Inchiesta sui rifiuti a Roma
Periodico della Scuola Superiore di Giornalismo “Massimo Baldini” Numero 19 Aprile 2024Italian Digital Media Observatory
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Le proteste nelle
a
La parola
Il grande fuoco
di Chiara Boletti e Nicoletta Sagliocco
Roma
Cittadinanza attiva a Spin Time
di Matilda Ferraris
I lavori per il Giubileo di Gabriele Ragnini
I musicisti di strada dei Fori Imperiali di Valeria Costa
La Roma a colori di Alicè di Lorenzo Pace
Politica
Nuovo accordo sulla migrazione in UE di Alessio Matta
Le comunità giovanili di Alessandro Imperiali
Esteri
Elezioni in India di Michelangelo Gennaro
Lasciare Israele di Francesco Esposito
Photogallery
a cura di Luca Graziani
Società
Il lato oscuro della Gen Z di Gennaro Tortorelli
Viaggio nel mondo Incel di Chiara Grossi
Il prezzo della moda low cost di Laura Pace
Voglia di baby-giornalismo di Giulia Rugolo
Viaggiare al ritmo delle stagioni di Federica Carlino
Scienza e Ambiente
Alpi Apuane a rischio di Silvia Della Penna
Riciclo della plastica di Lavinia Monaco
Sostenibilità mestruale di Nicole Saitta
La minaccia del Fentanyl di Simone Salvo
Europa
L’Europa a fine legislatura di Matilde Nardi e Elisa Vannozzi
Sport
Lucrezia Ruggiero alle Olimpiadi di Isabella Di Natale
Davide Di Veroli a Parigi di Filippo Cappelli
Musica
Il nuovo indie romano di Massimo De Laurentiis
Il rapper iraniano dissidente di Sara Costantini
Cultura
Il concerto Candlelight di Caterina Teodorani
Lo Strega per la poesia di Alessandro Villari
Acca Larenzia, morte e amore di Asia Buconi
Letteratura
La
Metropoli
Dall’alto sembrano grandi mosaici, ognuno con i propri irripetibili contorni. I tetti dei quartieri formano geometrie di un puzzle, chilometri di strade si intrecciano come arterie di un centro pulsante mentre macchie di verde si nascondono dietro alle schiere di palazzi.
Man mano i dettagli si moltiplicano e la vista di una forma diventa l’esperienza di uno spazio. Il frastuono dei mezzi che sfrecciano per le vie, il brulicare frenetico di persone che si affrettano per le loro attività quotidiane, il costante brusio di conversazioni sospese nell’aria. Ogni angolo ha la sua atmosfera e il suo ritmo, solo entrando nel tessuto di questo ambiente si riescono a cogliere le energie e la diversità che lo compongono.
Il numero del mese è dedicato alla metropoli, che abbiamo voluto raccontare attraverso un gioco di luci e di ombre. Il cuore di queste pagine è un’inchiesta sui rifiuti a Roma, la prima metropoli della storia, che da anni soffre di una gestione problematica. Intorno a questo centro
abbiamo articolato altri racconti: il ruolo dei centri sociali nelle periferie, le storie degli artisti di strada, il fenomeno delle microcomunità che la città stessa spinge a creare, sia nel mondo fisico che in quello online. Il tema della città torna urgente e problematico dopo la crescita del turismo di massa e l’aumento delle disparità sociali seguite ad anni di pandemia e spazi deserti. Oggi più della metà della popolazione mondale vive in un ambiente urbano e secondo i dati dell’ultimo report delle Nazioni Unite UN-habitat, questa percentuale raggiungerà il 70% nel 2050.
Guardandole dall’alto, queste pagine riflettono i sentieri ambigui e le immagini chiaroscure che perimetrano lo spazio del nostro abitare. Se è vero, come diceva l’architetto Renzo Piano, che una città non è mai solo disegnata ma ha bisogno di essere ascoltata essendo il riflesso di tante storie, allora leggere la metropoli diventa una mossa necessaria per riconoscere il presente e immaginare il futuro.
Israele-Palestina, le proteste nelle
Da Sciences Po all'Università del Messico, gli studenti si mobilitano. Scontri con la polizia alla Columbia di New York e alla UCLA
università del mondo
University of Sydney, Australia
Il grande fuoco
RIFIUTI
Roma è soffocata da anni dalla sua stessa spazzatura. Il progetto del termovalorizzatore, da mettere in funzione entro fine 2027, sembra essere l'unica soluzione al problema dei rifiuti senza compromettere l'ambiente e la salute dei cittadini
di Chiara Boletti e Nicoletta SaglioccoPer le vie della città eterna vagano i fantasmi di epoche passate ormai dimenticate: imperatori, pontefici, generali, re. Un altro spettro, però, si aggira per le strade capitoline: la spazzatura. Nonostante denunce, reclami e anni di proteste la nota emergenza rifiuti a Roma è un nodo impossibile da sciogliere. Nessuno sembra essere responsabile, nessuna soluzione sembra fattibile. Ma è davvero così? Il termovalorizzatore di Santa Palomba, su cui punta tutte le carte la giunta del sindaco Gualtieri, sembra l'ipotesi migliore, ma allo stesso tempo solleva preoccupazioni per le conseguenze che l’impianto potrebbe avere su ambiente e salute.
A Roma, sono i sacchi di immondizia abbandonati ai margini dei marciapiedi e ammassati nei bidoni stracolmi, a spuntare nelle fotografie scattate dei turisti che passeggiano per la capitale. Il nauseante spettacolo non risparmia nessuna zona della città: dalle borgate in periferia fino al cuore pulsante del centro storico, la spazzatura invade la quotidianità di tutti, abitanti in primis, costretti a convivere con questo problema.
Ad occuparsi della (non)raccolta dei rifiuti è Ama, l’Azienda municipale ambiente, che gestisce per conto dell'ente Roma Capitale, suo socio unico, il ritiro, trattamento e lo smaltimento dei rifiuti solidi urbani e la nettezza nel territorio.
anche ad altre ditte. La difficoltà di Ama nel mantenere pulita la città è dovuta, tra le altre cose, al tasso di assenteismo dei dipendenti della municipalizzata: «Lavorano meno di noi, ma prendono di più. Sono messi meglio a livello contrattuale, noi sfacchiniamo e non c’è gente che si imbosca: se qualcuno lo fa, viene licenziato, l’azienda è molto severa. Lì devi rubare per farti cacciare via», racconta riferendosi ad Ama un operatore ecologico impiegato in una delle ditte private di supporto al servizio.
Secondo i dati pubblicati sul sito della società, il primo semestre del 2024 ha registrato il 17,2% di impiegati che non si è presentato al lavoro: «Per incentivare uno a sgobbare serve una rivoluzione culturale. C’è gente che ci prova, ma non fa nulla alla fine: una volta che si instaura una certa mentalità non è facile cambiarla. Qualcuno ci ha provato, ma gli hanno fatto “dispetti” alla macchina. Ti fanno mobbing, non ti fanno più lavorare e dici “ma chi me lo fa fare” e ti adegui al sistema», continua l'addetto.
teismo nei periodi festivi, aveva ideato un piano di tre milioni di euro come premio aggiuntivo nel caso ci fosse stata una riduzione di almeno il 10% del tasso di assenza per malattia.
«L'organico è ancora insufficiente: al momento sono circa 7.600 i lavoratori, tra personale amministrativo e servizi cimiteriali, per arrivare a un numero adatto dovremmo assumere altre mille unità» sostiene Marino Masucci, segretario generale Fit-Cisl Lazio. Gualandri concorda dicendo che «per un servizio efficiente servirebbe un altro migliaio di lavoratori». L’operatore della ditta privata conferma a sua volta che il problema principale è «proprio la mancanza di operatori: è facile parlare, ma poi quando si tratta di gestire concretamente la raccolta non si fa nulla».
Il Comune sembra continuare a girare attorno a possibili soluzioni: «Abbiamo varato un piano di assunzioni per aumentare l'organico dell’azienda», dice Sabrina Alfonsi, assessora all'agricoltura, ambiente e ciclo dei rifiuti: «Il 2023 ha segnato un importante ricambio generazionale con l'ingresso di circa mille giovani addetti ai servizi di igiene urbana».
Il traguardo è il Giubileo del 2025: l’anno santo della Chiesa cattolica che si tiene, dal 1450, ogni quarto di secolo. In occasione della festività, il Papa concede l’indulgenza plenaria ai fedeli che si recano a Roma. «Ama, con l’amministrazione
Non riuscendo a sostenere autonomamente lo smaltimento dell'intero carico di spazzatura, l’azienda si appoggia ...
Massimo Gualandri, il coordinatore igiene ambientale del sindacato trasporti del Lazio, pensa però che i numeri sull’assenteismo siano decontestualizzati: «Sono elevati perché vengono conteggiati insieme tutti i tipi di assenza, è normale in un'azienda da oltre settemila dipendenti». Il tema dei troppi lavoratori “ammalati” di Ama aveva già suscitato scandalo nel 2021 quando il Campidoglio, per arginare il problema dell’assen-
capitolina e il Vicariato, sta già predisponendo un piano per accogliere al meglio i fedeli» prosegue Alfonsi, per presentare una città più pulita a turisti e pellegrini in arrivo da tutto il mondo e, allo stesso tempo, per dare risposte all’indignazione dei residenti.
L’usura dei mezzi è un altro grave problema di Ama: «I veicoli che abbiamo a disposizione fanno pena», racconta un netturbino di Ama, che prima di sbottonarsi si assicura di poter mantenere l’anonimato.
Il comune di Roma, dal canto suo, risponde che negli ultimi sei mesi c’è stato un netto miglioramento: l’assessora Alfonsi afferma che si è passati dal 35% dei mezzi disponibili al 75%. Aggiunge che quest’anno è previsto un rinnovamento della flotta: «È stata pubblicata un’importante gara per l’acquisto di nuovi mezzi, soprattutto veicoli pesanti per lo svuotamento dei cassonetti stradali che permetterà la completa sostituzione del parco mezzi».
Sebbene il Comune stia tentando di riscattare Roma dall’immagine di città piegata dall’immondizia, i cittadini continuano a coabitare con i cumuli di
spazzatura. Secondo un report del 2023 dell’Agenzia per il controllo e la qualità dei servizi pubblici di Roma, la raccolta rifiuti si aggiudica, tra i servizi che i residenti valutano insufficienti o mediocri, il voto medio più basso, insieme alla pulizia delle strade. Il 50,7% dei cittadini dichiara di non aver avvertito nessuna differenza nel decoro urbano della città rispetto agli anni precedenti, mentre il 36,3% sostiene che ci sia stato un ulteriore peggioramento della situazione.
«La città eterna ha prodotto all'incirca un milione e seicentomila tonnellate di rifiuti da smaltire»
Senza la piena disponibilità di personale e mezzi funzionanti, nel 2023, la città eterna ha prodotto all’incirca un milione e seicentomila tonnellate di rifiuti da smaltire, cifra che equivale alla somma di quelli generati non da un singolo Comune, ma da tutti quelli di Milano, Napoli e Firenze messi insieme. Secondo i dati di Ama, la spazzatura viene smaltita solo per il 30% a Roma, mentre il 43% viene
distribuito nella regione Lazio, il 9% nel resto d’Italia e un 2% all’estero. «La carenza strutturale di Ama negli impianti non consente di chiudere il ciclo dei rifiuti» ribadisce Marino Masucci.
La giunta capitolina ha approvato nell'aprile 2024 le delibere al Piano economico-finanziario di Ama 2024-25 che prevedono anche la determinazione della Tari, la tassa sui rifiuti. Quest'anno la quota aumenterà del 3% e non del 14% come nella peggiore previsione di Arera, l'autorità nazionale di regolazione per energia reti e ambiente. L'obiettivo per il prossimo anno è azzerare completamente l'imposta, lasciando inalterate le esenzioni per chi ha un Isee fino a 6500 euro. «Roma sarà una delle poche città che riuscirà a mantenere inalterata la Tari nonostante l'adeguamento all'inflazione», afferma il sindaco Gualtieri.
I romani spendono quasi 180 milioni l'anno per portare i rifiuti fuori regione o all'estero: ogni notte, sono almeno venti i tir che partono da Roma diretti verso altre città, affermano fonti del Comune. Non riuscire a chiudere il ciclo di raccolta mostra una mancanza di autosufficienza e solleva interrogativi sulla sostenibilità a lungo termine di questo approccio. «Risparmiando questi soldi si potrebbero
abbassare le imposte e creare nuovi impianti di smaltimento» conclude Marino Masucci.
La soluzione? Il progetto del termovalorizzatore è riuscito nell’impresa di mettere d’accordo Ama, sindacati e Comune: «Bisogna dotarsi degli impianti come fanno nel nord Italia ed in Europa, il termovalorizzatore è necessario per chiudere il ciclo» conclude Masucci.
Sono passati quasi due anni da quando la giunta del sindaco di Roma Roberto Gualtieri ha cominciato a trattare sul piano del termovalorizzatore. Il programma, dal valore complessivo a base d’asta pari a 946 milioni, prevede la costruzione dell’impianto a Santa Palomba, a sud di Roma. Il comune di Roma intende realizzare l’impianto più efficiente e sostenibile possibile, con le cosiddette “Best Available Technologies” (BAT) per massimizzare l’efficienza energetica e minimizzare l’impatto sull’ambiente. Le BAT sono le migliori soluzioni tecniche impiantistiche, gestionali e di controllo in grado di garantire un elevato livello di protezione dell'ambiente attraverso, ad esempio, bassi livelli di emissioni di inquinanti e l'ottimizzazione delle materie prime utilizzate nel processo. L’investimento, seguendo il modello di Project Financing, sarà interamente a carico del vincitore dell'appalto: la realizzazione non prevede l’impiego di risorse pubbliche ad eccezione di un contributo dell’ammini-
strazione fino a un massimo di quaranta milioni di euro per impianti ausiliari per il trattamento delle ceneri pesanti e alla cattura e stoccaggio della CO2.
«La combustione contribuisce a diminuire l'uso dei combustibili fossili, petrolio, gas e carbone»
Il termovalorizzatore sarà capace di raggiungere temperature superiori a 850°C e di produrre energia tramite turbine a vapore, spesso associate a sistemi di cogenerazione per il teleriscaldamento. A differenza di un inceneritore, il termovalorizzatore permette il riutilizzo del calore derivante dalla combustione dei rifiuti da cui poi possono essere generate energia elettrica e termica. La possibilità di ottenere energia attraverso la combustione degli scarti contribuisce a diminuire l’impiego dei combustibili fossili (petrolio, gas e carbone) per la produzione di elettricità o calore. Dal bando, si prevede che l’impianto riuscirà a smaltire seicentomila tonnellate di rifiuti all’anno.
e, a partire da gennaio 2025, l’avvio del cantiere che durerà fino a febbraio 2027. Servirà poi ulteriore tempo per le prove di collaudo e l’entrata in funzione.
«Le proteste dei cittadini residenti nelle zone dove gli impianti verranno localizzati sono comprensibili», riconosce l’assessora Alfonsi, ma non possono rappresentare un impedimento alla realizzazione dei termovalorizzatori necessari per garantire la gestione dei rifiuti di Roma.
In generale, i valori proposti per le emissioni pongono l’impianto tra i primi in Italia per prestazioni ambientali. Secondo Donato Bonanni, presidente dell’associazione Ripensiamo Roma: «Il termovalorizzatore non ostacola il riciclo, come dimostrano le alte percentuali di Emilia Romagna e Lombardia».
Realizzarlo significa sostituire le discariche con una tecnologia valida in grado di gestire i rifiuti indifferenziati che costituiscono più del 50% dell’immondizia romana. Sarebbe necessario rendere complementari riutilizzo e recupero energetico. Tra i benefici, c’è la produzione di energia elettrica dalla combustione dei rifiuti: attraverso le ceneri pesanti si costruiscono i materiali edili. È possibile recuperare metalli e ferro e realizzare i sanpietrini per la pavimentazione del centro di Roma.
Secondo Alfonsi, il programma prevede, entro dicembre 2024, l’approvazione del progetto esecutivo dell’impianto ...
Inchiesta
Il Libro bianco sull’incenerimento dei rifiuti urbani, pubblicato nel 2021 dai politecnici di Milano e Torino e dagli atenei di Trento e di Roma Tor Vergata per Utilitalia, dimostra che l’impatto ambientale di un termovalorizzatore è di otto volte inferiore a quello di una normale discarica. Si riducono così la quantità dei rifiuti lì destinati e di conseguenza anche i costi economici relativi.
Per analizzare l’impatto del progetto del termovalorizzatore in termini di emissioni annue è stato fatto un confronto percentuale degli sprigionamenti dell’impianto rispetto a quelli totali del Lazio. Dallo studio dei dati, emerge che le emissioni corrispondono a meno
dell’1% per ogni inquinante considerato, sia rispetto al totale provinciale, sia a quello regionale. L’impatto sulla qualità dell’aria non è quindi significativo.
Nel bando si precisa che queste stime verranno poi riviste nel corso delle successive fasi progettuali. Sulla questione, Bonanni richiama studi di alcuni enti laziali, tra cui l'Agenzia regionale per la protezione dell’ambiente (Arpa), che mostrano quanto siano poco rilevanti le ripercussioni nell’atmosfera grazie all’impiego dei sistemi di controllo e filtraggio.
L'impianto di Santa Palomba è stato paragonato ai termovalorizzatori di Gerbido a Torino, di Pero a Milano, di Issyles-Moulineaux a Parigi. Mentre queste tre città sono caratterizzate da un'alta
densità abitativa nel raggio di tre chilometri dagli impianti, la realizzazione di quello di Santa Palomba si distingue per la bassa intensità dei residenti.
