

Amore e Guerra
Periodico del Master in Giornalismo e Comunicazione multimediale
Università Luiss Guido Carli
Numero 23 Febbraio 2025

Italian Digital Media Observatory
Partner: Luiss Data Lab, RAI, TIM, Ansa, T6 Ecosystems, ZetaLuiss, NewsGuard, Pagella Politica, Harvard Kennedy School, ministero degli Esteri, Alliance of Democracies Foundation, Corriere della Sera, Reporters Sans Frontières, MediaFutures, European Digital Media Observatory, The European House Ambrosetti, Catchy, CY4GATE, ministero dell’Istruzione e del Merito



Anniversario Ucraina
Storie dal fronte
di Chiara Boletti
Igor e Natalia quell’anello sotto le bombe di Alessandro Imperiali
Coverstory Gaza
A Gaza mancano le parole di Matilda Ferraris
Photogallery
Scenari di guerra
a cura di Silvia Della Penna
Nel cuore di Roma
a cura di Ludovica Bartolini, Lavinia Monaco e Matilde Nardi
Storie amore
Una questione di chimica ma non per tutti di Nicoletta Sagliocco
Finché divorzio non ci separi di Nicole Saitta
Il rapporto speciale tra gemelli di Matilde Nardi
Il sesso più libero arriva nella terza età di Elisa Vannozzi
La complicata realtà di chi ama più persone di Pietro Angelo Gangi
Il tradimento fa parte dell’amore di Valeria Costa
L’amore violento e la rana bollita
di Chiara Boletti
Manuela, i’ vorrei che tu Rossella ed io di Alessandro Villari
Self love
di Simone Salvo
Interviste
Una fede inclusiva
di Giulia Rugolo
Cruciani dixit di Luca Graziani
Unioni civili di Asia Buconi
Famiglia, la destra del futuro di Alessandro Imperiali
Dal tabù alla libertà per le donne di Caterina Teodorani
Falsi miti di Sara Costantini
Focus
Anche cupido ha le piume? di Chiara Grossi
Un sì olimpico per Alessia di Gabriele Ragnini
Rubrica Musica
Canzoni d’amore di Gennaro Tortorelli
Sanremo
Olly vince il festival di Isabella Di Natale
La farmacia dell’amore di Federica Carlino
Cultura
La mostra di Munch di Massimo De Laurentiis
Il bunker di Mussolini di Michelangelo Gennaro
M, nel cuore nero del potere
di Lavinia Monaco
Il ritorno di ACAB
di Alessio Matta
Nulla più come prima
di Lorenzo Pace
Esteri
L’Europa prova a ritrovarsi di Francesco Esposito e Chiara Grossi English
The Navalny Legacy by Stefania Da Lozzo
The impact of Alzheimer by Mariahelena Rodriguez
The sound of Rome’s streets by Lisa Duso
Liquid society by Alexandra Colasanti
Tech chimneys by Alessandra Coffa and by Andrea Iazzetta Italian cinema by Ludovica Bartolini and Rosita Laudano
Growing up apart by Gizem Daver
Revenge is best served in Paris by Ludovica Esposito English
Il realismo onirico
di Giulia Tommasi
Carli Numero 23 Febbraio 2025

12.10.1954
Proprietà della Fondazione CRTrieste in deposito presso la Fototeca dei Civici Musei di Storia ed Arte, UBNPO0313115/45/46/123/124/142/145
Amore
«Chi è male amato sparga pure le sue amare profezie, indichi abissi, deviazioni, sabbie mobili... non servirà. Inutile sperare di convincere un innamorato con il dolore altrui. Nemmeno il suo lo scuoterebbe. Ognuno sa della sua storia. Ognuno abita il suo amore».
Queste parole sono tratte dal romanzo L’amore è un fiume della scrittrice brasiliana Carla Madeira. Il titolo è calzante, vero, inoppugnabile. Forse l’amore è l’unico sentimento davvero inarrestabile. Affronta ogni distanza, supera qualsiasi differenza, va oltre il tempo che scorre e la volontà di fermarlo. Inonda - con tutte le sue sfumature - gli spazi che incontra, pieni o vuoti, aperti o chiusi, evidenti o nascosti che siano.
Pensiamo che abbia un unico sbocco, ma in realtà ne riserva infiniti. Non importa quanto potremo respingerlo, odiarlo, rifiutarlo: lui troverà comunque il modo per attraversarci. E così facendo, ci regalerà l’ennesima opportunità di vibrare
all’unisono, al tipico ritmo accelerato di un cuore ormai conquistato.
Quelle che vi apprestate a leggere sono storie d’amore. E di guerra. Si parla di inclusività, rispetto verso se stessi e curiosità di coppia, ma anche di tradimenti, divorzi e relazioni tossiche. Risiede qui la forza di queste pagine: abbattere le barriere, reinventare i confini, scardinare l’idea che l’affetto vada di pari passo con il merito. Di fronte a un’anima sedotta non c’è bilancia della giustizia che regga il confronto, ma solo nuove trame da intrecciare.
In un mondo spaccato dalle guerre, dedicare un intero periodico alla parola amore è un atto di resilienza umana. Così come Cupido e Psiche sfidano ogni logica mortale e divina per potersi stringere e guardare ancora una volta, la redazione di Zeta sceglie di resistere. Scriveva Apuleio: «Perché forte come la morte è l’amore, tenace come gli inferi la passione». Non esiste rivoluzione più potente.
A cura di
Chiara Boletti
Giulia Rugolo
Caterina Teodorani
Elisa Vannozzi
Giulia Rugolo
Foto Omnia di Ugo Borsatti Il bacio


«Quando la morte è così vicina anche la vita cambia»

Dalla trincea il racconto di Juri, soldato ucraino: dalla corrispondenza con l'ex-moglie e il figlio al rapporto con i compagni ormai diventati la sua famiglia
Si può annientare l'umanità al punto tale da distruggere le emozioni che ci rendono umani, come l'amore?
«Cosa volete sentirvi dire? Come si può definire “normale” una relazione quando ci si può incontrare per 15-20 giorni l’anno?». Juri ha 35 anni, è un soldato ucraino in guerra dal febbraio 2022. La sua non è l’edulcorata storia d’amore e guerra che ci si potrebbe aspettare. È sfrontata, ingiusta come sa esserlo la vita.
Come altre migliaia di cittadini ucraini, tre anni fa, Juri lascia tutto, casa, famiglia, per combattere contro l’invasione russa che concede a lui e agli altri soldati di Chiara Boletti
un massimo di 30 giorni l’anno di “vacanza”: «Ma non più di 15 giorni di fila».
In quel febbraio di 3 anni fa, nessuno sa che di lì a poco la Russia attaccherà l’Ucraina e, prima che la guerra cominci, proprio quello stesso mese, Juri divorzia da sua moglie. Qualche giorno dopo la separazione, Juri verrà svegliato dal rumore delle bombe lanciate dall’esercito russo sull’aeroporto di Vasylkiv, non lontano da casa sua: «Ho preso la mia famiglia e quella di un amico, le ho portate in un luogo sicuro a 160 km di distanza».
Il 25 febbraio Juri sarà già a bordo di un autobus diretto all'unità militare con cui combatterà per la difesa della città
di Kiev. Cominciano tre anni segnati da combattimenti, distruzione e morte. Tre anni segnati dalla rottura con tutto ciò che prima era una vita “normale”. Se un confitto cancella tutto ciò che è normalità, un dolore lacerante quanto quello causato della fine di un amore, rimane illeso nonostante l’avanzare di una guerra: «La situazione in cui viviamo ha fatto sì che io e la mia ex-moglie siamo riusciti a costruire una sorta di relazione “restaurata”».
I due hanno un figlio di 6 anni e, la necessità di avere una connessione a Internet per il ruolo che Juri svolge nell’esercito, permette loro di sentirsi spesso
per telefono: «Lui le chiede ogni giorno se morirò. Ormai è abbastanza grande per capire dove sono e cosa potrebbe succedermi». A 6 anni il figlio di Juri, dopo essere scappato con la madre per un periodo in Svezia, vive in Ucraina e soffre di attacchi d’ansia: «Gli allarmi e i missili non aiutano». La stessa paura consuma da ormai tre anni una nazione intera che però, non può abituarsi o arrendersi al rumore delle stesse sirene e missili che spaventano il figlio di Juri. È «una forma di amore che non so come tradurre» quella che il popolo ucraino ha imbracciato, nonostante il resto del mondo aveva scommesso su una rapida vittoria della Russia, e che rende possibile, dopo 3 anni, poter parlare di quale sarà, per quanto incerto, il futuro dell’Ucraina. «La storia è ciclica e destinata a ripetersi. Il mio bisnonno è stato fucilato dai russi durante la rivoluzione bolscevica, il fratello della mia bisnonna è stato anch'egli fucilato dai russi. Tratto la guerra, combattere, come se fosse un lavoro. Per me i russi sono sempre stati ciò che sono ora».
Juri è il comandante della sua unità, un gruppo formato da altri cinque ragazzi: «Sono la mia famiglia. Quando devi attraversare così tanti momenti difficili e pericolosi non puoi fare altro che unirti l’uno con l’altro». Ora, si stanno dirigendo verso Kharkiv: «Utilizziamo droni per colpire i russi». Nessuno di loro era un soldato prima del febbraio 2022: «La vita
da civile mi ha aiutato. Tante innovazioni militari sono state fatte proprio grazie a persone che non erano militari, abbiamo rivoluzionato l’esercito». Juri ha studiato storia, è un appassionato di letteratura e gli unici momenti in cui riesce a distrarsi sono quelli in cui, sdraiato da qualche parte, riesce a sfogliare le pagine di un libro.

Lui e la sua unità si dirigono verso una delle città più martoriate dall’esercito russo. Da tre anni, non passa giorno, notte, in cui Kharkiv, situata nell’est dell’Ucraina, non venga bombardata. Sono 50 i chilometri che separano la città dalla frontiera con la Russia. Lì, i soldati ucraini combattono la guerra dalle trincee. Nei mesi invernali la media delle tem-
perature in quella zona va dai -8 a 3 gradi centigradi. Chi combatte in trincea dorme, si sveglia, mangia, muore all’aperto, circondato dalla terra fredda delle buche scavate. La galleria del cellulare di Juri è diventata un «obitorio». Non riesce, non vuole parlare di nessuno di loro, perché tutti, dal primo all’ultimo, meritano di essere ricordati. «L’unica cosa a darmi la forza è pensare ai miei compagni che sono nelle trincee. Sono loro l’unica cosa che mi fa andare avanti. Quando io ho freddo so che arriverà un momento, prima o poi, in cui riuscirò a scaldarmi. Per loro non è così».
La consapevolezza che da ogni sua mossa possa dipendere la vita o la morte di un altro soldato fa sì che Juri non lasci che la disperazione prenda il sopravvento. È l’amore per la vita di un altro compagno a dargli la forza per resistere. «Non so descrivere come la guerra cambi le persone. Ci sono momenti in cui è difficile controllare la sindrome da stress post traumatico, ma ho cominciato a dare valore alla vita in modo diverso. Quando vedi la morte da così vicino, anche la vita cambia. Non ho più bisogno di molto per essere felice: alzarmi presto la mattina, vedere la mia famiglia. Quella è la felicità». L’amore. ■
Il nome del protagonista di questa storia è stato è stato modificato per proteggere la sua identità

Anniversario Ucraina

Igor e Natalia quell'anello sotto le bombe
Tra le macerie della guerra c'è chi decide di sposarsi. La storia di un soldato al fronte ucraino e di sua moglie MATRIMONIO
Chi se non un soldato o un amante sopporterà il freddo della notte. L’amore e la guerra. I due istinti naturali dell’uomo. Coppie di amanti coscienti che ogni saluto potrà essere l’ultimo, come Ettore e Andromaca che di fronte a Troia assediata si guardano. Lei lo implora di non partire ma lui sa che non ci sono altre opzioni. Deve imbracciare le armi e combattere per la sua Terra. Con lo sguardo di lei nel cuore, incapace nel dimenticarlo.
La storia di Igor e Natalia è così ma dei nostri giorni. L’epica dell’Iliade lascia il posto al fronte ucraino. Sono passati tre anni dall’inizio della guerra. E se in un caso i due erano sposati da tempo, nell’altro, quello non scritto in versi ma con il sangue, decidono di sposarsi proprio nel periodo più difficile della loro vita. «Il nostro amore è nato in guerra, ed è stato
un amore sincero, profondo, reciproco», racconta Natalia. «Ci siamo conosciuti il 14 febbraio, il giorno di San Valentino, e per noi questo ha un grande valore simbolico. Penso a lui ogni giorno, costante-

di Alessandro Imperiali

mente. Per sentirlo più vicino e credere che tutto andrà per il meglio, mi piace ricordare il nostro primo incontro». I due si conoscono, si frequentano e si amano. Fino all’inizio di giugno 2023, dopo l’esplosione della centrale idroelettrica di Kakhovka, quando la donna perde tutto. «Avevo un piccolo negozio nel villaggio di Sadove (ndr. Oblast di Ternopil). In un solo giorno tutto è stato sommerso dall’acqua. Sia la mia casa che il mio negozio, e sono rimasta senza nulla». Nella disperazione restano dei motivi per andare avanti. «In quel periodo, mio marito si trovava nel nostro villaggio con il suo battaglione e quando è avvenuta l’esplosione della centrale di Kakhovka, io sono rimasta senza nulla, ma lui era lì. Tre giorni dopo mi ha chiesto di sposarlo».
Il matrimonio in tempo di guerra è una scelta dove l’apparenza lascia lo spazio alla sostanza della volontà. Non esistono cerimonie, lunghi abiti bianchi, tavolate e balli fino a notte inoltrata ma una fila e una registrazione all’ufficio di stato per promettersi eterno amore. «Essere la moglie di un militare è un peso molto difficile da portare. Sei sempre in ansia per la sua vita. Ti preoccupi continuamente di come stia, se non si è ammalato, cosa ha mangiato, ma soprattutto l’angoscia più grande è sempre la stessa: che rimanga vivo e illeso. Ogni giorno preghi per lui, perché lo ami profondamente e temi per la sua sicurezza in ogni momento».
Igor è originario di Kakhovka, una città nell’oblast di Kherson. È un comandante delle forze d’assalto aviotrasportate, sono unità di fanteria che vengono portate sul campo di battaglia o tramite gli elicotteri o lanciandosi con il paracadute. Quando si chiede a Natalia il momento peggiore della sua vita risponde: «A un certo punto, dal fronte di Kherson, la sua unità è stata trasferita nella dire-
zione di Donetsk. Ricordo benissimo il momento in cui ho saputo della sua riassegnazione: ho pianto per due settimane. Ero terrorizzata all’idea di perderlo. Continuavo a pensare che potesse succedergli qualcosa, perché il fronte di Donetsk è sempre stato il più caldo, con perdite enormi. Sapevo che il suo reparto, le forze d’assalto aviotrasportate, è sempre in prima linea. Per questo, il timore per la sua vita non mi ha mai abbandonata». Lo è anche andato a trovare nei momenti meno intensi della guerra. Lo ha raggiunto a Pokrovsk, Kurakhove e Selydove. Ora, però, i combattimenti sono troppo intensi e «l’idea che possa tornare a casa, anche solo per poco, non è nemmeno un’opzione».
L’unico modo che hanno per rimanere in contatto è tramite i messaggi o in videochiamata. Le lettere scritte a mano lasciano spazio alle dita che digitano sullo schermo del telefono. «Le nostre conversazioni avvengono per lo più in videochiamata, ma solo quando lui ha la possibilità e c’è connessione, perché le comunicazioni vengono spesso interrotte. A volte capita che per settimane non ci sia alcun contatto, e in quei momenti l’ansia è terribile».
I loro sogni sanno di normalità: «Spesso immaginiamo la nostra vita dopo la guerra. Sogniamo di comprare una piccola casa, la nostra “casa della felicità”. Un piccolo angolo tutto nostro. Non abbiamo bisogno di una casa grande, ma solo di un rifugio, un nido familiare. Saremo noi due, mia madre e i nostri due amati cani. La prima cosa che faremo dopo la guerra sarà visitare i genitori

di mio marito, che oggi vivono sotto l’occupazione e ci aspettano con impazienza. Sarà il nostro primo viaggio».
Cambiano le armi e i mezzi. Prima mitraglia, foglio e penna a inchiostro oggi droni, smartphone e connessione internet. Niente spot pacifisti alla “fate l’amore, non fate la guerra” ma vita vera. Reale come una granata, lancinanti come la paura, mozzafiato come il bisogno di rivedersi. Con le necessità di chi è sul fronte che, millennio dopo millennio, restano ancora le stesse: far sapere a chi li aspetta che sono vivi e che le amano ancora. I due istinti naturali dell’uomo. L’amore e la guerra. Perché, come Ovidio insegna: credimi, Attico, ogni amante è un soldato. ■

Sole mio! Buona notte tranquilla. Sogni dolci e colorati. Ti amo, mia Lapochka, e mi manchi tantissimo. Voglio tanto stare con te, Lapochka. Sei la migliore, sono orgoglioso di te. Ti adoro, mia Lapochka
Sole mio, anche a te una notte tranquilla e sogni dolci! Mi manchi così tanto, sento la tua mancanza e voglio che stiamo sempre insieme. Ti amo tanto e ringrazio per il fatto che ci sei.
Coverstory Gaza

A Gaza mancano le parole, si infrangono i sogni
Le relazioni intime in una terra sconvolta dalla distruzione non esistono. I gazawi non hanno fiducia nel futuro e anche le storie d'amore si sgretolano
di Matilda Ferraris
A Gaza, prima della guerra, i matrimoni duravano 48 ore. «Era una grande festa. Il rito si svolgeva in due giorni: la prima notte, la Henna Night, era dedicata alle famiglie degli sposi, che festeggiavano separatamente. La madre dello sposo dipingeva con l'henné il volto della sposa, simbolo di bellezza e fortuna. Il giorno dopo si svolgeva la cerimonia, seguita da un banchetto con parenti e amici» racconta Sami Abu Omar, cooperante palestinese che oggi vive in una tendopoli nella Striscia di Gaza.
L’elemento più distintivo delle celebrazioni era lo zaffe, la marcia nuziale: una processione animata da cantanti, musicisti, ballerini e invitati che accompagnavano lo sposo fino alla casa della futura moglie, alla chiesa o alla moschea. Oggi, di quelle tradizioni, resta poco. Ne-
gli ultimi due anni, i festeggiamenti si sono ridotti al minimo: il matrimonio è diventato più un gesto di resistenza che di celebrazione.
«Dall’inizio della guerra ho partecipato a due matrimoni. Tre mesi fa si è sposata mia cugina, ma la sua è stata una festa piccola, molto diversa da quelle di una volta» racconta Abu Omar.
Chi ha scelto di sposarsi lo ha fatto per cercare un senso di stabilità, per non lasciarsi paralizzare dalla paura. Ma la guerra non distrugge solo case e infrastrutture: mina anche le relazioni più intime e fondamentali. A Gaza, molti matrimoni sono stati messi a dura prova dal conflitto, e le storie di separazione e divorzio sono in aumento. Le pressioni psicologiche, il panico quotidiano e la
mancanza di spazio e privacy nei campi profughi esasperano i conflitti preesistenti, spingendo molte coppie alla rottura.
Sami al Ajrami, giornalista palestinese, ha raccontato per oltre un anno, attraverso il suo diario quotidiano pubblicato su la Repubblica, come le vite dei palestinesi siano state stravolte dal conflitto. Ha parlato della perdita dell’intimità, della frattura nei legami familiari e delle trasformazioni imposte dalla guerra.
Tra le storie che ha raccolto c’è quella di Mariam Al-Sayed, una donna di 26 anni sopravvissuta al cancro, che ha dovuto affrontare la dissoluzione del suo matrimonio, distrutto dalla crescente violenza del marito durante la guerra. Quando lui ha deciso di chiederle il di-
GUERRA

vorzio, Mariam si è ritrovata sola, senza soldi, senza vestiti e con due bambini piccoli da proteggere.
«Sono rimasta scioccata quando mio marito ha deciso di divorziare» racconta Mariam. «Ma devo sopravvivere: cerco rifugio tra le tende, lotto per tenere i miei figli al sicuro e per superare le ferite psicologiche».
Il conflitto ha trasformato il loro legame in un dramma quotidiano di violenza e paura, costringendo molte persone a prendere decisioni dolorose ma necessarie per la propria salvezza e quella dei propri cari.
Al Ajrami ha anche raccontato quanto l’intimità sia diventata una merce rara nella Gaza dilaniata dalle bombe. La maggior parte degli sfollati vive in tende affollate, dove uomini e donne sono separati.
«Non c'è spazio per l’intimità, non si possono avere rapporti sessuali» spiega Sami. Molti cercano di affittare stanze o case per poter stare soli, ma i pochi alloggi disponibili hanno prezzi dieci volte superiori al normale. La mancanza di una vita coniugale normale è una frustrazione diffusa, che rischia di lasciare un segno profondo sulle relazioni e sulla socie-
tà. Eppure, da quando c’è stato il cessate il fuoco, la situazione non è migliorata. «Durante la guerra, le persone tendono a fare l’amore per creare vita, per continuare a vivere e sopravvivere. È qualcosa che dona speranza per il futuro» spiega Al Ajrami. Ma con l’insediamento del nuovo governo statunitense, non c’è più spazio per parlare di amore: «Da quello che sento dalle ragazze e da ciò che seguo, molte relazioni sono andate in frantumi. Molte persone che avevano pianificato il matrimonio e immaginavano di costruire una vita con la persona amata si sono dovute separare».
E insieme alle relazioni, anche i sogni si infrangono: «Stiamo parlando di almeno due terzi, se non tre, della popolazione di Gaza che non ha più una casa, un luogo dove vivere. Ora la guerra è finita, ma anche il futuro sembra svanito». Non c’è modo di progettare un domani. «Io spero di morire prima di vedere Gaza ridotta come vorrebbe Trump. Non c’è spazio per pensare alla costruzione di una vita. Nessuno è in grado di costruire una nuova casa, e nessuno può nemmeno sposarsi in una tenda, come accadeva durante la guerra, perché allora si pensava fosse una condizione temporanea».
La percezione adesso è che sia una situazione permanente, e che ci vorrà
molto tempo prima che queste coppie possano avere una casa dove vivere, soprattutto con la minaccia di un ulteriore sfollamento da Gaza: «Io ho 57 anni, la mia vita l’ho trascorsa a Gaza, le persone che amo, i miei fratelli e sorelle e mia madre, sono lì. Non mi potrò ricostruire una vita altrove. La speranza è svanita, i sogni sono infranti, e ora le persone vivono con la consapevolezza di un futuro incerto, sospesi in una realtà segnata dalla mortalità» conclude Al Ajrami. ■

