Corpo • Zeta Numero 3 | Aprile 2022

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Periodico della Scuola Superiore di Giornalismo “Massimo Baldini” Numero 3 Aprile 2022

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Il corpo Più sei queer più sei apprezzato, la ball è l’opposto della società

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L’arte dell’inclusione

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Take a stand

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La leggenda di Corto Maltese

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L’energia del contatto Oltre le gambe


Data Lab

Italian Digital Media Observatory Partners: Luiss Data Lab, RAI, TIM, Gruppo GEDI, La Repubblica, Università di Roma Tor Vergata, T6 Ecosystems, ZetaLuiss, NewsGuard, Pagella Politica, Alliance of Democracies Foundation, Corriere della Sera, Fondazione Enel, Reporters Sans Frontières, The European House Ambrosetti, Harvard Kennedy School e Ministero degli affari esteri e della cooperazione internazionale


La parola Coverstory

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Né morti, né vivi. Desaparecidos

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Il velo di May

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Entrare in contatto

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di Luisa Barone

di Giulia Moretti

Periodico della Scuola Superiore di Giornalismo “Massimo Baldini” Numero 3 Aprile 2022

di Federica De Lillis

Italia

La ball è l’opposto della società

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Una strada per Andreina Gotta Sacco

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Lavoro senza diritti, diritti senza lavoro

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Caro umano ti scrivo

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di Silvia Andreozzi

di Dario Artale e Alissa Balocco di Lorenzo Sangermano di Giorgio Brugnoli

Scienza

«La pillola? Fa ingrassare!»

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Sotto la pelle di Federica

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Selfie surgery

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Insaziabile fame d’amore

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Musica della natura

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Nell’emozione dell’altro

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di Ludovica Esposito e Giorgia Verna di Claudia Bisio

di Yamila Ammirata

di Elena La Stella e Martina Ucci di Maria Teresa Lacroce di Silvia Morrone

Photogallery

Lo sguardo di chi vuole dimenticare

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di Giorgio Brugnoli

Esteri

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I sindacati di Amazon

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di Silvano D’Angelo

Cultura

Le storie minime di Luigi Ghirri

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Il corpo di Corto

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La punta dell’ago

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Centanni di Cantastorie

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Cos’è uno stupro?

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di Elena Pomè

di Leonardo Aresi

di Caterina Di Terlizzi di Silvia Pollice

di Beatrice Offidani

Spettacoli

Lettera alla danza

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Il mostruoso femminile

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di Elena La Stella

di Valeria Verbaro

Sport

La nobile arte dell’inclusione

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Take a stand

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Abolire i colpi di testa

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Le due facce del culturismo

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di Enzo Panizio

di Leonardo Pini

di Antonio Cefalù

di Niccolò Ferrero

La guida di Zeta

«Donne, oltre le gambe c’è di più»

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di Silvia Stellacci

Parole e immagini I diari di Andy Warhol di Silvia Pollice

Parlare di corpo oggi risponde al desiderio di una riscoperta. Dopo due anni di distanziamento, di isolamento a singhiozzo, provare a centralizzare la nostra sfera fisica e individuale è un atto necessario per muovere verso il futuro a passo deciso. È il tentativo di un’avventurosa riconquista di sé stessi. Il corpo è la porzione di materia nella quale la nostra anima alberga sin dal primo vagito. È il modo che ci permette di conoscere la realtà circostante, di interagire con i nostri simili. Il corpo è senso, è mani, è voce. È il mezzo grazie al quale la nostra personalità può manifestarsi all’esterno. È arte viva. Il corpo è la sola opportunità che abbiamo di lasciare un segno, di cambiare la realtà, di comunicare. In esso si nasconde il mistero ancora inesplorabile della nostra stessa natura. In molte dottrine religiose rappresenta la nostra parte più corruttibile e viziata, in altre è invece la sede stessa della spiritualità, inseparabile dal nostro essere immortale. «Io sono corpo e niente altro all’infuori di ciò: e l’anima non è altro che una parola per significar qualche cosa che si trova nel corpo» ha scritto Friedrich Enzo Panizio

Bucha, il massacro di Francesco Di Blasi

Il corpo

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ZETA Periodico della Scuola Superiore di Giornalismo “Massimo Baldini” supplemento di Reporter Nuovo Registrazione Reg tribunale di Roma n. 15/08 del 21/01/2008

Direttore responsabile Gianni Riotta Condirettori Giorgio Casadio Alberto Flores d’Arcais

Nietzsche. «Il corpo è un grande sistema, una cosa molteplice con un senso solo: è guerra e pace, gregge e pastore». Nel terzo numero del nostro periodico abbiamo provato a raccontare questa complessità e le sue sfaccettature. Il corpo è la memoria delle nostre battaglie, la loro testimonianza tangibile. Racconta storie di protesta, di lotta, di emancipazione. Il corpo è cicatrici, tatuaggi, dolore. È culto, benessere, competizione. Il corpo è forse tutto quello che abbiamo. E per questo è talvolta anche una prigione dalla quale è impossibile evadere: insufficiente a rappresentarci, colpevole di inadeguatezza. Siamo corpi. Nel bene e nel male, nella vita e nella morte. Gli avvenimenti degli ultimi anni ci hanno forse abituati alle accezioni più avvilenti del termine: ci siamo educati alla distanza, a relazioni incorporee e mediate, ci stiamo abituando a sentire parlare di corpi come sinonimo di vittime di conflitti e violenze. Noi che viviamo e raccontiamo questi tempi, però, abbiamo il dovere di ricordare a noi stessi che siamo tante cose allo stesso tempo. Raccontarle oggi ci sembra l’augurio di potere riscoprirle tutte, presto e con ritrovata serenità.

A cura di Silvia Andreozzi Luisa Barone Giorgio Brugnoli Giulia Moretti Enzo Panizio Giorgia Verna

Redazione Viale Pola, 12 – 00198 Roma Stampa Centro riproduzione dell’Università Contatti 0685225358 giornalismo@luiss.it

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La parola a cura di Silvia Stellacci

Còrpo s. m. [dal lat. cŏrpus «corpo, complesso, organismo»] 1. Termine generico con cui si

indica qualsiasi porzione limitata di materia. 2. La struttura fisica dell’uomo e degli

Identità Da sempre il corpo è il mezzo materiale attraverso cui ci esprimiamo. Coprirlo, scoprirlo o esibirlo non sono altro che modi differenti per affermare noi stessi. È il caso della ball culture, comunità di persone che decidono di partecipare a delle ball in cui sfilano, ballano o competono in versione drag queen. Ma è il caso anche di chi decide di pubblicare sui social delle proprie foto di nudo e, al contrario, di chi crede che indossare il velo sia una scelta consapevole e di auto affermazione.

animali

CORPO Definizione dal dizionario Treccani

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Benessere

Prigione

«La salute prima di tutto» dicono, ancora oggi, molte delle nostre sagge nonne, ma nel tempo la concezione di ciò che ci fa stare bene è cambiata. Il peso dei canoni di bellezza imposti dalla società si fa sempre più sentire e porta, talvolta, a ricorrere alla selfie surgery. Altre volte, invece, le conseguenze peggiori si manifestano nei disturbi del comportamento alimentare, che spesso nascono proprio a causa di una visione distorta della bellezza. I cambiamenti, però, non sempre sono negativi. È il caso della pillola anticoncezionale maschile.

Per Platone il corpo non è altro che la «tomba», la «prigione» dell’anima. Un paragone – quello tra carcere e corpo – che oggi potrebbe trovare un senso per quei casi in cui corpi umani o animali vivono situazioni di costrizione. È quello che avviene, ad esempio, in provincia di Latina, dove la comunità sikh non riceve alcuna garanzia o diritto dalle condizioni del caporalato nelle campagne. O quello che accade negli allevamenti intensivi, in cui gli animali sono costretti gli uni accanto agli altri.


La citazione

Guerra Nel corso dei secoli il modo di combattere e fare la guerra è cambiato. Da uno scontro tra eserciti nemici si è passati sempre più a coinvolgere i civili, i cui corpi sono quelli che più subiscono le conseguenze del conflitto. Tra queste, lo spostamento di milioni di persone verso territori più sicuri è l’effetto al momento più evidente della guerra che si sta consumando in Ucraina.

«La natura dell'anima non vive se non ha un corpo» Tito Lucrezio Caro

Ribellione Lo sport è stato spesso il luogo di battaglie che hanno inciso in modo profondo sulla società. La storica palestra di Bologna, Sempre Avanti!, è un esempio di lotta e di resistenza contro il regime dittatoriale fascista. In molte manifestazioni sportive, poi, è stata cambiata la storia. Come nelle Olimpiadi del 1968, dopo la finale dei 200 metri a Città del Messico. Qui Tommy Smith e John Carlos, con indosso i guanti di cuoio nero, alzarono il pugno al cielo per denunciare la segregazione razziale e le discriminazioni che subivano negli Stati Uniti.

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Coverstory

Né morti né vivi, Desaparecidos I sequestri forzati e la scomparsa di decine di migliaia di persone accomunano le dittature latinoamericane degli anni Settanta STORIA

di Luisa Barone

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«Il periodo più buio della nostra storia. È stata un’epoca veramente difficile per vivere, per lavorare, per crescere figli. È stato terribile». È così che il popolo argentino descrive la cosiddetta “Guerra Sucia” con cui si trova a fare i conti ancora adesso. Il programma di sovversione messo in atto dalla giunta militare contro i gruppi di opposizione come i Montoneros e l’Ejército Revolucionario del Pueblo (ERP), si stima creò circa 30mila vittime. Insediatosi il 24 marzo 1976, quello di Jorge Rafael Videla fu l’ultimo golpe della storia argentina, in cui le forze armate deposero la presidente costituzionale Isabela Martìnez Perón (moglie del presidente deceduto Juan Domingo Perón). Durante la notte, l’esercito occupò i punti nevralgici delle grandi città del paese proclamando alla radio la mattina dopo l’inizio della dittatura. Grazie all’instabilità politica e alla grave crisi economica degli anni precedenti al colpo di stato, con il 444% d’inflazione nel ’76 e un carovita del 185%, il regime riuscì a pre-

sentarsi come una «dittatura moderata» il cui obiettivo era quello di «ristabilire l’ordine». Nel frattempo, gli “squadroni della morte” agivano facendo scomparire gli oppositori. «Tra questi vi erano moltissimi italiani di prima o seconda generazione emigrati in Argentina» sottolinea Elena Basso, la giornalista che ha seguito l’inchiesta sui sopravvissuti alle dittature in Sudamerica, per raccogliere le loro storie nell’ “Archivio Desaparecido”. Videla mise in atto il cosiddetto Processo di riorganizzazione nazionale condotto su due binari: l’uso indiscriminato del terrore e l’applicazione di un nuovo paradigma di stampo neoliberista. Un piano sistematico di terrorismo di Stato che imponeva la violenza, la tortura, il sequestro, l’esilio forzato e l’appropriazione di minori da parte dell’esercito articolato nei centri clandestini sparsi in tutto il paese, in cui veniva rinchiuso chiunque «potesse rappresentare un nemico interno allo Stato».


Nonostante la loro esistenza sia stata a lungo negata, i centri di detenzione arrivarono ad essere 610. I più conosciuti furono l’Escuela de Mecanica de la Armada (ESMA) e l’Olimpo a Buenos Aires. Nel resto dei casi si trattava di commissariati di polizia, caserme e spazi privati gestiti dalle frazioni militari locali, rappresentando un vero e proprio «buco nero fuori dal controllo delle istituzioni formali». Ad essere perseguitati erano guerriglieri, attivisti, politici, docenti universitari e perfino studenti liceali. Ma anche «semplici persone comuni simpatizzanti dell’opposizione».

«Il dibattito sul numero di vittime è ancora vivo tra i cittadini argentini. A volte ci dicono che sono meno di 30mila. Noi vorremmo sapere la verità e solo le forze armate la conoscono» I sequestri avvenivano generalmente di notte, irrompendo nelle case private oppure organizzando i cosiddetti cita cantadas, l’inganno che prevedeva l’appuntamento per i militanti a cui si presentavano anche i militari per catturare chiunque si trovasse sul posto. Le torture fisiche andavano dalle percosse e i colpi a tecniche più atroci, fra cui la picana (elettrodi posti sui genitali dei torturati). Ma Elena Basso ricorda la confidenza di uno dei sopravvissuti intervistati: «La vera tortura era l’attesa che arrivasse il torturatore». Le sparizioni avvenivano gettando in mare i detenuti ancora vivi e sotto l’effetto di droghe, i cosiddetti vuelos de la muerte. Uno degli aspetti più sinistri della dittatura riguardava le donne, che quando erano in gravidanza venivano tenute in vita fino al momento del parto. Si stima siano almeno 500 i bambini sottratti alle famiglie e affidati ai militari della dittatura. È così che nascono le Abuelas de Plaza de Mayo che insieme alle Madres de Plaza de Mayo lottano da 45 anni (celebrati il 30 aprile del 2022) scendendo in piazza ogni giovedì per conoscere la verità sui loro figli e nipoti.

le isole Falkland-Malvinas, che i militari intrapresero per distrarre l’opinione pubblica dai problemi interni, sancì la caduta della dittatura argentina. Con l’elezione del radicale Raúl Alfonsín, venne istituita la commissione Conadep (Comisión Nacional sobre la Desaparición de Personas) per indagare sui crimini perpetrati dal regime. Le indagini si chiusero con la redazione di una relazione che prese il nome di Nunca Más. Nonostante i casi di violazioni di diritti umani rilevati fossero solo 8800, la relazione rappresentò la base documentale per il processo alla Giunta contro i capi delle forza armate nel periodo tra il 1976 e l’83. Così, dopo soli due anni dalla fine del regime, gli uomini al vertice della dittatura sono stati condannati e oggi si contano 254 sentenze e 1025 soldati condannati.

Quello del desaparecido «è uno stigma che la dittatura ha voluto imprimere nel popolo cileno». Le persone, per paura o per imbarazzo, si allontanavano dai familiari di coloro che venivano sequestrati «come se avessero la lebbra» rendendo la loro vita più difficile. Allo stigma, si aggiunge il trauma di non essere creduti. «In Cile non si tortura» viene ripetuto ogni giorno dai giornali, dai politici e dalle televisioni, sostenendo che quella dei desaparecidos sia un’invenzione dei comunisti per macchiare di sangue il governo di Pinochet. «El desaparecido no tiene entidad, no está ni muerto ni vivo, está desaparecido». Anche se privati della corporeità, la scomparsa dei dissidenti dei regimi nell’era delle dittature sudamericane diviene testimonianza dei crimini perpetrati. ■

In Cile la storia è diversa. Il golpe di Pinochet destò enormi proteste e le immagini della Moneda fumante fecero il giro di tutto il mondo. La politica della memoria e della giustizia dopo la fine della dittatura nel 1990 fu condotta, per usare le parole del primo presidente democratico Patricio Aylwin, «nei limiti del possibile» siccome Pinochet divenne senatore a vita e riuscì a sfuggire a tutte le condanne a suo carico fino alla morte nel 2006. Elena Basso spiega che «i nomi dei responsabili si conoscono». Ma quella cilena è stata un dittatura civico-militare, e i processi fino ad ora hanno colpito solo il mondo militare mentre la società civile coinvolta è rimasta impunita. Inoltre, c’è un forte legame con l’Europa e la strategia delle Americhe degli Stati Uniti.

«Il dibattito sul numero di vittime è ancora vivo tra i cittadini argentini. A volte ci dicono che sono meno di 30mila. La realtà è che noi vorremmo sapere esattamente. Le forze armate lo sanno con esattezza». La sconfitta del 1983 nell’impresa di guerra contro l’Inghilterra per Zeta — 7


Coverstory

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Il velo di May Il racconto della lotta delle donne musulmane che vogliono portare il velo per affermare la propria identità DONNE

di Giulia Moretti

«Ho forgiato la mia identità intorno al velo. Nonostante abbia capito che non è né un obbligo né un punto cardine della fede, ho continuato a volerlo portare perché è diventato parte della mia personalità, del mio lavoro, della mia vita». Maymouna Abdel Qader, da tutti conosciuta come May, è mediatrice culturale e responsabile della sezione di Perugia dei Giovani Musulmani d’Italia. Ha iniziato a portare il velo imitando i comportamenti della madre e delle sorelle più grandi, non capendone il vero significato. «È iniziato come una sorta di gioco. Un po’ come chi sceglie di farsi una pettinatura piuttosto che un’altra, un piercing piuttosto che un tatuaggio. Poi, è diventato, per me, una questione di identità, svincolato dalla religiosità». 8 — Zeta

Il velo islamico è il terreno su cui, da anni, si consuma una battaglia politica sul corpo delle donne. Demonizzato da chi ritiene sia la prova provata dalla sottomissione delle donne islamiche, ostaggi di una cultura sessista e patriarcale, il velo è, invece, per molte di loro un elemento essenziale di affermazione del sé. Una rivendicazione del diritto a scegliere cosa fare del proprio corpo e a entrare a far parte della società pluralistica con il proprio portato culturale e valoriale. Come spiega May «la questione del velo per l’Islam è fondamentale: dare a ogni donna la facoltà di decidere se velarsi o no è stato il primo grande passo verso l’eguaglianza di genere in una società in cui la donna non poteva scegliere». In molte culture pre-religiose la mentalità dell’epoca imponeva di coprire la donna per due ordini di ragioni: innanzitutto, le si doveva proteggere dagli istinti sessuali


maschili e, in secondo luogo, doveva essere evidente all’occhio la differenza tra la donna morigerata, coperta, e quella di facili costumi, scoperta. «Una volta assorbita la cultura dalla religione l’usanza è rimasta sottolineata da versetti del Corano e della Bibbia che prescrivevano di tenere un abbigliamento casto. Nell’Islam- specifica May- la prescrizione vale anche per gli uomini». A sostegno del fatto che non ci sia attinenza con le questioni religiose e che si tratti, dunque, di una manifestazione identitaria della cultura islamica vi sono due riferimenti coranici. “Più vicino a Dio è chi più lo teme” recita la II Sura, spostando il baricentro della fede dalla precettistica alla devozione e al timore nei confronti del divino. Nell’Islam non c’è il concetto di obbligatorietà (“Nella religione non c’è costrizione”; v. 256 II Sura), ma osserva May «come accade anche in altre le culture, della religione viene preso solo ciò che permette di sottomettere un popolo, una famiglia, una moglie, un figlio».