I vantaggi e l’impiego di tecnologie di ultima generazione sono evidenti, ma non tutti sono pronti ad accogliere il termovalorizzatore. A Santa Palomba, i cittadini hanno lanciato una petizione per fermare il progetto: «Non vogliamo diventare la prossima Val Padana». La realizzazione dell’impianto porta infatti con sé preoccupazioni legate ai rischi ambientali e alla salute: il timore che il rilascio di inquinanti sia connesso all’insorgenza di malattie affligge gli abitanti della zona. Abitare nelle vicinanze di siti per lo smaltimento dei rifiuti, come gli impianti di termovalorizzazione, incre-
menta il rischio di contrarre gravi patologie?
Per rispondere a questa domanda diversi studi scientifici hanno cercato, nel corso degli anni, di provare l’esistenza di un legame tra impianti di eliminazione dell’immondizia e rischi per la salute.
Secondo il dottor Diego Serraino, direttore dell’Epidemiologia Oncologica del CRO di Aviano (Pordenone), le numerose ricerche condotte in passato, che hanno esaminato il tasso dell’insorgenza di tumori associato alla vicinanza con termovalorizzatori, non hanno fatto emergere prove conclusive in tal senso: «Molti studi hanno analizzato il rischio di neoplastico in relazione alla residenza in prossimità dei termovalorizzatori, ma
non sono emerse evidenze in tal senso soprattutto dagli studi su quelli di terza generazione».
Impianti moderni, trasparenza, coinvolgimento della popolazione e monitoraggio costante con relativa documentazione degli eventi sanitari sono ciò che rende possibile controllare i potenziali rischi derivanti dagli impianti: «Si pensi al termovalorizzatore di Torino, la cui attività viene costantemente monitorata nel tempo» afferma il medico che sottolinea come l’esempio piemontese rappresenti un modello di riferimento.
rino e alla qualità dell’aria, si è registrato solo un lieve aumento di PM10. La formula si riferisce alla concentrazione media annuale di particelle atmosferiche solide e liquide sospese in aria di massimo dieci micrometri e un modesto decremento nel numero di superamenti del valore limite giornaliero. Analogamente, la media annuale di polveri sottili (PM2.5) ha registrato un leggero incremento, attribuibile a condizioni meteorologiche avverse che hanno ostacolato la dispersione degli inquinanti.
Le analisi epidemiologiche condotte sugli abitanti che vivono vicino ai termovalorizzatori, come sostiene uno studio realizzato dall’ Imperial College di Londra, The Health Impacts of Waste Incinera-
Secondo i dati raccolti nell'anno 2022 dall’Agenzia regionale per la protezione ambientale del Piemonte (Arpa) relativi all'impianto termovalorizzatore di To...
tion: a Systematic Review, non hanno evidenziato l’insorgenza di patologie. Nel report si legge come «le nuove tecnologie di incenerimento dei rifiuti funzionino in modo più pulito e con un minore impatto ambientale. Ciononostante, le sostanze inquinanti vengono ancora prodotte e gli impianti aggiornati richiedono un'assistenza regolare per mantenere i livelli di emissione».
Una valutazione precisa dell'impatto sulla salute degli inceneritori di rifiuti può essere difficile a causa dei molteplici fattori da tenere in considerazione, tra cui l'inquinamento da industrie, automobili e prodotti chimici per l'agricoltura. Nonostante questo, «gli studi epidemiologici condotti in Giappone e in Italia non hanno evidenziato un aumento della mortalità per tutte le cause associate al vivere in prossimità di inceneritori e a una maggiore esposizione a diossine, ossidi di azoto o emissioni di metalli pesanti provenienti da impianti di incenerimento dei rifiuti», conclude lo studio.
Un altro fattore assente che i lavori non prendono in considerazione sono gli stili di vita delle persone campionate durante le ricerche: «La mancanza di informazioni sull’abitudine al fumo di sigarette è un parametro non considerato, ma determinante perché avrebbe permesso di escludere che una diversa distribuzione residenziale dei fumatori possa aver portato a risultati di difficile e immediata interpretazione» commenta il dottor Serraino.
Il dottore continua affermando che le attuali conoscenze mediche documentate dalla comunità scientifica internazionale, e certificate dall’Agenzia Internazionale per la Ricerca sul Cancro di Lione, indicano il PM10 e il PM2.5 come unici carcinogeni ambientali in grado di provocare un tumore al polmone, ma per nessuna altra patologia neoplastica esistono evidenze che leghino la loro insorgenza all’inquinamento. «Va ricordato che solo il 5-10% dei tumori del polmone viene attribuito all’inquinamento
atmosferico, mentre circa l’80% di essi è dovuto al fumo di sigarette», conclude Serraino.
In assenza di dati specifici, è quindi possibile stabilire un legame diretto tra l'attività del termovalorizzatore e il potenziale rischio di tumori?
Lo studio a più mani, Effetti sulla mortalità e morbilità nella popolazione residente nei pressi dell’inceneritore di Valmadrera (Lecco) del 2022 della Rivista dell’associazione italiana di Epidemiologia e prevenzione, ha studiato il fenomeno con l’obiettivo di valutare gli effetti degli inquinanti di un termovalorizzatore su una popolazione e in un arco di tempo definiti. L’analisi è stata basata sulla popolazione residenziale (103.056 i soggetti considerati), tra il 2003 e il 2016, in base alle emissioni di PM10, e dividendo le aree limitrofe in tre parti in relazione all’esposizione.
I risultati raggiunti dimostrano che «non sono stati osservati eccessi di rischio statisticamente significativi per quasi tutti gli outcome indagati e identificati a priori. Lo studio non ha messo in luce una relazione tra residenza in aree a differente ricaduta di inquinanti emessi dall’impianto e insorgenza di quasi tutte le patologie».
«Un impianto ben progettato emette quantità modeste di inquinanti dannosi per l'uomo e l'ambiente»
Nell’indagine, sono stati rilevati sì eccessi nella mortalità e ospedalizzazione per quanto riguarda i tumori al fegato o alle vie biliari, ma «appare più plausibile la riconducibilità a cause biologiche infettive piuttosto che all’esposizione a inquinanti ambientali». L’ordinario di oncologia al Policlinico Gemelli di Roma, Giampaolo Tortora spiega come «l'effet-
All'inchiesta ha collaborato la redazione
to è sinergico perché diversi fattori hanno un esito cooperativo: variabili quali l’alterazione di un determinato gene, le polveri sottili, il fumo e stili di vita non sani combinati insieme portano all’insorgenza di tumori».
Quindi, la difficoltà nello stabilire una connessione diretta tra termovalorizzatore e salute deriverebbe anche dalla natura degli studi disponibili al momento, limitati nel tempo e nei campioni di persone presi sotto esame: «Per determinare che una sostanza sia dannosa, lo studio richiede migliaia di persone e decenni, perché bisogna calcolare tutte le variabili e capire perché quella persona si è ammalata, può essere che siano intervenute altre circostanze», afferma il dottor Tortora.
«Un impianto di incenerimento ben progettato e correttamente gestito, soprattutto se di recente concezione, emette quantità relativamente modeste di inquinanti e contribuisce poco alle concentrazioni ambientali», chiarisce il Libro bianco sull’incenerimento dei rifiuti urbani pubblicato nel 2021, con il contributo di ricercatori del Politecnico di Milano e dell’Università degli Studi di Tor Vergata di Roma. Le installazioni industriali non possono non avere un impatto sul territorio: «non c’è nessun impianto a emissioni zero, l’unica alternativa sarebbe la centrale nucleare», chiosa Donato Bonanni, presidente dell’associazione ambientalista Ripensiamo Roma.
Ciò che gli studi concludono è che non si ha evidenza che un impianto di termovalorizzazione comporti un rischio reale e sostanziale per la salute. La diffusione di sostanze potenzialmente dannose rimane attribuibile a impianti di vecchia generazione e a tecniche di gestione utilizzate prima della seconda metà degli anni Novanta, non paragonabili alle tecnologie che verranno adottate per il termovalorizzatore di Santa Palomba. ■
Progetto grafico a cura di Lorenzo Pace, Gennaro Tortorelli e Alessandro Villari
Cittadinanza attiva a Spin Time
di Matilda FerrarisUn parallelepipedo di sette piani occupa l’isolato alla fine di via Santa Croce in Gerusalemme e si estende come un serpente fino a via Statila. Cancello rosso, sempre aperto, e uno striscione appeso con su scritto il nome dello stabile: “Spin time labs”.
Un tempo sede dell’Istituto nazionale di previdenza e assistenza per i dipendenti dell’amministrazione pubblica (INPDAP), dal 2013 spazio occupato in cui abitano quattrocento persone – 160 nuclei familiari – ospita un’osteria, uno spazio di coworking, un auditorium e la redazione del giornale Scomodo.
Undici anni fa un gruppo di attivisti del movimento Action decide di occupare il palazzo, l’anno dopo nasce Spin Time Labs, l’associazione che da quel momento in avanti si occuperà di coordinare gli eventi. Nel 2019 il momento più critico dopo che il Gruppo Acea stacca loro la corrente elettrica per via di un grosso debito accumulato. A riattaccarla Konrad Krajewki, elemosiniere del Papa, venuto in soccorso grazie all’intermediazione di Suor Adriana, inquilina del palazzo. Il suo gesto fa parlare del cantiere di rigenerazione urbana in tutto il mondo.
Chiara Cacciotti è arrivata lì nel 2018 per scrivere la sua tesi di dottorato: «Questo posto lo ho scoperto per caso, passan-
doci di fronte perché vivo nel quartiere». A differenza di altre occupazioni Spin Time si trova nel cuore della città, a cinque minuti a piedi dalla fermata Manzoni, tra l’Esquilino e San Giovanni. «Una zona storicamente borghese, che col tempo lo è diventata sempre di più», commenta.
Fin da subito gli attivisti di Action hanno cercato un dialogo con il quartiere e la città intera, aprendo le porte agli esterni. Nessuno troverà mai il cancello chiuso, c’è sempre qualcuno in guardiola. «Qui si riuniscono tantissime associazioni, abbiamo provato a mapparle ma è stato impossibile» spiega Cacciotti, che oltre a essere un’attivista del comitato politico di Spin Time è ricercatrice in urbanistica.
«Dietro il progetto c’è l’idea di affermare che il centro della città non è appannaggio esclusivo dei ceti medio-alti, è giusto che i cosiddetti “poveri” se ne riapproprino», afferma la studiosa. «All’inizio bambini si vergognavano a dire ai compagni dove vivevano, ora non dico che sia “fico” dire di stare in occupazione, ma la percezione è cambiata. La scuola del quartiere, la Di Donato, organizza qui le attività pomeridiane e l’associazione genitori, che è molto attiva, si incontra in questo posto» commenta Cacciotti.
Quello di Spin Time è un modello riconosciuto da più parti come virtuoso, tanto
che nel 2022 il comune di Roma ha inserito all’interno del piano casa la possibilità di comprare e regolarizzare lo spazio: «Ci sentiamo costantemente con l’assessore Zevi e con la giunta ma al momento non sappiamo nulla degli esiti».
Lo scorso autunno arriva una soffiata: comincia a girare la voce che la proprietà voglia vendere lo stabile ad un prezzo molto alto, più di quello stimato, per trasformarlo in un albergo: «Lo abbiamo ipotizzato noi visto che il Giubileo è alle porte, e siamo scesi in piazza con uno striscione con su scritto “Sarà una bella lotta” per ribadire la nostra posizione di dissenso. Molte altre realtà sociali romane hanno aderito – circa 150 – e abbiamo deciso di far diventare il movimento qualcosa di più, proponendo una piattaforma allargata che facesse proposte concrete alla città», racconta Cacciotti.
«Il nostro caso», spiega Cacciotti, «è più complesso di altri perché non esiste un precedente. Abbiamo chiesto al comune di mantenere la dualità della struttura: quindi di lasciare i cancelli aperti e di consentire gli spazi associativi interni. Ma tra le tante cose manca un po’ di coraggio politico». A oggi non si conosce il futuro dello stabile, ma, comunque vada, “sarà una bella lotta”. ■
Il labirinto intorno a San Pietro
di Gabriele RagniniPer raggiungere la Basilica di San Pietro si ha la sensazione di stare stretti anche una volta fuori dalla metro di Ottaviano. La via che collega la fermata e il Vaticano diventa un percorso di esodo per i turisti, soprattutto nei giorni di pioggia. I tanti ombrelli colorati sembrano quasi camminare, in sincronia, rasenti ai muri dei palazzi.
L’effetto resterà lo stesso per diversi mesi nei luoghi più visitati di Roma, così come in altre zone della città, fino al completamento del piano di lavori per il Giubileo 2025. Più di 500 progetti da 3,3 miliardi di euro, realizzati ad hoc per migliorare le aree e la viabilità in vista dei milioni di pellegrini che si recheranno nella Capitale durante l’Anno santo della chiesa cattolica.
Il restyling inizia dalle vie più trafficate nelle zone di pellegrinaggio: al posto delle macchine, i turisti potranno camminare al centro della strada. Al momento, però, si vedono solo cantieri e pozzanghere che si formano su quel poco di asfalto percorribile. In tanti si rifugiano dentro i bar. «Io sono qui da 61 anni, c’ero sia nel ‘75 che nel 2000». La signora Maria è la colonna portante della pasticceria Parenti: testimone degli ultimi tre Giubilei (incluso quello straordinario del 2015), sa cos’è il boom turistico a Roma. «Per i commercianti il guadagno arriva fino a un
certo punto. La maggior parte dei pellegrini sono quasi alienati, non pensano molto a fermarsi quando il locale è vicino a San Pietro: una volta vista la Basilica, tirano dritto».
Al di qua del bancone un signore le dà corda. «Lavoro nel turismo: per gli alberghi è un grande vantaggio, altri preferiscono i visitatori classici, tanto qui non mancano mai». Uno scambio che vede la proprietaria della pasticceria ripercorrere gli episodi chiave del turismo religioso. «Quando è morto Papa Wojtyla i fedeli dormivano per strada, molti non mangiavano». Per poi chiudere con una battuta: «Non è tanto positivo per noi, non entravano neanche a fare colazione».
Anche uno degli archi che segna l’ingresso nella Città del Vaticano è in ristrutturazione. I turisti usano il cantiere per ripararsi dalla pioggia. A venti metri c’è il ristorante Mancini, dove l’unica ad aver vissuto lo scorso Giubileo è la barista Laura. «Non ho memorie fresche di quell’anno, ricordo solo il caos». Un motivo in più per attendersi un aumento del personale: «Speriamo, il problema è trovarlo».
Una volta entrati in piazza San Pietro non c’è più traccia di tutte le scritte “lavori in corso” presenti sulla strada. L’area intorno al colonnato del Bernini resterà intatta in vista dell’Anno santo, solo i maxi-
schermi sono cambiati: anche il Vaticano si adatta all’Ultra HD. «Ne vedo spesso di nuovi», racconta una guida turistica con la bandierina alta, una massa di impermeabili colorati lo segue. «Questo non è niente. Il mio primo anno di lavoro fu proprio il 2000. Il turismo in quei mesi cambia, diventa più legato alla cristianità ed è un gran casino con le file». Lo sarà di sicuro il prossimo 24 dicembre, quando il Papa aprirà a San Pietro la prima porta santa per celebrare l’inizio del Giubileo. Seguiranno quelle di San Paolo fuori le mura, Santa Maria Maggiore e San Giovanni in Laterano, dove un’alta costruzione di sughero costeggia la piazza antistante. A causa dei restauri non ha potuto ospitare, per la prima volta, il Concertone del Primo Maggio, spostato così al Circo Massimo.
Il resto della città vedrà il rinnovamento di chiese, parchi e percorsi pedonali. Per muoversi verso la stazione di San Pietro, ad esempio, molti scelgono la Passeggiata del Gelsomino: nacque proprio in occasione del Giubileo 2000 e sarà rimessa a nuovo entro il 2025. I lavori dovranno iniziare per la fine della Primavera, ma sono fermi. Intanto, è ancora possibile percorrerla per rientrare dal Vaticano: una camminata in cui immergersi tra il caratteristico profumo di quei fiori bianchi e la quiete del momento, prima che anche lì si inizi a stare stretti. ■
Nessun padrone se non la musica
Tutti i giorni, in via dei Fori Imperiali, gli artisti di strada accompagnano turisti e cittadini nelle loro passeggiate davanti alle vestigia dell'antica Roma
Rimangono lì qualche ora o tutta la giornata, con chitarre, tastiere, violini e amplificatori. Sono gli artisti che costeggiano via dei Fori Imperiali a Roma. Devono essere muniti di permesso per suonare nella zona, da rinnovare ogni anno, pena la multa; è gratuito, ma non tutti lo hanno in realtà. Qualcuno lo fa per mettersi alla prova, altri per arrotondare il salario e c’è chi come Giuseppe lo fa ormai per vivere.
Ha cinquantun anni e un cane, Lillo, che sta sempre con lui e riposa sopra la custodia della chitarra elettrica mentre lui si esibisce. Non trova un lavoro stabile e suona ai Fori Imperiali solo da poche settimane: «Sono musicista da una vita, ma non l’ho mai considerato come un’attività lavorativa. Sono state le difficoltà economiche a spingermi a provare».
Giuseppe suona ai Fori ogni giorno, quando può tutta la giornata eccetto dalle 13:00 alle 16:00 perché in questa strada è vietato. «Questo è il luogo migliore dove
suonare, ho provato da altre parti, ma qui ci sono più turisti e spazi sempre decenti anche quando qualcuno si prende il tuo preferito», aggiunge. Quando piove, però, è un vero problema, la gente non passa e gli strumenti si possono rovinare. In quel caso la giornata è persa. Spesso ciò che guadagna in giornata gli basta per sopravvivere, ma di certo non dà alcuna stabilità e certezza per il futuro. «Prima per il lavoro mi arrangiavo – dice – tante volte anche in call center, ma ora sta diventando davvero difficile».
