischio di uno schieramento polarizzante è dietro l’angolo. Io penso che una donna possa essere tantissime cose però per tante persone c’è solo l’idea del figlio e della maternità».
La decisione di Francesca non è dettata da motivazioni etiche o morali, come l’ecoansia o il sovrappolamento, per questo non la sente come rivendicazione identitaria o battaglia politica e biasima alcuni attivisti dei gruppi childfree: «Li sento troppo aggressivi, a volte fanno passare un messaggio sbagliato, ovvero che i figli siano solo sacrificio e rinunce, quando sono anche molto altro. Bisogna fare ciò che si sente».
Non sono soltanto le donne senza figli a essere oggetto di critiche, ma anche le madri. Secondo i dati emersi da un’inchiesta di Save The Children del 2022, le mamme italiane sono “equilibriste”, si barcamenano tra lavoro e faccende domestiche, e non hanno tempo da dedicare alla vita di coppia o alla coltivazione di interessi personali.
Eve ha un figlio di diciotto anni, e lo ha molto desiderato. «Mi sono preparata con cura al suo arrivo, ho letto tanti libri, ho frequentato corsi di yoga pre-
parto, ero molto attaccata all’idea della maternità naturale. Chi propone questo approccio suggerisce di ricorrere al parto evitando l’epidurale e il cesareo». Poi è nato il suo bambino. «Dopo il primo periodo di allattamento mi sono resa conto che mi dava fastidio averlo addosso per tutto quel tempo, non amo il contatto fisico, mi fa sentire a disagio. Ho sofferto di depressione post partum».
Non è la sola, secondo i dati pubblicati sul sito del Ministero della Salute nel 2023 circa il 10% delle puerpere ne è vittima, mentre il 70%-80% sperimenta il cosiddetto baby blues, ovvero giorni di instabilità emotiva che seguono il momento del parto. La narrazione stereotipica della maternità vuole che il periodo della gravidanza sia il più felice nella vita di una donna. Quando in realtà gli squilibri ormonali e l’ansia incidono negativamente sulla loro salute mentale.
Eve racconta di essersi sentita a lungo una madre inadeguata e ha pensato che il ruolo di genitore non fosse adatto a lei. «Nel 2016, sono capitata in alcuni gruppi Facebook di madri che come me erano attaccate avevano prediletto un approccio “naturale”, quindi tenevano i figli nel lettone, usavano la fascia e non il passeggino per portarli in giro. Chi suggerisce di adottare questo approccio pensa che così facendo il bambino non avrà problemi durante la crescita perché
è stato seguito con attenzione. Ma non è vero, è tutto imprevedibile». E aggiunge: «Ho visto che tutte le madri che seguivano con rigore quel metodo erano infelici, si sfogavano, erano frustrate perché l’esempio di genitorialità che inseguivano sembrava loro irraggiungibile. In quel momento ho capito che non ero sola, e soprattutto che non ero io a essere inadeguata, era il modello a cui aspiravo a non essere replicabile alla perfezione».
A quel punto, Eve ha scoperto un mondo nuovo, ha cominciato a leggere manuali che sfatavano il mito della genitorialità perfetta e si è sentita a posto con sé stessa. Ha quindi cominciato a fare divulgazione su Instagram per condividere con altre persone quanto aveva scoperto. «Purtroppo quel mondo è pieno di narrazioni tossiche, si tende ancora a diffondere un’idea di maternità che nuoce a tutte noi. L’idea del sacrificio continua a essere sovrarappresentata, quando una donna diventa madre sembra debba rinunciare a tutto. Non è così», conclude Eve.
Sia Francesca sia Eve hanno deciso di affermare la loro libertà inseguendo un desiderio diverso, ma che ha pari grado di intensità. Entrambe concordano con la giornalista Natalia Aspesi che durante un’intervista ha ricordato che “la missione delle donne non è fare figli, ma vivere”. ■
La dieta mediterranea aiuta a far nascere i bimbi
Il dott. Giuseppe Scopelliti, biologo nutrizionista, parla del legame tra alimentazione e fertilità
di Elisa VannozziLe donne ateniesi mangiavano semi di melagrana per propiziarsi fertilità e prosperità. Gli antichi romani consumavano uva e bevevano vino onorando il dio generatore Bacco. Anche il grano, il latte e il miele erano considerati sacri per favorire le nuove nascite. A distanza di secoli, nell’800, come si vede nella serie Netflix “L’imperatrice” dedicata alla vita di Elisabetta d’Austria, si usava far bere alle ragazze uova crude sbattute per far sì che i loro rapporti sessuali portassero al concepimento. C'è una verità antica che emerge: la chiave per procreare potrebbe trovarsi proprio sul nostro piatto.
Prestare attenzione a cosa si mette in tavola è importante, perché dal cibo si traggono gli elementi che vanno a costruire l’organismo umano. Nell’epoca moderna, patologie come l’obesità si diffondono sempre di più. Altro fenomeno in corso è la diminuzione delle nascite: secondo Istat Data, nel 2021 i nati in Italia sono stati 400.249, mentre nel 2022 solo 393.333, con un calo dell’1,7%. Potrebbe esserci un nesso tra alimentazione e na-
talità? Il dottor Giuseppe Scopelliti, biologo nutrizionista, risponde facendo riferimento alla correlazione tra stile di vita e fertilità: «Diversi studi hanno evidenziato come una dieta equilibrata, ricca di alimenti vegetali, il mantenimento di un peso sano e una massa grassa adeguata, possano migliorare la fecondità. Gli alimenti che consumiamo influenzano i livelli ormonali, la qualità degli ovociti e degli spermatozoi. E in generale la salute riproduttiva». Non ci sarebbero quindi pietanze specifiche da consumare per essere fertili, ma è un’abitudine quotidiana corretta, nel complesso, ad aumentare o ridurre le probabilità di concepimento. Per Scopelliti, se si fosse alla ricerca di una gravidanza sarebbe utile adottare una dieta mediterranea: «Questa è stata associata a tassi di successo più elevati sia per la concezione naturale che per quella assistita. Si basa sul consumo di cibi freschi e non trasformati, inclusi frutta, verdura, legumi, noci, semi, cereali integrali, pesce e carni bianche e magre. Va ribadito che è l’uso che dovremmo praticare tutti, a prescindere dalla volontà di avere figli».
Quantità elevate di alcol e alimenti trasformati o con zuccheri aggiunti possono invece avere effetti opposti. Inoltre, un'eccessiva assunzione di grassi saturi e trans potrebbe ridurre la qualità delle cellule gametiche. Il dottore suggerisce
tre consigli utili, a partire dal mantenimento di un peso corporeo salutare: «Sia il sovrappeso che il sottopeso possono influenzare in negativo la fertilità. Innanzitutto, seguire una dieta equilibrata aiuta a raggiungere e mantenere un peso ottimale. In seconda battuta, devono esservi inseriti alimenti ricchi di vitamine e antiossidanti, soprattutto frutta e verdura, per migliorare la qualità dei gameti femminili e maschili. Infine, limitare gli alcolici e la caffeina contribuisce a migliorare le possibilità di concepimento».Vivendo in un territorio come l’Italia, che offre materie prime di qualità, attenersi alle indicazioni non risulta difficile. Sarebbe utile per avere un “healthy lifestyle” e contribuirebbe a invertire la tendenza del tasso di natalità, che diminuisce in modo inarrestabile da quasi quarant’anni. ■
Sempre più figli in età tardiva
È in aumento il ricorso alla crioconservazione degli ovociti per ritardare la gravidanza in età avanzata
di Valeria CostaC’è una rivoluzione in atto, ma non è violenta. A cambiare è qualcosa di insospettabile, ciò che viene considerato naturale per antonomasia tanto da essere uguale per umani e animali: il concepimento. Da circa trent’anni, gli ovociti possono essere crioconservati, ossia prelevati dall’utero e congelati perché vengano fecondati ancora fertili. Il procedimento prevede in primo luogo una stimolazione ovarica controllata, che aumenta il livello di estrogeni, il prelevamento delle cellule sessuali e la loro conservazione in azoto liquido a -196 gradi celsius. L’ultimo passo è la fecondazione in vitro.
Il primo parto al mondo da ovulo preservato in laboratorio è stato a Bologna nel 1999. Undici anni fa, nel 2013, la Società Americana di Medicina della Riproduzione ha stabilito che questa pratica non era più da considerarsi sperimentale, ma di routine per le donne sottoposte a terapie gonadotossiche, come la chemioterapia, che danneggiano le cellule. In
questo caso, in Italia, è il servizio sanitario nazionale che copre le spese per il prelievo e il mantenimento dei gameti.
Sebbene in certi casi possa essere l’unica alternativa per concepire un figlio, essere malato di tumore rende l’egg freezing più rischioso. Il procedimento, infatti, posticipa l’inizio delle cure mediche e per i tipi di cancro ricettivi agli ormoni, come quello al seno, c’è il rischio di un rapido peggioramento. Negli ultimi tempi, però, sono state prese misure per contrastare questi inconvenienti come l'uso di protocolli indipendenti dal ciclo mestruale, accorciando il periodo di ritardo nell'inizio del trattamento e la somministrazione di anti-estrogeni nella stimolazione.
Da rimedio a cure mediche che provocano infertilità, la crioconservazione sta diventando uno strumento per barcamenarsi tra le aspettative sociali a cui sono sottoposte le donne da decenni. Perché possano costruirsi una carriera devono spesso ritardare la procreazione. L’Istat ha calcolato che le donne, che hanno un’età compresa tra i 25 e i 44 anni e che convivono, dedicano il 61,8 per cento del tempo al lavoro domestico: ben oltre la metà. Ecco perché sono sempre di più le donne che decidono di crioconservare i propri ovociti e avere la possibilità di diventare madri anche a età avanzata della vita, come gli uomini.
Secondo la ginecologa Fabiana Interlandi, però «c’è ancora troppo poca informazione sul tema». Innanzitutto, è da considerare l’età: «Gli ovociti devono essere prelevati entro i 35 anni, e anche in questo caso la possibilità che venga fecondato è inferiore» (rispetto alla cellula di una donna venticinquenne ndr).
«Gli ovociti devono essere prelevati entro i 35
anni»
Non solo, la crioconservazione non garantisce una gravidanza, «se anche l’ovulo fosse poi fecondato, l’embrione potrebbe non impiantarsi nell’utero, specialmente in donne affette da endometriosi o sindrome dell’ovaio policistico». I numeri per queste due patologie sono elevati e in aumento. Secondo i dati forniti dal ministero della sanità, la prima colpisce il 10-15 per cento delle donne in età riproduttiva, mentre la seconda il 5-10 per cento.
Inoltre, se anche la gravidanza fosse portata a termine sarebbe bene considerare che «una gestazione tardiva ha dei rischi per la madre, tra cui diabete, ipertensione o disturbi renali - e aggiunge Interlandi - anche possibili ritardi di crescita intrauterina del feto e malformazioni cardiache». ■
Oriente
Un corsetto asfissia la Corea
COREA DEL SUD
Il governo di Seul spinge le giovani a sposarsi e a fare figli, ma la tradizione paternalista resta troppo radicatadi Laura Pace
Tra i colori sgargianti delle bancarelle di Seul, si vedono pochi passeggini. L’atmosfera non è poi così di festa. Il volto della Corea del Sud sta cambiando, e non solo per le sue luci al neon e i grattacieli. La realtà è che la regione si trova di fronte a una sfida demografica senza precedenti. La maternità è diventata un'impresa titanica, con il tasso di fecondità in picchiata e il numero di bambini per donna in costante declino. Il paese è in emergenza nazionale.
Secondo i dati demografici più recenti, diffusi dall’Istituto nazionale di statistica sudcoreano (Kostat), il numero medio di figli per donna in età fertile è sceso da 0,78 a 0,72 dal 2022 al 2023. Un dato bassissimo, se pensiamo che in Italia, uno tra i dieci al mondo con il tasso di fertilità più basso, è di 1,24 secondo l’ISTAT del 2022. La percentuale ideale affinché una
popolazione rimanga stabile nel tempo dovrebbe aggirarsi intorno al 2,1.
Valentina Calzia, content creator, podcaster e blogger si è dedicata a studiare questo fenomeno all’interno dei suoi lavori rintracciandone la causa nella discriminazione della donna: «Il ruolo di una ragazza coreana nella società è complesso e contraddittorio, ed in continua evoluzione. Da un lato, il paese "incoraggia" le donne a lasciare il lavoro per sposarsi e avere figli entro i trent'anni. Dall'altra, vengono etichettate come 'madri-insetto', penalizzate per non contribuire economicamente alla famiglia».
«C’è una forte emarginazione sul posto di lavoro. Nonostante ci siano leggi a supporto dell'uguaglianza - continua Calzi - le lavoratrici spesso guadagnano molto meno dei colleghi maschi e sono
sotto-rappresentate nei ruoli dirigenziali. Le lunghe ore d’ufficio e la scarsa flessibilità aggravano la decisione di diventare madri, senza parlare delle molestie sessuali».
Chiunque lavori in Corea ha diritto a un congedo parentale di 24 mesi nei primi otto anni di vita di un figlio, ma nel 2022 solo il 7% dei nuovi padri ha sfruttato questa possibilità, contro il 70% delle nuove madri. I papà che partecipano attivamente alla cura dei neonati nella quotidianità sono una rarità.
Imsuk Jung, docente responsabile della cattedra di coreano presso l'Università per Stranieri di Siena afferma che le ragioni di tutto questo sono da ricercare nella tradizione e nel linguaggio: «Nel parlato abbiamo ancora degli strascichi di una Corea maschilista e patriarcale.