«Dare a ogni donna la facoltà di decidere se velarsi o no è stato il primo grande passo verso l’eguaglianza di genere» È proprio la libertà di interpretazione del testo sacro che presta il fianco ai posizionamenti più estremisti. La mancanza, infatti, di una gerarchia religiosa al vertice della quale è posto un individuo che decodifichi il testo sacro per tutti e detti regole universale, unita alla raffinatezza del lessico e della grammatica con cui è scritto il Corano dà vita a un insieme variegato di interpretazioni. È in questa diversità che c’è tutto il bacino dei modi di portare il velo. «Basterebbe bussare alle porte delle famiglie musulmane per rendersi conto che molte di queste sono di stampo matriarcale». È l’invito di May, che spiega come la costruzione di un discorso politico strutturato, a partire dall’attentato alle Torri Gemelle, sulla retorica dell’Islam nemico dell’Occidente, abbia inciso sulla persistenza dei pregiudizi legati alla cultura musulmana. «Sotto ci sono questioni geopolitiche di non poco conto: i paesi islamici detengono circa i tre quarti delle risorse energetiche del pianeta e questo induce gli altri paesi a crimina-

lizzarli e additarli come nemici per giustificare certe azioni politiche. Questo è successo per cristiani, ebrei, buddisti. Si è molto giocato su questo». Ma responsabili della stagnazione dei pregiudizi sono anche i musulmani che «non sono stati capaci di combattere l’ignoranza in maniera giusta. Si combatte con la giusta informazione. L’educazione delle comunità nei paesi di origine e la spoliazione dei retaggi culturali radicali sarebbe stato fondamentale per depotenziare il pregiudizio». E a giudicare dalle esperienze che racconta May il velo è ancora un forte tabù. «Per un mese ho fatto la mediazione in un reparto dell’Ospedale Santa Maria della Misericordia di Perugia in cui il primario aveva quotidianamente da ridire sul fatto che portassi il velo, dicendomi che spaventavo i pazienti. In realtà la maggior parte di quelli con cui mi interfacciavo erano musulmani e il mio velo più che spaventarli li faceva sentire accolti». Alle offese e agli scherni May, che è nata e cresciuta in Italia, è abituata sin da piccola. «Li ho sempre combattuti con l’autoironia, ferma nella convinzione che fossero frutto di ignoranza e certa di farli ricredere facendomi conoscere. Ma viverli sul luogo di lavoro è frustrante. Bisogna avere la fortuna di incontrare un datore di lavoro di mentalità aperta e pronto a sfidare i pregiudizi». La sensazione della giovane donna è che l’immagine sia tutto «e quindi nonostante mi trucchi e mi vesta bene attiro diffidenza. È come se i capelli fossero l’essenziale di una donna e questa fosse riducibile al suo corpo. Quell’Occidente che ci ha incoraggiato all’emancipazione ci pone oggi gli ostacoli più forti: è contraddittorio». Se si pensa che una donna curvy non viene assunta come hostess perché non rispetta lo standard, è facile

1. Maymouna Abdel Qader, responsabile per il Dialogo Interreligioso del Centro Islamico Culturale di Perugia e della Sezione di Perugia dei Giovani Musulmani d'Italia 2. Foto di un Corano 3. Riunione della gruppo Giovani Musulmani

farne seguire che una donna che porta una tunica o un velo fa molto più fatica a farsi assumere. Nonché a mantenere un lavoro. «Molte donne che pur di non rischiare il posto di lavoro, continuano a togliere il velo nel momento in cui entrano al lavoro lo rimettono al momento dell'uscita». A fare da contraltare all’autocensura delle donne che ancora faticano ad affermare la propria identità ce ne sono tante altre, specie di seconda generazione, che fanno del velo il vessillo e lo strumento delle loro battaglie. «Le giovani musulmane stanno rimodulando la moda e la bellezza anche attraverso il velo, basti pensare a Hind Lafram, stilista italiana che crea capi per donne islamiche. Vogliono dimostrare che lavorare e stare al passo con i tempi e gli standard si può anche con il velo. L’unica vera violenza è quella di chi vuole toglierci la possibilità di scegliere». ■

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Coverstory

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Entrare in contatto Il corpo e la fragilità nell'arte di Sara e Matteo SOCIAL

Il ticchettio dell’orologio insieme ai rumori della città, l’immagine desaturata fino all’essenziale bianco e nero. Un panno sgualcito fa da sfondo ai due corpi posti uno di fronte all’altro. Il loro sguardo gradualmente converge, come i movimenti delle gabbie toraciche, sincronizzati in un unico respiro: contatto mancato. Sara Pinna, 25 anni, è una performer. Matteo Piacenti, 20 anni, un fotografo. Entrambi lavorano con il corpo. «Ho lasciato l’accademia dove studiavo per diventare critica d’arte circa due anni fa», racconta Sara che già a sedici anni lavorava come modella per il make-up e per scatti fotografici.

di Federica De Lillis 2 10 — Zeta

«Ho scoperto davvero me stessa quando ho iniziato a fare la modella di nudo». Anche Matteo lavora con le immagini. All’accademia di belle arti di Bologna studia scultura e la passione, che definisce «quasi un’ossessione», per il corpo lo ha avvicinato alla fotografia. «Utilizzo sfondi neri per creare un contrasto e modellare meglio la figura. C’è solo la loro fisicità, il nero annulla e racchiude tutto il resto. Per realizzare anche solo uno scatto impiego mesi: voglio intessere un legame con la persona in modo tale che si senta a suo agio e negli scatti possa trasparire il suo abbandono». Sara e Matteo hanno deciso di esporre i propri lavori sui social. «Non tutti i miei amici erano contenti - racconta Sara -. Alcuni mi dicevano ‘vestita non ti riconoscevo’, da altri arrivavano commenti a sfondo sessuale. Se avessi fatto caso alle loro parole non avrei mai iniziato». Influenzata da studi esoterici e sulla base dei propri sogni, Sara tenta di far entrare le persone in contatto con la loro parte più profonda, tanto da guadagnarsi il soprannome di “performer dell’inconscio”. «Nel momento in cui mi ascolto, se sento qualcosa che non va non mi esibisco. Quando lo faccio, creo uno spazio tra me e il pubblico, un luogo sicuro in cui


posso mostrarmi per come sono». Nel fare questo, anche il suo rapporto con i social network è cambiato. «Ho smesso di fare finta che una bella posa fosse un’opera d’arte e ho rifiutato la finzione dell’eterna positività. È complesso, soprattutto per i più giovani che non sanno qual è il posto sicuro in cui possono mettersi a nudo».

«Nei corpi c’è un’energia che i social hanno difficoltà a contenere» Il rapporto con l’immagine di sé è sempre più difficile per milioni di ragazze e ragazzi. È quanto emerge da un articolo del Wall Street Journal basato su alcuni report dell’azienda Meta. Instagram è il luogo principale in cui avviene il cosiddetto “social comparison”: quando le persone definiscono il loro valore misurandolo in relazione al benessere e al successo di altre. «La pressione che spinge a sembrare perfetti può portare gli adolescenti verso disturbi alimentari, a una visione malsana dei loro corpi e alla depressione». Secondo Sara, «Decidere di emulare a tutti i costi la vita di altre persone vuol dire non stare bene nella propria intimità. Per questo io ho deciso di mostrarmi fragile». Una fragilità che condivide con Matteo. «Sui social si cerca una perfezione che non esiste. È tutto orientato all’apparenza. Io cerco di fare il contrario: di un corpo che mi piace cerco di accentuare i difetti».

Per entrambi gli artisti, scoprirsi ha significato anche fare i conti con l’ipersessualizzazione del corpo e con le linee guida della community Instagram. «All’inizio, sulle foto taggavo i modelli. È importante per me che si conosca l’identità e la storia di chi fotografo. Ho smesso quando ho capito che molti prendevano il mio profilo come un supermercato da cui scegliere i ragazzi a cui fare avances» racconta Matteo. «Anche il nudo femminile è difficile da mostrare - aggiunge Sara - perchè è sempre associato al sesso, alla perdizione, alla tentazione». Una realtà che, sempre secondo le ricerche portate alla luce dal Wall Street Journal, «ha un peso sulla salute mentale delle giovani utenti. [...] e i ragazzi non ne restano immuni: il 14% dei giovani americani ha affermato che Instagram ha peggiorato il rapporto con sé stessi». Notando come, rispetto a qualche anno fa, pubblicare nudo è diventato sempre più comune, Matteo riconosce che « ci sono lati positivi. Lasciarsi vedere così significa anche accettarsi. Però, sui social siamo portati a inventare il corpo, a trasformarlo in qualcosa che non è pur di rispettare determinati canoni. Molti sono giovani alla ricerca di un’identità e il nudo è un modo facile per attirare molti più like. Pubblicare certe foto è diventata quasi una necessità». I dati raccolti dall’associazione di ricerca Algorithm Watch evidenziano una correlazione tra la porzione di pelle mostrata nelle fotografie e la promozione del contenuto da parte dell’algoritmo di Instagram. Il team di ricercatori, insieme allo European Data Journalism Network, ha analizzato 1.737 post di profili, corrispondenti a 2.400 foto. Solo nel 21% dei contenuti erano presenti donne in bikini o uomini a torso nudo. «Tuttavia, nella home dei volontari i post con foto del genere costituivano il 30% di tutti quelli mostrati». I post contenenti immagini di donne hanno ottenuto il 54% in più di probabilità di essere promossi dall’algoritmo, mentre gli uomini arrivavano solo al 28%. Al contrario, i post con foto di cibo o paesaggi hanno avuto il 60% in meno di probabilità di apparire nelle home degli utenti. La conclusione cui è giunto Algorithm Watch è che c’è la probabilità che Instagram favorisca le foto con parti del corpo scoperte, anche se le condizioni di utilizzo del social rendono chiaro che il nudo non è ammesso.

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Banditi dalle linee guida della community in modo esplicito sono i «capezzoli femminili in vista», anche se questo

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divieto non vale se le immagini riguardano l’allattamento al seno, il parto, situazioni legate alla salute o atti di protesta. Per rispettare le regole ed evitare che il suo profilo venga rimosso Sara è costretta a censurare la maggior parte delle proprie foto, cosa che non accade con la stessa frequenza a Matteo. «Se pubblico un mezzo busto maschile non viene mai censurato, se pubblico la stessa fotografia, ma di una donna, la foto viene rimossa. Non ho mai capito questo tipo di censura». I lavori di Matteo e Sara non vogliono rispettare le logiche imposte dagli algoritmi. Per Matteo, «nei corpi c’è un’energia che i social hanno difficoltà a contenere. Il senso della bellezza è complicato da spiegare attraverso una macchina che va a ritmi velocissimi», ma non impossibile. Nella performance “contatto mancato”, l’intenso sguardo che lega Matteo e Sara trasporta in un'altra dimensione. Il tempo sullo schermo del telefono inizia a scorrere lento, accompagnato da un mogio ticchettio, mentre il bianco e nero risalta i dettagli della pelle nuda, invitando, anche sui social, a prendersi il tempo per contemplare la bellezza profonda di semplici e imperfetti corpi. ■ 1. Performance "Contatto mancato" di Sara Pinna con Matteo Piacenti e Sara Pinna 2. "Can you feel it". Foto di Andrea D'Elia, courtesy Sara Pinna 3. RiMEMBRA, courtesy Matteo Piacenti 4. RiMEMBRA, courtesy Matteo PIacenti

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Italia

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«Più sei queer più sei apprezzato, la ball è l’opposto della società» Fin dalla sua nascita la cultura ballroom è stata uno spazio in cui le persone LGBTQ hanno potuto esprimere la propria individualità attraverso un’estetica «esagerata» IDENTITÀ

di Silvia Andreozzi

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«Nelle ball non si afferma solo un’identità. Entrare a far parte della scena ballroom può anche essere un modo di mettersi in discussione, portare allo scoperto problematiche relative a sé stessi per superarle». Alpha è uno degli organizzatori di Kiki bolo, uno spazio che nella descrizione della sua pagina Instagram si definisce come «Queer, non competitivo e accessibile a tutti». Tre concetti che fissano la vicinanza e la distanza dell’esperienza che ha preso vita a Bologna rispetto alla scena tradizionale italiana. «Il nostro progetto si colloca in una posizione collaterale rispetto alla scena ballroom italiana. Nel senso che noi non

organizziamo vere e proprie ball, eventi competitivi in cui ci sono i giudici e altre figure chiave che noi di Kiki bolo abbiamo deciso di non avere. I nostri eventi vogliono essere più dei punti di accesso alla cultura e all’ambiente». L’esperienza di Kiki bolo è nata nel settembre 2021, sulla spinta di realtà simili che esistevano in altre città italiane. «La scorsa estate a Milano le persone hanno iniziato a incontrarsi per strada, a Porta Venezia, per allenarsi e stare insieme. L’esperienza ha preso piede, è diventata un appuntamento fisso. A organizzarlo è KenJii, la mia mother nella ball, che mi ha suggerito di iniziare qual-


cosa di simile anche a Bologna. Con due ragazze abbiamo deciso di provare, è iniziato tutto da una storia Instagram in cui abbiamo fissato un punto di incontro, il Portico dei Servi, e le persone hanno subito risposto». Anche la scelta di incontrarsi all’esterno è peculiare rispetto al modo in cui si svolgono di solito le ball, in locali chiusi, regolati da un accesso a pagamento che può rappresentare un deterrente alla partecipazione a un’esperienza che non si esaurisce nel divertimento. Organizzare gli eventi all’aperto aiuta a creare un ambiente più informale, in cui tutti possano davvero sentirsi i benvenuti. Un modo di fare comunità che risale alle stesse origini della cultura ballroom che affonda le sue radici nella New York di fine anni ’70. Nella chiusura di una società che marginalizzava coloro a cui veniva affidata l’etichetta di diverso, la ricerca di un luogo in cui poter esprimere a pieno la propria identità, è esplosa in un sistema culturale che fa dell’estetica, dell’eccentricità del vestiario e del trucco, il sistema per scoprirsi ed essere sé stessi. Allontanati dalle famiglie a causa del proprio orientamento sessuale o della propria identità di genere, i giovani, colpiti dalle piaghe dell’HIV, trovarono nel sistema organizzativo della ballroom scene una nuova dimensione affettiva. La competizione è stata fin da subito la modalità dell’evento attorno a cui ruota l’intera cultura, un modo per mettere sulla scena una sfida rituale non tra semplici squadre, ma tra house, vere e proprie famiglie organizzate in una gerarchia affet-

tiva al cui vertice si trovavano le mothers. Proprio a queste spettava il compito di accogliere i figli emarginati di una società incapace di integrare la diversità. A loro, anche, l’onere di educare i giovani ad accettarsi e ad amarsi, allenandoli a sfilare interpretando le categorie proposte negli eventi in un modo che permettesse loro di essere davvero se stessi. Se c’è una cosa che non è cambiata è questa, «la ball era e rimane il posto in cui più sei queer, più sei stravagante, più sei apprezzato. L’opposto della società fuori. Uno spazio sicuro in cui puoi esprimere chi sei davvero. Ti dà la spinta in più per esagerare».

di tante, diverse individualità e che, grazie ad esse, continua ad evolversi senza perdersi.

La fisicità è un elemento fondamentale in questo ambiente, il mezzo attraverso cui uscire da sé stessi, eppure esserlo fino in fondo. I movimenti sono codificati, tanto che all’interno della scena è nato uno stile di ballo, il voguing, reso celebre da Madonna nel videoclip di “Vogue” ma appartenente ad un mondo underground che non l’ha mai ceduto o lasciato andare. «Si usa distinguere tre stili diversi di voguing che sono Old way, New way e Vogue Fem. Tutti hanno le proprie regole, poi all’interno di queste regole ogni persona ha uno spazio per mettere del suo, anche perché nelle ball non esiste una coreografia». Alpha mette in fila tutti gli elementi di un patrimonio culturale che, arrivato fino ad oggi senza mai perdersi, vive una nuova attenzione grazie a prodotti televisivi come il filmdocumentario Paris is burning o il più recente telefilm Pose. Per chi milita nella scena, però, è fondamentale mantenerne l’integrità.

In questo mondo che fa delle distinzioni nette la sua cifra stilistica Alpha è riuscito a definirsi attraverso un’identità di genere non binary.

«Entrare negli eventi significa entrare a far parte di una tradizione», la cui ricchezza è ciò che ha affascinato fin da subito il fondatore di Kiki bolo. Una storia che parla di una comunità che è fatta

«Nella ballroom ci sono persone che si riconoscono in identità diverse. Ci sono le trans, gli uomini gay, le donne cis. Partecipano persone bianche, nere, asiatiche. Due figure, però, sono le protagoniste delle ball, identificabili con il nome di butch queen e fem queen», spiega Alpha, «Butch queen è l’uomo gay, fem queen la donna trans, due soggettività separate di una scena binaria. Le stesse categorie utilizzano questa divisione».

«Con il tempo ho capito che nella ball mi piace esprimere un lato che vada a mettere in discussione il binarismo. “Walkando” le categorie ho scopeto che preferisco interpretare un tipo di look che sia un mix delle diverse identità. Questo mi ha fatto capire qualcosa di me. Mi sono sempre definito gender queer, non sono mai stato interessato a rinchiudermi in un singolo genere, però attraverso la ballroom mi sono reso conto dell’importanza di fare coming out, di definirmi apertamente in quel modo anche al di là di come posso apparire fuori o dei pronomi che utilizzo. La Ballroom è stata la scintilla che ha fatto scattare la necessità di uscire fuori come persona non binaria». Spazi di creatività, nelle ball vince l’eccentricità. Così, attraverso un gioco estetico fatto di trucco, vestiti e ballo, ciò che viene costruito è un luogo sicuro, in cui le persone sono libere di esprimere sé stesse, mostrarsi ed essere viste. ■ Zeta — 13


Italia

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Una strada per la pioniera della ginnastica ritmica Associazioni femminili e la Federazione Ginnastica celebrano l’intitolazione di una via di Roma all’atleta e docente che ha rivoluzionato la disciplina STRADE

di Dario Artale e Alissa Balocco

Se le nostre Farfalle sanno volare così in alto, molto si deve ad Andreina Gotta Sacco (1904 1988). All’atleta, pioniera della ginnastica ritmica italiana e prima donna italiana a diventare dirigente sportiva a livello internazionale, è stata intitolata una strada nel IX Municipio. 14 — Zeta

Il via della giunta capitolina è arrivato nel 2019, ma la targa deve ancora essere apposta. Si tratta, per la città di Roma, della terza strada ad essere dedicata a una sportiva, dopo la nuotatrice Luciana Massenzi e la prima donna italiana a ottenere un brevetto di volo, Rosina Ferraro. «I dati sulla presenza delle donne nelle strade d’Italia costituiscono un quadro preoccupante», spiega Emma de Pasquale di Toponomastica Femminile, una delle associazioni che hanno partecipato a Sulla Strada di Andreina, il convegno che si è tenuto il 12 aprile presso il Palazzo delle Federazioni Sportive di Roma per ricordare la figura della maestra della ritmica e celebrare la recente intitolazione stradale. «Nella Capitale solo il 6 per cento delle strade porta il nome di una donna. Promuovere una toponomastica femminile significa restituire visibilità alle donne il cui ruolo è stato cancellato dalla storia e dallo spazio pubblico».

