Trincea • Zeta Numero 17 | Febbraio 2024

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Periodico della Scuola Superiore di Giornalismo “Massimo Baldini” Numero 17 Febbraio 2024

La morte di Navalny

Due anni di guerra

I costi del conflitto

La band che canta l’Ucraina

Lo sport in campo

Il sorriso dei bambini


Italian Digital Media Observatory Partner: Luiss Data Lab, RAI, TIM, Gruppo GEDI, La Repubblica, Università di Roma Tor Vergata, T6 Ecosystems, ZetaLuiss, NewsGuard, Pagella Politica, Harvard Kennedy School, Ministero degli Esteri, Alliance of Democracies Foundation, Corriere della Sera, Reporters Sans Frontières, MediaFutures, European Digital Media Observatory, The European House Ambrosetti, Catchy


Coverstory

«Navalny, morte di un dissidente»

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Lunga scia di sangue

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«Mio nonno ucciso dal regime di Stalin»

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di Michelangelo Gennaro

di Nicoletta Sagliocco e Chiara Boletti

Periodico della Scuola Superiore di Giornalismo “Massimo Baldini”

di Michelangelo Gennaro

Le mappe

Tappe e luoghi del conflitto

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I rifugiati in Europa

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di Valeria Costa

Numero 17 Febbraio 2024

di Gennaro Tortorelli

Profughi

Madre e figlia, un fiore al confine

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Salvamamme un’oasi per chi fugge

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Gente di Bučač, vivere la guerra

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Un popolo diviso tra sogni e realtà

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Il coraggio di perdonare

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di Pietro Angelo Gangi di Laura Pace

di Nicoletta Sagliocco di Caterina Teodorani

di Francesco Esposito

Minori

«I bambini sorridono tutti nella stessa lingua»

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La generazione rubata

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di Filippo Cappelli di Asia Buconi

Guerra

Dollari sul campo di battaglia

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«A Kiev per difendere la popolazione»

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di Chiara Boletti

di Matilda Ferraris

Photogallery

L’AI racconta la guerra Elezioni in Russia simulazione di democrazia

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Amici e rivali, i due volti di Kiev

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La propaganda filorussa sul web

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di Simone Salvo

di Alessandro Imperiali di Luca Graziani

Media

Troppi silenzi sulla guerra

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Deep fake, troll e fabbriche di bot

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Così il governo russo censura i giornalisti

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Quando i social ti salvano la vita

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di Nicole Saitta

di Matilde Nardi

di Giulia Rugolo

di Chiara Grossi

Cultura

L’arte non si ferma davanti alla guerra

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Combattere per resistere la lezione di Tolstoj

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di Massimo De Laurentiis di Alessandro Villari

Cibo

Il sapore della libertà

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In cucina sotto i bombardamenti

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di Sara Costantini

di Isabella Di Natale

Spettacoli

Kalush Orchestra

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La Palisiada trionfa sugli schermi

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Le bombe di Putin non rallentano i ciak

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di Silvia Della Penna di Lorenzo Pace di Alessio Matta

Sport

La resistenza vola sui pattini

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Dalla racchetta alle armi in trincea

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di Lavinia Monaco

di Gabriele Ragnini

La Guida di Zeta

I colori della Maslenitsa di Elisa Vannozzi

Parole e immagini 20 giorni a Mariupol di Federica Carlino

Trincea «Se mi uccidono vuol dire che siamo fortissimi, non arrendetevi» queste le parole pronunciate dal principale oppositore politico di Putin, Alexei Navalny, nel documentario dedicatogli, vincitore del premio Oscar nel 2023. Aveva ragione quando diceva: «Siamo fortissimi». Lo si è visto poche ore dopo l’annuncio della sua morte, quando centinaia di russi sono usciti di casa, noncuranti delle rigide regole del regime di Putin, per portare un fiore, una rosa rossa o un crisantemo, sul Muro del Dolore, il memoriale delle vittime della repressione sovietica. Nonostante nella Russia di Putin esprimere dissenso significhi incorrere in una punizione certa - molti sono stati gli arresti - i sostenitori del dissidente hanno continuato per giorni a visitare il memoriale per omaggiarlo. Certo, non è stato l’unica vittima del terrore putiniano. Come lui Anna Politkovskaja, uccisa mentre rientrava a casa con le buste della spesa ancora in mano. O Boris Kagarlistiky, il sociologo condannato tre giorni prima della morte del dissidente a cinque anni di reclusione. Si tratta di oppositori con storie e percorsi di vita differenti accomunati da una grande missione: smontare l’impianto oligarchico che dalla caduta del muro governa l’ex potenza sovietica. Matilda Ferraris

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di Nicole Saitta

Politica

English version

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ZETA Periodico della Scuola Superiore di Giornalismo “Massimo Baldini” supplemento di Reporter Nuovo Registrazione Reg tribunale di Roma n. 15/08 del 21/01/2008

Direttore responsabile Gianni Riotta Condirettori Giorgio Casadio Alberto Flores d’Arcais

Navalny ha saputo scuotere più di ogni altro l’opinione pubblica, dopo la sua morte il fronte occidentale si è ricompattato dando slancio a nuove iniziative per difendere l’Ucraina che il ventiquattro febbraio entra nel terzo anno di guerra a corto di fondi e soldati. Mentre il conflitto stava sparendo dalle prime pagine dei giornali e Stati Uniti e Unione Europea faticavano a nascondere la stanchezza indotta dai pochi progressi raggiunti, Putin eliminando il suo principale oppositore ha ricordato all’occidente che la difesa dell’Ucraina è una priorità. In questo numero del nostro periodico Zeta abbiamo voluto riportare l’attenzione sulla dimensione umana del conflitto, raccontando le vite degli ucraini, quelli che sono rimasti e dei tanti che sono stati costretti a partire; chi combatte al fronte e chi sta tentando di costruirsi una nuova vita, come Yulia che ha lasciato Kiev quando è scoppiata la guerra per andare a Milano e continuare a studiare teatro; sportivi, cantanti e tanti altri artisti che quando partecipano alle competizioni internazionali tengono vivo il nome del loro Paese ricordando a tutti che la resistenza ucraina, nelle trincee in mezzo al ghiaccio, anche se dimenticata, continua.

A cura di Valeria Costa Michelangelo Gennaro Chiara Grossi Elisa Vannozzi

Redazione Viale Pola, 12 – 00198 Roma Stampa Centro riproduzione dell’Università Contatti 0685225358 giornalismo@luiss.it

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Coverstory

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Navalny, morte di un dissidente Le torture in carcere non avevano messo a tacere il principale oppositore del governo russo, deceduto il 16 febbraio in circostanze sconosciute DISSENSO

di Michelangelo Gennaro 4 — Zeta

È in piedi di fronte al tricolore russo e alla bandiera di Mosca, città in cui si era candidato sindaco nel 2013. Sorride mentre allunga un braccio, nella mano la scheda da inserire nell’urna. Nella foto pubblicata su Instagram dal suo team il primo febbraio, Alexei Navalny lanciava l’ultima protesta contro il governo, in vista delle elezioni presidenziali. «Mi piace l'idea che gli elettori anti-Putin vengano alle urne contemporaneamente, a mezzogiorno», si legge nel post, «è assolutamente impossibile impedire questa azione». Poi la sfida al presidente russo: «Beh, cosa vuoi fare? Chiudere i lotti alle dodici? Organizziamo una controazione alle dieci del mattino». Due settimane dopo, l’annuncio del decesso nel carcere Ik-3 in cui era dete-

nuto. Le autorità penitenziarie hanno parlato prima di un coagulo di sangue, poi di sindrome da morte improvvisa. «Questo è omicidio. Tutti nel mondo dovrebbero capirlo», ha scritto su Facebook Olga Romanova, attivista per i diritti dei detenuti, «il cliente ha ordinato l'assassinio di Navalny diversi anni fa e non ha cancellato l'ordine. Il nome del cliente è Vladimir Putin. Non ci sono altre versioni». A dicembre la figlia Daria aveva avuto un presagio, quando, intervistata dal giornalista americano Anderson Cooper, disse: «Putin ha appena dichiarato di ricandidarsi alle elezioni e probabilmente vuole silenziare mio padre». Navalny era già sopravvissuto a due tentativi di avvelenamento, l’ultimo nell’agosto 2020. Mentre era in volo da


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Tomsk, in Siberia, verso Mosca, il politico si sentì male, costringendo l’aereo a un atterraggio di emergenza a Omsk. Incosciente e attaccato al respiratore, venne portato in un ospedale presidiato da forze dell’ordine e servizi segreti. Anche allora le versioni ufficiali furono ambigue. Il primario Alexander Murakhovsky spiegò alla stampa che Navalny soffriva di «disturbi metabolici» e di un «calo dei livelli di zucchero nel sangue».

«Putin ha appena dichiarato di ricandidarsi alle elezioni e probabilmente vuole silenziare mio padre» La famiglia riuscì a ottenere il trasferimento in Germania, all’ospedale Charité di Berlino. In coma farmacologico, passò ventiquattro giorni in terapia intensiva. Dagli esami tossicologici emerse che era stato avvelenato con il novichok. Il regime di Putin aveva già usato questo agente nervino per assassinare Sergei Skripal, ex spia russa, e la figlia Yulia a Salisbury, in Inghilterra.

Kobzev disse che il suo assistito veniva infettato di proposito, costringendolo in cella con un senzatetto affetto da malattie dermatologiche. L’oppositore stava scontando una pena di diciannove anni per «estremismo». Non bastava però a fermare la sua azione politica. Dal carcere, aveva criticato l’invasione dell’Ucraina. «La Russia pagherà lo stesso prezzo di Kiev», aveva dichiarato. Riferendosi ai membri del Consiglio di sicurezza, riunitisi a Mosca il 22 febbraio 2022, li aveva chiamati «ladri e rimbambiti». «Sarebbe divertente se il nonno ubriaco», aveva aggiunto parlando di Putin, « non fosse un uomo di sessantanove anni con il potere in un paese con armi nucleari». Dopo il decesso, i giornali hanno raccontato il calvario della famiglia. La madre di Navalny, Lyudmila, è andata

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all’obitorio di Salekhard per vedere la salma. All’ingresso è stata respinta, scoprendo che il figlio non era lì, e le autorità le hanno comunicato che avrebbe dovuto aspettare settimane. «Mi faccia vedere mio figlio. Pretendo immediatamente che il corpo di Alexei venga consegnato in modo che io possa seppellirlo umanamente», ha detto in un video rivolto a Putin. Si è unita all’appello la vedova Yulia: «Lasciate che sia sepolto con dignità, non impedite alla gente di salutarlo». ■

1. Il memoriale dedicato ad Alexei Navalny a Malmo, in Svezia 2. La colonia penale Ik-3 di Kharp, in Siberia, in cui il dissidente era stato trasferito a dicembre 2023 3. La foto di Navalny al seggio elettorale, pubblicata l'1 febbraio su Instagram 4. L'altare in tributo al politico russo a Barcellona, in Spagna

Salvo per miracolo, annunciò che sarebbe tornato in Russia. Appena sbarcato, venne arrestato per appropriazione indebita e frode nei confronti di Yves Rocher, multinazionale per cui aveva lavorato con il suo studio legale. Prima di morire, tre anni di detenzione in condizioni disumane. Navalny aveva denunciato di non ricevere adeguata assistenza sanitaria con lo sciopero della fame. Per piegare la sua protesta, le guardie carcerarie cucinavano di fronte alla sua cella e gli passavano caramelle tra le sbarre. Ad aprile 2023, l’avvocato Vadim

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Coverstory condannati cinque uomini ceceni. Negli anni Novanta, ai tempi di Eltsin, il politico russo si era esposto contro la guerra in Cecenia raccogliendo un milione di firme. Da tempo si batteva contro il governo putiniano, aiutato dal suo consigliere Vladimir Kara-Murza, detenuto dal 27 aprile scorso nelle carceri per alto tradimento in un luogo mai reso noto dal regime.

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Lunga scia di sangue La lista dei dissidenti vittime del regime putiniano testimonia un'inquietante realtà della politica russa LOTTA

di Chiara Boletti e Nicoletta Sagliocco

Nella città di Milano, decine di persone si sono date appuntamento per lasciare un fiore in memoria di Alexei Navalny davanti alla targa dedicata alla giornalista Anna Politkovskaya vittima del regime russo. È dal 1999, anno di ascesa di Putin, che il Cremlino si è macchiato le mani col sangue di giornalisti e oppositori politici scomodi. «L'unico dovere di un giornalista è scrivere quello che vede» così descriveva la sua professione Politkovskaja, morta in un agguato a Mosca il 7 Ottobre 2006, giorno del compleanno di Putin, per mano di cinque sicari ceceni di cui il mandante ad oggi rimane sconosciuto. La reporter diventa una voce scomoda quando con il suo giornalismo d’inchiesta comincia a criticare le decisioni politiche di Putin e la guerra in Cecenia. Politkovskaja lavora dal 1999 per la “Novaja Gazeta”, nello stesso periodo, comincia a pubblicare diversi libri critici su Vladimir Putin e sulla conduzione del conflitto nel Caucaso. È l’impegno nel descrivere la realtà davanti ai suoi occhi e gli abusi commessi sulla popolazione civile cecena a provocare l’ira del Cremlino. Nel 2004, rimane vittima di un sospetto caso di avvelenamento mentre verrà due anni dopo uccisa nell’ascensore di casa: il materiale dell’inchiesta sulle torture avvenute in guerra a cui la giornalista stava 6 — Zeta

lavorando scompare.Più di mille persone parteciparono al funerale celebrato ai piedi di una lapide rappresentante un giornale crivellato da proiettili, in assenza di rappresentanti del governo russo. La stessa sorte toccherà ad altri giornalisti, se ne stimano più di 50 dal 1999 ad oggi, tra cui Antonio Russo, giornalista italiano il cui corpo venne ritrovato con segni di tortura in Georgia dove aveva raccolto prove dell'utilizzo di armi non convenzionali contro bambini ceceni, con pesanti accuse di responsabilità del Cremlino. Non solo giornalisti, la sorte di chiunque si opponga al regime di Putin è la morte. Aleksander Litvinenko, ex agente segreto russo e dissidente politico, è uno dei casi più eclatanti che testimoniano la politica del terrore esercitata sugli oppositori di Putin. Esule nel Regno Unito, dopo aver rifiutato l’ordine di uccidere un presunto nemico dello Stato, viene avvelenato a Londra il 26 febbraio 2006 da emissari del presidente russo. Dopo aver ingerito del polonio, un semimetallo radioattivo, prima di morire Litvinenko denuncia pubblicamente il regime di Putin come mandante del suo omicidio. Sarà poi la Corte europea dei diritti dell’uomo ad imputare alla Russia la responsabilità dell’accaduto. L’immagine di Litvinenko calvo e in fin di vita nel letto di ospedale che impiega le sue ultime forze per accusare Vladimir Putin rimane uno dei simboli all’opposizione del regime totalitario russo. Nove anni dopo i funerali di Politikovskaja, gli abitanti di Mosca si radunano nelle strade della capitale. La città si riempie di decine di migliaia di manifestanti in seguito alla morte improvvisa dell’ex vice primo ministro Boris Nemtsov. Dopo il suo assassinio furono

Nemtsov muore il 27 febbraio, colpito da un proiettile sul ponte di Mosca a pochi passi dal Cremlino. Il giorno successivo avrebbe guidato una marcia di opposizione organizzata per denunciare la condizione economica russa ed esprimere il dissenso nei confronti della guerra in Ucraina. Nessuno fu in grado di risalire alle dinamiche esatte del suo omicidio. Quel giorno tutte le telecamere nelle vicinanze erano spente, tranne una che però non riuscì ad inquadrare l’accaduto. Ad oggi, le parole che gli oppositori uccisi dal regime putiniano hanno lasciato in testamento al popolo russo e al resto del mondo sono un appello al non rendere vana la loro lotta. La morte di Navalny, ad un mese dalle elezioni presidenziali russe, lascia un vuoto di opposizione apparentemente incolmabile confermando il pensiero di Nemtsov secondo cui in Russia non c’è un’opposizione ma esistono solo dissidenti. La morte di Navalny è seguita dall’arresto di almeno quattrocento persone che sono scese nelle principali città come San Pietroburgo per manifestare e lasciare dei fiori. Si tratta di cifre molto basse che dimostrano quanto sia alto il livello di terrore imposto alla popolazione dalle autorità del Cremlino. ■

1. Anna Politkovskaja, giornalista russa uccisa nel 2006 2. Boris Nemtsov, ex vice primo ministro durante il governo di Boris Eltsin

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«Mio nonno ucciso dal regime di Stalin» La scrittrice Elena Kostioukovitch confronta le repressioni sovietiche al governo di Vladimir Putin STORIE

di Michelangelo Gennaro

«Morì il 16 febbraio, lo stesso giorno di Alexei Navalny», racconta la scrittrice Elena Kostioukovitch, nata nell’Ucraina sovietica e naturalizzata italiana. Suo nonno era un detenuto politico a Kiev durante il regime di Josip Stalin. Alla famiglia arrivò un comunicato dall’ente statale delle prigioni, che parlava di un malore improvviso. «Dissero che si trattava di embolia polmonare, morte sopraggiunta per puro caso», ricorda Kostioukovitch. Dopo decenni è emersa la verità: «Oggi l’Ucraina è una democrazia e sono potuta entrare negli archivi. Ho scoperto che venne fucilato». Quando ha saputo di Navalny, leader dell’opposizione russa deceduto in una colonia penale in Siberia, la scrittrice ha visto gli eventi ripetersi. L’emittente RT, finanziata dal governo di Vladimir Putin e bandita in Europa, ha comunicato che il dissidente era morto per un coagulo di sangue. «È una formula passepartout: si

parla di un malore difficile da rilevare, che colpisce anche persone sane», continua Elena, «spesso significa che qualcuno è stato ammazzato e non sappiamo come». L’autrice cita l’attivista per i diritti umani Anna Karetnikova, ex dipendente del Servizio federale penitenziario russo (FSIN): «Lei è esperta dei gulag, i campi in cui sono rinchiusi migliaia di oppositori. Sostiene che, nei penitenziari, la tromboembolia può spiegare qualsiasi cosa». La malattia viene usata «dai medici carcerari in un senso figurato, leggermente ampliato», ha scritto Karetnikova in un post su Facebook. I dottori del FSIN le hanno detto che «una diagnosi così universale è difficile da dimostrare e in qualche modo conveniente». A differenza del regime di Stalin, che nascondeva nel silenzio i suoi omicidi politici, «la cerchia di Putin mette in giro tante voci, che la stampa italiana non esita a ripetere», prosegue Kostioukovitch. Allude alla propaganda sulla guerra, che il Cremlino chiama «operazione militare speciale», accusando l’Ucraina di aver iniziato il conflitto e l’Europa di essersi armata per minacciare la Russia. «Il governo ha fatto lo stesso con Navalny», racconta, «abbiamo solo bugie e definizione di comodo, ma non sappiamo né come né quando è morto».

L’opposizione russa ha perso il suo leader, a un mese dalle elezioni presidenziali. Elena non crede però che cambierà qualcosa: «I risultati del voto si sanno già, Putin prenderà l’82% con un’affluenza del 75%». Al momento sono voci, «fughe di notizie dai seggi elettorali», conclude, «ma anche se non saranno esatte, queste cifre sono verosimili». Poiché il presidente ha vinto le ultime elezioni con l’80% dei voti, «deve far vedere che ha guadagnato uno o due punti percentuali». In un paese in cui le elezioni non sono libere, Putin vuole mostrare che né la guerra, né le persecuzioni contro Navalny, possono incrinare il suo consenso. ■

1. La piazza Rossa a Mosca 2. Josiph Stalin, leader dell'Urss dal 1922 al 1953 3. Ritratto di Elena Kostioukovitch. Credit photo: Basso Cannarsa

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A cura di Valeria Costa

24 Febbraio 2022 La Russia invade l’Ucraina. Dopo avere dichiarato russe le autoproclamatesi "repubbliche popolari" di Donetsk e di Luhansk, con un discorso alla nazione il presidente russo Vladimir Putin ordina ai suoi generali di dare il via all'invasione. Dal 25 febbraio cominciano i bombardamenti su Kyiv. Il piano di Putin, conquistare la capitale con una guerra lampo e destituire il presidente ucraino Zelensky, fallisce grazie alla resistenza e alla controffensiva dell'intera Ucraina. A marzo nella cittadina di Bucha, 24 chilometri dalla capitale, le forze russe si rendono responsabili di feroci crimini di guerra contro la popolazione civile.