Nel 2002 è stata istituita la Seoul Foundation for Women's and family (서울여성가족 재단) con l'obiettivo principale di aiutare le donne e coloro che sono emarginati dalla società. Ci sono state delle indagini tra il 2018 e il 2020 sull’individuazione di termini discriminatori nella lingua coreana. Alla fine sono state scelte 29 unità da cambiare, per realizzare un nuovo glossario, più inclusivo (성평등사전). Ci vorrà tempo prima che entrino nel linguaggio comune».
La lotta contro la discriminazione di genere resta, quindi, un tema sociale spinoso. La podcaster racconta che all’interno del paese sono nati diversi movimenti femministi: «Tra i più noti, troviamo Escape the Corset, un movimento che ha acquisito rilevanza a partire dal 2018 in risposta agli ideali di bellezza irrealistici, rifiutando trucco e abbigliamento femminile.
Il "corsetto" rappresenta così le rigide aspettative sociali su come le donne dovrebbero apparire e comportarsi, una sorta di gabbia estetica e comportamentale». Chi fa parte di questi collettivi protesta contro una cultura che vuole le donne belle e perfette, che si traduce in tempo, denaro ed energia spesi in trattamenti estetici, chirurgia plastica e cure di bellezza. L’importanza di queste battaglie è fondamentale soprattutto perché – complice un Governo conservatore – si sono diffusi movimenti anti-femministi.
L’amministrazione coreana sta portando avanti politiche per spingere a fare figli, che sono state fallimentari. La professoressa Imsuk Jung ce le racconta: «So che ogni piccolo comune coreano promuove un progetto per incentivare la
fertilità, si danno sussidi importanti dal secondo figlio in su. Dal 2006 lo Stato ha speso più di 360 mila miliardi di won, cioè 249 miliardi di euro, assistenza per gli asili nido, crioconservazione degli ovuli o uso di spazi pubblici per le cerimonie nuziali». A queste si associano strategie meno consuete, come l’esenzione dal servizio militare per gli uomini che hanno tre figli (obbligatorio per i maschi coreani), o l’assunzione di baby sitter provenienti da paesi del Sud-est asiatico. L’idea più originale, invece, è quella che riguarda gli “appuntamenti al buio” di gruppo.
La professoressa Imsuk Jung commenta: «Ho sentito parlare di questi speed date per aiutare le persone a relazionarsi. Dopo la pandemia la situazione
è peggiorata, e alcuni preferiscono intrattenere legami virtuali tramite computer, telefono e social. I giovani hanno la fobia di avere un contatto fisico e preferiscono inviare messaggi».
Gli appuntamenti al buio sono diventati sempre più frequenti, in particolare nelle città con un maggior tasso di invecchiamento, Calzi, infatti, riferisce: «Gli incontri per single, detti sogaetin, fanno parte della tradizione e sono estremamente popolari: offrono a due persone non impegnate l’opportunità di conoscersi mediante un amico in comune. In questo caso, “l’amico” è il governo. In alcuni paesi la strategia ha avuto successo. Tuttavia, è impossibile stabilire quanto abbia contribuito a creare coppie durature».
Mentre le luci al neon continuano a risplendere nei locali di Seul, immaginare un futuro diverso per questi paesi, rispetto al calo demografico in atto, risulta arduo.
Tuttavia, se non si interverrà, entro cinquant'anni, la popolazione che attualmente conta 51 milioni di individui, sarà dimezzata e più della metà avrà 65 anni. Le strade, ora vive e pulsanti, potrebbero un giorno essere affollate di anziani; le risate giovanili, un tempo così vivaci, scompariranno. ■
1. Mercato di Gwangjang a Seul. Foto: Flickr
2. Ragazze con hanbok, abito tradizionale coreano. Foto: Wikimedia Commons
3. Donne con bambina. Foto: T.J. Lentz
L'AI racconta la strage di Mosca
L'attentato terroristico dell'Isis alla sala concerti Crocus City Hall scuote la capitale russa. Le vittime sono più di 140, quasi 200 i feriti. Civili e jihadisti in fuga, esplosione e macerie rappresentati dall'intelligenza artificiale
A 90 anni salva i suoi ulivi «La Xylella si può curare»
La signora Lucia Apuleo ha vinto il ricorso al Consiglio di Stato per evitare lo sradicamento di 26 alberi del proprio oliveto STORIE
La signora Lucia Apuleo ha 90 anni e mani massicce ma morbide, malgrado la vita a carezzare i suoi ulivi secolari. Ora stenta ad arrivare ai rami, eppure continua a proteggerli. «Hanno più di 800 anni, chissà quante malattie hanno già affrontato e sono sempre rinati». Un monito rivolto all’Unione Europea, che dal 2014 eradica tutte le piante infette da “Xylella fastidiosa”, un batterio trovato più di dieci anni fa, anche negli oliveti del Salento, in Puglia, dove ormai il verde ha lasciato spazio al bianco arido. Nella sua campagna a Monopoli, però, la signora Lucia ha difeso 26 ulivi dallo sradicamento grazie alla vittoria nel ricorso al Consiglio di Stato, persuasa che possano ancora salvarsi. «Potatura e trattamento del terreno sono i segreti per curarli», dice sicura.
fare a meno del ritornello: in un decennio sono scomparsi 21 milioni di ulivi, tra quelli lasciati morire e quelli spiantati. E la raccolta di olive ne risente: tra il 40 e il 50% dell’olio prodotto in Italia viene realizzato in Puglia; ora solo in provincia di Lecce hanno chiuso più di cento frantoi e le campagne fruttano il 90% in meno. Lo stesso vale per gli alberi della signora Lucia. «Da ognuno di loro la resa era di 35 litri». In questi anni non è riuscita a difenderli tutti: ad alcuni resta solo il tronco. «Se me li tolgono, il terreno non vale più niente. Germogliano anche con la malattia. Sono campi lasciati in eredità dai miei genitori, e a loro dagli antenati: mio nonno aveva rinunciato a lavorarli, non ne ricavava più tanto. Poi un suo amico iniziò la potatura e ottenne delle olive incredibili».
A curare la campagna di Lucia Apuleo c’è Emanuela Sardella, agronoma e membro di Ulivivo, comitato fondato per risanare le piante ed evitarne lo sradicamento. «Questi alberi sono stati classi- di Gabriele Ragnini
Una leggenda si tramanda da generazioni tra contadini pugliesi: «Qui gli ulivi sono sacri, perché ce n’è uno per abitante dell’Italia. Ognuno prima o poi troverà il suo». La tradizione agricola dovrà però
ficati come “monumentali”», racconta indicando una targa. «È stata messa dalla regione Puglia per provarne il valore e la maestosità. Ma quando trovano un focolaio di Xylella vogliono che vengano abbattuti tutti i fusti intorno». Un paradosso logistico rimane anche dopo la sentenza del Consiglio di Stato. «Ognuno di loro ha ricevuto una determina per spiantamento. Lucia è riuscita a vincere su 26 di queste, ma non è automatico che gli altri siano lasciati al proprio posto. Ogni ricorso costa 700 euro, non se li può permettere tutti. Noi la aiutiamo con delle donazioni». E i problemi nascono anche per i vicini. «Al di là del muretto a secco c’è l’oliveto del nipote di Lucia, pieno di ulivi monumentali», eppure in alcune zone è rimasta solo la legna. «Non poteva pagarsi il ricorso e la settimana scorsa sono andati a eradicarli».
In questi anni, Emanuela racconta di aver trovato soluzioni per risanare il disseccamento. «In alcuni casi si verificano miracoli. In Salento ce n’erano alcuni a cui era rimasto solo il 10% delle foglie. Si sono poi rigenerati da soli: li chiamo “spontaneamente resilienti”. Hanno indotto un fenomeno di resistenza al loro interno». Il tema che da anni divide politici, accademici e contadini è il grado di incidenza della Xylella. Un recente studio del Journal of Phytopathology rinforza le tesi dell’agronoma di Monopoli. «Hanno dimostrato che solo il 3% delle piante disseccate aveva il batterio. Forse non è la “fastidiosa” a fare tutti questi danni».
«Se fosse così, non avremmo avuto questo disastro. Non possiamo far passare quest'idea. Oggi una pianta può essere sana e tra due anni avere i vasi linfatici compromessi». A dare spiegazioni sulle misure adottate è Donato Pentassuglia, assessore all'Agricoltura della regione
Puglia. «A nessuno di noi fa piacere abbattere un albero. Dobbiamo però evitare che la fitopatia (la malattia di una pianta, ndr.) si allarghi rispetto al cambiamento climatico. Siamo radicali: gli ulivi malati vanno spiantati». E poi commenta il caso della signora Lucia. «Siamo attenti a monitorare anno su anno i fusti nel raggio di 50 metri rispetto a quelli con la Xylella. Nel suo caso, si pensava che la specie fosse pericolosa anche per gli agrumeti, che invece non sono stati toccati. Noi lavoriamo sulle evidenze, in base ai campionamenti fatti è ancora in corso un avanzamento scientifico».
«Ai terreni serve il reinserimento dei microorganismi»: il professore Pietro Perrino, ex direttore della banca genetica del Consiglio nazionale di ricerche di Bari, è stato tra i primi a studiare la minaccia che ha colpito gli ulivi. «Già nel 2008 iniziarono a cambiare aspetto. Dopo quattro anni dissero che si trattava della Xylella, un batterio da quarantena da fermare con l’abbattimento, che veniva finanziato dall’Ue. I fondi non li destinavano però alla scienza». La ricerca è dovuta andare avanti nel privato e il prof. Perrino ha adottato una prospettiva diversa. «C’era discordanza tra gli esperti patologi. Anche altri non avevano dato la colpa alla “fastidiosa”, si tratta del Complesso del disseccamento rapido dell'olivo (CoDiRO)». È ripartito quindi dallo studio del suolo agricolo in Salento. «Quella è stata la prima zona colpita perché non c’è biodiversità. Nel terreno, inoltre, c’è una molecola chimica chiamata glifosato: è un buon erbicida, ma distrugge la microflora del suolo. In quel modo la vegetazione diventa vulnerabile e non si difende».
Per alcuni, la soluzione alla crisi potrebbe essere negli stessi ulivi, o in ciò
che producono. Luigi Botrugno è il proprietario dell’Antica Saponeria del Salento e da qualche anno ha iniziato a utilizzare l’olio sugli alberi malati. «All’inizio veniva usato per curare le persone, era efficace su delle dermatiti particolari. Poi ho pensato di veicolarlo sui vegetali come fatto per la cute umana: abbiamo salvato 32 campi». Un ciclo rigenerativo che ne ha rinvigorito anche la produzione, in calo da tempo. «È graduale, ma dopo tre anni torna come prima. Nel 2018 ho adottato al Comune di Lecce diciotto piante presenti in città. Ad oggi sono le uniche rimaste vive».
Tra chi è riuscito a impedire l’abbattimento per Xylella risuona lo stesso memento. È quello della signora Lucia: «Gli alberi sono come le persone. I malati non li uccidiamo, ma li curiamo. Così dobbiamo fare con gli ulivi». A novant’anni ha dimostrato di poterlo fare. Anche se non arriva ai rami più bassi, potrà ancora accarezzarne i tronchi monumentali.
1. Oliveti sottoposti a quarantena in provincia di Lecce. Foto: Luigi Botrugno
2. Targa affissa sugli ulivi monumentali della signora Lucia
3. Ulivi malati in provincia di Brindisi
«Ilaria e Miran sono una memoria che dobbiamo coltivare»
Sono passati trent'anni dall'assassinio di Alpi e Hrovatin. Giustizia non è ancora stata fatta
Il 20 marzo del 1994 un giovane Fabio Fazio interrompe la sua trasmissione per passare la linea a un’edizione straordinaria del Tg3. Flavio Fusi, storico volto della rete, dà la notizia dell’assassinio della giornalista Ilaria Alpi e dell’operatore Miran Hrovatin a Mogadiscio, capitale della Somalia. «Nella redazione esteri, Ilaria era la più giovane. Era entrata da poco e si era dimostrata da subito molto volenterosa, la beniamina del gruppo», ricorda Fusi.
«Eravamo diventati molto amici. Il caporedattore, Massimo Loche, aveva la scrivania vicino alla sua, la definiva 1
la “compagna di banco”. Le volevamo bene, vedevamo che era una ragazza appassionata. Quando ha scoperto che la sua vocazione era fare l’inviata, aveva imparato l’arabo al Cairo e preso a cuore l’Africa» afferma il giornalista.
La prima volta che va in Somalia è il 1992, dove documenta Restore Hope, la missione di pace promossa dalle Nazioni Unite a seguito della guerra civile scoppiata l’anno prima. Durante le trasferte nel continente - fino a sette in un anno - scopre un traffico internazionale di rifiuti tossici, prodotti nei Paesi industrializzati e dislocati in quelli
africani in cambio di tangenti e di armi, scambiate con i gruppi politici locali.
La domenica dell’assassinio, Ilaria e Miran sono a Bosaso, una città nel nord della Somalia, per intervistare il sultano Abdullahi Moussa Bogor. Nell’intervista Bogor aveva parlato di Shifco, una società di pesca italo-somala a cui lo Stato italiano in quegli anni aveva donato dei pescherecci, probabilmente usati anche per il trasporto dei rifiuti. Di quelle due ore di girato, arriveranno alla redazione del Tg3 poco meno di quindici minuti.
Al rientro a Mogadiscio, ad aspettarli non trovano il loro autista, ma un altro, Ali Abdi, che li accompagna all’albergo Sahafi, vicino all'aeroporto, e poi all'hotel Hamana. Qui, all’incrocio tra via Alto Giuba e corso Somalia, la jeep Toyota viene fermata da un commando che apre il fuoco: Alpi e Hrovatin vengono uccisi con una raffica di kalashnikov, a pochi passi dall’ambasciata italiana.