Scenari di guerra
La devastazione nei territori ucraini, invasi dalla Russia di Vladimir Putin tre anni fa, e nella Striscia di Gaza, durante il conflitto israelo-palestinese iniziato il 7 ottobre 2023


a cura di Silvia Della Penna






Nel cuore di Roma
IMMAGINI
Scatti rubati negli angoli della città eterna. Sulla metro, tra i vicoli nascosti, i muri di Trastevere e Ponte Milvio. L'amore è ovunque.


a cura di Ludovica Bartolini, Lavinia Monaco, Matilde Nardi







Una questione di chimica ma non per tutti
Cosa succede al nostro organismo quando ci innamoriamo lo spiega la scienza, ma le regole dell'amore sono ancora un mistero
C’è chi trova l’amore e chi, invece, un telefono senza fili. Alessio ed Eleonora avevano quattordici anni e ogni giorno alle otto i loro sguardi si incontravano sull’autobus che li portava verso il liceo. Non lo sapevano ma, mattina dopo mattina, in quel tragitto da casa a scuola, i loro corpi interagivano senza toccarsi mai. Quello di lui generava così tanta dopamina da rendergli quel viaggio tanto piacevole da volere che non finisse mai. In quello di lei, la noradrenalina le arrossava le guance ogni volta che si guardavano. Il loro amore prendeva vita. Si scrutavano in un tentativo goffo di conoscersi evitando la pubblica esposizione dei loro sentimenti.
centro della pancia», «una tempesta», «un’emozione pura».
di Nicoletta Sagliocco
Un giorno, guardandola davanti a un distributore automatico di merendine, lui sentì il suo stomaco come “squarciato da un coltello”. Cosa avesse non lo sapeva spiegare con precisone ma solo con delle metafore «un vuoto, proprio al
Cosa succede davvero al nostro corpo quando ci innamoriamo? Lo spiega lo psichiatra Luciano Petrillo: «Nell'immaginario comune siamo abituati a pensare che l'amore sia una questione di cuore. In realtà il centro pulsante è il cervello che, in quella condizione, viene invaso da neurotrasmettitori o neurormoni da cui nasce una serie di risposte sia fisiche che psichiche». Ma quando ci innamoriamo, lo facciamo dalla testa ai piedi. Viviamo i sentimenti con tutti noi stessi: «Siamo fatti sia da un sistema nervoso centrale che da uno periferico, diffuso in tutto il corpo. Abbiamo nervi nei polmoni che ci fanno respirare e ci tolgono il respiro quando siamo innamorati. Abbiamo nervi nel cuore, che lo fanno battere più velocemente. Abbiamo nervi nello stomaco e nell'intestino che, come si dice, ci fan-
no sentire le farfalle nello stomaco». Essere accecati dall’amore, perdere la testa per qualcuno sono frasi che pronunciamo quasi sempre con incoscienza, ma si tratta in realtà di una sospensione del giudizio razionale. «Il nostro cervello è costituito da diverse aree e alcune vengono definite emotive. Il cervello emotivo è il sistema limbico, le aree analitiche fanno parte del sistema della neocortex. La neocorteccia matura dopo i vent’anni, durante l’adolescenza è molto più espresso il sistema limbico. Per questo motivo, i sentimenti si sentono con una maggiore intensità e audacia rispetto all'età matura. In quel periodo tendiamo a idealizzare la persona che amiamo».
I neurotrasmettitori coinvolti nella diffusione dell’amore sono sempre gli stessi per due adolescenti, come Alessio ed Eleonora, fino ai nostri nonni. I principali responsabili sono la dopamina, la noradrenalina e la serotonina. La prima, detta anche molecola del piacere, ci fa provare gioia, euforia e gratificazione. La seconda innesca le palpitazioni, il rossore al volto e anche spasmi al livello della muscolatura liscia, del sistema respiratorio, del sistema digestivo, che provocano quelle sensazioni strane di fame d'aria, di vuoto e di formicolio.
In sintesi, la dopamina è responsabile dell'eccitamento psichico, la noradrenalina dell'eccitamento fisico. I livelli di serotonina, invece, si abbassano come in uno stato depressivo o nel disturbo ossessivo-compulsivo. «Questo ci spiega la ragione biologica per cui la persona innamorata tende a fissarsi sull'oggetto di desiderio - afferma Petrillo - in maniera ossessiva e restringe poi i campi di interesse per tutte le altre attività, che passano in secondo piano per dare spazio ai sentimenti. Tutto ciò ci fa cadere anche nell’ansia, nella tristezza, quando questa persona è assente». Anche se i processi chimici sono gli stessi, non tutti provano le emozioni allo stesso modo.
C’è chi l’amore non lo trova e chi alcuni desideri non li avverte per niente. Anche Alessandro aveva quattordici anni, quando «con altri ragazzini decisi di prendere una videocassetta porno, “Fantastica Moana”. Quindi tutti a casa, a vedere il film. C’è questa scena in cui Moana Pozzi, che era una dea, si alza dalla vasca da bagno. È nuda, si avvicina alla cornetta per parlare e io mi resi conto che aveva il cavo staccato. Chiesi ai miei amici “Come riesce a parlare col filo staccato?”. Loro, in risposta, mi chiesero perché stessi guardando quel dettaglio per loro trascurabile e invisibile». Oggi Alessan-
dro è uno dei fondatori del collettivo Carro di buoi, che dal 2016 si occupa di fare informazione e organizzare attività per persone aromantiche e asessuali.
Essere asessuali vuol dire non provare desiderio fisico nei confronti di nessuno, essere aromantici, invece, significa non avere attrazione romantica per persone di nessun genere. Non si tratta di una limitazione, non c’è nessun sentimento represso da soddisfare o che generi frustrazione. «Non ho interesse nell’avere un rapporto di coppia. È un po' come essere davanti a un banchetto e non avere fame. E ti senti strano, tutti ti cominciano a dire "Ma allora morirai da solo". Io penso che si muoia sempre soli. E anche chi muore in un incidente aereo non è che è così contento di morire in compagnia».
«L'amore nessuno dovrebbe spiegarlo, perché ogni volta abita nell'irrazionalità»
Rapporti d'amicizia o, per gli aromatici non asessuali, relazioni solo di tipo sessuale sono possibili e desiderabili. «Ho scoperto di essere asessuale nel
2005 in una trasmissione televisiva che si chiamava Good As You, era una delle prime trasmissioni a tema LGBT in Italia. Ad un certo punto uno di quei ragazzi disse "Esiste chi prova attrazione per persone dello stesso sesso, del sesso opposto e quelli che non vanno con nessuno". E pensai "Ah quindi si può?". Trovai il sito di Asexuality Visible Education Network e mi accorsi di non essere solo. Ho cinquant’anni, non sono esattamente un ragazzino, ma ho comunque capito dopo molto tempo di non aver bisogno di qualcosa che i miei amici avevano sempre cercato. Parlo della famosa scala relazionale, quella secondo cui due persone si incontrano, si piacciono, si cominciano a frequentare, si sposano, qualcuno dice divorziano, (però questo è un altro discorso) e vivono un amore tradizionale».
Essere aromantici o asessuali non denota anaffettività, è solo uno dei tanti modi possibili di vivere i legami. Perché dopamina e serotonina nel loro corpo non impazziscano d’amore non lo si può trovare in un manuale scientifico. Ma, alla fine, come spiega il dottor Petrillo: «L'amore nessuno dovrebbe spiegarlo, perché ogni volta abita nell'irrazionalità. Ogni definizione sarebbe sempre manchevole e parziale. E per questo bisogna restituirgli il suo segreto, il suo mistero, perché c'è sempre del mistero». ■

Storie amore

Finché divorzio non ci separi
Ripercorrere gli stati d'animo dei figli dopo la fine di un matrimonio, la
«Esistono tanti tipi diversi di famiglia. Alcune hanno una mamma, altre un papà o due famiglie. Qualche bambino vive con gli zii, altri vivono in case separate, in diverse parti del mondo e possono anche non vedersi per giorni, mesi, anche anni. Ma se c’è l’amore avrai una famiglia nel cuore, per sempre». Lo diceva Robin Williams in Mrs. Doubtfire, ma oggi è la realtà di molti, anche quella di Ginevra*. Aveva 9 anni quando i suoi genitori le hanno detto che avevano scelto di proseguire la loro vita separatamente.
Nei suoi occhi prende forma il ricordo di quel giorno: «Me lo sentivo. Quel pomeriggio avevo inviato un messaggio a un’amichetta della scuola. Le scrivevo “i miei genitori stanno litigando per sempre”. Non so come ma nel mio cuore era già chiaro anche se, a quell’età, pensavo che il matrimonio fosse come un patto di sangue che non può essere rotto in alcun modo». Ginevra oggi ha 26 anni, ma riesce ancora a percepire l’odore della cena che bruciava in forno la sera del litigio che ha messo fine a quella storia d’amore durata
vent’anni. Negli ultimi decenni, il divorzio è diventato un fenomeno sempre più comune, soprattutto nei paesi occidentali. Secondo i più recenti dati ISTAT, in Italia nel 2023 ne sono stati registrati 80.000. Le separazioni invece contano 82.000 casi, con una diminuzione dei matrimoni del 2,6% rispetto al 2022. Nel caso di Ginevra, la fine dell’unione coniugale dei suoi genitori è stata una dei 54.456 divorzi avvenuti nel 2009. Per la prima volta, quell’anno, ha visto un tribunale dall’interno.
C’erano due avvocati, un assistente sociale e uno stenografo che «stava attento a scrivere persino il numero di lacrime che mi cadeva dagli occhi». Volevano conoscere il rapporto che Ginevra aveva con i suoi genitori per determinare se concedere l'affidamento esclusivo a uno dei due.
Lei, però, in quel momento pensava che il suo intervento sarebbe servito a ricostruire il loro amore, come quando litigava con sua sorella maggiore e la mamma cercava di fare da mediatrice.
Se Ginevra è riuscita a superare tutti quei momenti difficili, a volte persino senza accorgersi di quanto lo fossero davvero, è proprio grazie a Vittoria*: «Mia sorella è stata il mio porto sicuro. A volte succedeva che anche dopo mesi o anni dal divorzio io mi sentissi persa, ma lei non ha mai avuto bisogno che spiegassi i miei momenti più neri». Gioca nervosamente con gli anelli quando ricorda come lei e la sua «compagna di vita» hanno affrontato tutto fianco a fianco, come se il peso di quel racconto le schiacciasse ancora il petto dopo diciassette anni.
Oggi il padre di Ginevra e Vittoria vive in un paese lontano, in Asia, si è risposato e ha avuto un altro figlio. La madre, invece, ha scelto di proseguire la sua vita senza la compagnia di un uomo. Così, quando le figlie di Vittoria chiedono: «Perché la nonna non ha un nonno?» il racconto ricomincia da capo e le ferite bruciano ancora come nel 2008. ■
* Ginevra e Vittoria sono nomi di fantasia per tutelare l'identità dei protagonisti della storia.
di Nicole Saitta
storia di Ginevra
FAMIGLIA

I gemelli, complici per la vita
Nati nello stesso momento, dalla stessa madre, ma persone intere e indipendenti
di Matilde Nardi
«Per me essere gemelli ha sempre significato avere dei complici nel corso della mia vita e per tutte le età, avere delle persone che vivevano le mie stesse cose. Non essere mai davvero sola e affrontare le sfide insieme». Asia parla così del rapporto con Davide e Gaia, i suoi fratelli gemelli, ammettendo che le basta uno sguardo per capire se c’è qualcosa che non va: «Tendo ad essere inquieta e a volerli aiutare quando ho la strana sensazione che a loro sia successo qualcosa».
Ha un fratello gemello anche lo scrittore di fama internazionale William Viney, autore di «Twinkind. The Singular Significance of Twins» (2023). Se dovesse rappresentare l’amore tra gemelli sceglierebbe un pezzo pubblicato dalla fotografa Taiye Selasi nel 2022 sulla rivista letteraria britannica Granta: «Deve esserci somiglianza se sei gemello. Se non c'è, bisogna inventarla... Ti fissano in faccia, strizzano gli occhi, sempre più stretti, sfocando i tuoi tratti, sempre più sfocati, finché aha! Dicono, stesso sorriso, denti diversi», è un estratto dell’opera. In breve, significa
che se l’amore tra gemelli non esistesse andrebbe inventato. Secondo l’esperto, la relazione tra individui nati assieme dalla stessa madre contiene potere e siamo così spinti a «stabilizzarla, a socializzarla».
Nonostante ciò, per Viney i gemelli risultano più interessanti per gli altri che per loro stessi e sono sottoposti a un insieme di doveri verso la società. Si dice spesso che siano telepatici, cioè comprendanoanche a grandi distanze - i sentimenti e le emozioni l’uno dell’altro. Anche se non c’è una conferma scientifica in merito, Viney crede che si tratti di «uno dei tanti poteri dati ai gemelli in diversi momenti della storia umana».
Secondo lui dovremmo essere più consapevoli del fatto che di rado i gemelli sono visti come «interi», ma come parti di altre persone e di altre cose: «in questo modo, possiamo capire di più su come appaiono nei film e nei social media, come soggetti che vengono mediati, messi in molti posti contemporaneamente». Il fenomeno attira curiosità da sempre, e non
solo grazie a Alice ed Ellen Kessler, star televisive tedesche note in Italia a partire dagli anni Sessanta. O le sorelline Grady che, vestite d’azzurro e immobili con lo sguardo fisso, hanno terrorizzato i telespettatori nel film Shining (1980) del regista Stanley Kubrick. Lo spettacolo e la cinematografia, ma non solo perché anche la storia è legata a come gli esseri umani spiegano il mondo usando i gemelli. «Considerate le fondazioni di antiche civiltà, gli antichi Egizi e Greci, Romani e Aztechi: tutte contengono gemelli che si amano, combattono e si uccidono a vicenda», prosegue Viney. Secondo la leggenda, alla base della fondazione di Roma – collocata al 21 aprile 753 a.c. – ci sono Romolo e Remo, figli del dio della guerra Marte e della vestale Rea Silvia.
Dall’antichità all’attualità c’è un filo comune che non si è mai spezzato: i gemelli sono soggetti di interesse per più settori. Mai dimenticarsi, però, che sono persone intere e indipendenti come le altre. ■
LEGAMI

Il sesso più libero arriva nella terza età
TABÙ
La sessualità nella fase più matura della vita, un argomento di cui si parla troppo poco. La voce di Claudia, insieme a due esperti, smonta lo stereotipo dell'anziano asessuato
«L’amore non ha età», «È eterno finché dura», «E vissero per sempre felici e contenti». Se per il sentimento che muove tutte le stelle, accorcia le distanze più lunghe, resiste al tempo sembrano non esserci dubbi, la domanda è: e il sesso, dura davvero tutta la vita? Quella passione che «corre sotto i vestiti, che urla e salta», come dicono gli Ex Otago, si può provare nella fase più matura della nostra esistenza? La risposta sembra essere un netto (forse inaspettato), sì.
«Se si è innamorati, e lo si può essere a tutte le età, il desiderio sessuale resta sempre vivo e intenso, anche più forte di quello provato durante la giovinezza» racconta sorridente Claudia, 71 anni. «Si ha una maggiore consapevolezza del proprio corpo, dei desideri, meno tabù e l’esperienza ti consente di instaurare con il partner un’intesa più matura e cosciente».
Se ancora oggi fatichiamo ad associare il sesso alla terza età è per una visione
stereotipata degli anziani come persone asessuate. «La nostra cultura è vincolata a parametri prestazionali e a canoni estetici propri di corpi giovani e nel pieno della salute. Sembra che l’invecchiamento renda inadatti a una percezione piacevolmente sessuata di sé stessi e del partner» specifica la dottoressa Rossella Berardi, psicoterapeuta e sessuologa del centro AISPS di Roma.
«La mia generazione si porta dietro un bagaglio culturale di parole non dette, l’argomento non veniva trattato e questo ha generato un senso di vergogna e falso pudore nel parlare di sesso» prosegue Claudia. «È la stessa società che spesso critica e deride gli anziani che provano a parlarne e quelli che ammettono di avere ancora una vita sessuale. Spesso anche i figli vedono i loro genitori come asessuati».
Con il passare del tempo subentra la fisiologica decadenza fisica che, sul piano psicologico, può provocare imbarazzo, con conseguente calo del desiderio. La sessua-
di Elisa Vannozzi
lità, come il nostro corpo, si trasforma in modo naturale per tutto l’arco della vita. «I cambiamenti nell’equilibrio ormonale rappresentano la variabile biologica più importante. La menopausa nella donna può comportare una diminuita lubrificazione naturale; nell’uomo l’erezione può manifestarsi solo in seguito a una stimolazione diretta e prolungata, aumentando molto la durata del periodo refrattario» prosegue la dottoressa Berardi. La reattività corporea non è più la stessa, come la sensibilità e la tonicità genitale.
Ad avere più difficoltà nel parlare della propria sessualità sembrano essere gli uomini. «Quando chiamano per un appuntamento, molti senior sentono di dover giustificare la propria richiesta definendola “probabilmente insolita”» racconta Berardi. A livello culturale, la prestanza sessuale incide di più sull’autostima maschile: «Può bastare una défaillance a far crollare l'intero castello». Per questa ragione, può essere più complicato per un uomo accettare i cambiamenti legati all’età e imparare ad apprezzare una sessualità meno prestazionale. Motivo per cui, spesso, si fa un largo utilizzo di farmaci per la funzione erettile anche in assenza di patologie che li rendano necessari.
«Le donne arrivano all’età più matura già abituate a riferirsi al ginecologo per la salute sessuale, mentre gli uomini si dimostrano più esitanti» osserva la sessuologa. «Fare i conti con i propri limiti aiuta a spogliarsi di quelle esigenze narcisistiche e di immagine che condizionano l’attuale cultura sessuale».
Per il dottor Stefano Eleuteri, psicoterapeuta e sessuologo, la stessa dinamica è visibile nelle coppie omosessuali: «Un cam-
biamento nella sessualità di solito viene vissuto in modo più sereno dalle coppie di donne. Tra uomini, invece, una disfunzione sessuale permette l'esplorazione di ruoli diversi, modificando dinamiche rigide che possono essersi strutturate negli anni».
Tra i motivi più frequenti di consulto per gli over 65, sia la dottoressa Berardi che il dottor Eleuteri parlano della discrepanza di desiderio nella coppia: «Spesso è l’uomo a lamentare la carenza di interesse da parte della partner, ma accade anche il contrario». Questo può avvenire quando uno dei due si ammala e l’altro membro della coppia diventa il caregiver. Ma sono altrettanto ricorrenti le richieste di aiuto per difficoltà nell’eccitazione o nell’orgasmo non giustificate dalla condizione clinica. Quando l’origine è di natura emotiva, lo stesso medico può suggerire la consulenza di un sessuologo.
«Rinunciare alle aspettative prestazionali lascia maggior spazio alla complicità e all'erotismo»
Se dal lato fisico possono esserci delle difficoltà, non è detto che impattino in modo negativo sulla sfera sentimentale. Il sesso nella terza età assume una dimensione più intima e profonda, non è più solo un atto fisico. Per il dottor Eleuteri «aumenta la ricerca dell’affettività, della tranquillità durante l’atto sessuale». Quando si è in una relazione stabile, la consapevolezza della propria fisicità e di cosa ci piace rende tutto più libero e spontaneo.
«Avere rapporti in età matura ha molti vantaggi. Anche solo una semplice carezza, un abbraccio o un bacio del partner possono dare molta gioia e serenità. Possono essere molto più importanti e gratificanti del sesso fine a se stesso, che non deve diventare un’ossessione o un obbligo dovuti al non accettare l’età che avanza» riflette Claudia. Per lei l’intimità emotiva è «quell’aspetto che consente di aprirsi l’uno con l’altra, svelando i propri pensieri, i sentimenti, le sensazioni in piena libertà, senza remore e paure. Mettersi a nudo consente di costruire un rapporto sincero e profondo». Quando si instaura questo tipo di intesa, pura e senza freni, l’erotismo aumenta.
«Non avere più nulla da dimostrare può rivelarsi liberatorio e consentire un'espressione sessuale più autentica e intensa». Molte coppie che si rivolgono alla dottoressa Berardi non vivono affatto «quella sessualità stanca e routinaria che si tende a immaginare». Descrivono, invece, una fase del tutto nuova del proprio eros, con esplorazioni ed emozioni mai sperimentate prima: «Rinunciare alle aspettative prestazionali lascia maggiore spazio alla complicità e all'erotismo».
Eleuteri concorda: «Lo stereotipo è una cosa, ma la realtà dice altro». Molti pregiudizi oggi si stanno superando. «Mi capita di suggerire l’uso di sex toys a coppie un po’ avanti con l’età e li accettano sempre più di buon grado» perché «mantenere la sessualità consente di scoprire cose sempre nuove su se stessi e il proprio mondo interiore». Claudia su questo aspetto non ha dubbi: «Premesso che per me il sesso esiste solo in quanto complemento dell’amore, credo abbia un ruolo importante nel benessere fisico ed emotivo, a tutte le età!». ■


