Febbre dell’oro a Parigi
Periodico della Scuola Superiore di Giornalismo “Massimo Baldini” Numero 20 Maggio 2024Italian Digital Media Observatory
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Gli
Eroi azzurri
Tortu, a Parigi per vincere ancora di Caterina Teodorani
La marcia di Antonella Palmisano di Isabella Di Natale
Volpi, sulle orme di D’Artagnan di Lavinia E. Monaco
Sulle ali di Larissa Iapichino di Matilde Nardi
Verso Parigi
La capitale francese tra feste e sicurezza di Federica Carlino
Medaglie a peso d’oro di Nicoletta Sagliocco
Gli atleti senza bandiera di Luca Graziani
Un evento insostenibile di Pietro Angelo Gangi
Photogallery
Gli scatti che hanno fatto la storia a cura di Chiara Grossi
Storia
Il terrore di Monaco ‘72 di Alessio Matta
«Olimpia in fermento» di Gennaro Tortorelli
«Ho visto Diagora» di Francesco Esposito
Paralimpiadi
Ambra tricolore di Sara Costantini
Tutto ebbe inizio a Stoke Mandeville di Valeria Costa
La prima vasca di Fantin di Alessandro Imperiali
Inclusione
Dalla ribelle Milliat alla boxe con Testa di Matilda Ferraris
Una squadra anche per i rifugiati di Silvia Della Penna
Il sogno olimpico di una donna trans di Chiara Grossi
La Pride House France di Giulia Rugolo
Nuovi sport
Breaking, un’arena per la cultura urban di Massimo De Laurentiis
Zurloni sui muri come Spiderman di Laura Pace
Mazzara, una tavola per girare il mondo di Simone Salvo
Underdog
Curatoli, lo schermidore fatto in casa di Filippo Cappelli
Maldini, nato per non sbagliare un colpo di Asia Buconi
Toti e la racchetta col tocco di piuma di Gabriele Ragnini
Il doppio carpiato di Larsen di Lorenzo Pace
Micheli, atleta tuttofare di Elisa Vannozzi
Doping
Il volto «mostruoso» del sistema di Nicole Saitta
Libri e film
Attimi, persone e storie di Alessandro Villari
Sport e Ai
Il medagliere di ChatGPT
Numero 20 Maggio
Il fuoco di Olimpia
Li chiamavano guerrieri, tra i più vicini agli dèi. Anche se si trattava di Giochi, chi vinceva le gare sportive della Grecia classica era destinato a gloria imperitura, insieme a un posto nei poemi e tra le statue al fianco di Zeus. Qualcuno, ad oggi, tra celebrità e ricchezza è riuscito ad avvicinarsi all’Olimpo, seppur in una dimensione più terrena, alimentata dalle correnti mediatiche. Ma il mondo dello sport non è solo narrazione epica.
A differenza degli eroi ellenici o dei campioni contemporanei da prima pagina, per i meno noti c’è ben poco di eterno. «Tutti saranno famosi per 15 minuti», direbbe l’artista Andy Warhol: tempo delle momentanee celebrazioni e delle interviste di rito. È l’altra faccia di ogni medaglia vinta. Per tanti che si allenano ogni giorno, fuori dalle discipline più popolari e con federazioni facoltose alle spalle, le Olimpiadi, in programma a Parigi dal 26 luglio all’11 agosto, rappresentano l’unico bagliore di speranza. Lo stesso vale per le Paralimpiadi, che seguiranno dal 28 agosto all’8 settembre.
Una sola occasione ogni quattro anni per poter brillare: c’è chi la rincorre anche davanti alle impossibilità economiche. Il sito di raccolta fondi GoFundMe ha dedicato una sezione apposita a quegli atleti incapaci di sostenersi da soli. È il caso di Irakli Beroshvili, judoka georgiano della palestra Equipe di Reggio Emilia: per partecipare al torneo Grand
Prix Upper in Austria e provare a scalare il ranking in vista di Parigi, ha dovuto chiedere aiuto sulla piattaforma. Lo stesso vale per Marco Poletti, cintura marrone di Brazilian Jiu Jitsu, a cui sono stati donati 1200 euro in vista del campionato panamericano in Florida.
Non sono i soli a dover attraversare difficoltà: anche campioni già affermati portano sulle spalle gli oneri di una vita dedita solo allo sport. Prima di avventurarci nell’entusiasmo nazionalpopolare, che porta i più fanatici a rifiutare un invito al mare per seguire qualsiasi italiano compaia nel programma del giorno, dal surf al pentathlon, è bene ricordare chi c’è dietro i successi.
Basta raccontarli attraverso la loro voce per capire che c’è ben altro oltre quella «mercificazione degli atleti» criticata da Pierre de Coubertin, il barone francese che gettò le basi dei Giochi moderni alla fine del XIX secolo. Ma tra le necessità individuali dei protagonisti, l’attuale contesto storico e i gap economici, sono le stesse Olimpiadi e Paralimpiadi a darci l’assist migliore: alimentare il dibattito su questi temi.
Davanti alla frammentazione sociale di oggi, eventi del genere regalano ancora sprazzi di collettività. Alla fine potrà anche non essere Olimpo o gloria eterna, ma Parigi quest’estate val bene un giro. E se non avete la possibilità di farlo in loco, ve lo regaliamo in questo volume di Zeta, con uno sguardo sui Giochi che verranno.
A cura di Filippo Cappelli
Lavinia Monaco
Laura Pace
Lorenzo Pace
Gabriele Ragnini
«A Parigi per vincere ancora»
Dopo il successo di Tokyo, Filippo Tortu punta all'oro olimpico nella staffetta e alla finale dei 200 metri
«Sarà dura, ma andiamo a Parigi per vincere». A poche settimane dalle Olimpiadi 2024 abbiamo incontrato Filippo Tortu, campione nella 4x100 a Tokyo 2020, pronto per un’estate all’insegna della corsa, prima agli Europei di Roma, poi nella capitale francese.
Ci racconta, divertito, un aneddoto che lo caratterizza sia come atleta che come persona: «Ho una particolarità di cui non ho mai parlato prima perché non ci avevo pensato, me l’hanno fatto notare i miei compagni d’allenamento qualche giorno fa. Quando ci scaldiamo per fare le gare, sono l’unico, anche tra gli avversari, che usa la divisa ufficiale, la polo. Lo faccio perché mi piace essere elegante. Nel momento in cui vado in pista voglio differenziarmi dagli altri, sono un po’ più classico».
È reduce da un’altra vittoria nella sua specialità, i 200 metri, allo Sprint Festival presso lo Stadio dei Marmi a Roma, «per distacco il più bello del mondo», a detta sua. Tuttavia, Tortu è «arrabbiato» per il crono registrato di 20.72. Resta concentrato sulla meta. «Sai, negli ultimi anni ho sempre fatto il vago, non mi sono mai voluto sbilanciare, invece adesso non ho problemi a dire quali sono i miei obiettivi. Non vorrei passare per
arrogante. Sono più che consapevole che ho aspirazioni difficili, ambiziose, però non mi piace mai andare in gara con l’idea di essere già battuto». I propositi per gli Europei che si terranno a Roma dal 7 al 12 giugno sono due ori, uno nel suo cavallo di battaglia, l’altro nella staffetta. Per quanto riguarda le Olimpiadi, Filippo punta sempre alla vittoria nella disciplina di squadra, mentre nei 200 l’obiettivo è arrivare in finale: «Non siamo i favoriti ma è giusto lottare sempre per vincere. Poi probabilmente non succederà, però bisogna scendere in campo con questo spirito».
Per il corridore classe 1998, ogni occasione è buona per perfezionare il lavoro. Ha passato, infatti, gli ultimi due mesi in Florida, tra Gainesville e Miami, per un’immersione nella corsa. «Lì c’è un gruppo di atleti canadesi e statunitensi che conosco ormai da qualche anno, sono miei avversari molto forti. Ho provato ad allenarmi con loro per confrontarmi e migliorare».
Ma perché proprio oltreoceano? Nella terra del sole ci sono le condizioni ideali per i velocisti, «abbiamo bisogno del caldo per lavorare bene a livello muscolare, così il corpo è nelle condizioni ottimali per performare».
Nonostante il successo e i riconoscimenti ottenuti, Tortu è rimasto quello di sempre: «Dopo l’oro di Tokyo, mi piace pensare che la mia vita non sia cambiata». Per lui le cose importanti sono le stesse: famiglia, affetti, amici, «è rimasto tutto uguale». Le attenzioni dal punto di vista mediatico sono aumentate, ma le reputa «di contorno. Sono cose che non mi interessano o mi interessano relativamente. Mi fanno piacere, ma non sono fondamentali». La famiglia è al primo posto. Lo dimostra l’amore dell’atleta per le vacanze di Natale, momento che può trascorrere con i suoi cari. «Tra pranzi e cene classiche degli italiani, in cui cerco di regolarmi mangiando qualcosa di diverso, il 31 dicembre è l’unico giorno in cui non mi alleno. Il 25 invece faccio palestra in casa. Non vado in pista perché mia madre non darebbe il permesso né a me né a mio padre, che è anche il mio allenatore. Vuole che stiamo tutti insieme».
Dai Giochi olimpici del 2021 qualcosa di diverso c’è: «L’approccio che ho avuto alle gare, ho molta più fiducia nei miei mezzi perché so dove posso arrivare». È cambiato poi il modo in cui il corridore brianzolo vive la 4x100. «Vincere mi ha aiutato a considerare di più la staffetta perché spesso per i velocisti è una gara secondaria». L’oro ha fatto capire a Filippo «l’importanza e la bellezza di una disciplina di squadra all’interno di uno sport individuale come l’atletica. Mi ha portato a crescere dal punto di vista umano, nei rapporti con i miei compagni, siamo come una famiglia, sono miei fratelli», commenta col sorriso. Per Filippo è proprio la vita di squadra l’aspetto più bello del suo lavoro: «Quando facciamo i raduni ci divertiamo, viaggiare in compagnia con amici,
allenatori e dirigenti è qualcosa di bellissimo. Ciò che accade in pista è la ciliegina sulla torta, ma le cose che mi mancheranno quando tra tanti anni smetterò sono questi momenti».
Tra un’edizione e l’altra dei Giochi va sempre cambiato qualcosa. L’atleta delle Fiamme Gialle spiega che «non bisogna mai allenarsi nello stesso modo due anni di fila». Vanno modificati piccoli particolari, ricercati nuovi stimoli così che mente e corpo non si abituino. «Mi sto esercitando molto di più rispetto agli anni scorsi, faccio dieci allenamenti a settimana, riposo la dome-
nica, il mercoledì e il sabato ne faccio solo uno, poi per quattro volte mattina e pomeriggio». Instancabile talento.
Nel suo lavoro «l’ansia da prestazione c’è, anzi quando manca è un problema. La pressione mi aiuta moltissimo, fa uscire fuori quello che ho dentro e che non penso nemmeno di avere». Ciò comporta maggiore adrenalina «quindi riesco a correre più forte». Non si definisce un grande lettore, però gli è rimasta impressa una frase del suo libro preferito, Il conte di Montecristo, in cui si dice che la polvere da sparo per esplodere ha bisogno di pressione: «È la stessa cosa per me, per correre più veloce».
Fuori dal campo, Filippo Tortu resta un ragazzo di venticinque anni con hobby e passioni. Prima fra tutte, lo sport in generale: «Sono malato di calcio, basket, nuoto, tutte discipline che ho praticato». Poi c’è il cinema, «cerco di mantenere la media di due-tre film a settimana». Anche la musica, cantautori italiani in particolare, «tutte le cose che mi rilassano sono quelle alle quali mi appassiono». Non mancano i momenti con gli amici. Per capodanno di solito l’atleta va in vacanza: «Per modo di dire, è giusto per fare la mezzanotte insieme. Di solito loro si informano sulla città, i posti da visitare, io invece mi studio le piste, capisco qual è più vicina all’hotel e quando allenarmi». Una vita fatta di sport e per lo sport, «ruota tutto intorno a quello». Ma quando fai ciò che ami, non puoi che stare bene. ■
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1. Foto: Reuters. Foto: profilo Instagram TortuEroi Azzurri
La marcia di Antonella ai piedi della Tour Eiffel
L'atleta pugliese si racconta ripercorrendo le tappe della sua carriera, tra successi e amicizie speciali
«Dopo le Olimpiadi di Tokyo pensavo di smettere con la marcia, ma la sensazione di stare sul gradino più alto mi ha fatto capire che dovevo continuare». Antonella Palmisano, medaglia d’oro nella città giapponese, a luglio parteciperà per la terza volta ai Giochi olimpici, «e pensare che mio padre nemmeno voleva che iniziassi. Preferiva vedermi a casa», dice l’atleta ricordando gli allenamenti come valvola di sfogo. Classe 1991, è nata e cresciuta a Mottola, paesino in provincia di Taranto con un solo campo arrangiato per tutti gli sport: «Nella sfortuna di non poter fare chissà quali attività, ho iniziato con la corsa, senza grandi risultati, e poi la pallavolo, facendo la raccattapalle».
Un ambiente che sin dall’inizio non sente suo, complici un’altezza inferiore ai canoni e la sensazione di un giudizio costante. «Il ruolo di palleggiatrice è primario: se sbagli il passaggio crei un problema per tutta la squadra. Questa di Isabella Di Natale
responsabilità e inadeguatezza mi pesavano parecchio». Così capisce che la strada da percorrere è un’altra, in tutti i sensi. «Il mio allenatore faceva anche marcia. Ho deciso di provare e dopo sei mesi avevo già vinto il primo campionato italiano».
Marciando raggiunge le prime soddisfazioni: ha diciannove anni quando a Chihauhua, in Messico, vince la Coppa del Mondo juniores, risultato senza precedenti per un’azzurra. «Lì è nata anche la storia del fiore che porto tra i capelli durante ogni gara». Un portafortuna realizzato dalla mamma, per segnare il passaggio della marcia da gioco a lavoro, come atleta delle Fiamme Gialle. La fantasia la porta ad arricchire il fermaglio con una doppia veste: i colori dell'Italia davanti e quelli della nazione ospitante dietro. Ai Mondiali di Pechino sfiora il podio, ma è il 2016 a regalarle l’emozione più grande: le prime Olimpiadi. «Ci trovavamo a Rio
de Janeiro. Io e il mio allenatore eravamo appena scesi dal bus. Ricordo i brividi che abbiamo provato davanti al cancello del Villaggio olimpico», dice Antonella.
I cinque cerchi sono ciò che ogni sportivo sogna, ma che non tutti vivono. La convinzione di una carriera agonistica sempre al top può portare a uno smarrimento: «Ci sono stati anni in cui non ottenevo i risultati che speravo, però più li cercavo più non arrivavano», ricorda. «Poi ho capito che non avevo nessun problema né mentale né fisico, dovevo solo accettare il momento e passare al giorno successivo». Ancora meglio se nel farlo si è affiancati da un amico e compagno di squadra. L’amicizia che lega Antonella Palmisano a Massimo Stano, pugliese anche lui, risale a sette anni fa. Un rapporto che la marciatrice definisce «una sfida quotidiana perché lui faceva il possibile per andare più veloce e io facevo altrettanto per raggiungerlo».
La condivisione degli obiettivi olimpici ha rafforzato la sintonia e il supporto reciproco non è mai mancato, nemmeno adesso che Stano sta affrontando una riabilitazione post infortunio: «Si è fatto male ad Antalya, in Turchia, dove gareggiavamo insieme. Gli ho scritto un messaggio e la sua risposta, a distanza di appena due giorni, è stata “Capa, è tutto
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sotto controllo”. Io non avrei mai reagito così bene». Per Palmisano la risposta del collega è già una vittoria olimpica e mostra come ogni atleta viva gli ostacoli in modo diverso: «Ci vuole rispetto del modo di essere dell’altro perché a volte, per quanto tu voglia solo dare un consiglio, magari l’altra persona è in una modalità diversa e quel consiglio può fargli male». Poi aggiunge: «Lui sa che ci sarò sempre e lo stesso vale per me».
La partecipazione alle Olimpiadi di Tokyo 2020, rimaste tali nonostante il posticipo di un anno, è ricordata come uno dei momenti più difficili e allo stesso tempo più belli del suo percorso. Il coronamento di un sogno arrivato post Covid, in cui aspettarsi grandi risultati dopo mesi di lockdown non era semplice: «Invece lì ho vinto la medaglia più bella. L'unico rammarico che ho è di averla vissuta sul momento con poche persone, tra cui il mio allenatore e il mio fisioterapista. Non avevo nessuno della mia famiglia».
A colmare l’assenza fisica ci ha pensato il fiore di mamma Maria, appositamente creato per l’occasione: «Era diverso dagli altri perché non era in feltro, ma un vero e proprio gioiello cucito a mano, con la parte posteriore ricamata in ororicorda Antonella -. Io sono molto scaramantica per cui non avevo mai voluto un fiore di questo colore». Eppure le mamme si sa, vedono meglio e prima dei figli e quell’anno il fermaglio dorato ha portato Antonella sul gradino più alto del podio.
La preparazione per Parigi passa per allenamenti serrati, sedute dal mental coach, fisioterapia ed esercizi di mobilità, necessari dopo l’operazione alla gamba sinistra: «La mia routine è scandita da momenti precisi. Si ricomincia con le stesse cose ogni giorno, però quando ho un po’ di tempo libero mi dedico alle passioni», fotografia in primis, con una cognata in dolce attesa che si presta a scatti amatoriali.
La dieta bilanciata da sportiva ogni tanto lascia spazio all’amore per la buona cucina, preparando piatti tipici della sua regione, dalla parmigiana alle focacce, anche se da mangiare preferisce i dolci come la sacher torte, «giusto perché la confettura d’albicocca tiene pulita la coscienza», dice scherzando.
Indossare la maglia azzurra a Parigi sarà un onore. È in questa che Antonella trova forza quando è in gara, così come nell’inno o nella bandiera italiana. «È un senso di appartenenza a qualcosa, sai che
la Nazione è con te. Ricordo l’accoglienza dopo Tokyo, avevo tutto il quartiere dietro la porta di casa». Il ringraziamento va ai tifosi che dal bordo pista danno carica e sostegno. Le Olimpiadi francesi saranno le prime a cui parteciperà allenata dal marito: «Per me è uno stimolo in più. Abbiamo un sogno in due».
«Dopo Tokyo pensavo di smettere. Essere allenata da mio marito è uno stimolo, abbiamo un sogno in due»
Lo sport porta con sé valori e insegnamenti e nei chilometri macinati da Palmisano c’è un messaggio rivolto a tutti: «Inseguite sempre i vostri sogni. Io ho avuto molte persone che mi hanno intralciata nel cammino, ma alla fine ce l’ho fatta. Potrà sembrarvi difficile, ma con determinazione si può ottenere tutto». ■
1 e 3. Antonella Palmisano festeggia il bronzo agli Europei di marcia di Berlino del 2018. Credit: Fidal
2. Palmisano con il marito e allenatore Lorenzo Dessi. Credit: Fidal
Eroi Azzurri
Col fioretto sulle orme
di D'Artagnan
A Parigi Alice Volpi tenterà il tutto per tutto per diventare una campionessa olimpica
«La medaglia d’oro è il sogno. È una cosa che so di poter raggiungere. Ma ovviamente questo mi fa sentire ancora più sotto pressione» racconta Alice Volpi, campionessa mondiale in carica di fioretto. Le Olimpiadi di Parigi rappresentano per lei la prova più importante, l’obiettivo più ambizioso, l’occasione per passare alla storia. Dal suo tono di voce traspare una grande determinazione ma anche la consapevolezza di quanto saranno impegnativi i prossimi mesi, durante i quali disputerà sia le gare dei Campionati italiani che quelle degli Europei, prima di una serie di ritiri in vista di Parigi.