L'assedio di Mariupol Le battaglie più importanti si svolgono attorno a due città: Mariupol e Zaporizhia. Il 21 aprile 2022 il Cremlino annuncia la conquista di Mariupol, dove si trova un'importante acciaieria che cadrà dopo quasi tre mesi di feroce assedio. Prima della guerra gli abitanti della città sono 500 mila, al momento della resa ne restano solo 150 mila. Il 15 agosto, dopo settimane di scontri sanguinosi, l’esercito russo conquista Zaporizhia, sede di una importante centrale nucleare, facendo temere un disastro senza precedenti. Il 7 dicembre l’esercito russo attacca la centrale, la occupa, le toglie l’energia necessaria per il funzionamento e deporta in una cittadina vicina tutto il personale civile e militare della centrale.

La brigata Wagner Nel marzo del 2023 la Wagner, la brigata di mercenari che affianca l'esercito russo, occupa la zona nord-occidentale di Bakhmut incontrando una forte resistenza da parte dell’esercito ucraino. La città, che prima della guerra conta oltre 70.000 abitanti, ora ne conta meno di 5.000. Grazie a questa offensiva, la brigata e il suo comandante Yevgeny Prigozhin, amico da vent'anni di Putin, acquistano sempre più importanza, ma nella primavera 2023 i rapporti tra i due leader precipitano. Il 24 giugno Prigozhin ordina la ribellione, tentando un colpo di stato che fallisce. Il 23 agosto il capo della Wagner muore quando l'aereo privato sul quale viaggiava precipita a nord di Mosca.

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Bucha


L'ultima conquista di Mosca Il 17 febbraio 2024, l’esercito ucraino lascia la città di Avdiivka, nel Donetsk, in mano ai soldati russi e alle loro bandiere. La città ha importanza strategica e simbolica per la sua posizione nella regione industriale del Donbass, 15 km a nord di Donetsk. Sede della più importante acciaieria dell'Ucraina, assicura alla Russia il pieno controllo delle due province orientali del Donbass: Donetsk e Luhansk. Dei 32.000 abitanti di Avdiivka, dopo gli estenuanti combattimenti e l’assedio russo, ne sono rimasti poco più di 1.000.

Luhansk

Avdiivka

Mariupol

Legenda Controllo russo Controllo russo prima del 24 febbraio 2022 Controffensiva ucraina Mappa aggiornata al 20 febbraio 2023 Zeta — 9


Profughi a cura di Gennaro Tortorelli

Da rifugiati a pendolari L'invasione dell'Ucraina da parte della Federazione Russa ha causato la fuga di milioni di persone, fuggite all’estero come rifugiati. Il picco è avvenuto nei primi quattro mesi dal 24 febbraio, ma i movimenti da e verso l'Ucraina sono diventati più complessi. Molti rifugiati sono pendolari e impegnati in visite di breve durata tra l'Ucraina e i Paesi ospitanti, mentre altri sono tornati su base permanente.

Montenegro capofila Nei dati sul numero di rifugiati ogni 10mila abitanti spicca il caso unico del Montenegro (evidenziato in giallo nella mappa). Il Paese ospita 65mila rifugiati su 620mila abitanti. I rifugiati ucraini sono dunque oltre il 10% della popolazione totale. Vicinanze culturali e una politica di porte aperte hanno reso il Paese una delle destinazioni più sicure.

Fuori dall'Europa I movimenti fuori dal continente sono aumentati nel 2023, con oltre 403.600 rifugiati dall'Ucraina registrati al dicembre 2023, rispetto ai 230.000 della fine del 2022. La maggior parte è ospitata in Canada e negli Stati Uniti, che hanno istituito programmi specifici per il soggiorno temporaneo.

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L'esodo continua L'Organizzazione internazionale per le migrazioni stima che a settembre 2023 oltre 900mila rifugiati provenienti dall'Ucraina siano tornati nei loro luoghi d'origine. Secondo i dati pubblicati da Eurostat, tra gennaio e dicembre 2023, oltre un milione di individui hanno però ottenuto la protezione temporanea nei Paesi dell'Ue. Alla fine del 2023, quasi 6,4 milioni di rifugiati sono stati registrati a livello globale, di cui circa 6,0 milioni sono ospitati in Paesi europei.

I dati sono stati ricavati da un’elaborazione a partire dal portale dedicato dell’agenzia Onu Unhcr. Nella mappa si riporta il numero di rifugiati ogni diecimila abitanti presenti nei Paesi europei. Le cifre includono i profughi provenienti dall'Ucraina a cui è stato concesso lo status di rifugiato, lo status di asilo temporaneo, la protezione temporanea o stati simili attraverso schemi nazionali di protezione.

Numero di rifugiati ucraini in Europa ogni diecimila abitanti

Mappa aggiornata al 15 febbraio 2024

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Profughi dalle emozioni, ma due anni fa le aveva dovute mettere da parte. Mentre i carri armati russi sfilavano nelle strade delle città ucraine, Viktoriya non poteva farsi prendere dalla paura. La madre Viera era tornata da poco a Kiev dopo una lunga visita a Roma. Per assisterla durante il viaggio, Viktoriya l’aveva accompagnata ed era rimasta con lei qualche giorno. «Si respirava un’aria strana» racconta ripensando a quei momenti a casa con la madre, «la gente parlava di un’ipotetica invasione russa, erano tutti allarmati». Prima di vedere con i suoi occhi la situazione, Viktoriya non voleva credere che ci sarebbe stato un vero attacco: «Non potevo immaginarmelo io, figuriamoci mia madre, russa di origine». Le disse che non era il caso di restare, ma per Viera, figlia della seconda guerra mondiale, nata in Russia e cresciuta con il regime sovietico, era impensabile lasciare la propria casa.

Madre e figlia, un fiore al confine Viktoriya Puhachova racconta i momenti di tensione vissuti a febbraio 2022, quando la guerra iniziava e la madre Viera si trovava a Kiev IN FUGA

di Pietro Angelo Gangi 12— Zeta

Pochi giorni dopo l’invasione russa, al confine di Krakovets con la Polonia, fra i tendoni e le file di famiglie che tentavano la fuga dall’Ucraina, Viera Puhachova, 84 anni, aveva con sé l’essenziale. Una giacca non troppo pesante, uno piccolo zaino con i documenti e un trolley per i vestiti. Tra le mani, un fiore. Lo stringeva forte mentre attendeva la figlia che l’avrebbe portata in Italia, lontana dai bombardamenti di Putin. «Mamma, ma che ci fai con questi fiori?», le chiese al suo arrivo. «È l’8 marzo e volevo farti un regalo», rispose Viera. La figlia Viktoriya Puhachova, che vive e lavora in Italia da vent’anni, ricorda quel momento con occhi lucidi e voce commossa: «Mia madre è una donna straordinaria, è riuscita a stupirmi anche in quell’occasione». Oggi si lascia travolgere

E così, tornata a Roma, quel 24 febbraio Viktoriya doveva trovare un modo per mettere al sicuro la madre, rimasta a Kiev mentre le truppe russe avanzavano. Il piano era di farla arrivare al confine con la Polonia, dove sarebbe andata a prenderla per portarla a Roma. «Prepara velocemente una valigia con i vestiti necessari e uno zainetto con i documenti più importanti, da tenere sulle spalle nel caso il treno dovesse essere troppo pieno» erano le indicazioni di Viktoriya. In quei giorni a Kiev i binari erano così affollati che le persone, pur di salire su un vagone, lasciavano le proprie valige in stazione. In questa calca Viera riuscì a prendere il treno verso Leopoli, dove la aspettava la migliore amica di Viktoriya che l’avrebbe accompagnata al confine. Un viaggio lungo 15 ore, una sosta di tre giorni in una struttura di accoglienza, il freddo e il fango a Krakovets, il punto di confine. «Mia mamma, a 84 anni, ha vissuto tutto questo senza mai perdere lo spirito», racconta Viktoriya, che di quegli attimi ricorda solo il forte e continuo mal di testa. Era come se quel dolore fosse un sintomo naturale della tensione che viveva guardando le immagini dell’Ucraina da lontano. Il dolore le passò solo l’8 marzo a Krakovets, quel pezzo di terra tra la Polonia e l’Ucraina, stretta in un abbraccio con la madre. Ad unirle, quel fiore. Oggi Viera vive con la figlia e i nipoti a Roma, in attesa di poter far ritorno nella sua casa a Kiev. ■


continuano ad esserci da parte di Salvamamme: «Attualmente inviamo oggetti di prima necessità a chi lo richiede - spiega Maria Grazia Passeri - Qui a Roma siamo in contatto con 400 famiglie ucraine. Inoltre, insieme alla scuola Prestigio, che porta la cultura ucraina nella capitale, aiutiamo i piccoli ad avere un futuro migliore».

Salvamamme un'oasi per chi fugge L'associazione romana dal 2022 ha aiutato 1800 famiglie scappate dall'Ucraina STORIE

di Laura Pace

Un negozio di settecento metri quadrati dove non ci sono casse, prezzi esposti o commessi. Negli scaffali solo pannolini, vestiti, creme, bagnoschiuma, borsette, scarpe. Qui viene a scegliere chi ne ha bisogno. È l’idea di Salvamamme associazione che da trent’anni aiuta donne e bambini in difficoltà. Da febbraio 2022 questo ente è diventato un punto di approdo per chi fugge dalla guerra in Ucraina. Grazie ai beni di prima necessità e al servizio psicologico o di mediazione, Salvamamme ha aiutato 1800 profughi in Italia. Maria Grazia Passeri, fondatrice e presidente, racconta con fierezza: «Siamo diventati uno sportello di accoglienza per i rifugiati. Noi operiamo dal 2000 e oggi a

Roma siamo un'istituzione. Qualsiasi problema ci sia, veniamo interpellate dai municipi, dalle ASL o dall'assistenza sociale. Decine di enti parrocchiali ci chiedono di intervenire dove serve. Così abbiamo fatto anche per gli ucraini». Non solo, da allora sono partiti migliaia di tir verso l’Ucraina, in collaborazione con l'associazione Romeni in Italia, tonnellate di aiuti per la popolazione colpita.

Una testimonianza diretta è quella di Alifirenko Yevheniia, detta Eugenea, una donna che ha lasciato l’Ucraina nel 2014 e che oggi ospita altre tre famiglie fuggite dal conflitto. Tutte loro si appoggiano a Salvamamme: «Queste signore con i loro figli sono amiche che conoscevo quando vivevo a Cerny, una città vicino a Kiev. Mi sono offerta di dare il mio aiuto perché so cosa vuol dire arrivare in un paese sconosciuto con una lingua sconosciuta». Eugenea racconta la situazione di queste donne che hanno dovuto lasciare la loro vita da un giorno all’altro: «Sono partite con uno zainetto, dei documenti, dei panini, e nient’altro. Né vestiti per bambini, né scarpe. Quando sono arrivate qua Salvamamme le ha aiutate in tutto». I momenti migliori sono però quelli dove si sta insieme: «Passare il Natale o la Befana con l’associazione, che ci invita alle sue feste, è un motivo di gioia e di spensieratezza per noi e per i nostri figli». «I bei ricordi salvano l’infanzia. Per questo voglio creare momenti belli ad ogni bambino che viene qua, ne ha diritto: una festa di compleanno, una bella bambola, una maglietta» dice la presidente Maria Grazia. Dall'inizio del conflitto Salvamamme infatti ha aiutato centinaia di famiglie non solo con generi alimentari, medicine, abiti ma con momenti di svago, giocattoli e feste, i quali donano un sorriso ai bambini e alle loro famiglie scappate dalla guerra. ■

Grazie ai numerosi contatti, l’assistenza non è mai mancata, nemmeno negli orfanotrofi: «Il 24 febbraio del 2022 ci siamo candidate a un ruolo rappresentativo. Tutta Roma ci ha portato viveri e indumenti» racconta la presidente dell’associazione. Ma l’aiuto va al di là, spiega Maria Grazia: «Siamo riuscite anche a spostare in Italia una donna con gravi problemi di salute, insieme a sua figlia. Questa mamma col cancro al quarto stadio non poteva più ricevere le visite mediche necessarie. In più era sola, perché il marito era andato a combattere. Alla fine, siamo riusciti grazie alla rete di persone a portare la signora all’Umberto I di Roma, dove si sono potuti occupare di lei». Ad oggi la situazione dopo due anni dallo scoppio del conflitto non è più la stessa, le donne che dovevano arrivare sono arrivate, ma gli aiuti Zeta — 13


Profughi

Gente di Bučač, vivere la guerra SPERANZA

La storia della famiglia Diakun, la realtà a due anni dall'inizio dell'invasione russa

di Nicoletta Sagliocco

Nataliia è una donna ucraina di quarantadue anni. Quando inizia a raccontare in che modo lei e la sua famiglia hanno vissuto l’inizio della guerra risponde con gentilezza chiedendo di aspettare: «Puoi continuare a parlarmi ma risponderò appena posso. Adesso stiamo andando in un rifugio antiaereo, c’è un raid in corso». Dormivano, quando alle quattro, nella notte del 24 febbraio 2022, la Russia iniziò ad attaccare i territori ucraini. «Tutti i canali televisivi, i social e le fonti di informazione hanno annunciato l'inizio di un'invasione su vasta scala da parte dei russi nel nostro Stato. Ovunque trasmettevano i discorsi di Zelensky. Poi hanno cominciato a bombardare Kiev». I primi ricordi delle esplosioni sono nitidi nella sua mente e in quella del figlio Dmytro che in quel periodo frequentava il terzo anno di liceo in un istituto tecnico di Bučač, il suo paese: «La prima emozione che ho provato non si può descrivere in maniera semplice. Avevo una forte sensazione di insicurezza e precarietà. Non sono riuscito subito a realizzare cosa stesse succedendo, vivevo tutto come se fossi stato in un sogno». È per questo motivo che Nataliia decide di trasferirsi da sua madre a Caivano, con Dmytro e Marta, la figlia minore. 14 — Zeta

Racconta di aver abbandonato tutti i suoi sogni e progetti, di aver lasciato suo marito con la speranza di arrivare in un luogo protetto. Dopo aver preparato in fretta solo una valigia con l’essenziale, è giunta in Italia con i suoi figli: «È stato mio marito a convincermi ad andare via. In un momento così pericoloso voleva essere sicuro che almeno noi stessimo bene. Ma adesso vivo ancora i miei giorni ascoltando il rumore delle sirene».

diventare psicologa. Credo che ce ne sia un grande bisogno e quando questa guerra finirà darò una mano alle persone». Dmytro era rientrato a Bučač con il desiderio di rivedere i suoi compagni per studiare e uscire con loro, ma la realtà si è rivelata diversa: «La città era vuota, molti dei miei amici sono andati in altri paesi e non hanno intenzione di tornare. Alcuni di loro hanno addirittura abbandonato il liceo. Qualche volta esco ma non spesso, durante il giorno studio e la sera abbiamo È stata tanta la solidarietà dimostrata il coprifuoco a mezzanotte. Non si può dai cittadini caivanesi, ma abitare in un uscire se non per motivi seri». Paese nuovo con una cultura e una lingua diverse si è rivelato più complicato del preLa speranza della fine della guerra è visto, soprattutto per i suoi figli. «Dmytro ciò che permette a Nataliia di continuare ha seguito le lezioni scolastiche online, a vivere con un’attitudine positiva. I suoi ma voleva finire gli studi in Ucraina, per discorsi lasciano trasparire la certezza mia figlia di otto anni è stato difficile vive- che un giorno il suo Paese potrà ritornare in un Paese in cui non poteva parlare la re alla normalità dopo aver riconquistato sua lingua natia. Inoltre, mio marito non la libertà dai russi, ma nei suoi pensieri ha mai voluto lasciare la nostra città, sia restano costanti i segni lasciati dalla morper il lavoro sia perché suo figlio maggiore te e dall’orrore: «In questi anni i cimiteri è al fronte a combattere per noi». si sono popolati di giovani ragazzi morti in guerra. Oggi c’è stato il funerale di un Dopo i mesi trascorsi a Caivano, Nata- soldato di Bučač. I cittadini hanno orgaliia ha deciso di ritornare a casa dagli altri nizzato un corteo e le persone cadevano membri della sua famiglia e di impegnarsi in ginocchio per il dolore. La gente riesce per sentirsi in grado di dare un aiuto alla ad abituarsi a tutto, ma non dobbiamo sua nazione: «Sono un’insegnante parruc- abituarci alla violenza. Continueremo a chiera e anche in Italia avevo le mie clien- vivere e a lavorare per la nostra indipenti. Adesso qui in Ucraina sto studiando per denza». ■


Un popolo diviso tra sogni e realtà Dall’inizio del conflitto russo-ucraino, il territorio sovietico è spezzato tra i sostenitori di Putin e i suoi oppositori DIVISIONE

di Caterina Teodorani

Allo scoppio della guerra Gaia, studentessa Erasmus, si trovava a Mosca. Non era venuta conoscenza dei fatti perché se ne parlasse in città, quanto piuttosto perché era stata sommersa da messaggi e telefonate di parenti e amici preoccupati. Quello che circolava sui giornali europei e nel resto del mondo non era ciò che si sapeva in Russia: «La verità è che a Mosca non se ne parlava». All’indomani del discorso del presidente russo Putin, che aveva negato la ragion d’essere dell’Ucraina, Gaia girava per il centro, circondata da gente che non si aspettava quello che stava succedendo. All’origine della guerra russo-ucraina, scoppiata il 24 febbraio 2022, c’era il timore che l’Ucraina potesse aderire alla Nato, l’alleanza militare tra Paesi europei e Stati Uniti. Il che significava, per la Russia, basi militari a pochi chilometri di distanza, in un territorio così vicino che pensarlo sotto l’influenza della potenza americana, da sempre contrapposta al territorio sovietico, sarebbe stato inaccettabile. Così Putin, dopo aver rivendicato i territori di confine

ucraini, ha legittimato il conflitto invadendo quei territori. In Russia la situazione è drastica: «per Putin non si possono avere opinioni mitigate, o lo ami e sei con lui o lo odi e sei contro di lui, non si può stare nel mezzo». Ci sono due poli: «I ragazzi della nostra età che vogliono viaggiare, hanno dei sogni, vogliono costruire un futuro, vorrebbero libertà d’espressione, sono contro Putin, ogni sua decisione e la guerra», spiega Gaia. «Poi ci sono le generazioni più grandi, quelli che sono cresciuti nell’Unione Sovietica, quelli che c’erano quando è arrivato Putin a risollevarli dalla crisi economica». Sono i filoputiniani. La Russia è divisa e la guerra si è incuneata in questa

polarizzazione, aggravando situazioni latenti. Anche Yana, ragazza russa che vive in Italia, spiega come questa situazione abbia spaccato il paese: «C’è chi è patriota e non ha paura di restare in Russia anche col rischio di andare in guerra, e c’è chi nutre odio profondo verso Putin e quello che sta succedendo». Nello Stato sovietico la leva militare è obbligatoria e sono stati chiamati alle armi tanti giovani. Di quelli contro la guerra «chi ha avuto la possibilità, è scappato. Il punto meno dispendioso e più vicino era il Kazakistan. Altri si sono recati in Europa o negli Emirati Arabi. C’è ancora chi non torna e non vuole tornare», racconta Yana. Per i filoputiniani il Presidente sta difendendo la patria e, per quanto la guerra possa essere sbagliata perché porta con sé morti e sofferenze, loro ritengono che sia un sacrificio necessario in nome di un bene più grande. Gli oppositori di Putin non possono contrastarlo perché protestare è pericoloso e hanno preso la guerra con profonda umiliazione nei confronti del resto del mondo. Con le sanzioni, infatti, la Russia è stata estromessa dalle competizioni sportive alle collaborazioni con brand come Nike, Adidas o Ikea. Questo, per un giovane con sogni e progetti, secondo Gaia, «è micidiale». Tuttavia, «conosco persone russe e ucraine che non si puntano il dito contro e che vanno oltre». Al di là di tutto, le persone restano tali, nonostante qualcuno dall’alto abbia voluto imporre una spaccatura dolorosa. ■ Zeta — 15