Certe volte per strada può anche nascere un’amicizia. È quello che è successo tra Giuseppe e Federico. «Ci siamo conosciuti qui alla fine della mia prima settimana, è stato lui a convincermi a continuare». Federico potrebbe essere suo figlio, ma lì non è tanto l’età anagrafica che conta, ma l’esperienza. Lui di anni ne ha ventisei e si è appena laureato in Scienze ambientali all’Università La Sapienza di Roma: «Suono solo da cinque anni, ma
mi sono subito voluto buttare perché era troppo figo secondo me». Sta cercando lavoro e nel frattempo viene qui ai Fori un paio d’ore al giorno per guadagnare qualche soldo e passare il tempo in modo proficuo anziché stare a casa. «Quando inizi a suonare per la prima volta per strada devi sbattere la testa – aggiunge – ma poi piano piano cominci a capire cosa funziona per te. I musicisti bravi qui riescono a guadagnare anche un centinaio di euro in due o tre giorni, per uno medio come me in genere si arriva ai trenta, quaranta».
Federico ha anche un gruppo con cui suona la sera nei locali. All’inizio qualche altro componente della band lo accompagnava, ma ormai si esibisce sempre da solo: «Suonare per strada è divertente perché interagisci con i passanti ma soprattutto perché sei libero, sei autonomo e indipendente, fai quello che vuoi quando vuoi». Lo stesso vale per Giuseppe. Per lui è diventata una necessità, ma «senza vincoli».
Senza alcuna etichetta discografica, editore o committente da soddisfare, se non se stessi, è innanzitutto la libertà a caratterizzare la vita di un artista di strada. Non tutti la scelgono a cuor leggero come Federico, ma una volta presa questa strada, possono fare quello in cui sono bravi senza sentirsi costretti a diventare ingranaggi di una macchina e seguendo solo la loro ispirazione. ■
Sui muri i colori di Alicè
La street artist di 44 anni ha lasciato i suoi disegni sui palazzi della Capitale e di tante altre metropoli in giro per il mondo
di Lorenzo PaceTredici anni e già un bivio davanti ai suoi occhi, quelli colmi di energia e voglia di trovare qualcosa che ti renda felice, tipici di una ragazzina pronta a lasciare la scuola media per iniziare le superiori. Una famiglia che cerca corsi e libri di latino e greco per il prossimo quinquennio al liceo classico. Senza sapere, però, che non studierà Socrate e Seneca, ma pittura all’artistico, perché quella è la sua vocazione. Mamma e papà possono limitarsi a dire: «Ma che stai a fa’?».
È il 1993 e Alice Pasquini, in arte Alicè, dà una svolta alla sua vita, pur andando contro la volontà dei genitori. «Avevano sempre assecondato la mia passione – racconta la street artist romana – ma quando ho scelto per davvero c’è stata qualche resistenza». Niente che abbia mai fermato il suo sogno, «perché non sento un altro modo di vivere la mia esistenza. Se sono arrabbiata disegno, se sono felice disegno. Mi sono impuntata con i miei e non sono intervenuti».
La vittoria è aver dimostrato che quella dei graffiti e dei murales è una strada realizzabile. C’è tanta soddisfazione nelle parole di Alicè, che ride emozionata quando ricorda i complimenti ricevuti del capo di Stato Sergio Mattarella durante la cerimonia dell’8 marzo. «Al tempo non potevano comprendermi, bisogna credere in se stessi. Anche se non mi sarei aspettata tutto questo».
Prima di parlare dei successi e delle opere che le vengono chieste in giro per il mondo, come le più recenti per il festival HKWall di Hong Kong, l’artista sottolinea che senza una passione così forte non potrebbe vivere grazie a delle bombolette spray. Anche perché non bastano il liceo artistico, il diploma in pittura nell’accademia di Belle Arti di Roma e il Master in critica d’arte nell'Università Complutense di Madrid per trovare un impiego. «Non era facile, in Spagna lavoravo come animatrice nei parchi per bambini».
A venticinque anni decide di puntare
tutto sull’arte di strada: «Mi sono data un anno di tempo, ho capito che dovevo dare il 100%». Dal 2006, la sua vita viene stravolta.
Quel desiderio così innovativo si trasforma in un lavoro che le permette di viaggiare e abbracciare storie nuove. «C’è sempre interazione con le persone, che si relazionano a me come se fossi una loro amica». È così che Alicè, mentre sta lavorando ad un murale nel quartiere Quadraro di Roma, può ritrovarsi a bere un caffè alla finestra con un residente: «Mi sentivo una ragazza di famiglia». Oppure quando «al Tufello un signore mi ha detto che, dove stavo dipingendo, in tempo di guerra c’era il suo orto. Ha condiviso una parte della sua vita con me». Così come accade in altre zone, soprattutto a San Lorenzo, dove ci sono i suoi dipinti preferiti.
Un altro momento che riempie di felicità l’artista è quando le donne riescono a identificarsi nei suoi personaggi femminili: «È assurdo, ma mi capita spesso di ricevere messaggi di persone convinte di essere state rappresentate su un muro». Anche per questo Alice Pasquini scrive con orgoglio il suo nome negli angoli dei murales, una pratica poco diffusa nella street art: «È sempre stato un rischio, ma voglio che si sappia che è una ragazza a fare quei lavori». ■
Nuove regole per l'immigrazione anche i minori verranno schedati
L'accordo votato a Strasburgo genera divisioni nel mondo politico, a destra e a sinistra. Alcune misure approvate fanno discutere di Alessio Matta
«È un Patto improntato ad un approccio securitario della gestione del fenomeno migratorio». L’eurodeputato del Partito democratico Pietro Bartolo – ex responsabile sanitario fino al 2019 per l’immigrazione a Lampedusa – commenta così le disposizioni del nuovo accordo europeo di migrazione e asilo approvato lo scorso 10 aprile. «Il regolamento Eurodac introduce l’obbligo di raccogliere i dati biometrici dei migranti a partire dai sei anni, schedandoli come se fossero dei criminali», aggiunge.
Questa è soltanto una delle norme che hanno suscitato scalpore. Dopo il via libera del Parlamento europeo la proposta deve ancora essere approvata a maggioranza dal Consiglio dell'Unione Europea, composto dai rappresentanti dei 27 Paesi membri.
Il provvedimento ha generato un acceso dibattito fra tutti i partiti italiani all’europarlamento, da destra a sinistra. Durante la votazione, ci sono state manifestazioni anche al di fuori del palazzo di Strasburgo da parte degli oppositori dell’intesa. L’accordo è stato criticato anche dalle organizzazioni umanitarie perché impone restrizioni sugli aiuti e le procedure sono considerate una
minaccia ai diritti fondamentali. Sono nate anche divisioni tra i Socialisti europei, con il Pd che ha confermato il suo voto contrario assieme al Movimento 5 Stelle.
Pur osteggiati da molte forze politiche, sono stati approvati anche gli atti più controversi, come la nuova procedura di asilo e la gestione delle crisi migratorie, che consentono agli Stati membri di adottare misure più severe durante le emergenze. Queste norme sono sempre state criticate dai sovranisti, in particolare dall'Ungheria, che non vuole accettare nessun tipo di solidarietà, anche se l’intesa non impone la redistribuzione dei migranti, ma solo un generico supporto ai Paesi di maggiore arrivo.
Anche la destra italiana si è spaccata sulla misura. Fratelli d’Italia ha votato a favore sette volte su dieci, esprimendosi in maniera contraria solo sul regolamento sull'asilo. La norma, appoggiata anche dal Pd, prevede la “solidarietà obbligatoria”, che entra in gioco qualora uno o più Stati membri si ritrovino sotto pressione migratoria. Gli altri Paesi europei possono contribuire a mitigare lo sforzo in due modi: ricollocando un determinato numero di richiedenti asilo
sul proprio territorio o versando un contributo in denaro per finanziare mezzi e modalità di accoglienza nel Paese in difficoltà.
La Lega ha confermato in aula che la riforma approvata è deludente e non risolve il problema dell'immigrazione illegale, lasciando l'Italia da sola una volta di più. Durante una conversazione informale, l’europarlamentare Angelo Ciocca ha confermato le sue perplessità: «L’Italia è stata abbandonata. Siamo d'accordo sul fatto che sia necessario un cambiamento, ma riteniamo che qualsiasi decisione debba rispettare la sovranità nazionale e il diritto degli Stati di controllare i propri confini. La riforma di Dublino potrebbe portare alla creazione di un sistema di immigrazione dell'Ue centralizzato, che riteniamo essere una minaccia per la sovranità nazionale».
Nonostante le parole dell’eurodeputato, i principi del regolamento di Dublino rimangono invariati: un migrante può richiedere la protezione internazionale solo nel primo paese dell'Unione europea in cui arriva. Sono previste nuove deroghe in seguito all’approvazione del nuovo accordo, come la possibilità di presentare la domanda in un altro Paese per ricongiungimento
familiare, conoscenza della lingua o il conseguimento di un titolo di studio.
Il Patto regola anche le modalità di smaltimento delle richieste di protezione internazionale e prevede che alcuni migranti siano sottoposti alla procedura tradizionale, altri ad una modalità “accelerata” di frontiera. Questa si applicherà ai cittadini di Paesi in cui il tasso di riconoscimento dello status di rifugiato nell’Unione europea è inferiore al 20%. L'obiettivo è rendere le procedure più veloci, ma alcuni pensano che questa pratica possa comportare una sorta di prigionia per molte persone e limitare il diritto d'asilo. Su richiesta del Consiglio, questa modalità potrà coinvolgere anche famiglie con bambini sotto i dodici anni.
La riforma arriva in un momento di crescente ondata migratoria alle frontiere europee: lo scorso anno tra Italia e Spagna gli arrivi hanno superato il picco del 2017 con 380mila sbarchi, mentre le domande di richiesta di protezione internazionale che nel 2023 hanno raggiunto 1,14 milioni, il livello più alto degli ultimi sette anni. Come avviene spesso, nel dibattito pubblico si confondono e si sovrappongono immigrati, richiedenti asilo e rifugiati. I dati di Eurostat per il
2023 aiutano a misurare la validità di questi argomenti. Parlano in effetti di un aumento delle richieste di protezione internazionale nell’Ue, che hanno superato di nuovo la soglia simbolica di un milione, con una crescita del 18% sul 2022. Secondo alcuni analisti, questo dato non è sconvolgente, soprattutto se paragonato ai cinque milioni di ucraini arrivati in Ue nel 2022.
A poche settimane dalle prossime elezioni europee di giugno, la riforma serve a togliere un’arma alle forze sovraniste per la campagna elettorale. Le obiezioni delle opposizioni progressiste si concentrano sul fatto che le soluzioni adottate coincidano in larga misura con le richieste delle destre, promuovendo una visione negativa dell’asilo e uno sviluppo dei rapporti internazionali finalizzato a scongiurare nuovi ingressi indesiderati. In sostanza, temono che le soluzioni proposte favoriscano un approccio più restrittivo e meno solidale nei confronti delle persone in cerca di protezione. ■
Dati: Statista.com
Se l'illusione digitale frena lo spirito comunitario
Nascono le comunità giovanili, sessanta nuovi spazi per riappropriarsi della realtà
Una generazione ha cercato di fuggire dalla realtà perseguendo vite virtuali, ma si è ritrovata senza connessione, credendo che un like valesse più di un “come stai?”. TikTok, reel e feed inseguendo l’algoritmo giusto per il contenuto migliore senza rendersi conto che, come viene spiegato anche nel docufilm The Social Dilemma, «se non stai pagando per un prodotto, allora il prodotto sei tu».
Balletti, sponsor, adv, e i guru del minischermo pronti a spiegarti come si “guadagna facile”. Tutto a portata di click o scroll. Anche per contrastare questo, nasce l’esperienza delle “comunità giovanili”, per abbandonare il falso mito della felicità simulata e aiutare i più giovani a vivere la quotidianità e i rapporti sociali, con tutte le
difficoltà che questi possono comportare, mettendo in mostra la loro capacità di agire, favorendo la partecipazione e l’inclusione sociale, oltre che lo sviluppo delle potenzialità di ognuno, il contrasto alla dispersione scolastica e la valorizzazione delle competenze affettive e relazionali. Sono oltre 60, tutte sparse per il territorio nazionale. «Spazi multifunzionali innovativi e inclusivi, dove i protagonisti – spiega il viceministro del Lavoro e delle Politiche Sociali Maria Teresa Bellucci - saranno i giovanissimi tra gli 11 e i 18 anni, e potranno praticare gratuitamente attività ricreative, sportive, musicali, ma anche ricevere ascolto psicologico e servizi dedicati».
Il Programma nazionale inclusione e lotta alla povertà 2021-2027 sarà finanziato
dalla Unione europea e la spesa raggiungerà 250 milioni di euro. Si chiama DesTeenNazione - Desideri in azione, il nome è stato dato dai ragazzi dello Youth Advisory Board (Yab), l'organismo di partecipazione della Garanzia Infanzia in Italia.
Sembra essere lo strumento giusto al momento opportuno. Da un’indagine portata avanti dal Telefono Azzurro, fondazione da sempre in prima linea per il rispetto dei diritti dei bambini e degli adolescenti, insieme a Bva Doxa, istituto specializzato in sondaggi d'opinione, dedicata alla salute mentale dei giovani e realizzata su giovani della stessa età di coloro ai quali sono destinate le comunità, sono emersi dati preoccupanti.
Nelle due settimane precedenti a quando è stato realizzato lo studio, soltanto il 41% dei ragazzi si è sentito felice. Il 21%, invece, ha affermato di sentirsi ansioso o preoccupato, mentre il 6% triste. Inoltre ad 1 ragazzo su 2 il futuro appare come qualcosa di davvero incerto. Senza dimenticare che, stando ai dati della Federazione Italiana Medici Pediatri, negli ultimi due anni si è verificato un aumento di tentativi di suicidio del 75%.
Ogni giorno in Italia, un adolescente o pre-adolescente cerca di togliersi la vita. Tra le principali sofferenze che gli adolescenti riscontrano tra i loro coetanei, vi è al primo posto la dipendenza da internet e dai social network (52%), seguita dalla mancanza di autostima (41%), dalle difficoltà relazio-
nali con gli adulti (40%), ansia e attacchi di panico (30%). Soltanto il 2% ritiene che i propri coetanei non vivano situazioni di sofferenza.
Non va meglio dal punto di vista delle droghe. Secondo la relazione 2023 al parlamento pubblicata dal dipartimento delle politiche antidroga il 28% dei ragazzi tra 15 e 19 anni ne ha fatto uso. La più comune e illegale è la cannabis. Tra le legali, invece, l’alcool: quasi due milioni di adolescenti (il 78%) sono consumatori di alcol, il 33% dei quali ne fa un uso elevato che li porta o li ha portati all’intossicazione alcolica e, tra i 1824enni, la quota di quanti si sono ubriacati nell’ultimo anno è circa il 50%. L'11% dei ragazzi, invece, consuma psicofarmaci, con
picchi del 15% fra le ragazze.
All’appello tra le dipendenze nei giovanissimi non manca neanche il gioco d’azzardo. Secondo un sondaggio realizzato da Nomisma, il 37% dei ragazzi che hanno tra i 14 e i 19 anni ha giocato d’azzardo nell’ultimo anno, di cui il 64% online.
«Il nostro compito – ha spiegato anche Marina Calderone, ministro del Lavoro e delle Politiche Sociali - consiste nel rendere effettiva la parola inclusione, sociale e lavorativa. Questo significa che tutti dobbiamo poter essere parte di un percorso che abbia anche una valenza lavorativa, perché è attraverso il lavoro che si costruisce il progresso della società e si eliminano le diseguaglianze, e insieme sociale, grazie a un impegno condiviso all’integrazione». Senza dimenticare in questo contesto la fragilità della famiglia: su 25,6 milioni di famiglie, il 12% è costituito da nuclei monoparentali suddivisi in 2,4 milioni di madri con figli contro 565 mila padri.
Al di là dello scontro politico tra famiglia tradizionale o arcobaleno, questi dati mostrano un contesto familiare sempre più povero da un punto di vista numerico, dove i bambini hanno maggiori difficoltà a socializzare con persone di età differenti perché coloro che ne fanno parte sono sempre meno. Un quadro che mostra il fallimento di una società e delle sue istituzioni come la famiglia e la scuola.
Aristotele nella sua opera Politica definisce l’uomo zòon politikòn e spiega che «è per natura un animale destinato a vivere in comunità». Anche per questo nasce la necessità delle comunità giovanili. ■
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Le elezioni più grandi della storia
In India si vota in un clima di repressione verso opposizione, minoranze e media indipendenti
di Michelangelo Gennaro
Quasi un miliardo di cittadini pronti a mettersi in fila alle urne. In India si stanno svolgendo le più grandi elezioni democratiche della storia, per assegnare i 543 seggi dello Lok Sabha, la Camera bassa del Parlamento, dove la maggioranza formerà il nuovo governo.
Il 19 aprile è la prima delle sette date previste per le votazioni, che andranno avanti fino a giugno. Il primo ministro Narendra Modi, in carica dal 2014, punta al terzo mandato. Una vittoria scontata per il leader più popolare al mondo, secondo il Global approval rating tracker, che in un decennio ha piegato le istituzioni verso l’autocrazia. Il suo Bharatiya Janata Party (Bjp) dei nazionalisti hindu corre
contro l’Indian National Development Inclusive Alliance, coalizione di ventisei formazioni politiche trainate dal National Congress. Nello storico partito della decolonizzazione, che ha governato il Paese dall'indipendenza del 1947 fino all’ascesa del Bjp, è Rahul Gandhi a raccogliere l’eredità della dinastia Gandhi-Nehru. Con due grandi marce da sud a nord e da est a ovest, «ha seguito la tradizione familiare andando direttamente dalle persone, invece di farsi vedere solo sui social media», afferma il corrispondente di Repubblica Carlo Pizzati.