La complicata realtà di chi ama più persone
Gestire gelosia e sentimenti non è semplice, ma il vero ostacolo resta lo stigma sociale
C’è chi vede l’amore come un cerchio, chiuso, esclusivo. E poi c’è chi immagina l’amore come un qualcosa di vario, non per forza definito, una forza che può espandersi senza perdere di intensità. Il poliamore nasce da questa idea: l’amore non è una risorsa limitata, ma qualcosa che si può condividere in più direzioni, con consenso e trasparenza.
«Il poliamore è una filosofia relazionale basata sull’idea che sia possibile avere più relazioni amorose o intime contemporaneamente», spiega Eleonora Lorenzetti, psicoterapeuta e sessuologa. «Il consenso e la trasparenza sono essenziali nel poliamore - sottolinea - le persone coinvolte stabiliscono regole condivise, e costruiscono relazioni basate sul rispetto reciproco e sulla fiducia».
Le configurazioni possono variare. Alcune persone mantengono relazioni gerarchiche, con un partner principale e altri secondari, altri preferiscono relazioni polifideliche, in cui più persone condividono un legame esclusivo tra loro. Non tutte le relazioni poliamorose implicano coinvolgimento sessuale: «Ciò che conta è il legame relazionale, non la frequen-
za o la natura dell’intimità fisica». Come ogni relazione, anche quelle poliamorose affrontano sfide emotive. La gelosia non scompare, ma viene gestita con strumenti diversi: «Non significa che chi pratica il poliamore non provi insicurezza, ma che lavora attivamente per affrontarla senza vederla come una minaccia all’equilibrio della relazione».
Una comunicazione chiara e costante diventa essenziale per mantenere stabilità e rispetto reciproco. Molti dei problemi che emergono nel poliamore sono gli stessi delle relazioni monogame. La paura dell’abbandono, il bisogno di definire confini e aspettative, la gestione del tempo e delle energie tra i vari impegni. «La differenza è che nel poliamore questi aspetti devono essere affrontati con maggiore consapevolezza e accordi chiari», sottolinea Lorenzetti.
L’ostacolo più grande resta lo stigma sociale. Il poliamore viene spesso percepito come instabilità affettiva o semplice desiderio di trasgressione. «Le persone poliamorose non sono solo giudicate, ma spesso faticano a trovare supporto anche nel contesto familiare e lavorativo», ag-
giunge la sessuologa. Nonostante questi ostacoli, l’atteggiamento verso il poliamore sta cambiando. Secondo un sondaggio Ipsos, il 31% degli italiani si dice aperto a una relazione non monogama. Una ricerca della piattaforma Wyylde ha rilevato un aumento dell’interesse, soprattutto tra i giovani. Questi dati suggeriscono una progressiva apertura a modelli relazionali alternativi.
Il poliamore non è per tutti, così come la monogamia non è l’unica possibilità. Per alcuni rappresenta un modo di vivere l’affettività in modo autentico e consapevole. Alla fine, la vera domanda è se esista un solo modo giusto di amare. ■

di Pietro Angelo Gangi
POLIAMORE

I tradimenti fanno
parte dell’amore
TABÙ
Nel tempo la percezione sociale è mutata ma non sempre l’esclusività è necessaria per salvaguardare la coppia
di Valeria Costa
L’amore per essere tale deve essere per forza fedele o la fedeltà non ha nulla a che fare con il sentimento? «Il problema fondamentale è quando in questo amore si insinuano quei tabù insuperabili come la fedeltà - ha detto il cantautore Fabrizio de André durante un suo concerto a Firenze nel 1991 - in fondo la parola fedeltà non è altro che un grosso prurito con il divieto assoluto di grattarsi». Alcune persone condividono questa visione. Chi la pensa così crede che l’esclusività sia un limite che uccida il sentimento amoroso e che i tradimenti non intacchino una relazione, perché l’amore è un sentimento più puro delle convenzioni sociali. Non è un’opinione comune eppure i tradimenti esistono, accadono di continuo e per chi ha una visione più tradizionale dell’amore questi insinuano dei dubbi nella relazione di coppia.
«Il tradimento è spesso una mossa per uscire da uno stallo o un atto di resistenza all’interno di un gioco di potere più ampio che c’è tra i partner» dice Lara Franzoni psicoterapeuta di coppia di Milano. Le aspettative irrealistiche sul rapporto possono creare insoddisfazione in una delle due persone, che vede quindi il tradimen-
to come via d’uscita. «Ci aspettiamo di trovare nella coppia intesa sessuale, desiderio, attrazione, emozioni coinvolgenti – continua Franzoni - ma anche sicurezza, confronto, sostegno, condivisione e non sempre queste cose si riescono a coltivare tutte bene insieme». L’infedeltà non è qualcosa di nuovo nelle relazioni amorose, ma molte cose sono cambiate. «Immaginiamo insieme uno scenario - continua la psicoterapeuta - normalmente non consideriamo la pornografia tradimento, ma cosa accade se dall'altra parte del monitor anziché un video registrato c'è una persona che si spoglia in diretta per noi, che abbiamo scelto e di cui conosciamo il nome? Lo considereremmo tradimento?».
«Oggi si sono moltiplicate le possibilità di contattare qualcuno fuori dalla coppia», tuttavia le persone sono disposte ad ascoltare le ragioni dietro a un’infedeltà «perché le reazioni confermanti e durature sono necessarie per la salute mentale delle persone», motivo per cui una relazione extraconiugale «è una delle cause più frequenti per cui i partner chiedono l’avvio di una consulenza di coppia». Proprio questo forse è il più grande capovolgimento rispetto al passato. «È cambiato il
modo in cui viene visto il tradimento - specifica Franzoni - prima in modo fatalistico come onta da celare o macchia indelebile, a fatto che può essere riletto entro la storia della coppia».
Un tempo di adulterio si moriva, soprattutto se a commetterlo era la donna. Tante opere del passato ci riportano il sentire comune. Dallo scrivano Ciampa della commedia di Luigi Pirandello “Il berretto a sonagli” che si trova “costretto” ad uccidere la moglie infedele e l’amante per non passare per «becco» a meno che la moglie dell’altro uomo non si finga pazza, in modo che la gente possa effettivamente credere che non sia stato commesso nessun adulterio, al contadino “Tarara” della sua novella “La verità” da cui prende ispirazione la commedia che «spacca la testa alla moglie con un’accetta» dopo che è scoppiato lo scandalo. Entrambi i mariti, che vengono da situazioni sociali diverse, erano a conoscenza della relazione infedele, ma decidono di agire solo quando a saperlo è tutto il vicinato, non per disperazione ma per difendere l’onore leso.
Un sentire comune che era legittimato anche dallo stato. Nel vecchio Codice penale, esistevano sia il reato d’adulterio per la moglie infedele e fino al 1981 il delitto d’onore che stabiliva uno sconto di pena per chi uccideva con il nobile scopo di difendere l’onore. Negli anni la società ha mutato la sua percezione verso il tradimento e «da quando il divorzio è una possibilità – aggiunge Franzoni - il tradimento è un fatto a fronte del quale le coppie si trovano a prendere una posizione». Non tutto però è cambiato, molte donne vengono ancora uccise, buona parte per colpa della gelosia. Secondo l’Istat 63 donne sono state uccise da un partner o un ex partner nel 2023. ■

Storie amore

L’amore violento e la rana bollita
Le dinamiche invisibili del ciclo della violenza intrappolano le sue vittime in silenzio, senza che se ne accorgano, come una rana che non percepisce l'acqua che bolle
di Chiara Boletti
Una rana immersa in una pentola d’acqua fredda non si renderà conto dell’aumento di temperatura se non quando l’acqua sarà tanto bollente da ucciderla: «Quando una persona subisce violenza, non se ne accorge immediatamente. È come se la vittima fosse immersa nell’acqua che piano piano si riscalda. Solo quando l’acqua è ormai bollente, la vittima si rende conto del danno, ma è ormai troppo tardi per fuggire», spiega Sara Pezzola, psicologa esperta nel trattamento delle dinamiche violente e collaboratrice con il centro antiviolenza di Brescia la Rete di Daphne.
Il concetto della rana bollita non è solo una metafora è il cuore del “Ciclo della violenza”, come teorizzato nel 1979 dalla psicologa Lenore Walker. Il ciclo si articola in tre fasi: la crescita della tensione, il maltrattamento e, infine, la “luna di miele” che inganna la vittima facendole
credere che il peggio sia passato, solo per vederla poi di nuovo risucchiata in un nuovo ciclo. Il ripetersi di una fase dietro l’altra, sperando che sia l’ultima, pensando che non ricapiterà, fa sì che le vittime si trovino intrappolate nel circolo senza accorgersene.
Molti pensano che una relazione violenta sia facile da identificare: un partner che aggredisce fisicamente, urla, sfoga rabbia incontrollata. Ma la realtà è molto più complessa. Come spiega la psicologa Pezzola: «Il ciclo inizia con piccole manipolazioni, gesti che potrebbero sembrare innocui in un gioco di controllo psicologico sottile, con attacchi di rabbia non giustificati o minacce velate». Nessuno accetterebbe la violenza ma la gradualità alla quale viene sottoposta la persona la rende piano piano accettabile, normale.
Inizialmente infatti le vittime, nonostante siano esposte a manipolazioni
emotive, minacce e umiliazioni, non le percepiscono immediatamente per cosa sono: «All’inizio, la violenza non è mai visibile. È come una nebbia che avvolge lentamente la vittima, facendole credere che tutto vada bene», continua Pezzola. La violenza psicologica, tanto devastante quanto quella fisica, è spesso più difficile da riconoscere. Le dinamiche del controllo psicologico si insinuano come un veleno, a poco a poco: «Possono passare anche vent’anni prima che la violenza sfoci in fisica».
Quando la violenza esplode, si tramuta nel mostro dell’aggressione fisica. La persona si trova nel buco nero più basso del ciclo, dove quella nebbia che si era prima insinuata piano piano ora lascia spazio solo al buio.
Ma subito dopo si passa alla “luna di miele”. La fase successiva alla violenza fisica è quella della riconciliazione. È il
DISAMORE
momento di quiete dopo la tempesta, prima emotiva e poi fisica, che terrà legata la vittima al proprio aggressore. È proprio questo sereno ad ingannare la vittima: «Quando la violenza esplode, l’aggressore teme di perdere la persona che ama, quindi si avvicina con scuse sincere, giurando di cambiare, e inizia a fare promesse, ma è solo una fase temporanea», spiega Pezzola.
Le scuse, la promessa che non succederà più, che può capitare a tutti di perdere la pazienza, di sbagliare sono l’ancora di salvezza alla quale si aggrapperà la vittima, stremata, bollita, da quell’acqua ormai bollente. È questa fase in cui sembra palesarsi l’illusione che le cose possano cambiare, migliorare, che tengono la persona intrappolata e fanno ricominciare il ciclo.
È questo paradosso che tiene in vita la relazione tossica: «La luna di miele è come un'illusione che fa sperare alla vittima che le cose possano migliorare. Ma non si accorge che, ogni volta che l'aggressore si scusa, sta solo ricostruendo una facciata che nasconde un'abitudine destinata a ripetersi». Il ciclo rincomincerà da quelle scuse, destinato a non si interrompersi mai.
Esiste una vittima “tipo”?
«La violenza non sceglie chi colpire, non riguarda solo le donne fragili. Chiunque può finire intrappolato in un ciclo di manipolazione e abuso, perché la violenza non è una questione di forza, ma di controllo» spiega la psicologa abbattendo il mito che la violenza domestica riguardi solo persone “deboli”.
La verità è che il ciclo della violenza può coinvolgere chiunque, indipendentemente da forza, status o personalità. Eppure, non tutti si rendono conto di esserne vittime fino a quando non è tardi. Un altro aspetto che Pezzola sottolinea è il pregiudizio sociale che circonda le vittime di violenza. Le persone tendono a pensare che le vittime siano deboli, vulnerabili o fragili ma: «Non si può dire che una persona è destinata a diventare vittima solo perché ha certe caratteristiche. La violenza è un meccanismo che colpisce chiunque, anche le persone più forti o indipendenti. È un processo che si sviluppa lentamente, facendo credere alla vittima che non ci sia via di uscita».
Uno degli errori più comuni è quello di giudicare le vittime come se fossero responsabili della violenza subita. Le

persone, anche donne, tendono a pensare che, se fossero state al loro posto, se ne sarebbero andate subito. Ma Pezzola è chiara: «Questo è un errore. La violenza non è mai accettata, è un processo di manipolazione psicologica che diventa invisibile nel tempo». Non è mai così semplice. Le vittime non accettano la violenza, ma sono intrappolate in un meccanismo che fa credere loro di non avere alternative».
È
possibile interrompere il ciclo?
Riuscire a riconoscersi come vittime di violenza, identificando le fasi e dinamiche del ciclo, non è facile. Ma è il primo passo per capire come spezzarlo. Anche se non semplice, soprattutto nei casi di persone con figli, che si trovano ad affrontare una lotta quotidiana per tenere la famiglia unita cercando di mettere il bene della famiglia prima del loro, rende queste persone molto vulnerabili a ricadere nel ciclo.
Ma, una volta riconosciuta la dinamica violenta si è già fatto un passo di consapevolezza enorme: «Non bisogna mai aspettare che la situazione prenda il sopravvento. Se in una relazione si avver-
te un malessere, un'insoddisfazione, una sensazione che non si riesce a spiegare, bisogna confrontarsi subito con qualcuno di esterno alle dinamiche, un esperto, un centro antiviolenza, un consulente o un gruppo di sostegno. Non bisogna aspettare che il danno diventi irreparabile» conclude la psicologa. ■


Manuela, i’ vorrei che tu Rossella ed io
Insieme dalla prima media, le tre amiche (più uno) hanno condiviso tutti i momenti più importanti delle loro vite, dalle feste di Carnevale alla nascita dei figli
di Alessandro Villari
Le parole amore e amicizia derivano dalla stessa radice etimologica: in senso letterale amico significa “colui che ama”. Ed è proprio di questo che parla Rossella quando definisce «affetto istintivo» il legame che si è creato con le due amiche Francesca e Manuela. «La nostra storia parte proprio dai banchi di scuola», dicono insieme e iniziano un racconto lungo quarantasette anni sullo sfondo di una piccola città in provincia di Lecce, Galatina.
«Scherzavamo sempre – dice Francesca - e il nostro divertimento nasceva da cose di poco conto, ma solo in apparenza». Che fosse uno sciopero o una festa di Carnevale ogni occasione era buona per stare insieme: «Ricordo le volte in cui abbiamo preparato i vestiti per fare i diavoli nell’inferno dantesco o i tre porcellini» racconta Manuela, mentre Rossella prova a spiegare il segreto della loro amicizia: «Ridiamo ancora oggi come se fossimo le ragazze di allora: non ci rendiamo conto di quanto tempo sia passato». Man mano che crescevano, anche le responsabilità aumentavano tra università, lavoro e figli, ma che fossero ragazze o donne poco importava: sono sempre riuscite a sentirsi e a vedersi. «All’epoca non c’erano i cellulari e siamo rimaste in contatto scrivendoci le
lettere. Ma quando ci trovavamo di nuovo insieme era come se non ci fossimo mai separate: vuol dire che le radici sono profonde», ricorda Francesca.
E se è vero quanto dice la scrittrice russa Lou von Salomé che «l'amore più grande è quello nato dall'amicizia e l'amicizia più grande è quella che si sviluppa dall'amore», qualcosa ne sa Francesco che ha incontrato quasi per caso il gruppo di amiche. Nell’ultimo anno di liceo, il giorno di Capodanno del 1987, Manuela, mentre lo portava in vespa, lo ha convinto a dichiararsi alla sua amica Francesca dopo tanti anni di corteggiamento.
«L'amore più grande è quello nato dall'amicizia e l'amicizia più grande è quella che si sviluppa dall'amore»
Il 3 gennaio i due si sono fidanzati e tra pochi mesi festeggeranno venticinque anni di matrimonio: «Abbiamo interessi molto distinti – dice Francesca – ma quello che ci lega è una diversità complemen-
tare. Lui mi ha conquistato con la poesia perché mi dedica sempre un componimento». «La poesia può salvare tutto» le fa eco Francesco che parla di lei citando il cantautore Francesco De Gregori: «Siamo stati padre e madre, sorella e fratello, madre e figlio, amanti, sposi».
Ora con i ragazzi più grandi e lontani da casa possono godersi alcuni attimi tutti per loro: «Abbiamo condiviso tanti momenti insieme che ci hanno permesso di identificarci l’una nell'altra» spiega Rossella e non ha dubbi quando dice che «se i miei figli avessero bisogno di un consiglio su qualunque cosa, non avrei nessuna esitazione a dire di chiedere alle mie amiche che chiamo sorelle».
Un legame così duraturo non è fatto solo di momenti felici, ma anche di quelli tristi. L’amicizia è ricordarsi dell’esatto momento in cui hanno pianto nella Fiat 500 di Francesco dopo che la gita in Grecia dell’ultimo anno di liceo era stata annullata perché Gheddafi aveva bombardato Lampedusa. L’amicizia è cenare ancora insieme dopo quarantasette anni, salutarsi sull’uscio abbracciandosi e osservare quelle persone che sanno tutto di te incamminarsi verso le macchine e pensare: «Cosa sarei senza di loro?». ■
AMICIZIA