Profughi

Il coraggio di perdonare I fedeli romani della chiesa greco-cattolica ucraina si riuniscono per pregare per la pace RELIGIONE

di Francesco Esposito

La Cattedrale dei Santi Sergio e Bacco sbuca dai palazzi del rione Monti di Roma. Ogni domenica vi si ritrovano dei fedeli per la messa. Qui, però, si riuniscono i cattolici di rito bizantino ucraini. La chiesa, il cui primo insediamento risale all’ottavo secolo d.C., è troppo piccola per contenerli tutti e chi arriva in ritardo deve seguire la funzione – in lingua ucraina – di don Liubomyr in piedi dall’ingresso o dall’esterno, dove è stato montato un altoparlante. Da due anni le preghiere sono accompagnate da lacrime e, tra una funzione e l’altra, molti si avvicinano ad una mensola sotto un grande dipinto sul lato destro dell’unica stanza. Compilano 16 — Zeta

cartoline che poi inseriscono in buste gialle, come se dovessero imbucarle. Ci scrivono i nomi dei cari defunti per chiedere che si preghi per loro nei giorni di Quaresima. La speranza è quella di abbreviare il loro soggiorno in Purgatorio. La storia della Chiesa cattolica di rito bizantino, o greco-cattolica, ucraina è fatta di resistenza e mossa dal desiderio d’indipendenza. Il 23 dicembre 1595 due rappresentanti ortodossi, di Kiev e della regione all’epoca chiamata Rutenia – che andava dall’attuale Slovacchia alla Bielorussia – si presentano in Vaticano, al cospetto di Papa Clemente VIII. Vogliono ricongiungersi con Roma e liberarsi dal predominio del Patriarcato di Mosca e di tutte le Russie, creato nel 1589. Il pontefice è malato di gotta, ma si alza per accogliere i due ecclesiastici dell’Est e firmare il “ritorno” di ucraini e ruteni nel cattolicesimo. Con la nascita dell’Impero russo e la sottomissione dell’Ucraina, inizia una persecuzione che ha lo scopo di riportare i cattolici all’Ortodossia. Nell’epoca della Restaurazione, dopo

la caduta di Napoleone, inizia da parte delle autorità, la deportazione in Siberia per piegare la resistenza del clero. Questa pratica verrà utilizzata anche nel periodo sovietico fino agli anni Sessanta. Diciotto anni nel freddo e nella sofferenza dei gulag li passa anche Josyp Ivanovyč Slipyj, guida dei cattolici di Leopoli che rifiutò la conversione forzata. Scarcerato grazie alle pressioni politiche di Giovanni XXIII e del presidente USA John Fitzgerald Kennedy nel 1963, si trasferisce a Roma, dove rifonda la Chiesa greco-cattolica ucraina, promuovendo anche la costruzione della Basilica di Santa Sofia in via Boccea, e viene nominato cardinale. I fedeli cominciano ad arrivare con l’emigrazione seguita all’indipendenza del 1991. Pastori e gregge si ricercano nella diaspora e i centri spirituali diventano anche luoghi in cui riscoprire una cultura e una nazionalità comuni, tenute a lungo nascoste. Gli ucraini residenti in Italia, al gennaio del 2022, sono più di 230 mila. Di questi sono circa settantamila i cattolici, riuniti e organizzati sotto un Esarcato apostolico che raggruppa


centocinquanta parrocchie dalla Sicilia al Trentino-Alto-Adige. «Ero lì due anni fa quando è scoppiata la guerra», continua, «e non so se c’è qualcosa di paragonabile al boato di un missile». Da subito sono partiti gli aiuti tramite la Caritas esarcale: «Oltre duecento tir fra cibo e medicinali dall’inizio della guerra», spiega don Ihor. Il sostegno va anche a chi ha cercato rifugio in Italia. «Sono soprattutto donne e bambini, ma anche uomini feriti e mutilati», prosegue, «in collaborazione con la Protezione civile forniamo supporto psicologico professionale a queste anime ferite». «Quando Gesù è risorto e si è presentato la prima volta ai suoi discepoli impauriti, ha detto una parola sola: “Pace”», continua il cancelliere. C’è la Chiesa che protegge dalla guerra e quella che la benedice. Il Patriarca di Mosca e di tutte le Russie Kirill ha da subito dato sostegno ideologico alle iniziative politiche e militari del presidente Vladimir Putin. «La Chiesa Ortodossa Russa, in questo momento, non riesce a distinguere la legge civile da quella di Dio», riflette Don Ihor, «è come se quell’imperialismo di quando si facevano chiamare la Terza Roma (ndr a partire dalla conquista di Costantinopoli da parte degli Ottomani nel 1453) sia venuto di nuovo fuori».

bambina in zona Balduina: «Ogni tanto andiamo in chiesa insieme o al parco. Quando la vedo giocare, correre e prendere tutta la felicità della vita sono felice anche io, ma subito penso ai nostri bambini ucraini e a quanto stanno soffrendo. Spero che questa guerra finisca presto». C’è ancora spazio per la speranza. È questo il sentimento più importante da coltivare secondo don Ihor: «I miei nonni mi dicevano sempre: “Spero che la vostra generazione non vivrà ciò che abbiamo vissuto noi”. Ora saremo noi a doverlo dire alle prossime generazioni». ■

Nelle immagini la Cattedrale dei Santi Sergio e Bacco degli Ucraini

« Quando Gesù è risorto e si è presentato ai discepoli ha detto una parola sola: "Pace"» «Questa guerra è contro chi sostiene i gay. Parliamo della salvezza umana», ha dichiarato il patriarca Kirill il 6 marzo 2022, durante il sermone per la Domenica del Perdono, l’ultima prima dell’inizio della Quaresima. Questa festività, importante nella liturgia orientale, è ricorsa quest’anno l’11 febbraio e, nella Chiesa dei Santi Sergio e Bacco di Roma, il vescovo Dionisi Ljachovic ha colto l’occasione per ricordare che l’insegnamento di Gesù Cristo è quello di perdonare, sempre, anche i nostri nemici. Olga, Maria e Irina, originarie di Leopoli, però, si chiedono: «Ma come facciamo? Perdonare chi bombarda case, ospedali, scuole e asili è difficile». Irina non ci riesce: «Io non perdono! Non perdono i russi, è anche colpa loro che hanno scelto chi li governa». Olga è in Italia da vent’anni e oggi fa la babysitter ad una Zeta — 17


Minori

«I bambini sorridono tutti nella stessa lingua» Marco Rodari, in arte Claun Il Pimpa, riaccende la curiosità dei più piccoli nelle zone di guerra. Per la sua attività in Ucraina è stato nominato Cavaliere dal Presidente della Repubblica STORIE

di Filippo Cappelli 18 — Zeta

Fra le macerie della città di Bakhmut, nell’Ucraina orientale, un uomo raggiunge un casolare semidistrutto. Nella cantina di otto metri quadri, una bambina si nasconde con la nonna al freddo e al buio, mentre fuori cadono le bombe russe. «Entro vestito come un soldato, mi intrufolo sotto il tavolo e salto fuori con il naso rosso e il cappello da clown. Lo stupore negli occhi di questa bimba mi ha scaldato il cuore». A parlare è Marco Rodari, in arte Claun Il Pimpa, un pagliaccio che da sedici anni opera nelle zone di guerra per donare un sorriso ai bambini. Bakhmut è assediata, ogni giorno muoiono cinquecento militari. Una bomba cade proprio sul nascondiglio del clown, che riesce a fuggire, mentre la piccola e la nonna decidono di restare. «Le ho riviste mesi dopo a Kramatorsk. Non ho idea di come abbiano fatto a salvarsi, riabbracciarle mi ha commosso» ammette Marco. Partito da Leggiuno, un piccolo comune del varesotto sul Lago Maggiore, Rodari ha iniziato a praticare la clownterapia ne-

gli ospedali pediatrici a diciotto anni. Nel 2008 un amico sacerdote lo chiama a Gaza, Marco non ci pensa un attimo e parte. Nella Striscia organizza spettacoli di magia, costruisce scuole, porta cibo e medicine. Si sposta poi in Siria, Iraq e Cisgiordania, insieme all’associazione “Per far sorridere il cielo”, di cui è presidente. Nel marzo 2022 l’arrivo in Ucraina: «La guerra era iniziata da poche settimane – ricorda –, ero a Leopoli, dove arrivavano tantissimi bambini in fuga dal Donbass. Decisi allora di partire per Kharkiv». Dopo un viaggio di mille chilometri, Il Pimpa si trova di fronte un panorama desolante: macerie ovunque, non una casa in piedi, migliaia di villaggi deserti. A Bakhmut, gli ucraini sono nascosti nelle cantine mentre imperversa la battaglia contro i russi. Rodari non demorde, toglie il giubbotto antiproiettile e con il naso rosso da clown e un cappellino a elica mette in scena decine di spettacoli. «Le bombe fanno tutte lo stesso rumore e i bambini sorridono nella stessa lingua. La grande differenza rispetto alle altre zone di guerra –


precisa – è che i bimbi ucraini passano mesi nelle cantine. D’inverno, quando la temperatura raggiunge i trenta gradi sotto lo zero, non hanno nulla per riscaldarsi». A Gaza, invece, i bombardamenti israeliani non impediscono ai ragazzi di giocare all’aperto: «È come se si creasse un’oasi di pace nel luogo più terribile. In Medio Oriente i ragazzi vedono tutto ciò che la guerra lascia per terra, ma la luce del sole li aiuta. In Donbass regna il buio». A due anni dall’invasione russa, sono più di seicento i bambini ucraini uccisi. Molti hanno lasciato il Paese, altri sono stati strappati alle famiglie e deportati, ma alcuni sono ancora nascosti nei villaggi. Il Pimpa ne ha conosciuti diecimila nel solo Donbass, dove è tornato per la settima volta fra agosto e settembre dell’anno scorso: «A tanti non brillano più gli occhi, si chiudono in sé stessi e non parlano. Lo chiamo elettrocardiogramma delle emozioni piatto. Però poi faccio accadere qualcosa di magico e tornano a meravigliarsi» dice Marco. Tramite un gioco di prestigio, il clown di guerra riaccende la curiosità dei bambini e riesce a farli evadere dalla realtà delle macerie. Oltre agli spettacoli, Il Pimpa riporta la bellezza nei villaggi distrutti dai russi. A Izjum, un paese liberato nel settembre 2022, dove l’esercito ucraino ha trovato una fosse comune con cinquecento cadaveri, l’associazione ha ristrutturato la biblioteca comunale, che oggi è piena di libri per l’infanzia. «È l’unico posto per i bambini in città e uno dei pochi con il riscaldamento». Marco tornerà fra pochi giorni in Ucraina, con l’idea di raggiungere altri villaggi: «Non

ho programmi, non amo sapere cosa faccio il giorno dopo. A volte non so neanche dove mi trovo e non mi interessa, voglio essere utile». Per l’attività umanitaria da clown di guerra, Il Pimpa è stato nominato Cavaliere dell’Ordine al Merito dal Presidente della Repubblica, Sergio Mattarella. La notizia lo ha raggiunto in Ucraina a fine febbraio, appena uscito da Kharkiv: «Al fronte non

c’è campo, i russi hanno distrutto tutta la rete di comunicazione. Ho ricevuto un messaggio sul telefono e solo dopo quattro giorni sono riuscito a mettermi in contatto con il Quirinale». Il 31 marzo la consegna dell’onorificenza: «Il Presidente mi ha commosso, perché conosceva la mia storia e ci teneva tanto. Sono stato molto onorato. Mi ha ripetuto più volte che i bambini uniranno il mondo». Dall’incontro a Roma è nata la Giornata della Meraviglia, un progetto che l’Associazione di Rodari ha proposto quattro anni fa e che con il sostegno del Capo dello Stato è approdato in Parlamento: «C’è un disegno di legge già firmato da tutti i partiti. A ottobre scorso abbiamo organizzato spettacoli e laboratori per bambini in più di quaranta piazze italiane, in Siria, Iraq e Gaza».

«È come se si creasse un'oasi di pace nel luogo più terribile» «Tenere viva l’attenzione sui più piccoli ci permette di restare umani. Se molli tutto, rimangono solo odio e rabbia» precisa Il Pimpa. È questo che lo spinge a proseguire l’impegno al fronte, dove il sorriso dei bambini è spesso l’unica speranza: «Ci sono milioni di persone che riescono a non odiare nonostante abbiano vissuto le tragedie più grandi. La pace la trovo soprattutto nei luoghi di guerra». ■ Zeta — 19


Minori

La generazione rubata Secondo il New York Times, 19mila bambini ucraini sono stati deportati in Russia. Altri 2000, riporta uno studio dell’Università di Yale, sono invece in Bielorussia BAMBINI

di Asia Buconi

«Un attacco deliberato al futuro dell’Ucraina». La deportazione forzata dei bambini di Kiev verso la Russia viene descritta così da “Bring Kids Back”, programma umanitario ucraino istituito nel 2023 dal presidente Volodymyr Zelensky per tentare di arginare la «tragedia». Secondo un’inchiesta del New York Times, la Russia dall’inizio della guerra ha sottratto all’Ucraina oltre 19mila dei suoi figli. Lo ha fatto senza controlli esterni né garanzie sulle condizioni dei piccoli, attraverso corridoi di evacuazione diretti verso “campi di filtraggio” e in seguito verso luoghi lontani da tutto come Murmansk, Kamchatka o la frontiera nordco20 — Zeta

reana. Solo 387 di loro sono stati riportati a casa, grazie ai negoziati diplomatici e all’aiuto di organizzazioni non governative come Save Ukraine e Sos Children’s Villages Ukraine. C’è chi è rimasto orfano a causa dei bombardamenti, chi è stato allontanato dalle proprie famiglie con la promessa di una settimana di «svago» in allettanti località balneari sul Mar Nero. Come è accaduto a Cherson, dove il 6 ottobre 2022 le scuole hanno comunicato agli studenti il trasferimento in case-vacanza in Crimea. Lyudmyla Denisova, ex funzionario ucraino per i diritti umani,

ha raccolto una serie di documenti che dimostra come le autorità di Mosca abbiano trasferito in massa i bambini degli orfanotrofi ucraini per affidarli a famiglie adottive russe. Un processo facilitato da un decreto ad hoc firmato dal presidente russo Vladimir Putin a maggio 2023, che concede la cittadinanza russa ai bambini ucraini e dà il potere ai tribunali di Mosca di cambiare loro nome, cognome, luogo e data di nascita. «Dicevano che saremmo stati adottati, che avremmo avuto dei tutori. Quando ci hanno detto che saremmo rimasti più a lungo, abbiamo iniziato tutti a piange-


re», la testimonianza riportata sul sito di “Bring Kids Back” di Dasha, 13 anni, di Cherson. C’è anche quella di Nastya, 15 anni, di Carchiv, che racconta: «Ci hanno detto che si trattava di un’evacuazione, poi che dovevamo restare a tempo indeterminato e che solo i nostri genitori potevano venire a tirarci fuori». Alla prelevazione forzata segue il tentativo di “russificare” i piccoli attraverso un lavaggio del cervello ben studiato. «Ci hanno costretto a cantare l’inno nazionale russo», dice Dayana, quattordicenne di Cherson. Mentre Oleksander, 12 anni, di Mariupol, ricorda: «I russi dissero che mia madre non aveva bisogno di me e che sarei stata affidata ad una famiglia in Russia». Oltre 2400 bambini ucraini tra i sei e i diciassette anni, invece, sono stati prelevati dai territori occupati e trasportati in Bielorussia, il più stretto alleato di Mosca fin dall’inizio del conflitto. Lo ha rivelato uno studio condotto dall’Humanitarian Research Lab dell’Università di Yale e finanziato dall’U.S. State Department. La complicità di Minsk è stata confermata anche da un rapporto pubblicato il 31 luglio scorso dal Centro investigativo bielorusso (BIC), un sito web investiga-

«I russi dissero che mia madre non aveva bisogno di me e che sarei stata affidata ad una famiglia in Russia»

Gorodok, del centro nazionale di educazione e salute per bambini di Zubrenok e del sanatorio Golden Sands nella regione di Gomel. In una lettera inviata al BIC, il segretario dello Stato dell’Unione Dmitry Mezentsey ha sottolineato come l’accoglienza dei bambini ucraini avvenga su istruzioni esclusive di Putin e Lukashenko. Anche in Bielorussia i bambini ucraini sono sottoposti a un pesante indottrinamento, portati in visita all’Accademia bielorussa del ministero degli Affari Interni e al centro di sicurezza del Ministero delle Situazioni di emergenza. Alcuni media filogovernativi di Minsk hanno riferito di una mostra di armi per i minori ucraini, che sono stati costretti a frequentare corsi di tiro con l’unità militare 3214. I “campi di rieducazione” russi – che hanno iniziato a sorgere nel 2014 a seguito all’annessione della Crimea da parte di Mosca- sarebbero 43 secondo la ricerca dell’Università di Yale. Nathaniel Raymond, il direttore esecutivo dello Humanitarian Research Lab dell’università statunitense, descrive queste strutture come «un sistema logistico complesso con qualche elemento militarizzato, disperso, diversificato ed estremamente

vasto nella sua portata geografica» coordinato dagli uffici del governo centrale russo. «Questo è il caso più difficile a cui ho lavorato perché le vittime sono bambini ancora in vita strappati alle loro famiglie e alle loro case», spiega il ricercatore. E se il rapimento dei minori viene bollato come un «salvataggio» dal Cremlino e dalla Bielorussia, per il segretario generale dei bambini scomparsi in Europa Aagje Ieven sarebbe in verità specchio della volontà di Putin di «rubare una generazione». Le Nazioni Unite hanno accusato la Russia di «violazione del diritto umanitario internazionale», mentre a marzo 2023 la Corte penale internazionale ha emanato un mandato di arresto per Putin con l’accusa di crimini di guerra. «Non c’è bisogno di spiegare dove dovrebbe essere usato quel documento», le dichiarazioni fatte sui social in quell’occasione dal vicepresidente del Consiglio di Sicurezza russo Dmitry Medvedev, che aveva allegato al messaggio un’emoticon della carta igienica. La Russia, infatti, non riconosce la giurisdizione della Corte dell’Aja. La comunità internazionale sembra avere le mani legate. E la possibilità di ottenere giustizia per i bambini ucraini si fa sempre più remota. ■

tivo gestito dall’esterno del Paese, che ha reso noti i nomi dei funzionari coinvolti, tra cui figurano membri della famigli del presidente bielorusso Alexander Lukashenko. Stando al BIC, la Bielorussia non si sarebbe preoccupata di nascondere i rapimenti dei piccoli che, anzi, figurano come attività pagate dallo “Stato dell’Unione”, ovvero dai bilanci statali di Russia e Bielorussia. Nel settembre 2022, l’Unione avrebbe sborsato 29 milioni di rubli russi (pari a 500.000 euro) per la “fornitura di assistenza umanitaria” nei territori occupati, che comprende anche la “cura” dei bambini ucraini in Bielorussia. Un articolo del Belarus Today, media bielorusso controllato dallo Stato, ha sottolineato come oltre 2000 bambini ucraini siano arrivati nei campi di Dubrava, in quelli del sanatorio di Ostroshitsky Zeta — 21


Guerra

39%

Da quali paesi arrivano i finanziamenti militari all’Ucraina

Unione Europea

Stati Uniti

47%

Regno Unito Norvegia Canada 14%

Dollari sul campo di battaglia Fonte: Kiel Ukraine Support Tracker, Kiel Institute for the World Economy

I finanziamenti americani hanno permesso a Kiev di resistere. Ma, a due anni dall'inizio del conflitto, l'impegno degli Stati Uniti è cambiato ANALISI

di Chiara Boletti 22 — Zeta

L’invasione russa cominciata nel febbraio 2022 ha costretto l’Ucraina a intraprendere una guerra di resistenza contro una delle economie più grandi al mondo. A due anni dall’inizio del conflitto, se lo stato ucraino è riuscito a resistere agli attacchi dalla Russia, parte del merito va agli aiuti finanziari e militari forniti al paese dagli stati occidentali. I due maggiori finanziatori che hanno supportato la difesa dell’Ucraina sono gli Stati Uniti e l'Unione Europea. In termini numerici, dal febbraio 2022, il maggior contributore è stata l’Unione Europea e i suoi stati membri, che hanno messo a disposizione oltre 85 miliardi di euro a sostegno dell'Ucraina e della sua popolazione. Secondo i dati dell'Istituto di Kiel per l'economia mondiale, uno dei principali centri di ricerca sugli affari economici globali, la somma di aiuti, che non include i contributi dei singoli Stati membri dell'UE, è stata suddivisa in diversi settori. Oltre 31 miliardi di euro sono stati stanziati in assistenza finanziaria, di bilancio e umanitaria, 17 in sostegno ai rifugiati in Euro-

pa, 9,45 i miliardi in sovvenzioni, prestiti e garanzie forniti dagli Stati membri dell'Unione, e 28 miliardi destinati al sostegno militare. Mentre l’Europa ha ripartito i propri finanziamenti in modo equiparabile in diversi ambiti di intervento, la differenza decisiva nella resistenza dell’Ucraina alla minaccia russa sono stati i 44 miliardi di dollari che gli Stati Uniti hanno impiegato in assistenza militare. Parte di un totale di 75 miliardi di finanziamenti, gli Stati Uniti hanno giocato un ruolo chiave per la difesa ucraina. Di questi, solo il 40% degli aiuti è stato destinato a scopi non militari.

Gli aiuti militari americani Dall'invasione della Russia nel febbraio 2022, l'amministrazione del presidente americano Joe Biden ha fornito la seconda maggiore somma di denaro per aiutare l'Ucraina dopo l’Unione Europea. Gli Stati Uniti hanno assunto un ruolo che, dal Piano Marshall dopo la Seconda Guerra Mondiale, non ricoprivano a parità di finanziamenti dati verso un paese europeo.


