Periodico della Scuola Superiore di Giornalismo “Massimo Baldini” Numero 3 Maggio 2021
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COVERSTORY
Travel le nuove tendenze 16
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SPECIALE
Trip Lawrence Osborne il viaggio come cambiamento 16 44
La scoperta di Gerace paradiso d’Europa
Faculty: Roberto Saviano, Francesca Mannocchi, Bill Emmott, Jeremy Caplan, Sree Sreenivasan, Moises Naim, Jason Horowitz, Gianni Riotta
La parola Green Pass di Silvio Puccio
Periodico della Scuola Superiore di Giornalismo “Massimo Baldini”
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Numero 4 Giugno 2021
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Cover story: Travel Viaggiare, ma come? di Francesco Stati
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di Gian Marco Passerini
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di Fadi Musa
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di Camillo Barone
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Il lusso del glamping Idee di viaggio tra bici e cammini Autostop, il futuro è digitale
Trip
Oltre le porte della coscienza di Chiara Sgreccia
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di Simone Di Gregorio
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di Erika Antonelli
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Un viaggio mentale appesi a una liana Nel Paese delle Meraviglie (o in quello degli orrori)
Photogallery
Buskerville, giù dal palco di Simone Di Gregorio
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Esteri
La rotta dei migranti dimenticati di Gabriele Bartoloni
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di Angelica Migliorisi
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di Elisabetta Amato e Martina Coscetta
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Erdogan, il sultano che piace Palestina e Israele con gli occhi della Generazione Z
Sport
Bianca Caruso, in vela verso Tokyo di Livia Paccarié
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di Jacopo Vergari
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di Michele Antonelli
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Marco Gubert, il cuoco che corre nella natura Fat&Football, il calcio sulla bilancia
Cultura
Lawrence Osborne, il viaggio come cambiamento di Mattia Giusto
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di Lorenzo Ottaviani
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di Claudia Chieppa e Valerio Lento
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di Laura Miraglia
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di Livia Paccarié
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Paul Gauguin, viaggiatore irrequieto nei colori del mondo “La strada”, canzone per dirsi addio Quattro passi nel turismo oscuro Gerace, paradiso d’Europa
Cibo
Alex Atala, l’antropologo in cucina di Giuliana Ricozzi
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di Natasha Caragnano
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di Carlo Ferraioli
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La cucina etnica a Roma Il commensale che tutti vorremmo
La Guida di Zeta
Tre personaggi in cerca di un drink a cura di Mattia Giusto
I Saluti
a cura della Redazione
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Il viaggiatore Il viaggiatore sa che per partire all’avventura non basta salire su un treno o imbarcarsi su una nave. Il viaggio è una sensazione. È sentire di vivere il momento, di trovarsi proprio dove si sta, tra infiniti mondi e innumerevoli occasioni. Il viaggio è star sospesi nell’irripetibile bellezza del presente, consapevoli che, come la strada sotto le ruote, tutto è destinato a passare. Non comincia mai la vita di chi fugge l’attimo, e non conosce la parola “fine” chi vive “qui ed ora”. Come il fiume che scorre di acqua sempre fresca, sempre nuova, la vita del viaggiatore non ristagna nell’ansia del domani, non resta intrappolata negli anfratti delle paure. E non perché egli sia speciale ma per il fatto di aver compreso prima, e accettato poi, quelle leggi di natura cui l’uomo tenta sempre di sottrarsi. Una su tutte: niente ci appartiene. Se non siamo padroni di nulla, eccetto, in parte, del nostro destino, non abbiamo niente da trattenere ad ogni costo. Gli amici, l’amore, il mare e le stelle, il viaggiatore
li fa propri senza mai possederli. Non appone etichette, non aggredisce e non difende alcunché. Solo, percorre una strada: la sua. E chi gli si affianca lungo il cammino diventa parte della storia, sia che resti una notte, sia che rimanga una vita. Il viaggiatore non teme la fine, perché sa che non c’è nulla di straordinario nell’addio. Straordinario è aprire il cuore a un altro avventuriero, conoscere e condividere. Straordinario è amare senza paura del giudizio, senza il timore di perdere sé stessi. Il viaggiatore affonda le radici nella propria volontà di vivere il presente, di rispettare le scelte altrui con lo stesso coraggio con cui crede nelle proprie. E se le strade si dividono, accetta di portare con sé il dolore come compagno di viaggio. Ha imparato qualcosa da chi lascia ogni certezza per mettersi in cammino, e custodisce questo come il dono più sacro. Ogni fine ha un nuovo inizio, il viaggiatore lo sa. E ad ogni traguardo raggiunto ripete a sé stesso: «Sono pronto per partire».