Classe 1992, l’atleta senese ha iniziato a tirare di scherma all’età di sette anni
grazie al padre, che era un appassionato di questo sport. Non appena le hanno messo in mano un fioretto e le hanno fatto fare le prime sfide – ricorda – è scoccato subito il colpo di fulmine che l’ha portata poi a diventare un’agonista e una campionessa. In venti anni di carriera, Volpi è riuscita a creare un palmarès davvero invidiabile, che conta una pioggia di ori conquistati in consessi internazionali, sia nelle gare individuali che in quelle a squadre. Una vita interamente dedicata allo sport la sua, fatta di fatica, dedizione, viaggi in giro per il mondo, ritiri e soprattutto competizioni.
«Prima di una gara importante cerco di stare con le persone che più mi aiutano
di Lavinia E. Monacoin questo percorso, come la mia preparatrice atletica, il mio maestro e poi ovviamente tutti i colleghi che sono con me in viaggio», spiega la fiorettista. «Di solito non ci penso fino alla sera prima. Ovviamente la notte della gara c'è sempre un po’ di tensione, ma riesco poi a scaricarla bene in pedana. Perciò ascolto un po’ di musica, faccio il mio riscaldamento. Sono molto metodica. Forse è proprio questo il mio modo di essere scaramantica: ripetere sempre le stesse cose che funzionano in gara».
Ai Giochi di Parigi, però, la tensione sarà alle stelle. Tutti gli occhi del mondo saranno puntati sugli atleti che avranno l’onore e l’onere di competere in un’arena tanto ambita. Per di più l’Italia è il Paese che nella scherma ha vinto più medaglie nella storia delle Olimpiadi moderne, grazie anche a campioni come Edoardo Mangiarotti, Valentina Vezzali e Giovanna Trillini. Per ciascuno degli italiani in gara, quindi, non si tratta solo di vincere una sfida con se stessi ma anche di essere all’altezza delle enormi aspettative del pubblico e della Federazione.
«Molti atleti hanno uno psicologo sportivo che li segue» dice l’azzurra a proposito della salute mentale. «Al momento io non sono seguita da nessuno però, in passato, quando ne ho avuto bisogno, ho fatto dei percorsi. Ovviamente la pressione c’è, ma a volte credo di esagerare io. Da un lato, c’è il mio commissario tecnico che pretende sempre il massimo. Dall’altro ci sono la mia ambizione e il desiderio di non deludere le persone che mi hanno sempre sostenuta».
A Parigi Volpi si scontrerà con le schermitrici più forti al mondo, avversarie che già conosce e con cui se la giocherà alla pari: «Tra le atlete da battere c’è
sicuramente l’americana Lee Kiefer, che è la campionessa olimpica in carica ed è anche la fiorettista con cui ho fatto più finali in questi ultimi anni. Poi c’è Ysaora Thibus, francese, con cui mi sono ritrovata a fare una finale di Mondiale. Anche lei è molto forte. E poi ci sono altre avversarie fastidiose fra polacche, americane e francesi. Senza dimenticare le italiane» precisa. «Arianna Errigo e Martina Favaretto sono entrambe fortissime. Tutte possiamo vincere. L'importante è arrivare a Parigi con la consapevolezza di aver fatto tutto il possibile per fare una bella gara. Non si può avere purtroppo la certezza di vincere, ma proverò a dare tutto».
La scherma però non è fatta solo di competizioni individuali. Alle Olimpiadi le gare a squadre, in cui l’antagonismo tra le azzurre lascia il posto a un’inedita alleanza, sono altrettanto importanti: «In queste occasioni la tensione è minore perché è condivisa. Insieme riusciamo a viverla più serenamente e a farci forza. Quindi, anche se tengo di più alla gara individuale, quella a squadre rimane fondamentale».
Ma gli alleati più importanti di Volpi contro lo stress sono la famiglia e il compagno Daniele Garozzo, ex schermidore plurimedagliato e campione olimpico di fioretto ai Giochi di Rio del 2016, con cui fino a pochi mesi fa condivideva tutto: «Recentemente ho vissuto un periodo non facile perché il mio compagno ha scoperto di avere un problema al cuore che lo ha costretto al ritiro dall’attività agonistica» racconta. «È stato un fulmine a ciel sereno. Adesso mi sento più sola in questo percorso. Sto facendo un po’ di fatica, però spero di riuscire ad arrivare a Parigi e godermela, nonostante tutto. Non voglio ripetere gli stessi errori fatti in passato». E a proposito dei suoi genitori dice: «Mia mamma riesce a farmi vivere tutto con serenità. Forse anche per il fatto che è brasiliana, vive la vita in maniera diversa. Mentre mio padre è una persona sempre fissata sugli obiettivi, sul lavoro, lei invece è la prima a sostenermi se va male una gara e a dirmi “non importa, ce ne sarà un'altra”. E poi, ci divertiamo molto quando mi aiuta ad allenarmi».
Le Olimpiadi non sono solo competizioni, ma anche un’occasione imperdibile per incontrare atleti provenienti da tutto il mondo. «Io ho già vissuto la vera festa olimpica nel 2016 a Rio de Janeiro. In quell’occasione ero una riserva, quindi non sentivo la tensione pre-gara. A Tokyo, invece, è stato tutto diverso. Siamo rimasti dieci giorni ad allenarci in un cen-
tro universitario dove passavamo dalla camera alla mensa e dalla mensa alla palestra, facendo controlli ogni mattina. Ho partecipato alla cerimonia d’apertura» ricorda Volpi, «ma lo stadio era vuoto». Anche per questo motivo le aspettative per quella che si svolgerà a Parigi questa estate sono alte: «Da quanto ho capito sarà sulla Senna con dei battelli. Me la godrò tutta prima di concentrarmi sulle gare».
Con un obiettivo tanto ambizioso è vietato distrarsi. Ma pensando per un attimo alla sua vita dopo i Giochi, Alice rivela: «Sicuramente mi prenderò una pausa, non so se definitiva oppure no. Mi piacerebbe dedicarmi anche all'università - studio Scienze politiche all'Università Luiss - e ad altre attività. Adoro i cani, mi piace stare all’aria aperta e fare altri sport come il tennis e il surf. Quindi sì, le passioni sono tante così come le opportunità che voglio cogliere in futuro». ■
1 e 2. Alice Volpi festeggia la medaglia d'oro ai Mondiali di Milano 2023. Foto 1: Reuters. Foto 3: Alice Volpi durante gli allenamenti, Federscherma
Eroi Azzurri
Sulle ali di Larissa «Volerò lontano»
La 22enne è stata l'atleta rivelazione del 2023. Dopo la sfortunata assenza a Tokyo, si prepara per Parigi
di Matilde Nardi
«Non ho mai vissuto come un peso il successo di mia madre Fiona May o quello di mio padre Gianni, anzi, approfitto del fatto che hanno una grande esperienza da trasmettermi», racconta Larissa Iapichino, lunghista classe 2002, fiorentina e grande amante della sua città, dove vive e studia.
Partita dalla ginnastica, si è avvicinata all’atletica leggera innamorandosi del mondo vissuto dai genitori. La madre si è aggiudicata due argenti olimpici nel salto in lungo, mentre il padre è un ex astista originario di Columbus, in Ohio. La giovane ha viaggiato molto ma è sempre rimasta legata alla sua città natale. Sin da piccola, il talento esibito nelle gare giovanili è chiaro a tutti e le permette oggi di occupare la terza posizione nel ranking mondiale nella sua specialità.
Scelta dall’Associazione della stampa estera come “atleta rivelazione dell’an-
no 2023”, la lunghista delle Fiamme Oro vanta già varie medaglie in bacheca. Ha vinto l'oro sia nel 2019 agli Europei under 20 di Boras, in Svezia, che agli under 23 di Espoo quattro anni dopo. Detiene dal 2021, con 6,91 metri, il record mondiale under 20 indoor, strappato dopo 35 anni alla tedesca Heike Drechsler. Dopo l’argento conquistato a Istanbul nel 2023, Iapichino si appresta a vivere in Francia le prime Olimpiadi in carriera. Nel 2021 era stato un brutto infortunio al collo del piede di stacco - patito agli Assoluti italiani di Rovereto - a farle saltare i Giochi a Tokyo. Il sogno rimandato prenderà forma in piena estate, all’ombra della Torre Eiffel e degli Champs-Élyseés, sotto gli occhi dell’Italia intera che guarda con fiducia la campioncina.
Larissa è una sportiva tenace e determinata, ma si dedica anche allo studio tra una gara e l’altra. Spera di continuare al meglio il percorso in Giurisprudenza e intravedere il traguardo della laurea. Come studentessa atleta ha un ritmo diverso e un programma specifico all’Università di Firenze, che le permette di sostenere esami con più tranquillità. Consapevole di quanto sia prezioso l'aiuto dei genitori, elogia la madre: «È una mentore e una fonte di ispirazione agonistica, mi aiuta ad affrontare gare di alto livello»
In vista delle Olimpiadi di Parigi la toscana ammette che cercherà di battere se stessa e «volare più lontano possibile». Confessa che «la preparazione è fatta di allenamento costante, fisico e mentale», ma si impegna per «non pensare troppo» e divertirsi ogni giorno andando al campo, in una continua sfida contro sé stessa.
Larissa riceve consigli dal padre-allenatore ogni minuto che trascorrono insieme al campo. Da lui cerca di imparare quanto sia necessario «un pizzico di leggerezza e la flessibilità nei programmi», come quelli di allenamento. Quanto alla competizione, la giovane ammette di non temere un’avversaria in particolare: «La verità è che siamo una decina di ragazze in venti centimetri e questo rende la gara tra le più competitive del circuito».
Per la saltatrice, concentrazione e aspetto mentale sono ingredienti fondamentali nella disciplina perché «senza questi anche la condizione fisica migliore non può essere sufficiente a realizzare una grande performance».
I Giochi olimpici arrivano in un anno ricco di appuntamenti prestigiosi e ravvicinati, che richiedono un dosaggio di energie e una gestione oculata della preparazione tecnica: «Avrò tre settimane di lavoro pieno dopo gli Europei di Roma, prima di partecipare a luglio alle due Diamond League di Parigi e Londra, per poi volare di nuovo nella capitale francese a inizio agosto. Dopo le Olimpiadi avrò un’altra Diamond League Final a Bruxelles a metà settembre». ■
Campioni in carica
Gli azzurri si preparano a ripetere i successi delle Olimpiadi del 2021. Preoccupano gli infortuni
di Michelangelo GennaroDiciotto italiani sul gradino più alto del podio. Sono gli atleti premiati con l’oro olimpico a Tokyo nella seconda estate di pandemia. Dal 23 luglio all'8 agosto 2021 il bollettino quotidiano era quello delle vittorie, quaranta medaglie in tutto con dieci primi posti. Adesso i campioni sono chiamati a difendere il titolo a Parigi, con la pressione di dover ripetere l’impresa giapponese e le aspettative fissate dal presidente del Comitato olimpico nazionale Giovanni Malagò: «Se ne conquisteremo una meno del record fatto a Tokyo non saremo stati bravi». Ma come arrivano gli azzurri ai Giochi del 2024?
Gli occhi sono puntati sul Foro Italico, a Roma, per i Campionati europei di atletica leggera che inizieranno il 7 giugno. C’è attesa per le condizioni di Gianmarco Tamberi, designato portabandiera insieme alla schermidora Arianna Errigo. Il saltatore ha dato forfait al debutto stagionale in Repubblica Ceca, nei Golden Spike di Ostrava, per un fastidio al ginocchio. «Mi dispiace molto – ha spiegato in un video su Instagram – perché non vedevo l’ora di iniziare la mia stagione olimpica». Una scelta conservativa «fatta con il mio
team», che non ha precluso la convocazione all’Europeo.
Il velocista Marcell Jacobs, invece, deve scendere sotto i dieci secondi nei 100 metri piani, per sognare un bis dopo l’oro a Monaco di Baviera nel 2022 e volare in Francia. Nella quarta uscita dell’anno a Oslo, per la Diamond League, il campione olimpico è arrivato quarto correndo in 10.03 secondi, primato stagionale. Torna l’ottimismo dopo la prestazione in sordina a Ostrava, dove si era fermato a 10.19.
Nella marcia, Antonella Palmisano sarà la prima a gareggiare dopo la cerimonia d’apertura allo Stadio Olimpico, nella finale dei 20 chilometri femminili. Viene da un terzo posto a Podebrady, in Boemia, dove ha registrato il terzo tempo in carriera (1h27’27’’), quasi due minuti in meno rispetto alla gara di Tokyo (1h29’12’’), che le ha regalato l’oro nel giorno del trentesi-
mo compleanno. Apprensione invece per Massimo Stano, che dopo aver stabilito il record italiano a marzo in Cina, sulle strade di Taicang (1h17’26’’), ha rimediato una frattura composta alla base del quinto metatarso in Turchia a fine aprile. La riabilitazione procede spedita, la speranza è che recuperi in tempo per l’impegno francese.
Lontano dai circuiti di atletica, Vito Dell’Aquila si conferma l'uomo da battere nella categoria -58 chili del taekwondo. Il classe 2000 di Brindisi si è laureato campione d'Europa per la seconda volta a Belgrado, dopo la vittoria di Bari nel 2019. Sul tatami della capitale serba, il lottatore non ha mai perso un round fino al raggiungimento dell'atto finale, quando ha incrociato il padrone di casa Lev Korneev, imponendosi nella terza ripresa per dieci punti a uno.
Delusione nel canottaggio, con Valentina Rodini e la compagna di doppio pesi leggeri, Federica Cesarini, che non saranno a Parigi per difendere il titolo. Il 21 maggio, le azzurre hanno chiuso quarte a Lucerna, in Svizzera, ultima chiamata per la qualificazione con soli due posti in palio. Nella vela, Ruggero Tita e Caterina Banti sono una garanzia: la coppia ha conquistato il quarto titolo mondiale nelle acque di La Grande Motte, in Francia.
Nella rassegna dei campioni, menzione speciale per Luigi Busà. A Parigi non ci sarà, ma non per demerito sportivo. Purtroppo il karate è stato escluso dalle discipline olimpiche. Testimonial dei Mondiali 2023 a Budapest, il karateka di Avola ha detto alla Gazzetta dello Sport: «Posso dire, facendoci un po’ male, che questa è un'organizzazione che merita i cinque cerchi». ■
1. Gianmarco Tamberi alla Diamond League 2023, a Chorzow in Polonia.
2. I velisti Ruggero Tita e Caterina Banti in gara alle Olimpiadi di Tokyo 2020.
Ville Lumière tra feste e sicurezza
La capitale francese si prepara al ritorno dei Giochi dopo cento anni: dalla città trasformata, tra cantieri e aree di massima allerta, fino ai piani B e C del governo nazionale
Le Olimpiadi tornano a Parigi dopo cento anni. La capitale francese ha dovuto attendere a lungo, ma il progetto che si prospetta è del tutto inedito rispetto a quelli realizzati in precedenza. La città verrà interamente sfruttata e trasformata in un parco olimpico con eventi sportivi previsti in pieno centro. La cerimonia di inaugurazione, prevista per il 26 luglio, per la prima volta nella storia si terrà lungo la Senna, senza però non pochi dubbi. Gli organizzatori hanno dovuto prevedere infatti un solido piano di sicurezza che possa, in qualche modo, allontanare ogni preoccupazione.
Già molte aziende, dopo l’invito da parte del governo, tramite manifesti affissi nelle stazioni metro in cui si invitano i lavoratori - se si ha la possibilità - di preferire lo smart working, si stanno organizzando per agevolare i propri dipendenti e ridurre al minimo gli spostamenti.
di Federica CarlinoI lavori a ogni angolo anticipano l’aria di festa: ciclabili, monumenti, piazze e strade periferiche che circondano il centro saranno rinnovate e ristrutturate per essere, in alcuni casi, ampliate. «La sensazione è quella di vivere in un grande cantiere», dice Chiara Piotto, corrispondente dalla Francia per Sky Tg24. «La preoccupazione però è che durante i Giochi la parte logistica sarà preponderante rispetto al divertimento».
«Io lavoro in una pasticceria e qualche settimana fa il mio capo mi ha avvisato che nel periodo delle Olimpiadi, visti i tanti cantieri, verrà calcolata un’ora di possibile ritardo», afferma Edoardo Bartoletti, italiano che vive a Parigi. Il suo posto di lavoro si trova vicino al XV arrondissement, non vicino al centro o a monumenti sottoposti a ristrutturazione, eppure il fatto che siano state chiuse molte delle vie attraversate dalla metro, o tanti ponti sulla Senna, lo obbliga a percorrere strade alternative che dilatano parecchio le tempistiche di viaggio.
Circa quattro chilometri di percorso lungo il fiume saranno messi in sicurezza, incluse le abitazioni per prevenire eventuali
minacce: la sfida è enorme. A partire dal 18 luglio tutte le aree interessate saranno limitate negli accessi. Per i residenti, i lavoratori, i clienti di hotel, le persone con prenotazione, o per chiunque ne abbia diritto, è possibile scaricare una piattaforma proposta dal ministero dell’Interno con cui è possibile fare richiesta e ottenere un Qr code per accedere alle aree intorno ai siti di competizione.
Zone come la Tour Eiffel, o la Place de la Concorde, saranno aree di massima allerta. Ai controlli delle forze dell’ordine si unirà anche un sistema di controlli digitali «che fa storcere il naso ai residenti – confessa la giornalista Piotto – ma che non ha alcun impatto su chi ha un biglietto per le gare». Da un anno e mezzo infatti in Francia si discute dell’aggiunta dell’intelligenza artificiale alle telecamere di sorveglianza nelle zone vicine alle competizioni sportive.
L'estate scorsa il Parlamento ha approvato una legge ad hoc che consente una sperimentazione di questa tecnologia fino al 2025, e già un primo tentativo è stato fatto, dal 7 al 14 maggio scorso, durante i concerti di Taylor Swift a Parigi. «Le telecamere "intelligenti" potranno allertare gli agenti della sicurezza quando nel loro campo visivo ci sono movimenti di folla, bagagli abbandonati, aggressioni o armi» dice la corrispondente, «senza però la possibilità di riconoscere l'identità delle persone filmate», in questo modo si risolve anche il tema della privacy.
«Durante i Giochi, la parte logistica potrebbe essere preponderante rispetto al divertimento»
Il presidente della Repubblica francese Emmanuel Macron, nel caso in cui la struttura di sicurezza prevista non dovesse essere sufficiente, ha previsto dei programmi alternativi. Un piano B con una cerimonia limitata a Trocadero, zona sulla rive droite (parte destra) della Senna, e un piano C, organizzato in parallelo al precedente, nello Stade de France, uno stadio sportivo, più semplice da vigilare visto che si tratta di un luogo chiuso e più circoscritto. Il premier punta, inoltre, a una “tregua olimpica”, cioè la sospensione degli attacchi russi in Ucraina, della guerra in Medio Oriente e di tutti gli altri conflitti in corso nel periodo delle Olimpiadi.