Con la fetta di 44 miliardi, dei totali 75 dispiegati per l’assistenza militare Ucraina, gli Stati Uniti hanno fornito maggiori risorse dei quattro maggiori contributori - Germania, Gran Bretagna, Norvegia e Danimarca - messi insieme. Questi finanziamenti si sono tradotti in forniture di armi che sono state inviate con cautela a Kiev dall’inizio del conflitto. La minaccia di un’escalation nucleare intimata dalla Russia è stata, e rimane, motivo di moderazione e di scelte che hanno mirato a scongiurare un crescendo dello scontro. Nonostante questo, i 44 miliardi di dollari di aiuti americani per la salvaguardia della difesa sono stati però la chiave che ha permesso all’Ucraina, fino ad ora, di resistere all’invasione. L'amministrazione Biden, dopo due anni, ha distribuito un lungo elenco di mezzi di difesa: carri armati Abrams, missili antiaerei, navi per la difesa costiera e sistemi avanzati di sorveglianza e radar. Tra questi i missili anticarro Javelin di fabbricazione statunitense che si sono rivelati decisivi per Kiev nel respingere l’aggressione russa. Il supporto militare americano non è stato solamente di fornitura di armamenti ma anche di strategia e di

modifica dell’assistenza in base alla progressione dell’avanzata russa.

Dollari e sostegno incerti Il supporto americano si è distinto da quello europeo non solo per aver destinato il doppio dei fondi alla spesa militare ma anche per la periodicità con cui questi sono stati forniti. Mentre l’Unione Europea si è infatti impegnata a costruire un piano di finanziamenti a lungo termine, con piani annuali, il supporto americano è invece stato suddiviso in forma di pacchetti periodici a breve termine. La modalità a breve scadenza con cui gli aiuti vengono approvati ed inviati ha contribuito e continua a creare un clima di incertezza a due anni dallo scoppio della guerra. Il supporto che il presidente americano Joe Biden aveva promesso all’inizio del conflitto affermando che sarebbe durato «as long as it takes» “fino a quando sarà necessario” si trova ora a dover far fronte ad un clima politico diverso. Mentre a febbraio 2023, ad un anno dall’inizio del conflitto, gli Stati Uniti accoglievano il presidente ucraino Volodymyr

Zelensky sottolineando la vicinanza tra i due paesi, ora con lo scoppio della guerra in Medio Oriente, il Congresso americano si divide nel proseguire il sostegno alle spese del conflitto in Ucraina. L’opposizione della maggioranza dei membri del partito repubblicano contraria ad ulteriori finanziamenti in un conflitto lontano, pone in una posizione di incertezza il sostegno economico a Kiev. Le elezioni presidenziali americane del prossimo novembre vedono Donald Trump, ex presidente americano candidato per il partito repubblicano, e dichiaratamente avverso ai finanziamenti verso l’Ucraina, contro il presidente in carica Joe Biden che dall’estate del 2023 cerca di sostenere il popolo ucraino. Il blocco del pacchetto di assistenza militare da 61 miliardi di dollari che, a causa della situazione di stallo e scontro politico del Congresso americano non è stato approvato, fa sì che sia rimasta l’Europa a ricoprire il ruolo di maggior finanziatore. Grazie al pacchetto di 50 miliardi concordato tra gli Stati membri europei, nonostante l’iniziale opposizione della Turchia, ad inizio febbraio 2024, l’Ucraina continuerà a poter contare su aiuti militari e finanziari. ■

FINANZIAMENTI AMERICANI: PRESTITI PER ARMI 75 MILIARDI DI DOLLARI 6%

SOVVENZIONI PER ATTREZZATURE

ARMI ED EQUIPAGGIAMENTI PROVENIENTI DALLE SCORTE DEL DIPARTIMENTO DELLA DIFESA

35% 31% AIUTI FINANZIARI AIUTO DI BILANCIO ATTRAVERSO IL FONDO DI SOSTEGNO ECONOMICO, PRESTITI E ALTRE FORME DI SOSTEGNO FINANZIARIO

4% ASSISTENZA ALLA SICUREZZA FORMAZIONE, EQUIPAGGIAMENTO, ARMI, SUPPORTO LOGISTICO

24%

Fonte: Ukraine Support Tracker, Kiel Institute for the World Economy

AIUTI UMANITARI CIBO D'EMERGENZA, 1 ASSISTENZA SANITARIA, SOSTEGNO AI RIFUGIATI E ALTRI AIUTI UMANITARI Zeta — 23


Guerra

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«Sono corsa a Kiev per difendere la popolazione» La soldatessa Giulia Schiff è una dei volontari arruolatisi nel marzo 2022 nella Legione Internazionale STORIE

di Matilda Ferraris 24 — Zeta

«In Italia è illegale arruolare soldati per conto di un altro Stato. Quindi ho fatto da me». Giulia Schiff ha venticinque anni, un addestramento mai concluso all’Accademia militare di Pozzuoli e una erre veneziana che svela la sua regione di provenienza. Nel marzo 2022, a due settimane dall’invasione russa dell’Ucraina, si è arruolata nel reparto dell’Intelligen-

ce della Legione Internazionale di difesa territoriale, un’unità di combattenti internazionalisti creata da Zelensky a poche settimane dall’inizio del conflitto: «L’Italia e l’Europa si soffermavano sulla diplomazia mentre la gente moriva. E io sono per i fatti, non per le chiacchiere». Quando Schiff è entrata nella Legione la procedura di arruolamento era ancora in


fase sperimentale, oggi è molto più semplice: basta caricare la propria candidatura su un sito dove sono illustrati prerequisiti e step da seguire per proporsi. «Un’amica ucraina mi ha dato il contatto di una famiglia di Zhytomyr disposta a ospitarmi e sono partita» racconta la soldatessa. Dopo aver incontrato il sindaco della città è stata scortata al quartier generale dove ha cominciato la carriera nella Legione, diventando la prima donna internazionalista a servire nell’Intelligence e nelle Forze Speciali: «Non ho mai incontrato una donna che si occupasse di recon, intelligence e assault. Le foreign fighters – racconta -erano poche e non stavano in fanteria, erano perlopiù combat medics (soccorritori militari) o medici da campo». Gli internazionalisti sono in Ucraina da ben prima del ventiquattro febbraio, dal 2014 sono confluiti circa quindicimila foreign fighters. Di questi, mille provenienti dall’Europa occidentale, perlopiù affiliati a gruppi di destra estrema riversatisi in maniera equanime tra gli ucraini nazionalisti e gli indipendentisti filo-russi. Per questo all’inizio della guerra c’era il timore di una nuova ondata di militanti estremisti in Ucraina, come scriveva nel marzo 2022 Francesco Marone sull’ISPI. Così non è stato, secondo uno studio di Naira Aryutinova e Marco Bocchese con l’invasione russa del 2022 la situazione è cambiata e tra i nuovi arrivati i militanti di destra estrema sono una minoranza.

«I combattenti caucasici sono partiti in massa - spiega Naira Aryutinova- sentono che questa guerra è anche la loro. Specialmente i georgiani, devoti agli ucraini che furono gli unici a venire in loro soccorso durante la guerra degli anni ’90». Anche molti bielorussi, secondo uno studio del Counter Center of Terrorism, sono accorsi in Ucraina. Si stima un contingente formato da circa cinquecento uomini, capitanati da militari arruolatisi all’inizio del conflitto, nel 2014. Lo stesso studio attesta la presenza di un ampio contingente di statunitensi veterani di Iraq e Afghanistan, arruolatisi nella Legione Internazionale dopo l’appello di Zelensky.

«Chi decide di andare a combattere in Ucraina ha un'idea ben precisa di dove stiano le colpe» Il presidente russo Putin ha spesso etichettato i volontari internazionalisti come “mercenari” per screditare agli occhi dei suoi cittadini l’esercito ucraino, ma i foreign fighters in Ucraina, a differenza dei miliziani della Wagner, hanno un contratto che li regolarizza come soldati aventi gli stessi diritti e doveri di quelli nativi, come previsto dalla convenzione di Ginevra. Se, come spiega Naira Aryutinova, è impossibile generalizzare le motivazioni che spingono i combatten-

ti ad arruolarsi perché hanno background molto diversi tra loro, una cosa è sicura: il denaro non è una spinta sufficiente. Anche Giulia Schiff lo crede: «Nessuno rischia la vita per due soldi che spesso arrivano anche in ritardo, c’è bisogno di un motivo in più: io sono qui contro l’autoritarismo e per difendere i civili». La sua ricompensa, spiega, è l’affetto dei civili: «Quando ti ringraziano o ti trattano come un eroe, c’è molto rispetto per la figura del soldato specie quello internazionale perché non è da tutti difendere un paese che sulla carta non è il proprio». Chi decide di andare combattere in Ucraina ha un’idea ben precisa di dove stiano le colpe: «Vedono nitidamente qual è la “parte giusta” in cui schierarsi» conclude Arutyunova. Dopo due mesi di combattimento in Ucraina, Schiff ha conosciuto Viktor, un’internazionalista israeliano, che è diventato suo marito. A novembre, in seguito a una grave ferita di lui, i due si sono ritirati dal fronte. Schiff però vuole ritornare sul campo: «Mi sto preparando da tre mesi e sono pronta a tornare, questa volta come pilota di droni. La mia missione lì non è ancora finita». ■ 1. Giulia Jasmine Frydman Schiff sul campo di battaglia con indosso una divisa mimetica e un visore notturno. 2. Ben Grant e altri combattenti internazionalisti dalla Gran Bretagna prima della partenza per il fronte

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Photogallery

L'AI racconta la guerra PHOTOGALLERY La guerra in Ucraina raccontata dall'intelligenza artificiale Midjourney a cura di Nicole Saitta

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Politica

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Elezioni in Russia simulazione di democrazia I cittadini saranno chiamati alle urne dal 15 al 17 marzo per scegliere il futuro presidente. O forse no RUSSIA

Nel mese di gennaio i canali Telegram di opposizione mostravano immagini di speranza: centinaia di russi in coda, sotto la neve e su marciapiedi ghiacciati, per manifestare il loro appoggio a Boris Nadezhdin. Ultimo degli anti-putiniani ancora in corsa per le presidenziali, il politico prometteva la fine della guerra e il ritiro delle truppe dall’Ucraina. Per il sistema elettorale russo un candidato indipendente deve raccogliere almeno 100.000 firme, con un massimo di 2500 sottoscrizioni da ciascuna regione, per poter concorrere alla carica di presidente. Nadezhdin sapeva bene che la Commissione Elettorale Centrale (CEC) gli avrebbe messo i bastoni tra le ruote: per questo puntava a raccoglierne 50.000 in più, con l’obiettivo di ritagliarsi un ampio margine in caso di irregolarità.

di Simone Salvo 28 — Zeta

A fine mese il traguardo è più che raggiunto: il suo entourage dichiara di aver ottenuto almeno il doppio delle sigle necessarie. Solo 105.000 di queste, però, sono sottoposte ai controlli della Cec entro il termine ultimo del 31 gennaio. Le paure dell’oppositore si rivelano fondate: la Commissione annulla più di 9000 firme, etichettandole come

false, doppiate o attribuite a soggetti già deceduti. Due pesi, due misure: delle oltre 300.000 sottoscrizioni presentate dall’attuale capo di stato Vladimir Putin solo novanta sono invalidate. L’esclusione di Nadezhdin, formalizzata l’8 febbraio, è un duro colpo per l’opposizione: era l’unico candidato in grado di far tremare il Cremlino. Che il presidente lo temesse è confermato da una fonte governativa, in una dichiarazione anonima rilasciata al giornale indipendente Meduza. «Una buona fetta dell'elettorato vuole che la guerra finisca. Chiunque decida di far leva su quest’esigenza potrebbe ottenere una discreta percentuale di voti. È l’ultima cosa di cui Putin ha bisogno», diceva. Adesso niente e nessuno è in grado di fermare la corsa del dittatore: in una sola settimana l’ultimo oppositore è stato estromesso dai giochi e il più famoso dei dissidenti, Alexei Navalny, è morto in carcere in circostanze misteriose. Anche Navalny, sei anni fa, aveva subito lo stesso destino di Nadezhdin: escluso dal voto per una presunta irregolarità nella raccolta delle firme.


dell’imperialismo russo e della lotta contro l’Occidente. Nel 2019 è al centro di una polemica internazionale per aver proposto la censura della serie HBO Chernobyl e un processo penale per i suoi creatori: definisce lo show «disgustoso e irrispettoso del popolo russo». Quattordici potenziali rivali. Nessuno, però, con un bacino di consensi abbastanza vasto da rappresentare una minaccia reale per Putin. L’esito delle elezioni è già scritto: anche al Cremlino lo confermano. In un’intervista di agosto 2023 con il New York Times, il portavoce Dmitry Peskov si lascia sfuggire: «Le presidenziali sono più una costosa formalità che una reale espressione di democrazia. Putin sarà riconfermato con oltre il 90% di preferenze».

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Gli analisti e i media internazionali non hanno dubbi: le elezioni di marzo sono una farsa architettata a tavolino. La Russia è una dittatura de facto: con un referendum costituzionale ad personam Putin si è assicurato la possibilità di candidarsi per il suo quinto mandato da presidente. I tre candidati ancora in corsa sarebbero pedine selezionate ad hoc dal Cremlino, senza alcuna speranza di vittoria. Lo dimostrano i dati degli opinion polls pubblicati dal Centro di Ricerca sull’Opinione Pubblica in Russia: Putin trionfa con un 64% di preferenze. Al secondo posto, con uno scarno 5%, il quarantenne Vladislav Davankov, a capo del partito centrista New People. Il politico si propone come un’alternativa alla “vecchia politica”, riscuotendo un discreto successo tra i liberali delle nuove generazioni. Il Centro di Analisi della Politica Europea (Cepa) lo individua come unico vero rivale di Putin, dopo l’estromissione di Nadezhdin: il Cremlino avrebbe persino tentato di farlo sostituire con un candidato «meno giovane e carismatico». Aneddoti a parte, la sua è considerata da molti analisti un’opposizione di facciata. Sull’invasione dell’Ucraina mantiene da sempre una posizione ambigua: appoggia le operazioni militari nella regione, ma si astiene dal voto sul riconoscimento del Donetsk e del Lugansk come stati indipendenti.

Firma in supporto di Nadezhdin, a tutela della libertà di espressione e del dissenso costruttivo, eppure si guarda bene dall’attaccare Putin in campagna elettorale. Il giornale moscovita Moskovskij Komsomolets lo accusa di essere uno spoiler candidate: un innocuo burattino, schierato dallo stesso Cremlino per frammentare i voti dell’opposizione. Il terzo politico in corsa è Nikolay Kharitonov del partito comunista: anche in questo caso il disaccordo con il governo si limita a questioni di politica interna di secondaria importanza. Kharitonov supporta l’invasione dell’Ucraina ed è stato pertanto inserito da Stati Uniti e Regno Unito nella lista di magnati russi da sanzionare.

Nona Mikhelidze, responsabile di ricerca presso l’Istituto di Affari Internazionali italiano, denuncia: «L’8 febbraio l’estromissione di Nadezhdin dalle elezioni, una settimana più tardi l’omicidio di Navalny in carcere. Putin elimina il dissenso perché sa che può permetterselo: il controllo sulle istituzioni è totale. A marzo sarà rieletto presidente e non c’è nulla che possiamo fare per evitarlo. La Russia è a tutti gli effetti un regime dittatoriale che mostra oggi il suo lato peggiore». ■ 1. Cittadini in coda per la raccolta firme a supporto di Nadezhdin. Foto: Reuters 2. Piazza Rossa a Mosca. Foto: Pexels 3. Vladimir Putin. Foto: Wikimedia Commons

L’ultimo concorrente, con appena il 3% di preferenze, è Leonid Slutsky del Partito Liberal-Democratico di Russia: a dispetto del nome, un movimento nazionalista di estrema destra. Nella sua lunga carriera politica Slutsky è stato coinvolto in vari scandali, accusato di corruzione e violenze sessuali. Oltre ai quattro candidati definitivi, è lunga la lista di aspiranti che non ce l’hanno fatta, bloccati dalla Cec. Non solo oppositori, come Nadezhdin: tra di loro c’è anche Sergey Malinkovich, il controverso leader dei Comunisti di Russia. Figura per molti aspetti sovrapponibile a quella di Putin, Malinkovich è un convinto fautore

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Politica

Amici e rivali, i due volti di Kiev Dopo due anni di guerra, il presidente ucraino cambia il suo "generale di ferro" SCONTRO

Continuare a combattere cercando l’offensiva o morire politicamente preferendo una strategia difensiva delle posizioni. Di fronte a questo bivio si è trovato il presidente ucraino Volodymyr Zelensky quando ha dovuto decidere come portare avanti la guerra che prosegue da ormai due anni sul territorio della nazione che guida. Dal 22 febbraio 2022 ad oggi, ogni volta che si è parlato di negoziati di pace, che fosse con Joe Biden, presidente degli Stati Uniti d’America, o Xi Jinping, presidente della Repubblica Popolare Cinese, Zelensky ha sempre ribadito: «Se i russi vogliono negoziare, devono restituirci il nostro territorio, ritirarsi oltre i confini internazionalmente riconosciuti del 1991».

di Alessandro Imperiali 30 — Zeta

Per questo, ha deciso di imboccare la prima strada, ma per farlo aveva una sola possibilità: cambiare i vertici militari del suo esercito. La figura chiave di questo spoils system bellico è Valerij Zaluzhnyi, anche detto “generale di ferro”, (ex) capo delle forze armate ucraine.

«Ho incontrato il generale Zaluzhnyi. L’ho ringraziato per questi due anni in cui ha difeso l’Ucraina. Abbiamo discusso del rinnovamento di cui hanno bisogno le Forze Armate ucraine. Il momento per un tale rinnovamento è adesso», sono queste le parole pubblicate su X con cui il presidente ucraino, l’8 febbraio, lo ha licenziato. «I compiti del 2022 sono diversi da quelli del 2024. Pertanto, tutti devono cambiare e adattarsi anche alle nuove realtà. Per vincere insieme», la risposta sempre via social del Generale di ferro. Una decisione impopolare tra i cittadini, tanto che, secondo un sondaggio del Kyiv International Institute of Sociology (KIIS), l’indice di gradimento nei confronti di Zelensky è sceso al 60%, 5 punti percentuali in meno dopo la sostituzione del militare che invece gode di un tasso di fiducia del 92%. Una percentuale così alta per vari motivi: è nato a Novohrad-Volynskyi, una cittadina nel nord del Paese, quindi di etnia ucraina e non ha mai servito nell’esercito sovietico, addirittura nella sua tesi di


laurea analizzò la struttura militare degli Stati Uniti. Fattori che, ad occhi occidentali, possono sembrare scontati, ma che per una nazione divenuta indipendente poco più di 30 anni fa non sono. Infatti, Oleksandr Syrsky, il nuovo comandante in capo all’esercito ucraino, è nato nell’Oblast di Vladimir, non lontano da Mosca, la stessa città dove nel 1986 si laurea all’Alta accademia di comando militare. Poi rimasto in Ucraina dove comincia la sua carriera come comandante di plotone di fucilieri motorizzati. Un militare criticato dai media internazionali come il Times e l’Economist perché considerato disinteressato alla vita dei soldati. Un generale con retaggi di addestramento sovietici col soprannome di “macellaio”, al quale da un lato vengono riconosciuti il successo della controffensiva ucraina dell’autunno 2022 nella regione nord-orientale di Kharkiv e la difesa di Kiev, ma che dall’altro non gode di particolare rispetto per la battaglia di Bachmut dove hanno perso la vita, secondo le stime NATO, oltre 10mila soldati ucraini, di cui molti appartenenti a brigate specializzate. E ancora prima nel febbraio del 2015 nel Donbass quando tra soldati e ufficiali vennero uccisi dall’esercito russo in 3mila. Anche Zaluzhnyi ha combattuto nel Donbass dal 2014 e nonostante nel 2017 sia diventato maggiore generale, anziché

trasferirsi dove era situato lo stato maggiore, ha preferito rimanere in prima linea. Trasforma il suo esercito da rottame sovietico a moderna forza combattente in linea con gli altri eserciti NATO e quello americano, incoraggiando un processo decisionale meno rigido e delegando di più a chi era sul campo. «La mente militare di cui il suo Paese aveva bisogno», spiegherà il generale americano Mark Milley dopo il suo principale successo. Una controffensiva nel nord-est combinata a una seconda operazione nel sud a inizio settembre 2022 che sorprende le truppe russe e permette all’esercito ucraino di sottrarre 6mila chilometri quadrati al controllo nemico in sole due settimane. Un’azione capace di liberare città e tagliare le linee di rifornimento nemiche. Eppure, nonostante goda di profonda ammirazione da parte dei suoi concittadini e dei suoi commilitoni, soprattutto dopo aver raggiunto il ruolo più alto in grado solo dopo il presidente Zelensky, è stato sostituito. Non si tratta dell’unica figura di prim’ordine epurata dal presidente ucraino dall’inizio della guerra: dal capo dei servizi segreti (SBU) Ivan Bakanov passando per la procuratrice generale Irina Venediktova a diversi viceministri. Tutti incolpati di tradimento, accusa molto pesante in un Paese dove vige la legge marziale.