Lo sforzo non sembra sufficiente, in un clima di repressione del dissenso. Il 21 marzo, il capo ministro dello stato di Delhi Arvind Kejriwal viene arrestato per riciclaggio di denaro. Il fondatore dell’Aam Aadmi Party (Aap) resta in corsa dal carcere di Tihar, con un programma anticorruzione. «È un’infamia che gli hanno buttato addosso alla vigilia delle elezioni, ma sono accuse politicamente motivate», spiega il giornalista Raimondo Bultrini, esperto di Asia oggi in pensione, «il governo vuole far capire
quanto può schiacciare gli avversari in qualsiasi momento».
Nel primo mese di galera, le condizioni di salute di Kejriwal, che soffre di diabete, preoccupano i suoi sostenitori. L’Aap accusa le autorità di negargli le cure mediche, mentre l’Enforcement Directorate, agenzia statale contro i crimini finanziari, sostiene che il detenuto mangi troppo mango e dolci per aumentare i livelli di zucchero nel sangue, cercando un pretesto per ottenere la scarcerazione tramite cauzione. Il politico ottiene l’insulina, farmaco per regolare la glicemia, solo il 22 aprile.
Il successo del Bjp preoccupa Raghu Rai, artista nominato fotografo dell’anno negli Stati Uniti nel 1992: «Era indignato», racconta Bultrini, che lo ha incontrato durante l’ultimo viaggio in India, «dal modo in cui questi goona, balordi, così li chiamava, stanno prendendo il potere». Non solo gli intellettuali, anche le minoranze temono la rielezione di Modi. A gennaio il primo ministro ha inaugurato il tempio induista di Ayodhya, nello Stato
dell'Uttar Pradesh. In quel punto sorgeva la moschea Babri Masjid, distrutta dagli estremisti hindu negli anni novanta, episodio seguito da scontri etnici in tutto il paese che portarono a duemila morti, soprattutto musulmani.
Il leader nazionalista era capo ministro del Gujarat nel 2002, quando scoppiarono tre giorni di violenze contro la popolazione di fede islamica. Non fece nulla per fermare il massacro. Oltre alle minoranze, il governo non rispetta l’indipendenza dei media. Secondo
il Word Press Freedom Index stilato da Reporters Without Borders, l’India è al 161° posto su 180 Paesi considerati dall’analisi sulla libertà di stampa del 2023. Dal 2021, ha perso diciannove posizioni in classifica.
Sui social media gli utenti forzano il controllo dell’informazione, con strategie che rischiano di confondere gli elettori. Su X e Facebook, diventano virali dei video in cui Aamir Khan e Ranveer Singh, star del cinema nazionale di Bollywood, sostengono che Modi non ha rispettato le promesse economiche delle passate campagne politiche. Presto gli attori smentiscono: sono deepfake, contenuti creati da intelligenza artificiale generativa, che si chiudono con lo slogan “Vota per la giustizia, vota per il Congress”. In pochi giorni, ricevono mezzo milione di visualizzazioni.
C’è chi non sembra toccato dagli scontri tra maggioranza e opposizione. «Ero nel seggio elettorale di un villaggio di pescatori, nello Stato di Tamil Nadu, e ho visto grande serenità - racconta Pizzati - c’è un forte orgoglio democratico e la partecipazione è alta, in questo distretto il 76% degli aventi diritto sono andati a votare». La compravendita delle schede non è affatto eccezionale. «Non bisogna sorprendersi che le persone vengano pagate per partecipare ai comiziprosegue - gli elettori ricevono fino a un migliaio di rupie per votare uno o l’altro partito». La corruzione si trasforma in assistenzialismo: «Degli studi di mercato
dimostrano che l’acquisto di beni di consumo aumenta durante il periodo elettorale», conclude il giornalista.
Anche con questi incentivi, alcuni indiani non potranno raggiungere i seggi. Il 26 aprile, un uomo sviene subito dopo aver inserito la scheda. La corsa in ambulanza all’ospedale più vicino, nella città di Ottapalam, non basta a salvare la vita del sessantottenne. Nella regione di Kerala, muoiono altre tre persone. Sono vittime del caldo, con temperature che superano i 38 gradi.
La commissione elettorale indiana ha provato a prevenire il problema, autorizzando gli elettori disabili e gli anziani over 85 a votare da casa. In tutto il Paese ci sono oltre un milione di cabine elettorali, con l’obiettivo ambizioso di mettere un seggio a meno di due chilometri dall’abitazione di ogni cittadino, ma il clima rischia di limitare l’affluenza. Questione dura da risolvere quando il 10% della popolazione mondiale, quasi un miliardo di persone, aspetta il proprio turno per andare alle urne. ■
1. Sunita Kejriwal,moglie del capo ministro di Drlhi Arvind Kejriwal, guida un corteo dell'Amam Aadmi Party
2. Il presidente del consiglio indiano Narenda Modi
3. Due lavoratori dipingono i simboli elettorali del National Congress a Calcutta
Triste addio alla Terra Promessa
Una famiglia che sta pensando all’autoesilio in Italia contro la guerra e in opposizione al proprio governo. I nomi dei protagonisti sono di fantasia
Dvora e Natan sono moglie e marito e sono stanchi e tristi. «Vorrei solo stare a casa», dice lei. La loro casa, oggi, è in Israele, a Tel Aviv, ma hanno un progetto: lasciare il paese, insieme ai figli, e trasferirsi in Italia. Da qualche anno si sono convinti a fare il passaporto, ottenuto grazie all’origine italiana di lei.
La storia di come e perché le loro famiglie si sono spostate in Palestina è paradigmatica di cosa hanno significato, nella prima metà del Novecento, per gli ebrei di tutto il mondo, il sionismo e in generale l’Aliyah, l’immigrazione ebraica in Terra Santa. Una speranza, un sogno o una scelta obbligata.
La famiglia materna di Natan è di origine persiana. Partiti benestanti, durante il lungo e travagliato viaggio, in cui il suo bisnonno muore, vengono derubati e arrivano senza più niente. I suoi nonni paterni, invece, nascono in uno shtetl – termine yiddish per i villaggi a forte maggioranza ebraica –ultraortodosso sui Carpazi, nell’allora Impero austroungarico. «Erano un po’ i ribelli di questa comunità», dice, «per
affrancarsi, mio nonno si è arruolato nell’esercito». Combatte la Prima Guerra Mondiale con la cavalleria, ma viene ferito gravemente. Quando, con la moglie, decidono di partire verso la Palestina, i rabbini della comunità non sono per niente contenti. Giudicano questa scelta un tradimento, un’offesa alla religione e pregano affinché la loro nave affondi. Il resto della famiglia, rimasto in Europa, muore nell'Olocausto. Così come i parenti dei nonni materni di Dvora. Medici pediatri di Berlino, vengono licenziati nel 1933, ma fuggono in tempo.
Da parte di padre, invece, è italiana. Suo nonno era ingegnere, ma anche uno scrittore ben inserito negli ambienti culturali romani. Inizialmente restio, dopo la promulgazione delle leggi razziali da parte del regime fascista nel 1938, viene convinto ad emigrare dal fratello, fervente sionista. Non riuscirà mai ad ambientarsi e, finita la guerra, tornerà spesso in Italia a trovare gli ultimi parenti rimasti. Anche sua moglie ha difficoltà nel sentirsi a casa nella Terra Promessa. Pittrice, non riuscirà mai ad abituarsi alla
di Francesco Espositoluce di Gerusalemme, finendo per posare i pennelli.
Lo spirito artistico, però, si tramanda alla nipote. «Con Natan ci siamo incontrati all’accademia d’arte», spiega Dvora, «abbiamo studiato insieme. Poi siamo rimasti a Gerusalemme qualche anno, lì è nato il nostro primo figlio». Più di trent’anni fa si spostano a Tel Aviv per lavoro e avvertono subito la netta differenza fra le due città: «Gerusalemme è bellissima, ma il sentimento religioso è estremo e ovunque. L’aria fresca di montagna è molto buona, ma quando ci siamo trasferiti abbiamo cominciato a respirare liberamente».
Ora, però, sentono che quella libertà sta venendo a mancare. «Abbiamo sempre desiderato la pace e ci si siamo mobilitati per essa» dicono, «anche durante gli anni di servizio militare. All’epoca c’era la guerra in Libano». Era la prima, quella del 1982, con l’invasione dell’esercito israeliano nel sud del paese, dove erano rifugiati migliaia di militanti dell’Organizzazione per la Liberazione della Palestina (OLP). Negli anni i due hanno partecipato alle campagne nonviolente di raccolta delle olive in Cisgiordania, in cui volontari di tutto il mondo, scortano pacificamente i palestinesi, permettendogli di accedere ai propri ulivi nei territori occupati.
«Non siamo in nessun partito o organizzazione, ma è da quindici anni che scendiamo in piazza contro la direzione politica del governo», dice
Dvora. «Prima era sporadico. A partire dalla riforma sulla giustizia, invece, lo si fa ogni sabato», continua, «sappiamo che il sabato c’è il corteo e poi si raggiunge il presidio dei parenti degli ostaggi».
L’attacco del 7 ottobre ha cambiato tutto nel Medio Oriente e ha influito anche sulla vita e sui progetti di Dvora e Natan. «Una coppia di nostri amici, sempre di origine italiana, voleva trasferirsi. Avevano già trovato una casa. Vivevano in un kibbutz nel sud, vicino alla frontiera con Gaza ed erano dei veri “combattenti di pace”», raccontano, «sono stati uccisi in quel giorno terribile».
L’attacco sembra suscitare un orgoglio sopito: «Nei giorni successivi mi sono sentita molto legata a questa terra, non volevo più andare via» dice Dvora, «questa guerra, però, è così orribile e insopportabile. Penso che la cosa più logica ora sia crearsi un’alternativa fuori».
La ragione e la speranza si scontrano spesso nei momenti di crisi. «Il paese non è mai stato così tanto orientato dagli estremisti di destra», commenta Natan, «quando sembrava che ci potesse essere il risveglio di una forte opposizione, è scoppiata la guerra. Allora, la domanda principale è: ci sarà un cambiamento radicale oppure no? Se no, Israele diventerà un paese retrogrado, ultraortodosso, estremista e fascista, e gente come noi non potrà vivere qui». «Il tema più importante per il futuro», prosegue, «deve essere quello
di una soluzione politica per la Palestina. Affinché succeda questo, qui in Israele la sinistra deve lavorare con gli arabi e i loro partiti, diversamente da come ha fatto fino a oggi».
C’è ancora rabbia per le elezioni del 2020, quando la coalizione di centro Blu e Bianco, guidata dal generale Binyamin Gantz, arriva seconda di poco dietro il Likud di Benjamin Netanyahu. Piuttosto che formare un governo con la lista che riuniva i partiti degli arabi-israeliani, terza forza, si allea proprio con l’attuale primo ministro. «Gantz non mi piace, però c’era un’opportunità per liberarci di Bibi», dice Natan, «voterò la sinistra solo se si alleerà con i partiti arabi. È l’unica possibilità per un Israele diverso». «Se cambierà saremo felici di finire qui la nostra vita», commenta invece la moglie, «la statistica, però, è contro di noi».
Ecco che ritorna forte l’idea di andarsene, di farlo per loro stessi e per i loro figli. «Tutto sommato penso che l’Europa sia ancora la forza più responsabile e in cui ritrovo i miei valori», pensa Natan. Dove andare però? «Su questo litighiamo molto. Lui cerca l’acqua, per fare kayak come qui al mare», dice Dvora, «io voglio una città con tanta arte». Basta questo a immaginare un futuro migliore altrove, lontano da quella terra che per i loro antenati fu speranza, sogno o scelta obbligata. ■
L'AI racconta il cambiamento climatico
Dal Nilo in secca alle Avenue di New York sommerse d'acqua, abbiamo chiesto all'intelligenza artificiale di immaginare le nostre metropoli se non supereremo le sfide ambientali
New York
Il lato oscuro della Gen Z
GENERE
Spesso dipinti come vestali del politicamente corretto, su alcuni temi i giovani hanno posizioni più conservatrici dei loro genitori. Soprattutto gli uomini
L’emoji di una tazza di caffè, accompagnata dalla parola “Women” o “Donne”. Di questa didascalia lapidaria sono piene intere sezioni commenti su Instagram e TikTok. È diventato un meme, un modo per riconoscersi e capirsi all’interno delle comunità di internet. Le bolle del web sono per loro natura escludenti e in questo caso a restare fuori è l’intero genere femminile.
come irrazionali o ridicoli. Il format è diventato così popolare da evolversi in forma scritta, un commento criptico da spammare sotto ogni video, un darsi di gomito virtuale per farsi due risate al testosterone.
di Gennaro Tortorelli"Women" origina da una scena tratta dal videogioco Team Fortress 2. All'inizio del video, due personaggi (Medic e Soldier) sono in piedi in un cortile, con il caffè in mano, mentre una donna cammina accanto a loro. Medic borbotta: «Donne», poi entrambi ridono mentre bevono dalla tazza e dalla caffettiera. La clip si è diffusa su TikTok come video-reazione a immagini di donne che hanno dei comportamenti percepiti
Quando si racconta la generazione Z, quella dei nati tra il 1997 e il 2012, si tende a evidenziarne la modernità da nativi digitali e una rinnovata attenzione verso i diritti umani. Cresciuti nel pieno di nuove ondate di femminismo e immersi in una cultura sempre più incline alle diversità, ci si aspetta da loro idee progressiste e rivendicazioni sul piano dei diritti. Si tratta di un quadro parziale, che non tiene conto di una enorme spaccatura che allontana ragazzi e ragazze.
«Due generazioni, non una», si legge in un recente articolo del Financial
Times che rileva la divergenza tra giovani uomini e donne nei rispettivi livelli di conservatorismo e progressismo. L’analisi, condotta dall’autore John Burn-Murdoch, mostra una dinamica globale che coinvolge Stati Uniti, Germania, Regno Unito e Corea del Sud. La ricostruzione storica indica uno spartiacque nella nascita del movimento #MeeToo. A sette anni di distanza, la netta divisione tra liberal e conservatori riguardo alle molestie sessuali sembra aver causato un disallineamento.
L’ultimo report dell’istituto di sondaggi Ipsos, pubblicato in occasione della Giornata Internazionale della Donna, conferma il trend. Lo studio ha esaminato le opinioni di persone provenienti da 31 Paesi diversi, compresa l’Italia. La generazione Z su alcuni temi si dimostra più reazionaria rispetto alle altre fasce d’età. Secondo il 25% un uomo che resta a casa per occuparsi dei figli perde in termini di virilità, solo l’11% dei baby boomer è dello stesso avviso. Questa differenza è trainata soprattutto dalla componente maschile, il 31% degli uomini gen Z vede un rischio di perdita di virilità, una differenza di 11 punti percentuali rispetto alle coetanee.
Il progresso e l’avanzare dei diritti delle donne è percepito da molti come una minaccia: il 60% dei giovani uomini crede che una maggiore uguaglianza di genere possa discriminarli, il dato scende di venti punti percentuali se l’intervistata è una ragazza. La scarsa sensibilità dei giovani rispetto alla questione femminile è uno dei dati più allarmanti emersi dal nuovo rapporto Flair Italia 2024 di Ipsos. Minacciare di procurare dolore fisico a una donna che respinge l’uomo è condannato dall’83% degli adulti e solo dal 68% dei giovani. Toccare, baciare o
abbracciare una donna senza consenso è stigmatizzato dal 77% dei boomer e solo dal 65% tra gli under 34. Infine, riguardo alle cause dei femminicidi, soltanto il 48% dei generazione Z crede che il motivo sia la tendenza a considerare le donne un oggetto di proprietà dell’uomo, contro il 62% dei boomer.
«Toccare, baciare o abbracciare una donna senza consenso è stigmatizzato dal 77% dei boomer e solo
dal 65% tra gli under 34»
Negli Stati Uniti, i dati Gallup mostrano un significativo cambio di tendenza. Se uomini e donne di età compresa tra i 18 e i 30 anni hanno sempre avuto opinioni progressiste e conservatrici simili, negli ultimi sei anni, è emerso un ampio divario e le ragazze ora hanno una probabilità del 30% maggiore di identificarsi come progressiste rispetto ai coetanei. Anche nel Regno Unito e in Germania le giovani assumono posizioni molto più favorevoli a immigrazione e giustizia razziale, mentre le fasce d'età più anziane restano divise in modo uguale tra i due generi. La tendenza generale vede le donne spostarsi a sinistra mentre gli uomini rimangono fermi. In Germania, però, i maschi under 30 si oppongono di più all'immigrazione rispetto alle generazioni precedenti e sono diventati una parte consistente del bacino elettorale del partito di estrema destra Alternative für Deutschland.
I movimenti nazionalisti e sovranisti
europei guadagnano sempre più terreno tra i giovani e lo fanno soprattutto grazie a una presenza massiva su TikTok. Secondo uno studio della testata Politico Europe, gli europarlamentari appartenenti al gruppo Identità e Democrazia sono tra i più presenti sulla piattaforma e i primi sia in termini di post pubblicati che di audience, con più di un milione di utenti raggiunti. Lo stesso primato si riscontra nel numero di like accumulati. Le aree politiche opposte non riescono ad avere la stessa forza comunicativa. “The Left can’t meme”, la sinistra non sa memare, è un fortunato motto nato negli ambienti dell’alt-right americana che sostiene l’incapacità dei progressisti di produrre contenuti divertenti per via delle costrizioni del politicamente corretto. Con messaggi diretti volti a generare rabbia e indignazione, la destra europea punta a vincere la battaglia culturale sui social media.