ZETA Periodico della Scuola Superiore di Giornalismo “Massimo Baldini” supplemento di Reporter Nuovo Registrazione Reg tribunale di Roma n. 15/08 del 21/01/2008
Direttore responsabile Gianni Riotta Condirettori Giorgio Casadio Alberto Flores d’Arcais
Redazione Viale Pola, 12 – 00198 Roma
A cura di Mattia Giusto, Francesco Stati, Livia Paccarié, Chiara Sgreccia
Contatti 0685225358 giornalismo@luiss.it
Valerio Lento
Stampa Centro riproduzione dell’Università
Zeta — 3
La parola a cura di Enrico Dalcastagné
Viaggio s. m. [dal provenz. viatge, fr. ant. veiage, che è il lat. viatĭcum «provvista per il viaggio» 1. L’andare da un luogo a un altro, per lo più distante, con un mezzo di trasporto. 2. Pratica devozionale consistente nel recarsi in un luogo sacro. 3. (fig., gerg.) Lo stato di obnubilazione e allucinazione di chi è sotto l’azione di sostanze stupefacenti. (Treccani)
VIAGGIO La citazione «Il viaggio non finisce mai. Solo i viaggiatori finiscono. E anche loro possono prolungarsi in memoria, in ricordo, in narrazione. La fine di un viaggio è solo l’inizio di un altro» José Saramago
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Immaginario
Culinario
Mentale
Dall’epica Odissea di Omero ai romanzi scientifici di Jules Verne, la letteratura di viaggio ha sempre affascinato scrittori e artisti. La cornice del racconto serve a rappresentare un’utopia o un’allegoria religiosa, viene impiegata a scopo satirico o divulgativo. O anche di semplice intrattenimento, per destare stupore e meraviglia con una storia avventurosa. Cos’è la Divina Commedia, se non un viaggio allegorico nell’oltretomba? Dal Viaggio in Occidente di Wú Chéng’ēn fino ai Viaggi di Gulliver di Jonathan Swift, lo spostamento fittizio verso luoghi mai visti stimola la fantasia e dà voce ai desideri e alle paure degli uomini. E può avere anche un valore politico: quando la libertà d’espressione viene negata, è tra le pieghe di un racconto fantastico che si cela l’idea di un mondo diverso.
Dai mercati locali ai ristoranti stellati, passando per gli itinerari del vino e le cantine più belle, un viaggio enogastronomico è l’ideale per conoscere una nuova meta. Il turismo culinario non è più una novità e sta crescendo esponenzialmente, in Italia e non solo, I vantaggi sono enormi: si unisce l’esperienza del viaggio alla scoperta a tavola, non ci si limita a foto e panorami ma si esplorano anche i gusti e gli odori dei posti visitati. Se si fa attenzione agli ingredienti e alla loro provenienza, il cibo racconta molto sulla cultura, sullo stile di vita di un paese e sulle tradizioni che ne derivano.
La più celebre è l’Lsd, ma ci sono anche i funghi allucinogeni e l’ecstasy. E poi l’ayahuasca, una pianta amazzonica con potenti effetti allucinogeni. Le droghe psichedeliche («che rivelano la mente») provocano cambiamenti nella visione di forme e colori e distorsioni illusorie dello spazio e del tempo. In molti casi una diversa percezione di sé, a livello fisico e mentale. A seconda delle sensazioni si distingue tra il bad trip, un viaggio spiacevole o perturbante, e il good trip, un’esperienza positiva o esaltante. Queste sostanze psicoattive, perlopiù illegali, sono ora riscoperte dalla comunità scientifica, che ha ripreso a studiarne le proprietà terapeutiche; i cervelloni della Silicon Valley ne fanno ampio uso, Netflix ne parla in una docuserie con Gwyneth Paltrow. Si va verso uno sdoganamento della psichedelia?