Zaluzhnyi non è stato cacciato o incriminato, al contrario nel post di congedo viene sottolineato che rimarrà all’interno dell’esercito. Ormai, però, l’unica cosa che i due condividevano era l’aspirazione che avevano da ragazzi di diventare comici. Dietro questa scelta, infatti, ci sono due visioni opposte sul come continuare la guerra. Il blocco degli aiuti finanziari da parte degli Stati Uniti d’America ha cristallizzato il conflitto e quanto inviato dall’Unione Europea non basta. Secondo l’Istituto Kiel, tra i principali think thank economici del mondo, l’Ue per sostituirli dovrebbe raddoppiarli nella quantità e dimezzare la velocità con cui questi vengono fatti. Una sfida impossibile. Per questo Zaluzhnyi, come ha scritto lui stesso in un articolo per la CNN prima del cambio di ruolo, era dell’idea di mantenere le posizioni e non avanzare più almeno fino a quando non fossero arrivate nuove munizioni e armi. Una decisione dettata dalla consapevolezza del consumo pressoché totale degli stock militari e dell’umore delle sue truppe dopo il fallimento della controffensiva estiva. Una scelta che il presidente Zelensky deve rifiutare perché vorrebbe dire morire politicamente e tradire la promessa di tornare ai confini del ’91. ■

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Politica

Blog, Telegram e TikTok, la propaganda filorussa sul web La diffusione della disinformazione sul conflitto russo-ucraino in Italia sulle piattaforme FAKE NEWS

di Luca Graziani 32 — Zeta

«Ad oggi abbiamo identificato 467 siti che hanno pubblicato in questi anni disinformazione su Russia e Ucraina. Quelli in italiano sono 44, molti già noti perché pubblicavano fake news su pandemia, i vaccini, il clima», Giulia Pozzi, Senior Analyst di NewsGuard, traccia un quadro dell’impatto della propaganda filorussa in Italia dall’inizio del conflitto. «Abbiamo lanciato il nostro Centro di monitoraggio all’indomani dell’invasione russa. Molti dei siti tenuti sotto osservazione sono repeat offenders, pubblicano narrazioni false sull’emergenza del momento». Spesso si presentano come «veri portali di news, anche locali, oppure sono pagine personali di noti disinformatori. Si citano tra loro e hanno un forte engagement sui social, soprattutto su Telegram».

A mappare il fenomeno anche una ricerca del Luiss Data Lab in collaborazione con Harvard Kennedy School e Michigan University, “Come individuare e contrastare operazioni coordinate di disinformazione in Italia”. Sono stati analizzati account social, forum e in particolare blog, spazi virtuali liberi da moderazioni. Multitematici, popolati da articoli clickbait, seguono il ciclo delle notizie puntando a fare concorrenza ai media tradizionali. Se la linea editoriale può variare, i target restano gli stessi: l’Europa, la Nato, l’amministrazione Biden, Israele, Giorgia Meloni e il centrosinistra. A gestirli sono spesso influencer o personalità pubbliche, politici, ma anche medici e avvocati. La categoria più ricorrente è quella degli


pseudo giornalisti indipendenti, che dicono di svelare presunte verità “che nessuno racconta”. In alcuni casi, la commistione con il mondo dell’informazione tradizionale è evidente. Uno degli utenti target della ricerca, ad esempio, alla sua attività su X, affianca la collaborazione con un quotidiano nazionale, che gli conferisce autorevolezza e visibilità all’interno delle community esposte alla propaganda russa. Sul social di Elon Musk, gli account che veicolano fake news sulla guerra in Ucraina ora possono beneficiare anche della spunta blu. Con un abbonamento da 8 dollari al mese è possibile apparire affidabili e godere di un posizionamento più alto nei feed degli utenti. NewsGuard ha rilevato che noti diffusori di misinformazione stanno usufruendo del servizio a pagamento. Categoria specifica è, invece, quella dei troll, profili anonimi che mirano a inquinare il dibattito con provocazioni e insulti. Riconoscerli non è difficile, se la bandiera russa svetta nel nickname, la Z o il nastro di San Giorgio, divenuto simbolo della vittoria dell’URSS sulla Germania nazista, occupano la foto profilo. Questo li rende identificabili e li aiuta a creare community più estese, sfruttando anche la traduzione simultanea offerta dalle piattaforme. Condividono articoli della stampa controllata dal governo russo, dirette streaming di canali tv non accessibili in Europa, o contenuti estrapolati dai talk show, stravolgendone il

significato. Questa tecnica rappresenta una sfida per la moderazione dei contenuti sulle piattaforme, trattandosi più che di contenuti, di contesti falsi. Mentre cresce l’uso di VKontakte, dove sono attivi alcuni influencer italiani - in Russia è diventata l’alternativa a Facebook dalla messa al bando dei social – su Meta, tramite sponsorizzazione, è ancora possibile diffondere notizie false. Nella ricerca emerge come le pubblicità di pagine di disinformazione siano apparse in Home dopo 11 ore di ricerche manuali e interazioni con post filorussi. Secondo un report di NewsGuard del marzo 2022, su TikTok, invece, l’utente medio può imbattersi in video che riportano fake news sulla guerra ad appena 40 minuti dall’iscrizione. Da attenzionare anche i gruppi complottisti su Telegram, che consente di pubblicare contenuti sensibili non ammessi altrove. Di estrema destra o di estrema sinistra, ad unirli è la devozione alla figura di Vladimir Putin e l’idea della Russia come difensore dei valori tradizionali, dalla fede cristiana all’anticapitalismo. La tesi di fondo è che la responsabilità dell'inizio del conflitto debba ricadere sugli stati Nato e sul governo di Volodymyr Zelensky: il 24 febbraio 2022 la Russia avrebbe avviato “un'operazione militare speciale” per difendere la propria sicurezza nazionale dall'espansione dell'Alleanza Atlantica e per proteggere la popolazione dell'Ucraina orientale. Le narrative false che hanno ottenuto più

seguito? La teoria secondo cui «gli Stati Uniti starebbero producendo armi biologiche grazie a laboratori in Ucraina e in altri paesi dell’Europa dell’Est», spiega ancora Giulia Pozzi di NewsGuard, «è un falso che si è diffuso in molti paesi, tra cui l’Italia, adattandosi ai contesti nazionali». L’impatto maggiore lo hanno avuto le fake news sulla strage di Bucha: «Tanti siti italiani le hanno ripubblicate con toni allusivi mettendo in dubbio che il massacro sia stato realmente compiuto dai russi». E poi le insinuazioni «sul nazismo dell’Ucraina e della sua leadership, Zelensky è stato accusato in varie occasioni di indossare felpe e uniformi con simboli nazisti, anche durante viaggi in Italia», fino ad arrivare alla notizia dell’uso di mine antiuomo italiane proibite dai trattati internazionali, un falso diffuso dall'Ambasciata Russa e subito smentito dal Ministro della Difesa Guido Crosetto. A due anni dall’inizio del conflitto la propaganda filorussa resta dunque un cavallo di battaglia per i diffusori di fake news. Secondo l’ultimo report mensile di IDMO, l’Italian Digital Media Observatory, a cui contribuiscono Open e Pagella Politica, la guerra in Ucraina è ancora sul podio, dietro soltanto a Gaza e Israele, per numero di narrazioni false diffuse sul tema. L’ultima, il deepfake del generale Valery Zaluzhny: nel video generato dall’IA, il comandante in capo delle forze armate ucraine annuncerebbe un colpo di stato contro Zelensky. ■

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Media

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Troppi silenzi sulla guerra I media hanno spostato il focus sugli eventi nella striscia di Gaza, ma l'interesse degli utenti per il conflitto in Europa non è svanito DATI

di Nicole Saitta 34— Zeta

Due anni dopo lo scoppio della guer- lori sono poi rimasti invariati su una perra in Ucraina, i dati rivelano l’entità del centuale minima fino a gennaio 2024. conflitto e l’impatto devastante che ha avuto sulla popolazione. Il numero delle L’analisi si è poi concentrata sulla vittime e le conseguenze economiche of- distribuzione di ricerche per le regiofrono una finestra spietata sulla tragedia ni d’Italia. Il maggiore interesse si è riche si è consumata nell’est dell’Ucraina. scontrato in particolare al centro-sud, con picchi in Calabria (100%), Umbria Non meno importanti sono le stati- (89%), Puglia (83%), Campania (82%) e stiche inerenti ai discorsi sulla guerra e Sicilia (81%). Al nord è la Valle d’Aosta a alla mole di interesse rivolta al tema. Il raggiungere il 97% di attenzione nei con24 febbraio 2022, giorno in cui la Russia fronti del conflitto, mentre la regione con ha attaccato l’Ucraina, l’attenzione sullo meno coinvolgimento è il Trentino Alto scontro ha raggiunto picchi massimi in Adige con una percentuale del 56%. maniera istantanea e inevitabile. Analizzando i dati di ricerca sul web in Italia Studiando i siti web di alcuni dei di febbraio 2022, infatti, Google Trends maggiori quotidiani italiani, la situazioha riscontrato il 100% di coinvolgimen- ne rimane analoga. Nella data di inizio to per i primi quattro giorni dall’attacco. della guerra, la homepage di repubblica. La digitazione “guerra in Ucraina” sul it ha in apertura un articolo con gli agbrowser però non ha prodotto gli stessi giornamenti in diretta dal fronte dal titorisultati col passare del tempo. Già nel lo “Ucraina, è iniziata l’invasione russa”. marzo del 2022 la percentuale è crollata Lo stesso che appare anche nella pagina sotto il 50%, fino a diventare quasi nulla principale di corriere.it e de ilmessaggeal termine del mese di luglio (4%). I va- ro.it. In quest’ultimo caso, è tutto il sito


web ad essere dedicato agli aggiornamenti sul conflitto. Lastampa.it titola “È guerra in Ucraina” e anche in questo caso sono presenti le notizie in tempo reale sui confini russo-ucraini. Medesima circostanza si ripete nei giorni successivi con l’attacco di Putin a Kiev, in cui le prime pagine online si sono concentrate sui nuovi attacchi e su un primo bilancio di morti e feriti. Svolgendo la stessa osservazione sui medesimi giornali a tre mesi di distanza dall’invasione russa, l’interesse sulla guerra non appare diminuito come nel caso dei dati riscontrati su Google Trends. Le notizie sull’argomento rimangono nella pagina di apertura dei siti web di news ma cambiano posizione: esse, infatti, non sono più in testa. In occasione del primo anniversario della guerra in Ucraina, il 24 febbraio 2023, i titoli sul tema tornano a dominare l’homepage in particolare di corriere.it e lastampa.it. Al contrario, sui siti de larepubblica.it e ilmessaggero.it prevalgono tutt’altre notizie. Anche i dati di Google Trends confermano quanto riscontrato sui giornali online: le parole “guerra in Ucraina” sul browser hanno il 36% di ricerche nella stessa data. La tendenza cambia alla fine di giugno 2023 quando Mosca invia 30 droni a Kiev e valuta l’attacco nucleare a Zaporižžja. Negli ultimi quattro mesi, il conflitto nella striscia di Gaza è tornato a suscitare l’attenzione dei media. Il 7 ottobre 2023, a seguito dell’attacco palestinese a Israele, le testate analizzate hanno aperto i loro siti web con la notizia della guerra in Medio Oriente, approfondendola poi nei giorni e nei mesi successivi. Per questo motivo,

in particolare sui giornali presi in esame, le informazioni sulla questione russoucraina sono state messe in secondo piano o, in alcuni casi, non trattate. Lo stesso non può dirsi dell’interesse degli utenti nei confronti del tema. Mettendo a confronto le parole di ricerca “guerra in Ucraina” e “guerra Israele-Hamas”, i risultati che emergono da Google Trends, tenendo in considerazione i dati italiani, fanno comprendere che

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l’attenzione allo scontro tra Kiev e Mosca è diminuita ma è comunque maggiore di quella riservata alla questione mediorientale. Il 6% dei navigatori ha digitato su browser per cercare contenuti inerenti alla situazione fra Russia e Ucraina, al contrario poco più dell’1% ha chiesto a Google di trovare informazioni sugli avvenimenti in corso nella striscia di Gaza. Considerando i dati di ricerca ampliati al contesto mondiale e non limitati al territorio italiano, nella classifica della top

10 dei temi più richiesti al primo posto si trova “war in Israel and Gaza” (guerra in Israele e Gaza) e, al contrario, la guerra tra Kiev e Mosca non è contemplata nella lista. Appare dunque quasi fisiologico che, dopo l’esplosione di informazioni piovute nelle case durante i primi mesi del conflitto in Ucraina, mantenere lo stesso livello di interesse sia improbabile. In particolare, la questione di un imminente disastro nucleare che ha avvolto la narrazione enfatica della guerra di Putin stimola l’interesse dei lettori, ma col passare del tempo ne riduce la credibilità e quindi la fiducia. Persino il campo semantico attraverso cui determinati temi sono trattati da parte dei media risulta fondamentale per catturare l’attenzione dei consumatori. Reuters, ad esempio, si riferisce alle tensioni tra Russia e Ucraina parlando di “crisi” e, all’opposto, tratta la questione mediorientale riferendosi alla materia con la parola “guerra”. In conclusione, ci sono dati a favore della tesi secondo cui l’interesse verso la Russia e l’Ucraina sia scemato – anche a causa della rinnovata attenzione per il conflitto a Gaza – ma sono anche presenti numeri che lasciano intendere che il coinvolgimento non sia del tutto perso. ■ 1. Immagine generata dall'AI Midjourney 2. Immagine generata dall'AI Midjourney 3. Dati prodotti da Google Trends sulle ricerche effettuate dagli utenti sul browser con i termini "Vlodimir Zelensky" (blu) e "Benjamin Netanyahu" (rosso) 4. Dati prodotti da Google Trends sulle ricerche effettuate dagli utenti sul browser con i termini "guerra in Ucraina" (blu) e "guerra in Israele" (rosso)

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Media

Deep fake, troll e fabbriche di bot A due anni dall'invasione dell'Ucraina, la disinformazione russa sui social media non si ferma PROPAGANDA

di Matilde Nardi

«Vi consiglio di deporre le armi e tornare dalle vostre famiglie», affermava il presidente ucraino Volodymyr Zelensky in un video del marzo 2022, invitando le sue truppe alla resa, a meno di un mese dall’invasione russa. Quel contenuto, divenuto presto virale, era un deepfake, creato con l’intelligenza artificiale. Un montaggio ingannevole, che partendo da foto e video veri, ricrea in modo realistico altri contenuti che rappresentano però fatti inesistenti. L’obiettivo dei produttori del deepfake di Zelensky era suscitare sconforto nei soldati e civili ucraini, disorientarli e seminare il panico. Si tratta di una nuova arma della guerra cosiddetta ibrida, che coinvolge droni, missili, soldati sul campo e inquina i canali di informazione e di comunicazione, modificando la realtà. Le bot farm, un insieme di computer programmati per eseguire attività au36 — Zeta

tomatizzate su Internet, amplificano la propaganda prodotta da troll, utenti reali che disturbano la comunicazione online con messaggi provocatori o falsi. Ci sono milioni di account fasulli che diffondono disinformazione legata alla guerra e gli attacchi informatici a infrastrutture ed enti governativi ucraini, così come i canali Telegram e Youtube, sono ormai strumenti potenti nell’arsenale russo. «A due anni dall’invasione, il nucleo della narrativa è rimasto simile. I temi sono la negazione di uno Stato ucraino indipendente e l’inclusione della cultura ucraina all’interno di quella russa», sostiene Maia Klaassen, esperta di disinformazione dell’Università di Tartu, in Estonia. «Gli ucraini sono ancora additati come barbari corrotti da addomesticare e controllare. A causa delle sanzioni occidentali la Russia investe più soldi in propaganda, sull’idea di Russkij Mir». Il concetto di “mondo russo”, coniato dai “tecnici della politica” Efim Ostrovskij e Pëtr Ščedrovickij è stato richiamato da Putin per giustificare l’annessione illegale della Crimea nel 2014 e l’invasione dell’Ucraina. Rifacendosi al “Russkij Mir” la Russia è diventata una minaccia alla stabilità dell’area post-sovietica e presenta la sua posizione egemonica di protettrice delle comunità russe fuori dai confini nazionali come una necessità storica. Il Cremlino considera suo dominio

naturale i paesi baltici, cerniera orientale della NATO e indipendenti dall’Unione sovietica dagli anni Novanta. «La disinformazione russa in Estonia è stata a lungo uno strumento di manipolazione. Questo ci ha immunizzato contro certe narrative che abbiamo sentito noi, i nostri padri, nonni e figli. Conosciamo i nostri vicini», ricorda Klaassen. Nell’anno delle elezioni europee, molti si chiedono come il nostro continente possa combattere le interferenze straniere. «Molti diplomatici russi, che hanno fatto parte dei servizi segreti, prima operavano in Europa. Il lavoro svolto in passato è stato trasferito in Russia o online», aggiunge la ricercatrice. Per lei la soluzione ci è stata fornita dalla stessa Russia nel 2014: la “dottrina Gerasimov”. La teoria, elaborata dall’omonimo capo di Stato maggiore russo, consiste nell’attaccare l’avversario non solo sul piano militare, ma anche su quello cognitivo, tecnologico e informatico, con procedure non convenzionali. «È una questione di cooperazione internazionale e preparazione, di prebunking, servono risposte coordinate, difesa psicologica, programmi di ricerca e educativi», conclude. ■


essere ufficiali del FSB [Il Servizio federale per la sicurezza della Federazione Russa, ndr]», aggiunge la giornalista. La giornalista spiega come il governo contribuisca a diffondere disinformazione: «Un esempio riguarda le perdite dell’esercito russo nella guerra. L’ultimo report del Ministero della Difesa risale al 21 settembre 2022: secondo i loro dati, 5.937 persone sono morte nella guerra. Tuttavia, Mediazona e BBC News Russia hanno svelato i nomi di 43.460 soldati russi uccisi nella guerra fino a febbraio 2023».