«Non valgo niente»
SELF-CARE
Le basi psicologiche dell'autosvalutazione e del disamore per se stessi
di Simone Salvo
«Aspetto per ore un ragazzo matchato su Tinder, ma non si presenta all’appuntamento», racconta Giulia (nome di fantasia). «Il weekend successivo decido di andarlo a trovare nella sua città di origine, Milano. Dopo nove ore di bus scopro di essere stata ghostata: il profilo del ragazzo non esiste più e sono stata bloccata anche su Whatsapp, dove per giorni gli avevo mandato foto e video intimi». Giulia ammette di non rispettarsi abbastanza. Come lei, molti giovani e meno giovani cadono nella trappola della dipendenza affettiva e della sottomissione.
La matrice comune è la mancanza di amore per se stessi. Ma come arriviamo al punto di non amarci? Per lo psicoterapeuta Dr. Dario Fusco Femiano ogni storia è differente: «Ha a che fare con la propria storia relazionale e le esperienze negative. In alcuni casi la base è una carenza di affetto, in altri le eccessive pressioni dei genitori. La paura di aver deluso le loro aspettative porta a una svalutazione». Ad un livello macro giocano un ruolo anche «le pressioni culturali di una società basata sulla prestazione», in cui il fallimento non è contemplato.
Il disamore per se stessi porta a farsi del male o ad autosabotarsi, in modo spesso inconsapevole: «Non è una scelta, ma quello che in psicologia definiamo
agito»: pur sapendo che un’abitudine può danneggiarci la ricerchiamo attivamente. «Nel caso più estremo dell’autolesionismo si localizza il dolore in una parte del corpo per non sentire un dolore più grande, reputato intollerabile».
Un meccanismo analogo si applica alle dipendenze affettive. L’angoscia di restare da soli è così grande che si preferisce portare avanti dinamiche tossiche, nelle quali si resta intrappolati. Al punto da ignorare una lunga lista di red flags. «In una relazione manipolatoria viene meno l’empatia per l’altra persona. Non è un rapporto tra due soggetti, ma tra un soggetto e un oggetto da dominare». Il manipolatore lancia messaggi ambigui: “Ti amo ma non voglio stare con te”, “Mi piaci, non mi piaci”. I campanelli d’allarme sono spesso evidenti, ma vengono sottovalutati. «In casi di violenza è frequente che la parte lesa tenda a colpevolizzarsi. Si sentono spesso frasi come: “Mi ha picchiata, ma io l’avevo fatto ingelosire”».
Per liberarsi da una relazione tossica o una dipendenza affettiva la chiave è ritrovare un proprio equilibrio e scoprirsi autosufficienti. Il primo passo è rivolgersi a un professionista: «Le linee guida indicano la terapia cognitivo-comportamentale come trattamento di prima linea. Io preferisco un approccio psicodinamico per andare a
fondo sulle cause scatenanti».
Fuori dallo studio dello psicologo, tutti dovrebbero prendersi cura di se stessi dedicando spazio ai propri interessi. «Siamo schiavi del tempo. Krónos, nella mitologia greca, divora i suoi figli. Nell’antica Roma gli affari e la vita pubblica (negotium) si oppongono all’otium, il tempo dedicato alla creatività e alla crescita personale». Per il dott. Fusco Femiano dobbiamo riscoprire il piacere, inteso in tutte le sue forme: affettivo e relazionale, per la musica, lo sport o qualsiasi altro hobby. «Più stiamo a contatto con noi stessi più ci scopriamo forti e possiamo muoverci nel mondo in modo più ragionato». ■


Una fede inclusiva
DIRITTI Il prete queer don Malù racconta la sua idea di «Chiesa itinerante», un luogo sicuro e aperto a tutt*
Celebra una messa inclusiva per i suoi fedeli indossando una lunga tunica bianca provvista di ampie maniche e una stola color arcobaleno, che lascia passare attorno alle spalle e cadere diritta fino alle gambe. Di solito, questa striscia di stoffa è decorata con ricami e sfumature che variano a seconda del tempo liturgico. Ma in questo caso, rappresenta un simbolo di libertà e un atto d’amore verso se stessi e la comunità cui ci si rivolge.
Si chiama Marco Luca Bertani, ma tutti lo conoscono come don Malù. Appellativo che nasce dalla crasi delle lettere iniziali dei suoi due nomi. È un prete cristiano cattolico e si dichiara apertamente queer e omosessuale: «Il mio percorso è iniziato nel 2002, quando sono entrato in seminario a Bergamo. Non è stato semplice fare coming out in questo ambiente. Si è trattato di un processo graduale che ho dovuto far maturare, lasciando che prendesse vita in modo naturale», spiega lui.
Sul suo tragitto ha incontrato sostegno e incoraggiamento, ma anche avversione e ostilità: «Ci sono preti che mi hanno supportato e stimato e altri che mi hanno ostacolato e giudicato. Come in tutte le cose, c’è chi ti accetta e chi no. Ma la vera questione è: devi andare bene agli altri o a te stesso?», incalza. Nel 2022, è finito
al centro di un caso mediatico a seguito della sua partecipazione al Milano Pride, perché alcuni preti hanno “svenduto” e fatto circolare su Internet delle sue foto all’evento. «Da qui si è creato lo scandalo, sollecitato da gruppi di cattolici radicali che hanno spinto contro di me, anche con azioni violente. Ma la decisione che io dovessi lasciare la mia parrocchia era stata presa già prima di questo avvenimento. Anche perché i miei superiori sapevano del mio attivismo queer, io non gli ho mai tenuto nascosto niente», puntualizza don Malù.
Oggi, svolge un «ministero itinerante» e persevera con la sua attività, puntando sulle relazioni umane e sull’accompagnamento spirituale: «Non sono una figura facilmente collocabile all’interno della Chiesa per ovvie ragioni. Sono un unicum e gestire uno come me non è semplice. Proprio per questo, al momento non ho un incarico preciso. Incontro e ascolto le persone, offrendo loro supporto e speranza, aiutandole a conciliare alcuni aspetti della vita. Il mio compito è camminare e fiorire insieme a loro».
Ma come riesce a conciliare la vocazione religiosa con la sua identità queer? «Gesù Cristo è venuto per mostrarci il volto di un Dio che è accoglienza, sguardo di
rinascita e prospettiva di resurrezione per ogni individuo. Il cuore del cristianesimo è l’amore: ama te stesso, ama gli altri, ama Dio. Se non impariamo ad accettarci per chi siamo, non possiamo abbracciare il prossimo e lasciarci guidare da Dio», chiarisce il sacerdote.
«Ama te stesso, ama gli altri, ama Dio»
E aggiunge: «Il problema non è la fede cristiana, ma la morale della Chiesa cattolica. Gesù non ha mai detto che omosessuali, lesbiche, bisessuali e transgender sono peccatori. Se leggiamo i testi sacri in modo approfondito, ci rendiamo conto che molte delle condanne che vengono attribuite all’omosessualità sono in realtà interpretazioni errate o fuori contesto. Ad esempio, chi menziona la distruzione delle città di Sodoma e Gomorra - narrata nella Genesi - non conosce la Bibbia e non sa che il peccato che viene punito da Dio è la violenza contro il pellegrino e il debole. Nulla che abbia a che fare con l’essere gay».
Secondo lui, è fondamentale tutelare i cittadini credenti e Lgbtq+, offrendo loro un luogo accogliente e aperto a tutti: «I cristiani queer soffrono e si trovano tra l’incudine e il martello: esclusi dalla società ecclesiastica, che li percepisce come un problema, e poco graditi dalla comunità stessa, che è riluttante nei confronti di chi ha una fede. Il punto di congiunzione risiede nella salvaguardia dell’interesse comune». In virtù di queste parole, durante le celebrazioni di don Malù si prega insieme per i fratelli e le sorelle emarginati e discriminati, con il desiderio di riconciliare presto due poli che coesistono più vicini di quanto pensano. ■

di Giulia Rugolo
1. Marco Luca Bertani, don Malù
«Il più grande tabù? La monogamia», Cruciani dixit
SCORRETTO
Onlyfans, prostituzione, sesso e amore. Il conduttore della 'Zanzara' a ruota libera
di Luca Graziani
Provocatorio, diretto e senza peli sulla lingua, Giuseppe Cruciani, da 20 anni al timone de La Zanzara, non si tira mai indietro quando si parla di sesso. Autore di “Nudi” e “Coppie”, ha raccontato senza filtri il rapporto degli italiani con il desiderio e la trasgressione.
Cosa ha capito in tutti questi anni sul sesso?
Ci sono ancora dei tabù. Tra tutti, anche se comincia a essere un po' scalfito, quello della coppia aperta. Se ne parla, ma non c’è il coraggio di affrontarlo apertamente. La monogamia è una grande illusione, è contronatura. C’è stata imposta, inculcata dalla società borghese e cattolica, l’Italia e il mondo occidentale vivono con questa grande presa in giro. Tutti quanti ci credono e invece la monogamia non esiste, la coppia esclusiva non è una cosa realistica. Lo dicono i divorzi, i tradimenti, lo dice la realtà.
A chi sostiene che “i difensori della famiglia tradizionale” siano quelli più lontani dal rispettarla, cosa risponde?
È un argomento abbastanza debole, credere nella famiglia non significa non poter divorziare, significa credere nell’istituzione. Paradossalmente chi divorzia e si risposa o ha altre relazioni ci crede fortemente, perché semplicemente lo fa più volte, non vuol dire l’indissolubilità di un legame. Poi c’è chi ha un approccio fondamentalista, ma sostenere la famiglia tradizionale non è pensare che un rapporto vada portato avanti per tutta la vita. Se la famiglia è con figli, senza figli, a tre, a quattro o a cinque, se si rompe e viene ricostruita, non mi sembra una cosa in contraddizione con il valore in sé.
Su questi temi c’è più ipocrisia a destra o a sinistra?
Per me l’ipocrisia è nel fatto che non si ammetta che la famiglia basata sul rapporto fisico non deve restare la stessa per sempre. Questo è trasversale, non riguarda né la sinistra né la destra.
OnlyFans, il porno gratis, l’esibizionismo sui social. Siamo circondati?
Sì, la nostra è una società ipersessualizzata. Il sesso è ovunque, ma allo stesso tempo non si possono usare termini espliciti in pubblico, devi avere paura a dire le cose in un certo modo perché altrimenti vieni denunciato. Abbiamo esasperato il concetto di rispetto mortificando la libertà d’espressione.

L’educazione sessuale nelle scuole?
Non la metterei perché è compito delle famiglie. Scegliere chi in teoria dovrebbe formare i ragazzi è complesso: chi sarebbero i maestri o i professori di questa educazione sessuale? E poi che vuol dire educazione sessuale? Non si capisce bene cosa possa essere l’argomento di questa materia, ma se vogliamo spiegare gli organi genitali le lezioni di anatomia si possono fare. I principi di tolleranza, di rispetto nei confronti di chiunque sono appannaggio della famiglia, non penso che ci sia bisogno di un insegnate per queste tematiche.
Una legge sulla prostituzione la farebbe però.
Assolutamente. È una mia battaglia da tantissimo tempo. Sulla sua legalizzazione facevo già con Matteo Salvini delle proposte per abolire la legge Merlin, poi lui non ha dato seguito. Io sono rimasto della mia idea.
Oggi c’è margine per fare qualcosa?
Ci sarebbero tutti i presupposti perché uno dei principali azionisti di questo esecutivo è proprio Salvini, che è anche vicepremier. Ha affermato recentemente in una diretta Instagram di essere d’accordo con la legalizzazione della prostituzione, ma è al governo e non fa niente.
Trump ha detto in maniera molto netta che esistono solo uomini e donne. Cosa ne pensa?
Purtroppo negli ultimi anni si sono confusi due piani: quello che è il rispetto dei diritti di tutti, che esiste negli Stati Uniti come esiste in Italia e in Europa, e quello invece del potersi identificare come uno vuole, che è un'altra storia. Io su questo sono molto scettico. Non sono d’accordo, sono più trumpiano. Si nasce maschio o femmina, poi ci si può identificare successivamente come si vuole, cambiando sesso. Ma il fatto di non classificarsi in nessun modo, come vorrebbe qualcuno, né maschio né femmina, mi sembra come al solito una follia woke inclusivista, che Trump fa bene ad affrontare e a cancellare.
Il “woke” esiste anche in Italia?
In maniera molto più blanda rispetto agli Stati Uniti, ma c'è assolutamente. La cultura della cancellazione, il politicamente corretto, il cambio del linguaggio, l'introduzione degli asterischi o della schwa. La scuola e le università che si comportano come centri di rieducazione nei confronti di chi sgarra, i tribunali che ti sanzionano se utilizzi delle parole sconvenienti. Certo che c’è il woke in Italia. ■
«Unioni civili una conquista, ora il matrimonio egualitario»
Le parole del senatore di Italia Viva Ivan Scalfarotto, primo esponente di governo ad unirsi civilmente con il compagno grazie alla legge approvata nel 2016
di Asia Buconi
«Lo Stato dovrebbe entrare il meno possibile nelle decisioni che riguardano gli aspetti più intimi dell’esistenza». Parte da tale assunto la conversazione con Ivan Scalfarotto, senatore e responsabile Esteri di Italia Viva. Noto, soprattutto, per essere stato il primo membro dell’esecutivo che nel 2017, quando era sottosegretario allo Sviluppo economico del governo Renzi, si unì civilmente con il proprio compagno storico, Federico.
Senatore Scalfarotto, perché in Italia è così difficile autodeterminarsi?
Qui c’è una cultura nazionale, che affonda le radici anche nella nostra religiosità, per cui la vita delle persone non appartiene mai del tutto a loro, come se ci fosse una sorta di senso comune da rispettare. Anche la questione del fine vita rientra in questo ambito. Invece l’unico limite che la libertà dovrebbe avere è la libertà altrui.
Effettivamente dopo la legge sulle unioni civili del 2016, a cui lei ha lavorato, non si sono fatti molti passi avanti per le coppie dello stesso sesso…
La legge del 2016 fu una grandissima conquista, riconobbe alle coppie unite civilmente uguaglianza sostanziale. Quel che oggi manca però è uguaglianza formale, che si otterrebbe solo col matrimonio egualitario. E l’Italia è l’unico Paese dell’Europa occidentale in cui ancora non c’è. Senza contare che la legge sulle unioni civili non prevedeva nulla sulla filiazione, dunque per le famiglie arcobaleno non c’è neppure uguaglianza sostanziale ad oggi. Ma quello fu il prezzo che pagammo per avere i numeri in Aula.
Come uscire da questo immobilismo?
Penso che a quell’uguaglianza si possa arrivare anche attraverso step intermedi, come è accaduto ad esempio in Gran Bretagna, Francia e Germania. Ma in Italia facciamo fatica perché, oltre alla chiusura

totale della destra, anche la sinistra non fa grandi sforzi.
Cosa dovrebbe fare la sinistra?
Spesso è troppo rigida su questi temi, come accadde sul ddl Zan, che infatti non passò. Invece il compromesso a volte è necessario. Questo potrebbero dirlo anche le persone di destra, penso alle parole di Marina Berlusconi, che ha ribadito di essere favorevole al matrimonio gay.
La destra prima o poi si aprirà?
Non credo, perché spesso la destra utilizza le posizioni identitarie sui diritti per serrare i ranghi e compensare così altre promesse elettorali non mantenute. Opporsi al matrimonio egualitario, rendere la gestazione per altri reato universale non costa niente ma dà un segno di fermezza al proprio elettorato. Giorgia Meloni stessa non ha una famiglia “tradizionale”, ha una figlia con un uomo che non ha sposato.
C’è dell’ipocrisia da parte dei difensori della “famiglia tradizionale”?
Sono cittadini del proprio tempo come tutti. Ma per loro brandire queste battaglie
resta di grande aiuto.
Quanto ha inciso la sua omosessualità sul suo percorso politico?
La propria esperienza di vita è sempre parte di quella politica. Mi sono occupato molto di diritti, è un tema che vivo sulla mia pelle. Ma non lo faccio sempre volentieri, perché penso che l’Italia sia un Paese troppo corporativo, in cui spesso sono solo le minoranze a occuparsi dei propri diritti. Il progresso invece dovrebbe essere di tutti.
La preoccupa il vento di destra che soffia dagli Usa fino alla Germania?
Sono preoccupatissimo, specie per il progressivo disconoscimento delle istituzioni multilaterali, penso alla Corte penale internazionale, che gestiscono le tensioni internazionali. Questo porta al nazionalismo che si traduce in atti aggressivi.
Cosa direbbe a un ragazzo o ragazza omosessuale di oggi?
Una bellissima frase di Eleanor Roosevelt dice: “Nessuno può farci sentire inferiori senza il nostro consenso”. ■
DIRITTI
«Ridefinire la famiglia per garantirne la sopravvivenza»
LIBERTÀ
Tra diritti civili, Ddl zan e aneddoti personali Tommaso Cerno, direttore del Tempo ed ex deputato Pd, racconta la destra del futuro
di Alessandro Imperiali

Il dibattito sui diritti civili e sulle libertà individuali in Italia è spesso ridotto a uno scontro tra due fazioni inconciliabili. Eppure, esistono molte sfumature nel mezzo.
Pro-vita da un lato, woke dall’altro. Il dibattito è davvero così polarizzato?
La battaglia per i diritti in Italia è stata trasversale per anni, senza reali partiti promotori. Le unioni civili sono passate con Renzi e Alfano, rompendo gli schemi tradizionali. Oggi la sinistra è diventata woke, promuove il conformismo e il politicamente corretto, mentre la destra difende la libertà di espressione. Il futuro vedrà un'evoluzione: la famiglia sarà il nuovo tema centrale, e la destra potrebbe riconoscere il matrimonio gay come parte dell'istituzione familiare.
La destra è troppo appiattita su posizioni reazionarie?
Storicamente, la destra non è mai stata clericale. Oggi confondiamo iperconservatori cattolici con la destra politica. In realtà, la destra moderna attrae giovani per questioni come patria e cultura, non per il controllo sulla vita privata. Regioni
di destra come Lombardia e Veneto dimostrano che libertà personale e tradizione possono coesistere. Se la destra vuole essere coerente, deve rimanere liberale su tutti i fronti, non solo su economia e sicurezza.
Quindi i diritti civili sono una questione di destra?
Sì, perché la sinistra ha esaurito le sue battaglie e ora si chiude in derive identitarie. La destra deve ridefinire la famiglia per garantirne il futuro. Viviamo in un Paese di divorziati e single: se la famiglia è centrale per la destra, deve trovare soluzioni inclusive senza rinchiudersi in modelli obsoleti.
D'altra parte, la destra ha l'opportunità di ridefinire il concetto di libertà individuale, includendo anche il riconoscimento di diritti civili che oggi sembrano esclusivamente di sinistra. In molti paesi occidentali, le destre liberali hanno già adottato politiche più aperte su questi temi, senza perdere la loro identità conservatrice.
Sul DDL-Zan, si è visto un atteggiamento ipocrita della sinistra?
Assolutamente. La legge Mancino tutela alcune categorie vulnerabili, ma esclude le persone LGBT. Aggiungere questa protezione avrebbe avuto consenso bipartisan. Zan ha invece trasformato il DDL in un manifesto ideologico su gender e woke culture, dividendo persino la sinistra. Molti all’interno del Pd non erano d’accordo con lui.
Il risultato è stato il fallimento della legge, sacrificata da Letta per una strategia elettorale e abbiamo visto come è andata a finire. Se davvero l'intento era proteggere le persone LGBT da violenze e discriminazioni, sarebbe bastato un intervento mirato sulla legge Mancino, invece di costruire un testo che ha alimentato lo scontro politico senza risolvere il problema.
Lei nel '95 si candida con Alleanza Nazionale per intitolare il teatro di Udine a Pasolini, ma non andò a votare. Perché?
Fu una battaglia culturale. La sinistra era contraria a Pasolini, i cattolici lo stesso, per la sua omosessualità mentre Alleanza Nazionale accettò la proposta per spirito di rottura. Io, invece di votare, scelsi di vivere la mia vita come Pasolini. Andai a vivere a Venezia con un ragazzo di cui mi ero innamorato. Oggi capisco che quella provocazione aveva senso e che il coraggio, alla lunga, paga. Chissà come sarebbe andata la mia vita se fossi stato eletto.
Si sente ancora di sinistra?
Sono nato in una dimensione politica fluida. Ho votato PSI nel '93, ma poco dopo la sinistra era guidata da ex democristiani e la destra da ex socialisti. Se ogni frase che pronuncio può finire con "Viva l'Italia", faccio contenti sia Craxi che i patrioti di oggi. Forse neanche la destra di oggi è così di destra come crede. ■