Titti de Salvo è presidente del municipio che dedicherà una strada ad Andreina Sacco Gotta dal 2021, e sin dall’inizio della sua carriera politica porta avanti battaglie sulla presenza femminile nello spazio della città. «Potrebbe sembrare una cosa di poco conto, ma le strade hanno una valenza simbolica molto forte: rendono visibili le persone. Nel caso di Roma, su circa 700 strade intitolate a donne, quasi tutte sono sante». De Salvo ha cominciato, con la sua giunta, un percorso che nel corso di questi anni spera di correggere la toponomastica del suo municipio, sensibilizzando sul tema anche le scuole. Il convegno dedicato ad Andreina Sacco Gotta è nato da una rete di associazioni che, a partire da Toponomastica, si battono per il riconoscimento dei diritti delle donne, come Rete per la parità e Alef (Associazione, Leadership ed Empowerment femminile). «Se nel Novecento la ginnastica era molto maschilista,


questo rapporto oggi si è ribaltato, con la componente femminile ora in netta prevalenza», afferma il segretario generale della Federazione Ginnastica, Roberto Pentrella. Eppure, alle donne che praticano sport agonistici ancora non è riconosciuto il ruolo di professioniste. «Le Farfalle hanno ottenuto solo nel 2018 il palazzetto di Desio come spazio ufficiale per allenarsi», ricorda Emanuela Maccarani, allenatrice della nazionale italiana. In anni, dunque, in cui il mondo della ginnastica era prevalentemente legato a competizioni maschili, le innovazioni di Andreina Sacco Gotta definirono un nuovo spazio di affermazione femminile. Diplomata in educazione fisica e in composizione musicale, la sua disciplina era l’atletica, ma è grazie ai suoi studi che la ginnastica femminile moderna (l’aggettivo ritmica arriverà solo nel 1970) assunse le forme di come la conosciamo oggi. Superando la concezione statica della disciplina, Sacco Gotta introdusse dinamismo, adesione all’accompagnamento musicale e al ritmo. Insegnava alle ginnaste il solfeggio e suonava al pianoforte gli esercizi sui quali dovevano comporre i loro movimenti. «Lei capì l’importanza di tutte le discipline che stavano nascendo in quegli anni, i nuovi studi sulla psicologia e sulla creatività del bambino, e li ha trasportati nella ginnastica» racconta Anna Vera Pifano, ex ginnasta della nazionale di bronzo a L’Avana nel 1971 e allieva di Sacco Gotta all’ISEF di Roma negli anni 60. «Mi diceva: quando raccogli un oggetto per terra, lo fai con la postura rigida o assecondi il movimento?». In modo del tutto personale e innovativo, Sacco Gotta fu una delle prime a parlare di leggi fisiche in campo internazionale. Tante le allieve che hanno ricordato la figura della docente davanti al pubblico presente, tra cui anche tre classi del liceo sportivo Farnesina. «Mi auguro che questi eventi servano a promuovere lo sport non solo tra i giovani, ma anche nell’ambiente culturale e accademico», dice Angela Teja, storica dello sport e tra le promotrici dell’iniziativa. «Molto spesso lo sport negli ambienti universitari non viene riconosciuto come dovrebbe. Ma non possiamo dimenticare la tradizione sportiva, altrimenti si rischia di ricominciare sempre da capo. Questo sapere stratificato è la Storia, e per fare Storia bisogna difendere gli archivi». Parte essenziale dell’incontro, infatti, la presentazione da parte della Dott.ssa Rosalba Catacchio, funzionaria della Soprintendenza Archivistica della

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Puglia, del lavoro di ricerca e ricostruzione delle carte appartenenti ad Andreina Sacco Gotta e a suo marito, Marco Gotta, ex dirigente della Federazione Ginnastica. «I tuoi piedi suonano, il tuo corpo suona. Noi mettiamo sul pentagramma quello che il tuo corpo suona», ricorda ancora Anna Vera Pifano. Eleganza, armonia, musicalità: sono gli elementi con cui Sacco Gotta ha rivoluzionato la ginnastica ritmica, che solo nel 1970 vide la sua legittimazione ufficiale. Una disciplina che si è evoluta, nel corso degli anni, ma sempre tenendo fede ai principi della sua pioniera. Adesso è di Emanuela Maccarani il compito di trasmettere l’eredità alle nuove Farfalle. ■

3 1. Squadra nazionale di ginnastica ritmica, 19791982 2. Squadra della Reale Società Ginnastica di Torino, 1928. Andreoina Sacco Gotta è la prima in alto a sinistra 3. Andreina Sacco Gotta in un filmato di archivio dell'Università dello sport, 1957 4. Squadra nazionale di ginnastica ritmica, 1979-

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Italia

Lavoro senza diritti, diritti senza lavoro A Sabaudia, in provincia di Latina, un accampamento sikh riunisce i membri di una comunità che sopravvive nel caporalato un inferno SOCIETÀ

di Lorenzo Sangermano

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Hardit smette di pulire i baccelli di fagioli che riempiono il cesto al suo fianco mentre Jeet (nomi di fantasia) lo guarda spaventato. «Solo Dilbir può parlare» dice. Dopo pochi minuti Hardit sale in sella alla sua bici per andare al lavoro a poche centinaia di metri dall’accampamento sikh di Sabaudia e attraversa le due bandiere che, sul cancello d’entrata, dichiarano la natura di quel luogo. «Noi di giorno lavoriamo. Solo Jeet rimane al tempio. Lui lo cura e trascorre le giornate a pregare» dice Hardit. Dilbir ha appena lasciato il campo per trascorrere il pomeriggio nel centro città. L’ombra dell’ulivo al centro del prato rinfresca le spalle scoperte di Hardit e colpisce Jeet in tutte le pieghe del suo turbante e del

dhoti, l’abito tipico indiano. A terra delle confezioni di plastica di spezie pronte si sono unite con il fango e piegate sotto il peso delle orme di cui hanno assunto la forma. Dilbir è il capo, il tramite sociale e comunicativo dell’accampamento con il resto del mondo. Gli occhi di Hardit mostrano l’autorità e il timore che la sua figura suscita nei suoi sottoposti. Un ruolo che Dilbir non ha assunto per scelte democratiche o acclamato dalla folla, ma per la sua principale attività, il caporale. «Il controllo del caporale parte dai luoghi di abitazione fino al posto del lavoro. Intensità lavorativa, pause ristrette, esposizioni ad agenti chimiche. Questi trafficanti sono diventati leader della comunità indiana divenendo delle sorte di boss. Vivono al limite tra la legalità e non, offrono anche servizi a pagamento alla comunità» dice Marco Omizzolo, sociologo Eurispes e docente a La Sapienza di Roma. Il caporale non assume solo il ruolo di filtro tra la comunità e il resto della società, ma anche di vero e proprio disinformatore. «Il flusso dei migranti è deter-


minato da una serie di varianti. A monte c’è un’attività di manipolazione che attraverso l’alterazione delle informazioni scandisce patti e promesse che poi diventano un vincolo lavorativo». La speranza di un lavoro, della cittadinanza, di una condizione economica migliore vengono infrante dal caporalato a cui Dilbir li sottopone. Hardit arriva all’azienda dove il caporale l’ha fatto assumere. «In realtà è un sistema di patronato. In cima alla scala del potere c’è l’imprenditore che dà mandato a un caporale indiano di assumere persone. Lui è solo un tramite». Anche Dilbir è un dipendente che deve sottostare alle richieste delle aziende.

«Il controllo del caporale parte dai luoghi di abitazione fino al posto del lavoro. Intensità lavorativa, pause ristrette, esposizioni ad agenti chimiche.» Se la disparità di potere li divide, la responsabilità penale li accomuna. Infatti, dopo il grande sciopero di lavoratori immigrati il 18 aprile 2016, la sommossa portò a una serie di vertenze e miglioramenti delle condizioni lavorative. L’occhio puntato sulla questione permise di ottenere la legge 199 del 2016 contro lo sfruttamento lavorativo. «Dal 2016 c’è una responsabilità penale contro il caporale e l’imprenditore. Entrambe le figure vanno in carcere perché non è un proble-

ma soltanto il criminale, ma questo sistema apicale». Da allora la comunità di Hardit corrisponde a un’eccezione. L’aumento dei salari ha permesso in gran parte un abbandono del collettivismo familiare, limitandosi a una forma di solidarietà e mutuo aiuto. Una piccola crepa al muro che li divide dal mondo, ma che ancora si regge saldo sugli inefficaci tentativi di integrazione. «Le istituzioni hanno valori fondati su principi di universalità. Il problema è spesso legato all’accessibilità dei servizi e a problemi legati all’accoglienza al loro interno. In provincia di Latina ci sono progetti per l’insegnamento dell’italiano che si tengono in orari di lavoro. Le vittime di sfruttamento non potranno mai seguirli. I servizi non vengono organizzati seguendo i bisogni del lavoratore

400mila, è il numero di vittime del capolarato. L’ 80 per cento sono stranieri. 25mila, il numero di Sikh, censiti e in condizione di irregolarità presenti nell'Agro Pontino. 24,5 miliardi , è il fatturato delle agromafie. Il 10 per cento totale delle attività delle attività criminali in Italia

e dei familiari». Per Marco Omizzolo, c’è una grave latitanza delle istituzioni nell’accesso ai servizi pubblici rendendo quasi impossibili pratiche necessarie, come l’avere dei documenti. Se la legge 199 del 2016 ha portato importanti miglioramenti sul piano economico e dei diritti, la rete è solo stata scossa. «Serve la cancellazione della Bossi-Fini (la legge 189 del 2002 che disciplina l’immigrazione, ndr) che prevede il sistema quote che è propedeutico anche alla tratta internazionale a scopo lavorativo. Servono percorsi di facilitazione della denuncia». In condizioni di precariato e di assenza di diritti, i lavoratori faticano a denunciare perché il rischio di ritorsioni è alto. «Il fenomeno si ripete perché è sistemico, non episodico, è un intreccio tra norme, procedure, interessi economici a volte mafiosi, che produce circa 22 miliardi secondo Eurispes. Significa che è ancora convenienti sfruttare piuttosto che non sfruttare». ■ Zeta — 17


Italia

Caro umano ti scrivo Gli allevamenti intensivi sono zone grigie. Controlli falsati, tempi sempre più alienanti e l’insaziabile corsa al profitto rendono la vita degli animali ANIMALI

di Giorgio Brugnoli

Mi sento pronto, qualche beccata e rompo il guscio. Non vedo l’ora di conoscere chi mi ha covato con amore per 21 lunghi giorni. Vedo finalmente la luce, è più fredda di quanto mi fossi immaginato. Aria fresca, il rumore dei miei fratelli intorno a me: sono a casa. Strano, nessuno mi sta aspettando. Siamo in tanti, forse un centinaio e non vedo nessuna gallina pronta a curarmi. Scopro che è 18 — Zeta

un incubatoio industriale e non la fattoria che sognavo nel guscio. Qualcuno mi afferra e sento un pizzico. Fanno così a tutti, è la fase di vaccinazione. Mi sento stanco ma non c’è tempo per riposare, gli altri spingono e il cinguettio generale è talmente forte che a stento sento i miei pensieri. È buio e ci stiamo muovendo. Siamo tanti, sempre tutti pigiati e ad ogni curva del camion ci troviamo uno sopra l’altro. Di nuovo la luce, di nuovo freddo, di nuovo un essere umano che frettolosamente ci rovescia su un terriccio umido e sporco. Il pulcino accanto a me cadendo si è rotto una zampa ma non è l’unico. Ho sentito che qualcuno della mia stessa cesta è morto. Non capisco e non ho il tempo per realizzare perché tutto avviene velocemente. Un sacco nero mi passa accanto ma non mi prende. Un uomo con gli stivali alti e i guanti raccoglie da terra i miei compagni, quelli più piccoli o con qualche difficoltà. Sento il loro pianto e alzo la testa per guardare cosa succede.

L’operatore che fa la ronda fa pressione sul loro fragile collo e quel cinguettio disperato smette all’improvviso. Capisco ora che la mia non sarà la vita che avevo immaginato nel mio guscio. Sono trascorse tre settimane e il mio corpo è cresciuto a dismisura. Faccio fatica a camminare e l’ammoniaca, dovuta agli escrementi che ricoprono il pavimento, mi ha provocato delle vesciche fastidiose che bruciano e peggiorano giorno dopo giorno. Molti dei miei amici sono morti. Bisogna stare attenti in questo capannone perché se ti mostri debole muori. Gli abbeveratoi sono alti e bisogna sforzarsi per allungare il collo ma i muscoli crescono senza motivo: inizio a pensare che non sia colpa mia, è colpa del nostro DNA. Ho compiuto sei settimane e mi sento vecchio. Ingrasso e le mie ossa non reggono più il peso. Siamo diventati i più anziani in questo capannone e ci stanno spostando. Mi prendono ed è la prima volta


che un essere umano mi tocca da quando qualcuno mi aveva infilato un ago sotto la pelle appena nato. È apatico, sembra più una macchina che un essere vivente ma mantre registro questo pensiero mi appende a testa in giù, per le zampe. Fatico a respirare, gli uomini sanno che non ho il diaframma, sanno che i miei organi in questo momento pesano sui miei polmoni provati, sicuramente durerà poco. Cerco di convincermi che finirà presto e che tornerò nel mio capannone, in fondo è la mia casa e ci sto bene. Capisco subito però che non vedrò mai più quella distesa di polli: accanto a me c’è un mio compagno, ha la gola tagliata. Comprendo tutto e non ho paura, sono stanco e spero solo duri poco. Sono cosciente, gli occhi si riempiono di rosso e per la prima volta in vita mia mi sento finalmente libero. I polli Broiler, meglio noti tra gli allevatori come polli da carne, sono frutto di una selezione genetica con lo scopo di ottenere un rapido accrescimento in termini di peso. Il tasso di crescita di un pollo Broiler è 6 volte superiore a quello di un pollo allevato 90 anni fa e questo

significa che ogni animale impiega circa sei settimane per arrivare al peso perfetto per la macellazione (nel 1950 ne serviva-

no 13 settimane). Il peso dal dopoguerra è aumentato di circa il 400% con conseguenze atroci per l’animale: difficoltà motorie, respiratorie e cardiache. Animal Equality, organizzazione non-profit che si batte per tutelare la vita degli animali, ha documentato dal 2006 le condizioni disumane in cui vivono gli esemplari all’interno degli allevamenti intesivi di tutto il mondo. Tra denunce e manifestazioni, il mondo continua ad uccidere più di un milione di animali ogni ora e solo in Italia il numero di esemplari macellati ogni anno raggiunge quota 700 milioni. «Ciò che traina questa situazione è l’economia e un mondo in cui l’animale è considerato un oggetto da reddito che lo include in un comparto economico ben preciso» dice Chiara Caprio, manager della Communication dell’organizzazione animalista. La paura nasce dall’idea che un possibile cambiamento delle scelte alimentari possa portare a una drastica riduzione del profitto nel settore. La vita degli animali in un mondo sempre più consumistico rimane in secondo piano nonostante la prova tangibile delle sofferenze e degli abusi subiti. ■

Art.2 Dlgs 146/2001 Obblighi dei proprietari « Il proprietario deve adottare misure adeguate per garantire il benessere dei propri animali e affinché non vengano loro provocati dolore, sofferenza o lesioni inutili »

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Scienza

«La pillola? Fa ingrassare!» Le paure più diffuse legate al nuovo farmaco anticoncezionale maschile scoperto lo scorso 23 marzo all’università del Minnesota RICERCA

di Ludovica Esposito e Giorgia Verna

«Avrei paura», «userei il preservativo a prescindere», «fa ingrassare». Queste sono alcune delle risposte più diffuse alla domanda: «Prenderesti la pillola anticoncezionale maschile?» Lo scorso 23 marzo un gruppo di ricercatori dell’università del Minnesota è riuscito a creare in laboratorio una pillola che bloccherebbe la produzione di sperma e fungerebbe da contraccettivo. La YCT529, come viene chiamata in gergo tecnico, è ancora in fase sperimentale, ma è risultata sicura ed efficace ai test in laboratorio. Il lavoro è stato presentato al convegno primaverile dell’American Chemical Society. «Gli scienziati hanno cercato per decenni di sviluppare un contraccettivo orale maschile efficace, ma non ci sono ancora pillole approvate sul mercato» afferma Abdullah Al Noman, dottorando del laboratorio della professoressa Gunda Georg, a capo della squadra di ricerca. La maggior parte dei composti attualmente in fase di sperimentazione clinica prende di mira l’ormone sessuale maschile testosterone, ma questo potrebbe avere controindicazioni come l’aumento di peso, la depressione e l’aumento dei livelli di colesterolo LDL, questo progetto punta a «sviluppare un contraccettivo maschile non ormonale per evitare questi effetti collaterali».

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Molti scienziati hanno sviluppato un composto orale che inibisce i tre recettori nucleari che legano l’acido retinoico (RAR -alfa, -beta e -gamma), una forma di vitamina A che svolge ruoli importanti, compreso la formazione dello sperma. Tuttavia, la squadra della dottoressa Georg ha preso di mira solo il recettore alfa e quindi comportasse meno effetti collaterali, pur risultando efficace. «Per il momento la contraccezione maschile è ancora oggetto di studio. Gli esperimenti sui topi tramite un farmaco non ormonale che blocca gli spermatozoi stanno dando buoni risultati, senza


effetti collaterali, con possibilità di evitare la gravidanza pari al 99% e con totale reversibilità alla fine del trattamento. Tra qualche mese dovrebbe iniziare la sperimentazione sugli umani». La dottoressa Patrizia Curci, ginecologa alla clinica Sanatrix di Napoli, sottolinea che, al contrario della pillola anticoncezionale femminile che agisce a livello ormonale, quella maschile agirebbe a livello non ormonale, non causando sintomi spesso presenti nei soggetti femminili che la utilizzano come il cambio di peso o l’alterazione del ciclo ormonale. La pillola anticoncezionale femminile, infatti, viene spesso usata non solo come contraccettivo, ma anche come farmaco che possa aiutare a risolvere alcuni squilibri ormonali come l’acne. Stando alla dottoressa Georg, «la sperimentazione sugli esseri umani inizierà nella seconda metà del 2022». Tuttavia, «può essere difficile prevedere se un composto che sembra buono negli studi sugli animali funzionerà anche per l’uomo, perciò stiamo esplorando anche altre possibilità». I ricercatori della sua squadra stanno sia modificando il composto esistente che testando nuove composizioni strutturali, sperando che i loro sforzi portino finalmente alla realizzazione dell’elusivo contraccettivo orale maschile.In ogni caso, l’approvazione da parte delle autorità regolatrici e la successiva commercializzazione avverrebbe entro cinque anni. Dunque, l’arrivo della pillola nelle farmacie italiane è ancora lontano, ma quali sono i timori e le preoccupazioni su questo farmaco? Su un sondaggio condotto tra i lettori di Zeta, su un campione di 100 persone (dove il 50,4% si identificano nel sesso femminile e la restante parte in quello maschile), l’85% prenderebbe la nuova pillola scoperta. Ad ogni modo, la metà

dei votanti di sesso maschile afferma che userebbe comunque il preservativo. «È ovvio che il profilattico resti sempre il metodo migliore per la prevenzione delle malattie sessualmente trasmissibili. La contraccezione farmacologica, secondo me, va presa in considerazione solo in una coppia stabile e chiusa» conclude la dottoressa Curci. Sono favorevoli anche le lettrici di Zeta: il 72% afferma che avrebbe fiducia ad avere un rapporto sessuale con un ragazzo che prende la pillola. Ad oggi, sono solo le donne a dover sopportare gli oneri della contraccezione. I metodi contraccettivi maschili, infatti, sono al momento solo il preservativo e la vasectomia, mentre quelli femminili, per citarne alcuni, sono la pillola estro-progestinica, la minipillola di profestinici, il cerotto contraccettivo, l’anello vaginale, la spirale IUD ormona-

le e i bastoncini ormonali impiantabili. Per questo la ricerca sta tentando di approfondire nuovi metodi per permettere l’uso della pillola anche gli uomini. «E se la dimenticasse?» è uno dei dubbi delle lettrici, ma la primaria preoccupazione rimane per le malattie sessualmente trasmissibili: il 30% delle rispondenti di sesso femminile preferirebbe continuare a usare il preservativo. «Quando sarà effettivamente possibile attuare anche la pillola maschile, sarebbe ottimo alternare, in una coppia stabile, i periodi di contraccezione femminile a quelli maschili. Immagino che non sarà facile vincere i preconcetti dei maschi». Combattendo dubbi, paura e stereotipi, le nuove tecnologie potrebbero portare a un reale cambiamento non solo farmacologico, ma anche sociale ■

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Scienza

Sotto la pelle di Federica La psoriasi è una condizione medica poco nota. Federica ci convive da anni, facendone un suo punto di forza e parte della sua identità, anche online.

terapia giusta per te. Almeno io ancora la sto cercando. Questo però non mi ferma». Infatti Federica, non è certo una che sta con le mani in tasca. «Gestisco l’attività dei miei genitori, cerco di portare avanti i miei social- dove ha oltre 200 mila followers - e adesso sto creando una linea di gioielli».

«Durante periodi di forte stress, ho un aumento. Lo sfogo che principalmente ho sul seno e sull’addome si diffonde ovunque. Il sole e l’acqua salata però mi aiutano, infatti cerco sempre di iniziare a prendere il sole tra aprile e maggio in modo tale da arrivare a giugno e mettere il costume senza problemi»

di Claudia Bisio

«Ma che ti sei tatuata?» «Si attacca?». Due delle mille domande che Federica si sente fare ogni volta è in costume o semplicemente indossa dei pantaloncini. «Ho la psoriasi da quando ho 13 anni. È ereditaria, l’ho presa da mia mamma. All’inizio non era molto evidente, poi con un brutto trauma è scoppiata». La psoriasi è una malattia della pelle, che si manifesta a livello cutaneo tramite papule e placche ben circoscritte che provocano prurito e, quando sfregate, rilasciano delle piccole squame. Come se la pelle avesse la forfora.

E sono proprio i suoi profili social (Instagram e Tiktok in particolare) dove parla apertamente della sua malattia. «Ho pubblicato un video su Tiktok dove scherzosamente riportavo tutte le domande strambe che mi sono state fatte da quando ho la psoriasi. Da lì ho creato una community».Ha ricevuto un feedback notevole, rendendosi conto che poteva utilizzare i propri canali social per sensibilizzare e aiutare altre persone. «Uso i social anche per parlare della psoriasi ma non lo faccio per gli altri. Mi fa stare bene, mi da forza e ovviamente mi fa piacere che le persone si possano sentire meno sole. Ma lo faccio per me» Solo in Italia sono oltre un milione e mezzo le persone colpite da psoriasi. Nonostante ciò, è una malattia ancora poco conosciuta.

Federica abbraccia la sua malattia con positività e allegria, riuscendo in maniera semplice ma efficace a portare sui propri canali social informazioni su questa condizione della pelle che per alcuni rimane un mistero. E quando un hater stizzito e sprezzante le chiede che cosa sta condividendo, lei risponde «Sto mostrando la “ragazza maculata” che sono». ■

«Personalmente non ho ancora trovato una cura. Sto vagliando vari percorsi medici ma non ho trovato quello che fa per me. La psoriasi è una malattia abbastanza individuale, varia da persona a persona e quindi è difficile trovare la

«Ho girato una miriade di medici nella speranza di trovare prima una diagnosi e poi una cura. All’inizio mi è stato detto che era un fattore alimentare». La difficoltà di questa malattia però non è solo fisica ma anche psicosomatica.