Il disallineamento ideologico tra uomini e donne è un meccanismo di risposta ai cambiamenti sociali degli ultimi decenni. «Il maschilismo va condannato, ma il disagio maschile è un fenomeno reale», spiega Emiliana De Blasio, sociologa e professoressa di Gender Politics all’Università Luiss Guido Carli. «L’uomo di oggi fa fatica ad autorappresentarsi in un contesto ugualitario. Una volta tramontate le visioni collettive della società, lo sforzo maggiore riguarda la ricerca del proprio ruolo sociale e i maschi ne sono orfani. Se le donne lavorano e sono indipendenti, noi cosa siamo? La risposta a questa domanda può assumere toni aggressivi». Disillusi e disorientati, i giovani uomini trovano nuove certezze nel pensiero conservatore e in un machismo da cameretta che rischia di farli perdere in una tazza di caffè. ■
Odio misogino e "Non Persone" viaggio nel mondo Incel
WEB
Abbiamo trascorso alcune settimane in un gruppo italiano di questa subcultura online per tentare di comprenderne le dinamiche
«Si odia ciò che non si riesce ad avere». Così un incel giustifica la sua avversione per il genere femminile. Ma cosa significa questa parola? È l’abbreviazione di involuntary celibate (celibe involontario), un termine coniato nel 1993 da una studentessa universitaria canadese, creatrice del blog Alana's Involontary Celibacy Project, uno spazio in cui i single potevano sfogare la propria frustrazione amorosa.
da subito aperta al dialogo e desiderosa di conoscere il nuovo arrivato.
di Chiara GrossiNonostante sia stata una ragazza a dare inizio a questa subcultura online, che si è sviluppata e diffusa in tutto il mondo attraverso piattaforme come Reddit, nel corso degli anni ha avuto una svolta misogina, che abbiamo verificato in prima persona. Abbiamo creato due profili fittizi, uno maschile e uno femminile, in un forum incel italiano, generando contenuti per capire la risposta dei partecipanti. Verso l’account maschile la comunità si è dimostrata fin
Diverso, invece, il trattamento riservato all’account femminile: insulti e commenti a sfondo sessuale sono le uniche cose ottenute, tranne qualche raro tentativo, da parte dei più “moderati”, di fornirci delle spiegazioni sull’origine di tanto risentimento. Attraverso un processo di disumanizzazione, le donne vengono definite con l’acronimo NP, ovvero Non Persone, come spiegato da alcuni di loro: «Non Persone che compiono azioni e scelte in base a istinti animaleschi», «Individui di sesso femminile che non compatiscono minimamente la nostra condizione, ci emarginano dalla società, spesso ci deridono/umiliano con crudezze, facendo la gioia solo ed esclusivamente di bellocci e ricchi».
All’interno del blog, tra i tanti spazi di discussione, ci si può imbattere in
chi utilizza come immagine profilo una foto di Filippo Turetta – il ventiduenne che l’11 novembre 2023 uccise l’ex fidanzata Giulia Cecchettin – o quella del pluripregiudicato Angelo Izzo, o in chi, allegando la foto di una ragazza violentata, commenta con disprezzo «Hanno avuto coraggio a stuprarsela… che bruttona».
È difficile fare una mappatura del fenomeno a causa della natura anonima di questi siti, molti chiusi per incitamento all’odio, ma all’interno si possono osservare due filoni, detti a “basso rischio” e ad “alto rischio”: il primo racchiude gli uomini mossi da un forte senso di insicurezza e autocommiserazione, mentre nel secondo spicca di più un intento violento, laddove il rifiuto si è trasformato in frustrazione e rabbia.
Nonostante le infinite sfumature, gli incel pensano di non poter instaurare relazioni romantiche e sessuali con le donne a causa di tre fattori: la genetica, il processo evolutivo di selezione del compagno femminile e le strutture sociali. Seguendo questa mentalità, l’aspetto fisico è il fattore determinante, insieme alla ricchezza e a uno status sociale elevato. Ogni ragazza sarebbe mossa da un “istinto da speculatrice/approfittatrice” e, per cause “evolutivamente determinate”, alla ricerca del maschio più attraente, definito Alfauomo, attraverso un processo noto come ipergamia. Inoltre, è credenza comune che la conquista di maggiori libertà e diritti abbia portato le donne ad adottare il comportamento ipergamo, consentendo loro di rifiutare rapporti sessuali con uomini poco attraenti. Nel passato, invece, si era costrette a sposarsi per avere una stabilità, in una sorta di “baratto” tra sesso e sicurezza personale.
Nel 2021 la Commissione europea ha redatto un report dal titolo Incels: A First Scan of the Phenomenon (in the EU) and its Relevance and Challenges for P/CVE (prevention and countering of violent extremism), con l’obiettivo di demistificare tale ideologia, parlare di prevenzione e contrasto dell'estremismo violento. Lo studio si basa sui dati raccolti dall’istituto Moonshot che ha analizzato i dati geografici riportati da incels.is, il più grande forum anglofono, nel tentativo di stimare la ripartizione degli utenti europei. L’Italia si trova al quarto posto, dopo Germania, Inghilterra e Svizzera. Dai commenti, inoltre, emergerebbe una paura singolare degli incel del nostro Paese verso i rifugiati: il loro aumento
produrrebbe maggior competizione tra gli uomini, diminuendo così la percentuale di successo dei maschi italiani.
Nei casi più gravi il rancore di questa comunità ha sconfinato la rete: nel 2014 il californiano Elliot Rodger uccise sei persone e ne ferì quattordici. Il giorno prima della strage affidò ad un video, poi diventato virale, i motivi del gesto: «Negli ultimi anni ho dovuto sopportare un’esistenza di solitudine, rifiuti e desideri insoddisfatti, tutto perché le ragazze non sono mai state attratte da me. Ho ventidue anni e sono ancora vergine e per questo vi punirò…». E ancora la storia di Chris Harper-Mercer, Alek Minassian, Faisal Hussain, Scott Beierle, Armando Hernandez Jr, Jake Davison e Mauricio Martinez Garcia, ultimo incel autodichiarato in ordine di tempo a compiere nel 2023 una sparatoria di massa.
Anche in Italia un caso di cronaca è stato ricondotto a questa mentalità: nel 2020 Antonio De Marco, studente ventitreenne di Lecce, uccise l’excoinquilino Daniele e la sua fidanzata Eleonora. Il movente? “L’eccessiva felicità” della coppia, che l’assassino percepiva come irraggiungibile per sé stesso. Nel 2022 un utente ha iniziato una discussione in un forum italiano dal titolo “Antonio De Marco condannato all’ergastolo!”, riportando le parole che il giovane aveva annotato sul suo diario un mese prima di compiere il delitto: «Mercoledì ho avuto una crisi mentre stringevo un cuscino. Ho pensato che,
a differenza mia, gli altri abbracciano delle vere ragazze e così sono scoppiato a piangere. Ho comprato qualche attrezzo... voglio uccidere qualcuno, voglio farlo a pezzi. […] Quando andrò via, potrò uccidere Daniele... mi piacerebbe una donna per prima, ma penso che così sarà una buona base di partenza».
Tra il dissenso generale, molti hanno comunque espresso comprensione per De Marco, descritto come un ragazzo che ha dovuto optare per il gesto estremo al fine di far sentire la sua voce. «Io penso che questo cose accadano anche per il fatto che persone come De Marco non hanno nessuno con cui parlare dei propri problemi, delle proprie frustrazioni», commenta un utente, «Io non voglio difenderlo ma penso di conoscere bene le emozioni che ha provato, essere incazzato con tutto e tutti "perché io no e gli altri si?"».
Nel blog spicca anche una sezione dal titolo “salute mentale”: «Odio me stesso», «Tra tutte le possibilità il suicidio è la scelta migliore», «Ho sicuramente qualche problema, non solo estetico, me ne rendo conto e ho la certezza di vivere la mia esistenza in modi frammentati e distanti», sono solo alcuni dei commenti che esprimono una visione nichilista del mondo. Post che fanno emergere un importante disagio psicologico e una tendenza al suicidio che non dovrebbero trovare sfogo in uno spazio del genere, che potrebbe agire da amplificatore, portando una persona che sta vivendo un momento di disagio a peggiorare la propria condizione psichica. ■
Voglia di baby-giornalismo
ATTIVISMO
Il progetto Press torna a Roma dal 17 al 19 aprile 2024 e trasforma gli studenti del liceo in piccoli giornalisti di Giulia Rugolo
Penna in una mano, microfono nell’altra e le dita sporche di inchiostro nero della carta appena stampata. Per ricreare una redazione giornalistica non ci vuole molto. Bastano computer, quotidiani, quindici tavoli sparsi in due sale di un centro congressi e gruppi di ragazzi pronti a mettersi in gioco.
Giunto alla sua terza edizione, Press (Progetto Redazione e Scrittura per la Stampa), organizzato a Roma dal 17 al 19 aprile 2024 dall’Ong United Network (UN), simula le mansioni che svolgono i veri giornalisti sul posto di lavoro. Le cariche apicali all’interno della simulazione, rivolta ai liceali, ricalcano quelle presenti nella realtà: Direttore responsabile, Vice e Segretario.
Durante la simulazione, gli alunni si interfacciano con diverse attività guidati dagli staffer di UN, che interpretano il
ruolo di caporedattori. Il primo giorno sono previste quattro task: scrivere un articolo di smentita di una fake news, guardare un cortometraggio e redigere una recensione, produrre un articolo di quotidiano e infine creare un’infografica. Il secondo giorno è dedicato alla confezione di un Tg e l’ultimo è diviso in due parti: conferenza stampa e cerimonia di chiusura. Quest’anno, l’evento ha visto l’intervento della cronista di Repubblica Federica Angeli.
«I ragazzi oggi si approcciano a questo mondo in modo quasi inconsapevole. Anche se non se ne accorgono, in realtà hanno a che fare molto spesso con l’ambito della comunicazione. Credo che Press possa essere un’occasione per iniziare a gestire questo rapporto in modo più consapevole, ma anche, perché no, per indirizzare qualcuno che vuole avvicinarsi alla professione», spiega Edoardo Pieretti, Direttore responsabile del progetto.
Press, infatti, aiuta molti studenti a trovare la propria strada. La diciottenne Agnese Andolfi, studentessa del Liceo Classico Ugo Foscolo di Albano Laziale, confessa il motivo della sua partecipazione: «Vorrei diventare fotoreporter e quindi ho pensato che un'introduzione al
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mondo giornalistico potesse essere utile. Qualche anno fa ho visto un documentario e mi sono resa conto di non poter continuare a vivere girandomi dall’altra parte, senza prestare attenzione ai mali del mondo. Vorrei anche rappresentare la bellezza di queste realtà che, per quanto complesse e difficili, racchiudono comunque qualcosa di prezioso. Ed è qui che dovrebbe subentrare la fotografia».
«È essenziale far capire agli iscritti che la loro voce è importante, che devono esprimere le loro opinioni e che hanno le capacità per farlo. Alla fine, vedere la loro soddisfazione ci fa capire che gli abbiamo trasmesso qualcosa nel nostro piccolo», dice Letizia Morgi, la Vicedirettrice.
Se è vero che, come scrive lo scrittore Jón Kalman Stefánsson, «le parole possono essere proiettili, ma anche squadre di soccorso», grazie al progetto Press i giovani giornalisti imparano il valore di un mestiere cruciale per combattere l’ignoranza e denunciare le ingiustizie sociali. Apprendono l’importanza di scegliere i termini giusti, leggere tra le righe e ascoltare i non detti e i sospiri presenti in un testo, dimostrando che la scrittura può essere un luogo sicuro in cui riunirsi e mai separarsi. ■
Viaggiare al ritmo delle stagioni
Alessio, un giovane che gira il mondo a modo suo
di Federica Carlino«Le giornate in ospedale si allungano, hai tanto tempo per pensare, e io mi sono detto che se fossi morto lì quel giorno nessuno si sarebbe ricordato di me», queste sono le parole di Alessio Nobile. Ventisettenne, è partito da Agrigento, dopo che, in vacanza con gli amici, accusa un malore a un polmone che lo costringe a una lunga convalescenza. Da quel momento non si è più fermato. Sfruttando la diversità di richieste che il mondo del lavoro ha in ogni mese dell’anno, ha visitato sei continenti su sette: «Mi manca solo l’America ma conto di andare non appena finisco qui».
L’urgente necessità di acquisire nuove risorse per i lavori stagionali è l’alternativa che i giovani stanno sfruttando. Sono pronti a colmare non solo il gap di personale, ma anche a sostituire chi è andato in pensione. Molti ventenni negli ultimi anni si stanno dedicando a questo tipo di impiego che li porta in giro per il mondo. Un’alternativa che permette di conoscere città nuove, con culture e tradizioni differenti, senza i costi del turismo tradizionale, che tanti giovani, ancora non economicamente stabili, non possono permettersi. Al momento e fino a dicembre sarà a Coffin Bay, nel sud dell’Australia, per fare la
guida turistica in un allevamento di ostriche: «È una baia molto famosa, arriviamo al pontile con delle tute impermeabili per mostrare e spiegare come funzionano gli allevamenti dei molluschi e i vari processi di lavorazione».
Si definisce un viaggiatore e non un turista: quando arriva in un nuovo posto vuole entrarci subito in connessione. Questo è il suo mantra da quando ha iniziato quattro anni fa a seguire uno stile di vita itinerante.
Il primo viaggio all’estero è stato in Francia. Stanco della routine estiva che non riusciva più a soddisfarlo, decide di partire per circa due settimane e dedicarsi alla vendanges (vendemmia). Ha l’occasione di imparare meglio il francese, ma soprattutto di conoscere gente da ogni parte del mondo: «Avevo sentito parlare di questa attività in università da colleghi, sapevo pagassero bene». Si trova in un cam-
1. L'allevamento delle ostriche a Coffin Bay, nel sud dell'Australia
2. Alessio nella sua tenda durante la vendemmia in Francia
peggio con un brasiliano, uno spagnolo e tanti francesi, per un’occasione di lavoro che ogni agosto e settembre attira anche molti ragazzi italiani. Nel nostro Paese invece si faticano a trovare queste figure: secondo Federalberghi, negli anni post Covid-19, il settore dei viaggi e dell’ospitalità registra un calo che va dal 50% al 75%. Ne mancano oltre 200mila, anche quando la stagione turistica sta per partire.
“Cercasi guida turistica in Norvegia, per 7 mesi”: dopo quattro colloqui, uno per ogni lingua per cui si era candidato, e un paio di mesi per studiare storia, cultura e tradizioni del posto, si trasferisce. I fiordi sono uno dei paesaggi che custodisce con più affetto. Gli scenari puri e affascinati lo trattengono più a lungo del previsto. Inizia a lavorare per un villaggio dei Vichinghi, si veste come loro e cerca di avvicinare i turisti a quella cultura tanto distante dalla propria: «È stato divertente ma dopo un’estate passata al freddo avevo bisogno di andare in un posto caldo. Così ho trovato quest’occasione in Australia». Sorride raccontando la sua storia: «Non mi sarei mai aspettato di viaggiare e lavorare così tanto, a volte questi viaggi vanno bene, altri meno, ma non tornerei più indietro». ■
AVVENTURAScienza e Ambiente
«Quei monti rischiano di sparire»
Le Alpi Apuane rischiano di scomparire a causa della continua estrazione del materiale pregiato
di Silvia Della Penna«Nella zona di Carrara siamo arrivati ad un punto di distruzione tale che non c'è più confine tra cava e cava. Sono tantissime e concentrate in un fazzoletto di terra. Una devastazione a cielo aperto continua. Dal punto di vista ecologico e ambientale lì la situazione è persa». Gianluca Briccolani è un alpinista innamorato delle Alpi Apuane che nel 2021 ha deciso di creare un’associazione che tutelasse il territorio: «A nostro avviso mancava un soggetto specifico che facesse ambientalismo e si occupasse di ecologia solo ed esclusivamente per il parco delle Apuane».
Le montagne hanno da sempre un aspetto appuntito e irregolare, ma non a Carrara dove le Alpi sono oramai diventate terrazzamenti dalle venature bianche con forme geometriche perfet-
te. Questo cambiamento paesaggistico è il risultato di una conflittualità che dura da molti anni tra comune, imprenditori e ambientalisti dovuto all’estrazione del pregiato marmo. Si cavano blocchi interi, perché il materiale che esce con una forma geometrica regolare è più prezzabile di uno rotto o frantumato. I guadagni quindi possono variare da poche centinaia di euro a tonnellata fino a oltre 10.000 euro a tonnellata per il blocco perfetto. Per questo motivo i pezzi da 30-40 tonnellate sono i più redditizi e, se perfetti, potrebbero arrivare a costare circa 400.000 mila euro.
La procedura di estrazione prevede che vengano fatti tagli su tutti e quattro i lati del masso con un filo elicoidale, grazie anche all’uso della sabbia silicea e di grandi quantità d’acqua. Viene poi infila-
ta una piastra d’acciaio che sfila il materiale. L’estrazione avviene avanzando in modo circolare rispetto al blocco: sopra, sotto, poi a destra e a sinistra.
Il marmo estratto per le sculture o i monumenti è solo l’1% mentre il resto è destinato alle costruzioni e all’arredamento, quindi all’edilizia privata. Nonostante l’accuratezza, si calcola che almeno il 70% finisca in scaglie, con un mercato parallelo da cui si ricava il carbonato di calcio. Un patrimonio di tutti che diventa sempre più un privilegio per pochi.
Gli attivisti di Apuane Libere documentano le irregolarità: «Noi andiamo in montagna per filmare e fotografare tutte quelle violazioni di legge che non vanno bene. Non solo dal punto di vista dei siti estrattivi che sono dentro, ma anche fuori dal parco». Un esempio sono le cime: «È vietato intaccare le creste delle montagne ma la cresta nera, una delle più importanti del monte Maggiore, viene ogni anno tagliata» raccontano in un episodio del programma Report. Per Gianluca la situazione è critica: «Sono state fatte 55 denunce in soli tre anni ma tutto rimane bloccato. La vera incongruenza è che all’interno di un parco regionale ci sono dei siti estrattivi che lo distruggono, nonostante le Alpi Apuane siano un bene comune e patrimonio dell’Unesco».