Fusi ricorda quei momenti, appena saputo della morte: «Nella mia lunga storia giornalistica ho perso più di un collega e amico. Provi soltanto un dolore improvviso, terribile e non hai modo di reagire, di riflettere. Dopo, sapendo le cose come son successe ti arriva rabbia, odio. Quello fu un giorno brutto per tutti».
A comunicare la notizia ai genitori della giornalista è il direttore Andrea Giubilo: «Il suo è stato il compito più infausto - spiega Fusi - Lo trovai in lacrime. In questi casi si dà prima la notizia ai parenti e poi in televisione. Aspettammo che lui ritornasse. Era annientato. Poi andai io in diretta».
In quelle immagini, diventate ormai storia, il cronista vede il tempo che passa.
«Mi perseguitano da trent’anni, non per me ma per l’occasione in cui sono state impresse». Da corrispondente racconta che in quegli anni «anche noi a Sarajevo non eravamo protetti a sufficienza. C’era una sottovalutazione dei pericoli e il Tg3 aveva meno risorse economiche. A quei tempi la Rai ha peccato di superficialità in situazioni di pericolo. Ma se quello di Ilaria e Miran è stato un omicidio a sangue freddo, come noi pensiamo, non li avrebbe salvati nessuno».
«Quando perdi un collega provi un dolore improvviso, terribile. Quello fu un giorno brutto per tutti»
Fusi ricorda l’ultima telefonata con Alpi: «Non so come funzioni ora, ma all’epoca il direttore ti chiamava chiedendoti se te la sentissi di andare come inviato, lasciandoti un po’ di tempo per pensarci. A Sarajevo non ci voleva andare nessuno. Io ci pensai una mezza giornata e poi dissi “Questo è il mio mestiere, vado”. Passai la notte in un alberghetto nelle Marche, vicino
a dove sarebbe partito il giorno dopo l’aereo militare. Ero inquieto e telefonai al giornale. In quel momento trovai Ilaria, perché stava facendo il turno. Quella chiamata la ricordo ancora con grandissima tenerezza. Chiacchierammo qualche minuto, lei tentò di vincere la mia inquietudine. Fu breve e lavorativa, ma fu anche una delle ultime volte nelle quali ci parlammo».
Dopo tre decenni, ancora non si conoscono i mandanti e gli esecutori materiali per l’uccisione di Alpi e Hrovatin. Il caso è ancora aperto: «La verità giudiziaria è fondamentale. Semmai ci arriveremo, festeggeremo con moderazione, perché non celebri una vita, ma la verità su una morte terribile. Noi tutti, colleghi e amici, vogliamo che sia fatta luce sulla vicenda, perché è stata vergognosa. Ci sono delle situazioni che gridano vendetta. Ho paura che questo caso, dopo trent’anni, sia consegnato al dimenticatoio. Però penso che non dobbiamo mollare, Ilaria e Miran sono una memoria che dobbiamo coltivare». ■
1. Ilaria Alpi durante un reportage in Somalia.
2. L'arco di trionfo di Umberto I a Mogadiscio, Somalia.
3. Flavio Fusi, il giornalista e volto storico di Rai 3 che annunciò in diretta la morte di Alpi e Hrovatin.
La corsa delle destre in Europa
I sondaggi danno in crescita i gruppi dei Conservatori di Giorgia Meloni e Identità e Democrazia di Luca Graziani
«Il nuovo Parlamento europeo che i cittadini dei 27 Stati saranno chiamati a eleggere dal 6 al 9 giugno prossimo, si preannuncia il più a destra nella storia dell’Unione. Secondo le proiezioni di Europe Elects, se si votasse oggi, le tre forze moderate e progressiste che nel 2019 hanno eletto Ursula von der Leyen alla presidenza della Commissione perderebbero seggi. Tiene il Partito Popolare Europeo, primo in 13 Paesi.
Più marcata la flessione dei socialisti e di Renew Europe. In crescita, invece, le destre, dai Conservatori e Riformisti di Giorgia Meloni al gruppo Identità e Democrazia, che riunisce Rassemblement National di Marine Le Pen, la Lega di Salvini e Alternative für Deutschland (AfD). «Anche nel luglio 2019 la maggioranza Ursula non era molto forte, alcuni popolari non la votarono», ricorda Gavino Moretti, corrispondente Rai da Bruxelles.
L’ex ministra del governo Merkel «prevalse grazie ai voti decisivi dei 5 Stelle e di parte dei conservatori», tant’è che a capo della commissione agricoltura c’è Janusz Wojciechowski, esponente del partito polacco Diritto e Giustizia.
Anche se il nome su cui convergere non dovesse essere quello di von der Leyen, «possiamo immaginare che i primi tre partiti», come avvenuto in passato, «si spartiscano i tre ruoli chiave», presidenza della Commissione, del Consiglio Europeo e del Parlamento. Un’ipotesi è che per quest’ultimo «venga riconfermata Roberta Metsola», per poi passare la mano «a un socialista o a un liberale».
Non è da escludere anche un’apertura ai Verdi, dati in caduta libera nei sondaggi «potrebbero avere pretese meno forti. Siamo stati abituati al pacifismo degli anni Ottanta, quando manifestavano contro i missili americani in Europa, mentre adesso stanno tenendo una linea netta a favore dell’Ucraina».
Pochi dubbi, invece, sul fatto che i Popolari si dividerebbero di fronte a un accordo con l’estrema destra, «perché significherebbe stare con AfD. Quando una forza di centro si allea con chi ha idee forti, gli elettori scelgono l’originale». Anche
nel 2019 ci si aspettava «una vittoria dei sovranisti. Verso Identità e Democrazia si decise di applicare quello che fu definito un cordone sanitario», scegliendo di «non dare nessuna presidenza di commissione».
Diverso è «se si osservasse un’evoluzione di alcuni partiti», ad esempio se «Le Pen entrasse nei conservatori scegliendo una linea più moderata. Dovrebbe però sostenere con più decisione l’Ucraina e smettere di dire che la Francia deve uscire dall’Euro». A proporre «una maggioranza composta da liberali, popolari e conservatori» è proprio Antonio Tajani, segretario di Forza Italia e vicepresidente del Ppe, «la stessa che lo elesse alla presidenza del Parlamento europeo».
Per quanto riguarda i socialisti, si tratterà di «fare appello a coloro che non sono andati a votare per recuperare forza», la sfida è «spiegare perché è importante tornare alle urne. Con due guerre alle porte, una situazione economica debole e l’inflazione alta è più facile per chi punta sulla rabbia e la paura».
L’affluenza, dunque, «sarà un dato decisivo. Alle europee il voto è più d’opinione che d’appartenenza, la partita è ancora aperta». ■
Viaggio a Strasburgo
REPORTAGE
L'esperienza da inviato all'europarlamento nella plenaria di marzo
di Michelangelo GennaroNel tram, la voce registrata di un bambino annuncia lo stop: «Parlement européen». Ventisette bandiere scosse dal vento sovrastano le scolaresche. Grazie all’accredito si salta la fila per i controlli al metal detector e, con la cintura sfilata, il computer in mano e lo zaino in spalla, si entra nel Parlamento di Strasburgo. A sinistra l’ingresso dei media sorvegliato da tre dipendenti. Il buongiorno è d’obbligo, non importa in che lingua, tanto le capiscono tutte.
Un corridoio, due porte tagliafuoco e si arriva alla sala stampa. Il tempo di insultare i colleghi che hanno occupato le postazioni migliori e via verso l’emiciclo, dove i rappresentanti dei cittadini partecipano alla seduta plenaria. Dodici volte l’anno gli eurodeputati siedono tra i settecentocinquantuno banchi blu per decidere il futuro dell’Unione. Deserta durante i dibattiti, la stanza si riempie per le votazioni su leggi ed emendamenti.
I giornalisti osservano dalla tribuna, così alta che i politici sembrano formi-
che. Appena un malcapitato prova a fare un selfie, viene sgridato dai guardiani per aver infranto il primo comandamento: «Niente foto in Aula». Tra gli altri divieti, non portare bottiglie in plenaria, non intervistare il personale né filmare nei bar.
Il contegno è richiesto anche ai deputati. «Il funzionario si deve astenere da qualsiasi atto o comportamento che possa menomare la dignità della sua funzione», recita il Codice di condotta dei par-
lamentari. Se ne dimentica l’esponente della Lega Angelo Ciocca durante il voto sulle case green, direttiva che punta ad azzerare le emissioni delle abitazioni entro il 2050. Si alza in piedi, estrae dalla tasca un fischietto e partono gli schiamazzi, mentre sventola un cartellino rosso verso i colleghi. Scoppia il caos, con la sinistra che contesta la performance tra gli ululati da stadio. Soddisfatto, il politico viene accompagnato fuori. «Sono sceneggiate che fanno solo gli italiani», commenta la giornalista del Tg2 Marcella Maresca.
Nella sessione viene approvato l’AI Act, il primo regolamento internazionale sull’intelligenza artificiale, che vieta usi impropri come il riconoscimento biometrico. Poi la normativa per proteggere la libertà di stampa, a tutela dei reporter repressi in Ungheria. I paesi membri dovranno garantire l’indipendenza dei media pubblici e privati dai governi. Sui giornali italiani è polemica: Lega e Fratelli d’Italia si sono astenuti.
Arriva il giovedì e i lavori chiudono, dopo quattro giorni dentro il palazzo. Panico per trovare l’uscita, poi corsa in Uber verso l'aeroporto. La strada passa tra i tetti spioventi di Strasburgo, la più tedesca delle città francesi. Accanto al guard rail, una distesa di croci bianche forma una scacchiera nella campagna. «È il cimitero militare», spiega l’autista, «dove sono seppelliti i caduti della seconda guerra mondiale». Cala il gelo, poi l’uomo rompe il silenzio: «Partite dal terminal 1 o da quello dei vip?». ■
1. La presidente della Commissione europea Ursula Von Der Leyen parla nell'emiciclo
2. L'europarlamento di Strasburgo
L'India di Modi, tra sviluppo demografico ed economico
CRESCITA
In vista delle imminenti elezioni, il subcontinente sembra aver abbandonato il rispetto per le minoranze e la libertà di culto
Un uomo di ottant’anni con occhiali, capelli bianchi e barba incolta, in kurta di seta dorata, una camicia ampia e lunga indossata in Paesi come India, Pakistan e Sri Lanka, si sdraia per pregare con le mani giunte. Poi si mette in piedi. Cammina con aria solenne. Si avvicina a una statua agghindata. Migliaia di devoti commossi lo accerchiano, cercano di stringergli la mano. Canti, balli e bandiere. Fiori sgargianti in abbondanza, di ogni specie e colore, contornano colonne di marmo bianco. Un elicottero lancia petali rosa. Riti sacri del genere non sono un’eccezione nell’India del primo ministro Narendra Modi, ma eventi volti a suggestionare il popolo.
tuta nel 1992 da fanatici indù, l’edificio è dedicato al dio Rama, “piacere”, “gioia” in sanscrito.
«La frangia nazionalista al governo vede le minoranze con occhio xenofobo, include i gruppi etnici che hanno riferimenti culturali nel subcontinente indiano. La destra ha cavalcato una visione radicale di un Paese non laico», sostiene Stefano Beggiora, professore di filosofie, religioni e storia dell’India e dell’Asia Centrale all’Università Cà Foscari di Venezia.
di Matilde NardiIl tempio inaugurato ad Ayodhya, città santa dell’Uttar Pradesh – Stato a nord del Paese - è lo spaccato di una nazione che sembra aver abbandonato il secolarismo, inteso come difesa della multireligiosità. Eretto sulle rovine di una moschea abbat-
Il Paese di Modi ospita la terza più grande comunità musulmana al mondo, trattata però spesso con disprezzo. Dall’indipendenza del 1947 dalla Gran Bretagna, seguita da stragi atroci e guerre, ha affrontato discriminazioni, pregiudizi e violenza, malgrado il testo costituzionale sancisca la libertà di culto. «I sikh sono considerati indù perché costola della loro storia, i mu-
sulmani sono lì da molti secoli ma vengono visti come stranieri, allo stesso modo dei cristiani». Gli Stati Uniti hanno espresso preoccupazioni sull’implementazione del Citizenship Amendment Act, che renderebbe più facile ottenere la cittadinanza per rifugiati non musulmani provenienti da tre Paesi a maggioranza islamica: Afghanistan, Pakistan e Bangladesh.
Il trattamento riservato alle minoranze ha spinto varie organizzazioni internazionali a credere che l’India non sia più una democrazia liberale. Stando ad un report del Varieties of Democracy Institute, basato in Svezia, la nazione è scesa nel ranking al 104º posto su 179 Paesi analizzati. Le televisioni di tutto il mondo hanno parlato di “democrazia più popolosa”, ma per molti questa definizione è in parte scorretta.
Secondo stime ufficiali delle Nazioni Unite, la popolazione indiana ha superato quella cinese con 1,4 miliardi di persone, anche se è difficile stimare il dato demografico dei più poveri, gli indigeni, che sono il 10% e vivono in giungle o foreste. Già intorno al 2000 l’India era uno degli Stati più popolosi, ma con un territorio più piccolo della Cina.
Il Paese ha ereditato dall’Inghilterra il “Census of India”, incardinato al ministero degli Interni e impegnato a fare il censimento ogni dieci anni, contando le persone da un distretto all’altro. L’ultimo con dati sicuri risale al 2011, perché quello del 2020 è viziato dalla pandemia da Covid-19. «Ogni stima va però presa con le pinze, perché c’è un problema di anagrafe, anche se l’India ha apparati informatici come i nostri e software avanzati», continua Beggiora.