O
Studio
Quasi mai riesce nell’obiettivo, ma spesso resta nella memoria dei ragazzi. Pensata per far imparare la lingua del posto, la vacanza studio è un viaggio all’estero riservato a bambini e adolescenti. Dura tra le 2 e le 4 settimane e prevede un ricco programma che alterna ore di lezione e attività ludiche, dalle escursioni ai musei: è anche un modo per fare nuove amicizie e conoscere culture diverse. Tra le mete preferite dai giovani italiani ci sono paesi anglofoni come Inghilterra, Irlanda e Malta. Per un soggiorno in una località europea i prezzi si aggirano sui 2.000 euro.
Zeta — 5
Questione di
Green Pass di Silvio Puccio
Ha diritto al green pass dal 1 luglio chi è stato vaccinato con entrambe le dosi, chi è risultato negativo ad un tampone molecolare o un antigenico rapido effettuato entro le 48 ore, chi è guarito e chi, dopo il tampone negativo, è uscito dall’isolamento VIAGGIARE
► ► VACCINATI - Il Pass sarà valido a partire da quattordici giorni dopo l'ultima dose di vaccino antiCovid. A partire da quel giorno, le persone pienamente vaccinate, cioè con due dosi per AstraZeneca, Pfizer/ BioNTech e Moderna e con una dose per Janssen (J&J), che detengono il certificato, dovrebbero essere esentate, in viaggio, da test e quarantene. Lo stesso deve valere per le persone che sono guarite e che hanno ricevuto una sola dose di vaccino, considerata sufficiente per essere protetti dalla malattia. Un Paese è libero di scegliere di riconoscere e rilasciare il Pass anche dopo la prima dose, ma ogni Stato può decidere di comportarsi come crede, in questo caso: quindi, per esempio, l'Italia può rilasciare il Pass dopo la prima dose, ma la Danimarca è libera di non riconoscerlo e di chiedere un test.
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UE Il green pass potrà essere scaricato dal sito web tematico e attraverso le app 'Immuni' e 'Io', oltre che dal fascicolo sanitario elettronico
La validità L'entrata in vigore del Green Pass è prevista per il 1° luglio 2021. Il sistema del certificato digitale europeo per il Covid resterà in vigore 12 mesi
Vaccinati all'estero Gli italiani vaccinati all'estero con vaccini riconosciuti in Italia possono ottenere il Green pass chiedendo che sia validata la certificazione ottenuta all'estero. Lo si potrà fare alla frontiera o nelle ambasciate e consolati in Italia
Revoca Potrà essere revocato? Certamente: se durante la validità ci ammaliamo di Covid, il Green pass verrà subito revocato
Se uno Stato membro accetta una prova di vaccinazione per rimuovere le restrizioni all'interno dopo la prima dose, allora deve accettare anche i pass Ue per i vaccini, alle stesse condizioni. Il pass vale per i cittadini Ue vaccinati con vaccini autorizzati dall'Ema; gli Stati possono decidere di riconoscere altri vaccini, autorizzati a livello nazionale e non a livello Ue (come il siero russo Sputnik in Ungheria). ► GUARITI - Le persone guarite dal Covid-19 dovrebbero essere esentate da test e/o quarantene nei 180 giorni successivi al test Pcr positivo, che attesta l'avvenuta infezione (la validità del certificato è a partire dall'undicesimo giorno dopo il test, una volta terminato il periodo di contagiosità). ► TEST - Per chi non è vaccinato né guarito, allora resta il test, che il pass certifica e che viene così riconosciuto anche all'estero, a differenza di quanto accade oggi. Per i test viene proposto un periodo di validità standard (oggi ogni Paese stabilisce la validità autonomamente): per i test Pcr o molecolari la validità è di 72 ore, mentre per quelli rapidi antigenici è di 48 ore. Quelli rapidi, considerati sempre più affidabili, vengono raccomandati, ma gli Stati sono liberi di scegliere se accettarli o no ai fini del Pass.■ Zeta — 7
Coverstory
Viaggiare, ma come? Italiani tra paure e turismo domestico I turisti scelgono mete flessibili e vicino casa. La pandemia preoccupa operatori e viaggiatori, green pass e soluzioni alternative una possibile risposta TREND
di Francesco Stati
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Chiusi in casa a fasi alterne per oltre un anno, gli italiani sono impazienti di andare in vacanza. Le limitazioni, però, non sono del tutto sparite, così come la paura di una nuova ondata di contagi o di spostarsi verso mete ancora colpite dal covid-19. Nascono così nuove tendenze di turismo, in nome della flessibilità, della prossimità e della sicurezza.
tura peggiori di quelli del 2020». Nonostante le vaccinazioni, il settore è ancora in difficoltà: «La ripresa è più lenta di quanto non ci aspettassimo – ha dichiarato Bocca a The Italian Times – la curva, insomma, torna a salire, ma con meno slancio del previsto. Siamo partiti tardi, ma speriamo di poter recuperare anche in settembre, ottobre e novembre».