STORIE

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Selfie surgery chirurgia cibernetica I dati sui filtri social applicati alla medicina estetica. Le persone chiedono che sia realtà ciò che vedono nel mondo virtuale DIGITAL

sta diffondendo su larga scala è quello della selfie surgery: «si ricorre al chirurgo per poter avvicinare il proprio aspetto fisico a quello che mostrano le fotografie postate sui social network».

di Yamila Ammirata

«Siamo abituati ormai ad osservare il proprio corpo non più in uno specchio ma all'interno di uno schermo digitale». Il libro Il tramonto della realtà, di Vanni Codeluppi, spiega come oggi si disponga di vere e proprie «fotografie liquide, ossia di immagini liberamente modificabili, e questo sta trasformando la percezione umana della realtà». Il processo di fusione tra corpo umano e i social media è una realtà. Con il passaggio dalla fotografia analogica al digitale, la manipolazione dell’immagine è diventata prassi. La moda di massa di produrre selfie consente alle persone di costruire online la propria identità. Si tratta di immagini conversazionali, diffuse per incrementare le proprie relazioni sociali. Un fenomeno che si

È stato preso in considerazione un campione di 104 persone, in cui il 45% fa parte della fascia di età 18-24 e quasi il 90% è di sesso femminile. Alla domanda “Preferiresti rifarti come…” la differenza è stata netta: l’88%, nel caso in cui dovesse ricorrere alla chirurgia estetica, chiederebbe di essere come se stesso con i filtri applicati piuttosto che come una celebrità. Fino a non molto tempo fa, invece, si richiedeva di avere lineamenti simili a quel-

li dei vip. Si è passati dal voler somigliare a Brad Pitt o a Kim Kardashian al presentare proprie foto modificate attraverso delle applicazioni. Gli schermi digitali offrono ai consumatori la possibilità di vivere in un mondo diverso e migliore. «Nella realtà aumentata il mondo non è sostituito, ma è soltanto abbellito». Non ci si riferisce soltanto ai visori 3D, come l’Oculus, ma anche ai filtri che vengono sovrapposti al viso, prima introdotti da Snapchat, e subito dopo dagli altri social. Instagram è il social in cui predominano i filtri, mentre tra le applicazioni emerge FaceApp, specializzata nell’editare foto e video attraverso intelligenza artificiale. Le maschere mostrano uno standard di bellezza che non esiste: dalla pelle levigata agli occhi grandi e allungati, dalle labbra carnose agli zigomi pronunciati. Questo ha portato molti adolescenti e giovani a soffrire di dismorfia, ovvero di una condizione mentale che fa percepire se stessi imperfetti in maniera ossessiva, provocando ansia e depressione. Quasi il 60% del campione preso in considerazione non è mai ricorso alla chirurgia estetica, mentre per il restante 30% i primi ritocchi sono iniziati in prevalenza nella fascia d’età tra i 18-24 (12,5%) e i 25-29 (10,6%); per sette persone, invece, prima di compiere la maggiore età. Questo fa capire come i giovani siano soggetti a una pressione sociale, nata da una rivalità sui social media, che li spinge a voler cambiare e modificare il proprio aspetto affinché vengano accettati. ■ Zeta — 23


Scienza

Una insaziabile fame d’amore Dialogo sui disturbi del comportamento alimentare SALUTE

di Elena La Stella e Martina Ucci

«Non si guarisce dai disturbi alimentari, ma si può imparare a conviverci. La volontà di sparire ce l’ho tutt’ora, ma ho trovato un equilibrio, quando mi accorgo di avere difficoltà con il cibo capisco che devo tornare in terapia». Con voce spenta, racconta che da piccola era “cicciottella” e per questo motivo doveva seguire l’alimentazione indicatale da una nutrizionista. Le uscite con la sorellina più piccola erano per lei l’occasione di comprare scatole di merendine all’alimentari sotto casa, che mangiava da sola, di nascosto dai genitori, prima di rientrare. Sebbene non faccia riferimento ad uno specifico evento traumatico che ha segnato l’inizio del suo conflitto alimentare, ricorda la perdita della zia e i com24 — Zeta

menti di suo papà con grande sofferenza. I disturbi alimentari sono la superficie visibile di complesse problematiche stratificate che sfociano nel desiderio dell’individuo di sparire. Durante l’adolescenza, episodi di bullismo hanno reso ancor più difficile, per Giada, l’accettazione di sé stessa, portandola all’inizio di un percorso di autodistruzione che aveva come obiettivo finale l’annullamento. Smettere di mangiare non è facile, il desiderio del cibo è un istinto naturale e sopprimerlo è difficile, per questo sono necessari determinazione, costanza e uno schema rigido per non mangiare o per rimettere. Fra tutti, è stata proprio la sorella ad allertare i genitori sulle abitudini di Giada quando, in assenza del padre e della madre, terminato il pasto, correva in bagno per indursi il vomito. Decisa a cambiare vita, ha cominciato la terapia presso il centro di eccellenza per i disturbi alimentari di Chiaromonte. «Ogni volta la convinzione c’è, ma poi uscirne definitivamente è diverso». Le ricadute sono frequenti e, ogni volta che nella sua vita subentrano preoccupazioni di varia natura, il cibo è il primo a diventare protagonista nei suoi pensieri.

Durante il soggiorno la realtà è amplificata e, come racconta Fabiola, ex educatrice del centro di Chiaromonte, gli ospiti tendono a spalleggiarsi a vicenda, scambiandosi segreti e consigli per non prendere peso. «Prima abbiamo deciso di farli pesare in biancheria intima, perché si mettevano i sassi in tasca prima di salire sulla bilancia, poi abbiamo dovuto vietare l’assunzione di acqua la sera prima della pesata perché arrivavano a berne fino a due litri, che significa quasi due kg in più». «Ricordo benissimo come è iniziato tutto: dopo una giornata di lezioni a distanza ero stesa nel letto e ho pensato “sei proprio pigra”. È stato proprio questo pensiero che ha dato il via a tutto perché proprio da lì, da quel momento, hanno iniziato a continuare ad aggiungersi delle voci nella mia mente che mi dicevano che non ero abbastanza». Marta ha iniziato a soffrire di anoressia quando aveva 15 anni, poco prima che iniziasse il Covid. «Avevo iniziato ad andare in palestra, una cosa normalissima per una ragazza della mia età. Ero circondata da amiche che parlavano di diete, da foto di modelle perfette su Instagram. Io mi guardavo


allo specchio e non mi piacevo. Anzi, mi facevo schifo». Così ha iniziato durante la quarantena, lontano dagli occhi di tutti, a trovare dei modi per fermare quelle voci nella sua testa. Prima l’attività fisica, con allenamenti fino a tre o quattro volte al giorno, anche con tutti i muscoli doloranti e il corpo pieno di lividi. Poi il controllo sul cibo. «Ho iniziato a togliere quelle cose che consideravo schifezze, che pensavo mi rendessero brutta. Cose che mi piacevano, ma che non meritavo. Perché io avrei dovuto meritarmi qualcosa che mi piaceva e mi faceva stare bene, se io ero così un mostro?». Poi è finita la quarantena ed è arrivato il riscontro con la realtà: le amiche le facevano i complimenti per la sua forma fisica. «Questo ha rafforzato tutti i miei pensieri. Perché pensavo: alle tue amiche piaci così, quando fai questo, allora non devi tornare come sei prima, devi continuare».

«Tagliavo il cibo sempre più piccolo perché avevo fame e quindi volevo prolungare quel momento» Presto è finita la cosiddetta “luna di miele”, il periodo in cui ancora riesci ad avere il controllo sul cibo e il dimagrimento. Non sai nemmeno come, ma semplicemente ad un certo punto non sei più tu che controlli il cibo, ma lui che controlla te. «Mi sentivo molto sola e l’unico rifugio che trovavo era nel cibo e nell’avere quel controllo, nel riuscire a dimostrare a me stessa che ce la potevo fare, che valevo qualcosa». Smettere di mangiare però non significa non avere fame, «tagliavo il cibo sempre più piccolo perché avevo fame e quindi volevo prolungare quel momento. Per me quel cibo era così tanto prezioso da volerlo rendere infinito». Ma Marta non ne poteva mangiare altro, perché non se lo meritava. Qualche tempo dopo anche i genitori hanno iniziato ad accorgersene: non era più possibile nascondere questa malattia. «Aver bisogno di aiuto lo sentivo come un fallimento personale. La cosa peggiore è che tu sei consapevole dei meccanismi della malattia, ma non riesci a fermarli. Non ero più fiera di quello che facevo, mi rendevo conto di come questa cosa mi stesse rovinando la vita. Ma nonostante questo non riuscivo a fermare questi pensieri e ad andargli contro».

nelle ragazze e nei ragazzi che ne soffrono è la stessa: la depressione, che è solo una protezione per loro perché gli fa consumare meno energia». Così la Dottoressa Milena Moscano ha descritto uno dei disturbi che questi ragazzi si trovano ad affrontare quando arrivano nel reparto di ricovero di neuropsichiatria infantile del Sant’Orsola, a Bologna. «Sono tutti molto determinati, hanno una gran forza, ma sono anche molto spaventati, perché si rendono conto di non avere più la situazione sotto controllo». La cosa più importante, secondo la Psicologa Paola Gualandi del reparto, è riconoscere le cose per quelle che sono e chiamarle con il loro nome. «Da un punto di vista psicologico bisogna capire che questo è il sintomo, non la causa. Per questi ragazzi rappresenta una soluzione a qualcos’altro. Cercano di spostare l’attenzione da qualcosa che pensano di non poter gestire emotivamente su qualcosa che apparentemente si può controllare come il cibo e il corpo». Ogni caso scaturisce da motivazioni differenti e necessita di cure dedicate: «Le persone si lasciavano morire di

fame, non c’è un filo conduttore, alcune donne erano vittime di abuso e quel corpo gli ricordava la vergona che provavano, per questo volevano rendersi invisibili» continua Fabiola. I disturbi alimentari vengono definiti la malattia del secolo, che colpisce ragazze e ragazzi nell’età dell’adolescenza, in un critico periodo di transizione durante il quale parlare correttamente di questa tematica può essere determinante per salvare le vite di molti giovani. È necessario affrontare il tema abbandonando i luoghi comuni e sviscerando il problema in ogni suo aspetto, rendendo noto che il dialogo, specialmente con i propri affetti, è la prima e più importante arma per vincere l’insaziabile fame d’amore. Sono ormai tre anni che Marta combatte con questa malattia. «È un incubo. E allora perché continui? Perché non riesci a smettere? È una bella domanda, a cui io ancora non so rispondere. So solamente che nel momento in cui faccio quel passo avanti, è un mostro che ti stritola, ti soffoca e ti fa credere che è il mostro giusto per te». ■

«Sono tante le storie e tutte differenti tra loro, ma ciò che la malattia fa nascere Zeta — 25


Scienza

Musica della natura Earthphonia di Max Casacci, un disco e un libro per svelare uno scrigno di meraviglie da difendere SOUND

di Maria Teresa Lacroce

«Durante una vacanza sull’isola di Gozo insieme a Luca Saini, videoartista ma anche fotografo, regista e videomaker, sentiamo parlare di alcune pietre in grado di produrre dei suoni. Naturalmente ci incuriosiamo e con pura finalità ludica e di sperimentazione, raggiungiamo questa località che si chiama Taˈ Cenc: io con il registratore digitale, lui con la videocamera. Percuotiamo delle pietre e alcune, effettivamente, rispondono alle sollecitazioni prodotte da quello che troviamo a terra come bastoni o altre pietre. Registriamo tutto. Quello che succederà la sera stessa avrà il potere di cambiare completamente la mia vita musicale degli anni successivi perché, allineando tutti i file registrati, scoprirò che tutte quelle pietre, assolutamente non trattate, emettono delle note». Gli incredibili intervalli armonici delle pietre calcaree di Taˈ Cenc affiancano il suono dell’acqua del torrente Cervo di Biella e la sinfonia della vita nell’oceano in Earthphonia, il primo album solista di Max Casacci, chitarrista e 26 — Zeta

fondatore dei Subsonica, realizzato con i suoni e i rumori della natura senza l’utilizzo di strumenti musicali. Un lavoro sonoro ma anche un libro scritto a quattro mani con il geologo e divulgatore scientifico Mario Tozzi che mette in risalto la stupefacente bellezza dell’ambiente in cui viviamo ma anche la sua fragilità. Un tassello in più alla battaglia per l’ambiente: Earthphonia pone la musica in prima linea per svelare uno scrigno delle meraviglie che dovremmo impegnarci a proteggere. Come spiega Casacci: «Ogni brano è un veicolo per raccontare i piccoli stupori legati agli ecosistemi. Ad esempio, le api prendono decisioni collettive e democratiche danzando, nel mare ci sono specie di pesci in grado di cantare in coro ad una certa ora del giorno e della sera come fanno gli uccelli e le piante emettono dei suoni perché le radici possano orientarsi e saltare gli ostacoli sotto terra». La maggior parte delle registrazioni sono state fatte in digitale. In alcuni casi però, Casacci ha utilizzato uno speciale registratore a nastro “Nagra”: «È un registratore da cinema che usava mio padre. A parte che è un bel ricordo che mi lega a lui perché è un oggetto che lui adorava, è un registratore che è un culto per tutti gli audiofili del mondo pre-digitale ed è molto utile quando si utilizza con dei suoni molto dinamici, un poˈ esplosivi».

Tra i brani di Earthphonia vi è Watermemories, realizzata con lo scroscio e i suoni del torrente Cervo di Biella. Un dialogo tra natura e arte richiesto dall’artista Michelangelo Pistoletto e una sinfonia musicale inizialmente esposta all’interno di Cittadellarte - Fondazione Pistoletto, accanto alla quale scorre il torrente Cervo. Una creazione sonora nel cui sviluppo armonico rientrano anche i suoni di due opere d’arte: Barra d’aria di Giuseppe Penone e Orchestra di Stracci di Michelangelo Pistoletto. Accostando l’orecchio all’estremità in terra della Barra d’aria collocata in direzione del torrente biellese, Casacci aveva captato una nota che restituiva il senso del flusso del torrente Cervo. L’Orchestra di stracci con i suoi bollitori è invece in grado di emettere un sibilo. «Campionando quel sibilo ho costruito questa sorta di strumento a fiati immaginario che ricorda l’India e che sottolinea quella spiritualità che si fa risalire al Gange, il fiume sacro per eccellenza, come se un poˈ di questa componente sacrale fosse presente in tutti i corsi d’acqua», racconta Casacci. Nel 2020 il fiume Cervo è esondato colpendo anche lo spazio in cui era contenuta l’opera sonora, e portandosi via i suoi suoni. «Il torrente Cervo si è ripreso in qualche modo quello che gli apparteneva e questo mi ha fatto fare una riflessione aggiuntiva», spiega Casacci, aggiungendo: «la natura che è contenuta in Earthphonia è una natura vibrante, anche minacciosa in certi momenti. Nella complessità emotiva del brano volevo che rimanesse traccia anche di questa nota di minaccia che, ormai da più di un decennio, siamo abituati ad associare all’idea di un corso d’acqua. A causa dell’incuria e di una serie di comportamenti poco virtuosi nei confronti dei nostri territori, lo associamo anche ad uno strumento di distruzione». ■


Nell’emozione dell’altro Il neuroscienziato Leonardo Fogassi spiega una funzione essenziale del nostro cervello, i “neuroni specchio” SALUTE

di Silvia Morrone

Creare un contatto con un amico, anche se non parla con noi, è possibile. È il nostro cervello che ci guida attraverso i neuroni. Così possiamo aiutare l’altro, «capire perché soffre per intervenire», spiega il neuroscienziato Leonardo Fogassi, professore ordinario di fisiologia all'Università degli Studi di Parma. «Ci sono specifici neuroni specchio che si attivano non solo nella persona che compie un’azione, ma anche in chi la osserva». Sono una funzione essenziale del nostro cervello – scoperta nel 1992 da Fogassi, insieme a, tra gli altri, Giuseppe di Pellegrino, Luciano Fadiga, Vittorio Gallese e Giacomo Rizzolatti – perché «è come se facessi e sentissi quello che l’altro fa o prova» chiarisce Fogassi. Aggrottare la fronte, inarcare le sopracciglia, abbassare la testa innesca «reazioni simili in chi osserva perché già programmate nel suo cervello». È così che posso «comprendere le azioni e le emozioni altrui». Mi connetto con l’altro attraverso «particolari neuroni legati all’empatia» intesa soltanto come «comprensione senza alcuna coloritura, partecipazione all’emozione dell’altro» continua il neuroscienziato.

«Le variabili, come il contesto e lo stato emotivo in cui ci troviamo possono influenzare i miei sentimenti. La comprensione e la reazione di cosa osservo sono due concetti differenti» afferma Fogassi. Secondo uno studio «esiste una “sindrome della condotta”. È stato visto ad esempio in violenti – con tendenza omicida o suicida e che non comprendono le conseguenze delle proprie azioni – un livello di empatia più alto rispetto ad altri, nell’osservare una situazione. Probabilmente si tratta di una iperattivazione legata ad un’incapacità di controllo delle emozioni» continua il neuroscienziato. Posso comprendere il tuo stato, ma non essere catturato dalle emozioni e quindi reagire in maniera non adeguata.

Ma allora come ti aiuto? Fogassi conclude che «l’empatia non può essere modulata, sotto questo profilo, perché è un meccanismo che ci accompagna da quando siamo nati, ma possiamo agire su altre competenze, come l’intelligenza emotiva»: la “capacità di riconoscere e gestire le emozioni proprie e degli altri”.

«La compassione e l'empatia per il più piccolo degli animali è una delle più nobili virtù che un uomo possa ricevere in dono» È il dialogo delle emozioni che suscita il film d’animazione della Pixar Inside Out. La protagonista Riley si trasferisce, a causa del lavoro del padre, da Midwest a San Francisco. La piccola prova Gioia, Paura, Rabbia, Disgusto e Tristezza, che vivono nel “Quartier Generale, il centro di controllo nella mente”. Quando in lacrime comunica ai genitori la “nostalgia di casa” questi si riconoscono nella stessa emozione. Così anche lo sfogo di un amico acquista un significato. È la capacità di sentire l’altro dentro di noi, come scrive Charles Darwin «la compassione e l’empatia per il più piccolo degli animali è una delle più nobili virtù che un uomo possa ricevere in dono».■ Zeta — 27


Photogallery

Lo sguardo di chi vuole dimenticare A Medyka, al confine polacco-ucraino, migliaia di profughi lasciano il paese in guerra. Ecco i volti di chi ha superato la frontiera alla ricerca di un futuro a colori PHOTOGALLERY

a cura di Giorgio Brugnoli

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Esteri

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Bucha, la guerra e il massacro UCRAINA Nelle fotografie di Bucha i corpi non hanno una divisa militare. Sono le vittime del conflitto moderno che coinvolge i civili in modo diretto

«Era venerdì 4 marzo 2022. I soldati russi hanno costretto cinque uomini a inginocchiarsi sul ciglio della strada, hanno tirato le loro magliette fin sopra la loro testa e poi hanno sparato a uno di loro alla nuca. Il corpo è caduto in avanti mentre alcune donne presenti hanno urlato» racconta uno dei sopravvissuti alla strage di Bucha, testimoniando alla Human Rights Watch, ONG che si occupa della difesa dei diritti umani. «Venerdì 24 marzo un primo gruppo di prigionieri viene fatto entrare nelle cave. Il capitano Erich Priebke, cui è affidato il controllo della lista, spunta i primi cinque nomi. Giunti al fondo del cunicolo, i cinque uomini vengono fatti inginocchiare. Alle 15.30 vengono uccisi e l’eccidio ha inizio. Poco dopo entra il secondo gruppo di cinque e, a seguire altri cinque e poi altri cinque…», è il 1944 e sono le parole con cui il Mausoleo delle Fosse Ardeatine ricorda la strage avvenuta a Roma quando 335 civili e militari italiani furono trucidati dai nazisti come rappresaglia per l'attentato partigiano di via Rasella.

di Francesco Di Blasi

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Le fotografie dei morti di Bucha, ammassati e bruciati, legati e fucilati, non

hanno una divisa militare. Sono i corpi della guerra moderna che coinvolge i civili sempre in modo diretto, dall’Eccidio delle Fosse Ardeatine alle stragi di Markale durante l'assedio di Sarajevo, dal massacro di Katyn’ a quello Srebrenica, fino alla shoah, a Hiroshima, a Nagasaki. «Questo coinvolgimento va contestualizzato nell’ambito della guerra tecnologica a cui siamo stati abituati dalla Prima guerra mondiale in poi e in particolare nelle dalla Seconda», dice Marco Dimaggio, professore di Storia Contemporanea all’Università La Sapienza di Roma. «Mi riferisco a due elementi: le armi tecnologicamente sempre più avanzate in grado di realizzare stragi di massa, ma anche ai nuovi strumenti di comunicazione che consentirono di unire la popolazione in un fronte interno attraverso gli strumenti della propaganda. La guerra di massa si basa questo». La tecnologia bellica “moderna” viene testata nel 1937 sulla popolazione civile di Guernica, in Spagna, dall’aviazione nazista coadiuvata da quella italiana. Gli aerei sfrecciarono sopra Guernica una prima volta senza attaccare, per far credere


di non avere intenzioni minacciose, poi ripassarono, iniziando i bombardamenti a tappeto e, infine, tornarono una terza volta, dopo aver aspettato che i sopravvissuti fossero usciti dai rifugi, per ucciderli con le nuove bombe incendiarie realizzate per l’occasione.