Così il governo russo censura i giornalisti La giornalista Sonya Savina è scappata a Praga per riportare la verità sulla guerra senza rischiare il carcere STORIE

di Giulia Rugolo

«Nessun giornalista russo è al sicuro, neanche in Europa». Sonya Savina è una giovane reporter di Important Stories, una testata russa indipendente fondata da Roman Anin, che in questi anni ha svolto inchieste sui crimini commessi dall’esercito di Putin in Ucraina. Nel 2021, ha vinto lo European Press Prize Investigative Reporting Award per le sue indagini e a ottobre 2023 è stata insignita con il premio Lorenzo Natali della Commissione europea come miglior giornalista emergente.

appartamento a Mosca e di aver atteso il giorno successivo per eventuali retate da parte dei servizi di sicurezza», dice lei. Pochi giorni dopo, il loro direttore ha consigliato all’intera redazione di lasciare la Russia e trasferirsi a Praga per continuare a lavorare senza rischiare di essere arrestati. Nella capitale ceca, Irina Dolinina e Alesya Marokhovskaya, due colleghe di Savina, sono state minacciate. I mittenti conoscevano gli indirizzi di casa e sapevano come rintracciare i loro voli. «Un ex dipendente di un servizio di intelligence europeo ci ha detto che sarebbero potuti

Alcuni suoi colleghi, che scrivono per Novaya Gazeta Europe, hanno intrapreso un progetto chiamato In propaganda’s web, analizzando oltre tre milioni di articoli del principale mezzo di propaganda russa RIA Novosti. «La testata enfatizza costantemente che la Russia mira solo alle infrastrutture militari e che i civili ucraini non sono in pericolo. Questo è stato rilevato in 11.628 articoli e sappiamo con certezza essere falso: ci sono foto e video di infrastrutture civili distrutte, insieme alle loro testimonianze», aggiunge la reporter. «La nostra agenda è cambiata molto dopo l’inizio dell’invasione. Riportare la verità sulla guerra è diventata la nostra priorità, perché in una situazione in cui lo stato perseguita persino quei cittadini che semplicemente protestano con un cartello che dice “no alla guerra” [le autorità russe si riferiscono alla guerra come «operazione militare speciale» ndr], non possiamo restare in silenzio al riguardo», conclude Savina. ■

1. Screen dalla pagina web di Important Stories dedicata alle inchieste 2. La giornalista Sonya Savina nella redazione di Zeta

Savina racconta che quando nel 2022 è iniziata l’invasione, la redazione di IStories ha capito che le autorità russe avrebbero imposto la censura militare e perseguitato coloro che avrebbero scritto di questa guerra. Durante i primi giorni, la Russia ha promulgato la Fake News Law, che impone la responsabilità penale per la diffusione di informazioni sull’esercito russo diverse da quelle ufficiali del Ministero della Difesa. «Ricordo di aver scritto notizie sulle morti dei soldati russi dal mio Zeta — 37


Media

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Valeria Shashenok, quando i social ti salvano la vita Il viaggio di Valeria dall’Ucraina all’Italia grazie alla condivisione online TIK TOK

di Chiara Grossi 38— Zeta

I social media stanno rivestendo un ruolo cruciale nella narrazione della guerra, in cui il linguaggio immediato di queste piattaforme diventa il mezzo per veicolare messaggi tutt’altro che superficiali. L’invasione della Russia in Ucraina è stata definita “la prima guerra di TikTok": video di pochi secondi, accompagnati da didascalie e hashtag spesso bizzarri, raccontano il conflitto nella sua dimensione quotidiana. I profili personali non sono più semplici vetrine per l’autorappresentazione, ma seguendo la scia dell’attivismo, possono trasformarsi in una potenziale via di fuga. La storia di Valeria Shashenok, ragazza ucraina classe 2001, è emblematica. Grazie ai social network è riuscita a scappare da Chernihiv, la sua città natale a nord di Kiev, e a trovare rifugio in Italia: «Con i miei post sui social ero riuscita a informare la gente sulla guerra e anche a descrivere quello che stava accadendo a Kiev. Inoltre mi hanno aiutato a fuggire dall’Ucraina e a trovare ospitalità a Mila-

no». È quello che racconta nel suo libro 24 febbraio e il cielo non era più blu, un titolo che fa capire come il conflitto abbia ingrigito il blu vivo del cielo: «Era il 24 febbraio e il cielo era grigio quando Putin ci ha invaso, quando sono iniziate le esplosioni a Kiev», annota Valeria. Lei è una fotografa freelance e prima dello scoppio della guerra utilizzava Instagram e TikTok per condividere i suoi lavori, ma dal 24 febbraio i soggetti catturati dal suo obiettivo fotografico sono cambiati: case in fiamme, impronte di carri armati, lunghe file di persone in attesa di cibo, i luoghi della sua infanzia distrutti dalle bombe, lacrime e sofferenza. Il 26 febbraio si rifugia insieme ai suoi genitori e al suo cane nel bunker antiaereo costruito dal padre in un edificio dove un tempo gestiva un ristorante. Qui, per sfuggire alla noia, ha iniziato a filmare la sua nuova “casa”, mostrandone l’interno con la didascalia “Things that just make sense in a bomb shelter” (Cose che hanno senso in


un rifugio antiaereo). Il primo TikTok virale ritrae sua madre ballare con in mano una cassetta degli attrezzi gialla, in sottofondo le note di “Che la luna”, canzone popolare siciliana del musicista italoamericano Louis Prima. All’inizio Valeria non comprende il potenziale comunicativo di queste clip, accompagnate sempre da una dose di black humor, ma quando raggiunge più di 50 milioni di visualizzazioni, attirando l’attenzione di emittenti televisive come CNN e BBC che la contattano per intervistarla, realizza che può utilizzare TikTok per informare le persone in modo diretto e senza filtri. Nei diciassette giorni trascorsi nel rifugio antiaereo «mentre i combattimenti intorno a noi erano violenti», scrive lei, capisce che la guerra è concreta, è nella sua Chernihiv e ci rimarrà a lungo: la volontà di espatriare si fa più forte e il 12 marzo inizia il suo viaggio per arrivare in Italia. Grazie alla generosità di una coppia che le offre un passaggio, raggiunge Kiev in auto, poi in treno arriva a Leopoli, città dell’Ucraina occidentale vicina al confine polacco: «Ricordo perfettamente l’odore della stazione di Leopoli. C’era tanfo di umanità, cibo e disgrazia». Da qui subito verso Przemysl fino a Lodz, in Polonia, su un treno in cui riesce ad entrare solo sgomitando: «Ho fatto di tutto, ho anche saltato la fila…lo so, non è giusto, ma gio-

cavamo una partita senza regole». Valeria racconta il suo viaggio con una storia Instagram chiamata “Evacuation”: grazie alla condivisione di contenuti online sempre più persone iniziano a seguirla e ad offrirle aiuto. Una donna di New York le scrive su Instagram che poteva ospitarla: «Le ho spiegato i miei progetti, e le ho detto che New York sarebbe stata troppo costosa e che volevo andare in Italia. Mi ha risposto che avrebbe tentato di aiutarmi. La donna conosceva Celeste, che vive a Milano, e ci ha messo in contatto. Oggi abito con lei e dalla sua famiglia, che è diventata un po’ anche la mia famiglia». Dopo 25 ore di autobus dalla Polonia, Valeria può abbracciare quell’Italia che aveva sognato durante i giorni nel bunker, dove aveva pubblicato un TikTok con la didascalia “Pov: she cooked pasta in a bomb shelter and imagined that she is in Italy” (Pov: lei cucinava la pasta in un rifugio antiaereo e immaginava di essere in Italia). Nonostante la gratitudine e l’amore per questo Paese, lei non è più la turista spensierata nei vicoli di Roma, ma è una rifugiata, e il senso di sradicamento la accompagna ovunque: «La domanda è se riuscirò ad apprezzare l’Italia come prima, perché ora, dopo l’invasione, da nessuna parte riesco più a sentirmi a casa», scrive nel suo diario. Valeria, però, ricerca nel fu-

turo la forza di andare avanti, aggrappandosi ai desideri della sua Map of Dreams, la mappa dei sogni: «Tutte le mattine, quando mi sveglio, vedo cosa sogno e cosa realizzerò». Il 27 marzo una telefonata le toglie il sonno: il fratello le comunica che suo cugino Maksim, appena diciottenne, è morto nella sua casa sotto una bomba russa. «Mio zio mi ha detto di aver gridato “Maksim, Maksim!” Ma lui non gli ha più risposto. In quel momento un padre ha capito che il figlio era morto», racconta lei. È tanta l’amarezza per una guerra che non permette a Maksim e a molte altre vittime nemmeno di avere una degna sepoltura: «Il cimitero della nostra città è stato bombardato, e dobbiamo seppellire i nostri morti nel bosco». 24 febbraio e il cielo non era più blu è la pubblicazione di un diario intimo e al contempo universale, in cui la protagonista annota paure, speranze e prospettive, che sintetizzano i sentimenti di tutto il popolo ucraino. Una zuppa calda, del cioccolato regalato o dei vestiti puliti prestati, il sorriso di uno sconosciuto: queste le piccole cose che consolano l’anima nell’agonia della guerra. ■ 1. Foto Instagram @valerisssh 2. Video Tik Tok @valerisssh 3. Morti di Chernihiv sepolti nel bosco

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Cultura

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Perché l'arte non si ferma neppure davanti alla guerra Il viaggio di Yulia da Kiev a Milano, per sognare un futuro sul palcoscenico TEATRO

di Massimo De Laurentiis

«All’inizio ero spaventata, adesso invece siamo già tutti abituati alla guerra». Yulia Redila, ventun anni, scandisce ogni parola concentrandosi sulla dizione e guarda dritto davanti a sé mentre racconta la sua storia. Oggi studia recitazione nella Civica scuola di teatro Paolo Grassi, a Milano. Il suo percorso però, comincia a Rivne, una città nel nord-ovest dell’Ucraina dove Yulia è cresciuta e ha scoperto la sua passione. 40 — Zeta

«Ho sempre voluto fare l’attrice, ma da ragazzina mi vergognavo: quando hai tredici o quattordici anni è figo prendere una birra di nascosto, non fare teatro. Più tardi, alla fine del liceo, sono entrata in una scuola di recitazione e ho trovato un gruppo fantastico con un insegnante che mi ha trasmesso l’amore per questa arte», ricorda con un sorriso. Questa esperienza la convince che quella è la sua strada, così a diciassette anni si trasferisce per studiare alla Kyiv Municipal Academy of Performing and Circus Arts. Per due anni Yulia frequenta un corso di regia con Stas Zhyrkov, regista ucraino che ora lavora in Germania. Il 24 febbraio 2022 però, l’invasione russa realizza un incubo temuto fin da bambina: «Quando

avevo dodici anni è scoppiata la guerra in Donbass e io andavo a dormire pregando che il conflitto non arrivasse a casa mia». Di colpo la vita da studente viene messa in sospeso e il sogno di lavorare nel mondo del teatro si allontana, così Yulia decide di lasciare l’Ucraina per poter proseguire i suoi studi artistici. «Sono arrivata in Italia il 9 marzo 2022 grazie al progetto Stage for Ukraine, ideato dal regista italiano Mattia Spiazzi, che collabora con l’accademia dove studiavo a Kiev». Con questa iniziativa, in un mese quasi cinquanta aspiranti attori e registi riescono a lasciare il paese per continuare a studiare lontani dalla guerra. «La mia famiglia è ancora lì. Sono stati i miei genitori a spingermi a partire


quando abbiamo saputo di questa possibilità. Hanno deciso tutto in un giorno, io piangevo e loro organizzavano il viaggio», racconta Yulia. A Verona, la città di Mattia Spiazzi, i ragazzi e le ragazze del progetto Stage for Ukraine ricevono ospitalità anche grazie all'aiuto della Caritas. Così, nell’estate del 2022 debutta lo spettacolo Le Troiane di Euripide, rivisitato e arricchito con le storie personali degli studenti rifugiati. Con il passare dei mesi alcuni ragazzi, come Yulia, vengono accolti in accademie teatrali in giro per l’Italia, altri decidono di tornare in Ucraina. Chi è rimasto o è rientrato a Kiev prosegue le lezioni tra sirene e raid aerei. «All’inizio tante persone sono scappate, adesso molti sono tornati a casa nonostante la guerra e stanno lavorando in presenza. Quando non ci sono i razzi si va avanti come prima». Anche Yulia, mentre studia recitazione a Milano, continua a distanza il corso di regia e si ripromette di tornare nel suo paese. «Voglio portare in Ucraina il metodo di studio che ho imparato in Italia nel corso di recitazione. A Kiev c’è un insegnante che ti segue per tutti e quattro gli anni, qui invece abbiamo un coordinatore e poi ogni due mesi un nuovo modulo con un insegnante diverso che ti dà altri strumenti. Così puoi vedere che tipo di teatro ti è più vicino, secondo me è un mix che funziona molto bene per la recitazione. Per la regia invece preferisco il metodo ucraino, in Italia c’è molta teoria e poca

pratica, è per questo che ho continuato il corso all’accademia di Kiev». Parlando della guerra e degli anni passati lontana da casa, Yulia racconta com’è cambiata la sua vita: «Essere costretta a partire mi ha fatto vivere delle esperienze che non avrei mai immaginato. È come se fosse crollata ogni barriera, ho imparato una nuova lingua e ho scoperto cose che non avrei mai visto in Ucraina. Prima potevo solo sognare di andare a lavorare all’estero, invece adesso mi dico: “Ce l’ho fatta in Italia, posso farcela ovunque”». Prima a Verona e poi a Milano Yulia ha trovato molte persone aperte e curiose, ma racconta di essersi anche scontrata con un’incomprensione che fa male a chi ha vissuto il conflitto in prima persona. «Io capisco che voi non siete coinvolti, però ci sono delle cose con cui non sono d’accordo di come viene raccontata la guerra qui. Una cosa che mi turba sono i discorsi sul battaglione Azov: conosco la loro storia e non nego che sono estremisti, e anche il nostro governo non è perfetto, non siamo ciechi e nemmeno stupidi, però non sopporto che un gruppo di persone finisca per rappresentare tutto il popolo». Dal suo vissuto nasce la necessità di trasformare l’esperienza in arte. «Circa un anno fa, quando ancora non parlavo bene l’italiano, con l’aiuto di alcuni amici ho tradotto un testo di Alex Wud, un’autrice ucraina contemporanea», dice, raccontando delle serate passate a tradurre e

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adattare il copione insieme ai compagni di accademia. «La pièce si chiama Parti del nostro corpo, sono otto monologhi sulla guerra che abbiamo già rappresentato a pezzi. Ho ripreso recentemente questo lavoro insieme a una mia compagna drammaturga e mi piacerebbe metterlo in scena per intero qui alla Paolo Grassi». Nei programmi per il futuro e nelle speranze di Yulia si conservano il legame con l’Ucraina, la casa lasciata troppo presto e l’esperienza della guerra, lo spartiacque che l’ha portata su una strada che non avrebbe mai percorso. «Il mio punto di vista sulle cose ora è diverso e credo che questo si rifletta nel mio modo di recitare» – dice con calma, cercando le parole giuste – «quando avrò realizzato il mio progetto potrò capire in che modo la mia esperienza emerge nel teatro». Nel frattempo, un’altra giornata di prove in accademia è passata, gli studenti lasciano le aule vuote e le luci di scena sfumano in un’ombra che si spegne solo dopo qualche secondo. Yulia raccoglie le sue cose, si infila il giubbotto e si incammina verso casa. Ogni passo è un nuovo pezzetto del viaggio cominciato a Rivne, passato per Kiev e finito a Milano, nell’attesa di scoprire dove la porterà. ■

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1. La Kyiv Municipal Academy of Performing and Circus Arts 2. Yulia Redila, 21 anni, studente di recitazione nell'accademia Paolo Grassi di Milano 3. Gli allievi della Paolo Grassi durante le prove

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Cultura

Combattere per resistere la lezione di Tolstoj L’insegnamento dell’autore di “Guerra e Pace” è ancora vivo negli scrittori russi e ucraini LETTERATURA

di Alessandro Villari

Sono i versi di un autore russo, anonimo per motivi di sicurezza, contro la guerra. Il ritorno della letteratura bellica in Russia ha coinciso con l’invasione dell’Ucraina di due anni fa. Il filone documentale, le tematiche di genere, la decolonizzazione, il rifiuto della visione imperiale della cultura: questi erano i temi che poeti e scrittori russi avevano affrontato negli ultimi anni. L’aggressione di Putin ha riportato «gli scrittori di fronte alla necessità di restituire la propria visione di fatti destinati a condurre a una revisione 42— Zeta

totale della cultura russa come tale e del sé autoriale al suo interno», scrive così Mario Caramitti. Il professore di letteratura russa all’Università La Sapienza di Roma ha curato la raccolta di poesie intitolata “Voci russe contro la guerra” di cui il componimento iniziale fa parte. I protagonisti sono autori russi che avvertono un senso di dolore e di ingiustizia nell’invasione e sono la testimonianza che non esiste soltanto la letteratura espressione dell’imperialismo russo. Caramitti riconosce che c’è stato uno «scollamento del potere dalla società», visibile nel «grido forte e perentorio contro ciò che sta

«È facile amare più della vita quando quella vita si scaglia verso il basso come un fiume di sangue»

avvenendo». Molte di queste opere non sono pubblicabili in patria, pena quindici anni di carcere per diffamazione. Bombe e proiettili non possono colpire la letteratura, ma possono cancellare il popolo di cui la letteratura contribuisce a formare l’identità. Ne sa qualcosa il Paese del presidente Zelens’kyj, ricorda Gabriella Elina Imposti, ordinario di letteratura russa all’università Alma Mater di Bologna: «Il fenomeno della perdita di diversità culturale e linguistica si è già verificato in Ucraina». Quella regione, prima delle guerre novecentesche, era multiculturale e multilingue: c’erano polacchi, ebrei, ungheresi e russi. Lo scrittore Miron Petrovskij (1932-2020) ha riconosciuto, a tal proposito, che «la cultura ebraica d’Ucraina è scomparsa perché Hitler ha ucciso i lettori, mentre Stalin ha fatto fuori gli scrittori». Aleksej Nikitin, scrittore di lingua russa nato a Kiev nel 1967, parlando al festival “Pordenonelegge 2022”, ha ribadito che ogni guerra elimina non


solo le persone, ma anche le culture: «Gli obiettivi dichiarati di Putin sono l’annientamento della cultura e la liquidazione dello Stato di Kiev, si parla di distruzione della civiltà ucraina. Per ora è evidente che questa guerra porterà alla cancellazione della cultura di lingua russa in Ucraina». La professoressa Imposti afferma: «La maggioranza della popolazione ucraina prima dell’invasione russa era bilingue con una prevalenza russofona nella parte centrale e orientale del Paese. Le opere letterarie ucraine sono state rese fruibili all’estero grazie alla traduzione in russo». Ora, lo spazio della cultura russa si è ristretto molto perché è considerata la lingua del nemico. Dopo il crollo dell’Unione sovietica nel 1992, il desiderio di affrancamento, dovuto ad un complesso di inferiorità rispetto alla Russia, si è trasformato nel risentimento che ha portato alla discriminazione dei russofoni in Ucraina e ad episodi di cancel culture «con legislazioni contraddittorie ad ogni cambio di governo verso i parlanti russo nella zona est del Paese», spiega Imposti. A due anni dall’inizio dell’invasione russa, il racconto del 1863 di Lev Tolstoj, “I cosacchi”, permette di capire il senso della guerra: spargimento di morte per il solo gusto di farlo. Olenin è un giovane aristocratico russo che, durante una battuta di caccia, si perde e, mentre vaga senza meta, sente divenire sempre più pesanti le prede che aveva attaccato alla cintura. È il peso della morte che lui stesso ha causato che lo trascina verso il basso. Il protagonista esplora il Caucaso alla ricerca dell’autenticità della natura, ma la violenza perpetrata contro gli animali gliela rende estranea e indifferente.

combattere per condividere con i soldati comuni l’esperienza della guerra che distrugge la dignità umana. Hanno sperimentato fino in fondo il significato terribile della guerra, della morte e della degradazione», chiosa Imposti. Per la pace, hanno combattuto anche Maksym Kryvtsov, nome di battaglia “Dalì”, e Victoria Amelina, i poeti ucraini: uno ucciso al fronte nel gennaio 2024, l’altra sotto un bombardamento dell’anno precedente, mentre lavorava ad un saggio sull’esperienza delle donne ucraine durante l’invasione intitolato

“Looking at Women Looking at War”. Kryvstov aveva appena pubblicato una raccolta di componimenti “Poesie dalla feritoia” e aveva già combattuto nel 2014 quando la Russia invase la Crimea. Amelina, sette mesi prima della morte, aveva dichiarato che «siamo ossessionati dalla nostra libertà e siamo pronti a morire per essa. I russi non possono perdonarci per questo». Inoltre, in un articolo sulla rivista online Eurozine preannunciava: «Esiste la minaccia che i russi riescano a distruggere con successo un’altra generazione di cultura ucraina questa volta con missili e bombe». ■

La riflessione sulla guerra di Tolstoj, classico della letteratura mondiale e autore dei capolavori “Guerra e Pace” e “Anna Karenina”, inizia da “I racconti di Sebastopoli” (1855-56), dove è descritto il conflitto in Crimea di metà Ottocento. «La guerra», dice Imposti «è stato il punto di partenza dell’attività letteraria di Tolstoj: ha sviluppato una concezione passiva della non resistenza al male». Il tolstoiano Vsevolod Michajlovič Garšin, scrittore russo di fine Ottocento, racconta l’esperienza da volontario nella guerra antiturca del 1876-77 nell’opera “Quattro giorni”: è il tempo che ha passato ferito dentro un cratere sopravvivendo alla puzza dei cadaveri in decomposizione. «Nonostante fossero pacifiste, queste persone andavano a Zeta — 43


Cibo

Il sapore della libertà CUCINA

La ristoratrice ucraina Daryna racconta le conseguenze del conflitto sul suo lavoro

di Sara Costantini

Carne marinata, patate bollite, funghi, verdure, erbe e soprattutto grano. Questi gli ingredienti alla base dei piatti tipici della cucina ucraina. Una tradizione culinaria povera, famosa per i sapori contrastanti tra loro, spesso criticati dalle altre culture per gli accostamenti azzardati. Prodotti che arrivano da un Paese che ormai, dal 24 febbraio 2022, ha perso anche le proprie terre. «Ogni tanto i miei figli mi mandavano i prodotti dall’Ucraina o quando tornavo io mi portavo le cose qui in Italia. Poi è scoppiata la guerra. Io ho chiuso il ristorante per più di due mesi. Ora i prodotti che utilizziamo non sono più ucraini». Con voce tremante, Daryna rivela il peso delle sue sofferenze e le conseguenze del conflitto nella sua vita anche da ristoratrice. Arrivata in Italia nel 2007 ha aperto il suo ristorante ucraino vicino Milano realizzando, dopo anni di sacrifici, uno dei suoi sogni. «Quando sono arrivata qui con due dei miei figli facevo le pulizie delle scale negli edifici e nel tempo libero 44 — Zeta

cucinavo per i condomini. Sembrava un ri- to è morto nel 2004». storante nel palazzo. Dopo 6 anni ho aperDiversi sono stati gli aiuti che Daryna, to la mia attività di cucina esclusivamente come tanti altri ucraini con attività econoucraina», racconta lei. miche in Italia, ha ricevuto dalle comunità ucraine e dalle ambasciate italiane. Il 95% dei ristoranti che fanno cucina dell’est mischiano i piatti tipici dell’EuroIl 20% delle attività commerciali, pa orientale: Daryna, invece, si concentra dopo che la Russia ha invaso l’Ucraina, solo sulla realizzazione di piatti ucraini. sono state costrette a chiudere. Al contraUn locale di circa ottanta coperti, una rio, lei ha avuto la fortuna di mantenere cucina con quattro fornelli e un piano di aperto il suo ristorante: «Ho riaperto, ma lavoro. Così, la sua piccola impresa ha non ci sono più io in cucina, è mia figlia accolto per quindici anni clienti e amici. a lavorare lì con due miei amici albanesi. «All’inizio venivano le mie amiche ucrai- Io faccio la badante durante il giorno e la ne o i condomini del palazzo dove lavora- notte. Guadagno di più. Ci servono più vo. Poi la clientela è aumentata e anche i soldi per trascorrere sereni la nostra vita bambini hanno iniziato ad apprezzare qui in Italia», dice Daryna. questa tradizionale culinaria», aggiunge la ristoratrice. Una piccola attività ben Mentre il freddo della guerra è ancora avviata che ha però subito le conseguen- sulle terre lontane di casa sua, il ristorante ze del conflitto: «La guerra ci ha portato rimane un faro di speranza e di resistenza, tanti problemi economici. I clienti sono un luogo dove si può assaporare il gusto diminuiti. Quando ho dovuto chiudere il della libertà. La sua cucina è un tributo ristorante per due mesi ho avuto diverse alla forza dell'animo umano di fronte alle difficoltà. Avevo tre dei miei cinque figli lì, avversità più grandi, che le permette di dovevo farli tornare. Erano soli, mio mari- guardare al futuro. ■