Dai tabù alla libertà per le donne
Educazione e consapevolezza per abbattere i pregiudizi sulla sessualità femminile
Pregiudizi e disinformazione coinvolgono questioni anche molto delicate, come il piacere femminile.
La differenza tra uomo e donna nella conoscenza del godimento affonda le radici in secoli di retaggi culturali che, in alcuni casi, persistono. «Una donna che aveva più partner o iniziava precocemente la propria attività sessuale veniva etichettata come una “poco di buono”, mentre per l’uomo era un segno di virilità», spiega la dottoressa Marisa Vitarelli, ginecologa e ostetrica dell’ospedale Bufalini di Cesena. Questa mentalità, col tempo, ha portato molte donne a sentirsi sminuite nell’esprimere la propria sessualità. «Anche se oggi questa concezione si sta attenuando, il “rumore di fondo” di un’educazione repressiva persiste, generando sensi di colpa e inadeguatezza».
Se in alcune culture il controllo sul corpo femminile arriva fino a pratiche estreme come l’infibulazione - la mutilazione dei genitali - in Occidente la questione si gioca sul piano della libertà individuale e dell’educazione sessuale. Nonostante permangano alcune difficoltà, le nuove generazioni sembrano essere più consapevoli e aperte, grazie a un maggiore accesso alle informazioni e a un diverso approccio delle famiglie: «Oggi molte madri accompagnano le figlie dal ginecologo e
parlano di contraccezione», sottolinea la dottoressa.
Non sono da trascurare, poi, alcune differenze biologiche. L’orgasmo maschile è legato all’eiaculazione, con una durata media di tre-dieci secondi, mentre quello femminile può arrivare circa a venti. L’uomo ha un’unica via di appagamento, concentrata nei recettori del prepuzio, mentre la donna può sperimentarlo attraverso la stimolazione clitoridea, vaginale o entrambe. «Il partner dovrebbe esplorare e anche la donna dovrebbe imparare a scoprirsi. Non c’è sempre, però, la maturità o il coraggio di farlo», continua Vitarelli.
Sebbene i giovani oggi abbiano accesso immediato alle informazioni, non sempre queste fonti sono affidabili. «I siti pornografici, ad esempio – spiega la sessuologa e psicoterapeuta Stefania Crocetta – offrono una rappresentazione distorta o parziale della sessualità. Questo non fa che alimentare aspettative irrealistiche che si ripercuotono a livello psicologico».
Secondo il terzo Rapporto Ital Communications-Censis, tra il 2019 e il 2024 in Italia sono state registrate oltre 76.000 menzioni a notizie false sulla sfera erotica. Ciò rende ancora più importante un’educazione basata su evidenze scientifiche. «Bisognerebbe introdurre sessuologi ne-
gli istituti. Mi batto da anni per questo ma ci sono genitori che si oppongono per una “mania” del controllo sui figli», lamenta la dottoressa Crocetta. Fondamentale rimane il ruolo della famiglia, in particolare della madre «che deve trasmettere sicurezza e consapevolezza affinché l’intimità possa essere vissuta in modo libero e senza stigmi», conclude Vitarelli.
Il piacere femminile non è un lusso né un mistero, ma un diritto da valorizzare. Promuoverne la consapevolezza significa liberare le donne da condizionamenti che le hanno relegate al silenzio e all’ignoranza. Un’adeguata informazione può tracciare la strada verso una società in cui il piacere non sia più oggetto di vergogna, ma parte naturale e imprescindibile del benessere individuale. ■

di Caterina Teodorani
STEREOTIPI

Sesso e falsi miti
La scarsa conoscenza dei metodi contraccettivi alimenta credenze errate e aumenta i rischi per la salute SALUTE
di Sara Costantini
L'educazione sessuale e la conoscenza dei contraccettivi sono ancora insufficienti, alimentando falsi miti. La ginecologa Monica Calcagni ha spiegato che esistono molteplici metodi contraccettivi, suddivisibili in tre categorie principali. «Esiste una grande ignoranza su questo, che in realtà sono tantissimi e non si limitano a quelli ormonali. Ci sono i contraccettivi ormonali, di barriera e naturali».
Uno dei metodi però più utilizzati, soprattutto tra i giovani, convinti che sia un metodo contraccettivo è il coito interrotto cioè un metodo in cui l'uomo interrompe il rapporto sessuale prima di eiaculare. La ginecologa, però, sottolinea: «È uno dei metodi naturali più utilizzati, ma anche il meno sicuro. Il rischio di fallimento è altissimo per diversi motivi soprattutto perchè il liquido pre-eiaculatorio può contenere spermatozoi e richiede un perfetto controllo del corpo».
Un altro falso mito è che non si possa restare incinta durante le mestruazioni. «Questo è un falso mito molto diffuso. Il rischio è più basso rispetto all’ovulazione, ma non è nullo. Alcune donne possono avere ovulazioni anticipate o multiple. Quindi, avere rapporti non protetti durante le mestruazioni non garantisce affatto di evitare una gravidanza», sottolinea Calcagni.
Uno dei dubbi più comuni riguarda l’aumento di peso. «Studi scientifici dimostrano che la pillola non fa ingrassare. In alcuni casi può causare un lieve aumento di peso, circa 1 kg, dovuto alla ritenzione idrica e non all’accumulo di grasso. Questo effetto si può contrastare bevendo più acqua e riducendo il consumo di sale» aggiunge Calcagni.
Ma la pillola può causare tumori? In molti pensano di sì, ma in realtà riduce il rischio di tumore all’ovaio, all’endometrio e al colon-retto fino al 50%, e questa protezione dura anche per i dieci anni successivi alla sospensione.
La Calgani spiega che «può leggermente aumentare il rischio di tumore alla cervice uterina, ma questo è dovuto al fatto che le donne che la usano spesso non utilizzano il preservativo, aumentando così il rischio di contrarre il papilloma virus (HPV), principale causa di questo tumore».
Un altro falso mito riguarda la contraccezione d’emergenza. E’ un metodo da utilizzare solo in situazioni straordinarie e funziona impedendo o ritardando l’ovulazione. Se l’ovulazione è già avvenuta, non ha alcun effetto e non interrompe una gravidanza già in corso. Calcagni spiega che esistono due tipi di contraccettivo d’emer-
genza: uno da assumere entro 3 giorni dal rapporto e un altro efficace fino a 5 giorni dopo il rapporto. «Entrambi sono più efficaci se presi il prima possibile» aggiunge.
C’è un collegamento tra trombosi venosa e contraccettivi orali? Alcuni tipi possono aumentare leggermente il rischio di trombosi, ma il rischio è comunque molto più basso rispetto a quello derivante da gravidanza o parto. «I contraccettivi con estrogeni sintetici possono aumentare la coagulabilità del sangue, ma esistono alternative più sicure, come quelli a base di solo progesterone. Per chi è predisposto alla trombosi, le migliori opzioni sono la mini-pillola, l’impianto sottocutaneo o la spirale al progesterone, che non aumentano il rischio» aggiunge la dottoressa Calcagni.
Una maggiore informazione e consapevolezza sui metodi contraccettivi è fondamentale per sfatare falsi miti e favorire scelte più sicure e consapevoli. L'educazione sessuale gioca un ruolo chiave nel garantire una corretta conoscenza, riducendo i rischi e promuovendo il benessere della salute riproduttiva. ■


Anche Cupido ha le piume?
L'etologo Enrico Alleva risponde alle curiosità sui vincoli affettivi nel mondo animale
In un angolo remoto dell’Antartide forse in questo momento un pinguino sta regalando alla sua compagna un sassolino. I più romantici lo interpretano come un pegno d’amore, un anello di fidanzamento. Ma attenzione ad idealizzare: «La battuta dell’anello è scientificamente poco attendibile. Diciamo che gli animali qualche volta si scambiano dei doni da mangiare o del materiale per la costruzione del nido, come in questo caso. Qualsiasi cosa che dimostri che un maschio si dà da fare per costruire un nido è qualcosa che spinge la femmina verso l’accoppiamento. Sono stimoli che servono a fare in modo che all'interno del corpo femminile si produca un uovo, che dal punto di vista metabolico non è una cosa facile», spiega Enrico Alleva, etologo di fama internazionale.
Secondo la scienza, infatti, si tratta di rituali per consolidare i rapporti durante la stagione riproduttiva. Possiamo, però, parlare di monogamia: «Anche i piccioni che vediamo per strada o le cornacchie sono monogame. Per esempio spesso le taccole, che sono dei piccoli corvi studiati molto bene dal premio Nobel per l'etologia Daniel Bovet, ci mettono più di un anno o anche due per scegliersi un compagno di vita. Poi arrivati al terzo anno generalmente mantengono lo stesso partner». I più propensi a stabilire vincoli affettivi
duraturi e a corteggiarsi sono i mammiferi e gli uccelli, più complessi dal punto di vista biologico. C’è chi deve dimostrare di essere il più forte come il bisonte, chi usa l’estetica come il pavone e chi invece punta sul talento come l’uccello del paradiso, volatile tropicale che si cimenta in complesse danze.
«La definizione di amore credo sia un po' difficile da dare in termini biologici perché ha molto a che fare con la specie umana, col linguaggio e con le religioni». Questo non significa, però, che essi siano privi di emozioni: «L’empatia, ad esempio, è ampiamente dimostrata in varie specie di mammiferi e anche nei topi. C’è molta voglia di aiutarsi, anche a difesa di un compagno ferito e nei confronti della prole».
Un altro tema su cui si dibatte ancora è l’elaborazione del lutto. Secondo uno studio pubblicato sul Journal of Threatened Taxa – rivista scientifica internazionale - gli elefanti asiatici praticano riti di sepoltura per i cuccioli morti, accompagnandoli con canti funebri e seppellendoli a pancia in su per motivi ancora sconosciuti. Inoltre, i luoghi di sepoltura verrebbero poi evitati dal branco che modifica il proprio percorso come per non disturbare i defunti. «Questo è un po’ un antropologismo. Il fatto è che gli elefanti dimostra-
no un forte interesse nei confronti delle ossa dei morti, ma non abbiamo delle prove certe per parlare di vera accettazione della perdita».
Anche se non si può definire “innamoramento”, che sia per istinto di sopravvivenza, convenienza o abitudine, anche gli animali non umani possono scegliersi per tutta la vita, «come i miei colombi viaggiatori. Ricordo che le coppie erano legatissime le une alle altre, anche quando si spostavano volando tendevano a restare vicini. Dormivano accanto, si toccavano e si accarezzavano, pulendosi le penne vicendevolmente», conclude Alleva. ■

di Chiara Grossi
ANIMALI

Un sì olimpico per Alessia
A Parigi la ginnasta ha vinto la sua 139esima medaglia. L'ultima prima del ritiro SPORT
di Gabriele Ragnini
Nella galassia di Alessia Maurelli ogni stella segue un’orbita. La ginnastica ritmica, la famiglia, il rapporto con il fidanzato Massimo, le compagne di Nazionale e persino una spiccata passione per la scrittura: cinque grandi cerchi, come quelli che ha ammirato ai Giochi di Parigi con un bronzo al collo. Uno di questi si è appena chiuso dopo vent’anni. «Non ho deciso di ritirarmi solo per questioni anagrafiche», rivela la 28enne. «Fino a un mese fa è stato il mio lavoro, ma ho sempre cercato di non identificarmi solo in questo sport. C’è tanto altro che racconta di me». Come quel cerchio stretto intorno al dito: è l’anello che ha fatto il giro del mondo in diretta tv, ricevuto dopo la vittoria della medaglia da capitana. «Pensare che in quei giorni, dopo la proposta di Massimo, non l’ho visto quasi per niente. Sono dovuta ripartire subito con le mie compagne».
Ora che la carriera è terminata, per Maurelli è più facile guardare le proprie stelle da lontano. La prima iniziò brillare a 13 anni. «Mio nonno mi regalò un body dipinto di rosso, con i fiori. Non potevo permettermene di grossi, però rappresentò un vero traguardo». Soprattutto perché a tagliarlo con lei fu «il primo tifoso della famiglia. È mancato prima che entrassi in Nazionale, ma quando gareggiavo l’ultimo pensiero era sempre per lui. All’inizio fu l’unico a credere che potessi fare qual-
cosa di grande».
Gli altri inquilini di casa Maurelli lo realizzarono dopo: «Io ci ho sempre sperato, mi allenavo anche cinque ore al giorno, ma loro non erano tra i genitori che mettono tanta pressione. Mi chiedevano “Chi te lo fa fare?”». I primi anni bastava attrarre gli stimoli di una mamma ginnasta e sfogarli con la frenesia. «Lei veniva dall’artistica e così l’ho seguita. Io però avevo già uno spiccato senso per il movimento, ballavo come una pazza». Incontenibile per tutti, con buona pace del fratello Lorenzo, che inconsciamente la fece approcciare al primo attrezzo. «Lui giocava a calcio, quindi ogni tanto mi mettevo in porta e prendevo la palla al volo. Altre volte raccontava barzellette e io intrattenevo ballando».
Le 139 medaglie ottenute da Alessia in carriera («Sono a casa dei miei, quando torno le riguardo») l’hanno resa tra le figure sportive più vincenti della storia italiana. Ma hanno anche rivelato l’altra faccia: un odi et amo continuo. «C’erano giornate no in cui non riuscivo a lanciare gli attrezzi. In quei momenti crolla il mondo che ti sei costruita per tutta una vita». Per reggerlo non bastano le spalle di una sportiva: «È la mente che cambia tutto. Bastava associare i ricordi brutti a quelli positivi. Mi è successo con la prima medaglia olimpica di Tokyo: quando sono salita
sul podio ho ricordato i Giochi di Rio, dove rimasi a guardare. Sono cicatrici che servono per arrivare da qualche parte».
La voce di Alessia non nasconde la nostalgia, ma è di certo più rilassata. Attorno alla testa orbitano nuovi pensieri: «Intanto ho preso casa a Milano. Poi dovrò trovare il prossimo modo di esprimermi. Fin qui l’ho fatto con lo sport e con i miei due libri, erano diari di bambine ginnaste che non devono per forza raggiungere le Olimpiadi». Lei però ci è arrivata. «E a Parigi sono anche tornata, ma senza Massimo. In qualche modo ci andremo, per riconsacrare la città che ci ha visti protagonisti di quella proposta». È l’amore che muove le sue stelle. ■


Canzone d'amore che vieni, canzone d'amore che vai
Cambiano i tempi, i modi di fruizione e gli interpreti, ma i brani romantici sono ancora i più ascoltati. La redazione di Zeta consiglia i migliori del nuovo millennio
di Gennaro Tortorelli
“Canzoni che parlano d'amore, perché alla fine, dai, di che altro vuoi parlare?”, canta Brunori Sas in Canzone contro la paura. Di cose di cui parlare, in realtà, ce ne sarebbero tante. Ma la musica che si fa strada tra i fili ormai invisibili delle cuffie, che sovrasta i rumori di fondo di metropolitane e pensieri intrusivi da scacciare come mosche, parla quasi sempre d’amore.
Se il dilagare dei video brevi sta mettendo in discussione durata canonica e formato di un linguaggio artistico che si trascina pressocché immutato dal secolo scorso, il caro vecchio amore romantico resiste. La musica è il linguaggio universale di TikTok, che non a caso era stata lanciata con il nome di musical.ly. Un estratto di un brano, anche decontestualizzato, diventa un trend, un modo
di pensare, un insieme di situazioni ed emozioni condivise che diventano patrimonio collettivo.
La sfida dell’industria musicale è diventata quella di infilare di soppiatto negli ingranaggi dei social quindici secondi selezionati con cura e sperare che l’algoritmo faccia la sua magia. E l’algoritmo non guarda in faccia a nessuno, premia o penalizza secondo insondabili criteri di tempismo e impatto emotivo. Dopo un’attenta analisi del sentiment, non si lascia scappare certo l’occasione di sfruttare il più potente dei sentimenti (quelli veri, con la i).
Le etichette discografiche prendono appunti: l’amore muove il sole, le altre stelle e anche un discreto giro d’affari, come dimostrano i testi dei 29 artisti in
gara al Festival di Sanremo 2025. La parola “amore” compare ben 64 volte ed è la più usata se non si contano le stopword (parole comuni come “e”, “ma”, “di”). Subito dopo arrivano “occhi” e “cuoricini”. Un picco di romanticismo che non si vedeva da dieci anni, quando nel 2015 l’amore è stato cantato ben 74 volte. Per la cronaca, il record è del 1984 (145), mentre la prima edizione del 1951 conta 27 ripetizioni tra “amor” e “amore”. Una quota più bassa, ma comunque considerevole, dato che i brani in gara erano solo 20.
Gli autori di quest’anno, undici dei quali firmano due terzi delle canzoni, sembrano aver recepito l’input del nuovo direttore artistico Carlo Conti. Intervistato per il podcast Pezzi: dentro la musica, ha rivelato che: «Quello che è arrivato
MUSICA

dai cantautori non è più un macromondo, cioè non vanno a parlare dell’immigrazione o della guerra, ma si ritorna un po’ a parlare del micromondo, della famiglia, dei rapporti personali. È molto intimo». È evidente la volontà di segnare un cambio di rotta rispetto al quinquennio di Amadeus, in cui i temi sociali e politici hanno trovato ampio spazio sul palco. Ma la musica e l’amore hanno il potere di sfumare il confine tra “micromondi” e “macromondi”. Così parlare di migrazioni e guerre vorrebbe dire raccontare anche le storie di chi il suo micromondo di affetti l’ha dovuto lasciare, o di chi ci è appena tornato e ha trovato solo un cumulo di macerie.
La canzone d’amore vive di questo inganno. Come la poesia nel film Il Postino con Massimo Troisi, non è “di chi le scrive, ma di chi gli serve!". Ciò che è personale diventa collettivo, fatti privati di perfetti sconosciuti diventano colonne sonore per ricordi da custodire. Ognuno ha le sue, nessuno ne fa a meno. Non fa eccezione la redazione di Zeta, che tramite un sondaggio anonimo ha composto una playlist di pezzi generazionali, tutti usciti dopo l’anno 2000. Sono scelte ponderate, frutto di lunghi pomeriggi passati a fissare il soffitto con un iPod in mano. Più della metà dei rispondenti ha ammesso di ascoltare principalmente canzoni d’amore e il 68% ne riconosce il potere terapeutico per gestire le delusioni di cuore.
C’è chi ha scelto un brano che fosse la sintesi di tutte le certezze, i dubbi e le sensazioni illeggibili e contraddittorie che affollano il cuore, la testa e la pancia
degli innamorati.
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«If I Had a Gun di Noel Gallagher. Rappresenta la mia idea di amore».
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«Breezeblocks degli Alt-j ha tutto: amore, violenza e tenerezza. Lo stesso vale per La canzone del riformatorio dei Baustelle».
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«Sei Acqua, Venerus. Unione e desiderio di essere linfa vitale per l’altra persona, con la paura e la consapevolezza di non essere abbastanza per loro».
Per altri la musica è un metodo per conservare i momenti della propria vita, alcuni nello zucchero, altri in salamoia. L’importante è che restino freschi, possono sempre tornare utili.
· «Del verde di Calcutta. Ho ascoltato tanto quell'album in un periodo in cui mi sentivo molto solo e spaventato dai cambiamenti della mia vita».
· «Ordinary Love degli U2. La ascoltavo con la mia fidanzata del liceo e mi faceva credere nel nostro amore (ci siamo lasciati dopo 4 mesi)».
· «Una palude dei Ministri, mi ricorda lo spazio di un abbraccio con il mio ragazzo. "La palude" è ciò che il mondo sarebbe se non esistessero le relazioni: un posto sicuramente più brutto».
I più gettonati, però, sono sempre gli amori perduti, quelli finiti e quelli mai cominciati.
· «La mia preferita è Somewhere only we know - Keane. La lego a una separazione molto dolorosa nel 2019».
· «Lacrima e Mare di Cyril Giroux è una canzone perfetta durante delusioni d'amore».
· «Perduto amor di Franco Battiato, la linea melodica è un pezzo di vetro che
ti taglia le braccia, impossibile non piangere».
· «Il posto più freddo de I Cani. È una carezza e un pugno in faccia. Descrive la tenerezza, la disperazione, il vuoto e la schifosa e umana goffaggine di chi si è dimenticato come si fa a vivere senza qualcuno».
D’altra parte, se una storia fila liscia, se due persone si amano e stanno bene insieme, non c’è poi troppo da cantare o si diventa stucchevoli in un attimo. Quando finisce, ripartono le note bellissime e struggenti. Poi magari inizia un’altra storia e la musica si fa di nuovo melensa e insopportabile e così via. Forse il vero amore e le canzoni d’amore sono come Achille e la tartaruga nel paradosso di Zenone. Si inseguono, si avvicinano, ma non si incontrano mai. ■