«Il Comitato ha provato a reintrodurre la tregua olimpica dagli anni '90 in poi, ai tempi del conflitto in Jugoslavia - spiega Piotto - ma con risultati incerti: l'invasione russa della Crimea e quella dell'Ucraina sono entrambe avvenute a ridosso delle Olimpiadi». Nel corso della storia, lo sport è stato spesso servito come terreno di incontro e riavvicinamento tra Stati in conflitto.
Eventi come la tregua di Natale del 1914 o la diplomazia del ping-pong del 1971 dimostrano come lo spirito sportivo possa favorire momenti di dialogo. Episodi recenti come la controversa stretta di mano tra la tennista ucraina Lisa Kotlyar e la russa Vlada Minchova, agli Australian Open del 2024, riflettono la complessità e il potere simbolico degli incontri sportivi.
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I Giochi invernali del 2018, tenutisi a Pyeongchang, in Corea del Sud, erano stati soprannominati "le Olimpiadi della pace". Durante la cerimonia di apertura, le delegazioni della Corea del Nord e della Corea del Sud, storicamente in conflitto, avevano marciato insieme sotto una bandiera unificata raffigurante la penisola coreana in blu su sfondo bianco. Questo gesto simbolico era culminato in una stretta di mano storica tra il presidente sudcoreano Moon Jae-in e Kim Yo-jong, la sorella del leader nordcoreano Kim Jongun, sottolineando un raro momento di distensione e unità.
Sulla guerra in Ucraina, oggi, il presidente cinese Xi Jinping e il Vaticano hanno dato seguito alla proposta del premier francese, più scettico invece si è mostrato il presidente ucraino Volodymyr Zelensky, che lo considera un momento di possibile avanzamento delle truppe russe in territorio di guerra. «È difficile al momento prevedere che cosa succederà», conclude la giornalista. ■
1. Avenue des Champs-Élysées, Parigi
2. Stade de France, Parigi
3. Le Maine Café, Parigi.
Medaglie a peso d'oro
A cento giorni dai Giochi, la World Athletics ha annunciato cambiamenti nella premiazione dei vincitori. «È stato sfatato un tabù» secondo Stefano Mei
di Nicoletta SaglioccoUn tempo l'alloro, oggi il denaro, questa è la metamorfosi del premio olimpico. Il valore simbolico espresso dalla pianta di Dafne viene sostituito dalla moneta. Nel corso dei secoli sono cambiati i campioni e gli sport in gara, ma le Olimpiadi hanno continuato a essere uno specchio dello spirito del tempo. «L’importante non è vincere, ma partecipare», affermava il fondatore della competizione Pierre de Coubertin. Oggi, invece, il successo sembra diventare l’unico scopo.
La World Athletics, in vista di Parigi 2024, ha previsto un premio di cinquantamila dollari per le medaglie d’oro in ciascuna delle quarantotto sfide organizzate, dai cento metri al salto in alto. L’obiettivo è stabilire entro il 2028 una retri-
buzione per tutti coloro che arriveranno sul podio. Sebastian Coe, presidente della federazione internazionale, ha sottolineato che l’introduzione del premio rappresenta «una nuova pietra miliare nella storia del nostro sport, nella storia dell'atletica».
Questa innovazione ha sollevato molte perplessità soprattutto sul piano etico. Dare un prezzo all’impegno e ai risultati dei corridori vuol dire valutare economicamente le prestazioni sportive di chi partecipa ad una gara che ha da sempre avuto carattere dilettantistico. La risposta di Stefano Mei, presidente della Federazione italiana di atletica leggera ed ex mezzofondista, agli interrogativi sull’ultima decisione della World Athle-
tics parte da una profonda riflessione sul significato e sull’evoluzione dei Giochi. «Le Olimpiadi sono considerate ancora oggi un’isola felice, ma non riescono più a fermare le guerre o a portare la pace, come era più di duemila anni fa. È evidente che i tempi siano cambiati. Il mondo è cambiato».
Sono state molte le critiche anche da parte di altre federazioni, che hanno visto l’ultima decisione di Coe come una minaccia al principio di solidarietà. «I Comitati olimpici prevedevano già una ricompensa in denaro per coloro i quali hanno la fortuna, la bravura e il merito di vincere una medaglia – afferma MeiNon bisogna scandalizzarsi. Finalmente è stato sfatato un tabù. Trovo, anzi, molto
più sconvolgente definire i Giochi olimpici dilettantistici». Arrivare sul podio richiede anni di sforzo, sacrificio e completa dedizione. Una vita che non permette distrazioni e non concede tempo ad attività parallele. «Gli sportivi sono attori di un grande spettacolo. Ma, a differenza dei protagonisti di uno spettacolo teatrale, hanno un tempo limitato in cui svolgere il loro lavoro, per poi ricominciare a vivere rinunciando alla propria passione. È giusto che la fatica abbia un ritorno. Io sono sempre dalla parte degli atleti e il loro guadagno mi rende felice».
In altri sport l’aspetto economico è ben radicato e il mercato è parte fondamentale del gioco. Per il calcio, così come per l’Nba negli Stati Uniti, si raggiungono ingaggi altissimi. Per la realizzazione del Mondiale di calcio in Qatar nel 2022 sono stati spesi circa duecentoventi miliardi di dollari per le infrastrutture. Il basket americano registra un totale di entrate annue di quasi undici miliardi di dollari. I guadagni dei protagonisti di queste competizioni raggiungono cifre multimilionarie.
Per le Olimpiadi di Tokyo sono stati spesi circa dieci miliardi di dollari e le ricompense previste nel 2024 per i primi classificati non sono equiparabili a quelle dei campioni delle gare più seguite. Gli introiti di queste manifestazioni sono meno cospicui rispetto a quelli generati dai campionati annuali di calciatori e cestisti. Gianmarco Tamberi e Marcell Jacobs sono un’eccezione e il loro profitto non si avvicina a quello di atleti dello
stesso livello in altre discipline. Le soluzioni che aiutano a riequilibrare questa disparità sono poche: «I gruppi sportivi militari in qualche modo hanno possibilità di seguire la loro passione potendo contare su uno stipendio. Anche questo è un modo per potersi allenare ed essere considerati dei professionisti».
Le leggi del mercato pongono dei limiti alla passione sportiva. Il premio, almeno per quest’anno, spetta solo al migliore tra i partecipanti ai Giochi. Un criterio meritocratico che non tiene conto dei sacrifici e della bravura delle altre eccellenze in gara. «Il sistema che hanno inserito adesso non risolve il problema in modo radicale, ma lo argina – sostiene Mei - Sarebbe bello poter riverberare questa retribuzione anche sul territorio, sulle piccole realtà e sui piccoli campioni che nascono in ogni parte del mondo, ma diventa difficile. La differenza tra lo sport professionistico e quello dilettantistico sta semplicemente nel giro di interessi che si ha intorno a una singola disciplina».
La carriera degli atleti è breve, ma essere dei campioni di questo calibro implica molte rinunce anche in ambito lavorativo. Parlare di etica in un contesto simile diventa complicato. «Oggi questo concetto di morale è opinabile. Abbiamo spostato il nostro standard di vita e le nostre abitudini. Il senso etico muta con il passare dei tempi e, in questo secolo, lo sport non ha lo stesso valore che poteva avere nell’età antica». Nell’epoca greca, i Giochi mettevano a tacere tutte le guer-
re sancendo un periodo di tregua sacra, l'ekecheiria, per proteggere i partecipanti. Nel Novecento, invece, sono stati i conflitti mondiali a fermare le Olimpiadi. Pretendere che tutto ritorni al 776 a.C. è innaturale e impossibile, ma l’essenza dello sport non è andata del tutto perduta nel corso dei millenni, si è trasformata con il tempo. «È cambiato il mondo, è cambiata la sensazione dell'etica, è cambiato praticamente tutto. Scandalizzarsi per aver finalmente concesso una remunerazione agli sportivi per i loro sforzi sembra ormai fuori luogo». ■
Quegli atleti senza bandiera
Niente inno e colori rappresentativi per russi e bielorussi che gareggeranno a Parigi
di Luca GrazianiSì agli atleti russi e bielorussi alle Olimpiadi, ma senza bandiera né inno. Parigi 2024 si avvicina e il Comitato olimpico internazionale (Cio) detta le condizioni: potranno essere al massimo in 54 con il passaporto di Mosca e in 28 con cittadinanza di Minsk - nel 2021 a Tokyo in totale erano oltre 400 - tutti esclusi dalla cerimonia d’inaugurazione sulla Senna.
Non è la prima volta che si adottano sanzioni di questo tipo. «Gli atleti russi gareggiarono come neutrali già dopo la Grande Guerra», quando ci fu «la prima politicizzazione dell'arena olimpica», spiega Nicola Sbetti, storico dello sport. «Allora ci fu una volontà politica da parte delle potenze vincitrici, Francia e Inghilterra, di escludere i vinti»
«Dopo la Seconda guerra mondiale, il Cio, come forma di difesa e per reagire alle tensioni internazionali, ha rivendicato uno sport libero dalla politica, cosa impossibile», conquistando una parziale autonomia dalle pressioni esterne grazie a un «pretesto formale. Quando si è riproposto il problema ai Giochi del ’48 a Londra si è cercato un escamotage un po' ipocrita», sono stati ammessi «tutti i Paesi che hanno il Cio, lasciando fuori Germania e Giappone occupati militarmente».
Dalle sanzioni si arriva ai boicottaggi. Prima nel 1976, a Montréal, quando 22 Paesi africani danno forfait per protestare contro la Nuova Zelanda, che con la nazionale di rugby aveva giocato in Sudafrica nonostante l'apartheid, poi nel 1980, a Mosca, con la defezione statunitense a seguito dell'invasione sovietica dell'Afghanistan. Fino ai Giochi del 1984, a Los Angeles, boicottati proprio dai russi.
Tornando al presente, «russi e bielorussi vengono sanzionati dallo sport internazionale fin dal 28 febbraio del 2022, quattro giorni dopo l’invasione dell’Ucraina. Anche in questo caso, in nome del principio della neutralità dello sport: il Cremlino non viene escluso perché in guerra, almeno sul piano formale, ma perché insieme alla Bielorussia ha violato la tregua olimpica», imposta dai Giochi invernali di Pechino appena conclusi.
«Un appiglio giuridico che giustifica una scelta politica» che il Cio è stato costretto ad accettare «perché altrimenti molti Paesi avrebbero smesso di fare sport con i russi». Il vero tema, dunque, è «la necessità di sopravvivere dello sport internazionale. Le organizzazioni cercano di essere universali perché se perdono membri si indeboliscono, possono nascere
delle contro-Olimpiadi. Da qui l'ulteriore passaggio, la riammissione parziale».
Quando è apparso chiaro che la guerra era destinata a durare, si è deciso di dare «la possibilità ai russi di gareggiare individualmente come neutrali, purché non all'interno di gruppi sportivi militari o pubblicamente favorevoli all’invasione. Le sanzioni, perciò, servono alla sopravvivenza del sistema, sono funzionali a evitare il boicottaggio. Sincere o ipocrite che siano, hanno lo scopo di proteggere soprattutto le stesse istituzioni sportive».
All’Ucraina si è aggiunto un nuovo fronte. Israele per le sue azioni «non sta subendo lo stesso tipo di pressioni, anche perché la Palestina a livello diplomatico resta abbastanza isolata, nonostante dal basso stia arrivando tanta solidarietà. Inoltre, non sta premendo per escludere Israele, perché il Cio ha promesso più spazio agli atleti palestinesi, aiuti economici e soprattutto la ricostruzione dello sport a Gaza». Le contestazioni? «Dalle prese di posizione dei singoli atleti alle manifestazioni, saranno inevitabili». ■
1. Atleti russi paralimpici trasportano la bandiera durante i Giochi invernali del 2014. Foto: Reuters
L'insostenibilità delle Olimpiadi
CLIMA
I Giochi del 2024 sarebbero dovuti essere i primi a zero emissioni, un traguardo ancora lontano
di Pietro Angelo Gangi
Nove anni fa i Paesi di tutto il mondo si riunivano a Parigi per parlare di clima e trovare un accordo sulla salvaguardia dell’ambiente. Quest’estate, il mondo si concentrerà di nuovo sulla capitale francese, anche se per un’occasione diversa. Le strade parigine accoglieranno la prossima edizione dei Giochi olimpici e paraolimpici e il tema della sostenibilità sem-
bra essere tanto urgente quanto lo era nel 2015.
L’ambiente è ormai un tema all’ordine del giorno e diventa centrale anche nei grandi eventi sportivi. Si pensi a edizioni come quella di Rio 2016 ma anche ai Mondiali di calcio in Qatar, dove i livelli di inquinamento hanno raggiunto livelli critici. Non esiste uno studio sistematico sulla sostenibilità delle Olimpiadi nel tempo, ma la ricerca An evaluation of the sustainability of the Olympic Games pubblicata nel 2021 propone un modello di tre dimensioni –ecologica, economica e social – attraverso cui valutare l’impatto che ogni edizione ha avuto dal 1992 in poi. Nessuna raggiunge i livelli sostenibili proposti dal modello,
alcune però si avvicinano di più e altre di meno.
Per il 2024 gli organizzatori erano convinti che l’evento potesse essere carbon neutral. Tuttavia, a pochi mesi dall’inizio, la prospettiva è diventata più realistica e l’obiettivo sarà dimezzare le emissioni di Co2 rispetto alle edizioni passate. Parigi 2024 si caratterizzerà per la limitata costruzione di nuove infrastrutture, verrà privilegiato l'uso di quelle già esistenti, e per le nuove verrà garantito che siano ecologicamente responsabili e riutilizzabili.
Un esempio negativo da evitare sono i white elephants, edifici non riutilizzabili che hanno ospitato grandi folle ma sono poi caduti in disuso. Anche perché questo approccio non sarebbe in linea con l'agenda 2020 del Comitato olimpico internazionale, il programma di riforme adottato nel 2014 per modernizzare i Giochi rendendoli più sostenibili e accessibili. Il grande problema resta dunque l’utilizzo dei trasporti aerei, indispensabili per un evento di questa portata.
Se per Parigi non ci resta che attendere e vedere quanto le nuove misure funzioneranno, la questione della sostenibilità rimane aperta anche per le Olimpiadi invernali di Milano-Cortina del 2026, che negli ultimi mesi hanno sollevato molte polemiche.
«Il simbolo dell’insostenibilità ambientale, economica e sociale - afferma Michele Argenta, ingegnere e attivista climatico – è la pista da bob che stanno costruendo». La realizzazione di questo impianto comporterà un costo stimato intorno ai 100 milioni di euro e presenterà gravi problemi di manutenzione. Secondo l’esperto: «Non è chiaro con quali fondi verrà mantenuta, e bisogna considerare che parliamo di una struttura che verrà utilizzata solo sette settimane all’anno da appena 85 atleti in Italia».
I Giochi rappresentano un evento internazionale caratterizzato da un'impronta ecologica enorme e incompatibile per il pianeta. Alla domanda sul modo in cui le Olimpiadi potranno essere 100% ecosostenibili, Argenta risponde che l’unica opzione è «ripensarle da capo». ■
Olimpiadi e Paralimpiadi, gli scatti che hanno fatto
la storia
Le immagini che raccontano i momenti più importanti dei Giochi. Dalla Belle Époque alla pandemia Covid-19
La prima edizione moderna
Berlino 1936
La regista Leni Riefenstahl sul set del docu-film Olympia
Parigi 1900
L'esordio delle donne
Londra 1948
Il ritorno dopo la guerra
Londra 1908
L'oro mancato di Dorando Pietri
Roma 1960
L'ingresso degli atleti con disabilità
Città del Messico 1968
Un pugno per i diritti degli afroamericani
Monaco 1972 Bandiera a mezz'asta dopo l'attentato Rio 2016 Atlanta 1996 Muhammad Alì accende
l'attentato alla squadra israeliana
Mosca 1980
Tokyo 2020
Pietro Mennea vince i 200 metriOstaggi, sangue e vendette A Monaco i Giochi del terrore
STRAGE
Il racconto dell'attentato alla squadra israeliana durante le Olimpiadi del 1972
di Alessio Matta«Monaco ha rappresentato una ferita gravissima. La strage non era condotta soltanto contro Israele: era un attacco diretto anche contro i Giochi olimpici». Così Guido Olimpio, ex corrispondente per il Corriere della Sera da Gerusalemme ed esperto di terrorismo internazionale, descrive la catastrofe accaduta cinquantadue anni fa.
La giornata del terrore comincia alle 4:30 del 5 settembre 1972, quando otto palestinesi militanti di Settembre Nero scalano una recinzione che circonda il Villaggio olimpico. Travestiti da atleti e
utilizzando delle chiavi rubate, entrano negli alloggi della squadra israeliana. Mentre provano ad accedere al primo appartamento, affrontano Moshe Weinberg, allenatore di wrestling, colpito a morte mentre cerca di difendere i suoi ragazzi. È lui il primo sportivo israeliano ucciso durante la strage di Monaco e questi eventi segnano l'inizio della crisi degli ostaggi.
Gli estremisti riescono a entrare con facilità nel Villaggio olimpico grazie a una combinazione di fattori. La sicurezza e i controlli soni molto bassi, in linea
con l'intento da parte dei tedeschi di presentare un'immagine di serenità, in contrasto con i Giochi di Berlino del 1936 durante il regime nazista. La situazione si complica ancora di più a causa delle restrizioni costituzionali per l'utilizzo delle forze armate in periodo di pace. La Costituzione della Germania Ovest, adottata nel 1949, conteneva severe limitazioni sull'impiego dell’esercito all'interno del Paese. Questo significa che la gestione dell’emergenza viene affidata soltanto alla polizia, priva di un addestramento adeguato ad affrontare uno scenario così complicato.
Settembre Nero è un gruppo terroristico fondato all'inizio degli anni Settanta, nato come una costola dell'Organizzazione per la Liberazione della Palestina (Olp). Il gruppo prende il nome dai tragici eventi del 1970, quando il re Hussein di Giordania ordina un'operazione militare contro i palestinesi sul suo territorio, causando migliaia di morti tra i combattenti e i civili. Nel 1971 l’organizzazione assassina Casi al-Tal, il primo ministro giordano, per vendicarsi della brutale repressione ordinata da Hussein. Poco tempo prima dell’inizio delle competizioni, i palestinesi chiedono di partecipare ai Giochi, ma il Comitato non accetta la richiesta poiché non appartenengono a uno Stato riconosciuto.
Durante la crisi, il dialogo tra il governo tedesco e quello israeliano è intenso e complesso. Il Cancelliere Willy Brandt e la premier Golda Meir si trovano ad affrontare uno stato di emergenza senza precedenti. Dopo la presa in ostaggio degli undici membri della delegazione israeliana, i due Paesi cominciano a collaborare, ma con numerosi ostacoli.
Meir non accetta di negoziare con i ribelli e insiste affinché le autorità tedesche non prendano in considerazione le richieste di Settembre Nero: la liberazione di 234 prigionieri palestinesi detenuti in Israele e di due
membri della Fazione dell'Armata Rossa imprigionati in Germania. Nonostante le pressioni israeliane per una risoluzione decisa, la posizione di non cedere alle richieste degli attentatori viene mantenuta. Le trattative sono condotte dal ministro degli Interni tedesco HansDietrich Genscher e dal capo della polizia di Monaco, Manfred Schreiber. Tel Aviv offre il proprio sostegno militare, proponendo di inviare la propria unità di élite antiterrorismo, ma il governo federale rifiuta l'offerta, insistendo sulla gestione autonoma del caso per questioni di sovranità e politica interna.