Mentre prima il boom delle nascite era un problema, oggi è una forza. Modi conta sulle nuove generazioni come le “braccia della nazione“. Negli anni Settanta si parla molto di crisi demografica, perché una crescita esponenziale spinge Indira Gandhi a introdurre un sistema di controllo delle nascite. Per Beggiora «rispetto alla preoccupazione della sovrappopolazione del Paese, Modi incoraggia le famiglie numerose come risorsa della nazione anche sotto una prospettiva macroeconomica».
Dal punto di vista indù, la nascita è sacra, una benedizione per le famiglie. Ci si augura che il matrimonio porti figli, tanto che in passato la gente percepiva il non averne come una disgrazia. Secondo una prospettiva tradizionale, ogni problema di fertilità si lega alla madre. «Non è una concezione sessista, perché il figlio è espressione del respiro della donna, anche quando nasce è parte del suo grembo. Il padre è
visto come distante», afferma il professore.
Per la struttura produttiva, avere un Paese giovane è una risorsa rispetto all’avversario cinese: l’età mediana dell’India è 27 anni, mentre quella del “Dragone” si attesta a 37. L’apertura del mercato interno, da parte della destra indù, agli investimenti esteri ha portato a una fioritura economica dopo la forte crisi all’inizio degli anni Novanta.
La propaganda elettorale del Bharatija Janata Party, il partito di Modi, in vista delle elezioni che si terranno a cavallo tra aprile e maggio, si è basata sull’idea di promuovere una shining, brilliant India. È stata avanzata la prospettiva di un’economia dinamica che aspira a scalare la classifica mondiale, tallonando Cina e Stati Uniti d’America. Secondo Beggiora, «Modi si attribuisce come merito del suo governo lo sviluppo».
L’agenzia di rating Moody’s ha aumentato la stima di crescita per il 2024 da +6.1% a +6.8%, prevedendo per il Paese la performance più brillante all’interno del G20. In un quadro annuale di rallentamento, secondo la Banca mondiale, a trainare l’economia saranno il Sud est asiatico e l’Asia meridionale, in particolare Cina e India.
Per sostenere la crescita demografica, la nazione ha bisogno di una struttura economica capace di assorbire la domanda di lavoro e creare più di un milione di nuovi posti al mese. Il Pil è tra i più alti dell’Asia, ma benessere e ricchezza non arrivano alle fasce più fragili della società, si concentrano nelle mani di pochi.
Richiamando l’attenzione sull’impegno ambientale, per Beggiora «la crescita, che deve essere sostenuta da investimenti continui, impatta con la deforestazione di aree naturali e lo sfruttamento di animali, risorse che andrebbero protette e valorizzate. Il dibattito sullo sviluppo sostenibile è un tema su cui Modi e il National Congress dovrebbero confrontarsi». ■
«Modi incoraggia le famiglie numerose come risorsa della nazione»
1. Narendra Modi, il primo ministro indiano. Foto: Wikimedia Commons
2. Tempio indù a Vrindavan nello stato di Uttar Pradesh. Foto: Pexels
Dottor Guru, la morte di Roberta
Roberta Repetto è morta a ottobre 2020 per un tumore mai curato. Faceva parte del Centro Anidra, definito dalla Procura di Genova “una psicosetta”. Oggi la sorella lotta per avere giustizia, anche se il vuoto normativo impedisce di punire i suoi carnefici
Roberta Repetto se n’è andata il 9 ottobre 2020 ad appena quarant’anni. Non per via di un brutto incidente o di un male incurabile, ma per un tumore non trattato, a causa della cieca fiducia verso qualcuno che lei considerava “autorità” e che nulla aveva di autorevole. Il nome di quel qualcuno è Paolo Bendinelli, il “santone” del Centro Anidra, per la Procura di Genova “una psicosetta”. Su Google il Centro compare come un accogliente agriturismo immerso nel verde a una manciata di chilometri da Genova.
Lì è cominciata l’inconsapevole discesa verso l’inferno di Roberta. Perché tra gli alberi e il cielo azzurro, riportano le carte del tribunale e le testimonianze, avvenivano rapporti sessuali e prove di resistenza fisica, tappe obbligate di un presunto “percorso spirituale”.
Roberta aveva donato al Centro molti dei suoi risparmi. Si era rivolta al “guru” Bendinelli e al complice, Paolo Oneda, chirurgo bresciano, anche per togliere un grosso e fastidioso neo che le era comparso sulla schiena. I due, di fronte alla richiesta di aiuto, avevano deciso di rimuoverlo senza anestesia, su un tavolo da cucina del centro olistico. Dopo la rudimentale operazione, stando a quanto ricostruito dai Carabinieri, avevano prescritto alla donna “tisane zuccherate e meditazione”. Per la quarantenne erano cominciati dolori lancinanti che, secondo il guru, avrebbero dimostrato «il successo dell’operazione chirurgica». Due anni dopo Roberta è morta all’ospedale San Martino di Genova dove era arrivata per un tumore della pelle in metastasi.
di Asia BuconiRita Repetto, la sorella di Roberta, oggi non si dà pace. Perché, dopo quasi quattro anni, «giustizia ancora non è stata fatta».
«La sentenza di secondo grado ha assolto da ogni accusa Paolo Bendinelli perché il fatto non sussiste, nonostante la Procura di Genova avesse accusato il santone di omicidio volontario, maltrattamenti, violenza sessuale e circonvenzione di inca-
pace», dice Rita Repetto. «Paolo Oneda è stato condannato a un anno e quattro mesi. La Procura aveva chiesto quattordici anni per omicidio volontario». E aggiunge: «I manipolatori non vengono puniti a causa di un enorme buco normativo, il reato di plagio è stato abrogato nel 1981 per proclamata illegittimità costituzionale». La politica continua a non essere incisiva. «È di pochi giorni fa un’interrogazione dell’onorevole del Movimento 5 Stelle, Stefania Ascari, sul fenomeno settario. Spero sia un piccolo passo avanti», precisa la sorella di Roberta.
La proposta di legge depositata dalla parlamentare pentastellata non è in cima alle priorità. L’impunità resta una conseguenza di questo vuoto legislativo. Secondo i dati forniti da Ascari alla Camera dei deputati, oggi i seguaci delle sette in Italia sono tra i due e i quattro milioni. Numeri che potrebbero essere ancora più alti, visto che l’ultimo rapporto ufficiale del Ministero dell’Interno sul tema risale al 1998. Da ventisei anni nessuno monitora più il fenomeno, che esplode solo quando le conseguenze drammatiche riempiono le pagine di cronaca. Ultimo, il caso di Altavilla Milicia, dove un uomo, con la complicità della figlia, avrebbe ucciso la moglie e gli altri due figli per liberare la casa da presenze demoniache istigato da una coppia di conoscenti fanatici religiosi.
«Ho fondato "La pulce nell'orecchio" per aiutare a riconoscere i comportamenti di chi, come accaduto a mia sorella, sta entrando in una setta»
Più che la politica, una risposta decisa al dilagare del fenomeno l’ha data proprio Rita Repetto. La donna a febbraio 2023 ha fondato l’associazione “La pulce nell’orecchio” con la quale vuole «insinuare il dubbio, porre un interrogativo» nelle persone che vedono i propri cari invischiarsi «nella tela del ragno», la definisce Rita. «Vogliamo aiutare a riconoscere i comportamenti tipici di chi sta entrando in una setta», spiega. Il che non è affatto semplice: «Non mi sono mai accorta di quanto realmente succedesse in quella comunità – ammette – Mia sorella sembrava felice, ai miei occhi aveva trovato un gruppo di persone che la faceva stare bene, pareva aver trovato la sua strada».
Roberta era entrata in contatto col Centro Anidra nel gennaio 2008 tramite un amico di infanzia: «Stava attraversando una
crisi con il fidanzato e pensava che iscriversi a un corso di crescita personale potesse aiutarli», spiega Rita. «Aveva modificato il modo di vestire, le abitudini alimentari, mediche e comportamentali. Non frequentava più gli amici di una vita, non faceva più visite mediche. Si affidava in modo cieco al suo Maestro». «Notavo tutto questo e soffrivo –aggiunge Rita - ma con la certezza che per qualunque problema mia sorella si sarebbe rivolta a me o ai miei genitori. Mi sbagliavo».
Oggi con “La pulce nell’orecchio” Rita tenta di aiutare chi sta vivendo il suo stesso dramma: «Il consiglio che do è di rispondere al nostro caro con amore e sincerità, di ascoltare, senza eccedere nelle critiche e nei giudizi, di raccogliere tutte le informazioni possibili sul gruppo in modo da capirne la strategia. Ricordare che la personalità del nostro caro non è scomparsa, ma momentaneamente sopraffatta». Importante «non inviare denaro» perché, spiega, «finirebbe nella setta». Meglio aiutare «con alimenti o vestiti».
La missione ultima di Rita e degli altri sette soci de “La pulce nell’orecchio” resta quella di dare giustizia a chi, nella ragnatela della dinamica settaria, rimane intrappolato fino alla morte. «Le sentenze si accettano e si rispettano ma, oserei dire, si subiscono anche – conclude Rita – Restiamo in attesa delle motivazioni, poi ricorreremo in Cassazione. Perché mia sorella merita giustizia». ■
1. Fotogramma di Eyes Wide Shut di Stanley Kubrick.
2. Pentacolo. Foto: Ansa
3. Foto di Roberta Repetto
Società
Papà in panchina, al neonato ci pensa la mamma
DIRITTIIn Italia, stare accanto al figlio nei primi mesi è
un dovere solo per uno dei due genitori
di Pietro Angelo GangiMarco è un impiegato a tempo indeterminato in una grande azienda di Roma. Quando tre mesi fa è diventato padre utilizzare il congedo di paternità è stato scontato. I limiti della misura si sono presto resi evidenti: «Utilizzo i miei giorni per i momenti importanti che avverranno in questo periodo – spiega Marco, che per ragioni legate al suo lavoro ha deciso di rimanere anonimo. In questo modo posso affiancare mia moglie nelle occasioni necessarie».
Le leggi italiane sulla paternità sono molto cambiate nel corso degli anni. Introdotto nel 2012 con soli tre giorni a disposizione, è stato estesa fino a dieci obbligatori e uno facoltativo a fronte dei cinque mesi previsti per le madri. È un’evoluzione positiva, ma la scelta di Marco di frammentare il tempo a disposizione rivela quanto il provvedimento sia ancora inadeguato.
La sua esperienza non è isolata. Secondo l’indagine “L’opinione degli italiani sul congedo di paternità” realizzata dall’Osservatorio D in occasione della Festa del Papà, quasi l’80% degli uomini intervistati ritiene che il permesso attuale sia “totalmente inadeguato”.
I numeri raccontano una storia ancora più ampia e mostrano come la misura sia ancora un lusso per pochi. Secondo il ventitreesimo rapporto annuale dell'Inps, se nel 2013 solo il 19% dei padri ne usufruiva, nel 2022 questa cifra è salita al 64%. Un trend positivo, legato anche ai passi avanti compiuti a livello normativo. Tuttavia, i dati mostrano anche che i soggetti più propensi a richiedere il congedo hanno tra i 30 e i 49 anni, lavorano in aziende medio-grandi e hanno un contratto a tempo indeterminato. La probabilità di fare domanda è influenzata dalla retribuzione, con un tasso di adesione più basso tra gli uomini con salari inferiori. Se non si ha una posizione stabile, la paura che la propria assenza possa determinare un costo troppo elevato per la propria azienda diventa più importante della necessità di stare accanto al proprio figlio.
Inoltre, l’Italia rimane indietro rispetto alla media europea di 2,2 settimane di
congedo di paternità. L'obiettivo è arrivare, come accade già in altri paesi, ad un sistema paritario, in cui ai padri e alle madri vengano garantiti gli stessi diritti.
Questa soluzione non solo garantirebbe ai neopapà il diritto di essere presenti nei momenti più delicati della vita dei loro figli, ma aiuterebbe anche le donne a liberarsi dalla responsabilità esclusiva della cura, che si traduce in maggiori disparità a livello lavorativo.
Secondo una relazione annuale dell'Ispettorato Nazionale del Lavoro, il 63% tra le donne che hanno deciso di dimettersi nel 2022 ha citato la difficoltà di conciliare la carriera con l’accudimento del bambino come motivazione principale. Al contrario, solo il 7,1% degli uomini che hanno abbandonato il loro impiego ha menzionato lo stesso motivo.
La strada verso una vera parità di genere nelle politiche parentali è ancora lunga nel nostro Paese. La voce di Marco, che grazie al suo lavoro stabile non ha avuto dubbi nel richiedere la misura, risuona come un monito: dieci giorni non bastano. ■
Un abbraccio contro il tumore
SALUTE
La provincia di Lecce regala test oncologici alle donne tra quaranta e sessant'anni
di Michelangelo Gennaro«Vogliamo accendere una luce e fare informazione su un tumore che è poco conosciuto, molto aggressivo e difficile da individuare», dice la consigliera della parità effettiva di Lecce Antonella Pappadà. Dietro la facciata a punte di Palazzo Adorno, sede di presidenza dell’amministrazione provinciale, il primo marzo viene presentata la campagna “Abbracciamo la prevenzione” del carcinoma ovarico. L’obiettivo è sollecitare le donne a fare controlli periodici, perché la loro salute «è un diritto soggettivo costituzionalmente garantito, un bene primario e collettivo che non può conoscere ostacoli», conclude la funzionaria.