«Se
mi toccano un luogo del cuore, non me ne frega nulla dei guadagni. A prescindere dai soldi, è un bene collettivo, di tutti»
In un report del 2020 Giuseppe Sansoni, biologo di Legambiente Carrara, afferma che le cave sarebbero una delle cause principali dei fenomeni alluvionali della zona. Dal 2002 ad oggi ci sono stati quattro alluvioni, anche perché «i pendii dove si accumulano i detriti, a causa della loro pendenza elevata, fanno precipitare a valle l’acqua con grande velocità. Il Carrione, il fiume principale che scorre a Carrara, è stato deviato per creare un piazzale dove posizionare i blocchi di marmo estratti», scrive Sansoni.
Le Apuane sono anche caratterizzate da reticoli di torrenti carsici, in cui scorre l’acqua. Tuttavia, la marmettola, una polvere di marmo che si crea nel momento in cui viene cavato, finisce nei fiumi con
le piogge, insieme a tutte le sostanze usate durante l’estrazione, ovvero lubrificanti, oli o metalli pesanti. Questo rende la maggior parte di questi fiumi morti dal punto di vista biologico. L’effetto è quello di fiumi color latte che scendono a valle fino ad arrivare in mare, asfissiando qualsiasi tipo di vita vegetale e animale.
La richiesta di Apuane Libere è quella di un’estrazione che rispetti le norme di legge: «Noi siamo per una chiusura di tutte le cave, in modo graduale così da evitare shock occupazionale. Però se la politica non vuole chiuderle, quantomeno chiediamo che faccia rispettare le leggi. Gli imprenditori fanno guadagni milionari sulle montagne di tutte e tutti e si permettono anche di non lavorare con le tre-quattro leggi che hanno» spiega Gianluca.
Secondo l’associazione, il primo passo è una raccolta di firme per l'istituzione di una legge di iniziativa popolare per la trasformazione del parco regionale delle Apuane in parco nazionale.
I proprietari delle cave però sostengono che chi è contro le cave è contro il lavoro e si oppongono ai tentativi di limitare le escavazioni intensive. Il 30% dei proprietari delle cave nella zona si appella ad un editto del 1751 in cui Maria Teresa Cybo Malaspina, duchessa di Massa e principessa di Carrara, stabilì che chi lavorava da almeno vent’anni un pezzo di montagna avrebbe ottenuto
una concessione gratuita e perpetua per la sua escavazione. I beni estimati, così vengono chiamati, sono stati poi ereditati o venduti. Molti degli attuali proprietari hanno comprato questi estimi e li considerano titoli ancora oggi validi per lo sfruttamento delle cave, per questo motivo non pagano nulla per le concessioni né al comune, né alla Regione, né allo Stato. Grazie a questo editto di tre secoli fa, chi possiede la cava si ritiene il proprietario della montagna. Il comune riceve dalle restanti concessioni, circa il 70%, tramite la tassa di estrazione e la tassa di concessione che rendono complessivamente circa 25 milioni di euro l’anno.
«Se mi toccano un luogo del cuore, non me ne frega nulla dei guadagni. A prescindere dai soldi, è un bene collettivo, di tutti», racconta con tono deciso Gianluca.
Da anni gli abitanti di Carrara e delle realtà limitrofe, vivono un ricatto occupazionale, costretti a scegliere tra ambiente e lavoro: «Per come la vediamo noi, siamo al livello dell’Ilva di Taranto», chiarisce il Presidente di Apuane Libere.
Anna, proprietaria di un negozio di artigianato del marmo al di fuori della città di Carrara, racconta: «La situazione è invivibile. I camion corrono ad altissime velocità su queste strade piccole, lasciando tutte scie bianche. Se ci fosse una possibile alternativa, non faremmo questo lavoro». ■
Scienza e ambiente
Il materiale che il Signore dimenticò
Dalla sintesi del polipropilene al dramma delle microplastiche. Una breve panoramica su una croce e delizia dei nostri tempi
di inventare
bakelite, polivinilcloruro (PVC), Cellophane, nylon, PET (polietilene tereftalato), vinile, formica e poliestere.
“Fatto il polipropilene”, annota sulla propria agenda Giulio Natta l’11 marzo 1954. Un’affermazione laconica con cui l’ingegnere chimico registra una scoperta che gli sarebbe valsa nove anni dopo il Premio Nobel per la chimica, condiviso con il collega tedesco Karl Ziegler.
La polimerizzazione del propilene con un catalizzatore a base di titanio, però, è solo uno dei tanti contributi forniti dallo studioso allo sviluppo della chimica macromolecolare. Nel corso della sua prolifica carriera, Natta ha pubblicato più di 600 lavori scientifici, è stato autore di 316 brevetti industriali e ha sintetizzato insieme ai suoi collaboratori 130 nuovi polimeri. Tuttavia, il titolo di “inventore della plastica” che alcuni gli hanno conferito in seguito non corrisponde a realtà.
Il polipropilene è soltanto una delle plastiche che sono state sintetizzate nella prima metà del secolo scorso, insieme a di Lavinia Monaco
Leggeri, duttili, resistenti all’acqua e al calore e poco costosi, a partire dagli anni ’60 questi materiali sono diventati i più utilizzati dalle industrie per produrre di tutto, dalle tubature ai giocattoli, rivoluzionando la quotidianità delle società occidentali e segnando l’immaginario di milioni di persone.
La loro invenzione ha suscitato un entusiasmo così grande da spingere alcuni a soprannominarle “il materiale che Dio dimenticò di inventare”. Tuttavia, i loro innegabili vantaggi col tempo sono stati messi in ombra da limiti insormontabili, primo fra tutti l’incapacità di biodegradarsi e trasformarsi in cibo per altri esseri viventi. Il consumismo sfrenato e la diffusione di oggetti “usa e getta”, poi, hanno peggiorato la situazione rendendo questi rifiuti una piaga insanabile che inquina suolo, aria e acque. Le microplastiche, in particolare, sono entrate da tempo nella catena alimentare finendo per accumularsi anche nel corpo umano, come hanno rilevato alcuni recenti studi.
Secondo i dati messi a disposizione dall’Unione Europea, dai 1,5 milioni di tonnellate di rifiuti di plastica che si producevano nel mondo nel 1950, si è arrivati
ai 359 milioni di tonnellate del 2018. Di fronte a questo mare di spazzatura, una parte della società civile si è mobilitata per cambiare le cose, arrivando in alcuni casi a modificare radicalmente il proprio stile di vita.
La Giornata mondiale della Terra, festeggiata lo scorso 22 aprile, è soltanto l’ultima delle manifestazioni dedicate a questo problema. La Ong americana Earthday.org che l’ha organizzata ha chiesto la riduzione del 60% della produzione di tutte le plastiche entro il 2040.
In Europa la termovalorizzazione è ancora il metodo più utilizzato per smaltire questo genere di rifiuti, seguito dal riciclo e dalle discariche. Per creare un’economia circolare rispettosa del clima, nel corso degli ultimi dieci anni l’Ue ha adottato provvedimenti all’avanguardia. Molti di questi favoriscono il loro riciclo, vietano la produzione di quelle monouso più utilizzate, introducono nuove regole sugli imballaggi, fino a prospettare il raggiungimento della neutralità climatica entro il 2050.
Obiettivi ambiziosi non condivisi da tutti. Ancora una volta un presente pieno di incertezze sembra non voler cedere il passo ad un futuro che politiche poco lungimiranti stanno rendendo sempre più nebuloso. ■
Sostenibilità mestruale
L’associazione Selene parla delle conseguenze che i dispositivi igienici assorbenti hanno sulla natura
Gli assorbenti, come molti altri prodotti monouso, possono avere un impatto significativo sull’ambiente: sono costituiti dal 90% da plastica e impiegano circa 500 anni per disintegrarsi. Secondo uno studio pubblicato nel 2013 da Fater, un'importante azienda del settore che comprende marchi come Lines e Pampers, il 3% dei rifiuti totali in Italia è attribuibile a prodotti assorbenti per la cura della persona. Questo dato equivale a circa 900 mila tonnellate all'anno su un totale di rifiuti non recuperabili pari a 32 milioni di tonnellate. «Considerando che nel mondo ci sono più di 3 miliardi di persone mestruanti, l’influenza che questi dispositivi hanno sull’ambiente non è trascurabile».
Così l’Associazione Selene, composta da ostetriche libere professioniste, espone la propria preoccupazione sulla questione. Considerando anche l’utilizzo di energia e l’inquinamento dato dal processo di produzione e distribuzione,
questi strumenti giocano un ruolo non indifferente sulla salute del pianeta. Nel 2018, la Commissione Europea ha eliminato gli assorbenti dalla lista di prodotti inquinanti usa e getta per mancanza di alternative diffuse per le donne.
In realtà, però, esistono dispositivi alternativi come quelli lavabili, che in quanto oggetti riutilizzabili, sono anche economicamente convenienti. «La coppetta mestruale è sicuramente lo strumento più facile da gestire dal momento che durante la mestruazione si può svuotare e reinserire in maniera piuttosto rapida», ma è ancora scarsamente utilizzata per diversi motivi, quali difficoltà pratiche o condizioni igienico-sanitarie non sufficienti: «Utilizzare una coppetta in modo sicuro in ambienti dove non esiste acqua corrente. Gli assorbenti lavabili potrebbero comunque rappresentare una valida alternativa e in molti paesi vengono già utilizzati».
Tra le preoccupazioni sull’utilizzo di strumenti alternativi c’è quella riguardante l’età anagrafica e le condizioni anatomiche e fisiche delle donne negli anni in cui arriva il primo ciclo mestruale, ma le ostetriche dell’Associazione Selene ci tengono a sottolineare che non c’è un’età specifica in cui è possibile iniziare:
«Si può partire da subito. Esistono davvero tantissimi tipi di coppetta, di diverse consistenze e dimensioni. Per chi è più giovane si possono utilizzare quelle più piccole in base alle necessità».
A novembre 2018, il Global Sustainability Institute di Cambridge ha prodotto uno studio sulla percezione della sostenibilità dei prodotti per il ciclo mestruale. Dai risultati emersi su un campione di 300 persone, di cui 289 donne, risulta che il 43,3% di esse è "ben consapevole" della questione. Al contempo, è stata condotta una ricerca della Boston University School of Medicine basata su dati provenienti dal Nurses' Health Study, un ampio database avviato nel 1989 per studiare i fattori di rischio legati a diverse malattie croniche femminili. Sono stati analizzati i dati di oltre 34.800 pazienti, confrontando informazioni sul loro benessere generale e la località di residenza con i livelli di esposizione al pulviscolo atmosferico.
I risultati hanno fornito importanti informazioni sull'impatto dell'inquinamento sulla fertilità e sulla salute riproduttiva delle donne. Secondo uno studio, ogni incremento di 45 microgrammi per metro cubo di particolato atmosferico è associato a un aumento dell'8% nel rischio di cicli irregolari nelle teenager. ■
Scienza e ambiente
Ogni sette maledetti minuti
Con questa frequenza uno statunitense perde la vita per overdose da fentanyl. La sostanza, adesso, minaccia l’Europa
In America circola una droga che uccide più giovani adulti dai 18 ai 45 anni degli incidenti stradali, dei tumori o delle malattie cardiovascolari. Non solo: tra le migliaia di vittime c’è anche chi a diciott’anni non è ancora arrivato e mai arriverà.
C’è Adrian Lopez, detto Pancho, appena quindicenne: il suo unico errore è quello di accettare una pasticca da sconosciuti a una festa in casa, quando è già ubriaco. Gli amici lo ricordano per il sorriso contagioso e il suo fare un po’ ingenuo.
C’è Jessica, 12 anni, ragazzina vivace, atletica e amante della pallavolo. A stroncarla è la sua prima e unica dose: non realizzerà mai il suo sogno di allenarsi con una squadra professionista e prepararsi per le Olimpiadi.
C’è Kristofer, un anno e undici mesi. Lo trovano senza vita, a dieci giorni dal suo secondo compleanno, con il volto e le labbra bluastri: la madre e il compagno stavano fumando fentanyl sul divano, a pochi metri da lui.
padre biologico. Tre delle centinaia di vittime cui la community Instagram fondata dall’attivista Jeremy Kelsay si sforza di dare un volto e un nome, dedicando a ognuna di queste un video-reel di un minuto, ultimo gesto d’amore da parte di amici e familiari. Il format è sempre lo stesso: una sequenza di foto e filmati di momenti felici, introdotta da un’amara intestazione, “dear fentanyl”, caro fentanyl. In chiusura l’emoji di un’aquila e la scritta “Forever”, seguita dagli anni che i giovani avevano al momento della morte.
La pagina si chiama “Every 11 minutes”: il numero “undici” si basa su dati non aggiornati e sottostima la frequenza dei decessi.
di Simone SalvoQuarantotto ore più tardi sarebbero intervenuti i servizi sociali per portarlo via da quella casa, su segnalazione del
Per uno statunitense perdere un amico o un familiare per overdose è un dramma comune. Un italiano, invece, fa fatica a rendersi conto dell’entità della tragedia. Scorrendo il feed della community non riusciamo a capacitarci di come molti adolescenti, bambini e persino neonati possano essere uccisi da una sostanza che a malapena conosciamo e di cui quasi nessuno aveva sentito parlare fino a qualche settimana fa, quando il governo Meloni ha lanciato un piano di prevenzione.
Il fentanyl appartiene alla classe degli oppioidi sintetici: è cioè un farmaco prodotto in laboratorio, ma con un meccanismo d’azione simile all’oppio e ai suoi derivati naturali. Impiegato come anestetico e analgesico nel trattamento del dolore cronico, è cinquanta volte più potente dell’eroina. Come questa, si associa a dipendenza e a rischio di overdose, con una dose letale di soli 2 mg (in foto: confronto tra fatal dose e una moneta). Per avere un’immagine più chiara, basterebbe un chilogrammo di fentanyl per uccidere l’intero continente europeo. Negli Stati Uniti sono già centinaia di migliaia le vite spezzate negli ultimi dieci anni: più di 70.000 nel solo 2022.
Nell’ignoranza dell’Europa, dall’altra parte dell’Oceano l’emergenza inizia già nel 2016, con l’avvio della quarta ondata dell’epidemia degli oppioidi. Nella storia recente degli USA ci sono dei precedenti: a metà anni novanta si assiste a un picco nel consumo di eroina ma, secondo i dati del Center for Disease Control and Prevention, è l’ossicodone il vero protagonista della prima ondata (1999-metà 2000).
Commercializzato sotto il nome di OxyContin dall’azienda farmaceutica Purdue Pharma, l’oppioide semisintetico prometteva gli stessi benefici della morfina, senza l’annesso rischio di dipendenza. Iniziò una massiccia campagna di marketing, con un esercito di giovani venditori e venditrici dispiegato in tutte le contee: l’obiettivo era convincere i medici a prescri-
vere il maggior numero di pillole possibile. In base alla quantità di ricette firmate, si offrivano anche premi e benefit di varia natura. Anni dopo si scoprì che la compagnia era al corrente dei pericoli della sostanza, ma insabbiò le evidenze per evitare uno scandalo.
Nel 2007 la Purdue Pharma fu costretta a pagare una multa di 600 milioni di dollari per l’utilizzo di pratiche ingannevoli. La vicenda è diventata un caso mediatico, ben documentato dalla serie Netflix Painkiller.
Negli anni duemiladieci erano centinaia di migliaia gli americani dipendenti da oppioidi: terreno fertile per una seconda ondata guidata dall’eroina. È con il fentanyl, però, che la curva diventa un ripido piano inclinato: dopo una terza ondata sostenuta dal solo farmaco di prescrizione, arriva una quarta potentissima crisi, in cui l’attore principale è il mercato clandestino. I cartelli messicani iniziano a produrre la droga in quantità industriale e senza alcun rispetto delle dosi farmacologiche. Inondano gli Stati Uniti con pasticche contenenti più oppioide rispetto alla dose letale. Nell’ottica di diversificare e ampliare il mercato, cominciano, inoltre, a mescolare il fentanyl ad anfetamine e stimolanti, con effetti contraddittori e devastanti sull’apparato cardiocircolatorio.
Iniziano a delinearsi due profili di consumatori. Il prototipo classico è rappresentato dagli ex-eroinomani, che af-
follano i marciapiedi di Philadelphia, Los Angeles, San Francisco: per la loro postura e andatura ricordano degli zombies. Ci sono poi i cittadini comuni e dell’America bene: giovani e adolescenti che entrano in contatto con la sostanza in discoteca o nelle feste in casa. Per molti di loro è il primissimo approccio con il mondo della droga. C’è persino chi assume il fentanyl in modo inconsapevole, disciolto in un drink o tagliato con altre party drugs.
La rivista Rolling Stone ha definito l’epidemia degli oppioidi come «un problema unicamente americano». Sono diverse le possibili spiegazioni sul perché la crisi non si sia – ancora – replicata anche da noi in Europa: la lontananza geografica dai cartelli della droga, le regole più rigide in merito alla prescrizione medica, un diverso tessuto sociale ed economico. In base ai dati dell’Istituto Superiore di Sanità, i morti per overdose da fentanyl in Italia dal 2016 ad oggi sarebbero solo due.
«All’R5
di Tor Bella Monaca bastano cinque secondi e 25 euro per comprare una pasticca in un anonimo blister rosso senza marchi»
Le cose potrebbero presto cambiare: il 12 marzo il sottosegretario alla presidenza del Consiglio Alfredo Mantovano ha annunciato un piano di prevenzione per contrastare l’uso improprio dell’oppioide e il suo ingresso sul mercato nero. I servizi segreti avrebbero intercettato un interesse della ‘Ndrangheta per la sostanza. Da allora si sono moltiplicate le segnalazioni: il 24 marzo sul Giornale di Vicenza si parla di un aumento di overdosi sospette presso l’Ospedale San Bortolo, notizia presto smentita dal portavoce dell’Aulss 8. L’ufficio stampa dell’ISS conferma, invece, il ritrovamento di una dose di eroina tagliata con l’oppioide in provincia di Perugia: «È la prima volta che accade nei nostri laboratori di analisi».