Olly segna la meta più bella suo il Festival di Sanremo 2025
Il cantante genovese ha conquistato il gradino più alto del podio con il brano "Balorda nostalgia"
Mano sulla bocca ed espressione stordita, stretto nell’abbraccio di Lucio Corsi, secondo classificato. É il ritratto di Olly, appena proclamato da Carlo Conti come vincitore della 75esima edizione del Festival di Sanremo. La sua “Balorda nostalgia” ha conquistato la sala stampa e il pubblico, sia a casa che quello presente al teatro Ariston.
«Ciao mà, ciao pà. È assurdo ma è successo», ha detto mentre teneva in mano il Leone d’oro. Papà avvocato e mamma giudice, Olly ha sempre ringraziato i suoi genitori per avergli fatto seguire il suo sogno: «Quando è stata annunciata la vittoria mio padre era a passeggio con i cani - è l’aned-
doto raccontato dal rapper - Sono molto fortunato da questo punto di vista, ho una famiglia che mi ha educato a pane e amore».
Ventitré anni e nessun talent alle spalle. Gli esordi di Federico Olivieri sono legati a YouTube, TikTok e Spotify, fino al 2023, quando partecipa per la prima volta alla kermesse canora ligure. Qui arriva di diritto tra i Big con il brano “Polvere”, dopo la vittoria nella categoria Sanremo giovani.
La sua presentazione davanti alla sala stampa rivela tutta l’umiltà e la timidezza del ragazzo semplice che è rimasto: «Scusate se sono un po’ impacciato. Questa
di Isabella Di Natale
MUSICA
è la seconda volta nella mia vita che mi trovo in una stanza piena di giornalisti».
La sua canzone era al vertice delle classifiche di YouTube e Amazon Music ancor prima della vittoria. «I numeri mi riempiono d’orgoglio, non per ego personale ma perché sono il giusto riconoscimento per la squadra che mi sta attorno, per i fan che non se ne perdono una – ha commentato l’artista genovese – La mia gratitudine va anche a voi, che mi fate domande e mi ascoltate: non è scontato». Accanto a lui, da due anni, c’è il valdostano Julien Boverod, produttore e autore della parte strumentale dei suoi brani. «Devo ringraziare Jvli, mio fratello ormai – ha detto Olly – Lui crede nei nostri progetti, insieme ci divertiamo tantissimo e scriviamo tutta la mia musica».
Tra le strade di Sanremo tutti cantano le sue canzoni. Davanti al suo hotel c’è un gruppo di ragazzi con la chitarra che, in cerchio come davanti ad un falò, intona “Devastante”, uno dei brani di maggior successo. La scrittura dei testi è il mezzo per esprimersi quando le parole da sole non bastano. «La musica in sottofondo è una metrica dentro cui riesco a esprimere meglio i pensieri - ha detto - Per comporre devo sentire il bisogno di comunicare qualcosa, altrimenti preferisco prendermi una pausa. Vorrei che le mie canzoni rimanessero nel tempo».
Nonostante l’Ariston non sia più un debutto, il cantautore non ha nascosto la tensione che prova chiunque salga su quel palco. «La prima sera stavo morendo d’ansia, poi ho pensato che lì in sala, davanti a me, c’erano delle persone e io dovevo cantare per loro» racconta, ti-
mido e determinato allo stesso tempo. La sua nostalgia è “balorda”, termine utilizzato dalla nonna dell’artista, per descrivere un sentimento comune. «Tutti noi tornando da un campo estivo a settembre ricordavamo le tante esperienze vissute con la voglia magari di tornare a quei momenti là», ha raccontato, giocando sul titolo di un altro suo grande successo.
Per lui la mancanza è quella del mare che bagna la sua Genova: «Tra le onde ci sono cresciuto. Dentro ci trovo vibrazioni positive che mi piace cercare d’inverno, quando non c’è nessuno». La Liguria è fatta più di scogli che di spiagge sabbiose e per trovare un po’ di solitudine desiderata dal cantante bisogna arrampicarsi. Le acque azzurre sono il posto ideale dove abbandonare i pensieri e dove “tutto si risolverà”, come lui stesso canta nel brano “Meno male che c’è il mare”, suoni di sottofondo originali.
Da sempre appassionato di sport, il suo tifo è diviso tra calcio e rugby. È la Sampdoria a fargli battere il cuore, tanto da preferire una promozione della squadra in serie A rispetto al successo sanremese. Parole apprezzate dal club che, dopo la vittoria, gli ha dedicato un post social con la scritta “proud”. Ex terza linea del Cus Genova, Olly ha lasciato la palla ovale a diciotto anni, quando ha deciso di dedicarsi totalmente alla musica: «I valori imparati sul campo mi hanno formato - ha ribadito sottolineando l’amore per questo sport – Mi piacerebbe che avesse più visibilità».
Se “Balorda nostalgia” fosse la colonna sonora di un film, non avrebbe dubbi su quale sarebbe: «Toro scatenato di Martin
Scorsese». La pellicola con Robert De Niro racconta la storia di Jack LaMotta, pugile statunitense di origini italiane, dalla vita tormentata. Nel video di accompagnamento alla canzone e diretto da Giulio Rosati viene, infatti, riprodotto un combattimento immaginario su un ring, «un’immagine che rappresenta un po’ come mi sento io sul palco dell'Ariston, in una guerra contro nessuno se non me stesso». I retroscena svelati dallo stesso cantante raccontano di scene di lotta girate davvero: «Qualche cazzotto l’ho anche preso, tanto che sono svenuto per un’oretta», ricorda adesso divertito.
La performance eseguita durante la terza serata ha emozionato l’Ariston che lo ha premiato con una standing ovation: «Sono rimasto folgorato – racconta – Dai miei coetanei un po’ me lo aspetto, ma vedere adulti in piedi per me è stato bellissimo». Una gratificazione e la dimostrazione che il suo messaggio è arrivato a tutti.
Durante la serata delle cover ha duettato con il musicista e compositore Goran Bregović e la sua Wedding & Funeral Band. La scelta del brano “Il pescatore” di Fabrizio De Andrè, genovese come lui, non è stata un caso: «Cantarlo è più un orgoglio che una responsabilità. Il testo parla di solidarietà, di guardare in faccia le persone. È una cosa in cui mi trovo molto anche io».
Metabolizzato il successo sanremese, è tempo di riprendere la tournée. Le tappe del “Club Tour 2025” sono già sold out mentre quelle per l’anno successivo tutte programmate. I tempi sono serrati, ma Olly non vuole correre: «Me la godo, cercando di costruire una carriera solida, passo dopo passo. È tutta vita». ■

Sanremo

La Farmacia dell’amore cura chiunque ne abbia bisogno
Uno sportello d’ascolto e un luogo dove potersi informare su educazione sessuale e affettiva CURA
di Federica Carlino
Sessuologia, salute mentale e dialogo. Sono i tre punti chiave della ‘Farmacia dall’Amore’, il pop up aperto da Clara durante la settimana del Festival. La cantante in gara, per la seconda volta a Sanremo, invogliata dal ricordo di quando frequentava le scuole elementari di uno sportello d’ascolto, ha deciso di aprire uno store che potesse fare sentire tutti accolti. Si trovava in Corso Augusto Mombello 54 e prima era un negozio sportivo, la settimana sanremese invece è stato un posto sicuro per tutti.
Dal titolo del brano portato in gara “Febbre” nasce l’idea di aprire una Farmacia che curi dai dolori sentimentali. La canzone parla di un amore sfuggente, scostante, che sconvolge chi lo vive in prima persona. «Parla di relazioni tossiche, ti prende, ti lascia, ti riprende, così per
tutto il rapporto. È un po’ il concetto della febbre che sale e ti fa stare male», spiega la psicologa Laura Servidio. È in questi momenti che è importante non sentirsi soli, ma anzi accolti. Chi ha visitato lo store ha potuto infatti usufruire di sessioni gratuite di ascolto psicologico, della durata di circa 30 minuti, condotte dalla psicologa Servidio. «Ho subito pensato di voler creare uno spazio in cui si potesse trattare nel concreto il tema della salute mentale – dice – di parlare di relazioni, e non solo di mandare un messaggio astratto».
L’obiettivo era di offrire un primo momento di confronto per comprendere meglio se stessi e le proprie relazioni, in un ambiente che non è stato semplice da costruire dal nulla. «Ci sono state un po’ di difficoltà – riconosce – perché uno spa-


zio di ascolto seppur non sia una presa in carico vera e propria richiede delle condizioni», ma nonostante questo il disegno ha avuto un grande successo.
«Devo dire che la maggior parte delle persone che sono venute qui– a discapito di quanto si immaginasse – sono persone che non avevano mai intrapreso un percorso, oppure che lo avevano fatto ma anni indietro». Dai 18 ai 65 anni, un pubblico variegato e che è curioso di approcciarsi a un nuovo modo di affrontare le difficoltà di tutti i giorni. «Sperimentare su qualcosa che gli possa dare un ritorno di benessere emotivo in forma gratuita» è questo quello che ha incoraggiato di più chi nel progetto ci ha lavorato. «Il mio consiglio è quello di provarci, di non aspettare di avere la completa certezza che andrà bene, la terapia non è per tutti, ma si deve provare», insiste la psicologa.
Terapia e non solo, all’interno c’erano anche spazi di educazione affettiva e relazionale, con momenti di confronto su tematiche legate alla libertà di espressione e alla consapevolezza di sé. In collaborazione con My Secret Case, la community italiana conosciuta per l’informazione sui social sulla libertà sessuale, sono state organizzate attività per approfondire le diverse sfumature dell’amore e dell’identità. L’intento è stato: «Di abbattere i tabù, creare maggiore consapevolezza su tutto quello che riguarda il benessere della persona e la prevenzione», dicono Ginevra Marinelli, psicosessuologa, e

Stefano Riboldi, content editor in MySecretCase. «Le nuove generazioni sono molto più disposte a ricercare un’informazione e un’educazione che riguardi la sessualità e l’affettività», ma continuano a esserci dei temi considerati ‘proibiti’. «Il poliamore, gli orientamenti sessuali, la comunità del LGBTQ+ sono ancora trattati con difficoltà», dicono. «Non dare per scontato nulla e chiedere sempre è la strada migliore» per trattare tutto con estrema naturalezza senza che l’altro si senta giudicato. «Ci sta non sapere, non capire, non conoscere, però proprio per questo chiedere alla persona è fondamentale», ribadiscono.
In Italia si è spesso parlato di introdurre delle ore dedicate all’educazione sessuale, un momento per approfondire e informare bene su queste tematiche: «Noi siamo andati in qualche istituto, ma trovare un ambiente pronto a dialogare con una un’azienda come la nostra è difficile». La percezione è che quello che viene proposto è una semplice vendita di sex toys, invece: «Una volta dentro in realtà i ragazzi sono molto aperti, ci conoscono, sanno benissimo chi siamo e come parlarci, più che da parte dei professori». È interessante capire come la musica possa legarsi a delle tematiche così attuali e importanti per i giovani e non solo. Sfruttare Sanremo per proporre qualcosa di diverso e utile alla comunità. Tradurre al massimo delle proprie possibilità un’esibizione canora, che diventa molto di più di quanto ci si possa aspettare. ■


Il grido interiore, la grande mostra di Munch arriva a Roma
L'esposizione sul pittore norvegese arriva a Palazzo Bonaparte, un’occasione unica per scoprire l’artista oltre "L’urlo"
Per molti Munch è solo un nome. Anzi, è solo parte del nome di quel famoso dipinto che si trova sui libri di storia dell’arte e sulle magliette, sulle penne a sfera, sulle borracce di alluminio e su molti altri oggetti di ogni tipo. L’urlo di Munch, scritto tutto insieme, un’espressione che riduce uno degli artisti più importanti e influenti del XX secolo a una preposizione.
una visione, da quando Munch era giovane fino alla fine della sua vita», racconta Patricia G. Berman, una delle più grandi studiose dell’artista e curatrice della rassegna. «Il grido interiore è un’urgenza di mostrare come lo sguardo, la memoria e le emozioni influenzano la nostra percezione del mondo».
di Massimo De Laurentiis
Edvard Munch è stato anche molto altro, e oggi si presenta una possibilità unica di scoprirlo. La mostra “Munch, il grido interiore”, include anche lui, L’urlo, o meglio una delle tante versioni de L’urlo, ma trascende l’opera che ha reso immortale il pittore norvegese. I cento dipinti esposti, che coprono la sua intera carriera, restituiscono prima di tutto i frammenti di un uomo con le sue debolezze, le sue ossessioni, il suo entusiasmo e la sua disperazione. «In questa mostra si può vedere lo sviluppo di una voce e di
L’esposizione arriva a Roma dopo il grande successo ottenuto a Milano, e le premesse per replicare le visite record di Palazzo Reale ci sono tutte. Come sottolineato nella conferenza stampa per l’inaugurazione, organizzare una mostra del genere non è affatto semplice, dato che quasi tutte le opere di Munch sono custodite a Oslo e vengono concesse in prestito solo in rare occasioni. Un evento storico, che la Capitale accoglie nella monumentale cornice di Palazzo Bonaparte, ristrutturato solo nel 2019.
Appena varcata la porta d’ingresso, si è subito di fronte a un’opera che rac-
ARTE

chiude molti elementi della poetica di Munch. Malinconia accoglie il visitatore con uno sguardo profondo e assente, diretto a un punto lontano nello spazio alle spalle di chi osserva. I grandi occhi scuri di Laura, sorella del pittore ritratta nel dipinto, puntano verso la realtà esterna ma si rivolgono al proprio mondo interiore, quel piano emotivo che è l’obiettivo ultimo della ricerca artistica di Munch.
La sua incredibile capacità di trasformare i sentimenti in forma e colore ha un legame stretto con la sua esperienza personale. L’infanzia di Edvard è segnata dal lutto e dalla malattia. La madre muore di tubercolosi quando lui ha appena cinque anni e nove anni dopo la stessa malattia spezza un rapporto di grande affetto con la sorella Johanne Sophie. Durante il suo soggiorno a Parigi, dove entra a contatto con le influenze post impressioniste, Edvard apprende della scomparsa del padre, una perdita che lo riporta alla sofferenza dell’adolescenza in Norvegia e plasma la sua visione del mondo.
Il dolore e la morte sono temi ricorrenti in molte delle sue opere, ma la vita e la grandezza di Munch non possono essere ridotti solo al lato più oscuro. «Ha avuto un’esistenza complicata e ha sofferto molto, ma ha anche avuto delle relazioni felici, ha visto riconoscere il suo valore artistico e ha acquisito potere» – spiega Berman – «Nel suo lavoro ha scavato a fondo nei momenti più intensi della sua vita e li ha usati per esprimere delle esperienze universali».
Nel 1889, nel pieno dell’entusiasmo per l’esposizione universale parigina,
Munch si trasferisce in Francia e inizia a spostare la sua attenzione dalla riproduzione della realtà all’espressione dell’interiorità. «Non dipingo la natura: la uso come ispirazione, mi servo dal ricco piatto che offre. Non dipingo cosa vedo, ma cosa ho visto», scrive il pittore stesso in uno dei suoi diari. Più tardi, a Berlino, Munch trova la sua voce, lo stile che lo rende famoso a livello internazionale. È qui che ha inizio il periodo di maggiore produttività dell’artista, durante il quale vedono la luce molti dei suoi capolavori.
Alcune delle immagini più potenti e provocatorie della mostra riguardano la sua relazione con Tulla Larsen, l’unica donna che il pittore abbia mai pensato di sposare. La figura della fidanzata di Munch diventa il soggetto sinistro di molti dipinti, un simbolo di passione e violenza che rispecchia il loro rapporto turbolento. Una delle opere più rappresentative di questa serie è Assassinio, trasposizione tragica dell’ultimo incontro tra i due.
«Mi sono innamorata dei quadri di Munch la prima volta che li ho visti perché mi hanno sconvolto» – ricorda la curatrice – «ho realizzato che questa persona aveva creato un universo che ha cambiato il mio modo di vedere le cose». Come spesso accade ai grandi artisti, l’estrema sensibilità emotiva che Munch riusciva a tradurre in genio estetico si sviluppa alle spese della sua stabilità psicologica. Ai periodi di grande creatività corrispondono anche tendenze autodistruttive, abu-
so di alcool e problemi di salute mentale. «Non penso che la sofferenza sia necessaria per essere un grande artista, ma di sicuro suscita emozioni molto profonde. Essere in grado di analizzare e condividere queste emozioni è ciò che conta», commenta Berman. Al secondo piano dell’esposizione si trovano molte opere della fase finale della vita dell’artista norvegese, che negli ultimi anni si ritirò nella sua tenuta in campagna vicino a Oslo.
Diverse tele composte in questo periodo rappresentano situazioni agresti, un mondo semplice, lontano dalle passioni struggenti di dipinti come La morte nella stanza della malata o Amore e dolore. Dopo aver compiuto un lungo viaggio lungo l’esistenza del pittore, queste opere, insieme ai molti autoritratti realizzati in vecchiaia, appaiono come una ricerca di serenità di fronte alla vita e a sé stesso.
Le parole di Patricia Berman, che ha speso molti anni a studiare e ammirare il lavoro di Munch, individuano con precisione ciò che rende l’artista scandinavo un genio senza tempo: «Quando guardiamo i suoi dipinti possiamo entrarci, possiamo completarli. È come avere un dialogo con lui. Le opere, anche se hanno più di cento anni, ci parlano ancora». L’invito per chi passasse da Roma nei prossimi mesi è quello di non perdere l’occasione di entrare nel mondo di una delle menti creative più profonde dell’arte contemporanea. C’è tempo fino al 2 giugno 2025. ■



Viaggio nel bunker di Mussolini
Il rifugio antiaereo di Villa Torlonia ospita una mostra multimediale per commemorare i bombardamenti su Roma , attraverso le
di Michelangelo Gennaro
Sei metri sottoterra, dove il tempo sembra sospeso. Scendere le scale di Villa Torlonia, fino al bunker di Benito Mussolini, mette i brividi. L’allestimento multimediale nella residenza romana del dittatore fascista, inaugurato ad aprile 2024, è un viaggio nella memoria dei bombardamenti sulla Capitale.
La storia del bunker inizia nel 1942, durante la Seconda guerra mondiale. Il Duce, preoccupato dagli attacchi dell’aviazione nemica, decide di costruire un riparo più sicuro all’interno della sua casa. Già l’anno precedente era stato realizzato un rifugio antiaereo nel piano seminterrato della villa. I locali erano dotati di porte antigas e di un sistema di depurazione e ricambio dell’aria. Ma il nuovo progetto mirava a una struttura più resistente. Una planimetria a croce, con gallerie cilindriche protette da quattro metri di muratura in cemento armato.
Oggi i cunicoli si possono visitare su prenotazione (nei weekend per i biglietti singoli, tutti i giorni tranne il lunedì per i gruppi). Sulle pareti sono proiettate le pellicole dell’archivio Luce, che raccoglie le immagini propagandistiche del ventennio fascista. Si parte dalla quotidianità di Mussolini a Villa Torlonia. Le foto in
immagini della propaganda fascista
famiglia, gli eventi ufficiali a cui presero parte personalità come Mahatma Gandhi, Guglielmo Marconi, Enzo Ferrari. Poi le attività nel parco della residenza, dai giri a cavallo al campo da tennis.
La narrazione si incupisce dalla seconda sala. I cinegiornali mostrano le macerie di Roma, colpita da 51 bombardamenti aerei tra luglio 1943 e maggio 1944. Il primo rase al suolo la basilica di San Lorenzo e le case del quartiere.
Un sistema di proiezioni riproduce le scene di un attacco aereo visto dall’interno di un riparo. L’angoscia di chi attende la fine del bombardamento viene rappresentata da attori vestiti con abiti dell’epoca. Due uomini giocano a carte, mentre un ragazzo sfoglia il giornale. C’è anche una signora con il cagnolino. Tutti cercano di ingannare il tempo, guardando nervosamente il soffitto. Le immagini della città bombardata chiudono il percorso nel seminterrato. Sui muri scorrono scene di distruzione, mentre a terra si vedono immagini di Roma girate sugli aerei alleati.
Quando i visitatori raggiungono il bunker, dopo una seconda scalinata, si trovano in uno spazio spoglio, senza allestimento o proiezioni. I curatori hanno
mantenuto la sobrietà richiesta dal Duce, che nel sotterraneo non voleva altro che viveri, acqua e un materasso. «Mussolini odiava l’idea di vivere sotto terra, non si addiceva a un superuomo», racconta la guida turistica Diletta Di Melchiorre, «mentre Hitler lavorava, studiava, ideava le operazioni di guerra all’interno del bunker, dove poi si tolse la vita».
L’atmosfera claustrofobica è amplificata dalla simulazione di un’incursione aerea: il suono delle sirene e il rombo dei velivoli in avvicinamento, poi le esplosioni che fanno vibrare il pavimento in legno.
Mussolini faceva bene a temere che la sua casa venisse colpita. Il 13 luglio 1943 il comandante in capo della Royal Air Force, l’aviazione inglese, chiese al primo ministro britannico Winston Churchill il permesso di eliminare il Duce. Il piano era bombardare simultaneamente Palazzo Venezia, dove si trovava l’ufficio del capo del governo italiano, e Villa Torlonia. L’attacco non fu mai approvato. Pochi giorni dopo, il 25 luglio, il regime fascista cadde e Mussolini venne arrestato. La costruzione del bunker fu interrotta. Mancavano le porte, il sistema di aerazione e i bagni. Non venne mai usato. ■
STORIA