L’iniziativa viene lanciata in occasione dell’International Women’s Day e si protrae per tutto il mese. Apre lo screening gratuito, che consiste in un prelievo di sangue al laboratorio di analisi cliniche De Vitis. I centocinquanta test pagati dalla Provincia si esauriscono in pochi giorni, utilizzati dalle residenti di età compresa tra i quaranta e i sessanta.
«È un tumore abbastanza raro», spiega il dottor Massimiliano Fambrini, esperto di oncologia ginecologica. Secondo
l’ultimo report dell’Associazione italiana di oncologia medica, nel 2022 ci sono circa 6.000 diagnosi, per un totale di 49.800 pazienti che ci convivono. Numeri lontani dal carcinoma della mammella, il più frequente nel 2023 con 55.900 nuovi casi. «Il problema è l’alta mortalità. Spesso gli esami vengono fatti troppo tardi, perché è difficile riconoscere i sintomi», prosegue il medico, «l’ovaio è grande come una palla da golf. Appena il tumore nasce, fuoriesce immediatamente e può arrivare a colpire tutti gli organi dell’addome».
Oltre il 75% delle pazienti, infatti, presenta una malattia in fase avanzata al momento della diagnosi. Se viene trovato in uno stadio iniziale, la possibilità di sopravvivenza dopo 5 anni arriva al 95%. «La percentuale scende al 25%» se ci sono metastasi lontane dal ventre, si legge sul sito di Roche, multinazionale farmaceutica leader per il trattamento del cancro. «L’unica cosa che si può fare sono controlli regolari dal proprio ginecologo, una volta l’anno», ricorda Fambrini.In casi di mutazione genetica, si può ricorrere alla chirurgia. «Può capitare nelle famiglie con alta incidenza di tumori», afferma il ginecologo. «Una volta che la donna ha completato il ciclo riproduttivo, di solito intorno ai 40 anni, si rimuovono le ovaie prima che si possano ammalare», conclude.
È successo ad Angelina Jolie, che racconta la sua storia «per incoraggiare tutte le donne, soprattutto coloro che hanno una familiarità con il cancro, a informarsi e chiedere aiuto ai dottori». Dopo una doppia mastectomia nel 2013, l’attrice
premio Oscar si sottopone a un’operazione all’addome. «Mia madre è morta a 56 anni dopo aver lottato contro il tumore per dieci anni. Il medico ha stimato il rischio di ammalarmi di cancro al seno di circa l’87% e alle ovaie del 50%», dice alla stampa americana. Da Lecce fino a Hollywood, la prevenzione può salvare la vita. ■
Società
Il mondo nascosto e violento della prostituzione in Europa
I modelli adottati per limitare la compravendita di prestazioni sessuali non hanno soddisfatto le aspettative. La direttrice della onlus Iroko racconta i traumi delle vittime
di Nicoletta Sagliocco«Cosa pensi che possa succedere quando devi aprire la parte più intima di te stessa a uomini a cui di solito non diresti nemmeno che ore sono?» Esohe Aghatise, fondatrice e presidente di Iroko, trova nelle parole di una delle donne coinvolte nello sfruttamento sessuale che si rivolgono alla sua associazione un modo per trasmettere la violenza della loro vita. «Sono persone per cui non provi nessun tipo di attrazione, pretendono che tu faccia finta di essere felice e di godere della violenza che ti stanno facendo. Come si fa a sopravvivere a una cosa così?».
L’organizzazione lavora sul territorio nazionale e all’estero da anni per limitare la diffusione della tratta. Le condizioni delle vittime oggi sono difficili. In Italia, dopo lo smantellamento delle case chiuse nel 1958 con la legge della senatrice Lina Merlin, la prostituzione continua a vivere nelle strade delle città e anche in rete. Attraverso la criminalità organizzata e un costante processo di disumanizzazione, il mercato è ancora fiorente. La vita condotta dalle donne sfruttate è ad alto rischio, non solo per la loro salute fisica ma anche per quella mentale. Quando abbiamo chiesto ad Aghatise se fosse
possibile parlare con una delle persone che hanno vissuto episodi di questo tipo, la direttrice ha spiegato: «È una cosa che non accettiamo più. Per loro rivivere l’esperienza è difficile, poi recuperare i progressi fatti diventa un lavoro psicologico molto grosso».
La onlus collabora con alcune psicologhe che lavorano sui traumi di chi è costretto a vedere il proprio corpo violato. Dalle loro ricerche è emerso che chi vive la prostituzione è quaranta volte più a rischio di una morte violenta rispetto a chi affronta una situazione di guerra.
STORIELa liberalizzazione non rappresenta una soluzione. La percentuale di persone per cui la vendita di rapporti sessuali è una scelta è molto bassa, afferma Aghatise, per questo ritornare alle case di tolleranza rappresenta una finta libertà: «In quel caso si tratterebbe soltanto di dare l'opportunità a qualcuno di perpetrare abusi in maniera legale. Significherebbe legalizzare le attività della criminalità organizzata».
Il problema principale è la persistenza di una domanda per le prestazioni sessuali. «In alcune società come l’Italia c’è un certo tipo di cultura che vede il comprare un altro corpo per uso personale come un’azione possibile. Oggi le persone che si trovano in una buona situazione economico-sociale non cadono più in quel tipo di attività. Le donne arrivano da altri Paesi in cui non ci sono le stesse condizioni. Lo sfruttamento continua ad esserci perché esiste ancora una richiesta», afferma la presidente di Iroko.
Svezia, Norvegia, Francia hanno dichiarato l’illegalità dell'acquisto di servizi sessuali che adesso, per legge, ledono la dignità umana. Classificare la tratta come reato ha portato a un calo del fenomeno. Nonostante le parole della Corte costituzionale italiana del 2019 sottolineino che offrire prestazioni sessuali a scopo di lucro non è un lavoro, in alcuni Paesi come l’Italia, dove questo divieto non esiste, il mercato è ancora aperto.
Retrocedere a una condizione simile a quella di quasi settant’anni fa non risolverebbe il problema: «Un ritorno alle case di tolleranza sarebbe un disastro. Andiamo a vedere cosa sta succedendo
in Germania, ciò che ci raccontano le persone che si ritrovano in queste situazione corrisponde alla definizione di tortura presente nella convenzione delle Nazioni unite. Perché mai normalizzare certe cose e non eliminarle? In paesi come la Germania e l’Olanda che hanno accettato questo tipo di attività da anni adesso esiste un grande mercato. Dopo il fallimento del sistema tedesco, si sta cercando di rivedere le leggi facendo dei passi indietro. Stiamo lavorando con dei membri del parlamento su questa questione».
La legge Merlin nacque dalle storie e dalle lettere delle donne che la pregavano di fare qualcosa per cambiare la loro condizione. È sbagliato porre l’attenzione su chi vende, spiega la presidente della onlus. Nell’opinione comune, c’è molta concentrazione sulle prostitute e sulla loro attività, ma il potere è nelle mani di
chi compra il corpo delle donne. La soluzione, dunque, non è da cercare nella legalizzazione, ma nell’abolizione della domanda. La persistenza nei secoli della richiesta dimostra la condivisione e l’evoluzione di una cultura infettata dai germi del patriarcato e si lega ad un discorso più ampio sulla violenza di genere. La percentuale di uomini che si rivolgono all’associazione della dottoressa è minima, ma il fenomeno della prostituzione è un problema che riguarda il mondo intero.
Le grandi associazioni riescono ad ottenere buoni risultati grazie all’8xmille, quelle più piccole, invece, fanno affidamento a progetti europei o, come nel caso di Iroko, a finanziamenti provenienti da fondazioni americane e internazionali.
Inoltre, riuscire ad evadere dal giro è molto complicato, spiega Agathise. «È presentato come un lavoro facile e temporaneo, ma ci resti dentro. Sono costrette bambine, ragazze che vivono in condizioni difficili, signore di mezz’età che hanno perso il lavoro e persone con un passato già segnato dalla tossicodipendenza o dalla violenza fisica e carnale. Uscirne diventa complesso perché spesso le vittime e le loro famiglie vengono minacciate».
Restano la possibilità di denunciare e le leggi che consentono di ottenere il permesso di soggiorno per motivi umanitari, ma molte associazioni che si occupano di questo tema fanno ancora fatica ad offrire il loro aiuto, date le risorse insufficienti a combattere la criminalità e a porre le vittime in una condizione di autonomia. «Soprattutto durante il covid questo fenomeno ha cambiato forma passando sulla rete. Molte donne sono state obbligate a lasciare le loro immagini su siti pornografici dai quali non riusciranno a cancellare le loro tracce. Dopo vicende del genere la riabilitazione sociale diventa ancora più complessa».
La sua franchezza non lascia spazio alla disillusione. L’impegno che mette Agathise nel suo lavoro è mosso dalla volontà di migliorare quanto più possibile la vita di chi resta ingabbiato nella rete della prostituzione. «La società è dinamica e bisogna sfruttare questa sua caratteristica. Anche se lo sfruttamento sessuale è sempre esistito non vuol dire che debba durare per sempre. I tempi cambiano ed è necessario fare il possibile affinché si prenda la strada più giusta». ■
1-2. Nelle immagini, il Red Light district, Amsterdam. Foto: Flickr
Le criptovalute, l'arma nascosta nello scontro tra Russia e Ucraina
FINANZA
Il supporto economico in tempo di guerra potrebbe cambiare: la rivoluzione tecnologica finanziaria è già realtà a Kiev di Chiara Boletti
«Se non ci credete o non lo capite, non ho il tempo di cercare di convincervi, mi dispiace», Satoshi Nakamoto, pseudonimo dell’inventore della moneta virtuale Bitcoin, rispondeva così agli scettici della sua creazione.
Senza tempo e necessità per essere persuaso dall’invenzione delle criptovalute è stato il governo ucraino che, dopo tre giorni dall'inizio del conflitto con la Russia, ha lanciato nel marzo 2022 la sua prima campagna di raccolta fondi di denaro digitale. Dopo l'invasione russa, l’Ucraina si è trovata di fronte un’ulteriore sfida, quella finanziaria, con i sistemi economici convenzionali vacillanti e sfide tra cui la corsa alle banche, un blocco del mercato valutario nazionale e una rapida svalutazione della sua valuta, la grivna ucraina.
Kiev ha sfruttato la velocità e la natura decentralizzata delle criptovalute adoperandole per raccogliere fondi e trovando in loro un alleato inaspettato. Nel contesto di emergenza, il paese si è rivolto a monete digitali come Bitcoin, Ethereum e Tether, solo alcune delle criptovalute più usate, utilizzando i social media per ottenere aiuti finanziari
immediati. Il governo del presidente ucraino Volodymyr Zelens'kyj ha lanciato delle campagne di raccolta fondi anche attraverso personaggi famosi come il pugile professionista Wladimir Klitschko, (fratello del sindaco di Kiev, Vitali Klitschko) che ha pubblicato la vendita di una collezione di NFT, l'acronimo di non fungible token, un asset digitale non copiabile che rappresenta un oggetto del mondo reale, per raccogliere fondi per la Croce Rossa e l'UNICEF.
Il risultato? Un flusso significativo di donazioni che ha mostrato il potenziale delle criptovalute nel rafforzare gli sforzi di difesa di un paese in tempo di crisi: “Il popolo ucraino è grato per il sostegno e le donazioni della comunità cripto globale mentre proteggiamo la nostra libertà”, ha twittato sul social X il governo ucraino nel maggio 2022. Lo stato non era del tutto impreparato a questa manovra. Prima dell'invasione russa, l’alta inflazione e la scarsa fiducia nelle istituzioni bancarie avevano già permesso il diffondersi di questa tipologia di operazioni secondo uno studio del Global Crypto Adoption Index di Chainalysis, società americana di analisi blockchain. La guerra ha accelerato un trend già esistente e
ha portato nel marzo 2022, ad un rapido processo di legalizzazione delle criptovalute nel sistema finanziario ucraino. Questo passaggio ha rimosso le barriere che impedivano gli scambi di monete digitali e ha permesso alle banche di aprire conti per le società di transazioni virtuali.
L’Ucraina, nel 2023, si è andata così a posizionare al quinto posto nell'indice di adozione globale delle monete digitali secondo Chainalysis. Oggi, mentre il conflitto è entrato nel suo secondo anno, oltre 230 milioni di dollari di attività blockchain (meccanismo di database avanzato che permette la condivisione di informazioni sugli scambi di criptovalute) sono stati donati agli sforzi bellici, secondo Elliptic, società di analisi blockchain: «Per la prima volta nella storia delle cryptoexchange, Binance per citarne una, sono entrate in un conflitto interstatale e, le compagnie produttrici di armi hanno accettato pagamenti in criptovalute», racconta Gian Luca Comandini esperto di blockchain e professore di cyber security nel Dipartimento di Economia e Diritto dell'Università degli Studi di Macerata. Nonostante questo successo, le somme raccolte attraverso criptovalute rimangono distanti dall’essere comparabili agli aiuti militari forniti tramite pacchetti di aiuti a Kiev dai paesi della comunità internazionale.
Le monete digitali che hanno contribuito a sostenere l'Ucraina in un
momento di estrema necessità sono però state e, vengono utilizzate, anche dall’altro fronte, la Russia: anche se in misura minore, Chainalysis riporta che circa 100 gruppi filorussi hanno raccolto 5,4 milioni di dollari in criptovalute solo nel 2023.