«Le guerre ottocentesche non puntavano alla distruzione totale dell’avversario, ma a ottenere un risultato politico» Il test di Guernica funziona e la pratica di attaccare i centri abitati entra nella condotta dell’esercito del Terzo Reich prima con la Battaglia di Inghilterra e poi con l’aggressione all’Unione Sovietica. La nuova prassi bellica si estende, contagiando anche gli Alleati che radono al suolo Dresda e poco dopo Berlino. I gas chimici, i carri armati e i bombardamenti aerei utilizzati dalla Prima guerra mondiale in poi sono la svolta tecnologica che rende possibili stragi di massa, ma le armi con cui condurre massacri contro la popolazione civile, seppure in forma limitata, come accaduto a Bucha, esistevano già nell’Ottocento. Le guerre ottocentesche, che erano la prosecuzione dell’attività politica e diplomatica con altri mezzi, si combattevano tra eserciti. Non puntavano alla distruzione totale dell’avversario, ma a ottenere un risultato politico. «Si possono discutere delle eccezioni avvenute durante la rivo-

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luzione francese, ma la sostanza resta la stessa: il nemico non veniva de-umanizzato come avviene nel Novecento», dice Dimaggio. La propaganda rende la guerra ideologica e trasforma il nemico nel “male esistenziale” di fronte a un pubblico di massa. Fin dalla Prima guerra mondiale si assiste a questo fenomeno. Da una parte le potenze dell’Intesa (Francia, Inghilterra, Russia e Italia) presentano lo scontro con gli imperi centrali come una lotta tra civiltà e barbarie. Dall’altra parte la propaganda tedesca dipinge gli eserciti dell’Intesa – quello francese e britannico in particolare – come un esercito di “negri”, all’epoca inteso come sinonimo di sub-umani, perché composto da truppe coloniali. «Il conflitto contemporaneo è intrinsecamente ideologico e la connotazione di scontro tra civiltà e barbarie è già presente in questa guerra da entrambi i fron-

ti. Questo è lo stesso tratto che caratterizzò le ultime due guerre mondiali. Quando questa ideologia si spinge ai suoi limiti, de-umanizzando del tutto l’avversario, la storia insegna che vengono commessi i crimini più drammatici», sostiene Dimaggio. Nella Russia di Vladimir Putin, che dipinge l’Ucraina come un Paese di nazisti e drogati, che accusa l’Occidente di voler cancellare l’intera cultura russa, e dove il patriarca di Mosca, Kirill, parla di una guerra giusta per salvare l’umanità da chi «si oppone a Dio e alla sua Verità» promuovendo l’ideologia gay, il rischio che l’ideologia raggiunga i suoi limiti più cupi esiste. Gli stupri, le esecuzioni e il tiro a segno dei militari in servizio a Bucha potrebbero già esserne un sintomo. ■ 1. La città di Dresda dopo il bombardamento alleato del 1945. 2. Bucha, corpi riesumati da una fossa comune. 3. Guernica, l'opera di Pablo Picasso ispirata al bombaramento della città.

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Esteri

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La sfida dei sindacati ad Amazon La nascita della Amazon Labour Union è un passo decisivo ma per un’azione globale l’Europa studia l’accordo firmato nel nostro paese a settembre 2021 LAVORO

mentre protestava per aumentare le tutele anticovid. Uno scontro che è solo agli inizi, visto che una settimana dopo il voto Amazon ha depositato un documento in cui contesta i risultati, accusando i vertici del sindacato e il National Labor Relations Board (Nlrb) di aver fatto pressione sui dipendenti per indurli a votare a loro favore.

netta disparità tra il settore pubblico, dove il tasso di sindacalizzazione tocca il 33.9%, e quello privato che si ferma al 6.1%. Per fondare o aderire a una Union occorre inoltre un voto interno ad ogni singola azienda e che ha spesso esito negativo, nonostante i dipendenti sindacalizzati abbiano in media salari più alti di quelli non tutelati. Per questo è da celebrare il fatto che «perlomeno sia entrata l’idea del sindacato all’interno di uno stabilimento Amazon americano». Solo un anno fa a Bessmer, in Alabama, i sindacati avevano subito una sonora sconfitta, mentre il nuovo tentativo dello scorso 28 marzo è stato bocciato per un pugno di voti (993 no contro 875 sì).

di Silvano D'Angelo

L’idea di sindacato entra in A New York il risultato è stato netto magazzino ma non plebiscitario, con 2.131 voti con-

Il sindacato indipendente di Amazon è realtà: il primo aprile 2022 a New York 2.654 lavoratori dello stabilimento Amazon di Staten Island hanno votato per la fondazione della Amazon Labour Union. Una battaglia avviata da Christian Smalls, ex dipendente afroamericano licenziato nel 2020 con il pretesto del mancato rispetto del distanziamento proprio

A prescindere da quelle che saranno le evoluzioni della vicenda «il fatto che nella patria di Amazon, in una città come New York l’azienda abbia aperto alla possibilità di un sindacato è comunque un passo decisivo», afferma Walter Barbieri, coordinatore nazionale del settore logistica di Uiltrasporti. Per capirne la portata bisogna tenere presente il contesto sindacale americano. La percentuale di iscritti al sindacato negli Stati Uniti nel 2021 è tornato al minimo storico del 10.3% toccato due anni prima, con una

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trari. Un numero che si spiega in parte con i metodi impiegati da Amazon nell’assunzione e nella gestione del personale. «La prima volta che sono entrato nel sito di Roma avevano una sfilza di guardie che controllavano chi entrava per l’assemblea», racconta Barbieri, spiegando che gran parte del personale direttivo all’interno dei magazzini è costituito da ex militari che hanno il compito di trasmettere una cultura del comando che non ammette dissensi. Una pressione psicologica molto efficace su lavoratori che per lo più hanno contratti a termine


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e temono di essere mandati via da un momento all’altro. Proprio tecniche simili sono quelle che hanno contribuito al plebiscito di “No” lo scorso anno in Alabama, tanto che il Nlrb ha ordinato di ripetere le operazioni.

L’Europa studia l’accordo italiano Bisognerà vedere se il sindacato indipendente avrà la forza per reggersi sulle sue gambe e diffondersi in altre città, ma la lotta per ottenere migliori condizioni da una multinazionale come Amazon può essere condotta solo sul piano globale e da questo punto di vista l’Italia è in pole position. «Anche da noi entrare all’interno degli stabilimenti è stato tutt’altro che semplice. I primi iscritti li abbiamo cominciati a raccogliere poco prima della pandemia, ma l’anno scorso siamo stati i primi al mondo a firmare un accordo nazionale con Amazon sull’intera filiera», ricorda con orgoglio Michele De Rose, Segretario nazionale del settore merci e logistica della Filt-Cgil. Un protocollo sottoscritto anche dal ministro del Lavoro Andrea Orlando e che include 40.000 lavoratori, considerando anche le aziende che si occupano delle consegne, su cui Amazon esercita spesso pressioni in chiave antisindacale. «Solo per inserire la parola “contrattazione” all’interno dell’accordo ci sono voluti quattro mesi, ma alla fine lo abbiamo portato a casa e ora Amazon deve accettare il confronto con noi», aggiunge il collega della Uil. «Ci stanno chiamando da tutta Europa per parlare della “anomalia italiana”», spiega De Rose, «e attraverso la European Transport Federation e l’International Transport Federation stiamo cercando

di allagare all’Europa quanto fatto in Italia». «Se i colleghi del neonato sindacato statunitense ci chiederanno una mano siamo a disposizione», gli fa eco Barbieri. L’unica strategia efficace è quella di costruire una piattaforma rivendicativa internazionale, pur tenendo conto delle differenze legislative tra i vari paesi. Piattaforma che secondo il dirigente della Cgil dovrebbe concentrarsi su tre punti fondamentali. Il primo riguarda l’aspetto chiave dei dati. «Ogni consegna produce informazioni su traffico, infrastrutture e territorio che possono essere utilizzate dall’azienda per ottimizzare le prestazioni». Quello che vogliono i sindacati è che di questi dati possano beneficiare anche i lavoratori in termini di riposo, sicurezza e condizioni di lavoro. A doppio filo al pri-

mo è legato il secondo obiettivo, quello di garantire «una qualità migliore di lavoro e riposo, ancor prima della classica rivendicazione salariale». L’ultimo punto riguarda ancora i dati, ma in questo caso la preoccupazione è che gli smartphone privati possano essere utilizzati per monitorare di continuo le prestazioni dei lavoratori. «In Italia siamo riusciti a bloccare un'app che misurava minuto per minuto le prestazioni dei dipendenti, perché qui siamo tutelati dalla legge 300 del 1970 che vieta di utilizzare sistemi audiovisivi e digitali per controllare a distanza l'attività del lavoratore, ma so che all’estero è già utilizzata». I sindacati si vogliono assicurare che i dati raccolti non possano essere sfruttati per fini disciplinari, anche se i vertici Amazon dichiarano che servirebbero solo per migliorare le prestazioni. La spinta sindacale non può però fare a meno di un’opera di sensibilizzazione dell’opinione pubblica. «Abbiamo chiesto all’UE di promuovere una campagna sul significato dell’ordine online», dice Barbieri, rivolgendosi a chi ordina un pacco che deve arrivare in ventiquattr’ore e a basso prezzo. «Ma i consumatori non sanno quale sfruttamento ci sia dietro. Va fatto capire che la comodità di ordinare online deve essere pagata il giusto, perché nel momento in cui ordino a prezzi stracciati il primo a rimetterci è sempre il lavoratore». ■

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1. Dissidente Amazon che festeggia il risultato del referendum 2. L'evoluzione degli stipendi nel settore privato USA 3. Christian Smalls, leader della Amazon Labor Union

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Cultura

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Le storie minime di Luigi Ghirri Le carezze del fotografo emiliano ai frammenti della campagna e degli oggetti del quotidiano FOTOGRAFIA

di Elena Pomè

Nessuno conosce la direzione delle nuvole, ma nel rullino della macchina fotografica Luigi Ghirri ha ghermito gli itinerari possibili del cielo. Inafferrabili, come i volti impressi negli album delle vacanze di famiglia. Totali, come l’immagine della Terra scattata nel 1969 dalla navicella spaziale diretta sulla Luna, che contiene «tutti i film prodotti, le chiese costruite, tutti i libri scritti, i quadri, le foto, le persone», e come gli atlanti, che sintetizzano «la casa dove abito, quella dove sogno di vivere, il posto dove sono nato, i luoghi che vorrei conoscere». Ghirri nasce nel 1943 a Scandiano, nella provincia emiliana fatta di campagne sbiadite, tiepidi casolari e rivoli in34 — Zeta

ghiottiti dalla nebbia. Affascinato dall’atelier di uno zio pittore e dalle proiezioni cinematografiche, da ragazzo sale in sella alla bicicletta per sviluppare le prime pellicole. Abbandona poi la fotografia per diventare geometra, ma l’amicizia con il circolo degli artisti modenesi e la meraviglia per l’immagine lunare della Terra riconciliano Ghirri con l’obiettivo. Le infinite stanze create dall’immagine nell’immagine rievocano nell’artista il pittore di Borges, «che volendo dipingere il mondo, dipinse laghi, colline, e monti e boschi, barche e animali morti e uomini. Alla fine della vita, mettendo insieme i quadri e i disegni si accorge che questo immenso collage costruiva il suo volto». Per Francesco Zanot, curatore e critico fotografico, anche le fotografie di Ghirri sono «frammenti composti da altri frammenti, pezzi di un puzzle troppo vasto per potersi completare» che «coincide con la sua storia, la sua biografia e la sua identità e che, alla fine, rappresenta lui stesso». Ghirri compie «viaggi domenicali minimi» nel quotidiano e, spiega Zanot,

«insiste sull’ordinario e sul banale per posare lo sguardo sulla realtà degli oggetti e dei luoghi ai quali normalmente non facciamo caso». Lo sguardo rallenta sulla bicicletta appoggiata sotto l’insegna rossa di un negozio di parrucchiere, su un gioco desolato di bambini nella spiaggia d’inverno, su un ostinato ombrellone arancione nella calura delle vacanze italiane, e rinnova l’affetto, perché «i luoghi, gli oggetti, le cose o i volti incontrati per caso, aspettano semplicemente che qualcuno li guardi, li riconosca». Ghirri scava come Daguerre, padre della fotografia, nel «sentimento dell’origine delle cose», e restituisce come Walker Evans, l’artista più amato, la «tenerezza nei confronti del mondo». I libri sognanti di Calvino e di Pessoa, i dischi incantati di Bob Dylan che evocano «tutte le cose belle e pulite della vita, e ripensi e rimpiangi quello che lascerai incompiuto, quello che non farai, le terre che non vedrai», i film di Fellini, Antonioni e Zavattini che raccontano la provincia, i paesaggi di Bruegel che «ricordano lo “stare al mondo”», costruiscono e illuminano


la semplicità. «Ghirri si lascia attrarre da ciò che incontra per la strada, all’interno di una pagina della quale esistono già le cornici» spiega Zanot. «Usa le immagini come unità minime di significato, come parole all’interno di una poesia che si ravviva, si estende e innesca una nuova avventura». L’amore fulminante per Ghirri ha regalato occhi nuovi a Elena Braghieri, fotografa: «Sono scappata dall’immobilismo della campagna, ma grazie al lavoro di Ghirri ho fatto pace con la mia terra di origine. Lui ha cosparso di polverina magica paesaggi per me familiari ma anonimi, che ho rivisto attraverso i suoi occhi». Il circuito della memoria si elettrizza: «Torno indietro nel tempo e rileggo una quotidianità talmente presente da essere invisibile, ricordo i giri sulla bicicletta del nonno per cascine, strade di campagna e fossati, intravedo nel casolare immerso nell’argine del fiume lo Strombolicchio che spezza il mare, e nella passeggiata di una coppia all’Alpe di Siusi sento il fresco delle Dolomiti d’estate». Uno sguardo senza confini al di là di un cancello spalancato su nebbie familiari, personali e collettive.

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I ricordi e le memorie «non affondano e spariscono ma sono in ogni angolo, riempiono lo spazio, in un movimento incessante e disordinato», ma «anche i vuoti, cioè i dettagli che non mostra e che lascia intenzionalmente fuori dall’immaginario, parlano» specifica Braghieri. Gli opposti generano la malinconia, originaria dell’umore e della natura emiliani e «cartello indicatore di una geografia cancellata e sentimento della distanza che ci separa da un possibile mondo semplice», e l’imprecisione «della ripetizione indistinta, perché le strade sembrano andare sempre nello stesso punto e quindi da nessuna parte». I «luoghi illuminati in maniera provvisoria» come una giostra sul mare, i fuochi d’artificio dietro la cattedrale e le barche del porto si confondono con l’ombra di un uomo riparata dall’ombra della fine di un giorno pugliese, con la riservatezza dei vicoli, con le distrazioni della gente. Un mondo a colori, «perché il mondo reale non è in bianco e nero», dove il confine tra realtà e finzione si assottiglia, si amalgama, si irrobustisce e rinasce: «La fotografia mostra sempre quello che noi crediamo già di sapere». Per Ghirri, che ancora una volta cita Borges, «non c’è niente di antico sotto il sole». Lo ha capito nel 1972 in un giardino di Parigi, quando «nello sterminato

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numero di possibilità» che la città offre incrocia su una giostra un piccolo oggetto composto da tante clessidre e da una scritta in latino, “Niente di nuovo sotto il sole”, che misura il tempo felice dei bambini. Anni dopo, tra le pagine di un libro, ritrova la descrizione del misterioso oggetto. Una coincidenza che racchiude tutte le coincidenze del mondo, e che «rinnova lo stupore della meravi-

glia dell’altro. Credo che questo sia tutto quello che si possa chiedere a una poesia, a un dipinto, a una canzone, a una fotografia». ■ 1. Argine Agosta, Comacchio, 1989 ©. Eredi di Luigi Ghirri. 2.Lido di Spina, 1974 ©. Eredi di Luigi Ghirri. 3. Alpe di Siusi, 1979 ©. Eredi di Luigi Ghirri. 4. Cala Paura, Polignano a Mare, 1986 ©. Eredi di Luigi Ghirri.