La minaccia del fentanyl è molto più concreta di una scritta “POSITIVO” su un foglio bianco. All’R5 di Tor Bella Monaca, centro nevralgico dello spaccio romano, bastano cinque secondi e 25 euro per comprare una pasticca in un anonimo blister rosso senza marchi. La droga che ha ucciso centinaia di migliaia di statunitensi è già qui, nelle periferie delle nostre città, e forse non siamo ancora abbastanza preparati per affrontarla. ■
Bruxelles e Strasburgo addio, fra ricordi e sfide per il futuro
POLITICA
Gli eurodeputati
tracciano un bilancio dal
2019 ad oggi. Contrastanti i pareri sull’operato di Ursula Von der Leyen alla guida della Commissione
promosso dall’ex commissario olandese Frans Timmermans ai tentativi dell’UE di giocare un ruolo da protagonista nello scacchiere internazionale, passando per gli investimenti su immigrazione, digitalizzazione e ricerca. Senza dimenticare il sostegno umanitario e finanziario all’Ucraina e le sanzioni all’invasore russo.
lavoro apprezzabile», senza dimenticare però la politica internazionale. Se per Aguilar, l’Alto rappresentante per gli affari esteri e la sicurezza comune Josep Borrell ha fatto crescere la diplomazia europea, «c’è ancora molto da fare per essere una potenza rilevante, un attore rispettato e in grado di parlare con una voce unita e udibile nella globalizzazione».
«È stata una legislatura unica, caratterizzata dal fattore sorpresa, con sfide inaspettate come la pandemia e l’aggressione russa dell’Ucraina», racconta a Zeta Juan Fernando Lopez Aguilar, socialista, presidente della Commissione per le libertà civili, la giustizia e gli affari interni del Parlamento europeo parlando degli ultimi cinque anni. Si avvicinano le elezioni di giugno, il tempio della democrazia accoglierà i nuovi rappresentanti a luglio. È stato un quinquennio denso di ostacoli, a partire dal contestato pacchetto “green”
Riconoscendo che «c’è ancora molto da fare per acquisire autonomia strategica nella politica estera, di sicurezza e difesa nei confronti del vicino pericoloso Putin», il politico spagnolo plaude all’Unione, che «ha reagito molto meglio rispetto al passato, in modo unitario e ambizioso, con un’agenda digitale legata all’intelligenza artificiale, agli impegni ambientali e un accordo su migrazione e asilo, l’affare più a lungo divisivo e fastidioso». La sfida principale per l’ex ministro della giustizia del governo Zapatero I dal 2004 al 2007, è recuperare e rafforzare il pilastro sociale, un campo dove «Nicolas Schmitt, candidato socialista alla Commissione, ha fatto un
Su questo punto è d’accordo Nicola Danti, vicepresidente del gruppo liberale Renew Europe, per cui le priorità nella prossima legislatura sono dettate dalle questioni internazionali. In cima c’è la capacità strategica di difesa, assente, perché «l’Europa è oggi dipendente dalla Nato». La riforma delle istituzioni è ritenuta necessaria dato che «così com’è quest’Europa non funziona», aggiunge il deputato toscano di Italia Viva. «Abbiamo fatto passi avanti in questa legislatura col Next generation Eu, dobbiamo rendere strutturale il finanziamento di un debito pubblico europeo che consente di affrontare la transizione energetica, digitale».
Dopo la pandemia, per Tiziana Beghin – appartenente al gruppo dei non iscritti – «c'è stato un cambio di approccio con il Next generation Eu e il Recovery Fund, una pietra miliare nella storia dell'UE, la prima emissione di debito comune garantito dall’Europa». Secondo l’esponente del Movimento 5 Stelle, l’Unione ha fatto grandi passi rispetto al cambiamento climatico, «un problema che non può più essere ignorato», con il Green Deal, «un pacchetto legislativo che sta portando molte novità». «Abbiamo degli obiettivi per il 2050 che richiedono target intermedi che devono essere raggiunti» prosegue l’europarlamentare ligure, chiedendo che le risorse non siano destinate a «eserciti e armi, ma a cittadini e imprese, per affrontare le improcrastinabili sfide del futuro».
Su Ursula Von der Leyen il bilancio è agrodolce. A Bucarest nel congresso dei popolari è stata ufficializzata la candidatura della tedesca per un secondo mandato alla guida della Commissione.
Tra chi ha apprezzato il lavoro svolto, e chi parla di una presidenza mutevole in base alle necessità, a due facce soprattutto sulla questione climatica, la posizione della fedelissima di Angela Merkel fa discutere. Vicina alla destra in alcune situazioni, e alla sinistra in altre. Secondo Beghin, pur essendo parte di un partito conservatore, l’ex ministra tedesca della difesa ha cercato un dialogo con tutte le forze politiche, dando un’impronta equilibrista e molto vicina alla transizione energetica. Ma, allo stesso tempo, ha parlato di «luci e ombre», come la «mancata trasparenza sui vaccini» e il “Piepergate”, la discussa nomina dell’eurodeputato e compagno di partito nella CDU – i cristianodemocratici tedeschi – Markus Pieper a inviato dell’Unione per le piccole e medie imprese (Pmi).
Duro sull’operato dell’Unione è Angelo Ciocca, di Lega e Identità e democrazia, per cui «i cittadini non sono contenti, si sarebbero aspettati un’Europa alleata e non nemica». Accusa l’Unione di aver danneggiato l’agricoltura italiana, promuovendo insetti e carne sintetica a svantaggio della valorizzazione del Made in Italy. Ciocca non risparmia critiche sul tema dell’auto elettrica, parlando di «un intero comparto distrutto per consegnare le nostre auto a Cina e India», e sulle case green, che «mettono in crisi le famiglie». Secondo il leghista, la priorità è aiutare le famiglie «perché con la certezza dell’abitazione si può progettare un futuro». «Si parla di scarsa natalità, ma senza alloggio non si può pensare a fare
figli», conclude l’europarlamentare.
Nella destra dell’emiciclo, Carlo Fidanza, esponente di Fratelli d’Italia e dell’Ecr – il gruppo dei conservatori –sostiene che la transizione digitale ha trovato un consenso diffuso e trasversale, al contrario di quella green, «terreno di scontro molto forte». «C'è stato un approccio non bilanciato tra i tre pilastri della sostenibilità: ambientale, economico e sociale», le sue parole. Secondo lui sono state sacrificate le ragioni dell'impresa e del lavoro a danno della competitività delle aziende e «della tenuta occupazionale dei posti di lavoro
nei territori». Fidanza parla di una Commissione a due facce, «per quattro anni troppo ideologica nella gestione delle transizioni» e nell’ultima parte più vicina alla visione dell’Ecr.
Destra e sinistra si preparano alle consultazioni, con gli occhi puntati sui temi che saranno dominanti all'Europarlamento. Le sfide del futuro saranno molteplici, a partire dai conflitti in corso, il Green Deal e la modernizzazione accompagnata dall'intelligenza artificiale. ■
Tra libri e piscina, una vita sincronizzata
Lucrezia Ruggiero racconta la strada verso i suoi primi Giochi, raggiunti alternando nuoto sincronizzato e studio
di Isabella Di Natale
Cinque medaglie d’oro, cinque d’argento e una qualificazione alle Olimpiadi di Parigi 2024. Lucrezia Ruggiero, campionessa di nuoto sincronizzato, si prepara per le gare che la vedranno impegnata con le compagne dal 24 luglio all’11 agosto. Ventitré anni, romana, inizia le acrobazie in acqua da piccolissima, per volontà della mamma: «Diceva che questo sport serve a fare il fisico perfetto, così ha iscritto prima le mie sorelle più grandi e poi me», ricorda l’atleta.
Alle prime lezioni in vasca alterna corsi di pallavolo, danza, equitazione e pattinaggio sul ghiaccio: «Sono sport bellissimi, ma ho deciso di lasciarli perché sono di uno scoordinato pazzesco, anche se lo nascondo bene», dice prendendosi un po’ in giro. Così decide di dedicarsi totalmente al nuoto artistico.
Da qui parte un percorso fatto di costanza e sacrifici portati avanti senza mai mollare, «anche se a volte ci sono andata vicino», ammette. «A quindici anni non è
facile vedere i tuoi coetanei uscire mentre tu non hai un attimo di stop». Gli sforzi fatti, però, danno i loro frutti e Lucrezia entra nel gruppo della polizia di Stato quando ancora non ha finito il liceo: «Lì è diventato un lavoro a tutti gli effetti. Sono arrivate le competizioni più importanti, le responsabilità ma anche le gioie».
Il racconto dei tanti traguardi è interrotto da un’altra delle sue passioni: «Sto preparando le polpette arrostite», dice mentre ne controlla la cottura, «anche se l’esperto di piatti salati è il mio ragazzo. Io sono più brava con i dolci». Alla cucina si dedica nel poco tempo libero che le rimane. Undici ore di allenamento quotidiano e lo studio alla facoltà di giurisprudenza Luiss Guido Carli: «Non ho mai messo da
parte i libri. Voglio trovarmi nel momento giusto con le carte giuste», che nel suo caso significa una laurea in mano e un futuro ancora da decidere. «Non so che lavoro farò, ma l’università mi permette di immaginare qualcosa di diverso nei giorni in cui lo sport non va», dice Lucrezia, sottolineando come con caparbietà sia possibile unire sport e studio.
I mesi precedenti ai giochi olimpici richiedono preparazione fisica e psicologica. Cinque tecnici diversi e corsi per gestire l’ansia, che la nuotatrice definisce come «uno stimolo a fare sempre meglio, al di là del punteggio».
L’insegnamento appreso alla fine del 2022, dopo la vittoria di quattro ori in due mesi: «Mi dissero che visti i risultati, in futuro avrei potuto fare solo peggio. All’inizio me la sono presa, poi ho capito che conta più la fatica che c’è dietro, il colore della medaglia cambia poco», racconta Lucrezia facendo un tuffo nel passato. I cinque cerchi non li ha mai sognati, preferisce andare a piccoli passi, con ambizioni che si ingrandiscono nel tempo.
Nella capitale francese porterà con sé una bustina di sale scaramantico: «È lo stesso che mi ha dato mia madre dieci anni fa, non l’ho mai sostituito». Niente spoiler, invece, sulla coreografia, anche se ammette: «Abbiamo costruito degli esercizi molto competitivi. Le nostre avversarie avranno filo da torcere». ■
Lo spadista che danza sulla pedana di Parigi
DUELLO
Davide Di Veroli, fra i più grandi talenti della scherma azzurra, è alla sua prima Olimpiade
di Filippo Cappelli
«Oro agli Europei, ai Mondiali individuali e a squadre. Difficile trovare uno schermidore capace di mettere in fila nel 2023 una tale serie di successi. Davide Di Veroli, talento italiano di spada, ci è riuscito e ora corre verso la prima Olimpiade, a Parigi: «L’obiettivo è dare il massimo in ogni stoccata – ci dice – non voglio avere nessun rimpianto a fine gara». Lo incontriamo all’ingresso del club “Giulio Verne Scherma”, nel quartiere Torrino di Roma, dove si allena ogni giorno da quindici anni, seguito dai due storici maestri, Maria Pia Bulgherini e Massimo Ferrarese. Slanciato, sorriso accogliente e chiavi in mano, è lui ad aprirci la porta della palestra: «È il mio posto felice. Fin dal primo provino, a sette anni, ho respirato aria di casa».
Studente di Economia alla Luiss, figlio di un’ex pallanuotista di Serie A e di un campione italiano di salvamento, Di Veroli è rapido e leggero. I piedi si spostano con eleganza sulla pedana, anche grazie alla danza, che ha praticato per quattro anni: «Ho fatto il liceo coreutico e sono rimasto molto legato alla disciplina. Tutt’oggi mi aiuta a mantenere l’equilibrio e a gestire il fiato in gara», precisa.
I primi passi nel fioretto, assieme alla sorella Aurora e al fratello Damiano, oggi campione del mondo Under-20, poi il passaggio alla spada: «Il c.t. della Nazionale mi convocò per Giochi del Mediterraneo, Europei e Mondiali. Le gare andarono molto bene, quindi la scelta si è fatta un po’ da sola», confessa. Alle prime medaglie nella categoria under-17 segue l’oro alle Olimpiadi giovanili di Buenos Aires 2018, fino alla consacrazione nell’ultima stagione, con il primo posto nel ranking mondiale.
La scalata al vertice della scherma internazionale avviene grazie al lavoro quotidiano in palestra, dove alterna pedana e sollevamento pesi. Sulla lavagnetta appesa al muro, il preparatore atletico scrive gli esercizi da svolgere in mattinata: stacchi con il bilanciere e spinte con i manubri sulla panca piana, per rinforzare le braccia, affondi per curare
l’esplosività nelle gambe. In un assalto, però, non contano solo i muscoli: «Ogni gara è una sfida di nervi – rivela Davide mentre fa stretching – Nei secondi finali, quando la fatica inizia ad annebbiarti la vista, la lucidità di pensiero fa la differenza. Distingue il bravo schermidore dal campione».
La spada è la disciplina che più si avvicina al duello ottocentesco: si può colpire tutto il corpo, a patto che si usi la punta dell’arma e si imprima una forza di almeno settecentocinquanta grammi. Se gli sfidanti tirano in contemporanea, vengono premiati con un punto, perché non esiste la cosiddetta priorità, presente nel fioretto e nella sciabola. Vince chi effettua per primo quindici assalti. Lo scorso dicembre, Di Veroli ha ottenuto il punto decisivo per la vittoria dell’oro iridato a squadre, ai Mondiali di Milano: «Trionfare davanti ai nostri tifosi, trent’anni dopo l’ultima volta, è stata un’emozione unica».
Spinto da un 2023 magico, Davide vuole stupire anche ai Giochi. Il primo appuntamento è fissato il 28 luglio, quando si terrà la gara individuale, mentre il 2 agosto sarà la volta di quella a squadre. L’allenamento è finito, qualche ora di riposo e poi si torna in palestra per affinare la tecnica. Su una sedia in un angolo, accanto al casco e alla spada, la divisa bianca della Nazionale è pronta per essere indossata. Per un’estate da vivere fino all’ultima stoccata. ■
Quel che resta della scena romana
Il passato e il presente di un genere che ha cambiato il senso
della parola “indie” SOUND
Roma è una città con cui è difficile rimanere arrabbiati. Non importa se i mezzi pubblici seguono orari facoltativi o i marciapiedi sono invasi dalle smart, quando il sole dipinge le strade di un rosso antico che esiste solo qui, tutto diventa poesia.
L’atmosfera della Capitale, con i suoi tempi lunghi e la sua dolce malinconia, è stato l’habitat naturale di molti artisti indipendenti che hanno creato un vero e proprio genere. Calcutta, Fulminacci, Gazzelle, Coez, Franco 126 sono solo alcuni dei nomi che in Italia hanno ridefinito il significato della parola “indie”, diventata sinonimo di voce e chitarra, cantautorato contemporaneo in chiave pop, e anche un po’ di Roma.
Oggi, di quella “scena romana” rimangono ancora delle influenze, ma molte cose sono cambiate. «Col tempo si sono mischiate diverse sonorità, anche provenienti dalla trap – racconta Pierantonio Grassi, artista e produttore musicale –secondo me ora siamo in un momento di transizione, tra cinque o sei anni vedremo il passaggio a un nuovo genere». Anche secondo Pierdomenico Niglio, musicista del duo “Niglio” insieme a suo fratello, al momento ci troviamo in una fase nuova
ma non ancora ben definita: «C’è chi evolve e chi invece crea una rottura. Secondo me è ancora presto per parlare di rottura, però Roma offre un grandissimo fermento e l’ambiente indie è tuttora ricchissimo».
Per la musica indipendente, il quartiere simbolo era e rimane il Pigneto, dove si trovano alcuni locali storici che ancora oggi sono un punto di riferimento per gli appassionati. Tra questi, il Pierrot le fou è un’istituzione: da qui sono passati, all’inizio della loro carriera, anche i The giornalisti e Calcutta.
«Rispetto a un tempo la scena è meno uniforme, ci sono molti generi diversi», racconta Ezio Codastefano, che ha una piccola etichetta discografica e lavora al Pierrot le fou come fonico. «Noi spesso facciamo dei secret concerts, in cui si scopre solo all’ultimo chi suonerà. Il pubblico è sempre molto attento, soprattutto dopo il covid le persone hanno bisogno di spettacoli dal vivo».
Diversi giovani hanno riportato l’attenzione sull’accompagnamento, con influenze dalla musica elettronica e sperimentale. Chiara Ferro, in arte Nori, racconta quali sono le fonti d’ispirazione per le sue canzoni: «Mi sono appassionata alla
musica araba, che unisce il folk tradizionale a elementi contemporanei. Esperimenti del genere stanno nascendo anche in Italia».
«L’indie ha avuto il merito di riportare il cantautorato a livello mainstream – continua Nori – della scena di qualche anno fa è rimasta l’importanza dei testi, lo spazio dato alle parole, ma oggi se sento un musicista simile a Calcutta o Gazzelle penso sia superato».
Per un artista agli esordi però, in un panorama così denso può essere difficile emergere. «Da un lato ci sono molti più mezzi, soprattutto i social – spiega Nori –dall’altro c’è molta più concorrenza. Bisogna essere bravi a cogliere ogni occasione, tutt’oggi il modo migliore per farsi conoscere è suonare live nei locali». ■
Il rapper che sfida gli ayatollah
La musica come mezzo di denuncia per il regime in Iran
Il rap è sempre stato più di un semplice genere musicale: di solito è un canale per dare voce alle esperienze e alle aspirazioni delle comunità marginalizzate, un battito del cuore che risuona nelle strade e nelle anime di chi cerca giustizia e cambiamento. In Iran, questa potente forma di espressione artistica è stata incarnata da Toomaj Salehi, un talentuoso rapper di 33 anni, conosciuto come la "voce dell’Iran".