M, nel cuore nero del potere
FICTION
Un successo su Sky, la serie tv sulla vita di Mussolini che ha fatto discutere tutta Italia
di Lavinia Monaco
«Il fascismo è un concetto abbastanza frainteso e questo mi sembrava il momento giusto per riesaminare le radici di quel movimento, per provare a capire da dove arriva e cosa ha significato davvero». Joe Wright, regista inglese di film come Pride and Prejudice e Atonement, spiega così il motivo per cui ha deciso di cimentarsi in un progetto tanto ambizioso quanto ricco di insidie: una serie tv su Benito Mussolini.
In un’epoca segnata da grandi cambiamenti come la nostra, in cui le democrazie si piegano all’egocentrismo di leader senza scrupoli e ai rigurgiti nostalgici per un regime dipinto a torto come grandioso e salvifico, proporre una serie sul dittatore era un rischio. Soprattutto in un Paese come l’Italia, che non ha mai fatto davvero i conti con il suo passato.
Ad impedire il passo falso, però, c’era la penna di Antonio Scurati, autore del romanzo a cui si è ispirata la trasposizione, e il genio di un regista che, grazie anche alla bravura degli sceneggiatori Stefano Bises e Davide Serino, è riuscito nell’impresa di stupire e irritare, divertire e disgustare. Il suo M, Il figlio del secolo è un racconto anticonvenzionale, crudo e coinvolgente, con un’estetica a metà strada tra Futurismo e
cultura rave degli anni ’90, in cui commedia e tragedia si mescolano, restituendo l’atmosfera di un tempo lontano e violento.
Ed eccolo entrare in scena, il contegno serioso, gli occhi sgranati e uno sguardo fiero che buca lo schermo, mentre scandisce i suoi proclami altisonanti. Il Mussolini di Luca Marinelli ti guarda dritto negli occhi, e ti parla di sé senza filtri. Frustrazione ed esaltazione, rabbia e desiderio si susseguono in un lungo flusso di coscienza che mette a nudo l’anima di un uomo intelligente, avido e con un enorme vuoto interiore, che cerca di colmare con il potere, il sesso, l’adorazione delle folle.
Siamo nel 1919 e il fondatore dei Fasci di combattimento è ancora lontano dal raggiungere la vetta, ma ha già in sé tutte le caratteristiche che lo renderanno un dittatore spietato. Senza ideologie, regole o morale, si mostra per quello che è, un bieco opportunista che sfrutta le paure degli italiani e la delusione degli Arditi per scatenare il caos.
La violenza, che definisce feroce, plastica, necessaria, è la sua parola d’ordine. Allo stesso tempo, ci sono momenti in cui la sua personalità istrionica lo trasforma
in una figura comica che con una battuta o un sorriso sgangherato alleggerisce il tono della narrazione.
Bravissimo a plasmare e a farsi plasmare, Marinelli ingrassa, si rasa i capelli e modella le sopracciglia per assomigliare al suo personaggio. Ma sono le pose che assume, le mani sui fianchi, il petto in fuori e il mento proteso verso l’alto, oltre che la voce stentorea con cui pronuncia i suoi discorsi, a trasformarlo in un Mussolini credibile.
Ad aiutarlo in questa impresa un corollario di attori di grande talento come Barbara Chichiarelli, l’affascinante Margherita Sarfatti, Francesco Russo nei panni del fedele Cesare Rossi, Benedetta Cimatti nel ruolo della moglie Rachele, e Lorenzo Zurzolo nei panni del giovane Italo Balbo.
Durante le riprese Joe Wright ha fatto attaccare un adesivo sulle macchine da presa su cui era scritto This machine kills the fascists. A ricordare il potere del cinema e la responsabilità che ricade sulle spalle di chi lo fa. ■

Ordine, violenza e ambiguità il ritorno di ACAB
L'adattamento
tratto dal libro dello scrittore e giornalista Carlo Bonini arriva su Netflix
Un reparto mobile della polizia in assetto antisommossa, una protesta che esplode in violenza, manganelli che si abbattono su scudi e corpi. Fin dalle prime sequenze, “ACAB - La serie” impone un ritmo serrato e uno sguardo spietato sulla realtà. Sei episodi diretti da Michele Alhaique e prodotti da Stefano Sollima per Netflix, che riprendono il romanzo di Carlo Bonini scritto nel 2009.
Rispetto all’omonimo film del 2012, la serie sposta il focus: non più solo le tifoserie ultras e lo scontro con gli agenti, ma una riflessione più ampia sul concetto stesso di ordine pubblico, sulle tensioni sociali e sulle contraddizioni interne a chi è chiamato a gestirle. «I conflitti sono rimasti gli stessi: sono temi universali che attraversano qualsiasi società democratica» spiega Bonini. «Come il monopolio della forza. Volevamo consegnare al pubblico una narrazione che potesse mettere in discussione le idee di tutti. Nel 2008, quando scrissi il libro, la polizia italiana era reduce dal caso Diaz di Genova. Riprendere ora le forze dell’ordine, dopo un certo percorso, ma in un contesto politico diverso, è stato divertente».
La trama si sviluppa intorno alla Celere, corpo speciale mobile di polizia, che
perde il proprio leader in uno scontro in Val di Susa e si trova a fare i conti con un nuovo comandante, Michele Nobili, interpretato da Adriano Giannini. Lui rappresenta una visione riformista del corpo di sicurezza, più incline al dialogo che alla repressione, e si scontra con le resistenze del gruppo, in particolare Mazinga, cui dà volto Marco Giallini.
La tensione si accumula puntata dopo puntata, tra scontri nelle strade e conflitti interni, tra ordini superiori e pulsioni personali. «Quando si indaga il rapporto tra sicurezza e libertà, è molto difficile dividere il mondo in bianco e nero» sottolinea Bonini. «La tonalità è sempre intermedia: il grigio ti impedisce di affermare con certezza chi abbia ragione o meno. Questo è un racconto che aiuta a porsi delle domande, più che a trovare risposte definitive».
E proprio questo è il cuore della storia: la complessità. Non ci sono eroi e non c’è una verità unica. Ogni personaggio porta con sé un pezzo di questa realtà sfaccettata, in cui le certezze si sgretolano di fronte alle scelte quotidiane. Nobili incarna il conflitto tra ideali e necessità pratiche. «È il personaggio in cui la contraddizione tra legalità e illegalità si esprime nella sua forma più estrema» dice Bonini. «Senza
dubbio, è la figura in cui questo dilemma si manifesta in modo più fragoroso». La regia di Alhaique mantiene uno stile asciutto e immersivo, con riprese che seguono da vicino i protagonisti, restituendo la frenesia degli scontri e il peso delle scelte. L’uso della luce, delle ombre e dei colori cupi accompagna il senso di oppressione e domina la narrazione.
C’è molta verità storica nello sceneggiato, come conferma l’autore: «Tutte le situazioni, i contesti e le modalità operative sono fedeli alla vita reale». Ma raccontare il punto di vista di un celerino non è stato semplice: «Richiede più ricerca e curiosità. Le figure già raccontate dalla cronaca e dalla critica sono più familiari e, di conseguenza, è più semplice narrarle. Quando invece si racconta una figura poco nota e con scarsa pubblicistica, la storia diventa più interessante». ■

di Alessio Matta
SERIE

Da quella telefonata nulla è più come prima
La scrittrice Sharon Nizza racconta il giorno dell'attacco di Hamas a Israele
C’è chi, la mattina del 7 ottobre del 2023, aveva organizzato una gita in Israele. Direzione Mitzpe Ramon, nel Sud del Paese. Sono le 6.30 e Sharon Nizza, producer che da vent’anni vive principalmente a Tel Aviv, sta raccattando il necessario per passare una giornata di festa. Tutto pronto, giusto il tempo di un’ultima chiamata a un amico che si trova sul posto. Che però cambia tutto: «Non venire, stanno chiudendo le strade». Nel frattempo, le sirene antimissile suonano in quasi tutte le città.
Iniziano così le 24 ore che cambiano la vita della scrittrice milanese. E che la portano a pubblicare un libro – “7 ottobre 2023. Israele, il giorno più lungo” - per raccontare la giornata in cui Hamas ha sorpreso Israele e ucciso più di mille persone, dando il via a un’escalation della guerra.
Quel giorno, Nizza non comprende subito la gravità della situazione. Anche quando, chiusa in casa, riceve i primi video dei missili. «Ho pensato: “Sarà uno dei soliti round”. Fra un paio d’ore si potrà uscire. Ma intorno alle 10 ho capito che sarebbe stata la guerra più lunga di sempre. Proprio quando ho saputo che la prima vittima era il sindaco del kibbutz Kfar Aza, Ofir Libstein. Mi ha stranito, perché non era un membro delle forze di sicurezza. Io lo conoscevo e infatti ne parlo nel libro».
Dalla sua safe room, l’autrice segue l’evolversi della giornata da fonti internazionali. «Non passava nulla di ufficiale, e questa è una cosa molto interessante. In molti mi chiedevano novità, ma io
non avevo conferme interne. Avevo solo i video che giravano sui social tramite i terroristi». Una strategia di Hamas: «Era parte del loro piano. In realtà si è rivelato controproducente e poi infatti li hanno cancellati».
«Il terrore nei Kibbutz, però, era lampante». E proprio da quelle immagini inizia il libro. «È stato complicato ricostruire quello che è successo alle famiglie – racconta l’autrice – ci sono voluti mesi per stabilire la lista delle vittime e dei dispersi». Il piano è quello di «fare una cronologia della giornata. Ho seguito le storie di molte famiglie rapite nei villaggi vicini al confine con Gaza. Le ho trovate su Facebook, diventato una bacheca in cui si chiedevano informazioni su amici e parenti. Fra queste c’era quella di Nadav Kipnis, a cui hanno ucciso i genitori italo-israeliani. È a lui che dedico il libro».
«Poi mi sono concentrata sul massacro del festival musicale Supernova (in cui morirono 364 persone, per lo più giovani, ndr)». Infine, la terza parte si sofferma sugli errori dell’esercito: «C’erano segnali che l’Israel Defense Force aveva individuato, ma li aveva mal interpretati. Un fallimento dell’intelligence come quello del 1973». È in quell’anno che venne coniato il termine conceptzia per spiegare l’accaduto. Un errore concettuale: Israele non ha preso in considerazione l’idea di un’operazione di terra, «umana e non strategica».
Grazie alla scrittura e alla ricostruzione di quelle giornate, Nizza riesce a capire
meglio la popolazione israeliana. E di una cosa rimane sorpresa. «Fino al 6 ottobre, si parlava delle controversie per la riforma giudiziaria. C’erano state manifestazioni per un anno. Era un Paese spezzato. Ma nel momento del trauma, il popolo si è unito. E anche se la società è ancora traumatizzata – conclude - l’orgoglio resta alto. C’è una vita parallela: la gente esce a bere e prova a divertirsi la sera. Si fa di tutto per provare ad andare avanti». ■

PAGINE
1. Copertina libro "7 ottobre 2023. Israele, il giorno più lungo"
di Lorenzo Pace

A Strasburgo l’Europa prova a ritrovarsi
Le discussioni del Parlamento Europeo, riunito in plenaria, dimostrano divisione nella politica estera
«C’è un nuovo sceriffo in città», ha esordito così il vicepresidente degli Stati Uniti J.D. Vance alla Conferenza sulla sicurezza di Monaco di venerdì 14 febbraio. Appena eletto, Donald Trump ha indossato lo spolverino e tirato fuori il winchester per provare a imporre la sua legge nel Far West delle relazioni internazionali.
Di fronte all’uomo con la stella al petto, l’Unione europea, riunitasi al Parlamento di Strasburgo per la seduta plenaria dal 10 al 13 febbraio, sembra essere impreparata. Nelle sessioni di discussione, i metodi del presidente USA destano per lo più sospetto e preoccupazione, ma in alcuni casi anche entusiasmo.
«L’amministrazione Trump sta adottando un approccio deciso e pragmatico, puntando a risultati rapidi», commenta Alberico Gambino, eurodeputato di Fratelli d’Italia e vicepresidente della Commissione per gli affari esteri del Parlamento Europeo:
«L’UE deve agire con la stessa lucidità, non possiamo permetterci esitazioni né divisioni, perché la nostra credibilità dipende da scelte chiare e coerenti». “Divisione”, però, sembra il leit motiv su tutti gli argomenti chiave, anche quelli che sembravano più condivisi nella precedente legislatura. «Quella di Trump non è una strategia», dice, più cauta, Lucia Annunziata, eurodeputata del Partito Democratico e anche lei membro della commissione affari esteri, «ma è un modo per usare la continua destabilizzazione delle parole». Si concentra sul linguaggio del presidente americano anche Danilo Della Valle, Movimento 5 Stelle: «Trump è diretto e muscolare nel rivolgersi a un’America stanca della retorica utilizzata dai democratici per mascherare scelte di politica estera che non avevano nulla di “politically correct”».
Martedì 11 febbraio, l’emiciclo di Strasburgo ha accolto con entusiasmo il presidente del parlamento ucraino Ruslan Ste-
di Francesco Esposito e Chiara Grossi
fanchuk. La risposta dell’Europa al rischio di venire estromessa dai colloqui di pace sull’Ucraina, però, è titubante. Mentre perde terreno l’idea del “whatever it takes” fino alla vittoria sulla Russia. «Mantenere fermo il sostegno all’Ucraina, rafforzare la cooperazione transatlantica e, al tempo stesso, promuovere ogni sforzo diplomatico per arrivare a una soluzione politica del conflitto», è la ricetta di Gambino. Se si arriva a parlare dell’ingresso del Paese aggredito nella Nato, «principale garanzia per una pace duratura» secondo Stefanchuk, le voci si fanno più dubbiose. «Credo sia una di quelle storie che deve passare per un periodo di raffreddamento lungo, in cui provare formule di neutralità», dice Annunziata. «Se vogliamo seriamente discutere di un processo di pace stabile e duraturo, dobbiamo smettere di seguire discorsi privi di senso», taglia corto Della Valle, che aggiunge: «A mio avviso, sarebbe necessario rivedere completamente la funzione della Nato. La Guerra Fredda è finita e il mondo è cambiato».
Un altro scenario aperto è quello medio-orientale. Conclusa la plenaria, la presidente dell’Eurocamera Roberta Metsola si è recata in Israele e nei territori palestinesi per confrontarsi con le autorità locali ed è stata la prima leader europea ad entrare nella Striscia di Gaza da più di un decennio. Nonostante ciò, l’istituzione europea fatica a individuare una strategia comune, poiché la soluzione “due popoli due stati” ora sembra impraticabile. «È un vuoto slogan da
anni: il trasferimento di coloni permanenti, giustificati anche da Israele, ha di fatto reso impossibile per scarsità di territorio la definizione di due diverse entità che possano abitare in due diversi mondi», afferma Lucia Annunziata. Un pensiero condiviso anche da Danilo Della Valle: «Quali sarebbero i due Stati? Gaza è un cumulo di macerie; Israele, da anni, sostiene i coloni nella sottrazione di nuove terre a danno dei palestinesi. In Cisgiordania non esiste più l’Autorità Nazionale Palestinese». L’auspicio del deputato dei 5 stelle è che si possa definire «una nuova comunità politico-statale che includa sia gli arabo-palestinesi sia gli ebrei israeliani». Ma la priorità resta il raggiungimento della stabilità. «Senza garanzie di sicurezza per Israele e senza una leadership palestinese affidabile e credibile, questa soluzione rischia di rimanere uno slogan vuoto», è il parere di Alberico Gambino.
L’Europa, da sempre impegnata in prima linea nella difesa dei diritti umani e nella gestione delle crisi umanitarie nel mondo, è al contempo esitante nell’assumere il ruolo di potenza mediatrice: «Siamo davvero davanti a un fallimento epocale nelle strategie di politica estera della Commissione Europea, ma sembra che nessuno si renda conto della portata del disastro», commenta Gambino. C’è chi, invece, pensa di poter trarre vantaggio dalla nuova leadership americana: «Più l’America si ritira nel suo nazionalismo più si aprono spazi internazionali per l’Europa, che può allargare la sua
sfera di influenza in termini diplomatici e militari», spiega Annunziata.
Lontano dai riflettori, altri conflitti riempiono le pagine secondarie dei giornali, come la guerra civile nella Repubblica Democratica del Congo, aggravatasi dalla recente caduta della città di Goma nelle mani dei ribelli dell’M23. L’emiciclo ha approvato a grande maggioranza una risoluzione sull’escalation nella regione proposta da The Left, S&D, Renew, Ppe, Verdi/Ale e Ecr. In questo caso l’Ue «dovrebbe sfruttare la grande esperienza delle proprie diplomazie e la profonda conoscenza del continente africano per sviluppare rapporti di cooperazione e sviluppo che si pongano nei confronti dei Paesi emergenti in maniera paritaria», dice Della Valle.
«Aumentare gli aiuti, creare corridoi umanitari, considerare gli stupri di massa come arma di guerra e interrompere gli accordi con il Ruanda» è la strada da percorrere per Annunziata. Ma parlare di aiuti non basta più: «Il Piano Mattei può rappresentare un modello efficace per un partenariato nuovo rispettoso e reciprocamente vantaggioso con l’Africa», conclude Gambino difendendo l’operato del governo Meloni. «Serve però smettere di considerare il continente un semplice destinatario di aiuti, ma piuttosto un interlocutore strategico». Adesso, per l’Europa, sembra essere arrivato il momento di passare dalle parole ai fatti. ■


The Navalny legacy
The remembrance of the life and political commitment of Alexei Navalny
“We will take you out for a walk” is what, maybe, they said to him. Some men in black boots and black bombers jackets walked with Alexei Navalny outside of the prison on the white Siberian plain. The wind was freezing; tiny, sharp snowflakes fell, hitting the ground like flashes. Three black pines stand to the right. The men are walking away, and all at once they stop. One man, Alexei Navalny fell down the ground like a stone. It was 16th February 2024. Maybe his life ended in this way or maybe not. We will never know. Many things have been said about how he died but no one, expect those present or the masterminds, will ever know what happened to him. No cameras. No Witnesses. No evidence. Just one note promoted by the Kremlin “Alexei Navalny died for natural reason” in the IK-3 prison colony of Yamalo-Nenets. The death of the main political opponent of Putin shocked all his supporters inside and outside the Russian Federation.
Lawyer and political activist, Alexei Navalny, has challenged many times the Russian power system. With his blog in
2008 he started to explain the corruption model of the government, becoming very popular among the opponents. In 2013 he ran for mayor of Moscow but loosing against the mayor supported by the Kremlin. In the following years he was accused of corruption and in 2017 he was jailed because he attempted to organize a protest. The European Court of Human Rights pointed out that Navalny was arrested to "suppress political pluralism”.
In August 2020 Navalny survived an assassination attempt, involving a Novichok nerve agent. He was flying from Siberia, where he supported a local electoral event, to Moscow, when he felt ill. The plane was forced to an emergency landing. A video captured his suffering. Initially suspected of drug use he was kept in the local hospital with military force outside of his room. “There was an online campaign - Let him out - and Putin thought it was safer for him just let me out after 48 hours,” Navanly said in an interview with the American broadcast 60 Minutes- “after that, I was bought with an air ambulance to Berlin”. He directly accused Putin of or-
chestrating the attack. He described it as a “chemical weapon” used against him and to intimidate others. Despite the risks, Navalny on January 13, 2021, announced his return to Russia on Instagram: “It was never a question of whether to return or not. Simply because I never left. I ended up in Germany after arriving in an intensive care unit for one reason: They tried to kill me." Upon his arrival in Moscow on January 17, 2021, he was immediately detained at Sheremetyevo Airport.
He endured trials and was sent to some of Russia's harshest penal colonies. His death in February 2024 brought an end to his courageous struggle against Putin's regime. “I've been reading this little book. It's called the Russian Constitution. It says that the only source of power in Russia is the people. So I don't want to hear those who say we're appealing to the authorities. Who's the power here?”. This is a quote from Alexei Navalny. His legacy, however, continues to inspire those who strive for a more just and democratic Russia. ■
di Stefania Da Lozzo

“I wrote a letter of anger and gratitude to Alzheimer’s”
HEALTH
The impact of Alzheimer’s between personal experience and gaps in the healthcare system
di Mariahelena Rodriguez
Gabriella is on the beach with her father and husband. The sun is shining, and the sound of the waves drowns out the voices around them. Yet, something is wrong. My husband noticed it. At that moment, my father had lost his bearings: he couldn’t point out where the umbrella was.” That was the first sign. From that moment on, Gabriella’s life changed, but not suddenly. The diagnosis came later, along with a series of emotions that didn’t follow a logical order. Denial, rationalization, anger, but also the attempt to find explanations for behavior that no longer seemed to make sense. The forgetfulness became more frequent, and the disorientation increased.
Alzheimer's, the disease that took Gabriella's father, causes unpredictable disturbances, altering not only the patient's perception but also that of those around them. As Gabriella shares: “You start looking for justifications, right? Part of me thought something was wrong, but another part thought it was just his age.” But soon, those excuses weren’t enough anymore.
According to the 2024 report from the Italian Alzheimer's Federation, about 1.48 million people in Italy suffer from some form of dementia, with Alzheimer's accounting for half of the cases. By 2050, the number is expected to exceed 2.3 million. Despite this, 70% of caregivers report stress due to medical care coordination, and 66% struggle to find adequate psychological support. Resources are scarce: “There’s no funding, no beds, and no facilities. Often, you have to run around like a mad person asking for help from volunteer organizations.” Gabriella suggests: “The best thing would be to strengthen home care assistance.”
"I don't know who you are, but I know I love you"
Writing has become a refuge for Gabriella, a way to hold on to her memory and maintain a connection with her father. “I called my published book The Me-
mory of the Heart for this reason: I don’t know who you are, but I know I love you. When memories slowly fade, feelings remain. They are like an inner compass.” Accepting the disease, with all its difficulties, becomes a necessity. “It’s hard to adjust to the way the patient lives, but it helps not to waste your energy. There’s still suffering, but it also becomes a tool to face difficulties—the fact of admitting that you’re fragile. It would be better not to feel that way.”
At the end of her book, Gabriella dedicates a letter of ‘anger and gratitude’ to the disease that took her father. An experience that led her to greater empathy and listening toward others. “For me, these aren’t trivial things. It’s important to find an opportunity in the disease, to improve yourself and your relationships with others.” In her own way, Gabriella has found a way to move forward and find positivity in this gray context. She had to, in a world marked by insufficient funding for patients and a lack of psychological and practical support for caregivers. ■