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Cultura

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Il corpo di Corto La fisicità dell'antieroe prattiano vista da Marco Steiner ARTE

di Leonardo Aresi

«L’avventura è cercare qualche cosa, che può essere bella o pericolosa, ma che vale sempre la pena di vivere». Hugo Pratt di avventure nella sua vita ne ha vissute un numero sconfinato. Devoto al brivido che soltanto il sole inghiottito dalla linea dell’orizzonte sa regalare, si è spinto sempre un po’ più in là. Una ricerca artistica e umana oltremare legata a doppio nodo con uno dei personaggi più famosi della storia del fumetto mondiale: Corto Maltese. Il pirata gentiluomo è il suo alter ego dalla silhouette inconfondibile. Corto è un antieroe romantico che affronta il destino a viso aperto. «Quando avevo quindici anni mio padre mi regalò un suo libro: un’opera scritta in inglese che mi diede quando partì per il campo di concentramento. Mi regalò quel libro dicendomi “Ora vai a cercare la tua isola”. Quelle sono state le ultime parole che mi disse. Poi è morto e io sono rimasto solo con quel suo libro, era L’isola del tesoro di Stevenson». Quell’isola Pratt l’ha trovata nel suo lavoro: l’immaginazione al servizio del tratto. Prima di iniziare ogni storia, interrogava Corto fissandolo dritto 36 — Zeta

negli occhi. Incrociare gli sguardi prima di prendere la rotta è stata la loro benedizione. È grazie al dialogo intimo con il proprio personaggio che Pratt ha saputo trovare la via maestra della sua moderna epopea. Un lungo viaggio nel primo quarto del ventesimo secolo che ha inizio in “Una ballata del mare salato”. È il primo novembre del 1913 e, al largo delle Isole Salomone, Corto viene abbandonato dal suo equipaggio. «La prima apparizione è molto simbolica. Hugo lo rappresenta legato a quattro tavole in croce, in balìa delle onde. Le fattezze sono ispirate a quelle di Burt Lancaster in un film del 1954 intitolato “His Majesty O’Keefe”. Liberato dalla morsa di quelle cime, il marinaio inizia un percorso che nel suo culmine lo porterà a scendere nelle viscere della terra». Marco Steiner, romanziere corsaro che di Pratt è stato assistente e uomo fidato, ricostruisce così il significato che cela la vignetta da cui tutto è partito. «La figura fisica di quel Corto Maltese, muscolosa e irsuta, è completamente diversa da quella eterea in cui viene raffigurato nell’ultima storia di “Mu”. Una traversata nel segno di una trasformazione corporea che va di pari passo con il tratto dell’autore». I gesti eleganti della mano si riflettono nell’incedere di Corto. A contraddistinguere il capitano nato nel 1887 a La Valletta sono le iconiche falcate e la cicatrice che attraversa la sua mano sinistra. «Indirizzare autonomamente il proprio destino: è questo ciò a cui ambisce quando da ragazzino, con un rasoio,

1. DIsegno di Rubén Pellejero, Corto Maltese. Sotto il sole di mezzanotte © 2015 Cong S.A.

decide di tracciarsi da solo la linea della fortuna sul palmo. Agire e non rimanere succube degli eventi, il suo è un atto rivelatore». Mantenendo salda la barra, riesce a stare al passo dello scorrere del tempo condizionandone l’avvenire. D’altronde l’etimologia del suo nome, che appartiene all'argot andaluso, è inequivocabile: “svelto di mano”. «Ma non è un uomo d’azione tout court. La sua predisposizione, anche fisica, all’ascolto e alla riflessione è centrale nella costruzione del personaggio. Il suo atteggiamento apparentemente dandy coesiste con un’apertura verso l’altro, degna di ogni avventuriero che si rispetti». Un antieroe che si nasconde nei silenzi, che siano del mare o del deserto, lontano dagli stereotipi del protagonista assoluto. «Ad esempio, quando nelle Celtiche è adagiato su una duna a guardare l’oceano Atlantico, o quando, in una delle storie caraibiche, è sdraiato nella veranda di Paramaribo, Corto Maltese non deve fare nulla per dimostrare di essere il protagonista. Queste assenze di movimento sono emblematiche di un personaggio d’avventura capace di restituire delle profonde emozioni senza muovere un dito». Il figlio della Niña di Gibraltar, bellissima gitana di Siviglia, e di un marinaio della Cornovaglia, nipote di una strega dell'Isola di Man, non muore ma scompare durante la guerra civile spagnola. Pratt gli concede la possibilità di continuare la ricerca della sua isola del tesoro. Quella che lui aveva trovato rifugiandosi in un mondo fantastico. ■


e, sulla riva di Santa Margherita Ligure, vidi una donna che aveva due delfini sulla spalla ne rimasi così affascinato». Il telefono del suo studio di Corso Magenta, 52 squilla impazzito nell’ancor più caotica Milano, ma Edoardo Tabacchi non sembra esserne disturbato e racconta: «I primi tatuaggi li facevo quando andavo all’università. Dopo le lunghe sessioni di studio accompagnate da birre e martini, ci si tatuava». Anche lui, come Sailor Jerry che nel 1911 si esercitava sulla pelle degli ubriachi dei quartieri bui di Chicago. Il suo tratto incisivo resta immortale. Tatuare è difficile, non si ha davanti a sé una bella tela di lino da dipingere a olio o una bianca carta di cotone da acquerellare. Disegnare sulla pelle è diverso tutte le volte, perché nessuna pelle è uguale all’altra, «questione di pigmento, tonalità più chiare, più scure, quelle che si abbronzano, quelle rovinate esasperate dalle troppe lampade, pelose e grasse». La pelle va rispettata affinché l’esecuzione del tatuaggio dia il massimo risultato, «l’avambraccio è la parte che preferisco, bella, chiara e tenera».

Il Codice Da Vinci e la punta dell'ago Edoardo Tabacchi è il tatuatore più ricercato dalle influencer TATTOO

di Caterina Di Terlizzi

Una Gioconda o l'Uomo Vitruviano? Una frase scritta verso sinistra come il grande Leonardo da Vinci? «Sarebbe stato bello conoscerlo e magari immaginare cosa tatuargli» ride Edoardo Tabacchi, raccontando su quale personaggio storico gli piacerebbe usare i suoi aghi e inchiostri. Faccia da angioletto con gli occhi verdi quando tatua le madonne, si trasforma in una pantera con i suoi lunghi capelli castani quando disegna i leoni ruggenti. Il suo volto più vero, però, prende forma mentre imprime i classici.

Maestro del chiaro scuro, anche i disegni in nero sono pieni di vibrazione e tonalità. I tatuaggi colti rivelano passione per lo studio della classicità e delle opere d’arte che ben conosce. Fra assurdità di polpacci tribali e schiene piene di carpe cinesi, si distingue il lavoro iperrealistico, rinascimentale e pop di Edoardo. Stupiscono le sue rose quasi profumate: «Il mio timbro è la rosa, la realizzo in un modo riconoscibile. Le ho stilizzate in tutte le maniere possibili e continuo a divertirmi nel crearle». Committenti vanitosi ma anche raffinati, mecenati che mostrano che il tatuaggio può ancora essere bello.

I tanti soggetti epici che lui tatua sulla pelle è come se trasferissero forza a chi li sfoggia. L’espressività delle sue madonne illuminano di grazia tricipiti che diventano mistici e, ancora, il teschio a rappresentare il memento mori nella più profonda e drammatica verità. Le tigri e tutto il suo bestiario che fanno diventare wunderkammer (camera delle meraviglie) un uomo e non la sua stanza: «Il corpo è il tempio del soggetto che ci vive dentro, l’attenzione è fondamentale. Il cliente è con me dal momento del disegno alla fotografia finale». Edoardo Tabacchi è acclamatissimo, le liste per avere un suo tatuaggio sono momentaneamente chiuse, adesso sarà probabilmente impegnato a rinnovare la vita a un mito o a un’allegoria. Quando la sua penna sapiente incontra l’ago, il suo tatuaggio diventa padrone del tempo. ■

L’aspetto pop caratterizza Edoardo. Pop in quanto le immagini sono piene di significato: L’ancora è la sicurezza, la rondine il ritorno, la sensualità della sirena. Si riproducono come un corpo dalla riproduzione esagerata, non solo la capacità di sintesi nel disegno che si avvicina a Matisse, ma tutta la sua poetica che nasce dal mare: «Ero molto piccolo Zeta — 37


Cultura

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Centanni da Scantastorie Due artisti che, attraverso la poesia e la fotografia, raccontano il sesso su Instagram, in maniera autentica e sfrontata VOCI

di Silvia Pollice

«Nacque il 9 marzo, brutto e maschilista, gli diedero il nome di un evangelista. Crebbe stupido Luca, a furia di coppini sulla nuca. Una notte, stese il suo cervello ad asciugare al sole con i panni e una forte pioggia alcolica lo tramutò in Ruscio Centanni». Luca Ruscitto, poeta monzese di 28 anni, si presenta declamando versi, ma dice che avrebbe fatto il barzellettiere, se solo sapesse raccontare barzellette. Invece nel 2019 ha unito le sue tre grandi passioni (poesia, sesso e alcol) e le ha buttate in pasto ai suoi 6.725 follower di Instagram, trasformandole in un nuovo genere letterario digitale: la poetry porn. 38 — Zeta

Se le parole spesso sono in grado di evocare immagini nella mente del lettore, a Luca le sole chiavi poetiche non bastano. «Preferisco ciò che è esplicito: non intendo nudo integrale, ma arrivare al punto del discorso senza giri di parole». Le immagini che accompagnano i suoi versi autobiografici sembrano essere sconnesse da ciò che scrive e soprattutto un pretesto per provocare il pubblico: modelle e donne comuni posano con lui completamente nude (o quasi), in luoghi casuali oppure nel secret bar, la sua auto dove tiene sempre scorte di whisky, che è la base del suo personaggio e il fil rouge dei suoi racconti. «Quella è casa mia e non potrai mai dirmi: “cosa c’entra l’automobile nelle tue foto?”. L’automobile per me è la base di tutto: è il mezzo con cui mi sposto ed è il luogo in cui mi ubriaco e faccio sesso». Ma lui non ci sta a posare senza vestiti e il motivo non è l’essere brutto e maschilista. «Se io mi mettessi nudo nelle fotografie, sarebbe come se una modella di nudo si mettesse a scrivere poesie. Ci sono persone che hanno fatto tanti sacrifici per diventare modelli o modelle e non sarò io quello che gli ruba il lavoro. Ognuno ha il suo ruolo». Proprio come una delle ra-

gazze protagoniste dei suoi scatti, che si fa chiamare Fanny Targioni Tozzetti, richiamando la donna amata da Giacomo Leopardi. Modella di professione, conosce Luca circa tre anni fa e posa per lui in uno scatto che accompagna forse il suo unico pezzo romantico, dedicato ad una ragazza che frequentava e che si era arrabbiata con lui per via del suo stile di vita bohémien. «Quella ragazza lesse il mio pezzo e disse: “è davvero molto bello quello che hai scritto, se non fosse che hai una ragazza nuda in braccio”. Con questo finì la nostra relazione». Ma, tra le ragazze a cui Ruscio ha dedicato dei pezzi c’è anche Chiara Cantagalli, mantovana di 31 anni, meglio conosciuta come la Scantastorie, «ma purtroppo sono stati tutti bannati», sottolinea Luca. Il personaggio della Scantastorie nasce a Bologna nel 2017 dal cognome di Chiara, interessata a riprendere la figura del cantastorie che intratteneva il popolo nelle piazze. Se all’inizio scrive prima per passione sul suo blog, poi per leggere i suoi pezzi davanti al pubblico che affolla i locali bolognesi, «documentando la fauna umana che vedevo ogni giorno a Bologna, mentre lavoravo come barista», nel 2018


la casa editrice indipendente di Guido Panza cura la sua prima pubblicazione, Dai…leggimi tutta!. Da quel momento, arriva la popolarità: dai primi spettacoli di lettura con musica dal vivo di sottofondo, fino all’approdo su Instagram, dove conta più di 13mila follower. «Quando sono andata via da Bologna ho intensificato questa attività sui social e, grazie ad altri spettacoli, ho costruito quell’immagine spregiudicata che un po’ mi è sempre appartenuta». Proprio grazie a Instagram unisce il testo scritto all’immagine, che richiama il suo amore per le fiabe illustrate di quando era bambina, e lo sfrutta per tirare fuori le sue “interiora” «attraverso il porno, una scelta vincente perché ho cercato di abbattere i tabù e normalizzare questo tipo di scrittura, che è stata sempre appannaggio di autori maschili». Ma è anche una scelta che le ha attirato addosso le critiche di tutta quella gente che poi si è ritrovata «a chiedermi di farle pubblicità. Una bella soddisfazione». Dopo una pausa in cui è venuta meno l’identità poetica della Scantastorie, è emersa la prosa di Fosca Fumagalli, un personaggio nato di recente sui social, dopo che Chiara torna a Suzzara, suo paese d’origine. Pur essendo ancora indecisa sul destino di Fosca (essere un alter ego da usare solo sulle piattaforme social o

diventare la sua seconda pubblicazione), l’artista sembra essere più propensa per la seconda opzione, sebbene il discorso social le abbia sempre garantito una certa costanza «perché ero obbligata a scrivere per un “patto” con i miei follower». Nonostante la brusca pausa imposta dalla pandemia, il futuro artistico di Luca e Chiara sembra essere non solo molto promettente, ma anche unito dallo stesso punto di vista: «[Luca] è un onesto paraculo come me: sappiamo che certe

cose (come il sesso) vanno e non ci vergogniamo neanche di utilizzarle in maniera sfrontata, senza nasconderci». Se nel 2019, Chiara e la comica Maristella Lo Sacco hanno creato il progetto Le cagne sciolte (fondendo poesia e stand up comedy), che le ha portate ad esibirsi in giro per l’Italia, «all’inizio andando in pari, un po’ alla Blues Brothers», per poi essere notate dalle persone giuste nell’ambiente underground, nel 2022 Luca/Ruscio ha trasformato la sua poesia in musica, producendo Quel disco, che è sbarcato su Spotify. ■

1. «Non amo i tatuaggi, non li ho mai amati» @lascantastorie

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Cultura

appena finito la maturità e un conto in sospeso con la propria sessualità, a causa dell’educazione rigidissima impartita dalla madre. Tra gli invitati c’è anche G., a volte è violento, ma è un bel ragazzo e tutti vogliono essere suoi amici. «Boys will be boys», si dice di quelli come lui. I ragazzi sono ragazzi, quelle che fanno sono goliardate. Anche quando stuprano. A loro tutto è concesso. Alla festa G. ha un rapporto non consensuale con la protagonista, che capirà solo dopo di aver subito una violenza. È uno stupro banale nella sua drammaticità, che si consuma in una situazione normale, senza violenza o lividi, solo una macchia di sangue che rimane sul letto a ricordare a Valentina quanto sarà compromessa, da quel giorno in poi. Mira scrive una lettera cruda al fratello, suo complice durante l’infanzia. Pur essendo l’unico a sapere cosa le è accaduto, sceglie di non crederle e di rimanere amico di G. Il libro è dunque un lungo racconto dell’autrice a quel fratello che non sente da anni per spiegare, di nuovo e per l’ultima volta, quella drammatica estate dal suo punto di vista, insieme a tutto quello che è venuto nella sua vita dopo.

«Ma tu lo sai almeno cos’è uno stupro?» X è il primo romanzo di Valentina Mira, un caso editoriale sulla violenza di genere edito da Fandango libri ROMANZO

di Beatrice Offidani

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Lo urla, piangendo, la protagonista senza nome di X, il primo romanzo di Valentina Mira. Lo urla al fratello, a sé stessa, alla famiglia, ad una società che non ha saputo capirla. È l’estate afosa del 2010 in una Roma sud soffocante, dove i ragazzi con la croce celtica al collo vanno alla scuola cattolica. C’è una festa in uno squallido appartamento di quelli che si trovano nei palazzoni di periferia. Dalle casse esce una canzone degli ZetaZero Alfa, band di riferimento dei militanti di Casa Pound. A quella festa c’è Valentina, ha

«Ho scritto a mio fratello perché era sparito da anni, rimasto amico dello stupratore, speravo che tornasse e, dopo aver letto X, lo ha fatto», racconta Mira. Lo stile del romanzo è netto, crudo, tagliente. A volte troppo semplice, con espressioni in dialetto o gergali. Ma la scelta di semplificare al massimo è voluta. L’obiettivo è quello di tirare fuori lo scheletro di questa storia, mostrarla nuda, così com’è. «È un libro che parla di cose complesse in modo semplice perché all’ego autoriale e narcisistico che non mi appartiene ho preferito l’altro, parlarci, farmi capire. Uno scopo divulgativo, in definitiva», spiega l’autrice. Al perché abbia deciso di scrivere un libro su una tematica così delicata, che potrebbe suscitare orrore e repulsione in chi legge, Mira risponde che «non osavo sperare che sarebbe potuto essere utile alle più di 40mila donne l’anno cui succede in Italia, e invece dal primo giorno che è uscito ho iniziato a ricevere messaggi di persone che mi dicevano che X le aveva aiutate a confermare nella loro testa che quello che era successo non era colpa loro». «In letteratura, anche in quella di alto livello (ad esempio nella Ciociara di Moravia), o si glissa sulla definizione di violenza, oppure si raccontano casi


limite, in cui è molto difficile identificarsi. Ciò che non è raccontato è come se non esistesse. Per questo l’ho raccontato: perché esiste, invece. E non è colpa nostra», continua l’autrice.Il rischio è infatti che, dopo aver subito la violenza, le vittime se ne sentano responsabili. Il victim blaming è, nel linguaggio degli studi di genere, la “colpevolizzazione della vittima”. Avviene quando si imputa la colpa del reato alla persona che l’ha subito. Nel libro quello di cui è vittima la protagonista non è lo stupro come viene raccontato di solito dai media o nelle opere di fiction. La ragazza che cammina per strada e, dal nulla, viene aggredita e violentata, da un uomo che spesso e volentieri è senza volto, o che non conosce. Questa narrazione serve a rendere l’abuso un’eccezionalità. In Italia, invece, secondo i dati Istat, la maggior parte delle violenze viene perpetrata da amici o partner. Secondo l’Istat ha subito violenze fisiche o sessuali da partner o ex partner il 13,6% delle donne (2 milioni 800 mila), in particolare il 5,2% (855 mila) da partner attuale e il 18,9% (2 milioni 44 mila) dall’ex partner. Il 90% delle donne, inoltre, sceglie di non denunciare le aggressioni subite. Anche la protagonista di X non denuncerà mai. «La risposta al perché non ho denunciato è nel libro: a domande complesse non si può rendere conto con risposte semplici, di poche righe. Il problema non è personale ma sistemico. Il danno viene taciuto per anni, represso sotto la vergogna, che riaffiora solo anni dopo». La vergogna, lo stigma, i non detti. L’autrice riversa tutta la rabbia per la propria condizione nelle pagine del romanzo, una volta per tutte, per «restituire la vergogna al mittente». «In letteratura solo nell’ultimo secolo sono comparsi libri in cui il punto di vista è quello di chi lo stupro lo ha subito, anche se si tratta per lo più di casi in cui è difficile rivedersi. Ad esempio Lucky di Alice Sebold o Io ho un nome di Chanel Miller, che parla di un episodio che la protagonista non può raccontare perché non lo ricorda, era svenuta. Nella maggior parte dei casi è tutto molto più semplice: una persona dice di no, l’altra lo fa lo stesso. Di solito è uno che conosci, e non devi certo essere vergine per essere violentata», continua Mira. «A me serviva un libro onesto su questo tema, possibilmente scritto in modo mai sessuofobico o giudicante: non l’ho trovato, l’ho scritto io». Il racconto che viene fatto della violenza di genere nell’arte e nei media è, secondo l’autrice,

di parte e tende a normalizzare la violenza stessa, oppure a rappresentarla come un evento straordinario. Sono tanti i temi introdotti nel libro, che non parla solo di abusi fisici, ma, più in generale, della violenza sistemica che la società patriarcale di oggi esercita sulle donne. «Una volta un editore mi disse “lo stupro non vende”. Ho abbastanza fiducia in me stessa da non mendicare attenzioni. Il bello dei libri è che puoi leggerli se vuoi, sennò no. Quando e se si è pronti ad affrontare un argomento lo si fa. Senza forzature». ■

Il libro X

Valentina Mira Fandango Libri

pp. 176 euro 20

1. L'autrice, Valentina Mira, foto di Rino Bianchi

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Spettacoli prima che viene forgiata dal fuoco della costanza e della dedizione. Si lavora sulla rotazione delle anche, sull’elasticità, sulla dieta. «Le ballerine non mangiano!». Una frase che risuonava nella testa di Silvia, ex ballerina classica, ogni volta che aveva fame e tirava fuori dalla borsa il suo pranzo a base di yogurt e mela. E poi, dopo il modesto pasto, ancora le prove e ancora lo stretching a fine giornata. Quando il dolore è forte si ricorre al fisioterapista o all’osteopata e agli antidolorifici quando diventa insopportabile.