Olimpio si sofferma sul fallimento tedesco: «È stata una pagina nera della storia. Anche un’operazione condotta dalle forze isreaeliane sarebbe potuta andar male. Non sempre questo genere di blitz va a buon fine».
Alla fine, i terroristi accettano un'offerta di trasferimento all'aeroporto di Fürstenfeldbruck, per prendere un aereo diretto verso un Paese arabo. Le autorità tedesche pianificano un'operazione di salvataggio, posizionando cecchini intorno alla pista. Tuttavia, l'operazione è mal preparata: i tiratori sono insufficienti e mal equipaggiati. Durante l'operazione di salvataggio, la situazione degenera e quando i guerriglieri si accorgono che non c'è alcun aereo per portarli via, iniziano a sparare sugli ostaggi e a gettare granate nei due elicotteri in cui sono tenuti prigionieri. Durante gli scontri, tutti i nove ostaggi israeliani vengono uccisi, assieme a un poliziotto e a cinque terroristi.
Dopo il fallimento dell'operazione di salvataggio, l'immagine della Germania subisce un duro colpo. La Repubblica federale viene vista come inefficace e impreparata di fronte al terrorismo. Nonostante il tragico esito, i Giochi continuano. Il presidente del Comitato olimpico, Avery Brundage, annuncia la decisione con la famosa frase The Games must go on. Questa scelta suscita fin da subito polemiche e indignazione da parte
di molti atleti che decidono di sospendere la loro partecipazione. In Israele, la reazione alla strage è determinata. Il governo decide di perseguire e uccidere tutti i responsabili dell'attentato. Gli agenti del Mossad iniziano una caccia all'uomo globale, con l’Operazione Ira di Dio. Il piano comincia il 16 ottobre 1972 a Roma, con l’assassinio da parte dei servizi israeliani di Wael Zuaiter, politico palestinese e portavoce dell’Olp in Italia. Le operazioni finiscono nel 1992, con l’uccisione dell’ultimo responsabile degli attacchi ancora in vita.
Il tema della sicurezza resta una preoccupazione centrale per le prossime Olimpiadi di Parigi. Anche se il terrorismo si manifesta in forme diverse rispetto al passato, la tensione internazionale elevata contribuisce ad aumentare il livello di allerta. Secondo Guido Olimpio «è previsto un gran numero di minacce alla sicurezza. La Francia è un obiettivo classico e ci sono molti estremisti al suo interno».
Il governo francese intende adottare misure straordinarie per garantire la sicurezza. L’intento è prevenire qualsiasi tentativo di destabilizzare i Giochi e garantire un ambiente sicuro per tutti i partecipanti e gli spettatori. ■
1. In alto: Due cecchini al Villaggio olimpico. In basso: La camera degli ostaggi. Foto: Reuters
2. I terroristi di Settembre Nero. Foto: Reuters
3. Cittadini israeliani attendono il rimpatrio delle salme degli atleti assassinati. Foto: Reuters
Cronache dal passato
«Olimpia in fermento»
Cosa succedeva nella leggendaria città greca durante i Giochi dell'antichità?
di Gennaro TortorelliLi chiamano Giochi, ma qui sembrano tutti molto seri. Olimpia è in fermento, le strade polverose sono invase da delegazioni provenienti da ogni angolo del mondo greco, ognuna con i suoi atleti migliori, pronti a sfidarsi in nome degli dèi e della gloria eterna.
In questi giorni, la città non è solo un epicentro sportivo, è un santuario di cultura e religiosità, dove sacro e profano si incontrano sotto lo sguardo benevolo di Zeus. Le gare iniziano col tradizionale sacrificio dei cento buoi, seguito dal giuramento solenne. Il ritmo dei tamburi dà il via allo stadion, una prova di velocità pura. A trionfare è stato Coroebo di Elide, giovane di eccezionale talento. Il pubblico si accalca sugli spalti e il suono delle ovazioni rimbomba tra le colline circostanti.
Le competizioni si susseguono senza sosta. Il pentathlon, una delle prove più attese, esplora i limiti di tenuta fisica e mentale degli atleti, che si sfidano nel salto in lungo, nel lancio del disco e del giavellotto, nella corsa e nella lotta. Si prosegue con il pancrazio, disciplina che unisce pugilato e lotta. Qui i colossi mostrano resistenza e coraggio in combattimenti che spesso sfociano nella brutalità.
L'ultimo scontro ha visto l'ateniese Dorieo prevalere, non senza difficoltà, sul corinzio Sostrato, in un match che ha
tenuto tutti col fiato sospeso. «È stata una sfida dura contro un avversario temibile. Dicono che sono tra i favoriti del torneo, ma penso gara per gara. D’ora in poi sono tutte finali», dice il vincitore, con un tono e una retorica che già in piena età arcaica ci suonano un po’ stantii.
I Giochi non sono solo competizione. Rappresentano un periodo di tregua sacra, l'ekecheiria, in cui tutte le ostilità tra le città-stato sono sospese. Le delegazioni si mescolano nelle agorà, scambiandosi beni e storie, mentre i filosofi discorrono sotto i portici, condividono idee e conoscenze. In un clima di pace e unità, le uniche discussioni accese riguardano le strategie: «Sostrato è stato più offensivo, meritava di vincere», commenta uno spettatore, subito rintuzzato dal suo vicino di posto: «Conta solo la corona d’alloro, Dorieo è stato superiore. Il pancrazio è semplice».
La fama delle Olimpiadi si è estesa anche oltre la Grecia. Le colonie, ormai diventate pòleis indipendenti, vanno incontro a diversi giorni di navigazione pur di rispondere presenti. Così Olimpia si affolla di giovani sportivi da terre lontane, da Marsiglia a Siracusa, da Crotone a Metaponto. Nonostante la distanza, si parla la stessa lingua, si venerano gli stessi dèi, si seguono gli stessi riti, ma ciò che le rende autenticamente greche è prendere parte ogni quattro anni alle competizioni.
I vincitori non ricevono ricchi premi, ma una semplice corona di alloro, simbolo di gloria imperitura. Il vero trionfo è l'onore di essere ricordati. Anche solo partecipare è motivo di orgoglio, qualcuno direbbe che è la cosa più importante, ma meglio non anticipare i tempi. ■
Olimpia, situata nella regione Elide a nord-ovest della penisola del Peloponneso, è stata la culla dei Giochi olimpici antichi. Si sono svolti ogni quattro anni dal 776 a.C. al 393 d.C. Secondo Pindaro, Eracle sarebbe il fondatore delle
Olimpiadi, e le avrebbe istituite nel santuario di Zeus in onore di Pelope
«Ho visto Diagora»
Come racconterebbe un cronista di oggi la vittoria del pugile di Rodi nel 464 a.C.?
Finalmente Diagora. Ieri, nello spiazzo di terra arida e dura dove si sono affrontati tanti eroi leggendari e uomini valorosi da ogni angolo della Grecia sono entrati nel mito, l’atleta di Rodi ha scritto il suo nome nella Storia.
Di Diagora di Rodi si parla nella settima delOlimpica Pindaro,poeta suo Trionfòcontemporaneo. delnell’Olimpiade 464 a.C., e come raccontato dal geografo Pausania il Perigeta, gli venne dedicata una statua. Nelle Notti Attiche, Aulo Gellio riporta che morì di felicità abbracciando i figli dopo che anche loro vinsero i Giochi
Ha dominato e vinto le gare di pugilato, battendo in finale un corinzio, il cui nome verrà dimenticato. Non esiste un premio per gli sconfitti.
Dopo aver dimostrato il suo valore sui terreni di Atene, Tebe, Argo, Megara e di tante competizioni locali; dopo aver trionfato in tutti e tre gli altri maggiori giochi della nostra amata Grecia a Delfi, Corinto e Nemea; finalmente Diagora conquista l’alloro più importante, il più caro a Zeus. Quello dei Giochi olimpici. Un nuovo nome, quindi, nella ristrettissima lista dei periodonikes, quei pochi uomini, simili agli eroi dell’antichità, capaci di vincere nei quattro giochi panellenici.
Il confronto è duro e i colpi non vengono risparmiati. Il corinzio per due volte tenta di aggrapparsi con le dita al volto del rodiese, prendendosi quattro bastonate di punizione dai giudici di gara.
Ma Diagora non si lamenta, anzi, sembra trovare forza nelle scorrettezze dell’avversario e riprende a tirare con ancora più foga. I piedi vanno così forte da alzare un polverone come mai se ne sono visti. Una velocità che scarica con grande efficacia dall’alluce al pugno. Siamo a circa quindici minuti di incontro quando il corinzio, col sangue e il sudore che gli scorrono sugli occhi, alza l’indice in segno di resa, prima di crollare sulle ginocchia.
Alla vigilia i dubbi erano pochi. Il rodiese ha dominato gli incontri della 79esima Olimpiade dal primo all’ultimo. Da subito i suoi colpi sono parsi più forti, i piedi più svelti, il cervello più affilato. Per noi, fortunati ad averlo visto da vicino, stringendoci in cerchio mentre abbatteva gli avversari, è stato il compiersi dell’inevitabile. Lo capivamo dal suo sguardo mentre si arrotolava gli sphaîrai di cuoio ruvido fra le dita. Sembrava di aver di fronte Eracle in persona, pronto a colpire l’idra di Lerna.
Che Diagora sia di un’altra stoffa l’abbiamo compreso anche conoscendolo. Bastava parlarci dopo che i sacerdoti di Zeus l’hanno premiato – e lui, dal canto suo, ha dimostrato grande devozione e conoscenza del rituale. Mentre passeggia fra gli ulivi di un giardino ai piedi del monte Cronion, una domanda esce spontanea: «Hai vinto tutto quello che si poteva vincere, collezionando onori e anche molto denaro. Puoi ritenerti soddisfatto finalmente?».
Risponde con dolcezza, come se avesse davanti un giovane appena entrato nella sua scuola filosofica, pronto per essere portato alla verità. «Sì, ho vinto tanto», esclama malinconico, «ma sarò felice solo quando saprò di aver dato vita ad una dinastia di vincitori, allora potrò anche morire». ■
Ambra sventola il tricolore
«Mi trema ancora la voce»
SORPRESE
Cinque anni
dopo l'incidente che le ha cambiato la vita, Sabatini sfilerà con i colori dell'Italia a Parigi insieme a Pancalli
Quando Ambra Sabatini ha saputo che avrebbe sfilato come portabandiera per l’Italia ai Giochi paralimpici di Parigi 2024, è rimasta senza parole. Ancora adesso, quando ripensa a quel momento, si emoziona: «La voce mi trema ancora quando lo racconto. So che è un ruolo importante, cercherò di onorare il nostro tricolore. Non dimenticherò mai quella chiamata. La mia famiglia è fiera di me».
Nata nel 2002 a Livorno e cresciuta a Porto Ercole, Ambra Sabatini è una delle stelle emergenti dell'atletica paralimpica. Sin da bambina, ha mostrato una forte passione per lo sport, con esperienze nel pattinaggio e nella pallavolo prima di dedicarsi solo all'atletica leggera. La sua determinazione e il suo talento l'hanno portata a eccellere, trasformandola in un simbolo di resilienza e speranza.
La giunta del Comitato italiano paralimpico ha accolto la proposta del presidente Luca Pancalli, annunciando che Ambra Sabatini e il nuotatore e paraciclista Luca Mazzone riceveranno il tricolore dal Presidente della Repubblica Sergio Mattarella.
Pancalli ha elogiato entrambi come «due protagonisti dello sport paralimpico italiano e mondiale che rappresentano al meglio una squadra con importanti ambizioni e grandissimo talento».
Il percorso di Ambra ha incontrato una sfida imprevista e drammatica. Il 5 giugno 2019, mentre andava a Grosseto con suo padre per allenarsi, Ambra è stata coinvolta in un terribile incidente stradale. Un'auto ha invaso la sua corsia, causando un impatto devastante che ha portato all'amputazione della gamba sinistra fino al ginocchio. Nonostante la gravità della situazione, Ambra è rimasta cosciente e ha lottato per restare aggrappata alla vita. «Di quel momento ricordo tutto. Volevo e sentivo che dovevo combattere con tutta me stessa» ha raccontato. Anche sull'elisoccorso, mentre rifletteva sul suo futuro, Ambra ha iniziato a considerare la possibilità di tornare a correre con una protesi.
L’incidente ha segnato un momento cruciale nella vita di Ambra. La sua forza di volontà e il supporto della famiglia sono stati «determinanti per affrontare il lungo
percorso di riabilitazione».
Nei mesi successivi all'incidente, ha affrontato momenti di sconforto, ma la sua determinazione l'ha spinta a non arrendersi. «Volevo riprendere il controllo della mia vita, volevo correre ancora, sentire il vento in faccia e fra i capelli» ha detto. Grazie all’incoraggiamento della sua famiglia e del suo team medico, Ambra ha iniziato a fare progressi straordinari, dimostrando una resilienza fuori dal comune.
La determinazione di Ambra l'ha portata rapidamente a tornare allo sport. Ha iniziato con il ciclismo e il nuoto durante la riabilitazione, prima di ottenere una protesi adatta alla corsa. «Da una parte mettere quella protesi doveva essere un momento bello ma dall’altra hai sempre a che fare con uno strumento nuovo, che non conosci, che pesa tantissimo, che non riesci a controllare. La senti una parte diversa da te, dal tuo corpo e li per li è anche scoraggiante. Poi ti ci abitui».
Il ritorno in pista e poi il successo: ai Campionati italiani paralimpici e al Grand Prix di Dubai, dove ha stabilito un nuovo record mondiale nei 100 metri T63, categoria di cui fanno parte gli atleti che presentano un'amputazione monolaterale sopra o attraverso il ginocchio.
Ai Giochi paralimpici di Tokyo 2020, Ambra ha conquistato l'oro e stabilito un nuovo primato mondiale di 14"11. La sua ascesa è continuata ai Mondiali di Parigi del 2023, dove ha nuovamente battuto il record con un tempo di 13”98.
Dietro questi traguardi c'è sempre stata la presenza costante della sua famiglia che
ha rappresentato un pilastro fondamentale nel suo percorso. Il padre Ambrogio, appassionato di sport, l'ha sempre sostenuta e accompagnata agli allenamenti. Anche suo fratello gemello, Lorenzo, condivideva questa passione, essendo stato un promettente calciatore.
La comunità di Porto Ercole ha mostrato un calore straordinario nei suoi confronti, organizzando feste e celebrazioni per onorare i suoi successi. «Porto Ercole è sempre stata fantastica. Tantissimo calore. Casa è casa e si sente l’amore della gente che ti vuole bene» ha detto Ambra.
Adesso però c’è Parigi. Sabatini è determinata a conquistare il primo posto ai Giochi Paralimpici di Parigi 2024. Questo obiettivo ha richiesto un intenso allenamento fisico e mentale, ma Ambra ha accolto la sfida. «La gara è sempre più agguerrita, ma ci sono, abbiamo lavorato tanto e quindi sono fiduciosa». Parigi rappresenta non solo un'opportunità per confermare il suo status di campionessa, ma anche un'oc-
casione per dimostrare al mondo intero la sua resilienza e dedizione.
La preparazione per Parigi è inoltre al centro del documentario che sta girando con la troupe di Giffoni Film Festival, un festival cinematografico. Si tratta di un progetto che mira a catturare non solo la vita sportiva di Ambra, ma anche il suo percorso personale e familiare. «Spero ne esca qualcosa di bello e positivo» ha detto Ambra, riflettendo sull'importanza di condividere la sua storia.
Dopo Parigi, ci sono già ulteriori obiettivi in mente, come il salto in lungo, «È un’altra disciplina in cui spero di eccellere». Intanto, con Parigi all'orizzonte, è pronta a correre verso questo nuovo obiettivo. ■
1.
2. Ambra Sabatini durante un allenamento
3. L'esultanza dopo l'oro. Foto: Augusto Brizzi
Paralimpiadi
Tutto cominciò a Stoke Mandeville
Da un paese vicino
Londra la rivoluzione. Come lo sport ha migliorato la condizione dei disabili
di Valeria CostaStoke Mandeville è un piccolo villaggio, nella contea di Buckinghamshire, settantadue chilometri a nord-ovest di Londra. Questo nome sarebbe pressoché sconosciuto se nel 1944 il neurochirurgo Ludwig Guttmann, direttore dell’ospedale cittadino, non avesse avuto un’intuizione: far praticare attività sportive ai suoi pazienti su sedia a rotelle. Le competizioni presero da subito una piega agonistica e vennero istituzionalizzate nel 1948 con il nome di Giochi di Stoke Mandeville, che solo quattro anni dopo divennero internazionali, grazie alla partecipazione di alcuni atleti olandesi.
Le pratiche di Guttmann attirarono l’attenzione di altri medici in occidente, tra questi anche il neurologo Antonio Maglio, consulente dell’Istituto nazionale Assicurazione Infortuni sul Lavoro (Inail). Se per il medico tedesco lo sport era utile per la riabilitazione fisica, per l’italiano aveva anche un’importante funzione sociale, favorendo l’integrazio -
ne dei disabili nella società. Verso la fine degli anni Cinquanta la stampa cominciò ad interessarsi al fenomeno e nell’aprile del 1960 i pazienti di Maglio furono ricevuti in Vaticano da papa Giovanni XXIII, fatto straordinario dato che il cattolicesimo fino a poco tempo prima aveva considerato le menomazioni una punizione divina per i peccatori.
La diciassettesima edizione delle Olimpiadi si disputò a Roma dal 25 agosto all’11 settembre del 1960. Cogliendo l’occasione, Maglio riuscì a spostare i Giochi inglesi nella capitale. Così dal 18 al 25 settembre si svolsero a Roma i IX Giochi di Stoke Mandeville, che retrospettivamente il Comitato internazionale paralimpico ha riconosciuto come la prima edizione delle Paralimpiadi. Il termine infatti non esisteva ancora, si diffonderà a partire da Tokyo quattro anni più tardi, ma diventerà ufficiale solo dagli anni Ottanta.
La cerimonia di apertura dei Giochi del 1960 si svolse sulla falsariga di quella olimpica, con la sfilata degli atleti inquadrati in gruppi nazionali preceduti da una bandiera. Non si trattava ancora di Olimpiadi parallele, ma quell’edizione fu uno spartiacque nella storia della disabilità. Innanzitutto, cominciò a svilupparsi l’identificazione degli atleti paraplegici con la propria nazione. Inoltre, le loro prestazioni impressionarono l’opinione pubblica, consentendo di avviare un percorso
che avrebbe portato ad equiparare atleti disabili e normodotati, e a considerare anche le Paralimpiadi come manifestazione sportiva d’intrattenimento.
Quelle di Roma però mostrarono anche i limiti che lo sport paralimpico ha poi col tempo superato. In primo luogo, la città non era adeguata ad accogliere degnamente gli atleti. Il Villaggio olimpico con le sue barriere architettoniche creava non pochi problemi. Distante dagli impianti sportivi, obbligava i partecipanti ad attendere ogni giorno la fine delle competizioni prima di poter far ritorno ai loro alloggi. Il livello tecnico degli atleti era poco elevato, il loro numero ancora esiguo e non erano specializzati in alcuna disciplina. Inoltre, il racconto delle competizioni da parte della stampa aveva un tono pietistico.