Strings and struggles, the sound of Rome's streets
New restrictions challenge the city's performers, barred from the Capital's main places
by Lisa Duso
Walking through the streets of Rome, not far from the picturesque district of Trastevere, music echoes from a bridge. It’s Ponte Sisto, four arches spanning the waters of the Tiber. Here, with a black flat cap, an earring in his left ear and a guitar in his hand, Valerio Ananse stands with two microphones − one for himself, one for the audience. “For me, street art is about connecting with passersby, getting people to sing together, and making every performance unique,” he explains.
At 30 years old, Ananse is one of the street artists who bring music and joy in Rome. Since 2018, he has been a familiar presence in the city. His usual stage − what he once called his "office" − was the Imperial Forums. But with new restrictions in place, he has had to move. Now, with his guitar, he shifts between Sisto Bridge and Piazza Trilussa.
A new set of rules for street performances, approved in December 2024, excludes musicians and performers from parts of Rome’s Imperial Forums, in addition to the already restricted areas of Via del Corso, Largo Goldoni, and Tridente. The limitations will remain in effect un-
til the end of the Jubilee − the Holy Year for Catholic Church which is expected to bring many pilgrims and tourists − in December 2025. The decision, made by Rome’s Municipality I President Lorenza Bonaccorsi, came after multiple complaints from residents. According to the local police report, at the Imperial Forums, there were 34 violations in the past five months for exceeding time restrictions, excessive noise, and disturbing public peace.
"We need clear regulations, not subjective interpretations," explains the artist. One of the key demands from artists is clearer guidelines on noise levels. “Banning amplifiers without specifying a decibel limit makes no sense” says. The guitarist is a member of a committee advocating for street performers called ‘buskers in Rome’, which is working to establish a constructive dialogue with city authorities. The artists proposed a draft regulation with a code of ethics, seeking balance between artistic freedom and the need of the city and its residents.
The busker believes many of the restrictions are rooted in prejudice rather than real issues. “They say it’s about noise
levels, but no one ever complained at the Imperial Forums. It’s ideological: some people think street art is not respectable.”
Despite the challenges, Ananse keeps playing, spreading his music and his message. “Street art isn’t just a performance, it’s a service to the community, a way to enrich places and people. I wish more people understood that the street isn’t just a stepping stone to something else; it’s a choice, a form of expression, a way of life.”

1. Busker Valerio Ananse
MUSIC

Love and sex in the liquid society
SOCIAL
For Francesca De Martin, an OnlyFans creator, the 'happily ever after' no longer exists
by Alexandra Colasanti
Francesca De Martin, known artistically as Fralefusa, is twenty years old and an OnlyFans creator. She has denounced the agency that forced her into prostitution. Now, she claims to fear for her life, lives under protection, and is working alongside some parliamentarians to push for change for other colleagues who have also been affected.
Why OnlyFans and not university? "I'm scared of university. In my way of thinking, time carries significant weight, and investing five years without knowing where that path will lead feels too uncertain. I'm an exhibitionist, and I believe life is too short not to do what we’ll truly remember when we’re older.”
Does people's judgment scare you? "People's judgment influences everyone; anyone who denies, it is lying! However, I have chosen to exempt myself from it. Rejected by a partner? I don’t worry. I won’t look back with regret because there is no room in the present for the past. As for being a mom, yes, in the future.”
What is a content creator's typical day like? "I wake up at 9 AM, respond to fans, schedule and create video calls and content, train with my personal trainer,
read, watch TV, go to the post office to send panties, bras, or personal items to fans, go shopping, have dinner out, and write poems."
Are your clients male or female? "My clients are mostly men, ranging from 18 to 80 years old, with only a few women. This is because, historically, men are more accustomed to paying for a woman. There are different types: those who indulge in their fetishes, those who suppress what excites them and use videos to express themselves, those who do it out of boredom, those who want to know me, and even some who have only a few hours left to live. What they all have in common is the payment, because the moment they stop paying, everything ends."
Why do men turn to you? Is it a need of love? "I believe it stems from the society we are creating. In today’s world, proximity makes men vulnerable. Men are afraid of confrontation; they haven’t kept pace with women’s emancipation and feel intimidated. In today’s society, people often seek sex in an attempt to find love. It’s all tied to social constructs."
In an interview, you confessed to feeling like a prostitute. Is it happened? "Yes, it happened, sometimes
in a friendly way, other times because of my former agency’s will. But I am not an escort. My journey on OnlyFans started as a game; I was supposed to create content and make money. They made me believe we had the same goal, presenting themselves as parental figures, as family. Until I found myself in a nightmare, forced into relations. I was unwell, I cried. I found the strength to rebel only when I felt completely powerless."
February is the month of love
What does love mean to you? "To me, love includes both love for others and relational love, the kind where we are loved in our entirety, while also recognizing that love doesn't come solely from a partner. I don't believe in ‘forever' love. Marriage, and monogamy belong to another era. They no longer fit into today's society. Sex and love are two separate things. The world evolves, and so do human needs. To me, sex is our deepest language."
Do you believe that love is separate from sex? "I have loved without having sex and had sex without loving. So why always link the two?" ■
1. OnlyFans creator Francesca De Martin

Tech chimneys inside AI’s environmental bill
SUSTAINABILITY
As a Chinese startup shakes the AI market, the true price of AI is paid in carbon emissions, water resources, and mounting electronic waste
«Amid roaring sanctions from the United States, in China, with just $6 million in funding, Liang Wenfeng's startup Deepseek accomplished what western tech giants spend billions to achieve. Their latest model sent shockwaves through the AI industry, causing tech colossus Nvidia to lose nearly $600 billion in market value in a single day. But as Deepseek's promise of democratised AI access captures headlines, a darker reality lurks in the shadows of this digital revolution.
Behind every AI interaction lies a complex network of data centers, their servers humming continuously to power our digital conversations. In regions powered by renewable energy, AI operations leave a lighter footprint. But in areas still dependent on fossil fuels, each interaction carries a heavier burden. Research from the University of Massachusetts Amherst reveals a stark truth: training a single AI model generates approximately 300 tons of CO2 emissions – equivalent to the lifetime carbon footprint of five cars driving a total of 200,000 kilometers each.
Yet carbon emissions tell only part
of the story. AI's most surprising environmental impact may be its insatiable thirst. Modern data centers require massive cooling systems, using water to dissipate the intense heat generated by their servers. The Financial Times projects AI's water consumption will surge to between 4.4 and 6.6 billion cubic meters annually by 2027 – roughly half the total water consumption of the United Kingdom.
As a study by Shaolei Ren and published by the Washington Post states, a single 100-word email composed using ChatGPT-4 drinks more than half a liter of water. If just one in ten employed Americans sent a weekly AI-generated email, the servers would consume 435 million liters of water annually – enough to meet Rhode Island's water needs for a day and a half (1 million inhabitants).
But not everything is painted in black. The United Nations Environment Programme has identified numerous applications where AI could actually enhance sustainability, from emissions monitoring to real-time air quality tracking. “I am quite positive about that,” com-
ments Giuseppe Italiano, professor of computer science at LUISS University and expert of algorithm engineering. However, a long road lies ahead, as he warns: “While there's progress in making AI more environmentally sustainable, the challenges are still significant. We are not yet on a clear path to ensuring that AI's benefits outweigh its environmental costs. To achieve better sustainability in AI, we need more research and development in energy-efficient AI technologies and sustainable AI practices”.
The EU's mandate for environmental transparency of the AI Act marks a first step, but questions remain about enforcing these regulations in a global industry. While AI companies tout their models' efficiency, basic metrics like water consumption per interaction remain largely hidden from public view. As Deepseek and others continue pushing the boundaries of AI capability, eventual environmental reports and more transparency from the industry may finally reveal whether cheaper, more accessible AI also means a cleaner one. ■
di Alessandra Coffa e Andrea Iazzetta

Independent italian cinema from Rome to the world
Villa Blanc students are redefining Italian cinema, embracing independence over commercial constraints
di Ludovica Bartolini e Rosita Laudano
Through community solidarity and creative resilience, these emerging filmmakers prove that independence in filmmaking is evolving from necessity to conscious choice, gaining international recognition while preserving authentic storytelling. Independent Italian cinema is breaking barriers and gaining international recognition, thanks to the creative efforts of young filmmakers—including students from Villa Blanc at Luiss Guido Carli.
These filmmakers are not just navigating the industry; they are actively resisting the dominance of large production companies, proving that independence is more than just a necessity—it is a conscious artistic choice. For many, stepping into independent cinema is the only viable way to start. "I arrived here out of necessity because I'm just starting my journey, " explains Silvia Centorame, a film student whose striking appearance channels Quentin Tarantino's iconic character aesthetics. "Independent cinema is a way to approach the industry with total freedom, without constraints. For me, making independent films means working with deep passion alongside people who share that passion. " This passion is what fuels the independent film community—a network
of artists who support each other, create opportunities, and carve out spaces to showcase their work. "There is a very active network where people share their work, search for spaces to showcase their films, and support one another.
This sense of community is essential to maintaining independence while still finding an audience, "Centorame continues. In an industry where major studios control distribution and funding, this kind of solidarity becomes crucial. The reality of working outside the mainstream production system also means facing difficult choices. Large studios offer financial stability, but often at the cost of creative control. Some compromises, however, are simply not worth it. "My specific goal is to resist the industrial film system in all its forms, especially the big production companies. I want to make films on my terms.
"Rome, in particular, provides a unique space where independent filmmakers can thrive. Unlike in other film capitals where large studios dominate, the city offers alternatives. "In Rome, it's possible to survive as an independent filmmaker. Being independent can be a real, conscious choice, not just a necessity. "With its rich artistic history, vibrant festival
circuit, and growing number of alternative cinemas, Rome allows filmmakers to sustain their work without being forced into the mainstream industry. This shift toward independent filmmaking is not just an Italian phenomenon—it is part of a global movement.
As streaming platforms and digital tools become more accessible, directors, writers, and producers no longer need massive budgets or studio backing to reach audiences. However, the struggle for financial stability remains a reality. Independent films often lack the marketing power of large productions, making visibility a challenge. But for those who choose this path, the freedom to tell their stories authentically is worth the risk. The students of Villa Blanc at Luiss Guido Carli are contributing to this evolution, demonstrating that independent cinema is not just a stepping stone—it is an essential part of the industry's future. Their work stands as a testament to the power of creativity unchained, where true artistic vision is never compromised. As Italian independent cinema continues to grow on theinternational stage, it proves that success does not have to mean surrendering to the system. Independence is not just surviving—it is thriving. ■

Growing up apart, children of migration
Fatma Biber Born captures the emotional weight experienced by guest workers' sons and daughters through her paintings
by Gizem Daver
After the devastation of World War II, Germany faced a labor shortage and had to address it. The phenomenon of Gastarbeiter—guest workers in English—emerged as a result of recruitment agreements between 1955 and 1973. The partner countries were mainly Italy, Spain, Greece, and Türkiye.
The exhibition, held in Germany, is titled Kofferkind—which translates to Suitcase Child in English—and showcases a collection of watercolor and ink paintings by the artist Fatma Biber Born. It explores the stories of the children of guest workers who were left behind in their home country during the 1960s and 1970s. These children were raised by their grandparents, other family members, or neighbors. In Türkiye, approximately 700,000 children are believed to have been "suitcase children."
It is estimated that in 1970, there were around 574,000 Italian guest workers in Germany. "Whether for economic or political reasons, there are always personal destinies and the associated 'high price' for the individual behind the forced migration of people," says the artist, Fatma
Biber Born, as she shares the inspiration behind her work.
How did you decide to address this issue? "The story of guest worker migration from Türkiye to Germany has also shaped my life. I had heard stories about this from the people I met years ago during my voluntary social work. Mothers, or both parents, had left their children in the care of grandparents, aunts, uncles, or even neighbors and gone abroad to earn money. During my research on the subject, I repeatedly came across articles and stories of healthy young workers, or guest workers, but there was no mention of the children they left behind, who had become estranged from their parents over time. I found only two books in Turkish; they were children's books, nothing else. I wanted to talk about this topic because I have experienced all this in a similar way, and I know that many children have suffered the same fate."
How did you reach the suitcase children? "After extensive research among friends and acquaintances, I found these children, interviewed them, and collected their childhood pictures (they
came from different parts of Türkiye). Later, people from Spain and Yugoslavia also joined. During the interview, one of them said: 'Our parents were far away, and we had to live there depending on who could pick us up (uncle, aunt). Once, I even went to two different schools in one school year. My suitcase was always ready. I felt like a suitcase child.' and my work was called Suitcase Child."
What did you prioritize while working? "I made portraits of them in watercolor and ink, combining their experiences and life stories, resulting in a semi-documentary work. This is a series of stark black-and-white inked watercolor paintings that show children, in particular, as individual portraits or in groups against a grayish-white background. The natural environment seems to have been erased, giving the impression of abandonment. These provide a touching insight into what much of a generation of migrant children went through and still face today due to unresolved traumas." ■
1. A painting by the artist Fatma Biber Born

Revenge is best served in Paris
LITERATURE
Italy and France came together for a new TV series adaptation of The Count of Monte Cristo by Alexandre Dumas
by Ludovica Esposito
Edmond Dantès is born in Marseille and reborn in Tuscany. It seems fitting that the two States gave life together to the character for a new time 180 years after the novel’s first serialized publication, with a TV series co-produced by Mediawan with Palomar in Italy and DEMD Productions in France, featuring an international and Italian cast.
Inspired by the 19th-century novel of the same name by Alexandre Dumas (père), the miniseries The Count of Monte Cristo tells the revenge story of a young sailor, Edmond Dantès, who is arrested on his wedding day under the accusation of being a Bonapartist. He is imprisoned for years in the Château d’If until he seizes an opportunity to escape. After his break, he comes into possession of a vast hidden treasure on the island of Monte Cristo, in Tuscany, and devises a plan to reach Paris and ruin all those who betrayed him. While the Count travels extensively in the novel, the main events take place in Italy and France, the co-producing countries of this 2024 miniseries, directed by Bille August.
With two centuries separating the original work from this adaptation, it was inevitable that the TV series would not follow the book to the letter. Some elements
were cut (such as the character of the slave Ali) to align with modern sensibilities, while other episodes (such as the adventures in Rome) were shortened without altering the overall story. Some changes resulted in the loss of key character traits (Caderousse’s true story is bloodier in the novel), but they did not compromise the narrative’s flow.
The surprise of piecing together the Count’s long-term plan is diminished in some places, but following the adventures chronologically from Monte Cristo’s perspective and removing some subplots helps prevent confusion for viewers unfamiliar with the story. This approach allows the novel to be told in eight episodes, each about an hour long, without overwhelming the audience with too many simultaneous events. Readers may regret the lack of fidelity to the book and, given the large-scale production, the absence of a few additional episodes. However, those unfamiliar with the story will still enjoy the series and may be encouraged to explore the original novel to uncover the details that were sacrificed.
For the most part, these adaptations are necessary and effective, but some modifications seem to stray too far from
the novel. In one scene, Edmond, while in prison, refuses to eat in an attempt to starve himself to death. This happens in the book as well, but Dumas has his protagonist throw the food out the window so the guards won’t notice—as instead happens in the TV adaptation. This may seem like a minor change, but in the novel, it subtly reveals Edmond’s ability to plan ahead.
The biggest change is in the ending that left readers dissatisfied, but was well received by viewers—judging by social media comments during the airing of the eighth episode. The novel concludes with the phrase “wait and hope”, while in the series, it becomes “love can heal”, culminating in Edmond and Mercedes reuniting—a couple that does not get a happy ending in the book, as the Count finds happiness with another woman who receives little attention in this adaptation.
Despite its decreasing fidelity to the novel with each episode, The Count of Monte Cristo dominated TV ratings every Monday for four weeks, from January 13 to February 3, 2025, when it aired on Rai 1 in Italy, securing the highest viewership share of the night. In France, the miniseries will be broadcasted later this year on France 2. ■
Speciale Caravaggio Il realismo onirico del pittore "valent'huomo"
Colloquio con il grande storico dell'arte Claudio Strinati tra passato e presente
«Caravaggio è entrato nella storia per il fascino della sua vita. Per la sua fama di uomo che non teme nulla, che non ha bisogno di niente e di nessuno, che disprezza le convenzioni sociali, eppure ciò che crea è un supremo beneficio per l’umanità. In fondo, rappresenta ciò che, a livello subconscio, ognuno di noi vorrebbe essere», spiega Claudio Strinati, uno degli esperti d'arte più autorevoli e noti in Italia. Nella sua stanza nell’Accademia di San Luca nel centro di Roma, circondati da libri, si respira cultura. E parlare con lui di Caravaggio significa spaziare dal passato al presente. Paragona al grande pittore lombardo, vissuto tra la fine del Cinquecento e il Seicento, il celebre cantautore americano Bob Dylan, a cui è dedicato il film A Complete Uknown, candidato agli Oscar 2025. Entrambi rappresentano il «prototipo del grande artista che sembra non cercare la gloria e proprio per questo ce l'ha», sostiene Strinati. «Dylan non è andato a ritirare il Nobel per la Letteratura. Caravaggio, dopo essere stato nominato Cavaliere dell’Ordine di Malta, uno dei più alti riconoscimenti per il tempo, dopo poco ha litigato con tutti ed è stato incarcerato sull’isola».
Per spiegare la grandezza di Caravaggio, Strinati prenderebbe in prestito le parole di Eraclito, filosofo greco vissuto duemilacinquecento anni fa: «Chi non si aspetta

l'inaspettato non scoprirà mai nessuna verità». Secondo lo studioso, il vero artista sa intercettare l’inaspettato che è già in noi e dargli forma. Porta alla vista i lati oscuri della psiche. Ed è quello che ha fatto Caravaggio.
Lui stesso dà una definizione di chi sia un «pittore valent'huomo». Troviamo le sue parole nel verbale del processo che subì nel 1603 insieme ad altri artisti accusati di diffamazione da Giovanni Baglione. Il bravo pittore è quello «che sappi depinger bene et imitar bene le cose naturali», dice Caravaggio al giudice che lo sta interrogando. Molti storici dell’arte però si si sono chiesti quale sia il significato del termine ‘naturale’. Guardando i quadri di Caravaggio infatti non sembra di trovarsi davanti a scene realistiche, al contrario, sono quasi artificiali. «Caravaggio,
essendo uno di quegli artisti che ha avvertito la dimensione del preconscio, probabilmente intende dire che ‘naturale’ è ciò che appartiene alla totalità della natura, tra cui l’inconscio. Tanto è vero che si ha la sensazione che lui in realtà rappresenti una dimensione onirica», riflette Strinati. Il genio di Caravaggio ha trovato terreno fertile nella Roma del Seicento, una città in pieno fermento. Come racconta lo studioso: «Tutto il mondo andava a Roma perché lì c'erano i grandi scienziati, la grande attività della Chiesa, un centro economico florido e internazionale. Venne fondata, per esempio, l'Accademia dei Lincei, una sorta di Silicon Valley di quei tempi».
Con il Giubileo del 1600, il papato e le famiglie cardinalizie hanno commissionato ad artisti come Caravaggio opere
d’arte che hanno fatto la storia. Anche ora Roma si trova a vivere l’anno giubilare, «ma non è possibile fare paragoni, sono due mondi troppo diversi», afferma Strinati. Non resta che godere di questi capolavori del passato, soprattutto grazie alla nuova mostra Caravaggio 2025 che inaugurerà il 7 marzo a Palazzo Barberini.

di Giulia Tommasi
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Lectures: Marc Hansen, Sree Sreenivasan, Linda Bernstein, Ben Scott, Jeremy Caplan, Francesca Paci, Emiliana De Blasio, Colin Porlezza, Francesco Guerrera, David Gallagher, Claudio Lavanga, Eric Jozsef, Federica Angeli, Paolo Cesarini, Massimo Sideri, Davide Ghiglione
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