Gli operatori tradizionali del settore dell’ospitalità turistica, come alberghi e villaggi vacanze, hanno paura del futuro. È l’opinione del presidente di Federalberghi, Bernabò Bocca, che prevede un ritorno dei flussi turistici a livelli prepandemia solo nel 2023 e afferma: «Se non ci sarà un cambio di prospettiva in tempi brevi i risultati del 2021 nel settore del turismo si potranno rivelare addirit-
Più ottimiste le piattaforme di prenotazione online e di hospitality tra privati, come Booking e AirBnb. Secondo Alberto Yates, Regional Manager Italia di booking.com, intervistato da HuffPost, «Il Covid ha influenzato i viaggi e continuerà a farlo nei prossimi mesi e anni. Ma si inizia a vedere la luce in fondo al tunnel: la gente vuole tornare a esplorare, tuttavia consigliamo di prenotare
opzioni flessibili. Da alcune precedenti ricerche emerge che circa la metà di loro [i turisti, ndr] ritiene indispensabile la scelta di soluzioni rimborsabili. Si cercano sistemazioni alternative, è cresciuto l’interesse per case e appartamenti». Ad aumentare, anche la richiesta di partire con gli animali: «In termini di preferenze dei consumatori – prosegue Yates – stiamo notando alcune tendenze. Le persone vogliono viaggiare con animali domestici: dall’entrata in vigore delle restrizioni sui viaggi, l’uso della preferenza “petfriendly” di booking.com è raddoppiato». Una scelta frequente per chi viaggia via terra, ma quasi impossibile per chi preferisce volare: il forte calo del numero di voli turistici e l’impiego dello spazio in stiva (dove di solito alloggiano gabbie e trasportini) per l’attrezzatura sanitaria ha fatto incrementare il costo dei biglietti per gli amici a quattro zampe, diminuendo anche i posti disponibili per loro. Proprio di sistemazioni alternative si occupa dalla sua nascita AirBnb, che a fine 2020 ha pubblicato i dati di una ricerca commissionata dall’azienda a ClearPath Strategies sulle tendenze turistiche del 2021. Nelle sue rilevazioni, AirBnb ha ipotizzato come la diffusione dello smartworking e del lavoro agile potrebbero offrire l’opportunità di viaggiare anche al di fuori delle ferie. Magari
«Gran parte dei viaggiatori è a favore del passaporto vaccinale: il 57% di quelli italiani si dice disposto a viaggiare solo a condizione di dimostrare l’avvenuta vaccinazione» Alberto Yates, Regional Manager Italia di booking.com
«Il Green Pass di fatto non serve ed è sconveniente: potrebbe creare confusione e avvantaggiare località che non lo utilizzano» Ivan De Beni, presidente di Federalberghi Veneto
portandosi il computer in spiaggia per qualche ora per poi, una volta staccato dal lavoro, tuffarsi subito in acqua. Ad attrarre maggiormente i turisti, sempre secondo l’indagine, le mete vicino casa: ben il 62 per cento degli intervistati ha dichiarato di preferire una destinazione nazionale rispetto a una meta più esotica. Un dato caratterizzato dalla paura di nuove restrizioni e contagi, oltre che da eventuali e imprevisti cambiamenti delle regole durante i soggiorni. Un altro dato che emerge dalle rilevazioni commissionate da AirBnb è l’aumento del numero di prenotazioni per tre o più persone, segno dell’intenzione dei viaggiatori di organizzare vacanze in gruppi più ampi. È il fenomeno del Pod Travel (viaggio in capsula): "Sì, viaggiare", ma con amici stretti o familiari. Uno strumento che potrebbe favorire la ripartenza del settore turistico potrebbe essere il Green Pass (o passaporto vaccinale). Si tratta di una certificazione che attesta l’avvenuta vaccinazione dal covid-19, l’avvenuta guarigione dal virus o l’aver ricevuto esito negativo da un tampone e viene rilasciato dall’Italia per agevolare gli spostamenti dei cittadini. In attesa che venga soppiantato dal Digital Covid Certificate, che sarà in vigore dal 1° luglio nell'Unione Europea, questo certificato permette gli spostamenti regionali in caso di colore arancione o rosso, oltre alla possibilità di presenziare a cerimonie di nozze. Non solo: in futuro, è possibile possa essere richiesto per viaggiare all’estero o per presenziare a eventi con alta