L’istituzione di Olimpiadi parallele ebbe un ruolo fondamentale non solo per lo sport, ma per l’inclusione sociale dei disabili. I Giochi del 1960 si disputarono in una fase in cui in tutto l’Occidente erano in corso processi di riconoscimento dei diritti dei disabili e le competizioni di Roma diedero una spinta all’associazionismo in merito. ■
1 e 2. IX Giochi di Stoke Mandeville, Roma 1960.
«Non
è stato amore a prima vasca»
SFIDE
Antonio Fantin ha vinto dieci Mondiali ed Europei. Ora è pronto per la seconda Olimpiade
di Alessandro Imperiali
Con il tricolore sul petto, un’aquila è pronta a volare a Parigi per le Paralimpiadi. Antonio Fantin ha 23 anni, è tesserato per la Ss Lazio e le Fiamme Oro, nuota da quando era piccolo ed è un orgoglio per la nostra nazione.
«L’acqua innanzitutto è stata una necessità», dice mentre racconta di quando a tre anni e mezzo è stato colpito da una malformazione arterovenosa, che lo ha costretto alla sedia a rotelle. «Quante giornate andavo in piscina, non riuscivo a entrare e rimanevo seduto sul bordo per ore. Guardandomi indietro posso dire quanto sia stato importante essere costanti e sapersi aspettare. Non tutto viene da subito e se non accade non vuol dire che non si è portati», e ha ragione visto il suo palmarès.
Perché anche se «non è stato amore a primo tuffo», contando solo le medaglie d’oro, ha conquistato dieci Mondiali, dieci Europei, un'Olimpiade e cinque record del mondo. Una fame che non si arresta, ma che si costruisce vasca dopo vasca,
allenamento dopo allenamento. «È tutta una questione di feeling e di processo», spiega.
I successi danno tutti soddisfazione, ma sono due quelli che Fantin porta nel cuore: il primo Mondiale, la gara dei 400 stile libero vinta in rimonta nonostante un ampio svantaggio fino agli ultimi cinquanta metri e Tokyo 2020. Perché durante i Giochi «l'atmosfera che si respira è completamente diversa». Con la consapevolezza che il risultato non è mai del singolo. «Il bello non è stato tanto salire
sul podio, sentire l'inno e rendersi conto di aver vinto l'Olimpiade. L’emozione –racconta l’atleta azzurro – è stata quando sono sceso, perché ho avuto l’opportunità di andare da tutti quelli che mi hanno permesso di salire su quel podio».
La sua forza non sono le vittorie, ma la voglia di normalità. «Quando sono tornato dall'ospedale a tre anni e mezzo, non sono mai voluto essere l'amico sulla carrozzina, ma solo Antonio. Così come adesso, quando torno da una gara. Non c'è mai il campione del mondo, c'è semplicemente Antonio per e con i miei amici». La sua priorità è portare avanti insieme all’impegno sportivo la vita fuori dalla piscina. Guai, però, a considerarlo un esempio. «Questo presuppone che io abbia qualcosa da insegnare, mentre non mi sento in dovere di dare lezioni a nessuno. Piuttosto – racconta Fantin - mi considero uno strumento. La mia storia può far riflettere un bambino o un adulto, per costruire il suo percorso non necessariamente nello sport».
L’importante è non farsi abbattere e anche quando «tutto sembra crollarci addosso è necessario capire che può nascere un'opportunità, sta a noi coglierla». Perché non esistono «difficoltà grandi o piccole», ma ci sono i sogni e gli obiettivi e se qualcosa capita nel percorso è perché «era importante che capitasse a noi». Anche una malformazione arterovenosa può nascondere una nuova avventura e, nonostante Antonio sia già nella storia, è pronto a scriverne un’altra pagina. ■
La ribelle che sfidò de Coubertin
E le donne si presero i Giochi
Ad Atene 1896 lo sport femminile era considerato «antiestetico». A distanza di 120 anni, l'italiana Irma Testa è salita sul ring per rompere ogni tabù del pugilato
Atene, 11 aprile 1896, giorno della maratona dei primi Giochi olimpici moderni. Sono le otto del mattino quando Samata Rheviti parte da Maratona - testimoni l’insegnante, il sindaco e un magistrato – corre, arriva allo stadio Panathinaiko e non viene fatta entrare.
A lavorare per l’inclusione nel primo dopoguerra è Alice Milliat, nata a Nantes nel 1884 in una famiglia borghese, appassionata di atletica e canottaggio. A trentasette anni fonda la Fédération Sportive Féminine Internationale (Fsfi) per supervisionare la partecipazione femminile alle competizioni internazionali.
di Matilda FerrarisÈ la prima donna che partecipa alle Olimpiadi, una presenza non autorizzata dal Comitato (Cio) guidato da Pierre de Coubertin, per il quale lo sport femminile era «la cosa più antiestetica che gli occhi umani» potessero «contemplare». Il barone francese non riesce a pieno nel suo intento, l’organizzazione dei Giochi dopo Atene viene lasciata sempre più alle città ospitanti e meno al comitato direttivo. A Parigi 1900 viene aggirata la politica restrittiva del Cio, consentendo l’ingresso delle donne in due discipline: il golf, dove vince Margarett Abbott, e il tennis dove trionfa Charlotte Cooper, primo oro della storia femminile.
Dopo il "no" di de Coubertin alla partecipazione delle donne nelle competizioni di atletica leggera ai Giochi del 1922, Milliat e altre colleghe decidono di organizzare una “contro-Olimpiade”: la prima al femminile.
Questa manifestazione si ripete per quattro edizioni, ma più le donne dimostrano di saper fare da sole più il Cio è terrorizzato all’idea di perdere il monopolio sui Giochi. Così comincia ad accoglierle, finché nel 1948 viene sciolta la Fsfi e le Olimpiadi tornano a essere soltanto quelle ufficiali, maschi e femmine insieme.
La sfida nel secondo dopoguerra è l’estensione di più discipline possibile anche alle donne. La maggior parte delle competizioni aprono alla partecipazione femminile negli anni ‘80 ma altre discipline hanno una vita più difficile. Tra queste la boxe occupa un posto rilevante. Il pugilato è stato l’ultimo sport a far subentrare le donne nelle competizioni olimpiche: è successo a Londra ai Giochi del 2012, dove non si era qualificata nessuna italiana.
In Italia non c’è una lunga tradizione di associazioni dilettantistiche e professionali femminili, nate soltanto nel 2001. Nel 2016 una donna italiana si qualifica ai Giochi di Rio de Janeiro: Irma Testa. Ai quarti di finale perde contro Estelle Mossely, francese, senza conquistare il podio. Testa torna nel 2020 a Tokyo, dove ottiene la medaglia di bronzo, affermandosi come un’eccellenza mondiale.
Se si trova dove è ora il merito è anche di due donne: «Ho iniziato a fare questo sport grazie a mia sorella maggiore, Lucia, volevo seguirla come fanno tutte le più piccole. Ha smesso di giocare presto per andare a lavorare, ma era bravissima, più forte di me». Non solo la sorella, anche la madre ha deciso di sostenerla quando le è arrivata una proposta per entrare nella squadra nazionale: «Ha capito che il trasferimento ad Assisi poteva essere una salvezza. Si è fidata degli allenatori, di quello che le dicevano, e mi ha detto "se tu te la senti, vai. Se vuoi tornare io sono qui e se hai bisogno di me mi chiami e vengo"».
Dopo la vittoria del bronzo a Tokyo Irma ha deciso di raccontarsi al suo pubblico, di farsi vedere e conoscere, concedendo anche interviste difficili, come alla belva Francesca Fagnani, o all’istrionico
Lundini nella “Pezza”. Ha raccontato alla stampa di aver avuto una relazione con una donna rompendo uno dei tabù più grandi nello sport, quello dell’omosessualità: «Se tutti gli atleti dichiarassero il loro orientamento sessuale, sarebbe una rivoluzione».
«La mia storia può essere d’aiuto, uno fa certe cose per far sì che i miei risultati abbiano una certa risonanza e che la mia storia e le mie idee possano essere condivise e accettate da altre persone». Certo, c’è chi ancora non capisce, ma lei pensa sia un problema più di pubblico che di ambiente interno, almeno nella boxe: «Gli appassionati storici, quelli che guardavano le competizioni in televisione di notte, faticano ad accettare le novità, dai diversi orientamenti sessuali alla presenza delle donne».
A Testa piace giocare con gli stereotipi legati alla boxe e distruggerli. Ad esempio quando si toglie i guantoni le unghie sono laccate di smalto, questo perché non si deve pensare che le donne
che praticano questo sport non possano esprimere la loro femminilità, in questo la tradizione maschile ha creato false credenze: «Io sono di parte, ma preferisco le nostre competizioni. Sono molto più eleganti, si vede meglio l’impiego della tecnica, per averla e metterla a punto bisogna essere intelligenti. Mentre gli uomini hanno abituato gli spettatori a un clima violento, sangue e nasi rotti, cose che hanno poco a che vedere con quello che è realmente lo sport».
Nonostante l’impegno civico fatica a definirsi femminista: «Per me chi lo è scende in piazza, protesta, è attiva. Io purtroppo non riesco a farlo per mancanza di tempo, però cerco di impegnarmi perché anche nel mio campo qualcosa si muova». A dimostrazione di ciò c’è anche una risposta curiosa alla domanda: «Chi è il tuo idolo?». Contrariamente a quanto si potrebbe pensare, non è una sportiva, bensì un’artista, Frida Kahlo: «È stata una donna eccezionale, una persona che è riuscita a far diventare i momenti più brutti i trampolini di lancio della sua carriera per me merita rispetto. Lei è una femminista, nel vero senso della parola. La ammiro non solo per il lato artistico ma per la donna che era».
Il Comitato olimpico ha dichiarato che quest’anno a Parigi sarà raggiunta la piena parità di genere in ogni gioco. Nella capitale francese ci sarà anche Irma, qualificatasi con altre tre colleghe: «Vorrei tanto divertirmi a questa Olimpiade, quando lo faccio le cose sono più facili, vengono meglio. Ho lavorato molto bene e continuerò a farlo». ■
1. Il francobollo venduto a Parigi 2024 per celebrare Alice Milliat 2. Irma Testa vince il bronzo. Tokyo 2020. Foto: Fpi«Gli atleti rifugiati combattono anche nella vita»
TAEKWONDO
Hadi Tiranvalipour era presentatore tv e atleta in Iran. Ora «ama alla follia» l'Italia, che l'ha accolto grazie allo sport
Determinato a superare se stesso: così si sta preparando per Parigi 2024 Hadi Tiranvalipour, uno dei due ragazzi che vivono in Italia e che faranno parte del Refugee olympic team, composto da atleti riconosciuti dalle Nazioni Unite come rifugiati.
Nel 2020 è arrivato a Roma dall’Iran, attraverso la Turchia: «La situazione è complicata. Ma è il mio Paese, non voglio solo parlarne male. Ero un presentatore tv lì e ho supportato la libertà delle donne nel programma. Da quel giorno non mi hanno più richiamato», afferma lo sportivo. Si è allenato al centro Giulio Onesti del Coni, nella Capitale, e parteciperà alle gare di taekwondo nella categoria -58 kg, la stessa dell’oro olimpico di Tokyo Vito Dell’Aquila nel 2021.
Hadi non ama parlare del suo passato, ma sottolinea che è stato difficile: «In Iran ho avuto molte medaglie. Ero campione in più competizioni. Poi sono arrivato qui senza nulla, è difficile da sopportare per una sola persona. Mi sono sempre ripetuto che dovevo essere paziente e che i giorni buoni ci sarebbero stati», afferma. Prima di partire, si è iscritto all’università di Tor Vergata:
«Ho pensato fosse una buona idea continuare con la mia istruzione. Era anche la via più facile per il permesso di soggiorno per motivi di studio».
Sono tanti i giovani iraniani arrivati in Italia per studiare e così Hadi decide di chiedere aiuto a loro: «Mi sono portato un po’ di soldi ma ho dovuto gestirli bene all’inizio. Sono stato per dieci giorni in un bosco. Poi ho chiesto a questi ragazzi che conoscevo se mi potessero aiutare e mi hanno trovato un posto letto. Non ho cercato nessuna informazione, ho preso e sono andato. Eravamo dieci persone in una piccola stanza».
Dopo i primi otto mesi in Italia, Hadi continua a pensare al taekwondo: «Sapevo che c’erano molti atleti bravi qui, ma non conoscevo nulla». Decide così di scrivere alla federazione italiana, senza ottenere risultati: «Mi sono detto “Hadi, devi cogliere l’occasione” e sono andato di persona nella loro sede. Non avevano ricevuto la mail, ma quando hanno conosciuto la mia storia, mi hanno subito aiutato» precisa, ringraziando il presidente della federazione taekwondo (Fita) e il ministro dello sport, Andrea Abodi.
Le Olimpiadi sono sempre state un sogno, che l’Italia gli ha permesso di realizzare: «Le persone sono state molto gentili. I miei allenatori e colleghi italiani mi hanno incoraggiato e quindi mi sono candidato. Durante le qualificazioni ho vinto il primo match ma ho perso il secondo. Da quel momento mi sono demotivato. Pensavo solo a cosa avrei potuto fare, l’ho chiesto anche al mio psicologo. Mi ha detto che le risposte non si hanno in un giorno ma in tre mesi o dieci anni. La mia è arrivata dopo un mese».
Una squadra
che non abbraccia da due anni: «Abbiamo un rapporto stretto. Mi ha detto che la devo sentire ogni giorno, almeno per un minuto. È l’unica cosa di cui mi pento: ho perso la mia famiglia e non so se potrò tornare a visitarli. Ogni volta che sono stanco mi concentro su ciò che hanno fatto per me».
Hadi vuole sfruttare al meglio l'occasione: «Non penso solo alle medaglie, perché mi mette pressione addosso. Il mio obiettivo è battere me stesso ogni giorno di più. “Piano piano”, come si dice qui. Non sono soltanto un atleta dei rifugiati, voglio rappresentare tutte le 110 milioni di persone sfollate nel mondo e anche tutti gli iraniani»
Hadi ama «alla follia» l’Italia, ma pensa anche all’Iran: «Mi manca il mio Paese. Proprio l’altro giorno stavo pensando “Se dovessi vincere l’oro, che bandiera dovrò sventolare?”». ■
1. Foto: Federazione italiana taekwondo 1
Nello specifico il 2 maggio 2024, quando il Comitato olimpico internazionale gli comunica di essere tra i 36 atleti del team rifugiati: «Ho iniziato a piangere, mi sono ricordato di ciò che avevo sacrificato. Ho perso il mio Paese, la mia bandiera e la mia casa. Da quando sono arrivato in Italia, mi sono sempre allenato con il team azzurro, anche due volte al giorno. I weekend o il Natale li ho passati in palestra». La prima persona che ha chiamato è stata la mamma,
anche per noi
«Ho deciso di inseguire i miei sogni fuori dall'Iran»
Iman Mahdavi è cresciuto nella provincia di Māzandarān, dove nel 2020 ha lasciato famiglia e amici
Rilassato ma concentrato sulla medaglia d’oro. Questo è l'obiettivo per Parigi 2024 del lottatore Iman Mahdavi, uno dei due ragazzi che vivono in Italia e che faranno parte del Refugee olympic team, composto da atleti riconosciuti dalle Nazioni Unite come rifugiati.
«Data la situazione in Iran ho deciso di seguire i miei sogni altrove. Per questo sono uscito dal Paese ed entrato via terra in Turchia. Dopo venti giorni, ho preso un volo e sono arrivato a Milano a novembre del 2020» dichiara Iman. Cresciuto nella provincia di Māzandarān, inizia a praticare la lotta libera all’età di 15 anni: «Sono nato in una regione in cui tutti sono lottatori. Mio papà amava molto questa disciplina, la praticano tutti in famiglia e quindi ho iniziato da piccolissimo, pesavo solo 32 kg».
Quando è arrivato in Italia ha iniziato ad allenarsi nel Lotta Club Seggiano: «Mi sono detto che l’unica cosa che sapevo fare era lottare e ho continuato su questa strada. Il mio più grande sogno, quello di partecipare alle Olimpiadi, si è realizzato. Sono grato al Comitato olimpico internazionale perché con la squadra dei rifugiati ha dato una possibilità a tutti gli atleti che vivono altrove da soli, lontani dalle loro famiglie e dalla loro casa».
Dopo i primi mesi in Italia, partecipa alle competizioni internazionali come atleta indipendente. Tuttavia, non possedendo un passaporto valido emesso dal Paese di origine, può accedere solo ai tornei organizzati nell'Unione europea o negli Stati che gli consentono l'ingresso per ragioni sportive.
La sua storia è stata discussa anche in una seduta del consiglio comunale di Milano, dove, in presenza del sindaco Beppe Sala, gli è stato dato il sostegno necessario per partecipare alle Olimpiadi 2024.
L’obiettivo di Iman è quello di tornare con la medaglia e, in questi ultimi mesi, ha deciso di spostarsi in Moldavia: «Quando ci si avvicina ai Giochi olimpici, bisogna intensificare gli allenamenti. Sono venuto qui dove si pratica lotta libera ad alti livelli. Ho deciso di spostarmi perché hanno pro-
grammi ancor più intensivi e mi sto allenando tutti i giorni con gli atleti locali. Seguo i consigli dei miei coach e sto pensando all’oro. Devo darmi da fare, ci sono molte persone che hanno fatto tanto per noi», afferma.
I Giochi sono anche una vittoria personale: «Oltre alla medaglia, voglio vivere il vero sentimento delle gare. Da tutto il mondo gli atleti arrivano in un posto unico con amicizia e pace, senza sentirsi superiori agli altri. Le Olimpiadi sono fatte per questo».
«Sono nato in una regione in cui sono tutti lottatori.
Ho iniziato da piccolissimo, pesavo solo 32 kg»
In famiglia il primo ad aver saputo della sua qualificazione con il Refugee olympic team di Parigi 2024 è stato il fratello: «È molto attivo su Instagram e l’ha visto. Ha fatto vedere le foto a nostra mamma, dicendole che sarei partito».
Poco dopo squilla il telefono: «Lei mi ha chiamato subito ed era molto contenta per me, ma anche preoccupata. Io l’ho rassicurata immediatamente, dicendole che da adesso facevo parte di una nuova famiglia», afferma, precisando che non vede l’ora di riabbracciarla.
Iman è emozionato, gli brillano gli occhi quando parla della partecipazione alle Olimpiadi: «Ogni persona ha il piacere di sventolare la bandiera del proprio Paese, della propria terra ed esserne orgoglioso. Purtroppo, per me quest'opportunità non esiste più».
Parigi è un'occasione per mostrare la propria identità: «Parteciperò assieme al team rifugiati e sventolerò la bandiera con la delegazione. Spero che un giorno ogni persona riesca a far vedere i colori del proprio Paese in pace e tranquillità». ■
1. Foto: Olympics refugee team
Il sogno di una donna trans
Il diritto allo sport è uno dei tanti che le persone transgender devono conquistare con non poche difficoltà, ma questo non ha fatto passare a Petrillo la voglia di gareggiare
Una voce gentile e la volontà di parlare di sé senza filtri nonostante il dolore passato. «Ho dovuto abbandonare il mondo sportivo maschile, dove avevo vinto dodici titoli». Così si racconta Valentina Petrillo, che, all’età di cinquanta anni, realizzerà a Parigi il sogno di partecipare alle sue prime Paralimpiadi con la nazionale italiana.