La velocità, l’immediatezza di invio e ricezione del denaro hanno dimostrato l’efficacia dello strumento virtuale per entrambi i fronti nel contesto bellico, mostrando come un loro potenziamento potrebbe avere gravi ripercussioni nel campo della sicurezza: «Pensare alle criptovalute come qualcosa di “spaventoso” è errato. L'arma non è la tecnologia, l'arma è nostra, di quelli che dovrebbero spegnere i conflitti. Quando si parla di tecnologia bisogna avere il rispetto della sua neutralità, non può essere il “male”.
Tutto dipende dall’uso che se ne fa», commenta Comandini. Sebbene dalla sua invenzione la tecnologia delle criptovalute è stata associata ad un uso non trasparente, la criticità delle operazioni non risiede nell’impossibilità di seguire gli scambi di criptovalute ma, della mancanza di strumenti capaci di tracciarne le transazioni: «Oggi esistono 14.000 criptovalute. Tutti stiamo guardando e stiamo parlando di Bitcoin, ma se si usasse una delle altre 13.999, seppur tracciabile, nessuno se ne accorgerebbe. Sarebbe come cercare un ago nel pagliaio», continua il professore di cyber security.
La possibilità che non solo singoli individui ma anche governi decidano di effettuare transazioni verso paesi terzi tramite criptovaluta, senza possibilità di essere tracciati e lasciando l’opinione pubblica e il mondo all’oscuro, è ora una possibilità reale: «È già una realtà più che probabile. Tra dieci anni, magari, avremo gli strumenti per risalire retroattivamente agli scambi monetari nascosti tra paesi».
Questa tecnologia neutrale che può però essere utilizzata in milioni di modi, e per altrettanti scopi, è stata investita recentemente da un’impennata: il Bitcoin è infatti cresciuto raggiungendo i massimi storici: « È una valuta appena nata, di cui ancora non abbiamo visto tutto il potenziale» commenta il professore. Il contesto in cui questo progresso avviene è quello in cui le nazioni del Brics, il nucleo inizialmente formato da Brasile, Russia, India, Cina, Sud Africa con l’aggiunta nel 2024 di Egitto, Etiopia, Iran ed Emirati Arabi Uniti, prevedono il lancio di un nuovo sistema blockchain per effettuare pagamenti al di fuori del sistema guidato dal dollaro: «Nonostante il mercato delle criptovalute rimarrà volatile, il trend premesso e promesso è quello di un'espansione continua trainata dal numero crescente di investitori, attirati dall' attenzione dell’opinione pubblica e dei media sul fenomeno», conclude Comandini. ■
La pandemia del debito globale
I Paesi poveri sull'orlo dell'insolvenza, mentre Cina e Stati Uniti lottano per l'egemonia
di Alessio Matta«Il debito non può essere rimborsato, innanzitutto perché se non lo restituiamo, i prestatori non moriranno. Ma se paghiamo, saremo noi a morire». Queste sono le parole pronunciate da Thomas Sankara, ex presidente del Burkina Faso, il 29 luglio del 1987 al vertice dell’Organizzazione dell’Unità Africana ad Addis Abeba, in Etiopia.
Al tempo, il Paese era indebitato con istituzioni finanziarie, come il Fondo Monetario Internazionale (Fmi) e la Banca Mondiale, e con alcuni governi stranieri. Questi prestiti venivano spesso concessi con condizioni economiche onerose, come politiche di austerità, privatizzazioni e aperture ai mercati globali, che potevano avere conseguenze negative sulle economie locali e sul benessere delle persone.
Il problema per molti Paesi del “Terzo mondo” è rimasto invariato rispetto al passato. L’aumento dei tassi di interesse ha intensificato la vulnerabilità economica: negli ultimi tre anni si sono verificati diciotto default sovrani in dieci Stati in via di sviluppo, un numero superiore a quello registrato nei due decenni precedenti. Al momento, circa il 60% delle nazioni a basso reddito è esposto a rischi elevati o già sull'orlo di insolvenza, come evidenziato nell'ultimo Rapporto della Banca Mondiale, pubblicato nel dicembre 2023.
Il 2024 è cominciato con il default dell’Etiopia: poco prima di Natale, il governo del secondo Paese più popoloso del continente ha dichiarato di non poter pagare la rata di 33 milioni di dollari ai fondi pensione e altri creditori del settore
privato, che detenevano il relativo bond. Il fallimento dell’Etiopia è il terzo registrato in Africa dopo la pandemia, con lo Zambia che ha inaugurato la serie nel novembre 2020 e il Ghana che ha seguito nel dicembre 2022.
A compromettere il quadro hanno contribuito da una parte gli strascichi della crisi del Covid-19, con ampliamento del deficit di bilancio e rallentamento della crescita economica, dall’altro il rialzo dei tassi di interesse deciso dalla Federal Reserve degli Stati Uniti, che ha avuto effetti devastanti sui debiti esteri denominati nel biglietto verde, la principale valuta delle banche centrali del mondo.
Una delle principali sfide di questi Stati deriva dagli impegni finanziari contratti nella loro moneta. Come spiegano
i giornalisti Gabriele Steinhauser e Chelsey Dulaney del Wall Street Journal, molti economisti avevano consigliato ai tempi delle crisi in America Latina e in Asia degli anni Ottanta e Novanta ai governi dei paesi poveri di indebitarsi nelle monete locali.
“Le cose non sono andate come pensavano”, spiega il quotidiano statunitense. Prima di tutto, anziché utilizzare i finanziamenti in valuta nazionale per ridurre il deficit denominato in dollari, molti governi hanno preferito accrescerlo e finanziare spese correnti aggiuntive attraverso questi prestiti. Di conseguenza, i debiti in valuta nazionale rappresentano ora il principale fardello per i loro bilanci, con tassi di interesse molto superiori a quelli applicati sui dollari.
Questo contesto non permette di destinare risorse agli investimenti nella sanità, nell’istruzione e in altri settori chiave della vita economica e sociale. Quest'anno, lo Sri Lanka, uscito da grave crisi finanziaria, utilizza il 40% delle sue entrate per coprire gli oneri finanziari relativi ai prestiti ottenuti nella valuta nazionale. Nel 2022, questa spesa ha assorbito un terzo delle entrate del Ghana, con gli interessi sui titoli a tre mesi arrivati al livello record del 36%. Nel 2024, il Pakistan pagherà interessi sui debiti in valuta locale pari a più della metà delle sue entrate, sette volte quello che spende su
contatti sarebbero cominciati poco prima del vertice tra il presidente statunitense In questa drammatica condizione per il Sud globale, gli Stati Uniti e la Cina hanno cominciato a discutere nuove misure per prevenire un’ondata di insolvenze sul debito pubblico delle economie emergenti.
Lo ha scritto l’agenzia internazionale Bloomberg, citando fonti vicine ai negoziati. I contatti sarebbero cominciati poco prima del vertice tra il presidente statunitense Joe Biden e quello cinese Xi Jinping a San Francisco avvenuto nel novembre 2023. Washington è più influente nel sistema finanziario globale e nelle strutture del Fmi, invece Pechino è il principale creditore dei paesi in via di sviluppo ed è sempre più spesso un prestatore globale alternativo agli Stati Uniti e all’occidente.
Se la condizione economica per le economie emergenti non è delle migliori, anche in Occidente non si intravedono buone notizie per i prossimi mesi. Il debito mondiale non è mai stato così elevato e nel 2023 ha toccato il massimo storico a quota 313 mila miliardi di dollari, con un aumento rispetto al 2022 di poco più di 15mila miliardi. La fotografia scattata dall’Institute of International Finance (IIF), la principale lobby finanziaria globale, racconta un mondo sempre più indebitato: hanno un forte peso gli strascichi della pandemia, la guerra in Ucraina e
il conflitto in Medio Oriente.
Crescono gli impegni finanziari dei grandi Paesi sviluppati, in particolare degli Stati Uniti, della Francia e della Germania, mentre le diseguaglianze aumentano. Al contempo si registrano crescenti rischi per la finanza internazionale, con un totale di debiti che si avvicina ai 70 mila miliardi di dollari. Anche in questo caso, si tratta di un record.
Nel 2020, l’ex presidente del Parlamento europeo David Sassoli propose la cancellazione dei debiti degli stati europei accumulati durante la pandemia, ma secondo il professore dell’Università Cattolica di Milano Carlo Cottarelli questo provvedimento non è efficace: «Ho già spiegato a Sassoli le difficoltà tecniche di applicazione di questa decisione. È un’operazione contabile, non lo farebbe diminuire».
Anche in Italia il debito pubblico è spesso considerato un “problema “storico” e secondo Cottarelli «saremo messi in procedure di deficit eccessivo in primavera assieme ad altri paesi europei, Francia compresa». ■
Il maestro del riso e del pianto Puccini cento anni dopo
«Siamo tutti pucciniani senza saperlo», la sua musica è ancora un punto fermo nei cartelloni dei teatri di tutto il mondo
«Devi piangere quando vuole lui e devi ridere quando vuole lui. Non c'è scampo! Le sue opere sono come una specie di pianta carnivora che ti avvolge piano piano. Dopo un po’ sei in balia di Puccini. Non c'è niente da fare!» spiega Michele Dall’Ongaro, compositore, musicologo e Presidente dell’Accademia
Nazionale di Santa Cecilia a Roma. «La capacità di dominare le emozioni di chi ascolta è una delle sue caratteristiche principali. Se lui decide che a partire da quella battuta devi cominciare a piangere, lo farai. E questo vale per tutti, nessuno escluso», ribadisce con la passione di chi è stato conquistato e ha capito nel profondo la musica di Giacomo Puccini. A cento anni dalla sua morte, presso l’Auditorium Parco della Musica, Dall’Ongaro lo omaggia con un ciclo di conferenze che guidano il grande pubblico all’ascolto delle sue opere.
«Non era uno studente brillantissimo, rubava le canne degli organi e le rivendeva per comprarsi sigarette e altre
cose da condividere con i suoi compagni» continua il presidente raccontando i suoi esordi. «Ha rischiato di essere espulso da tutto, ma aveva un grande talento, una madre che lo ha molto aiutato e un ambiente che credeva in lui». Un concetto quest’ultimo, di cui il musicologo sottolinea l’importanza più volte: «La sua grande fortuna è stata di incontrare sulla sua strada Giulio Ricordi». Nella seconda metà dell’Ottocento gli editori musicali erano come i produttori cinematografici di oggi. Si contendevano gli artisti anche con mezzi non del tutto leali. E Ricordi, secondo alcuni, ha fatto perdere di proposito un concorso al giovane Puccini pur di accaparrarselo. Se lo avesse vinto, sarebbe entrato
nel libro paga del suo rivale, l’editore Edoardo Sonzogno. «Invece è stato lui a produrgli la sua prima opera, Le Villi, che è andata benino, e poi Edgar, che è stato un fiasco», spiega Dall’Ongaro. «A quel punto, il consiglio di amministrazione avrebbe voluto cacciare il giovane compositore, ma Ricordi ha continuato a finanziarlo, minacciando di andar via lui stesso se i soci non avessero appoggiato la sua decisione». Il successo clamoroso di Manon Lescaut, terza opera di Puccini, gli darà poi ragione, e segnerà l’inizio della strepitosa carriera dell’artista.
Mai sazio di emozioni, il compositore lucchese ha vissuto rincorrendo le proprie passioni: le amicizie con persone semplici, la caccia, le donne – molte sono state le relazioni adulterine – il fumo che lo ha portato alla tomba con un cancro alla gola, e poi la musica, in cui ha trasferito tutta la sua intensità. È lui a scegliere i soggetti delle opere più famose, storie piene di violenza, ardore e sensualità, talvolta scabrose e brutali. Ed è lui a rincorrere e braccare gli autori perché gli concedessero i diritti, come è accaduto allo statunitense David Belasco. «Puccini assiste ad una tragedia su una geisha giapponese, Madama Butterfly, che viene sedotta e abbandonata da un soldato americano» racconta Dall’Ongaro, «e pur non capendo una parola d’inglese, viene subito conquistato da quella carica drammatica che smuove i suoi umori profondi. Concluso lo spettacolo, si precipita da Belasco, che in seguito scriverà: “Come si fa a resistere ad un italiano in lacrime che ti mette le mani al collo?”».
Uno dei segreti che ha reso le opere di Puccini tanto popolari è la perfetta compenetrazione fra parole e musica, raggiunta grazie alla preziosa collaborazione di Luigi Illica e Giuseppe Giacosa, entrambi librettisti e drammaturghi che Ricordi stesso affianca al suo pupillo. «Il primo scriveva il trattamento, trasformandolo poi in un soggetto che oggi definiremmo cinematografico, con atti e scene ben costruite. Giacosa invece metteva tutto in versi» spiega il compositore.
Al loro talento per la scrittura si univa quello di Puccini nel creare melodie indimenticabili, un’abilità che perfeziona traendo ispirazione sia da Verdi che da Wagner. Grazie alla sinergia fra queste tre menti, soprannominate dall’editore milanese “la santissima trinità”, nascono opere in cui l’elemento patetico, drammatico e comico sono sempre mescolati con sopraffina bravura.
Negli ultimi tempi si è diffusa negli ambienti culturali anglosassoni una certa ostilità verso Puccini, considerato misogino perché ha scelto di mettere in scena storie in cui le figure femminili subiscono un destino terribile. Ma Dell’Ongaro su questo argomento è netto: «Penso che si debba andare molto cauti nel rimaneggiare i classici. Non mi sembra che ci aiuti a capire il passato, a comprendere il presente o a organizzare il futuro. Puccini era un uomo del suo tempo, maschilista e donnaiolo. Questo però non deve influenzare il nostro modo di vedere l’artista che è in lui». E a proposito dei personaggi che mette in scena precisa: «Lui dà spazio a un nuovo tipo di donna che non era ancora stata raccontata nel teatro: forte, decisa, fa quello che vuole e riesce ad essere padrona del suo destino».