affluenza di pubblico o, ancora, come requisito ulteriore per pernottare da alcuni operatori domestici. Se per Yates lo strumento può essere utile per rassicurare i turisti, per il direttore del Consorzio turistico Garda Lombardia, Marco Girardi, sentito da Brescia Oggi, «Se obbligatorio, potrebbe creare problemi e discriminazioni». Gli fa eco il presidente di Federalberghi Garda Veneto, Ivan De Beni: «Il Green Pass di fatto non serve ed è sconveniente: potrebbe creare confusione e avvantaggiare località che non lo utilizzano». In compagnia. Con gli animali. Meglio se in case-vacanza o in soluzioni flessibili. La pandemia ha lasciato il segno sulle abitudini dei viaggiatori, ma oltre la crisi potrebbero aprirsi nuove opportunità. Se tra un anno o due tornerà tutto come prima non è dato saperlo. Di certo, grazie ai vaccini, l’estate sembrerà normale, almeno per qualche settimana. ■ Zeta — 9
Coverstory
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Il lusso del glamping In una bolla sospesa in aria, sull’acqua o in una roulotte con tutti i comfort: ultima frontiera del campeggio ALTERNATIVE
di Gian Marco Passerini
Comprare un biglietto, organizzarsi con gli amici e salire su un aereo. A parte le poche persone fortunate che hanno potuto farlo durante la pandemia, sono gesti che da parecchio non ci appartengono più. Tra le tante cose che sono cambiate e sono state rivoluzionate dal virus c’è il concetto di viaggio e, anche le parole che lo descrivono e che lo rappresentano, si sono modificate. Sono nate nuove pratiche, forme e stili: il viaggio si è dovuto reinventare.
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Una delle nuove frontiere è il glamping. Una parola che nasce dalla fusione di “glamour” e “camping” e descrive la nuova modalità di vivere il tradizionale campeggio. Sa unire l’informalità tipica di questa attività con l’eleganza e la cura di ogni singolo dettaglio permettendo di dormire in tenda, ma all’interno di un resort di lusso. Spesso si tratta di destinazioni sconosciute e di costruzioni che sorgono in luoghi abbandonati con l’obiettivo di valorizzarli. Un'altra caratteristica fondamentale è l’eco sostenibilità di queste strutture che vengono costruite per rispettare la natura nella quali sono immerse.
Glamping, termine che nasce dalla fusione di “glamour” e “camping” e descrive la nuova modalità di vivere il tradizionale campeggio unendo l’informalità all’eleganza In piena pandemia, ci siamo sforzati di trovare soluzioni e metodi alternativi per viaggiare e il glamping sembra proprio uno di questi perché è in grado di favorire il distanziamento sociale e permette di ospitare poche persone all’aria aperta. Le statistiche indicano che il settore crescerà fino al 14% nei prossimi sette anni. Le strutture nella quali è possibile soggiornare sono varie e in Italia nascono intorno al 2010 prendendo spunto da esperienze di viaggio lontane. Emanuela Padoan, la prima ideatrice del glamping nel nostro Paese, ha raccontato a Vanity Fair come nella sua struttura abbia «solamente riscoperto un modo di vivere la natura che è sempre esistito». Tende, igloo, carovan, case sugli alberi e cupole sono alcune delle tipologie che il glamping offre ai propri appassionati: strutture che si sistemano in armonia con la natura e il luogo nel quale sorgono. Una delle forme più ricercate è la Yurta, una tenda luxury che prende spunto da un’abitazione mobile adottata da mol-
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ti popoli nomadi dell’Asia nell’arco della storia. Il vero punto di forza del glamping è però quello di fornire un’alternativa al campeggio tradizionale con un tocco di glamour in più. Si può soggiornare anche in strutture più curiose come le bolle trasparenti gonfiate ad aria che ricordano un’astronave e che spesso sono sospese in aria. Lo stesso accade anche per la casa sugli alberi: un ricordo d’infanzia a cui molti sono legati. L’ultima volta che ci siamo saliti eravamo bambini, ma ora, grazie al glamping, è possibile rievocare il passato dormendo sospeso tra gli alberi delle Dolomiti.