Cresciuta in un quartiere difficile di Napoli, condizionato dalla piaga della droga, e affetta dalla malattia di Stargardt che l’ha resa ipovedente, a sette anni si innamora dell’atletica guardando il suo idolo in tv: «Nel 1980 ho visto Pietro Mennea vincere le Olimpiadi di Mosca sui 200 metri e da lì è partito il mio sogno di indossare la maglia azzurra. Volevo farlo come donna e questa era una grossa complicazione». Fin da piccola sente di non appartenere al suo sesso biologico, ma reprime questa parte di sé, inizia a gareggiare e ad avere buoni risultati, si sposa e ha un figlio.
Nel 2018, però, la maschera che si era imposta di indossare cade: «Lì ho dovuto affrontare la disforia di genere. Nel 2018 ho fatto la mia ultima gara con gli uomini perché non solo non riuscivo più a fingere, ma era come violentare me stessa». Ad attenderla, un lungo processo di scoperta e accettazione di sé. «Può sembrare strano, ma io stessa avevo paura anche per pregiudizio. Forse perché ci viene sempre proposto uno stereotipo sulle persone
trans». Prima il percorso psicologico e poi l’inizio della terapia ormonale la portano a settembre 2020 a tornare in pista nella serie femminile: «Nel 2021 sono diventata la prima atleta trans a vestire i panni della Nazionale e l’anno scorso vincendo due bronzi ai mondiali paralimpici ho guadagnato la possibilità di andare ai prossimi Giochi di Parigi», rivela con grande entusiasmo.
Un desiderio che Valentina racconta in 5 nanomoli: Il sogno olimpico di una donna trans, il docu-film sulla sua lotta per emergere contro il pregiudizio: «Nel documentario si coglie un momento storico particolare perché dal 31 marzo 2023 la World Athletics – federazione internazionale di atletica leggera – ha deciso che le atlete transgender che hanno attraversato la pubertà maschile e hanno poi completato la transizione oltre il dodicesimo anno di età non possono più gareggiare».
L’atletica mondiale, però, non ha giurisdizione su quella paralimpica, regolata dal rispettivo Comitato internazionale, e per questo lei può ancora competere: «Cinque nanomoli per litro non sono altro che la concentrazione limite di testosterone consentita alle atlete che vogliono prendere parte alla categoria femminile. Indipendentemente dal documento d'identità, basta che si rispetti questo parametro biologico che è stato definito tipicamente femminile».
Nonostante ciò, nel marzo 2023, è stata oggetto di minacce e intimidazioni che l’hanno costretta a ritirarsi dai Master indoor in Polonia per motivi di sicurezza. «All’indomani della mia iscrizione è iniziata una vera campagna d’odio nei miei confronti, ho ricevuto insulti via social fino alle minacce di morte».
Un clima che è sempre stato avverso, anche in Italia: «Nello stesso mese, durante i campionati ad Ancona, mi è stato vietato di andare nel bagno delle donne. Sono arrivate lettere di avvocati in cui le altre atlete chiedevano di vietarmi l’accesso agli spogliatoi femminili. Tante volte mi sono detta “ma chi me lo fa fare?”, espormi fino a questo punto per stare male. Ma sono andata avanti anche pensando di poter aiutare altre giovani ragazze. Questo è un po' il mio scopo: quello di dire ad altre che c'è qualcuno che ce l'ha fatta».
Dall’animo scaramantico e da un’intensa voglia di arrivare al traguardo, Valentina vive l’attesa dei Giochi con grande determinazione: «È l'occasione della mia vita, sarà difficile da replicare vista la mia età. Spero che si possa parlare di me non per i soliti binomi negativi che accompagnano le persone trans, ma come atleta. Sono una persona e sono una sportiva». ■
1. La vittoria del bronzo nei 400m al Mondiale paralimpico di atletica. Parigi 2023
«Amour et désordre» a Parigi
La Pride House France, organizzata dall'associazione Fier-Play, celebra la comunità Lgbtq+ alle Olimpiadi e offre un posto sicuro agli atleti queer di tutto il mondo
di Giulia RugoloUn’esplosione di colori vivaci decora ogni angolo del luogo. Le bandiere arcobaleno sventolano con orgoglio appese alle pareti. Ci sono aree lettura con divani e poltrone, schermi televisivi che trasmettono in diretta le competizioni sportive e stand informativi pieni di volantini e gadget. Le persone sono cordiali e sorridenti, molte indossano magliette con messaggi di supporto e solidarietà. Un chiosco è adibito alla zona caffè e una sala è dedicata ai workshop con un microfono al centro, pronto per essere usato durante le sessioni di dialogo.
Una Pride House è uno spazio temporaneo presente ai grandi eventi sportivi per celebrare la comunità Lgbtq+. Quest’anno, le Olimpiadi di Parigi ne ospiteranno una, organizzata dall’associazione Fier-Play. Questi ambienti offrono un posto sicuro dove gli atleti, i fan e gli alleati possono riunirsi, condividere esperienze e promuovere l’uguaglianza e il rispetto nello sport.
«In 64 Paesi del mondo l’omosessualità è ancora un reato punibile con pena di morte, ergastolo e lapidazione», dice Amazin LeThi, prima atleta asiatica queer nel ruolo di Ambassador per la Pride House France. «Partecipanti della comunità Lgbtq+, provenienti da queste nazioni, gareggeranno a Parigi 2024 e avere a disposizione un’iniziativa del genere fornisce loro un faro di speranza. È la possibilità di
essere finalmente se stessi e far sentire la propria voce».
Pianificare delle Olimpiadi che abbiano al centro l’amore per la diversità è fondamentale: «Io dico sempre che scoprirsi per la prima volta è un atto rivoluzionario, che ti cambia la vita. La Francia ha una mentalità aperta, quindi i Giochi saranno inclusivi, senza leggi anti-Lgbtq+ che vietano di indossare simboli arcobaleno o cose simili. Questo è ciò a cui aspiriamo con questo progetto: lasciare un’eredità, anche in vista della prossima edizione».
La rappresentante parla dell’importanza dello sport per ritrovarsi: «Non sarei chi sono oggi se non fosse per lo sport. Mi ha salvato la vita. È un linguaggio che tutti comprendono e possiamo usarlo per incentivare la parità tra individui. Essere una sportiva mi ha dato la fiducia e l’autostima di cui avevo bisogno per accettarmi per quella che sono: queer e vietnamita».
«Non ho ancora mai gareggiato alle Olimpiadi, ma mi sto allenando nel tiro a segno. L'obiettivo è competere per il mio Paese ai Giochi del sud-est asiatico, che si tengono ogni due anni. Questo farebbe di me la prima atleta Lgbtq+ dichiarata del Vietnam. Poi ovviamente si punta a Los Angeles 2028», aggiunge l’Ambassador.
«Aimer c’est du désordre…alors aimons!» (Amare è disordine…quindi amiamo). Questa è la scritta che compare su Le mur des je t’aime a Montmartre - emblema parigino dell’amore espresso in tutte le lingue del mondo - ma la strada verso società in cui ogni “ti amo” è percepito allo stesso modo è ancora lunga. Secondo l’atleta asiatica, non ci resta che «continuare a lavorare per coltivare ambienti sportivi sicuri e accoglienti, affinché tutti possano esprimere la propria identità dentro e fuori dal campo di gioco». ■
Un'arena per la cultura urban
BREAKING
L’allenatore Di
Mauro racconta il percorso
della nazionale italiana
verso Parigi
di Massimo De LaurentiisLa parola “breakdance” fa subito venire in mente musica hip-hop, periferia urbana, abbigliamento streetwear e ribellione alle regole di un mondo “adulto” troppo rigido che limita la creatività. Da quest’anno però, a tutto questo si aggiungeranno divise nazionali e medaglie d’oro, argento e bronzo.
Ai Giochi di Parigi, il breaking (nome ufficiale della breakdance) farà il suo esordio come nuova disciplina olimpica. Trentadue atleti, sedici uomini e sedici donne, si sfideranno uno contro uno il 9 e 10 agosto in Place de la Concorde, nel centro della capitale francese, trasformata in un’arena all’aperto per l’occasione. Anche alcune Bgirls italiane, Antilai Santini, Alessandra Chillemi e Chiara Ceseni, puntano ad assicurarsi un posto tra le ballerine che andranno alle Olimpiadi.
«Il primo obiettivo è arrivare a Parigi», dice Giuseppe Di Mauro, tecnico della nazionale italiana, di ritorno da Shanghai dove le atlete azzurre hanno ottenuto dei buoni risultati nelle Olympic qualifiers series. «Abbiamo l’ultima gara a giugno a Budapest, dopodiché i primi dieci saranno qualificati. Noi adesso
siamo in Top 8 quindi abbiamo delle grosse possibilità».
Giuseppe, in arte Bboy Kacyo, si avvicina al breaking nei primi anni Duemila frequentando la scena culturale hip-hop di Palermo, sua città di origine. «Mio cugino era un rapper conosciuto nell’ambiente e mi portava in giro nelle varie jam locali, è lui che mi ha dato il mio soprannome, da “tocco di cacio”, vista la mia statura», racconta con un sorriso.
«Mi innamorai subito della libertà di espressione di questa disciplina – continua l’allenatore – l’assenza di limiti, la continua evoluzione, la ricerca del proprio passo. Tutto questo mi ha convinto che volevo fare quello nella vita». Da allora la passione non lo ha più abbandonato e negli anni Kacyo è entrato a far parte di diverse crew, ottenendo grandi risultati in competizioni nazionali e internazionali. Nel 2018 arriva il debutto da allenatore, quando accompagna la nazionale alle Olimpiadi giovanili di Buenos Aires. «Quando gareggiavo lo scopo era portare a casa il risultato, poi col tempo ho capito che tramandare qualcosa ai giovani mi rendeva più felice».
Da anni ormai, Di Mauro prepara la squadra seguendo il motto “always a student”, pilastro della sua filosofia fondata sulla formazione continua. «Ci sono ragazzi e ragazze che stanno prendendo tanto da me, la cosa che mi dà più soddisfazione è vedere crescere i miei allievi, che poi proseguono il loro percorso in autonomia».
Del team italiano fanno parte anche atlete già affermate a livello internazionale e nuove promesse in ascesa. La 27enne Antilai Sandrini, campionessa italiana nel 2021, da diversi anni ormai è tra i nomi più conosciuti nell’ambiente, mentre Chiara Ceseni, classe 2007, è l’atleta più giovane in corsa per un posto ai Giochi. «Abbiamo una nuova generazione che sicuramente ci darà delle grosse soddisfazioni – dice l’allenatore – provo a portare la mia esperienza, ma io in primis spesso torno a casa con molti stimoli per crescere. Sono come un padre o un fratello maggiore, cerco di vivere appieno le esperienze con loro ma sullo stesso livello».
Il fermento per luglio e agosto è incontenibile: l’esordio olimpico è accolto con grande entusiasmo da tutti gli appassionati. «C’era bisogno di una
ventata di novità – afferma Kacyo – il breaking è un’attività molto giovanile che porterà dei valori positivi. Il proposito è arrivare alle Olimpiadi e portare la nostra cultura e il nostro modo di fare».
Rispetto a qualche anno fa, la percezione di questa disciplina e la sua diffusione sono cambiati molto. Sempre più competizioni istituzionalizzate e riconoscimento da parte delle federazioni sportive, ma lo spirito e i valori fondamentali sono gli stessi. «Quando ho cominciato io si ballava solo in strada – racconta Giuseppe – era un modo per stare insieme ad altre persone con la stessa passione. Adesso è tutto diverso, però di base l’obiettivo è sempre quello. Ora si parla di Olimpiadi ma non dobbiamo dimenticare le nostre origini: anche ai Giochi lo scopo deve essere stare insieme ad altre persone che fanno quello che ci piace, mantenendo questo senso di appartenenza».
Riguardo alla possibilità che la diffusione di questa subcultura possa in qualche modo snaturarla, Giuseppe risponde: «Ci sarà un’evoluzione come in tutte le cose. Credo che esisterà sempre una corrente commerciale e una underground, ma quella parte di cultura
urban in cui la gente si riconosce non si perderà mai, è la nostra essenza». I Giochi di Parigi si prospettano come una fantastica vetrina per promuovere tutto il movimento. «Sarà un'opportunità per arrivare a più persone, per me è il fine di questo bellissimo viaggio – continua il tecnico degli azzurri – la pressione aumenta, si tratta comunque dei Giochi olimpici, però se lavoriamo prima di tutto per crescere e fare sempre meglio poi arrivano anche i risultati». Dalle strade in periferia fino a Place de la Concorde, le parole d’ordine rimangono rispetto e condivisione.
«Mi sarebbe piaciuto molto gareggiare in un’occasione così importante da ragazzo – conclude Kacyo – però sto dando il mio contributo anche ora e sono comunque molto contento di quello che stiamo facendo». Al di là delle pressioni, al di là di come andrà, i Bboys e le Bgirls sono pronti a dare il meglio di sé nel più grande evento sportivo del mondo, all’interno di una comunità in cui l’appartenenza è più forte della competizione.■
1 e 2. Giuseppe di Mauro e le Bgirls italiane alle Olympic qualifiers series. Foto: Fids
Nuovi sport
Sui muri come Spiderman
Mani salde sulla roccia e sguardo determinato, Matteo Zurloni scala da quando è bambino le maestose Dolomiti. Le estati a Campitello di Fassa, in Trentino, sono un susseguirsi di avventure tra le vette, grazie alle storie del nonno, membro del Club alpino italiano di Cassano D’Adda, si instilla in lui questa passione. Oggi, l’amore per la montagna lo porta ad essere uno dei volti emergenti delle Olimpiadi di Parigi con il record italiano ed europeo. La sua determinazione, coltivata fin dall'infanzia, lo ha trasformato in un atleta di punta, pronto a confrontarsi con i migliori sul pianeta.
«Un giorno, durante una passeggiata, abbiamo visto delle persone che scalavano e mi sono incuriosito. Uno degli arrampicatori, essendo un istruttore della palestra locale, ha detto a mia madre di portarmi a provare. Avevo cinque anni. E così ho iniziato», racconta Matteo. Da quel momento in poi la sua strada è segnata. Tornato a Milano inizia un corso e a soli sette anni partecipa alle sue prime competizioni. Nonostante praticasse anche nuoto, l’arrampicata prende il sopravvento. Nel corso degli anni, Matteo ha perfezionato il suo approccio all’allenamento e alla sfida. Se inizialmente si dedicava a due specialità di arrampicata, Boulder (scalata sui massi) e Lead (basata sulla difficoltà), è solo a sedici anni che scopre la Speed e punta tutto sulla velocità: «Il vero “colpo di fulmine” per questa disciplina è arrivato a diciannove anni, quando ho visto Ludovico Fossali diventare campio -
ne del mondo e partecipare ai Giochi. È lì che ho capito che avrei voluto raggiungere anch’io quei risultati. Da quel momento mi sono concentrato su quello».
Entrare a far parte della squadra delle Fiamme Oro e della Nazionale italiana della Federazione arrampicata sportiva italiana (Fasi) ha permesso a Matteo di progredire rapidamente, focalizzandosi sempre più sulla Speed. Staccare il pass ad agosto 2023 gli ha permesso di prepararsi con calma, anche se il vero allenamento è cominciato a gennaio. «Arrivare da campione del mondo porta grandi aspettative» ammette Matteo, ma rimane umile e realistico riguardo alle sue possibilità, consapevole dei suoi avversari.
«Mi
piacerebbe parlare con Marcell Jacobs.
Anche
lui è un velocista, ma in orizzontale»
«Non ho la presunzione di essere il più forte. Sono molto motivato perché so che sono migliorato rispetto all’ultima volta e non vedo l’ora di confrontarmi con gli atleti più veloci del pianeta». La gara a Parigi rappresenta un’occasione unica per dimostrare il potenziale di questa specialità, che dopo il grande boom di Tokyo 2020 sta conquistando tutti. Il percorso
verso l’eccellenza ha richiesto sacrifici, soprattutto in termini di tempo libero. Tuttavia, Matteo non rimpiange le sue scelte. «Il sacrificio maggiore è stato rinunciare a molte esperienze comuni. Sono contento della vita che ho scelto». Oltre a gareggiare, Matteo studia Scienze motorie, è un appassionato di film Marvel e legge i romanzi di Stephen King. Oltre a questo, si dedica all’insegnamento dell’arrampicata ai più piccoli, un'attività che spera di continuare nel futuro. Il suo obiettivo a lungo termine è contribuire a far crescere questo settore.
Nonostante non abbia un idolo specifico, Matteo ammira tutti i suoi avversari per i loro punti di forza unici. Samuel Watson, detentore del record mondiale, rappresenta sia una fonte di ispirazione che di competizione per lui. «Il mio record personale è 4''95', mentre il record del mondo è 4''79'. L’idea di essere il più veloce sulla terra è affascinante», confida Matteo.
Con la sua preparazione intensa, sia fisica che mentale, e il sostegno della famiglia, della Fasi e della squadra, Matteo Zurloni si avvicina alle Olimpiadi di Parigi con grandi speranze. «Ai Giochi sarò in mezzo a veri e propri giganti di tutti gli sport. Mi piacerebbe parlare con Marcell Jacobs. Anche lui è un velocista, però in orizzontale. Vorrei capire quali sono le sue sensazioni prima della partenza e prendere spunto dalla sua personalità fortissima». ■
Una tavola per girare il mondo
SKATE
Dopo Tokyo, il giovane romano si prepara a sfoderare nuovi trick nella specialità park
di Simone SalvoSneakers e calzettoni bianchi, casco o cappellino targati Red Bull. Se cerchi Alessandro Mazzara, per gli amici Ale, lo trovi allo skatepark ad allenarsi, sei giorni su sette. Vent’anni appena compiuti, la sua passione inizia quasi per caso: «Avevo sette anni ed era il momento in cui i genitori cercavano di indirizzarti verso qualche sport. Ho provato il calcio ma non mi piaceva. Non sopportavo che mi dettassero delle regole. Poi, un giorno, siamo andati con papà allo skatepark di Cinecittà ed è stato subito amore».
Da quel momento Alessandro non riesce più a staccarsi dalla tavola: «Al parco mi divertivo un sacco. Mio padre mi ci portava tutti i pomeriggi dopo scuola. Più tardi, quando ha capito che stavo diventando forte, ha iniziato ad accompagnarmi alle gare in giro per l’Europa».
Il supporto dei genitori, Gaspare e Daniela, è decisivo per il decollo della sua carriera sportiva: «A loro devo tutto. Sono sempre stati i miei fan numero uno e mi hanno insegnato tutti i valori che un padre e una madre dovrebbero trasmetterti. Rappresentano per me una fonte di ispirazione continua».
Da adolescente, Alessandro conduce una vita molto diversa rispetto ai suoi compagni di classe: «Lo sport mi ha portato a girare il mondo già da giovanissimo. Vedere così tanti Paesi e confrontarti con culture diverse ti apre la mente e ti fa crescere».