Si pensi a Minnie, la protagonista di La Fanciulla del West, l’unica donna a dirigere un saloon, circondata da 80 ceffi che tiene sempre in pugno; a Tosca, che resiste alla violenza di Scarpia e lo ammazza pur di salvare il suo amato, o a Madama Butterfly, che alla fine decide di suicidarsi per sua libera scelta e non per sacrificarsi, senza dimenticare Turandot, che gli uomini li uccide prima che le si possano avvicinare. «Perciò è sbagliato appiccicare etichette facili al teatro di Puccini, che invece è davvero molto complesso» conclude Dall’Ongaro.
piangere quando vuole lui e devi ridere quando vuole lui
Non c'è scampo!»
Lavoratore accanito, intransigente e ambizioso, il compositore lucchese si è tenuto aggiornato sulle nuove tendenze musicali, soprattutto nell’ultima parte della sua vita, in cui sperimenta molto. Dopo aver raggiunto una fama mondiale, era terrorizzato dalla possibilità di essere oscurato da nuovi talenti. La sua eredità, però, è stata raccolta da molti dei suoi successori, da Stravinskij a Nino Rota, e ancora oggi, le sue opere toccano l’anima e il cuore di milioni di persone. «Tutta la cultura si è impregnata di Puccini, alta, bassa e in ogni angolo del mondo» afferma Dall’Ongaro. «Siamo tutti pucciniani, anche senza saperlo». ■
1. Locandina di Turandot, l'ultima opera scritta da Puccini è rimasta incompiuta
2. Ritratto di Giacomo Puccini-Arturo Rietti (1906)
Compagna Giulia, dalle piazze alla biblioteca del mare aperto
EDITORIALetteratura e oceano nella storia di una sub esperta tra militanza politica anni '60 e immersioni
di Giulia RugoloUn marinaio guarda dritto davanti a sé, mani sui fianchi, mentre accoglie i visitatori di un posto immerso tutto nel blu. È la gigantografia di Corto Maltese, il celebre protagonista dei fumetti di Hugo Pratt, e si trova su una porta dietro al bancone. Sugli scaffali ci sono modellini di barche a vela, di fari in legno o in latta, a righe blu o rosse, e miniature di sirene sparse per tutto il negozio. Poi i libri su squali, conchiglie, isole, animali marini, pirati, avventure di grandi scrittori tra le onde. L’oceano prende vita tra le strade di Roma, a pochi passi dal Circo Massimo, grazie alla libreria Il Mare, fondata da
Giulia D’Angelo, una delle prime donne subacquee italiane, e da anni guidata da Marco Firrao, suo figlio.
Sul loro sito, questo luogo viene definito come un emporio, «punto di riferimento unico per tutti gli amanti della nautica da diporto e da competizione, per i patiti dell’esplorazione sottomarina, in apnea e con le bombole». Per spiegare cosa si intende per “cultura del mare”, Marco prende spunto da Siamo figli dell'oceano di Michel Odent, medico francese, un libro uscito da poco: «Lui dice: “Noi ci chiamiamo terra, ma in realtà ci dovremmo chiamare oceano, perché il 70% della superficie terrestre è acqua e molto probabilmente il primo uomo ha preso nutrimento dalle rive marine, quindi è stato prima pescatore e poi cacciatore”. È un’idea di Odent, ma molto probabilmente è vera. Molte persone non si rendono conto di quante cose esistano, nel campo dell’editoria e non, che avvengono sul mare, per il mare, attraverso il mare».
Il negozio viene inaugurato nel 1975 a piazza Farnese: «Venti metri quadri di libreria tutta blu». Nel 1977, Giulia e Marco si trasferiscono a via Ripetta, poi in altri luoghi vicino Piazza del Popolo, per spostarsi definitivamente in via Leon Battista Alberti, due anni fa.
L’amore per l’oceano gli è stato trasmesso dal padre, Luigi Firrao detto “Zizzi”, subacqueo esperto, morto per un incidente durante un’immersione a Porto Ercole nel 1975. «Questo mondo ci è rimasto addosso per sempre, perché una volta che uno scopre il mare non lo abbandona più. Tutto ciò si è poi unito al grande trasporto che ho sempre avuto per i libri. A casa ho una biblioteca di quattro generazioni. Si parte dal ‘700, quindi è una cosa proprio di famiglia», svela il proprietario.
Folco Quilici, regista, fotografo e scrittore, è considerato dalla fondatrice il “custode” della libreria. «È stato un grande personaggio che ha scritto,
filmato e raccontato di mare. Ci ha fatto amare e sognare la Polinesia nei suoi film. È diventato il padrino di questo luogo, perché io lo amavo, lo cercavo, mi aveva affascinato. Sono andata a parlare con lui per andare in Polinesia, sott’acqua, verso i primi anni ‘70. Poi ha iniziato a venire sempre da noi, perché io lo invitavo a presentare dei libri», dice Giulia.
La fondatrice ricorda il suo passato nel Partito Comunista Italiano (PCI) insieme al suo compagno “Zizzi” e le difficoltà incontrate per conciliare la loro passione per le immersioni con gli impegni politici. Racconta che furono radiati, perché cercavano di «stare sempre dalla parte degli studenti e degli operai» e concordavano con gli ideali del manifesto, quotidiano comunista fondato nel 1971 da un gruppo di intellettuali dissidenti del PCI, dove furono assunti poco dopo. «Eravamo degli scissionisti, rappresentavamo la sinistra del comunismo italiano in quel momento».
«Pietro Ingrao [leader della sinistra interna al partito, ndr] si rimangiò quello che aveva detto all’inizio e addirittura votò a favore della cacciata dei compagni del manifesto: Aldo Natoli, Luciana Castellina, Luigi Pintor, Valentino Parlato e Lucio Magri. Io avevo fatto una scommessa con Luciana e Valentino: “Vedrete che comunque cacceranno prima me e ‘Zizzi’ di voi”. Diciamo che la linea generale era farci mandare via, evitando di lasciare il PCI per decisione personale. Inutile dire che vinsi la scommessa e dovettero offrirci un pranzo», aggiunge lei sorridendo.
Giulia menziona anche un episodio che l’ha coinvolta quando già non faceva più parte del partito: «Mentre io lavoravo, l’8 marzo vennero dei colleghi del giornale a dirmi: “Stai su tutti i muri di Roma!”. In pratica il PCI aveva affisso un manifesto con una mia foto con su scritto “essere donna, essere comunista”. Peccato che mi avessero già cacciato da tempo».
L’immagine era stata scattata durante lo sciopero generale degli edili del 1969. Lei era scesa in piazza con una bandiera rossa a manifestare e incontrò un gruppo di sindacalisti dell’Emilia-Romagna, che gliela strapparono dalle mani per buttarla a terra. Questo perché era una protesta sindacale e, secondo loro, non si potevano portare simboli rossi. «Non c’erano neanche la falce e il martello del PCI», dice la fondatrice. Un fotografo la immortalò mentre, con la bandiera arrotolata intorno al corpo, aveva lo
sguardo perso perché non trovava più i suoi compagni. «Questa fotografia è evidentemente piaciuta al Partito Comunista, che ha stampato il poster e lo ha attaccato ovunque. Avrei voluto fargli causa, ma naturalmente non l’ho fatto».
Il Mare di Giulia e Marco è spesso coinvolto in molti eventi culturali, organizzati all’interno o all’esterno del negozio. «Abbiamo fatto grandi cose, come per esempio una rassegna a Piazza del Popolo, Amor di mare, giocando sul fatto che Roma al contrario è "amor". Abbiamo collaborato anche con
l’imbarcazione del Consiglio Nazionale della Ricerca, la Bannock, che poi hanno demolito. Si trattava di una biblioteca navigante che ha girato tutta l’Italia», dice Marco.
«Più che una semplice libreria, noi abbiamo cercato di fare amare agli italiani il mare in tutti i modi e lo abbiamo fatto perché siamo appassionati, ci crediamo. La cultura è importante, senza non si fa niente», conclude la donna. ■
1. Libreria Il Mare.
2. Giulia D'Angelo in un'immersione in Turchia.
3. Giulia D'Angelo e Marco Firrao.
Da Ferragosto a Natale sull'orlo della crisi di nervi
CINEMA
Le ferie estive e invernali raccontate nei film di Virzì e dei fratelli Vanzina
di Francesco EspositoDopo quasi trent’anni, Paolo Virzì riporta i Molino e i Mazzalupi a Ventotene. Il 7 marzo è uscito nelle sale "Un altro ferragosto", sequel di "Ferie d’agosto", primo grande successo del regista livornese, che vinse il David di Donatello come miglior film nel 1996. Le due famiglie, espressioni di culture opposte in un decennio di grandi trasformazioni, si trovano a trascorrere le vacanze l’una a fianco all’altra, entrando presto in conflitto. Fra gli scogli e la macchia mediterranea ritornano molti personaggi, ma altri no. Non ci sono Ruggero e Marcello, interpretati dai compianti Ennio Fantastichini e Piero Natoli.
La vita sull’isola è cambiata o forse è solo stata raggiunta dal presente: arrivano le app, le influencer e la fluidità di genere; spariscono gli ideali, incarnati ormai solo da uno stanco e malato Sandro Molino (Silvio Orlando). La contrapposizione fra berlusconismo e antiberlusconismo ha lasciato il posto a quella, più attuale, fra nazionalismo ed europeismo. Nel sequel, ampio spazio è dato al ricordo dell’esperienza dei confinati e del Manifesto di Ventotene, in cui gli antifascisti Altiero Spinelli, Ernesto Rossi e Eugenio Colorni prefigurarono l’Europa unita.
Ancora una volta, le vacanze sono l’espediente con cui il cinema prova a raccontare gli italiani e le loro trasformazioni. Lo hanno fatto i due film di Virzì, ma anche, secondo generi e contenuti differenti, quelli di Carlo ed Enrico Vanzina, in particolare con la serie "Vacanze di Natale". La coppia di fratelli ha scritto e diretto solo due episodi, l’originale del 1983 e il remake del 1999. Il fenomeno dei cinepanettoni, infatti, sarebbe da im-
putare ad Aurelio De Laurentiis, il quale avrebbe capito che «all'insegna della serialità poteva sfruttare quel filone», come dichiarato da Enrico in un’intervista all’Agi dello scorso dicembre.
La Ventotene di Virzì e la Cortina d’Ampezzo dei Vanzina sono contesti vacanzieri diversissimi. Entrambi, però, subiscono l’evolversi del turismo di massa.
L’isola del Tirreno, fino a qualche decennio fa sconosciuta rispetto alla vicina Ponza, non è più il paradiso rustico di "Ferie d’agosto". «Piccoletta ma gagliarda», come dice Marcello. Nel casale di Sandro Molino e dei suoi amici oggi c’è l’elettricità e al porto non sbarca più solo chi cerca un contatto più immediato con la natura. Non c’è più Rosario con il suo taccuino ad affittare le villette, ma la figlia Irene, che gestisce un moderno e computerizzato bed and breakfast diffuso. Anche il festival cinematografico organizzato da Mauro nel sequel, per quanto sfigato, rende l’idea delle iniziative che molti portano
avanti per provare ad attrarre un turismo più colto e altolocato. Il Ventotene Film Festival esiste davvero ed è arrivato alla ventottesima edizione.
La Perla delle Dolomiti dei Vanzina, nelle due pellicole distanti sedici anni, continua ad essere regno di grandi alberghi e, per i frequentatori di più vecchia data come i protagonisti Covelli, «palazzi d’inverno» di famiglia. Cortina, però, appare sempre più avviluppata in un circolo vizioso di apparenza, di cui tutti vogliono far parte. È esemplare la storia dei due giovani bolognesi Paolo e Roberto in "Vacanze di Natale 2000", che si fanno passare per ereditieri solo per fare colpo su ragazze che, come nel più classico degli equivoci, stanno mentendo anche loro sulla propria identità. La fama della località si è man mano fusa con quella del film, che con gli anni è diventato un cult. Il tutto è culminato nei festeggiamenti, a dicembre scorso, per il quarantesimo anniversario della pellicola.
Queste opere parlano anche delle famiglie italiane, le cui tensioni spesso raggiungono l’apice proprio durante le vacanze. Allargate, ristrette, affettuose e ipocrite, sempre più diverse. I Molino sono già nel 1996 atipici, fra padri chiamati per nome e mamme che si riscoprono omosessuali. Si arricchiscono solo di un «rapporto irrisolto tra un padre e un figlio (Sandro e Altiero), fatto di nodi mai sciolti e di un’incomprensione anche dolorosa», come dichiarato dal regi-
sta. Mentre i Mazzalupi, da essere la più classica «famiglia infelice», come dice in lacrime la figlia Sabrina, di quelle che si portano in vacanza anche la nonna, si allargano, per provare a compensare lutti e dolori.
Ciò che accomuna il racconto di Virzì e Vanzina, però, sembra la volontà di portare gli italiani a confrontarsi con sé stessi e con le chiusure mentali che li separano dai propri concittadini, dall’«uomo della porta accanto», come osserva l’adolescente Ivan in "Ferie d’agosto".
Mario Marchetti (Claudio Amendola) e i suoi genitori in "Vacanze di Natale" – accompagnati in ogni apparizione da “Grazie Roma” di Venditti – e i Mazzalupi, sono simili fra di loro e anche a tantissimi altri italiani: piccoli commercianti che hanno «lavorato tanto», si sono «tolti soddisfazioni» e non si sentono «inferiori a nessuno», come afferma Ennio Fantastichini nella scena del finto talkshow nel primo film di Virzì. Nonostante questo, le due famiglie di Roma Sud, desiderose di staccarsi dalla routine di Ovindoli, Nettuno e Santa Marinella, sono vittime di un pregiudizio elitario, che le vede estranee a quelle località turistiche.