Lettera alla danza La disciplina e la dedizione, una sfida continua contro i propri limiti DANZA

di Elena La Stella

«Non avrei mai fatto il ballerino, non potevo permettermi questo sogno, ma ero lì, con le mie scarpe consumate ai piedi, con il mio corpo che si apriva alla musica, con il respiro che mi rendeva sopra le nuvole. Era il senso che davo al mio essere, era stare lì e rendere i miei muscoli parole e poesia, era il vento tra le mie braccia». Così si legge in una parte della Lettera alla danza scritta da Rudolf Nureyev, il più grande danzatore della storia. Il corpo è uno strumento che vibra al suono dell’orchestra, dando luogo alla sublimazione che solo l’arte può dare. I muscoli, la pelle, i tendini si coordinano all’unisono per far sì che ogni cellula rispetti il respiro dell’orchestra e si adagi su esso. La vista degli sguardi del pubblico nella penombra, lo scricchiolio delle tavole di legno sotto i piedi, l’odore della pece messa sulle scarpette per non scivolare. Sono pezzi di un puzzle di emozioni che spingono i danzatori a sottoporsi ad ore e ore di prove, sopportando la stanchezza, la fatica e il dolore. La ricerca della compiutezza del gesto la ricerca della compiutezza armonica del gesto, dell'eleganza delle linee di 42— Zeta

movimento, ma anche dell'efficacia della resa espressiva è ciò che spinge ogni danzatore a confrontarsi con l’odiato specchio, che ogni giorno ricorda all’artista quanto sia lontano dalla tanto bramata perfezione. Una corsa continua verso una meta irraggiungibile, tanto agognata quanto doloroso è il percorso che ad essa conduce. I giovani danzatori vengono abituati al sacrificio, allo sforzo fisico, alla pressione psicologica. Fin da bambini, durante le selezioni per accedere alle scuole di danza il corpo diventa elemento discriminatorio: è troppo in carne, il suo Cou de Pied è brutto, la sua schiena è rigida, non ha abbastanza rotazione delle anche. Ma il lavoro porta il progresso e il miglioramento, non solo tecnico, ma anche fisico. Il corpo diventa la materia

Ma non c’è malessere che tenga quando arriva il momento di entrare in sala, qualsiasi problema diventa secondario e ciò che più conta è il giudizio dell’occhio severo nello specchio, lo sguardo critico del danzatore. «La danza è sofferenza, sacrificio, privazione», un’altra frase che si sente spesso nei corridoi delle scuole. Ma non è così. La danza è libertà e vita, è la possibilità di esprimere tutto ciò che si desidera senza doversi piegare all’utilizzo delle parole, utilizzando il proprio corpo che è la rappresentazione concreta e tangibile dell’essenza di ogni essere umano. La danza era comunicazione nella preistoria, prima ancora della scrittura e della parola. Con il passare dei secoli è divenuta mezzo per ringraziare gli dèi per i doni della terra e per il dono della vita. In un mondo che spesso dimentica l’essenza profonda delle cose forse è giusto ricordare le origini. Ritrovare il piacere di vivere in modo semplice e genuino, eliminare la malsana competizione che rende l’arte una gara malata e priva di bellezza perché condizionata da criteri che sono del tutto estranei all'arte e la sterilizzano o l'avvelenano. Ritornare a ballare per il piacere di farlo ed essere consapevoli che chiunque può danzare ed essere perfetto, avendo il privilegio della imprescindibile imperfezione.■


Il mostruoso femminile Un corpo che terrorizza, repelle e affascina nel film Palma d’oro di Julia Ducournau, Titane CINEMA

di Valeria Verbaro

Il cinema offre il piacere. Seduce trasportando il pubblico attraverso il buco di una serratura, rendendolo complice e voyeur, testimone invisibile di una storia. Quando un film spezza questo patto segreto e obbliga a star scomodi sulla poltrona quel che vuole comunicare è sempre una rivoluzione. Un cambiamento che ha bisogno di attenzione. Titane di Julia Ducournau ne è l’esempio più radicale e sperimentale degli ultimi anni, un ribaltamento del principio di passività femminile teorizzato da Laura Mulvey nel testo che fonda il femminismo cinematografico, Visual Pleasure and Narrative Cinema (1975). Nel descrivere la donna come immagine e l’uomo come portatore dello sguardo, nel cinema classico e mainstream, Mulvey scrive che «nel loro tradizionale ruolo di esibizione, le donne sono guardate e sono messe in mostra», anche quando sono protagoniste. È la connotazione stessa della macchina da presa a renderle oggetti passivi di

contemplazione. Alexia (Agathe Rousselle), la protagonista del film, invece si appropria dello sguardo della camera e ne fa un’arma contro il pubblico in continuità con le intenzioni della regista. La formula scelta è quella del body horror estremo, dai tratti fantascientifici. Alexia infatti, incinta di un essere ibrido, umano e meccanico, sopporta il suo corpo mutare in modo innaturale dall’interno, mentre all’esterno lo tortura cercando di rendersi irriconoscibile e sfuggire ai fantasmi del passato.

«Titane rielabora decenni di rappresentazioni di corpi contaminati e impuri, temuti e vessati, di streghe, sirene e ninfe» Le lacerazioni, le ossa rotte e le pesanti fasciature per coprire le forme, anche quando portano a distogliere lo sguardo,

attraversano lo schermo e arrivano sulla pelle attraverso i suoni, sordi e spaventosi. Il corpo dello spettatore reagisce al corpo di Alexia, ne è disgustato, terrorizzato e attratto, di fatto impotente. Julia Ducournau rivendica così la mostruosità del femminile come teorizzata da Jude Ellison Sady Doyle, «quel terribile potere che manda in frantumi il mondo e che è solo, dopo tutto, il potere sul proprio corpo» [Mostruoso femminile, Edizioni Tlon, 2021]. Rielabora decenni di rappresentazioni e narrazioni di corpi contaminati, impuri, temuti e vessati, di streghe, sirene e ninfe, attraverso l’immagine androgina e fluida di Agathe Rousselle e attraverso una storia che, sotto l’imponente impalcatura estetica, racconta soprattutto un percorso di accettazione di sé, seppur violento e accidentato. Titane è l’affermazione di un femminile che rifiuta la passività dello sguardo e dell’azione e che non teme di esporsi anche quando non incontra il favore dell’altro. È l’atto nascita di un nuovo cinema e non a caso si conclude con il doloroso parto di qualcosa prima impensabile. ■ Titane (Julia Ducournau, 2021). Foto di Carole Bethuel. Courtesy of I Wonder Pictures.

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Sport

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La nobile arte dell’inclusione La storia secolare della Sempre Avanti!, palestra bolognese pioniera nell’idea di sport popolare DIRITTI

Inclusione sociale e parità di genere come valori già all’inizio del ‘900. A Bologna la Sempre Avanti! è più di una società sportiva, è parte del patrimonio culturale cittadino. Nei suoi centoventun anni di età ha accompagnato intere generazioni allo sport dilettantistico e spesso all’agonismo. Scuola di pugilato, ha formato grandi campioni fino a diventare punto di riferimento negli sport da combattimento bolognesi. Una lunga storia di battaglie, dentro e fuori dal ring.

di Enzo Panizio

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È stata la prima società sportiva italiana di matrice esplicitamente operaia e il fatto che il nome e la scritta ricordino quelli de “L’Avanti”, storico giornale socialista, non è un caso. La Società operaia maschile bolognese – che nell’atto vantava di “avere come presidente onorario perpetuo il generale Giuseppe Garibaldi” – l’ha fondata il 12 maggio del 1901 come sua “Sezione Ginnastica”, nell’allora via Barbaziana, nel cuore del capoluogo emiliano. In un momento storico in cui lo sport si riteneva appannaggio delle élite, i fondatori volevano aprire le attività ginniche alla partecipazione popolare, che lo sport diventasse patrimonio di tutti. All’inizio le principali attività erano l’educazione fisica e la ginnastica ma centrali erano anche iniziative di stampo sociale.

Lo sport, però, proprio di tutti non era ancora. «Le donne, nemmeno a dirlo, erano escluse» racconta Patrizio Del Bello, attuale presidente della Sempre Avanti!, eletto in occasione dei festeggiamenti per il centoventesimo anniversario dalla nascita. «La svolta arriverà nel 1906 quando la società sportiva si emanciperà da quella operaia, senza il venir meno dell’impegno civile e sociale, che anzi ne uscirà rafforzato». Ancora pionieri del cambiamento, i soci fondarono la “Sezione Femminile”, anche questa «prima in Italia». Così la successiva sede di via Maggia diventò un tempio, dove giovani uomini e donne di inizio secolo scorso di dedicavano al culto del corpo, che è anche culto dell’umano. I campioni della Sempre Avanti erano «sport-men eclettici». Così li definì la rivista “Lo sport illustrato”, edita dalla Gazzetta dello Sport, in una delle numerose copertine a loro dedicate per le tante vittorie degli anni Venti. Se la prima guerra mondiale requisì importanti risorse economiche e umane alla società, infatti, la riorganizzazione permise agli atleti di primeggiare in tante discipline: lanci, salto, corsa, pentathlon. Iniziò la pratica di lotta greco romana e pugilato. «I primi trent’anni di attività avevano dimostrato


che promuovere la ginnastica di base, rendendola fruibile a quante più persone, non aveva affatto impedito l'emergere di atleti di valore, anzi. Quarantotto titoli nazionali conquistati tra il 1913 e il 1933 parlavano da soli». La Sempre Avanti! era considerata una delle migliori società di ginnastica a livello nazionale. Con l’avvento del fascismo iniziò il periodo più duro. Le origini socialiste da subito attirarono le attenzioni degli squadristi bolognesi. «La Sempre Avanti! mise in atto un’opposizione silenziosa costatale diverse ritorsioni» continua il presidente Del Bello. Alla fine però le società ginnastiche furono costrette a confluire nella Bologna Sportiva, associazione di regime. «Il nucleo storico seppellì la bandiera di Sempre Avanti in attesa dei tempi migliori e molti condannarono l’agonismo indiscriminato portato avanti dall’associazione di regime, fedeli alla vecchia idea di sport popolare». Il lottatore Aleardo Donati si rifiutò sempre di diventare professionista, anche dopo vent'anni di combattimenti e 17 titoli di campione italiano. «Diversi soci e atleti poi andarono in montagna ad unirsi alla Resistenza». La scelta antifascista portata avanti nel silenzio divenne esplicita e lo spirito cristallizzatosi nelle molte battaglie guiderà sempre la società, grazie alle figure storiche, fino al nuovo millennio. Uno su tutti Gastone Sgargi, partigiano della celebre Brigata Stella Rossa e personalità di spicco nell’ambiente, che sarà presidente da metà anni Ottanta fino al 2006 traghettando la società oltre il centenario. A guerra finita dunque vennero dissotterrati i vecchi simboli e arrivò una nuova stagione di successi. «Il dopoguerra fu il periodo d’oro della boxe. Le vittorie dei pugili più conosciuti, penso a Canè o Parmigiani, favorirono l’affermazione a livello nazionale». Nei grandi match del passato si sono consolidati il prestigio e l’esperienza negli sport da combattimento, nel tempo diventati il tratto distintivo e cuore pulsante della società sportiva bolognese. Oggi la Sempre Avanti! conta oltre tremila tesserati ogni anno, che affollano la sede ormai storica al Renato Dall’Ara e quella di via Stalingrado (all’ex dopolavoro ferroviario). Le sfide di sempre si ripropongono sotto nuove forme. «Quotidianamente gli istruttori lavorano contro il pregiudizio degli sport da combattimento legati ai neofascismi. Per noi è importante che gli istruttori abbiano un certo tipo di cultura inclusiva non maschilista, non machista, non razzista, che

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non permettano alle ideologie estremiste di sporcare la dignità di arti marziali e sport da combattimento» ci tiene a specificare Del Bello. A non cambiare invece sono i valori di sempre e l’obiettivo dell’inclusione. «Anche oggi la componente femminile negli sport da combattimento è molto forte: muay thai, kick boxing, brazilian jiu jiutsu. Sono quelle le attività in cui abbiamo sia più affiliati che risultati migliori. Negli ultimi anni abbiamo avviato una serie di progetti in collaborazione con servizi sociali, comune, carcere minorile. Facciamo lavori in comunità e portiamo nei nostri corsi ragazzi in situazione di abbandono, di difficoltà non solo economica. L'obiettivo è il loro recupero e reintegro in società. Abbiamo un team che si è occupato di centinaia di ragazzi». Nei centoventun anni della sua storia la Sempre Avanti! ha cambiato molte forme ma non ha mai perso la propria identità. Dal 1901, il messaggio è sempre lo stesso: lo sport dev’essere di tutti. ■

4 1. La Sempre Avanti sfila a Piazza Maggiore, a Bologna, il 1 maggio 1947. 2. Atleta agli anelli, 1925. 3.Due lottatori si sfidano nel 1923. 4. Ginnasta si allena, 1962. 5. Sparring nella sede al Renato Dall'Ara.

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Sport State University, e frequentano il corso di sociologia del professor Harry Edwards, il primo afroamericano ad ottenere una cattedra in quella materia in tutti gli Stati Uniti. Sarà proprio Edwards a fondare, insieme a molti atleti afroamericani, tra cui Tommy, John e un giovane Kareem Abdul-Jabbar, l’Olympic project for human rights. Nonostante l’intento di denunciare la segregazione razziale e il razzismo che gli atleti di colore subivano in patria, il movimento ebbe vita breve perchè incapace di conciliare le diverse posizioni al suo interno. Il paventato boicottaggio non avverrà, ma il clima prima dell’inizio delle Olimpiadi messicane era tutto tranne che sereno.

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Take a stand la protesta nello sport Durante una partita di Premier League, un tifoso si è legato alla porta per manifestare contro la scelta del governo britannico di aumentare gli investimenti in combustibili fossili DIRITTI

di Leonardo Pini

A Goodison Park è da poco iniziato il secondo tempo di Everton-Newcastle. Louis McKechnie scavalca il cancello e rapidamente si lega al palo della porta difesa da Begovic, portiere dell’Everton, con un laccio antitaccheggio. Sulla maglia è riportato un indirizzo web: Just Stop Oil.org. Una campagna nata con l’intento «di esigere dal governo britannico un impegno a non sottoscrivere nuovi accordi per l’utilizzo di combustibili fossili». Louis è convinto che la battaglia valga di più delle ire che ha attirato: «Mi è dispiaciuto interrompere un evento così importante per i tifosi, ma niente ha più impatto di una manifestazione sportiva per farsi ascoltare e se non si crea consapevolezza sulle scelte dei nostri governi, saremo noi a pagare con la vita». 46— Zeta

Ancora una volta, perché il messaggio venga ascoltato si sceglie di utilizzare il corpo come mezzo per protestare. Nonostante la combinazione di sport, corpo e protesta non sia popolare, perché tutto ciò che è protesta è politica e la politica nello sport non deve entrare, queste tre componenti si rincorrono ormai da decenni rendendo immortali le storie dei protagonisti e delle loro rivendicazioni. I guanti neri di Tommy e John L’immagine simbolo della protesta sportiva è quella relativa alla premiazione dei 200 metri alle Olimpiadi di Città del Messico 1968. Sul podio ci sono due atleti afroamericani, Tommy Smith e John Carlos, e un australiano, Peter Norman. Tommy e John studiano alla San Josè

I 200 metri non regalano sorprese: Tommy stravince, John esce bene dai blocchi, non riuscendo a tenere la concentrazione e, oltre a perdere il primato, si lascia sorpassare anche dall’australiano Norman. Non è importante: conta essere sul podio insieme. Contemporaneamente alla salita della bandiera a stelle e strisce, si alzano anche i pugni, inguantati di cuoio nero, dei due sprinter californiani, simbolo del Black Power, ma anche delle Black Panther. Il giorno seguente vennero espulsi dalla selezione americana e al rientro in patria vennero trattati come degli appestati e non come i campioni, vincitori di medaglie, che erano. Colin Kaepernick: in ginocchio per gli oppressi Quando nell’agosto 2016, in una partita amichevole dei San Francisco 49ers, Colin Kapernick non si alza per rendere omaggio alla bandiera americana durante l’inno, non può immaginare che nel giro di un anno sarà estromesso da ogni attività legata al football professionistico. Le sue prime parole ai reporter, curiosi di capire le motivazioni del gesto, furono: «Non mi alzerò con orgoglio per la bandiera di un paese che opprime le persone di colore e le altre minoranze». Si riferisce alle violenze della polizia sugli afroamericani, che nel luglio 2016 hanno portato alla morte di Alton Sterling e Philando Castile. La Nation Football League (NFL) sembrava aver tollerato quel gesto, scrivendo in merito «che i giocatori sono incoraggiati, ma non obbligati a partecipare alla cerimonia dell’inno nazionale». La


settimana successiva la protesta del quarterback dei 49ers cambiò forma, arrivando all’inginocchiamento durante la riproduzione di The Star-Spangled Banner. Il gesto attirò la solidarietà da parte di molti atleti statunitensi: colleghi del football americano in primis, ma con un consenso trasversale che raggruppava anche giocatori NBA e star del baseball. Mettersi in ginocchio davanti alla bandiera americana iniziò ad essere visto come un gesto fastidioso da molti fan, ma soprattutto da una parte del partito repubblicano, che, con il candidato alle presidenziali Donald Trump, spingeva perché arrivassero delle sanzioni nei confronti di Kaepernick. La sanzione più grave è ancora in corso: Kaepernick non ha un contratto dal 2016 e molte squadre hanno scelto giocatori meno talentuosi di lui per evitare una pubblicità negativa. Ha una causa in corso con la NFL, accusata di averlo boicottato. La sua protesta però ha ispirato gli sportivi di tutto il mondo. Basti pensare che in Inghilterra, tutt’ora, sia in nazionale che nelle squadre di club, i giocatori si inginocchiano prima di ogni partita. Il calciatore antifascista Bruno Neri, nato a Faenza nel 1910, era un mediano della Fiorentina. Quando il 13 settembre 1931 si inaugurava nel capoluogo toscano lo Stadio «Giovanni Berta» le tribune sono gremite di tifosi fascisti e nella tribuna autorità c’è anche il podestà di Firenze insieme ai gerarchi.

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Bruno è dichiaratamente antifascista, sa che alzare un braccio per fare il saluto romano non significa sopravvivere, ma essere indifferenti, rendersi parte della propaganda del Duce. In mezzo agli altri dieci giocatori, tutti ben inquadrati nei ranghi del regime, Bruno rimane fermo. Il fatto che di lì a pochi anni, dopo l’armistizio di Cassibile (1943), si arruoli nella resistenza ne è una diretta conseguenza. Poteva scegliere, come altri suoi colleghi d’alta Italia, di arruolarsi con i repubblichini di Salò per evitare le ritorsioni nazi-fasciste, ma ha preferito il freddo delle montagne con

il foulard al collo e lo Sten in mano. A Marradi, il 10 luglio 1944, mentre con un compagno cerca di recuperare alcuni aiuti inviati dagli alleati, viene freddato da una raffica di mitra. Oltre a una lapide, a ricordare il calciatore partigiano anche lo stadio di Faenza, che dal 1946 porta il suo nome.■ 1. Murales raffigurante Colin Kaepernick inginocchiato (al centro) e le vittime della polizia americana. 2. Il podio dei 200 metri di Città del Messico 1968 raffigurato in una statua. 3. Alcuni giocatori degli Washington Redskins si inginocchiano durante l’inno statunitense.