Per lo skater le ore passate sulla tavola sono sinonimo di «libertà assoluta». Il mondo dell’agonismo prevede, però, costanza e regole ferree. «Qualche anno fa sono arrivati i sacrifici e le responsabilità. Quello che per me era nato come un gioco stava diventando un lavoro vero e proprio». Alessandro si sentiva stanco e gli è più volte «frullata per la testa l’idea di mollare tutto. Solo la carriera agonistica, sia chiaro», aggiunge a scanso di equivoci. «Non ho mai, neanche per un secondo, pensato di accantonare la mia passione per lo skate. Sarà sempre il mio grande amore».
Dopo un «periodo buio» Alessandro è riuscito a trovare il giusto equilibrio: «Ho capito che per continuare a fare questo sport tutta la vita avrei dovuto accettare qualche sacrificio. Se facessi un altro lavoro avrei molto meno tempo per stare sulla tavola e non potrei mai tollerarlo. Oggi sono convintissimo di quello che faccio».
Adesso che fervono i preparativi per Parigi 2024, le giornate di Ale sono «stancanti e a tratti monotone». «Mi sveglio ogni mattina alle 8 per andare in palestra. Faccio una sessione di fisioterapia per lo scarico muscolare e mi alleno allo skatepark per altre due o tre ore». Nelle ultime settimane sta perfezionando i trick più difficili che ha in repertorio. «Ne ho chiuso uno di recente: l’heelflip 540», una variante del flip al contrario, con rotazione aerea di 540°. «È la mia croce e delizia. Mi piace da matti ma mi sta facendo impazzire».
Fuori dalla stagione sportiva, Alessandro ama prendersi delle settimane tutte per sé. Quando ne ha la possibilità torna in Sicilia, la regione in cui è nato e a cui resterà sempre legato. «Adoro godermi un po’ di buon cibo a casa dei nonni o andare al mare con amici e parenti». Talvolta non gli dispiace «starsene tranquillo» nella sua Roma, che a causa degli impegni sportivi non riesce a godersi come vorrebbe.
A chi si sta avvicinando al mondo dello skate Ale consiglia di «tenersi il sogno ben stretto e coltivarlo, nonostante le difficoltà pratiche. In Italia non abbiamo le strutture che hanno all’estero. Non ci sono a Roma, figuriamoci nelle realtà periferiche, come la Sicilia, dove la scena è minuscola. Se inizi a praticare già da piccolo, però, quando cresci potrai trasferirti in un posto più skate-friendly e sarai abbastanza forte da metterti in gioco». ■
1 e 2. Foto: Red Bull Content Pool
Lo schermidore fatto in casa
La passione di Luca Curatoli nasce dai fratelli. Leonardo è suo maestro, Raffaello partecipò a Sydney 2000 mentre la famiglia lo guardava: «Urlavo alla tv per farmi sentire»
Il sorriso orgoglioso, gli occhi ancora brillano nel ricordare la vittoria di metà marzo, decisiva per la qualificazione. Alle Olimpiadi di Parigi, l’Italia di sciabola potrà contare sulle stoccate di Luca Curatoli, che del team azzurro è ormai una colonna. Napoletano, cresciuto nel circolo Posillipo, torna sulle pedane più ambite forte dell’argento a squadre all’edizione di Tokyo 2020: «Fu un’esperienza strana, perché non c’era il pubblico a causa delle restrizioni Covid – ci dice collegato in videochiamata – Stavolta sono già finiti i biglietti, il Grand Palais sarà stracolmo. Se sono in giornata, posso fare una grande gara».
A meno di due mesi dalle Olimpiadi, la pressione si fa sentire, ma Luca la nasconde sotto un’espressione distesa. Con l’ansia ha imparato a fare i conti fin da bambino, quando guardava le imprese dei fratelli, entrambi sciabolatori. Raffaello ha vinto il bronzo a squadre ad Atlanta 1996, Leonardo è suo storico maestro.
La scherma per Curatoli è il ricordo di un pomeriggio di metà settembre 2000. A sei anni, in vacanza con la famiglia a Roccaraso, sulle montagne abruzzesi, fa il tifo davanti alla tv per Raffy, in gara ai Giochi di Sydney: «Urlavo nella speranza che mi sentisse. Durante i pranzi con i parenti mi divertivo a simulare la mia premiazione: la sedia era il podio su cui salivo per ricevere la medaglia. I miei genitori mi avvertivano: “Non è detto che arriverai alle Olimpiadi. Tuo fratello ha fatto un'impresa”. Invece ci sono riuscito». L’argento a squadre conquistato a Tokyo è la chiusura di un cerchio che Luca aveva aperto sei anni prima, vincendo con l’Italia i Mondiali di sciabola a Mosca. L’ultima nazionale a riuscirci, nel 1995, era stata proprio quella di Raffaello.
Il carattere esuberante, prima ancora della tradizione familiare, lo ha avvicinato alla sciabola, che fra le tre discipline della scherma è quella più dinamica. A differenza di fioretto e spada, la lama dell’arma è tutta
elettrica, basta sfiorare l’avversario per primi per far punto. Si può colpire di punta, taglio e controtaglio, dalla cinta in su, braccia e testa comprese. «È uno sport che comporta un movimento molto rapido – dice Luca – la preparazione atletica è paragonabile a quella per i cento metri: un impulso molto forte a breve termine». In un attimo si deve decidere la stoccata e prevedere quella dello sfidante. «Un assalto dura al massimo dieci minuti, ma a me sembra sempre un’eternità!» confida lo schermidore napoletano. Sulla pedana il tempo si dilata, una minima distrazione può indirizzare la sfida, è un grande sforzo mentale oltre che fisico. «Ma quando abbasso la maschera, tutte le tensioni spariscono», continua «sono consapevole del lavoro che ho fatto e ciò mi rende molto spavaldo».
Sicuro di sé, grintoso e votato all’attacco anche nelle sfide fuori dalla pedana. Mancano solo tre esami per diventare dottore in Giurisprudenza all’università Luiss di Roma. Un percorso parallelo a quello sportivo, che aiuta Luca a scaricare la tensione prima e dopo ogni allenamento. «Non è un caso se le gare andate meglio sono combaciate con un periodo di studio intenso. Due strade che non si incontrano, ma con lo stesso obiettivo. In fondo, l’esame è come una gara, la laurea come un’Olimpiade».
L’avvicinamento della squadra azzurra a Parigi 2024 non è stato senza ostacoli. Due pilastri del gruppo hanno lasciato. Aldo Montano, il capitano, ormai quarantacinquenne, dopo cinque partecipazioni, seguirà i ragazzi dagli spalti, mentre Enrico Berrè, un grande amico di Luca, è stato fermato da un grave infortunio al ginocchio. Curatoli ne ha subito raccolto l’eredità, conquistando l’argento nella Coppa del mondo di Budapest, a fine marzo. I Giochi, però, sono diversi dalle altre competizioni. «La preparazione è meticolosa, la differenza la faranno dettaglio e lucidità – continua l’at-
leta delle Fiamme Oro – Spesso vanno bene gli outsider, quelli che non hanno nulla da perdere. Puoi arrivare da numero uno al mondo o da numero trenta, c'è una possibilità per tutti».
A livello individuale, Tokyo non ha regalato gioie, nonostante il terzo posto nel ranking internazionale. Stavolta, partire dalle retrovie potrebbe essere un vantaggio. E poi c’è la gara a squadre: «Vogliamo salire sul podio e cercare di migliorare l’ultimo risultato, anche se sarà difficile: sopra l’argento resta solo l’oro!».
Nell’allenamento quotidiano conta tutto, le sedute in palestra, la dieta controllata e il riposo. A Napoli ogni giorno è una sfida,
perché «non ci sono strutture all’avanguardia, ma questo è un mio punto di forza: non avere tutto a portata di mano e doverlo conquistare insegna la cultura del lavoro». Lo schermidore divide le sue giornate fra la palestra di Massa di Somma, alle porte del capoluogo partenopeo, e quella della scuola militare della Nunziatella: «Se fai quaranta minuti di macchina, sai che devi dare il 100%. È un aspetto che mi fa arrivare in pedana con più fame».
Nel racconto di Luca, la famiglia è una presenza costante. La classe dei fratelli non è mai stata un peso, i genitori lo hanno lasciato libero di scegliere la sua strada. Ventiquattro anni fa, fu la madre a portarlo al primo allenamento di scherma, dopo avergli fatto provare tutti gli sport nautici. Raffaello è il modello a cui guardare, Leonardo il maestro che lo segue fin dagli esordi. Il loro è un legame speciale, che si percepisce in gara. Sia dopo il colpo vincente sia in un momento di crisi, in cui è più difficile ribaltare la sfida, Luca si volta e cerca con gli occhi il sostegno di chi lo conosce meglio di chiunque altro.
Al quindicesimo punto, quello decisivo, la mente va a tutte le persone che hanno contribuito al successo. La vita di un’atleta è piena di rinunce, Luca non le vive come sacrifici, ma come passaggi per conquistare la gioia più grande: «Sono fortunato, ho reso la mia passione il lavoro della vita. Mi sento come il bambino che sogna di fare l’astronauta e poi ci riesce davvero». ■
Underdog
Nato per non sbagliare un colpo
Classe 2001, Federico Maldini entra in poligono di tiro ad appena 13 anni
A Parigi, Federico Nilo Maldini vivrà i suoi primi Giochi olimpici. Nato a Bologna nel 2001, si arruola tra le fila dei Carabinieri nel 2020, quando la pistola ad aria compressa è già da tempo la sua alleata più preziosa. Ha appena 13 anni quando entra per la prima volta in un poligono di tiro. Da lì, una storia d’amore che continua ancora oggi. «Ho cominciato da un “porte aperte” organizzato dal tiro a segno di Bologna, dove facevano provare tutti i ragazzini dai 10 ai 18 anni», racconta ripercorrendo i suoi primi passi.
Il tiro a segno, spiega, non è mai stata la sua prima scelta: «Venivo da un anno in cui non avevo praticato nessuno sport. L’anno precedente avevo fatto pallamano, ma non gradivo l’ambiente. Ancora prima avevo praticato pallacanestro per tre anni e nuoto da bambino, ma non mi piacevano. Col tiro a segno invece mi divertivo, c’era un bell’ambiente, il che fa tanto, soprattutto quando hai 13 anni». Anche perché, ammette, la pistola ad aria compressa
rischia di non sembrare troppo “attraente” a un giovanissimo: «È uno sport meno movimentato e “divertente” rispetto ad altri, conta molto la tranquillità e la concentrazione, è un po’ più serio».
Ed è proprio questa staticità a segnare la differenza tra il tiro a segno e le specialità olimpiche più seguite: «Nel nuoto, come negli altri sport, si può sfogare la tensione con il movimento – spiega il 23enne - Nel tiro a segno invece non si possono sfogare le emozioni in nessun modo, perché ti giocano contro». Il segreto, più che imparare a gestirle, è «provare a rendere quelle sensazioni sgradevoli più piacevoli». «Bisogna ripetersi, quando si è in gara, che quello è ciò che ci piace fare, che è il nostro sport e che quindi, anche se proviamo emozioni spiacevoli, siamo lì per un bel motivo», aggiunge.
Gli occhi oggi sono puntati sulle Olimpiadi di Parigi, il palcoscenico più prestigioso che abbia mai calcato. «Degli altri sport vengono seguiti anche Mondiali ed Europei, noi invece veniamo visti poco e raramente, se non quando arrivano i Giochi olimpici – dice Nilo Maldini – sono molto emozionato all’idea di prendere parte a quello che è il sogno di tutti gli atleti».
Grande l’entusiasmo di amici e parenti per questo appuntamento: «Sono tutti
molto contenti ed emozionati, più su di giri di me. I miei genitori volevano venire, ma gliel’ho sconsigliato. Non ci saranno i biglietti, né lo spazio per il pubblico. Tra l’altro non siamo a Parigi, ma a tre ore di macchina, al poligono di tiro di Châteauroux», riflette l’atleta classe 2001. Nessun obiettivo in particolare, «non voglio troppe aspettative - ammette – anche perché si tratta di una gara difficile rispetto alle altre, sarà tutto nuovo, non so bene cosa aspettarmi». L’unica certezza è che la partenza ha già il sapore di una vittoria e l’approdo a Parigi di un traguardo raggiunto.■
La racchetta col tocco di piuma
Giovanni Toti è il primo azzurro del badminton a essersi qualificato nel torneo maschile dei Giochi
di Gabriele Ragnini
Non sarà una medaglia, ma per Giovanni Toti la qualificazione alle Olimpiadi ha due facce. Ansia e liberazione, vissute entrambe in Perù, dove era andato a trovare la fidanzata Fernanda per godersi il traguardo e staccare da tutto, tranne che dal telefono: «Mi hanno chiamato per dirmi che c’era stato un errore della federazione mondiale. Avevano sbagliato a calcolare i punteggi, non ero ancora dentro». Forse avrebbe fatto meglio a non rispondere.
E pensare che prima di partire aveva ricevuto una chiamata dal tono del tutto diverso. La voce è quella di Carlo Beninati, presidente della federazione italiana di badminton: «Hai fatto la storia del nostro sport!», Giovanni ha appena scoperto che a 23 anni sarà il primo azzurro della sua disciplina a partecipare al torneo maschile dei Giochi. «Mio padre mi stava accompagnando in aeroporto, ero così incontenibile che stavamo per schiantarci sul guardrail. Il volo durava 12 ore, ho trascorso le prime quattro a guardare i video delle partite e le foto dei tornei».
Passano le settimane e durante il viaggio riceve la brutta notizia. «Una cosa assurda: non so se per un errore del software
o altro, i giocatori minori erano entrati in tornei di alto livello. Il ranking era sballato, così hanno cancellato alcune settimane dal calcolo dei punteggi. C’era quella in cui avevo raggiunto la semifinale al Challenger di El Salvador. Non mi restavano più tornei per recuperare». Anche davanti ai problemi, però, ha imparato a essere leggero. Un po’ come un volano. «Appena messo giù il telefono, ho guardato la mia ragazza: “Ma non mi rompano le scatole, sono in vacanza”».
Sembrava essere fuori dai Giochi, o almeno dalla prima parte dei qualificati. Ma la rinuncia di un giocatore australiano gli ha consentito di scalare fase. «La cosa che mi ha dato più fastidio è che in molti mi abbiano definito “ripescato”. Si trattava solo di un’altra tranche». Una situazione simile a quella che gli è capitata nel 2018, prima di vincere l’oro durante le Olimpiadi giovanili a Buenos Aires. Se il feeling è lo stesso di quello provato in Argentina, può incrociare le dita: «Per scaramanzia meglio non dire niente. Ma queste sensazioni mi hanno riportato lì». Di certo adesso può vantare una mentalità più matura. «Prima stavo male all’idea di cosa potessero pensare le persone sugli spalti. Arrivavo a spaccare le racchette».
E pensare che per Toti è tutto nato a causa di un’esigenza di famiglia. «Fino ai dodici anni ho giocato a tennis, però costava troppo. Mia madre mi disse “Giovanni, devi trovarti un altro sport”. All’inizio era contenta: “Hai scelto lo sport perfetto”. Racchette e iscrizione erano davvero economiche». Ma il professionismo porta
anche rogne. «Le spese sono tornate alte. Ormai dice che potevamo continuare col tennis». Tertium datur, perché in realtà c’era una terza via agonistica. Dal tocco di piuma necessario nel badminton, spesso Giovanni passava alle botte coi guantoni. «A partire dai tredici anni ho praticato boxe in parallelo. Mi ha fatto sentire più spavaldo anche con la racchetta in mano».
Rappresenterà il centro sportivo esercito italiano a Parigi, dove porterà con sé «mamma e papà, forse anche mia sorella. Nonno invece no, ha paura dell’aereo, ma mi seguirà da casa». E di sicuro in valigia non potrà mancare una lettera speciale, fissata dalla spilla ufficiale delle Olimpiadi: «In realtà è datata 11 marzo. Non mi ero ancora qualificato, me l’ha regalata la mia ragazza mentre affrontavo un momento difficile».
Anche lei gioca a badminton, seppur dall’altra parte del mondo. «Condividiamo un ciondolo, c’è scritto “cerca con el corazón”, significa “vicini col cuore”. Lo bacio sempre prima di andare a dormire». Fernanda e Giovanni talvolta si ritrovano sotto rete, un po’ come Lady Cocca e Marion, la gallina e la volpe della trasposizione animata a firma Disney di Robin Hood, famose per aver reso il badminton popolare in occidente. «È lei il mio vero portafortuna», Giovanni sorride ogni volta che la menziona. Chissà che il binomio vincente non si ripeta nella vita reale, in Italia o in Perù, magari staccando il telefono la prossima volta. ■
1 . Foto: Fiba
Un doppio carpiato dalla Danimarca alla Francia
Larsen è nato a Copenaghen, ma ha scelto di vestire l'azzurro nel 2018
Squilla il telefono. «Pronto, Andre. Ho visto la gara, mi dispiace per com’è andata». Silenzio. «Papà, ma per cosa? Guarda che sono qualificato per Parigi». Se la ricorda bene quella chiamata Andreas Sargent Larsen. Era ai Mondiali di tuffi a Doha, il 10 febbraio del 2024. Era arrivato appena quindicesimo nella semifinale dai dieci metri, un risultato che però gli ha permesso di conquistare il primo pass olimpico della sua vita.
Per essere l’esordio, riesce a restare calmo. Lo era stato anche dopo la gara. Nessuna festa da far perdere la testa, soltanto un altro tuffo, stavolta sul letto della stanza d’albergo. «Ero felice ma sfinito, volevo riposarmi». Bisogna sapere come funziona un evento del genere per capire tutta la stanchezza accumulata: «Devi stare concentrato cinque ore e ti butti ogni cinquanta minuti. Non è facile da gestire, perché, se sbagli all’inizio, dopo pensi soltanto a come recuperare». Piccola pausa, poi la frase più sincera, accompagnata da una risata: «È uno sport un po’ stronzo».
sul bordo della piscina nel Circolo Canottieri Aniene, a Roma, dove si allena ogni giorno, mattina e pomeriggio, in vista dei Giochi. Si è concesso le uniche vacanze durante le feste di Pasqua, per vedere la sua famiglia. D’altronde, era tornato in vasca persino poche ore dopo la qualificazione olimpica, perché preferiva «rimanere concentrato». È qui che più si notano le sue radici danesi. Il rigore e la freddezza trasmessi da mamma Sofi, che a differenza di papà Jesper non lo ha visto gareggiare quando era a Doha. Nessuna dimenticanza, «semplicemente non le piacciono i tuffi perché le mettono ansia». Un sorriso precede l’aneddoto del 2022: «C’erano gli Europei a Roma. I miei genitori erano sugli spalti, ma mio padre mi ha raccontato che lei non riusciva a guardarmi, si girava». E non sembra esserci speranza neanche per luglio: «Hanno comprato i biglietti, ma so già come andrà…».
Fra momenti divertenti e situazioni più serie, Andreas va fiero del rapporto con la famiglia. Torna indietro al 2018, quando aveva diciannove anni. Viveva ancora a Copenaghen, la città in cui è nato, e aveva smesso di tuffarsi da due anni. Una decisione presa a malincuore, perché «lì non conta molto, mi pagavo anche le trasferte». Qualcuno, però, lo aveva notato da ragazzo, quando aveva brillato nelle giovanili, vincendo anche il Mondiale nel 2014 con la Danimarca. Era l’allenatrice Benedetta Molaioli, che venuta a conoscenza della sua doppia nazionalità lo avedi Lorenzo Pace
va invitato a trasferirsi in Italia, per credere in quello sport. «Se vuoi andare, vai. Noi rimarremo qui», lo hanno tranquillizzato papà e mamma. Dopo una settimana di prova, Andreas ha accettato l’invito della donna che ancora oggi lo guida negli allenamenti e si è trasferito.