«Ad agosto dell’81 eravamo qui in 11. Adesso Ventotene è finita» dice in "Ferie d’agosto" Roberto, giramondo non governativo e don Giovanni fricchettone, interpretato da Gigio Alberti. Lo ripete anche nel sequel di quest’anno ad alcune ragazze, per cui, però, complici i capelli bianchi e una maggiore sensibilità sul tema, risulta solo un vecchio bavoso. «Scusa eh, ma se i Torpigna (del quartiere popolare di Torpignattara, ndr), dopo averci invaso Piazza di Spagna», si lamenta sconsolata l’aristocratica signora Covelli, «ci invadono anche Cortina, allora non lo so, vendiamoci la casa e amen». Tipi umani distanti come sistemi solari, ma uniti dalla nostalgia per un tempo in cui «venivamo solo noi qui». ■
1. Laura Morante in "Un altro ferragosto", Paolo Virzì, 2024. Fonte: 01Distribution.it.
2. I Molino in "Un altro ferragosto", Paolo Virzì, 2024. Fonte: 01Distribution.it.
3. Sabrina Ferilli e Paolo Natoli in "Ferie d'agosto", 1996. Fonte: Wikimedia Commons. 3
Il volto femminile del rugby tra sogni e passione
La giocatrice della Nazionale italiana, convocata per il torneo Sei Nazioni, dice: «Cariche, pronte a bissare le vittorie dei colleghi maschi»
di Isabella Di Natale
Ha gli occhi verdi e una voce dolce Emanuela Stecca, rugbista trevigiana che la potenza la mette solo sul campo. «Non ho subìto pregiudizi per lo sport che pratico, anche se ogni tanto qualche vecchia guardia mostra scetticismo», dice l’atleta, che confida nel cambio di passo delle nuove generazioni. «Le cose stanno cambiando, oggi c’è molto interesse verso il rugby femminile».
Ventisette anni, appassionata di Grey’s Anatomy, sogna di vincere lo scudetto con la sua squadra, il Villorba, «ma anche di aprire un food truck», aggiunge, pensando al futuro. L’azzurra è impegnata con la preparazione del torneo Sei Nazioni 2024, dove il gruppo affronterà Inghilterra, Irlanda, Francia, Scozia e Galles. Nella vita di tutti i giorni si divide tra gli allenamenti serali e il lavoro nella macelleria di famiglia. «Capita che i clienti appassionati di rugby facciano qualche commento sulle partite in cui gioco», racconta Emanuela con un filo di imbarazzo.
Proprio alla clientela della bottega deve l'ingresso nel mondo della palla ovale: «Alcune persone, mentre facevano la spesa, si fermavano a parlare con mio zio delle squadre femminili di rugby. Così ho deciso di provare». Da allora non ha più smesso: con la Benetton Treviso vince il campionato Under 16, per poi prendere parte, come seniores, alla Serie A.
La convocazione per la Coppa del Mondo in Nuova Zelanda arriva nel 2022, quando l’Italia raggiunge per la prima volta i quarti di finale. Emozioni sempre più forti a cui si accompagna «la paura di non essere all’altezza», racconta la giocatrice. A regalarle un momento irripetibile è la prima partecipazione al Sei Nazioni, nel match contro la Francia: «Ho fatto il mio primo Cap davanti a uno stadio pieno. È stato così emozionante che non riesco a ricordare quel momento».
Dietro ogni successo ci sono dedizione, impegni e sacrifici che a Emanuela non sono mai pesati: «Ho messo da parte la vita sociale, ma non ne ho mai sentito la mancanza. Lo sport è la mia routine da quando avevo dodici anni». A darle la giusta carica, oltre alla musica che ascolta prima di ogni partita, ci sono le compagne di squadra, diventate amiche e famiglia: «Nel team ci sono diverse personalità, siamo tutte un po’ “pazze”, ci divertiamo molto insieme», racconta. «Non avendo tempo per una vita fuori è molto importante creare forti legami all’interno del
gruppo». La solidarietà e il rispetto degli altri sono elementi cardine del mondo rugbistico, così come la capacità di resistenza, valori che Emanuela conserva dentro e fuori dal prato verde: «Ho imparato che anche nelle difficoltà devi sempre trovare un modo per risalire. Mai arrendersi».
«Ho messo da parte la vita sociale, ma non ne ho mai sentito la mancanza»
Con orgoglio e responsabilità oggi veste i colori della nazionale, una maglia Azzurra che considera «un grande privilegio, un motivo per ricordarsi che il torneo è un punto di partenza e non di arrivo». Le due vittorie storiche dell’Italia al Sei Nazioni maschile appena concluso danno alle giocatrici carica e positività: «Sono stati bravi, noi speriamo di fare lo stesso…o anche di più», precisa sorridendo. Alle ragazze che vogliono avvicinarsi al mondo del rugby dice: «È uno sport che ripaga di tutte le fatiche perché, al di là del risultato, torni a casa sempre con qualcosa in più. Si vince anche quando si è perso in campo». ■
1. Emanuela Stecca con la maglia dell'Italrugby. Fonte: Ufficio stampa Federazione Italiana Rugby femminile.
2. Emanuela Stecca in azione durante Galles-Italia, nel torneo Sei Nazioni 2023. Fonte: Ufficio stampa Federazione Italiana Rugby femminile
Fratello pitbull, moto Ducati
ADRENALINA
Marco Bezzecchi, uno degli italiani in gara nel motomondiale, ci racconta chi è e come si svolge la vita di un pilota
di Caterina Teodorani«Cerco di seguire la stessa routine per tenere alta la concentrazione. Guai a cambiarne l’ordine e, soprattutto, cerco di avere vicino le persone che mi fanno stare bene». Si presenta così Marco Bezzecchi raccontando le sue abitudini pre-gara. Classe 1998, il pilota romagnolo, forte in frenata e nell’ingresso in curva, corre nel mondiale di MotoGP. «Quest’anno, con la nuova moto, la Ducati Desmosedici GP 23, sto facendo un po’ fatica, ho dovuto fare qualche cambio a livello di stile, ci sto ancora lavorando, ma torneremo presto a lottare con i più forti». Periodo di cambiamenti: anche la livrea è diversa dagli anni scorsi, giallo fluo con dettagli rossi e bianchi, «forse non si è mai vista così in questo campionato, mi piace e penso sia una bella modifica».
È la terza stagione in top class per l’atleta, che da quest’anno fa parte del Pertamina Enduro VR46 Racing Team, satellite di Ducati. Le due squadre lo stanno supportando «al massimo», in un anno che si prospetta tosto: «Mi aspetto che sia una stagione difficile come sempre, il livello è alto, i piloti sono fortissimi, sarà si-
curamente dura ma speriamo di poter dire la nostra». Bezzecchi parla al plurale, per sottolineare che dietro ai successi e alle sconfitte non è mai solo, ma c’è una sinergia che caratterizza la famiglia allargata di cui fa parte. «Siamo un grande gruppo, dal management, alla mia squadra tecnica, fino ai ragazzi e alle ragazze che lavorano in hospitality o in ufficio a Tavullia».
Il rider è entrato nella squadra creata da Valentino Rossi, la VR46 Riders Academy, nel 2020: «Venivo da un periodo non facile, mi hanno accolto, sono tornato ad andare forte. Senza Vale, Uccio, Pablo non sarei qui adesso», sottolinea il motociclista, mostrando forte riconoscenza per le persone che lo accompagnano nel percorso, dentro e fuori dal circuito.
Quando non è in sella al suo bolide, Marco si allena ogni giorno in palestra a Pesaro con Carlo Casabianca, il preparatore atletico dell’Academy. Non mancano le attività di motorsport, linfa vitale per lui, come il go-kart, il cross e le corse al ranch di Rossi.
L’atleta di Rimini è riuscito a concretizzare un sogno, trasformare la propria passione in una professione: «Faccio quello che mi piace, ma questo richiede molto impegno. Allenamenti, lavoro ma anche analisi dei dati, meeting tecnici e, soprattutto, la gestione della tensione nel weekend di gara». Non ha un mental coach, ma quello psicologico «è un aspetto altrettanto importante da curare per essere competitivi».
Obiettivi per questo campionato? «Fare meno errori dello scorso e condurre una stagione sempre ad un buon livello, voglio essere costante nel rendimento», cosa non possibile nel recente passato a causa dell’infortunio alla clavicola.
Bezzecchi, sulle due ruote o meno, cerca di essere sé stesso, è legato alle sue origini e ha le idee chiare: «Sono un ragazzo normale, abito nello stesso posto da sempre, non lo lascerei mai. Mi divido tra allenamenti, famiglia, amici e Rubik». Il suo pitbull marrone con gli occhi color miele è come un fratello, così chiamato per l’omonimo cubo magico. Una vita tranquilla che compensa l’adrenalina in pista. ■
Parole e immagini
FILM
Inshallah a boy, una storia di resistenza femminile
Giordania
2024 di Amjad Al Rasheed di Chiara Grossi
“Se Dio vuole un maschio”, è la traduzione di Inshallah a boy, prima pellicola candidata all’Oscar per la Giordania nella categoria “Miglior film internazionale”, diretta dal regista Amjad Al-Rasheed. Nelle sale italiane dal 14 marzo, il film mette in scena il dramma di Nawal, giovane vedova che deve sopravvivere, insieme alla piccola figlia Nora, in una società patriarcale e maschilista, nello sfondo della caotica città di Amman. Mentre la donna sta provando a concepire un altro figlio, la sua vita viene sconvolta dall’improvvisa morte del marito. Al dolore, però, viene lasciato poco spazio: la scomparsa dell’uomo, in quanto pater familias, limita la sua libertà quotidiana. Nel rispetto del lutto, infatti, le è concesso uscire solo per lavoro, con l’obbligo di tornare a casa prima del tramonto perché, secondo la credenza comune, il buio rappresenta il male che induce in tentazione.
Gli equilibri della storia non fanno che incrinarsi alla presenza del cognato Rifqi che, con insistenza, la esorta a pagare le ultime rate del pick-up, venduto tempo prima al fratello defunto. Diventa sempre più invadente, fino ad avanzare pretese di eredità anche sull’abitazione dove lei e la figlia vivono e sulla custodia stessa della bambina.
I sentimenti passano in
secondo piano per lasciare spazio al tema della proprietà che, secondo la realtà giuridica che segue la Sharia – l’insieme dei precetti ricavati dal Corano – viene considerata di esclusivo dominio maschile.
In Giordania, infatti, la Sharia è applicata anche per la risoluzione di dispute familiari ed ereditarie: in caso di decesso dello sposo, la consorte non ha il diritto di ereditare beni e immobili, a meno che non abbia figli maschi. La sola speranza di Nawal di essere rimasta incinta di un bambino, che la tutelerebbe dalle pretese del cognato, si infrange davanti a un test di gravidanza negativo.
A questo punto il suo dramma personale si intreccia con quello di Lauren, figlia della padrona di casa per cui lavora come badante. La ragazza, dall’animo ribelle e insofferente ai dettami religiosi, cerca di uscire da un matrimonio infelice e di mettere fine ad una gravidanza indesiderata. Nawal, al contrario, da sempre moglie devota e rispettosa della legge islamica, ora è una vedova che vede nella maternità l’unica ancora di salvezza. Nasce così il sodalizio tra due donne, due facce diverse della stessa società che ritiene il silenzio e la sopportazione femminile un atto dovuto in nome
della buona reputazione e del bene familiare. La protagonista è tradita da tutti gli uomini della sua vita, dal fratello Ahmad, che non riesce a sostenerla come dovrebbe perché troppo ancorato alla tradizione, e persino dal defunto coniuge, che scopre essere stato infedele e bugiardo. Pur di mantenere la custodia di Nora e non essere sfrattata, finge di essere incinta, cedendo al peccato delle menzogne e andando contro la sua moralità. Questa bugia, però, non può proteggerla a lungo: costretta da Rifqi e da Ahmad a ripetere le analisi
in loro presenza, si fa strada l’idea di star per perdere ogni cosa. È una donna in gabbia, intrappolata come il topo che infesta la cucina e dal quale lei è spaventata. Ma quando l’epilogo sembra già scritto, quasi come un segno divino, il test risulta positivo, concedendo a madre e figlia di ricostruire la loro vita su nuove consapevolezze.
“Speriamo che sia un maschio” non è solo il desiderio di Nawal, ma dello spettatore stesso, che rivela un sollievo dolceamaro: la donna mantiene i suoi diritti solo grazie ad un figlio non ancora nato.
Luiss Data Lab
Centro di ricerca specializzato in social media, data science, digital humanities, intelligenza artificiale, narrativa digitale e lotta alla disinformazione
Partners: ZetaLuiss, MediaFutures, Leveraging Argument Technology for Impartial Fact-checking, Catchy, CNR, Commissione Europea, Social Observatory for Disinformation and Social Media Analysis, Adapt, T6 Ecosystems, Harvard Kennedy School, Parlamento europeo
Master in Journalism and Multimedia Communication Show, don’t tell
Lectures: Marc Hansen, Sree Sreenivasan, Linda Bernstein, Ben Scott, Jeremy Caplan, Francesca Paci, Emiliana De Blasio, Colin Porlezza, Francesco Guerrera, David Gallagher, Claudio Lavanga, Eric Jozsef, Federica Angeli, Paolo Cesarini, Massimo Sideri, Davide Ghiglione
giornalismo.luiss.it