In cucina sotto i bombardamenti lo chef italiano a Odessa Roberto Armaroli racconta come la guerra ha cambiato il suo ristorante STORIE

di Isabella Di Natale

«Erano le cinque di mattina, ricordo boati forti come un terremoto. I russi stavano bombardando l’aeroporto di Kiev. Da quel giorno siamo entrati in un’altra dimensione», comincia così il racconto di Roberto Armaroli, chef bolognese proprietario di tre ristoranti a Odessa, in Ucraina. Quel 24 febbraio del 2022 Roberto è costretto a chiudere i battenti di tutti i locali, tranne di uno: “Antica Cantina”. «Se mangi a sei livelli sotto la strada, puoi crearti il tuo rifugio per scappare dai rumori della guerra» - racconta lo chef -. È anche un modo per dare sicurezza alle persone che vengono da te». A dispetto del nome, “Antica cantina” è il più recente tra i locali aperti da Roberto. Inaugurato nel 2021, il ristorante nasce da un cumulo di macerie: «Il sotterraneo del palazzo era tutto distrutto, sono serviti ventiquattro mesi per ristrutturare. La mia indole italiana mi porta a preservare il passato mentre qui lo si vuole dimenticare, soprattutto il periodo sovietico», spiega Armaroli col suo accento metà romagnolo e metà lombardo. Racconta che al primo piano dello

stabile, costruito nel 1832, ha vissuto il pittore Vasily Kandinsky. Gli interni del piano superiore sono stati progettati dall’architetto Francesco Boffo, autore anche della celebre scalinata Potemkin con vista sul Mar Nero. «Da qui sono passati tutti nomi illustri…e poi sono arrivato io», dice scherzando Roberto. Nella città di Odessa ha portato la cucina italiana fatta di ravioli e tortellini, con alcune note della tradizione francese: «Prima della guerra avevamo anche un’accademia culinaria, un modo per portare avanti le tradizioni e la cultura della buona tavola». Anche l’idea del ristorante come fine dining, esperienza gastronomica che unisce cibo e raffinatezza, è stata accantonata. La priorità, ora, è servire piatti buoni in un’atmosfera di tranquillità perché «non è questo il momento di stupire con effetti speciali». Il conflitto con la Russia ha messo alla prova anche la logistica. Gli aerei che oggi volano nel cielo di Odessa sono carichi ma non di cibo. Così, i prodotti freschi come astici, vongole e ricci di mare stentano ad arrivare: «Abbiamo dovuto riorganizzare il menù. Prima servivo ostriche e caviale, adesso metto le uova di salmone che hanno un costo più basso», dice lo chef, «È tutto buono, ma tutto più semplice».

come la maggior parte delle persone che frequentano il locale. Molti cuochi sono scappati in Europa, altri sono andati al fronte a combattere. La gioia più grande è l’abbraccio al loro ritorno, «anche se questo non sempre accade», dice Armaroli dopo un attimo di pausa. Dall’inizio della guerra ne ha visti morire quindici, uccisi nel tiro al bersaglio di un luna park degli orrori. Alla sofferenza di chi parte si aggiunge quella di chi resta. «Alcuni mesi fa i russi hanno assaltato una fabbrica e rapito diverse persone» - racconta Roberto - «Così, ogni volta che c’è uno scambio tra prigionieri, una delle mie dipendenti piange perché nella lista dei rilasciati il nome del marito non compare mai». A distanza di due anni a Odessa, nel buio della notte, cadono ancora missili e suonano le sirene. «La guerra sarà lunga» – conclude Armaroli – Dobbiamo avere la forza di andare avanti». ■

Quando Roberto ha avviato la sua attività aveva ottanta dipendenti. Oggi ne ha trenta, quasi tutte donne, proprio Zeta — 45


Spettacoli

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Kalush Orchestra la band canta la cultura ucraina Il gruppo ucraino ha vinto l’Eurovision Song Contest a Torino nel 2022 con la canzone “Stefania”, ottenendo il record assoluto di voti dal pubblico nella storia della competizione EUROVISION

di Silvia Della Penna 46 — Zeta

«Un paio di giorni fa mi è stato chiesto che cosa penso del 24 febbraio. Ho risposto che ogni volta che sento questa data penso a tutta la mia famiglia, a tutti i miei amici e anche ai soldati che sono in guerra in questo momento. Penso alle persone che se ne sono andate a causa della guerra, che non sono più con noi» così Tymofii Muzyčuk, uno dei componenti della Kalush Orchestra, spiega il significato dell’anniversario dell’invasione Ucraina da parte della Russia. La band ucraina, formatasi nel 2019, ha vinto l’Eurovision Song Contest a Torino nel 2022 rappresentando il proprio Paese con la canzone “Stefania”, ottenendo il record assoluto di voti dal pubblico nella storia della competizione. Il brano è stato scritto dal cantante Oleh

Psiuk per la mamma: racconta il senso di protezione tra le sue braccia e le parole sussurrate quando era bambino. Ma con l'invasione russa e l'inizio del conflitto in Ucraina, la canzone ha ottenuto anche un altro tipo di lettura riferita alla madre patria degli artisti. Durante l’intervista, Tymofii ci tiene a sottolineare che lo strumento che suona, fondamentale per la melodia di Stefania, è la tylynka. Si tratta di un flauto sovracuto senza fori per le dita. L’intonazione dello strumento è determinata dal dito nell'estremità aperta del tubo, che copre il foro per metà o per un terzo, e anche dalla forza del respiro di chi suona. All’inizio il gruppo non doveva rappresentare l’Ucraina perché durante la selezione nazionale – che si svolge ogni


anno per scegliere la canzone che poi rappresenterà il proprio Paese nella competizione – si erano posizionati al secondo posto nonostante fossero arrivati primi al televoto. In seguito al ritiro della prima classificata, la cantante Alina Paš, sono stati scelti dalla principale emittente in Ucraina come rappresentanti nazionali. La band si è distinta da subito sul palco per l’abilità di scelta dei costumi, un richiamo a quello che nel maggio del 2022 l’Ucraina stava affrontando: Oleh Psiuk ha indossato un gilet ricamato come da tradizione della popolazione Hutsul, che vive in zone rurali dell’Ucraina; alcuni membri erano vestiti da Molfars, cioè da maghi sciamani e guaritori; mentre altri hanno indossato le tute mimetiche utilizzate dalle forze armate. L’iconico cappellino rosa, indossato dal cantante Oleh, è diventato parte dell’identità della Kalush tanto da essere l’attuale logo del gruppo. Tymofii racconta che dopo la vittoria della manifestazione canora europea hanno realizzato più di seicento concerti: «Abbiamo viaggiato in tutto il mondo. Il momento più importante per me è stato quando abbiamo conosciuto Arnold Schwarzenegger», afferma raccontando entusiasta l’incontro. «È successo due volte perché ci ha invitato ad esibirci alla Schwarzenegger Climate Initiative. Sono stato molto felice di incontrare anche Da-

vid Guetta quando abbiamo cantato agli MTV EMA. In generale come artisti partecipiamo ad attività di beneficenza e con questi eventi continuiamo a diffondere la cultura ucraina nel mondo», chiarisce il cantante. L’impegno per l’Ucraina è il centro di molte iniziative: «Ogni membro della nostra band fa quello che può. Io ho chiesto a tutte le persone che volevano farmi un regalo di compleanno, lo scorso 6 febbraio, di donare soldi per le forze armate». Gli artisti hanno anche venduto il “Microfono di cristallo”, così è chiamato il premio dell’Eurovision, in un’asta di beneficienza per destinare il ricavato, circa 800mila euro, all’acquisto di droni per sostenere l’esercito ucraino nella guerra contro la Russia. «La guerra in Ucraina va avanti da due anni ed è veramente stancante. Gli ucraini continuano a lavorare, a donare all'esercito e alle forze armate. Ci aiutiamo a vicenda e facciamo molto volontariato. Noi artisti continuiamo a fare concerti in tutto il mondo e a raccogliere fondi per le forze armate dell'Ucraina, siamo riusciti a raccogliere più di 2 milioni di euro» spiega l’artista. Nonostante Tymofii non escluda una carriera da solista, al momento solo un’intenzione, il suo racconto è sempre rivolto al plurale: «Siamo una grande

famiglia». Per la band scrivere canzoni è «abbastanza naturale anche se al momento è difficile realizzarle. La nostra vittoria all'Eurovision ci ha reso famosi all'estero e ora capiamo quanto sia importante creare contenuti ucraini di qualità, nonostante tutto». L’artista ha dichiarato che al momento stanno lavorando anche con il produttore Ivan Klymenko: «Lui crea tanta musica di qualità collaborando con tanti artisti ucraini». La Kalush Orchestra si prepara ad un tour che a maggio li porterà in diverse parti dell’Ucraina: «Avremo cinquanta concerti e potremo visitare gli ucraini in diverse città, deliziando i nostri fan con nuove canzoni e successi popolari. Abbiamo un team che si sta occupando dell’organizzazione. Gli eventi si svolgeranno in modo molto sicuro, ci saranno allarmi in modo che le persone possano spostarsi in luoghi sicuri in caso di emergenza». Per Tymofii, e tutta l’Ucraina, la vittoria nel conflitto con la Russia è molto importante: «Vorrei ringraziare tutte le persone che mi stanno leggendo in questo momento. Restiamo uniti, muoviamoci e facciamo tutto il possibile per portare questa vittoria al nostro paese. Sosteniamoci a vicenda, dobbiamo fermare la guerra insieme. La vittoria sarà nostra». ■

Tymofii ha suonato per noi. Guarda la sua esibizione

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Spettacoli

La Palisiada trionfa sugli schermi La produttrice Valeria Sochyvets racconta il film premiato nei Festival di Rotterdam e Torino nel 2023 CINEMA

di Lorenzo Pace

Dimostrare al mondo che la cultura ucraina è indipendente da quella russa, e farlo attraverso il cinema. È l’obiettivo del film La Palisiada, diretto da Philip Sotnychenko e prodotto da Valeria Sochyvets, che nel 2023 è stato premiato nei Festival cinematografici più importanti d’Europa. Da Rotterdam a Torino, La Palisiada ha convinto le giurie grazie al suo modo di raccontare i retaggi del sistema sovietico sull’Ucraina del 1996, già indipendente da cinque anni. «È stato fantastico - racconta la produttrice - perché abbiamo realizzato che il film era ritenuto importante dal pubblico e dalla critica, che era stato accettato in tutto il mondo. La première mondiale si è svolta al Festival del cinema di Rotterdam, dove abbiamo vinto il Fipresci per il miglior film: un premio molto prestigioso. Poi c’è stato quello di Torino, che è uno dei Festival più antichi e prestigiosi in Italia dopo Venezia, ed è stata una proiezione importante per noi e un onore essere premiati». 48 — Zeta

La Palisiada, incrociando immagini attuali e degli anni Novanta (in VHS), racconta le indagini di un investigatore e di uno psichiatra sull’omicidio di un ufficiale di polizia cinque mesi prima della moratoria della pena di morte. Il lavoro dei due uomini si scontra con una struttura politica contaminata dai sistemi della vecchia Unione Sovietica: l’indagine si risolve in poco tempo, dando la sensazione che fosse già tutto deciso, e porta all’arresto e all’esecuzione di un giovane con gravi disturbi cognitivi. Il film mostra così l’eredità pesante che deve sopportare l’Ucraina, creando un collegamento con l’attualità. «Anche se abbiamo iniziato a lavorare al film cinque anni fa - spiega la produttrice - e quindi avevamo intenzioni completamente diverse, la trama è risaltata ancora di più dopo l'invasione della Russia. Lo sfondo del film è e resta l'eredità sovietica, rappresentata con la pena di morte e la corruzione». Per Valeria Sochyvets, i film rappresentano il modo migliore per comunicare l’indipendenza dell’Ucraina: «Dobbiamo far capire chi siamo - sottolinea - e soprattutto che la nostra cultura è diversa da quella russa. Che non siamo una sola Nazione, ma siamo diversi. Il cinema ci aiuta a mostrare questo al mondo». La produttrice ha fondato - insieme al

regista Sotnychenko - la Contemporary Ukrainian Cinema (CUC), una comunità che dal 2014 mette in comunicazione e promuove i giovani operatori dei media ucraini. Il progetto ha l’obiettivo di definire l’industria del cinema ucraina, in modo da dare un’immagine chiara e riconoscibile in tutto il mondo. Non significa che le produzioni siano riservate soltanto agli operatori dei media ucraini. Il progetto ha una vocazione internazionale e cerca contatti con coproduttori di altri Paesi, anche per trovare nuovi fondi. «Il cinema ucraino sta vivendo un momento molto complicato, perché mancano i finanziamenti. Per questo siamo molto aperti a delle collaborazioni e ci piacerebbe scoprire anche l’Italia». ■


Orizzonti come miglior film a Venezia lo stesso anno.

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Le bombe di Putin non rallentano i ciak Il festival per la resistenza ucraina racconta le pellicole durante la guerra CINEMA

di Alessio Matta

L’Ucraina è stata protagonista del festival “Giornate del cinema ucraino”, che si è svolto a dicembre alla Casa del cinema di Roma. Decine di persone hanno partecipato all’incontro, tra cui l’ambasciatore ucraino in Italia Yaroslav Melnik. Organizzato dall’Agenzia statale d’Ucraina per il cinema, l’evento aveva l’obiettivo di dimostrare come il grande schermo di questa nazione sia riuscito a proseguire nella produzione di nuovi film, anche dopo l’invasione russa quel tragico 24 febbraio 2022. Alcune pellicole sono state girate proprio durante i bombardamenti sulla città, ma nemmeno la guerra ha fermato la creatività artistica ucraina. Oltre alle proiezioni sulla guerra, sono stati presentati documentari, animazioni e cortometraggi dalle diverse tematiche, come La vicina di casa della regista Natalia Pasenytska. Il protagonista è Petro, un giovane scapolo con poche ambizioni, che intraprende una scommessa con il suo amico Oleg: vivere un mese sotto lo

stesso tetto con una donna per vincere una Porsche. Alla fine gli autori hanno risposto alle curiosità del pubblico, soffermandosi anche sulle difficoltà di realizzare queste opere sotto le bombe russe. Il cinema ucraino, però, non scopre oggi il tema della guerra. Già nel 2019 Atlantis, regia di Valentyn Vasjanovič, raccontava una storia ambientata nel 2025 di un ragazzo con disturbi post-traumatici dopo la fine di un lungo conflitto tra Russia e Ucraina. La pellicola ha ottenuto un grande successo, vincendo il Premio

Una delle opere più apprezzate del festival è stata Pazzi (Diagnosis: dissent), del regista Denys Tarasov. Ambientato durante l’Unione sovietica degli anni ‘70, è il primo film a raccontare la violenza psicologica inflitta ai ragazzi dissidenti. La storia si ispira alle testimonianze delle tante persone che hanno subito abusi durante quel periodo. Andriy Dovzhenko, il protagonista della storia, è un presentatore radiofonico troppo ribelle per le autorità sovietiche: decide di mandare in onda una delle sue canzoni rock preferite, al tempo proibite in Ucraina. Purtroppo, le ripercussioni sono inevitabili e Andriy ha due scelte: andare in prigione o ammettere di essere malato di mente. Pensando alla sua famiglia, sceglie l'ospedale psichiatrico, ma scoprirà in seguito che si tratta di una trappola peggiore della prigione. Il film è stato girato prima dell’inizio del conflitto, ma tutta la fase di montaggio è avvenuta durante i bombardamenti a Kiev. Il regista ha dichiarato, in un’intervista alla trasmissione In Mezz’ora, che le pratiche di violenza psicologica avvengono con regolarità in Russia e che «sono alla base dei regimi totalitari». Le Giornate del cinema ucraino hanno mostrato la resistenza dell’arte del Paese. Attraverso film come Pazzi, i registi hanno affrontato temi difficili, rivelando realtà spesso ignorate. Questa forma d'arte rimane una voce forte che unisce culture e trasmette messaggi di speranza oltre i confini nazionali. ■ 1. La locandina del festival alla Casa del cinema 2. L'ambasciatore Yaroslav Melnik presente all'evento con la moglie Kateryna

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Sport

Un cuore gialloblù sul petto la resistenza vola sui pattini Gli atleti ucraini combattono per la libertà del loro Paese regalando al pubblico performance piene di pathos PATTINAGGIO

di Lavinia Monaco 50 — Zeta

Una macchia di sangue sulla camicia, proprio vicino al cuore. Una mano sugli occhi, perché l’orrore sembra non avere fine. Tutt’intorno il vuoto, gelido e indifferente. Agli ultimi Campionati Europei di Pattinaggio di figura, Ivan Shmuratko è solo, in mezzo alla pista, in attesa di iniziare il suo programma libero. Anche se sono passati quasi due anni dall’inizio dell’invasione russa, il giovane pattinatore ucraino continua a ricordare al pubblico il dramma che il suo Paese sta vivendo. Lo aveva fatto anche ai Mondiali di Montpellier del 2022 quando, a poche settimane dall’inizio di quella che Putin aveva soprannominato “Operazione speciale”, era sceso in pista con un cuore giallo e blu appuntato sul petto e negli occhi lo shock per una violenza insensata e anacronistica. Per una volta la gara era rimasta ai margini e dagli spalti si era alzata una marea di bandiere ucraine, a stringere l’atleta in un abbraccio pieno di sgomento.

Solo per essere lì con loro. Solo per essere ancora vivo. Ma Shmuratko non è stato l’unico pattinatore ucraino a manifestare dolore e rabbia. Anche Oleksandra Nazarova e Maksym Nikitin, coppia della Danza, erano presenti a Montpellier. Anche per loro nessun costume ricercato ma solo una semplice mise da allenamento gialla e blu. Il loro programma corto è stato come un pugno nello stomaco. La grazia dei loro movimenti si è caricata di significati inusitati grazie alla musica triste di 1944, canzone sulla deportazione dei Tartari dalla Crimea voluta da Stalin, e a quella di Oi u luzi chervona kalyna, vecchia marcia patriottica ucraina. Poi, a metà gara si sono ritirati. Dopo una fuga precipitosa da Kharkhiv, una delle città più bombardate dai russi, e un messaggio accorato pubblicato sui social, danzare su una musica allegra era diventato impossibile per loro. Troppi profughi. Troppi morti innocenti.