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Sport

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I colpi di testa andrebbero aboliti? Disturbi neurologici e pallonate sembrano collegati. Ne abbiamo parlato con Damiano Tommasi e con la donna che ha organizzato la prima partita della storia senza gioco aereo CALCIO

di Antonio Cefalù

Si chiama Bill Gates, ma non è un miliardario e non sviluppa software. È stato un difensore, ha giocato per 13 anni nel Middlesbrough. 333 partite da professionista, infinite sessioni d’allenamento, in ognuna delle quali colpiva «un centinaio di palloni di testa» per allenare il suo fondamentale migliore. A 29 anni il traguardo più atteso: la promozione in Premier League. In cui, però, non ha mai giocato: dopo tutte quelle pallonate le emicranie erano diventate insostenibili, così ha detto basta. Da quel giorno in poi, Gates non ha vissuto chiedendosi se il problema sarebbe peggiorato, ma quando. La diagnosi peggiore è arrivata nel 2014: Encefalopatia Traumatica Cronica (ETC). «Un viaggio orribile», nelle parole di Judith, la moglie. «Una montagna russa di deterioramento 48 — Zeta

cognitivo, diventato anche fisico da quando il suo cervello non riesce più a dire al corpo cosa fare». È proprio per evitare che altre famiglie vivano lo stesso inferno dei Gates che Judith ha creato Head for Change, associazione che lavora per diminuire l’incidenza delle malattie neurodegenerative (come demenza, Alzheimer o ETC) causate dallo sport professionistico. In maniera particolare, quelle riconducibili ai microtraumi sofferti per colpi di testa e scontri di gioco, che accumulandosi nel corso di una carriera possono presentare un conto salato nella terza età. La più forte opera di sensibilizzazione di Head for Change è arrivata pochi mesi fa: la prima partita della storia in cui i colpi di testa erano proibiti dal regolamento. Il calcio d’inizio l’ha dato Bill, uscito dal campo in un’ovazione mentre andava alla

ricerca di un bacio della moglie. Entrambi spazzati via in un attimo dall’assenza di memoria a breve termine. In campo, altri ex calciatori che supportano la causa. Uomini nei loro quaranta che «quando iniziano a dimenticare i primi numeri di telefono vivono nel terrore di essere entrati in un tunnel senza uscita». Ma il calcio senza colpi di testa com’è? «Più tecnico, tatticamente raffinato», assicura Judith Gates. «Nel primo tempo li abbiamo permessi solo in area, nel secondo via anche lì. Si è vista la differenza: il gioco era molto più ricercato». In fondo, come disse Bryan Clough: «Se Dio avesse voluto che giocassimo sulle nuvole, l’erba l’avrebbe messa lassù». Non è un caso che un’iniziativa del genere nasca nel Regno Unito. In Italia non se ne parla, ma quella delle malattie neurodegenerative fra gli ex calciatori inglesi sembra «un’epidemia» — nelle parole Judith Gates. Oltre il caso di Bill, il Paese negli ultimi anni sta vedendo cadere buona parte della squadra campione del mondo nel 1966 e del Manchester United campione d’Europa nel ’68 per colpa della demenza. Diversi studi scientifici vanno nella stessa direzione: da Bill Gates a Sir Bobby Charlton, la colpa sarebbe innanzitutto degli scontri fra il cervello e la scatola cranica prodotti dalle continue pallonate. Il fatto che si parli di coetanei, però, non deve far pensare che il problema sia gene-


razionale, quindi superato. La ragione è che tali malattie si sviluppano in un arco di circa 30 anni, e studi recenti stimano che la minaccia sia oggi presente tanto quanto lo era negli anni ‘70. Nello specifico, il Glasgow Brain Injury Research Group ha calcolato che, per colpa delle pallonate, le probabilità di sviluppare malattie neurodegenerative per ex calciatori siano fino a cinque volte superiori rispetto a quelle della popolazione generale. Una stima che si alza per i difensori, come Gates, più sollecitati nel gioco aereo. Per Judith Gates questa è già una «prova schiacciante e attendibile» della pericolosità dei colpi di testa. Non tutti, però, sono dello stesso avviso. Fra gli scettici c’è anche una voce autorevole come quella di Damiano Tommasi, ex presidente dell’Assocalciatori e membro del board di Fifpro, il sindacato mondiale dei calciatori. Secondo lui «non è così chiara la solidità scientifica» sulla quale si basano questi studi. «Non dico che parlare di collegamento diretto con le malattie neurodegenerative sia una forzatura, ma…». «Di certo il buon senso dice che tanti colpi di testa non possono fare bene, come accade per un pugile o per un rugbista con gli scontri di gioco», continua. D’altro canto, però, per stabilire un rapporto di causa diretto servirebbero dati più sostanziosi e stabili nel tempo, che possano eliminare una grossa quantità di variabili e bias (cambio nei materiali dei palloni, evoluzione del gioco, abitudini di vita…). Per farlo, però, «dovremmo studiare il fenomeno in laboratorio, che è impossibile», controbatte Gates. Il rischio, avverte, è che per aspettare uno studio formalmente inattaccabile si perda di vista la salute di intere generazioni di giocatori, quando ci sono già elementi per sostenere che sia in pericolo. Il dibattito è aperto. In ogni caso, «l’obiettivo di Head for Change non è proibire i colpi di testa». E allora mentre qualcuno studia come visori e realtà virtuale possano sostituire la frustata al pallone, ben venga il protocollo della Premier League, che quest’anno ha limitato a 10 a settimana il numero di colpi di testa di «forza superiore» (cioè quelli che incontrano passaggi partiti da 35 metri di distanza o più) effettuabili in allenamento. In più, sono state introdotte sostituzioni extra per tutti nel caso di commozioni cerebrali, per disincentivare la permanenza in campo di un giocatore infortunato. 1. Giorgio Chiellini. Foto: Reuters. 2. Bill Gates colpisce di testa con la maglia del Middlesbrough. Foto: Head for Change. 3. Palla a terra. Uno scatto dalla prima partita della storia senza colpi di testa. Foto: Head for Change.

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Queste regole, però, presentano due criticità. La prima è che non sappiamo quale sia un limite «sano» di colpi di testa per uno sportivo. Ciò significa che, sviluppandosi la malattia nel lungo periodo, «se oggi stiamo facendo tutto bene, per altri 30 anni avremo comunque casi di demenza senile fra i giocatori», avverte Gates. La seconda è che c’è chi non si attiene al protocollo sapendo che l’applicazione non è controllata. Come aveva ammesso l’ex allenatore del Tottenham, Nuno Espirito Santo. Le misure inglesi potrebbero essere solo cosmetiche, ma hanno il merito di far luce sul fenomeno. Lo sostiene anche Tommasi: «Non sono perfette, ma sono sicuramente di buon senso». Perché non ci pensiamo anche in Italia, allora? «Sicuramente delle limitazioni andrebbero introdotte nelle scuole calcio, dove all’estero un tocco di testa è equiparato ad un

fallo di mano. Ma da noi non c’è una preoccupazione a riguardo, non è un tema di attualità». In effetti, in Italia i casi conosciuti di demenza negli ex calciatori sono molti di meno. «Questo è difficilmente spiegabile», continua Tommasi. «Sembra quasi che alcuni fenomeni colpiscano solo alcuni Paesi e non altri. Noi, ad esempio, abbiamo avuto molti più casi di Sla che da altre parti. Questi, però, non sono riconducibili ai traumi». Che ci siano prove scientifiche «schiaccianti» o meno, che sia l’Italia in ritardo o il Regno Unito troppo prudente, in entrambi i Paesi c’è una grossa mancanza da colmare. «Manca il consenso informato», spiega Gates. «I giocatori sono liberi di scegliere se barattare i guadagni a breve termine per il rischio a lungo termine, ma non decidono davvero, perché nessuno gli dice cosa rischiano colpendo decine di palloni di testa al giorno».■

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Sport

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Il platonismo dei muscoli Il bodybuilding, dal Mr Olympia Andrea Presti alla filosofia di Tommaso Ariemma CULTURISMO

di Niccolò Ferrero

«L’insicurezza è direttamente proporzionale al volume della nostra massa muscolare» dichiara il body builder Andrea Presti, ospite al podcast Muschio Selvaggio. Nel 2021 An-drea si è qualificato a Mister Olympia Open, la più impor-tante gara del mondo di questo sport. È l’unico italiano a es-serci riuscito negli ultimi trent’anni. «Spesso un culturista nasce da una sensazione di inadegua-tezza sociale o culturale», spiega Andrea, che è alla base di un percorso estremo e antiestetico. Perché il più bel compli-mento che puoi fare a un body builder, secondo Presti, non è «che bello che sei», ma «che schifo». Questo significa che sei talmente grosso da essere antiestetico secondo i canoni di chi non pratica questo sport. Le parole di Presti sono controcorrente anche su altri temi. Ammette che nel body building il doping c’è. Come in molti sport professionistici, aggiunge. 50— Zeta

Nelle classifiche degli sport con più atleti dopati il body building non è presente solo perché non esistono dei controlli efficaci da parte delle fede-razioni nazionali. Gli atleti vengono controllati e sanzionati solo su indicazione dei Nas dei Carabinieri nell’ambito di in-chieste giudiziarie. Dal 2010 si sta sviluppando un movimento di atleti che praticano il cosiddetto culturismo natural, in cui non si assumono sostanze dopanti e vengono effettuati rigorosi e regolari controlli antidoping, con relative associazioni e federazioni. Ma questi atleti gareggiano in una federazione diversa e con altri criteri di giudizio. Palestra, macchine, pesi, ripetizioni, sudore, dieta. Moltissi-mi atleti si sottopongono ad allenamenti intensivi per ottene-re un potenziamento muscolare. Ma per la maggior parte di loro i muscoli sono funzionali a ottenere dei risultati, per i body builder il muscolo è il risultato stesso. Che cosa li spinge? L’insicurezza personale è l’unica chiave di lettura di un fenomeno in crescita? Tommaso Ariemma, che nel 2013 ha pubblicato il saggio Il corpo preso con filosofia, cerca di for-nire una risposta più ampia, che prende in esame «un’esperienza postmoderna, postumana e volatile del cor-po, che la società ha raggiunto nell’assoggettamento e nella moltiplicazione della corporeità attraverso nuove pratiche e nuove tecnologie». Ariemma prende atto di

come il corpo, nell’età contemporanea, abbia «smesso di diventare un peso, una tomba per l’anima» come derivato dalla tradizione cri-stiana e sia divenuto un ‘fatto’. Fatto nel senso di costruito: il corpo non è più un dato, ma un oggetto da trasformare. A partire dal 1903, data nella quale si registra la prima gara di body building, la pratica della “costruzione” e del modella-mento del corpo è filtrata a ogni livello della società, fino a sostituire una serie di pratiche ginniche volte al mantenimento della salute. Ariemma, che cita Arnold Schwarzenegger come il primo body builder “pop” della storia, sostiene che il body building è una traumatizzazione del corpo che svela una “inquietante prossimità” con la distruzione e con la decostruzione stessa: «per costruire il suo corpo, il culturista deve costantemente distruggerlo e traumatizzarlo. Dare al corpo pressioni innaturali, indolenzirlo, e aspettare che il corpo faccia il resto, e che si riprenda». Il body building è un’ipercostruzione della corporeità, che al tempo stesso la scompone, proiettando le sue parti oltre il limite della funzionalità complessiva che fin dall’età moderna ha reso pos-sibile pensare il corpo come un complesso organico. Del resto, Platone, il fondatore dell'Accademia, una palestra dove si esercitava il corpo e la mente, aveva coniato il termi-ne philosophia (amore per il sapere), partendo da philoponia (l'amore per la fatica), un concetto che aveva imparato e messo in pratica grazie al suo maestro di lotta.■

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fatto sacrifici per questo sport, per me non è un sacrificio se-guire la dieta, svegliarmi presto per allenarmi o non uscire con le amiche perché è una scelta». Non è mai stata un’imposizione. I nuovi canoni estetici femminili, che non richiedono un’eccessiva massa muscolare, fanno sì che le sostanze do-panti tradizionali non siano più efficaci. Nonostante questo il doping continua a esistere. Secondo Matilde «ognuno è libe-ro di fare ciò che vuole con il suo corpo, ma deve farlo con la testa. Noi diamo la nostra vita per questo sport, dire che è merito del doping se raggiungiamo certi risultati è follia». Impegnarsi al massimo in allenamenti estenuanti e seguire le diete ferree è l’unico modo per raggiungere questi risultati.

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Quando i bilanceri creano sex-appeal La bodybuilder Matilde Biagini racconta le cambiate abitudini delle atlete CULTURISMO

di N. F.

Per continuare a gareggiare nella mia categoria devo de-allenarmi» spiega Matilde Biagini, bodybuilder professioni-sta. I canoni estetici sono cambiati negli ultimi cinque anni. Per le atlete che come lei gareggiano nella categoria “bikini”, in cui si cerca una buona tonicità e una giusta proporzio-ne tra tutti i gruppi muscolari, è richiesta una fisicità più ma-gra e meno muscolosa. Matilde è tra le bikini più forti nel nostro Paese, ma adesso si trova davanti alla scelta di cam-biare categoria o rivoluzione il suo allenamento. Il canone estetico è quello di un fisico più raggiungibile e

In Italia per un’atleta professionista è difficile mantenersi so-lo con i soldi di uno sponsor. Con l’avvento del digitale, pe-rò, molti atleti si sono costruiti un’immagine sui social e so-no diventati dei veri e propri influencer allenando a loro vol-ta altri atleti. Su Instagram la Biagini è molto seguita e oltre ai commenti entusiastici c’è chi la insulta: «sembri un uo-mo». A lei non interessa. Continua per la sua strada facendo ciò che ama e la fa stare bene. ■

meno lontano dalla normalità. Anche per gli uomini esistono categorie, co-me quella dei Men Physique, in cui si gareggia in pantalonci-ni che coprono i quadricipiti e non ci sono pose muscolari. Matilde non vuole «de-allenarsi» cioè iniziare a diminuire il carico dei pesi e aumentare le sessioni di corsa, perché non è per una questione solo estetica che ha iniziato a praticare questo sport. «Io vorrei essere molto più muscolosa di quello che sono e amo allenarmi. Faccio anche 14 allenamenti a settimana». Ma cosa spinge una ragazza di 20 anni a intraprendere questo percorso, abbandonando la prospettiva di una carriera di modella, Matilde ha partecipato nel 2012 alle finali di Miss Italia, e di attrice? «Non credo di essere insicura. Quando fa-cevo la modella ero magrissima, ma quel corpo non mi apparteneva. Adesso sì. Amo questo sport perché mi spinge ol-tre il limite». Il corpo cambia nel tempo in base alle tue scel-te, a come ti alleni e alla tua dieta. Il fatto che sia tutto nelle tue mani è quello che l’ha fatta appassionare. «Non ho mai

4 1. Andrea presti durante un allenamento. 2. Andrea Presti a Mister Olympia 2021. Tratto da Giamie Serra 3-4. Matilde Biagini durante uno shooting. Foto robysidotiphotography

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La Guida di Zeta a cura di Silvia Stellacci

«Siamo donne, oltre le gambe c'è di più» Dal Novecento ad oggi, nel mondo occidentale i canoni estetici femminili sono cambiati ogni dieci anni. Dietro ogni cambiamento, però, si nascondono le trasformazioni sociali, la voglia di ribellarsi e di infrangere le regole

Anni Dieci e Venti Nei primi anni del XX secolo in America si diffonde il modello delle Gibson girls, dal nome dell’illustratore che per primo le ritrae, Charles Dana Gibson. La donna ideale deve avere delle pettinature vaporose, delle curve prosperose e una vita molto stretta, per ottenere la quale spesso utilizza corsetti strettissimi. Negli anni Venti, invece, il modello predominante è quello delle flapper girls. Donne trasgressive che portano capelli a caschetto e mostrano le caviglie. Condizioni di maggiore libertà e indipendenza si riflettono anche sul fisico e sullo stile, che diventa più androgino, in totale contrapposizione rispetto ai modelli del decennio precedente.

Anni Trenta e Quaranta Nel 1930 torna ad imporsi come modello un corpo abbondante e prosperoso. Le dive di Hollywood portano sul grande schermo le curve e il trucco sensuale. Greta Garbo, Mae West e Jean Harlow diventano le nuove icone a cui tutti e tutte guardano. Negli anni Quaranta la donna ideale rimane sempre molto femminile, ma, allo stesso tempo, è anche muscolosa e forte. L’aspetto riflette la 52 — Zeta


forza e la capacità delle donne di fare lavori fino a quel momento inaccessibili.

Anni Cinquanta e Sessanta Le curve e i corpi morbidi e accoglienti diventano i protagonisti assoluti degli anni Cinquanta. Marilyn Monroe rende sexy questo modello e si impone come l’icona più amata e imitata di sempre. Insieme a lei, anche Elizabeth Taylor, di una bellezza meno ostentata, Grace Kelly e Audrey Hepburn, più minute e sottili, ma dallo stile inimitabile. Gli anni Sessanta sono un momento di rottura. Il simbolo della ribellione delle nuove generazioni di donne diventa la minigonna, indossata per la prima volta dalla modella Twiggy Lawson. Il canone di bellezza si inverte e si impone un modello filiforme.

Anni Settanta e Ottanta Dagli anni Settanta crescono le libertà per tutte le donne. Le silhouette rimangono slanciate, ma si dà maggiore importanza ad un aspetto tonico e atletico. I capelli sono perlopiù lunghi e voluminosi, come quelli dell’attrice Farrah Fawcett. Negli anni Ottanta, poi, si impone per la prima volta la categoria delle top model. Le più famose di questi anni sono Elle Macpherson e Linda Evangelista, ma anche l’attrice e modella Brooke Shields. Il canone di bellezza prevede gambe lunghe, un fisico asciutto e una vita stretta.

Anni Novanta e Duemila É il momento delle super-top model. I modelli di bellezza iniziano a diversificarsi. Cindy Crawford, Naomi Campbell e Claudia Schiffer si impongono come icone di moda, ma trova grande spazio anche il canone estetico detto heroin chic. La rappresentante principale di questo modello è Kate Moss, dal fisico molto magro, quasi sottopeso. Nei primi anni 2000, invece, viene privilegiato un corpo sano, tonico e in salute.

Anni Dieci e Venti del XXI secolo Non esiste un unico ideale di bellezza. C’è il fisico androgino di Cara Delevingne o quello tonico e formoso di Emily Ratajkowsky. C’è chi ha fatto del proprio lato B abbondante un punto di forza, come Kim Kardashian e Jennifer Lopez, e ancora chi rende il proprio fisico curvy un modello di bellezza come Ashley Graham. Anche se la meta è lontana, la direzione intrapresa sembra essere quella di una maggiore inclusività, che includa modelli in cui possano rispecchiarsi le diversità di ogni singola donna. Zeta — 53


Parole e immagini di Silvia Pollice

SERIE TV

I diari di Andy Warhol Andrew Rossi Netflix 6 puntate

«Le macchine hanno meno problemi. Vorrei essere una macchina, e voi?». Quando Andy Warhol pronunciò questa frase nel 1963, forse stava già pensando di produrre un robot con le sue sembianze per l’Andy Warhol, a No-Man show, che avrebbe dovuto debuttare a Broadway nel 1981. Ma di sicuro non avrebbe mai immaginato che nel 2022 l’AI sarebbe riuscita a riprodurre la sua voce e a trasformarla nel narratore onnisciente della docuserie I diari di Andy Warhol, prodotta da Netflix. Sulle note del brano Nature boy di Nat King Cole si aprono le sei puntate che, nate dal sodalizio tra il regista Andrew Rossi e il produttore Ryan Murphy, raccontano la vita pubblica e le ossessioni private dell’artista che ha

reso le lattine di zuppa al pomodoro Campbell’s dei veri e propri oggetti di culto. Il genio di Andy Warhol rivive attraverso i filmati e le fotografie di repertorio, gli aneddoti raccontati da artisti, designer e modelle che lo hanno conosciuto, ma soprattutto grazie alle pagine dei suoi diari, nati quasi per caso nel 1976 (e pubblicati postumi nel 1989) dalle telefonate quotidiane tra Warhol e la giornalista Pat Hackett, dopo che Valerie Solanas gli aveva sparato. «Iniziammo tenendo conto delle spese della sua attività, ma poi subentrarono dei dettagli scandalosi e i sentimenti. Era il modo in cui teneva traccia della sua vita. Andy poteva semplicemente registrarsi, ma voleva un pubblico», spiega Hackett all’inizio del primo episodio della serie, intitolato Segnali di fumo.

I temi ricorrenti non sono solo i suoi ritratti. Prodotti con la tecnica della serigrafia, richiamano un’abitudine del suo passato a Pittsburgh: quella di frequentare la chiesa cristiano-bizantina insieme a sua madre. Lì, Warhol rimane affascinato dalle icone religiose bidimensionali che ne decoravano le pareti e che ispirano le sue “icone pop”: Marilyn Monroe, Liz Taylor, Jackie Kennedy, Elvis diventano santi americani e secolari che guidano la religione del capitalismo made in USA. «Diceva che altri avrebbero riempito con il colore e basta, ma lui voleva sceglierlo per ogni porzione. Era molto preciso. Se seguiva il contorno labbra gli piacevi, ma se usciva fuori dai bordi non gli stavi simpatico», commenta ridendo Jerry Hall, ex modella e amica intima di Warhol, nel secondo episodio Shadows: Andy e Jed. Ma il suo successo e l’esposizione mediatica fanno da contraltare a un aspetto che Warhol ha

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sempre tenuto nascosto, almeno in pubblico: la sua sessualità. Se negli anni ’70 era ritenuto sconveniente per un omosessuale intrattenere una relazione stabile e duratura, l’artista vive due grandi storie d’amore che non vedranno mai la luce del sole (anzi, dei riflettori). Prima con Jed Johnson, un ragazzo arrivato a New York in cerca di fortuna, che diventa infelice a causa dell’atteggiamento scostante di Warhol nei confronti del sentimento amoroso. Poi con Jon Gould, vicepresidente della Paramount Pictures e rampollo di una famiglia benestante del Massachusetts, che non ha mai avuto il coraggio di ammettere la sua omosessualità. Terrorizzato dall’idea che gli artisti possano diventare superflui, Andy Warhol è diventato immortale grazie a un segreto condiviso con il regista John Waters: «bisogna prendere ciò che la società usa contro di te ed esagerarlo per farne uno stile».


Data Lab

Luiss Data Lab Centro di ricerca specializzato in social media, data science, digital humanities, intelligenza artificiale, narrativa digitale e lotta alla disinformazione Partners: ZetaLuiss, Media Futures, Catchy, CNR, Commissione Europea, Soma, T6 Ecosystems, Harvard Kennedy School

Reporter Nuovo Zeta — 55


Faculty: Roberto Saviano, Francesca Mannocchi, Bill Emmott, Jeremy Caplan, Sree Sreenivasan, Moises Naim, Virginia Stagni, Gianni Riotta

giornalismo.luiss.it @Zeta_Luiss

zetaluiss.it Zetaluiss

@zetaluiss


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