Sono passati sei anni, iniziati con qualche difficoltà per il lungo stop. «Mi sentivo indietro, sono stato penalizzato in alcune gare. Ma oggi non sento più questo svantaggio». A venticinque anni, può competere con chiunque, con la fortuna di non avere troppe pressioni ai Giochi: «Non vado a Parigi per giocarmi una medaglia. In quel caso sarei in ansia anche io».
Andreas ripensa a quei momenti di febbraio mentre passa la sua pausa pranzo
Uno stato emotivo che bisogna cercare di evitare. Sia adesso sia sulla piattaforma, a dieci metri dall’acqua, dove «sennò ti tuffi facendo il contrario di quello che avevi preparato». Anche sentirsi dire che saranno le prime Olimpiadi non deve creare panico, ma sentimenti positivi: «Non ci penso più di tanto, forse ancora non l’ho realizzato davvero. So solo che me le voglio godere, devono essere belle. Non vedo l’ora di essere lì». I genitori ci saranno, anche se lui non potrà dedicargli troppo tempo durante gli eventi. Si rifarà dopo che la fiaccola verrà spenta, perché in programma ha un mese di vacanza a casa, nella sua Copenaghen, dove preferisce stare. Male che vada, se mamma e papà vorranno un racconto in tempo reale, si ricorrerà alle chiamate dopo le gare. ■
La superatleta tuttofare tra piscina, equitazione e pedana
PENTATHLON
Micheli è pronta per gli ultimi Giochi con la corsa sui cavalli tra le discipline
di Elisa Vannozzi
Elena Micheli esce dalla piscina con un sorriso che parla di passione e dedizione. È qui che l’amore per il pentathlon ha preso forma, in un centro sportivo vicino a casa, dove un istruttore stava aprendo una nuova società, la Ss Lazio Pentathlon Moderno. «Questo sport ha contagiato tutta la famiglia», racconta. «Da sfegatati tifosi laziali ci siamo subito iscritti e da quel momento in poi non ce ne siamo più allontanati».
L'atleta romana, classe 1999, ha conquistato lo scorso giugno la sua prima vittoria in una finale di Coppa del Mondo, ottenendo ad Ankara, in Turchia, il pass nominale per le Olimpiadi di Parigi. Il risultato, raggiunto prima del previsto, le ha permesso di gestire l'avvicinamento ai Giochi con serenità e senza pressioni eccessive. «La qualificazione ha scatenato in me e nello staff l’entusiasmo di allenarmi per un appuntamento tanto importante con largo anticipo», dice Elena, «lavorando al meglio per esprimere tutte le mie capacità».
La preparazione per Parigi è rigorosa. Elena alterna allenamenti fisici e tecnici,
dedicando le mattine al nuoto e al tiro, e i pomeriggi alla scherma e alla corsa. «La mia routine quotidiana è piena, con qualche momento di riposo tra uno sport e l’altro», spiega. «Vivo ogni giorno cercando di gestire le energie e incanalarle nel giusto modo per lavorare al meglio in ciascuna disciplina, lasciando anche del tempo da dedicare a me stessa e alle persone a cui voglio bene».
Quando ripensa a Tokyo 2020, Micheli descrive un'esperienza agrodolce. «È stata bellissima e tragica allo stesso tempo. Si è disputata durante il Covid, senza pubblico e con strutture meravigliose, ma terribilmente vuote». A compromettere la gara è stato un percorso di equitazione: «Non mi sono sentita a mio agio, un po’ presa dall’emozione e sprovvista dei giusti mezzi per affrontarlo. Rimarrà nel mio cuore comunque, come la prima Olimpiade, piena di gioia nel vivere un sogno condiviso da tutti i migliori atleti al mondo».
Fonte di ispirazione per lei è il compagno Pier Paolo Petroni, anche lui pentatleta olimpico. «Non ha mai cambiato modo di essere, né con gli altri né davanti allo specchio, ha saputo affrontare i dispiaceri più grandi». La sua carriera, caratterizzata da grandi potenzialità e sfide difficili, è un esempio di resilienza e integrità. «È lui che mi dà la forza ogni giorno, non solo incoraggiandomi e standomi vicino, ma pretendendo il meglio da sé. È ciò che mi stimola a fare lo stesso». Fra gli atleti che
ammira, Micheli cita Novak Djokovic per la tenacia e Jannik Sinner per il carattere e il talento in ascesa.
La decisione di eliminare l’equitazione dalle future edizioni olimpiche del pentathlon moderno è «un colpo al cuore». Le discipline dei Giochi di Los Angeles 2028 saranno, infatti, la scherma, il nuoto, il tiro a segno, la corsa e la obstacle course race, un breve percorso a ostacoli da superare nel minor tempo possibile. «Credo che l’equitazione sia la più affascinante», afferma, nonostante i suoi punti di forza siano la corsa e il nuoto. «Adoro i cavalli e gareggiare con loro. Non poterlo più fare significherà non praticare più lo stesso sport che ho amato, amo e amerò, proprio come era stato concepito da de Coubertin».
Fuori dalle competizioni, Elena adora la montagna, fin dall'infanzia: «Mi manca mettere gli sci ai piedi, non vedo l'ora di riprendere dopo Parigi». La lettura è un altro dei suoi piaceri, un momento di tranquillità tra gli allenamenti serrati. Tra dieci anni, Elena si immagina lontana dalle gare, già avviata verso una nuova carriera lavorativa dopo aver completato gli studi universitari. «Forse avrò smesso di fare l’atleta o sarò in dirittura d’arrivo. Vorrei una famiglia e una vita da mamma assieme al mio compagno». Con la stessa determinazione che la guida nel pentathlon, Micheli guarda avanti, pronta a vivere ogni sfida e gioia che il futuro le riserva. ■
Doping
Il volto «mostruoso» del sistema
TENTAZIONI
Dalla stricnina e i primi controlli sugli atleti al caso Alex Schwazer. L'ex allenatore
Sandro Donati e Daniele Garozzo, campione olimpico nel 2016, raccontano la piaga dello sport
di Nicole SaittaÈ il 1904 quando, a Saint Louis, il maratoneta statunitense Thomas Hicks arriva al traguardo con iniezioni di stricnina, una sostanza stimolante usata per migliorare le prestazioni. Più tardi, a Roma nel 1960, il ciclista danese Knud Enemark Jensen muore, ma tutto tace nonostante l’esito dell’autopsia che conferma la presenza di stimolanti e alcol nel corpo. In Francia, cinque anni dopo, nel 1965, muore in diretta televisiva il campione del mondo di ciclismo Thomas Simpson in circostanze sospette.
È solo a quel punto che le massime istituzioni sportive internazionali sembrano accorgersi del fenomeno del doping, l'uso di sostanze o metodi illeciti per migliorare artificialmente le prestazioni. In quell’anno si inizia a parlare di controlli antidoping, ma solo a partire dagli anni 2000 viene istituita la legge
376 attraverso la quale il ministero della Salute si vede assegnare il compito di effettuare i test e di ispezionarne e dirigerne i laboratori.
«Questi controlli sono stati effettuati dal ministero per alcuni anni, ma in virtù di accordi politici, esso non poteva fare altro che svolgerli solo sui praticanti amatoriali, mentre gli veniva impedito dalle stesse autorità governative di controllare gli sportivi di alto livello». Così, l’allenatore di atletica leggera di numerosi campioni olimpici e maestro dello sport Sandro Donati racconta il sistema antidoping italiano e mondiale.
L’utilizzo di queste sostanze è datato, ma la regolamentazione è arrivata con diversi anni di ritardo. I controlli antidoping sono stati infatti istituiti in quegli anni ma solo sugli stimolanti, anche se,
nel frattempo, si erano ormai diffusi da diverso tempo gli steroidi anabolizzanti, sostanze ancora più potenti capaci di favorire la crescita della massa muscolare e di aumentare la forza e l’energia. «I gestori dell’antidoping solo a metà degli anni ’70 sembrerebbero essersi accorti dell’utilizzo degli anabolizzanti ma, nel frattempo, il mondo dello sport aveva 40 anni di convivenza con questi e quindi ne era assuefatto», continua Donati, che nel corso della sua carriera si è battuto personalmente per questa battaglia. «La storia del sistema antidoping ha sempre visto ritardi di 10, 15, 30 anni dall’apparizione di un nuovo farmaco o di una nuova metodica».
Un altro esempio è infatti l’emodoping, un sistema di autoemotrasfusione capace di incrementare il numero di globuli rossi nel sangue e, di conseguenza,
di assicurare una maggiore disponibilità di ossigeno ai muscoli, aumentando quindi le prestazioni dell’atleta. Questa procedura si sviluppa nei primi anni ’70 tra gli atleti di resistenza (ciclisti in primis), ma si è rilevata solo a metà degli anni ’90, con un ventennio di ritardo, quando si era già scoperta un’altra sostanza, l’eritropoietina, un ormone con la stessa finalità dell’autoemotrasfusione.
«Il sistema antidoping ha sempre visto ritardi di 10, 15, 30 anni dall’apparizione di un nuovo farmaco»
«Questi sistemi sono stati messi apparentemente fuorilegge in Italia perché io stesso un giorno sono andato in Parlamento a riferire queste problematiche. Solo a quel punto è stata predisposta un’interpellanza per il ministro della salute che all’epoca era Costantino Degan, il quale ha stabilito con un decreto l’utilizzo esclusivo dell’eritropoietina per i malati». Secondo Donati, la storia delle istituzioni antidoping è metodicamente in ritardo e ciò dimostra che «per loro l’antidoping è un potere da tenere stretto in mano in modo che non venga gestito da organismi esterni che l’avrebbero magari usato sul serio». L’allenatore racconta che la lotta al doping è stata ostacolata da attività di facciata e insabbiamenti di vicende gravi.
«Il caso Schwazer è la faccia mostruosa del sistema». Alex Schwazer, campione di marcia ai Giochi olimpici di Pechino del 2008, ricevette una squalifica nel 2012 della durata di tre anni e sei mesi a seguito di un controllo a sorpresa da parte dell’Agenzia mondiale antidoping. Quando nel 2015 tornò ad allenarsi, Sandro Donati fu il suo maestro ma, nello stesso anno, durante le Olimpiadi di Rio De Janeiro, venne squalificato nuovamente per doping, questa volta per otto anni.
«Ci sono stati quattro anni di indagini da parte del Tribunale con decine e decine di analisi approfondite e accuratissime svolte in presenza dei periti di parte, al termine delle quali il perito del giudice e poi il giudice stesso hanno affermato, in maniera chiara, che l’atleta non si era dopato e che la sua urina, con un’altissima probabilità prossima alla certezza, era stata manipolata allo scopo di infamarlo e di infamare anche me che ero il suo allenatore». Le Olimpiadi di Parigi 2024 sono rimaste un obiettivo irraggiungibile per Schwazer a causa della World anti-doping agency (Wada) che non gli ha permesso di accorciare la squalifica la cui data di scadenza era fissata a 19 giorni dall’inizio dei Giochi.
Una storia simile è quella di Andrea Baldini, schermidore che prima delle olimpiadi del 2008 risultò positivo alla furosemide, un diuretico finalizzato a mascherare il ricorso ad altri farmaci dopanti che però l’atleta aveva assunto in maniera involontaria «a causa di qualcuno che voleva farlo fuori dalla compe-
tizione». Lo racconta Daniele Garozzo, ex schermidore, campione olimpico nel 2016 e medico sportivo.
Per lui, lo stigma sociale attorno la questione del doping sarebbe eccessiva: «Bisognerebbe anche capire quali sono le ragioni per le quali un ragazzo si dopa. Tante volte, penso al ciclismo, è veramente una consuetudine di gruppo che diventa naturale. Altre volte può nascondere una fragilità, una debolezza. Chissà se Schwazer ha avuto una persona che in quegli anni gli aveva fatto capire che vincere una gara è importante ma non è tutto». ■
Attimi, persone e storie
CULTURA
Da Omero fino ai nostri giorni, le Olimpiadi non sono state solo un evento sportivo, ma parte della nostra vita
Il sacro vate,/placando quelle afflitte alme col canto,/i prenci argivi eternerà per quante/abbraccia terre il gran padre Oceàno. Nessuno potrebbe spiegare il ruolo della poesia meglio di Ugo Foscolo (1778-1827) nel carmen Dei sepolcri: tramandare un racconto, consegnare all’eternità una persona. E chi, se non Omero (il sacro vate), poteva essere preso come modello di riferimento: Iliade e Odissea, poemi epici, hanno reso immortali Ettore, Achille e Agamennone.
Il poeta lirico Pindaro, VI-V secolo a.C., è infatti autore di epinici, canti composti per celebrare i vincitori delle grandi gare panelleniche. La vittoria del singolo è sentita come qualcosa che coinvolge la collettività nel suo insieme. Le Olimpiadi antiche furono celebrate fino al 393 d.C., anno in cui l’imperatore romano Teodosio ne decretò la fine in quanto manifestazione pagana. Tredici anni prima, l’editto di Tessalonica ha imposto il cristianesimo come religione di stato.
di Alessandro Villari
Forse non sono in tanti a sapere che il cantore di Chio è stato anche il primo a descrivere una competizione sportiva. È stata organizzata per onorare la memoria di Patroclo, soldato mirmidone, cugino e amante di Achille, morto durante l’assedio alla città di Troia: corsa con i carri, pugilato, lotta, corsa a piedi, duello con lancia, lancio del disco, del giavellotto e tiro con l’arco sono le gare disputate. Anche la guerra si interrompe per il rispetto del lutto e della competizione sportiva. Da quel momento, la nascita dei Giochi olimpici nel 776 a.C. è stata seguita da una letteratura per esaltare gli atleti e la grande polis eponima, Olimpia.
Sono riprese nel 1896 e da allora, ogni quattro anni, si è ricominciato a raccontarle per mezzo di libri e film, intenti a raccogliere attimi, gare e racconti da consegnare alla Storia. Perché non si tratta solo di descrivere un evento sportivo, ma di interpretarlo e contestualizzarlo all’interno della rispettiva sfera sociale.
Il saggio Breve storia delle Olimpiadi. Lo sport, la politica da de Coubertin a oggi consente al professore di Storia contemporanea all’Università di Trento, Umberto Tulli, di tracciare un percorso
che va dalla decisione del barone francese di far ricominciare le competizioni ad Atene nel 1896 fino a quelle di Londra del 2012. L’autore mette insieme politica internazionale e sport per arrivare a individuare i Giochi come uno strumento utile a comprendere i meccanismi del mondo in cui viviamo tra record ginnici, propaganda, doping e boicottaggi.
Proprio di questo parla il romanzo di Manuel Vázquez Montalbán Sabotaggio olimpico. Durante Barcellona 1992, il Comitato internazionale olimpico (Cio) chiede all’investigatore privato e protagonista Carvalho di indagare su un tentativo di boicottaggio tra situazioni paradossali e fantasia per descrivere il mondo dopo il crollo del Muro di Berlino. Alcuni sportivi sono stati rapiti, molti atleti bianchi prendono farmaci per diventare neri, il presidente americano Bush sta per bombardare la capitale della Catalogna confondendola con l’irachena Baghdad, mentre il Papa Giovanni Paolo II si aggira per la città travestito da lanciatrice di giavellotto.
Dallo sport alla storia, dal libro al film. A partire dal XX secolo, anche il cinema decide di ritrarre alcuni momenti
significativi dei Giochi. Indimenticabile è Momenti di gloria: quattro Oscar per il film di Hug Hudson che racconta la storia di alcuni universitari di Cambridge alle Olimpiadi del 1924 a Parigi e, in particolare, di due ragazzi, Eric Liddell e Harold Abrahams, uno ebreo e l’altro cristiano, uniti da una forte amicizia. Liddell scopre che la gara di qualificazione dei 100 metri sarà di domenica e, dal momento che quel giorno è dedicato al Signore, non vuole partecipare. Un compagno però gli cede il suo posto per la qualificazione alla corsa dei 400 metri, permettendogli di vincere l’oro. Abrahams, invece, lo conquista nei cento. Olympia di Leni Riefenstahl ritrae i Giochi di Berlino 1936 e anche l’afroamericano Jesse Owens, vincitore di quattro ori olimpici sotto gli occhi del Führer Adolf Hitler.
Tutte le tappe del Novecento sono state rappresentate sul grande schermo. Unbroken di Angelina Jolie mette in scena la vita di un atleta olimpico che presta servizio nell’aviazione americana ed è catturato dai giapponesi durante la Seconda guerra mondiale. Children of Glory di Krisztina Goda, raccontando le Olimpiadi di Melbourne del 1956,
parla della rivolta in Ungheria mentre Munich di Steven Spielberg ricorda quelle del 1972, quando a Monaco furono assassinati undici atleti israeliani.
Il film Wilma di Bud Greenspan racconta, invece, di Wilma Rudolph e della sua storia d’amore vera o presunta con Livio Berruti alle Olimpiadi di Roma del 1960. La foto di loro due presi per mano ha fatto scandalo: sono passati solo cinque anni da quando Rosa Parks in Alabama è stata arrestata per non aver lasciato il posto a un bianco sull’autobus.
In principio, l’agone riguardava atleti che gareggiavano per ottenere la palma della vittoria. Poi, il concetto di competizione è scivolato nel campo della politica, a partire dalla prima sofistica di età ellenistica, e si è esteso a tutto il mondo che ci circonda. Ogni pratica del vivere quotidiano si trasforma in una gara per primeggiare: la vittoria, da scopo e obiettivo personale per la gloria, diventa strumento giornaliero di valutazione singola e sociale.
In ogni momento c’è una battaglia per dimostrarsi migliori: non conta vincere per sé, l’importante è superare gli altri. La metamorfosi agonale è al centro dell’ultimo libro di Stefano Bartezzaghi Chi vince non sa cosa si perde. Agonismo, gioco, guerra, in cui si affronta il tema della vittoria come unità di misura del valore della persona.
Nel 2023 la squadra dei Milwaukee Bucks ha perso al primo turno dei playoff Nba, massima serie di basket americano, contro i Miami Heat. Un giornalista ha chiesto al giocatore greco Giannis Antetokoumpo, premiato come miglior giocatore della stagione 2019-2020, se considerasse fallimentare l’intera stagione sportiva. La risposta è da manuale: «Michael Jordan ha giocato per quindici anni e ha vinto sei volte il titolo Nba. Vuol dire che gli altri nove anni sono stati un insuccesso? Questo è lo sport: non devi sempre vincere, vincono anche gli altri. Non esiste il fallimento».
Oggi più che mai si sente il bisogno di normalizzare lo sbaglio, di ricondurlo ad una dimensione quotidiana. D’altronde, tutti gli eroi vanno all’avventura errando. Il drammaturgo e poeta irlandese Samuel Barclay Beckett ha scritto così nel romanzo Malloy: «Ho provato, ho fallito. Non importa, riproverò. Fallirò meglio». Nello sport, come nella vita.■
1. Berenice, la donna che allenava alle Olimpiadi 2. Jesse Owens ai Giochi di Berlino 1936. 2
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