«La sua musica è stata un riflesso delle sfide sociali e politiche che affliggono il suo paese. Attraverso le sue canzoni di protesta, Salehi ha denunciato le ingiustizie, ha sfidato il regime autoritario degli ayatollah e ha ispirato una generazione di giovani a lottare per la libertà e la dignità umana» racconta l’attivista, italo-iraniana, per i diritti umani Shervin Haravi.
L'impegno di Toomaj per il cambiamento è stato brutalmente soffocato dalle autorità iraniane. In questi mesi il tribunale rivoluzionario di Isfahan l’ha condannato a morte per "propaganda contro il regime" e "corruzione sulla Terra”.
«Attraverso la sua musica - spiega l’attivista Haravi - il rapper denuncia le torture fisiche, psicologiche e la manipolazione dell’informazione da parte della
repubblica islamica questo perché sono stati presi dei video, tagliati e cuciti come su misura per far passare un messaggio sbagliato, com’è solito fare»
«Questa pena ha suscitato una reazione senza precedenti da parte della comunità internazionale» aggiunge Shervin Haravi. Le organizzazioni per i diritti umani, gli attivisti e numerosi politici hanno condannato fermamente questa decisione, sottolineando che nessuno dovrebbe essere perseguitato o condannato a morte per aver esercitato il diritto di manifestare il proprio pensiero.
Organizzazioni come PEN America, il cui obiettivo è aumentare la consapevolezza per la protezione della libertà di espressione negli Stati Uniti e nel mondo attraverso il progresso della letteratura e dei diritti umani, hanno espresso una ferma condanna nei confronti della sentenza di morte, descrivendola come un gravissimo attacco al diritto fondamentale e naturale dell’essere umano.
Preoccupazione per la situazione di Toomaj Salehi arriva anche da “Il Club Tenco” di Sanremo, un’istituzione musicale italiana. Inoltre va ricordato che durante le proteste del movimento Donna,
Vita, Libertà nell'ottobre 2022, Salehi è stato arrestato dopo aver espresso solidarietà alle manifestazioni contro la morte di Mahsa Amini, vittima delle autorità iraniane per non aver indossato correttamente il velo.
Una volta rilasciato, il rapper è tornato in carcere dopo due settimane di libertà per aver denunciato la tortura bianca dell’isolamento. «Una stanza bianca, definita “ una morte lenta” anche dall'attivista iraniana per i diritti delle donne Narges Mohammadiche ha ricevuto il premo Nobel per la pace» racconta Shervin Haravi. Narges Mohammadiche che è stata arrestata dal regime iraniano 13 volte, condannata cinque volte per un totale di 31 anni di carcere e 154 frustate, è ancora detenuta nel carcere di Evin.
Molte istituzioni hanno lanciato un appello agli artisti e alle società civili affinché si unissero nel chiedere la liberazione immediata del rapper.
Mentre Toomaj Salehi affronta una situazione difficile e incerta, il suo caso continua a catalizzare l'attenzione globale e a riaffermare l'importanza di difendere la libertà di espressione e di protesta. ■
La seconda vita della musica
Viola, violino, violoncello e flauto si esibiscono per il pubblico di Palazzo Ripetta, nel cuore di Roma, a pochi passi da Piazza del Popolo. Non è un normale concerto. La sala è illuminata da centinaia di candele elettriche: è la Candlelight. Nato negli Stati Uniti nel 2014 e diffuso in tutto il mondo, il progetto è arrivato in Italia nel 2019 come estensione degli eventi di musica classica tradizionale esistenti. All’origine c’è la volontà di Fever, piattaforma che si occupa di intrattenimento dal vivo, «di rendere la musica classica accessibile a un pubblico più ampio, andando oltre il nucleo demografico degli appassionati», racconta Amanda Boucault, coordinatrice e responsabile della comunicazione per i concerti a lume di candela.
La volontà è quella di superare l’aura elitaria e antiquata del genere. In quest’ottica, ai partecipanti all’evento non è nemmeno richiesto un dresscode particolare: ognuno è libero di vestirsi come vuole, non per forza in modo elegante. Ciò che conta è la sensazione di intimità e leggerezza a cui contribuiscono i musicisti: creano forti legami con la platea grazie a una continua interazione tramite la condivisione di in-
formazioni e approfondimenti personali e sul programma che stanno eseguendo.
«Queen, Abba, ma anche
artisti contemporanei come Ed Sheeran e Coldplay»
Per affrontare la sfida, il format tradizionale del concerto è stato rivisitato con cambiamenti che si sono rivelati di grande successo: «Abbiamo condensato la durata dei tipici 90 minuti in 60, spostato le esibizioni dalle sale concerto formali a luoghi più accessibili e diversificato il repertorio per comprendere un ampio spettro di temi e generi, Queen, Abba, ma anche artisti contemporanei come Ed Sheeran e Coldplay, oltre alle colonne sonore di film. Il tutto insieme alle composizioni senza tempo dei maestri classici», spiega Boucault.
Si cerca sempre di soddisfare le aspettative del pubblico locale e di creare programmi che sposino i suoi gusti. In Italia
vengono fatti tributi a Lucio Dalla, Vasco Rossi e altri grandi artisti, come Ennio Morricone.
Tra i pilastri e gli archi di Sala Bernini, a Palazzo Ripetta, si irradiano le note delle colonne sonore di film quali “La leggenda del pianista sull’oceano”, “Per un pugno di dollari”, “C’era una volta il West”, “La califfa”, realizzate dal celebre compositore. Nato a Roma nel 1928, figlio d’arte, vincitore di due Oscar nel 2007 e nel 2016, Morricone ha lasciato un’impronta indelebile nel mondo della musica attraverso le sue creazioni magistrali per il cinema, che spaziano dal western all’opera lirica. È stata, soprattutto, la lunga collaborazione con il regista Sergio Leone, suo compagno di classe alle elementari, a renderlo un’icona della canzone cinematografica.
L’evento Candlelight è un’occasione unica per celebrare il genio musicale in un contesto intimo e suggestivo. L’esperienza non solo esalta il lavoro straordinario di Morricone, ma anche la capacità della musica di rendere eterna la sua essenza, capace di trasportare e ispirare persone di ogni età.■
«Moltiplicare
le vendite» il ruolo del premio Strega
La distinzione tra letteratura e scrittura nelle parole di Gianfranco
Lauretano
POESIA di Alessandro Villari
«La poesia fino ad ora non era stata inserita nella competizione perché non le davano alcuna speranza, neanche effimera», afferma Gianfranco Lauretano, poeta, fondatore e direttore della rivista Graphie, a proposito del Premio Strega Poesia giunto alla seconda edizione.
Dei centoquarantaquattro libri candidati, il comitato scientifico ha selezionato, a inizio aprile, i dodici tra cui poi la giuria, a ottobre, determinerà il vincitore. L’anno scorso ha vinto Vivian Lamarque con L’amore da vecchia. Case editrici, poeti e critici sono i protagonisti del Premio Strega Poesia, ma l’agone è veramente sulla letteratura?
Lauretano vede nella competizione un «evento mondano» e per un vero poeta «non è importante partecipare né non farlo perché lo Strega è solo un moltiplicatore di vendite». Ricorda come la direzione del premio si sia vantata che alcuni libri vincitori siano arrivati ad aumentare gli acquisti fino al +500% nelle librerie: il valore di un’opera d’arte può essere misurato col guadagno? Il risultato del genio poietico
è atemporale: leggiamo tuttora il Cantico delle creature di San Francesco, La Gerusalemme Liberata di Tasso o L’Infinito di Leopardi.
Il professore di Letteratura italiana all’Università Svizzera di Losanna, Gianluigi Simonetti, ha scritto un libro, Caccia allo Strega, anatomia di un premio letterario, in cui ha letto e analizzato tutti i romanzi delle cinquine finali degli ultimi anni. A suo parere, nessuna di queste opere ha superato il tempo della premiazione: «I libri che vincono lo Strega sono fatti per essere letti, quelli della letteratura per essere ricordati, non dico in eterno, ma per un’epoca lunga perché si fanno portatori di ideali che valgono almeno per una generazione».
La funzione eternatrice della poesia, che Ugo Foscolo riconosce come primaria, è passata in secondo piano? Per tornare vendibile, la versificazione è andata incontro al gusto medio del pubblico?
I filoni più apprezzati allo Strega sono due: il primo è un tipo di poesia-diario, dove i poeti scrivono idee del quotidiano, spesso autoreferenziali, che fanno capo al poeta e scrittore Maurizio Cucchi. L’altro, che ha un estimatore nel professore di Letteratura italiana contemporanea all’Università Roma Tre Andrea Cortellessa, è quello sperimentale e accademico che gioca molto sulla parola rompendo schemi e sintassi. «I poeti che aderiscono a questi filoni non riconoscono la tradizione letteraria: c’è in atto una possibile cancellazione di ogni alone ermetico, perché le poesie approfondite necessitano di una lettura meditata». La caduta dei principi di autorità e di autorialità ha come conseguenza che ci si dimentica che un componimento poetico non venga fuori dal nulla, ma «nasca da un’esperienza».
Il Premio Strega non rende giustizia alla letteratura, ma aver aggiunto una categoria che premiasse la poesia significa che l’arte di versificare è ancora, e si spera lo sarà a lungo, caratteristica prima dell’Italia che, come ricorda Lauretano, «prima di essere unita politicamente, è stata unita linguisticamente da Dante, Petrarca, Boccaccio». ■
Acca Larenzia, amore e morte
“Dalla
stessa parte mi troverai” di Valentina Mira è tra i 12 finalisti del Premio Strega 2024. Il libro racconta una della stragi degli
anni di piombo fra personale e politicodi Asia Buconi
C’è un libro tra i candidati al Premio Strega 2024 che ha fatto sollevare i Fratelli d’Italia e la roboante stampa di destra. I detrattori lo hanno bollato come «riduzionista» oltre che «livoroso», con il senatore meloniano Raffaele Speranzon che ha accusato Valentina Mira, la scrittrice, di considerare i militanti neofascisti «morti di serie B». Come se tra le pagine fosse stato toccato un nervo scoperto. Di certo “Dalla stessa parte mi troverai”, questo il titolo dell’opera, edita SEM, racconta di una vicenda di sangue delicata, che si consumò in via Acca Larenzia durante i tumultuosi anni di piombo.
Il libro si apre con la descrizione della cerimonia nerissima che ogni 7 gennaio, tra centinaia di saluti romani, si tiene di fronte all’ex sede del Movimento Sociale Italiano nel quartiere Colli Albani di Roma e che nei mesi scorsi tanto ha riempito le pagine dei giornali. Proprio lì, nel 1978, furono uccisi Franco Bigonzetti, Francesco Ciavatta e Stefano Recchioni, attivisti del Fronte della Gioventù, i primi due assassinati da un gruppo di
estrema sinistra denominato Nuclei Armati per il Contropotere Territoriale, che rivendicò le uccisioni, l’ultimo dalle forze dell’ordine intervenute dopo le proteste.
Colli Albani è anche il quartiere in cui Valentina Mira è cresciuta, per molto tempo priva degli strumenti adatti a comprendere ciò che aveva intorno: quel “presente” urlato al cielo, i manifesti, l’enorme croce celtica dipinta sul marmo bianco di via Acca Larenzia. Lo ammette pacifica, senza vergogne. Finché, per forza di cose, la “Storia” non si è scontrata con la sua, piccola e devastante, vicenda personale, fino ad aprirle gli occhi.
Ancora oggi, rivela, la tormentano indicibili sensi di colpa per aver avuto una relazione con un uomo fascista, che avrebbe dovuto lasciare molto prima, se solo avesse saputo leggere la realtà. «Tartassa come se gli mancasse qualcosa dentro, come se dovesse mettere delle bandierine, come dovesse dimostrare di essere un uomo, qualunque cosa significhi per un fascista essere uomo», scrive Mira di quel fidanzato narcisista e prepo -
tente.In queste pagine intime e personali antifascismo e fascismo si trasformano in dinamiche di coppia, in elementi fondanti della persona. Tanto che, nel domandarsi cosa l’abbia spinta a scrivere, l’autrice parla di una «colpa da espiare», che è «il fascismo dentro e intorno a me». «So che non sono l’unica, è per questo che scrivo – spiega - Per raccontare ciò che ho recuperato più tardi, quando ho incrociato i libri giusti, le persone giuste. Persone come anticorpi. Persone come Rossella».
La Rossella di cui Valentina Mira parla è Rossella Scarponi. Il cuore del libro è la vicenda sua e del marito Mario Scrocca. L’autrice racconta ogni fase della loro storia d’amore: il primo incontro, l’imbarazzo della conoscenza, i sogni di un futuro insieme in una Roma di «latte e sangue», incapace di dare senza togliere, soprattutto in quegli anni col fiato sospeso.
In un’atmosfera da film d’altri tempi, i dialoghi dei due innamorati fanno immergere il lettore in un contesto popolare, grazie all’abilità di Mira nel costruire
un linguaggio squisitamente romano, più vivo che mai. Come quando Mario, imbarazzato, incontra Rossella per la seconda volta e le rivela: «Io in via Ripetta, davanti a scuola tua, non c’ero venuto perché avevo paura di fa’ la figura der coj*ne».
Mario è un giovane infermiere dell’Alessandrino, un quartiere in cui manca tutto, persino i marciapiedi, ed è da sempre impegnato in politica nella sinistra extra-parlamentare. Una politica che per lui significa solidarietà, supporto dei più deboli, concretezza. Anche Rossella è una militante di sinistra e vive a Garbatella. I due giovani decidono di fare un figlio, Tiziano, oggi attore. Ma Mario non potrà goderselo perché, a soli 27 anni, nel 1987, morirà in una cella del carcere Regina Coeli di Roma. L’accusa: aver partecipato alle uccisioni di Francesco Ciavatta e Franco Bigonzetti avvenute in via Acca Larenzia molti anni prima. Dopo due giorni di carcere, questa la versione ufficiale, Mario si sarebbe ucciso. In una cella anti-impiccagione. Sulla dinamica della sua morte non è mai stata fatta chiarezza, quel che è certo è che, con quella strage, Mario non abbia mai avuto a che fare.
La cronaca degli eventi è febbrile. «La notte più notte di tutte», quella in cui Mario viene arrestato, è un pugno allo stomaco di immagini: i due giovani genitori innamorati a letto, poi l’arrivo delle guardie, mentre il bambino piccolo, ignaro, non sa di star per rimanere orfano di padre. Anche Rossella, mentre guarda Mario che viene trascinato via dalla loro casa, non sa che di lì a poco avrebbe perso per sempre l’amore della sua vita. Valentina Mira sembra impossessata da un’urgenza narrativa in cui si mescolano la Storia, il rapporto di sorellanza con quella donna che non si è mai arresa e la sua vicenda personale che, oltre all’ex fa-
scista, include anche uno stupro.
C’è la rabbia per l’oblio ingiusto che ha travolto Mario, la cui vicenda, in fondo, è ai più sconosciuta. Un oblio che Rossella ben racconta in “Soli soli”, un libro il cui titolo riassume quel senso di abbandono che dal giorno della morte di Mario non l’ha mai lasciata. Senza contare che, oltre a Mario, per i fatti di Acca Larenzia morirà quella sera stessa del 1978 un altro giovane, Roberto Scialabba, ucciso dai Nuclei Armati Rivoluzionari, anche lui per lo più dimenticato dalla coscienza comune.
I toni di Mira si alzano soprattutto verso i capitoli conclusivi, quando si analizza il concetto di “vittimismo”, una tecnica manipolativa ancora oggi molto
utilizzata dalle destre-destre. La scrittrice accenna alla strage di Bologna, dopo 44 anni ancora impunita, e alle accuse mosse ai fascisti Francesca Mambro e al compagno “Giusva” Fioravanti, capaci di trasformarsi da carnefici in vittime. Le considerazioni sulle differenze tra terrorismo rosso e nero si fanno a questo punto perentorie: «Il primo – scrive Mira – nasce in risposta al secondo», ma soprattutto quello di sinistra non ha mai avuto «la connivenza dello Stato». E ancora, in riferimento ai fascisti di oggi e di ieri: «La loro tradizione è la menzogna. Il loro pensiero è vigliaccheria e mistificazione. La loro azione è la forma più perversa di vittimismo». Niente sconti, niente giri di parole. Lo stile è diretto e incalzante, come vuole esserlo il messaggio, i periodi sono brevi. Lasciare spazio a fraintendimenti sarebbe imperdonabile. La rabbia è tangibile, a tratti al punto da sfociare in parzialità, specie nelle pagine più intime.
Ma “Dalla stessa parte mi troverai” resta un libro necessario. Un’opera sul fascismo nostrano, su come si perpetui in un eterno ritorno dell’uguale. Un libro su Acca Larenzia, sulle storie sanguinose d’Italia, su Roma croce e delizia. Un libro che parla di amore, di lotta. E di Mario Scrocca, che proprio non merita di essere dimenticato. ■
1. Commemorazione fascista della strage di via Acca Larentia
2. Titolo de l'Unità sulla morte di Mario Scrocca. Fonte: Fondazione La rossa primavera
3. Valentina Mira
La dozzina dello Strega
Nella stanza dell’imperatore di Sonia Aggio Fazzi Editore
Autobiogrammatica di Tommaso Giartosio Minimum fax
Il fuoco invisibile
di Daniele Rielli Rizzoli
di
L'età fragile di
Cose che non si raccontano di Antonella Lattanzi Einaudi
Aggiustare l'universo di Raffaella Romagnolo Mondadori
Dalla stessa parte mi troverai di Valentina
Chi dice e chi tace di
Invernale di
Luiss Data Lab
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