Il bisogno urgente di fare qualcosa per il proprio Paese non ha travolto solo le nuove generazioni. A poche settimane dall’invasione Oksana Bajul, ex pattinatrice ucraina e campionessa olimpica residente da anni negli Stati Uniti, ha rilasciato un’intervista in cui ha manifestato lo sconcerto non solo dei connazionali che vivono all’estero ma anche della comunità russa, con la quale quella ucraina ha sempre avuto dei forti legami. E, a proposito degli sportivi rimasti in patria a combattere, ha affermato: «We will burn ourselves to save the others». Il sostegno all’Ucraina da parte del mondo dello sport si è subito fatto sentire attraverso la decisione del Comitato Olimpico Internazionale e dell’International Skating Union di bandire tutti gli atleti russi e bielorussi dalle competizioni di short track, pattinaggio di velocità e di figura. Una scelta che è stata condivisa da molte altre federazioni sportive e che, in questo caso particolare, voleva colpire la Russia nel suo orgoglio. Negli ultimi trent’anni molti dei suoi pattinatori hanno occupato di frequente i gradini più alti del podio e hanno innovato le varie specialità, sfidando la fisica e spingendosi oltre limiti mai violati in precedenza. Evgenij Plushenko e Aleksej Jagudin sono stati fra i primi a proporre combinazioni di salti quadrupli e tripli e, più recentemente, Alexandra Trusova, Anna Shcherbakova e

Kamila Valieva hanno suscitato ammirazione e invidia in tutto il mondo per essere state le prime giovani donne ad atterrare diversi tipi di salti quadrupli in una competizione. Atleti che sono subito diventati il simbolo del talento russo, ma anche uno strumento nelle mani del potere, che li ha usati e li usa ancora oggi senza alcuno scrupolo. Com’è noto, il legame fra sport e politica non è nuovo. La guerra fredda fra Urss e Usa si è combattuta anche a suon di record e medaglie. In questo caso, gli atleti più forti, pro o contro l’Operazione speciale di Putin, rimangono i più danneggiati. Senza partecipare alle competizioni internazionali, vitali per ogni pattinatore di alto livello, la loro carriera si è ridotta ad una serie di gare casalinghe lontano dai riflettori. Ci sono, però, molti altri atleti russi meno noti che, dopo il bando del Cio e dell’Isu, hanno iniziato a gareggiare per altri Paesi, scatenando lo sdegno degli ucraini. In un’intervista rilasciata ad Eurosport poco dopo l’invasione, Alyona Savchenko, campionessa plurimedagliata che ha sempre gareggiato per la Germania, si è espressa a favore della punizione dei pattinatori russi: «Penso anche che dovrebbe succedere di più. Il fatto che le persone continuino a festeggiare e ridere lì è semplicemente indescrivibile». Allo stesso tempo, ha messo in dubbio l’effi-

cacia di queste misure: «Eravamo amici di molti atleti russi e lo siamo ancora. Ma tutta questa situazione sta alimentando l’odio fra le persone, anche se non lo vorremmo». E, guardando ad un futuro fosco e incerto, ha concluso: «Inoltre, non sappiamo che fare perché le cose migliorino. O se miglioreranno davvero. I boicottaggi sono giusti, ma resta discutibile se portino davvero qualcosa». Le scuole di pattinaggio russe sono da molti decenni centri rinomati che hanno attirato atleti provenienti dalle ex repubbliche sovietiche e non solo. Spesso i pattinatori ucraini si sono allenati in questi luoghi e hanno stretto amicizia con i loro avversari. Ecco perché la rabbia che hanno provato dopo il 24 febbraio del ’22 è stata difficile da dimenticare. Soprattutto adesso che nell’Isu si comincia a parlare di riammettere i russi alle competizioni, nonostante la guerra sia ancora in corso. Lo dimostra l’episodio della giovane coppia ucraina che, arrivata seconda alle finali del Junior Grand Prix 2023, si è rifiutata di stringere la mano ai vincitori, di origine russa ma in gara per la Georgia. Sono storie di atleti che, come molti prima di loro, hanno trasformato le vittorie in occasioni preziose per rivendicare diritti fondamentali. Lo sport non è mai solo una questione di prestazioni ma di vita, di sogni, di libertà. ■

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Sport Fino ai 33 anni Dolgopolov ha dedicato la sua vita al tennis, raggiungendo il tredicesimo posto della classifica mondiale. Qualche mese prima di quel 24 febbraio 2022 era arrivato il suo congedo dal mondo sportivo, testimoniato dall’ex collega Roger Federer con un messaggio, reso pubblico dallo stesso Aleks. «Grazie per tutti i momenti divertenti passati sui campi d’allenamento». Poi un periodo di pausa prima di entrare nell’esercito ucraino da volontario. Dalla racchetta alle armi: gli è bastata una settimana per imparare a cambiare impugnatura. «Quando la Russia ha annunciato l’invasione mi trovavo in Turchia. In cinque giorni un ex soldato mi ha insegnato a sparare: non ero diventato Rambo, ma riuscivo a centrare il bersaglio tre volte su cinque». La precisione non gli è mai mancata, ha solo dovuto affinarla su un altro campo. «La mia prima missione effettiva è stata nell’autunno del 2022. Ho avuto dai sei agli otto mesi per prepararmi con le armi e la medicina tattica, che è necessario conoscere nel caso accada qualcosa».

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Dalla racchetta alle armi in trincea Aleksandr Dolgopolov, ex tennista #13 al mondo, si è arruolato da due anni con l’esercito ucraino: «In carriera ho imparato a gestire l’adrenalina, ma non mi manca nulla» TENNIS

di Gabriele Ragnini 52 — Zeta

Quel codino biondo era diventato iconico nel circuito tennistico. Da due anni Aleksandr Dolgopolov ha dato un taglio alla sua vita passata. Non raccoglie più i capelli con la fascetta e l’elastico: ora sono corti, nascosti per gran parte dell’anno sotto l’elmetto militare. All’inizio si fa fatica a riconoscerlo; sfoggia il suo sorriso solo davanti a qualche battuta sul nuovo look. Anche quegli occhi chiari si illuminano di meno. «La guerra mi ha spento. Sono tornato a Kiev dopo l’ultima missione, ma mi preparo a ripartire. Ho cambiato unità perché alcuni dei nostri sono stati feriti dalle bombe, quindi siamo stati rispediti a casa».

Ormai Dolgopolov parla con uno sguardo glaciale: al fronte ha imparato a fare i conti col freddo della guerra. E con i droni, di cui guida la flotta della sua unità. «Sai, i giocatori di tennis sono molto adattabili. Sfrutto tante cose che lo sport mi ha insegnato, come essere organizzato e mentalmente forte. Mentre intraprendevo il percorso di allenamento mi ero preparato a ciò che avrei visto ed è accaduto». Poi, però, arriva il momento di cambiare campo. «Ero lì in battaglia: mi bombardavano, sentivo le esplosioni vicino a me. Ricordo la sensazione di vedere un carro armato a 20 metri. Devi sparare anche tu. In estate eravamo degli zombie. Lavoravamo 15-16 ore al giorno. Dall’alba potevi finire anche alle dieci di sera e se qualcuno rimaneva ferito dovevi sostituirlo il giorno dopo». In quindici anni di carriera ha imparato a gestire la pressione, così come l’adrenalina, anche fuori dai grandi stadi. «Ce ne è tantissima qui. Sono sempre stato molto competitivo, quindi so sfruttarla a mio vantaggio. Ma in guerra non è positiva, è triste: preferirei trovare dieci modi diversi per provarla. Questo conflitto è pericoloso e basta, ci sono solo svantaggi». Aleks salva solo il contatto umano. «Ho conosciuto persone davvero belle. Sono diventati veri e propri amici per me. Impari a fidarti l'uno dell'altro, ad attraversare i periodi più bui, fino a realizzare che puoi perderle da un momento all’altro».


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diventate sensibili, avrei bisogno di fare di nuovo pratica e non mi va». Il distacco dal suo vecchio mondo è accentuato dalle scelte degli atleti che si intrecciano con la guerra. Nell’estate del 2022 ai russi era stato impedito di giocare il torneo di Wimbledon, ora sono tornati in campo. «Penso che il mondo abbia fatto davvero un pessimo lavoro. Lo sport è un ecosistema enorme per il governo, Putin stesso ha commentato dicendo che non dovrebbe essere mischiato con la politica. Poi, però, ai suoi concerti pro-guerra sono presenti atleti. Ci sono tanti modi in cui i tennisti potrebbero esprimersi, ma hanno deciso di non farlo. Per me qualsiasi sportivo che non ha una posizione chiara è un nemico. Sono assassini silenziosi».

A proposito di compagni, c’è chi da sempre ha seguito una strada affine a quella di Dolgopolov. È Sergiy Stakhovsky: nel circuito tennistico rappresentavano insieme il proprio paese durante le sfide di Coppa Davis, ora lo fanno al fronte. In missione lavorano per unità diverse, «ma in realtà ci siamo visti proprio ieri», ricorda Aleks con orgoglio. «È appena rientrato, quindi ci siamo raccontati alcune storie. Succede sempre qualcosa di nuovo, entrambe le truppe si scambiano decisioni per essere più efficaci con le armi elettroniche. Mantenendo i contatti, sappiamo anche cosa sta facendo l’altro reggimento. È come coordinarsi reciprocamente».

Ormai c’è la polvere della trincea. «Ho giocato abbastanza a tennis, ora basta. Oltre alla competizione, non mi manca nulla: mi allenavo otto ore al giorno e non mi piaceva viaggiare. Ora penso solo a dare a questo Paese un’esistenza futura». Che questa non sia la vita di Dolgopolov lo si capisce anche dal suo fisico. Prima era smilzo, più slanciato: colpiva quasi spezzandosi. Ora gli riuscirebbe difficile rompersi. «Sono più solido. Quando non sono in missione vado in palestra. Ho praticato anche la boxe. L’ultima volta a tennis è stata nell’estate del 2021. Mio padre stava allenando un ragazzino e mi ha chiesto di giocare con lui. Dopo 40 minuti avevo sei vesciche. Le mie mani sono

Prima di salutare in vista della prossima missione, Dolgopolov svela che fine ha fatto la sua coda. «L’ho tagliata nel 2018 perché mi ero appena sottoposto all’operazione che avrebbe concluso la mia carriera. Ho avuto la mano bloccata per diversi mesi, del tutto inutilizzabile. Ero abituato a raccogliermi i capelli venti volte al giorno: a un certo punto non potevo più farlo, così li ho tagliati». La risata con cui si congeda fa capire che quello spirito solare non è del tutto andato perso. «Mi sono fidato degli altri: tutti mi dicevano di vedermi bene con questi capelli e li ho tenuti così». Ora il codino è scomparso, ma la mano è tornata a funzionare. Aleks ha solo dovuto adattarsi a una nuova impugnatura. ■

Nel 2022 Dolgopolov si era già ritirato dal mondo del tennis, mentre Stakhovsky aveva fatto più fatica a salutarlo. Dopo qualche mese in divisa militare, era tornato nei suoi abiti sportivi, salvo poi accettare di essere diventato a tutti gli effetti un soldato. Anche in questo percorso, i due sono partiti insieme. «Siamo andati come volontari perché avevamo amici in prima linea, quindi abbiamo portato loro alcune cose. È stato forse all'inizio dell'estate scorsa, abbiamo persino avuto alcune sessioni di pratica insieme. Un suo amico delle forze speciali ci ha addestrato con le armi. Siamo sempre in contatto». Rispetto a quando vestivano i colori gialloblù, però, i temi sono cambiati. «Non parliamo molto di tennis, a essere onesti. La maggior parte del tempo ci confrontiamo sulla guerra. Certo, possiamo ricordare qualcosa delle nostre carriere, ma questa non è la nostra vita di oggi».

«Ero lì in battaglia: mi bombardavano. Ricordo i carri armati a 20 metri. Devi sparare anche tu»

1. Dolgopolov guida uno dei droni del suo comando (Instagram: @alexdolgopolov) 2. Roma, Internazionali d'Italia 2018. Dolgopolov in azione durante la partita con Novak Djokovic. Foto: Reuters 3. Federer stringe la mano a Dolgopolov dopo il suo ritiro per infortunio al primo turno di Wimbledon nel 2017. Foto: Reuters

Sotto le suole di Dolgopolov non c’è più la terra rossa dei campi da tennis, come quella di Rio de Janeiro, dove nel 2014 perse in finale contro Rafael Nadal.

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La Guida di Zeta a cura di Elisa Vannozzi

Maslenitsa, tutti i colori della primavera Cibo, musica e danze, famiglia, giochi e spettacoli: questa è la festa della Maslenitsa, che affonda le sue radici nelle culture pagane slave e viene oggi festeggiata in Ucraina, Russia e Bielorussia

Nel cuore dell'inverno, mentre la neve ancora copre le strade e il freddo punge, un'esplosione di gioia e calore invade le città e i villaggi dell'Europa orientale. È la Maslenitsa, una festa millenaria che porta con sé i colori vivaci della primavera imminente. La ricorrenza affonda le sue radici nelle culture pagane slave e viene oggi festeggiata in Ucraina, Russia e Bielorussia. Celebrata come un periodo di eccessi e abbondanza, la Maslenitsa viene associata al Carnevale e si svolge nella settimana che precede il digiuno della Quaresima. Nel 2024 inizierà lunedì 11 marzo e terminerà domenica 17. La parola "Maslo", che significa burro, dà il nome alla festività, che celebra la fine dell'inverno. In molte città ucraine e russe, i mercati e le piazze si riempiono di stand che offrono degustazioni e lezioni su come preparare i bliny, protagonisti indiscussi della Maslenitsa. È per questo che in Ucraina viene detta anche la “settimana dei pancakes”. Si preparano sottili crêpes farcite con gli ingredienti più vari, dolci e salati, come burro, marmellata, miele, nutella ma anche smentana – panna acida – prosciutto, formaggio e caviale. Con la loro forma rotonda e il colore giallo caldo simboleggiano il sole e celebrano l’arrivo della bella stagione. Secondo una credenza, più bliny ci saranno a tavola, più giorni soleggiati verranno durante l’anno. Altre prelibatezze tipiche sono le ciambelle con il buco, dette anche bubliki, e come bevanda, non solo la classica vodka o il kvas – infuso fermentato a base di pane nero di segale – ma soprattutto il tè caldo e profumato, preparato con l’immancabile samovar, recipiente metallico usato per scaldare l’acqua. Piuttosto consueti sono anche i syrniki, piccoli dolci a base di ricotta, il budino zapekanka e il borsch, una minestra ucraina di verdure a base di barbabietole. La Maslenitsa, però, non è solo cibo. È anche musica, danze, giochi e rituali antichi: la caratteristica principale è il coinvolgimento di ogni abitante. In passato vi era la convinzione per cui chi non avesse preso parte ai festeggiamenti sarebbe stato destinato a sfortuna, infelicità e malattia. Durante i sette giorni si esce per fare visita a parenti e amici. Nella tradizione, in questo momento dell’anno si tenevano le presentazioni ufficiali dei fidanzati,

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Grande spazio viene dato ai giochi, alle gare su slitte e pattini, al tiro alla fune, alla lotta, al vzjatie snežnogo gorodka, la costruzione di castelli di neve. Nel Kievan Rus Park del villaggio di Kopachiv, vicino Kyiv, si svolge la più grande celebrazione ucraina della Maslenitsa, seguendo le antiche tradizioni slave, con un’immersione nell’atmosfera delle feste medievali. Sono molti gli spettacoli equestri a cui prendono parte cavalli di razze antiche e uniche. Insieme a stuntmen esperti che li cavalcano, impressionano il pubblico con la loro grazia e le loro performance. Viene praticato anche il tiro con l’arco, spesso indossando costumi tipici dalle colorazioni accese.

Uno dei riti più famosi consiste nel dare fuoco al čučelo, una grande “bambola” di legno vestita come un’antica divinità. Alla fine della settimana della Maslenica, nella domenica del perdono, viene bruciata come personificazione dell’inverno che lascia il posto alla primavera, che scioglie il ghiaccio. Il suo arrivo nelle tradizioni pagane era come l’inizio di un nuovo anno: ecco come la Maslenitsa è diventata simbolo del rinnovamento. Per questo, gli abitanti della regione Kaluga in Russia bruciano nel falò di paglia dei foglietti di carta con sopra scritte le cose che vorrebbero lasciarsi alle spalle. Tutti i presenti danzano poi in cerchio mano nella mano intorno al fuoco della Marena. Nonostante l'evoluzione della società moderna e il presente periodo buio del conflitto tra Russia e Ucraina, la Maslenitsa conserva il suo valore culturale e spirituale, rimanendo una delle feste più amate e celebrate nell'Europa orientale. In un mondo sempre più frenetico, questa antica e briosa tradizione ci ricorda l'importanza di fermarsi, celebrare le stagioni e condividere la gioia con gli altri.

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Parole e immagini di Federica Carlino

DOCUMENTARIO

20 giorni a Mariupol Guerra in presa diretta di Mstyslav Chernov Ucraina 2023

Il regista e giornalista Mstyslav Chernov ha presentato un lungometraggio su una città devastata dalle milizie russe, bersaglio di un conflitto, ancora in corso. “20 giorni a Mariupol” ha attenuto la candidatura agli Oscar 2024 e già vincitore di numerosi premi. È il 24 febbraio 2022, una squadra di giornalisti ucraini dell’Associated Press rimane intrappolata nella città di Mariupol. Le strade sono innevate, si sente un rumore nuovo: è quello delle bombe. Il cielo è annebbiato dalla cenere dei palazzi colpiti, le persone urlano cercando un posto protetto, perché anche la propria casa non è più un luogo sicuro. La guerra è appena iniziata. Il gruppo di reporter decide di rimanere e documentare con foto, video e ogni mezzo a loro disposizione, ciò che l’invasione russa sta facendo. Catturano immagini della guerra diventate simbolo del dolore e della resistenza ucraina: fosse comuni, bombardamenti in un ospedale, bambini in fin di vita. «Siamo arrivati a Mariupol alle 3.30. La guerra è iniziata un'ora dopo racconta il regista - i russi hanno tagliato l'elettricità, l'acqua, le scorte di cibo e infine, soprattutto, i ripetitori dei telefoni, della radio e della televisione». 56 — Zeta

Questo blocco totale verso l’esterno aveva due obiettivi: «Il caos è il primo. Le persone non sanno cosa sta succedendo e vanno nel panico. L’impunità è il secondo. Senza informazioni provenienti da una città, senza immagini di edifici demoliti e bambini morenti, le forze russe potevano fare quello che volevano. Se non fosse per noi, non ci sarebbe nulla». La squadra di giornalisti segue come un’ombra i soldati ucraini, riprendono dal settimo piano di un ospedale in città i primi carri armati con la “Z” (appartenenti ai russi) arrivati in territorio ucraino. Mirano a tutti e a ogni cosa che incontrano. Le persone urlano, scappano dalle proprie case e si nascondono nei sotterranei degli edifici. Il piano -1 di una palestra diventa un rifugio, il pavimento è tappezzato da materassi di fortuna. Alcuni di loro coprono con il nastro adesivo le pareti specchiate, per evitare che nel caso di attacco i frammenti possano ferire qualcuno. Dopo il primo, secondo, terzo bambino morto in strada, le ambulanze hanno smesso di raccogliere i feriti, non ci si può spostare nelle vie durante i bombardamenti. «C'era ancora un posto in città in cui ottenere un collegamento stabile – spiega Mstyslav -

fuori da un negozio di alimentari saccheggiato in Budivel'nykiv Avenue». Una volta al giorno la troupe andava lì e si accovacciava sotto le scale. Non si sentivano sicuri, ma era l’unico modo per avere un contatto con l’esterno. Il segnale però è scomparso il 3 marzo. Il racconto prosegue, alcune immagini riprendono l’attacco ad un ospedale per la maternità: «Quando siamo arrivati, gli operatori dei soccorsi stavano ancora tirando fuori dalle rovine le donne incinte insanguinate», spiega il giornalista, le stesse madri che, senza

prove, l’ambasciata russa a Londra aveva accusato di essere attrici. «Eravamo gli ultimi giornalisti a Mariupol. Adesso non ce ne sono», conclude. Ciò che rimane è un documentario che non si risparmia. È una testimonianza preziosa di una guerra che fatica trovare una mediazione, di ospedali, case, teatri, asili nido rasi al suolo dalla potenza di un conflitto crudele. Un’ora e mezza di cittadini che corrono e scappano da colpi di artiglieria russa. 20 giorni a Mariupol mostra ciò che non si deve dimenticare, una guerra che esiste ancora.


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Luiss Data Lab Centro di ricerca specializzato in social media, data science, digital humanities, intelligenza artificiale, narrativa digitale e lotta alla disinformazione Partners: ZetaLuiss, MediaFutures, Leveraging Argument Technology for Impartial Fact-checking, Catchy, CNR, Commissione Europea, Social Observatory for Disinformation and Social Media Analysis, Adapt, T6 Ecosystems, Harvard Kennedy School

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Corso Executive in Giornalismo Enogastronomico La terza edizione inizia il 5 aprile 2024 Guidato da Eleonora Cozzella, giornalista e critica gastronomica del gruppo GEDI, il corso vedrà la partecipazione di grandi chef, sommelier, critici, giornalisti, scienziati. Nelle prime due edizioni si sono alternati negli incontri gli chef Cristina Bowerman e Cristiano Tomei, ristoratori come Alessandro Pipero, maître e sommelier come Marco Reitano. E poi giornalisti di food & wine, Anna Prandoni e Cinzia Benzi tra gli altri, esperti di social media e nuovi linguaggi, come Francesca Milano e Demis Del Monte, e molti altri


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Master in Journalism and Multimedia Communication Lectures: Marc Hansen, Sree Sreenivasan, Linda Bernstein, Ben Scott, Jeremy Caplan, Francesca Paci, Emiliana De Blasio, Colin Porlezza, Francesco Guerrera, David Gallagher, Claudio Lavanga, Eric Jozef, Federica Angeli, Paolo Cesarini, Massimo Sideri, Davide Ghiglione giornalismo.luiss.it @Zeta_Luiss

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