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ritorno alla vita alla quale eravamo abituati sembra più vicina. Si potrà senza dubbio viaggiare anche nei modi più tradizionali, ma di certo il glamping ci offre una nuova realtà permettendoci di immergerci nei boschi, nelle spiagge o negli angoli più sconosciuti. Vivremo la natura come mai prima. ■
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Una versione curiosa e più intima sono i Pods: piccole soluzioni abitative ecosostenibili che spesso contengono solo una stanza da letto e che sono perfette per un soggiorno di coppia. Per chi invece ha la necessità di più spazio il glamping offre gli Air Lodge che si sviluppano su due piani e che, anche se sono fissi, ricordano la classica tenda da campeggio con l’aggiunta di ogni comfort necessario al cliente. Il modello vintage del glamping arriva però dagli Stati Uniti e nelle nostre memorie è collegata ai film e ai video musicali delle star americane. Si tratta dell’Airstream: roulotte in alluminio dalla forma arrotondata. Nascono negli anni ’30 dalla voglia dell’azienda di creare rimorchi da viaggio leggeri posizionabili ovunque si voglia. L’ultima frontiera innovativa del glamping arriva da Caserta ed è quella di dormire in delle tende a bordo lago o in lodge galleggianti situate nell’oasi naturale Laghi Nabi. L’estate che sta per arrivare sarà particolare. Non abbiamo ancora lasciato alle spalle la pandemia, ma grazie ai vaccini il
7 1. Nel cuore del Chianti i viaggiatori possono ricercare la loro vacanza vintage nel resort Orlando in Chianti 2. Sul mare della Toscana il Glamping Capalbio permette di dormire nel pieno della natura incontaminata 3-7. Nell'Atmosfera Bubble Glamping vicino a Potenza puoi dormire in delle sfere ecosostenibili adatte a tutte le stagioni 4. L'oasi naturale Laghi Nabi nasce dall'opera di bonifica di ex cave di sabbia a Castel Volturno 5. La tradizione casa sull'albero ricreata dal Caravan Park Sexten a Sesto in Alto Adige 6. Nel cuore dell’autentica Alta Langa, Gaia's Spheres permette di trascorrere un soggiorno a stretto contatto con la natura
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Coverstory
A piedi o in bici in viaggio con lo zaino Anche la ciclabile della Valtellina offre un ottimo panorama alpino. Sono 144 km che vanno dalla città di Bormio a Colico, costeggiando il fiume Adda e attraversando il parco nazionale dello Stelvio. Il tragitto passa per i comuni di Grosio, Tirano, Sondrio e Morbegno, dove è possibile sostare o anche interrompere il giro. Oltre alle alte vette delle alpi e le rinfrescanti acque del fiume, lungo il percorso è possibile vedere il castello Visconti Venosta, il santuario Madonna della Sassella, il Forte Montecchio Nord e il Forte Fuentes. Anche in questo caso il ritorno è assicurato dalla ferrovia.
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La San Candido - Lienz, la ciclabile dei fiori tra Genova e Ventimiglia, ma anche Cammini come la via Francigena, la Via degli Abati e la grande traversata delle Alpi, la guida di Zeta ai viaggisportivi, a piedi o in bici ATTIVITÀ
di Fadi Musa 12 — Zeta
La bicicletta quest’anno spegne 230 candeline, e malgrado l’età riesce ancora a percorrere lunghe traversate. Tutto dipende da chi la inforca e dal tipo di percorso. I 44 Km che vanno dal comune di San Candido alla città austriaca Lienz, sono alla portata di tutti coloro che hanno un po' di fiato da spendere. Lungo il percorso vi sono punti di ristoro e il sentiero è ben segnalato (non c’è rischio di perdersi). Se non si ha una bicicletta, nessun problema, all’inizio del percorso è possibile affittarla. Le alpi sovrastano il sentiero e il panorama, tra prati, boschi e le piccole baite, è meraviglioso. Il tempo di percorrenza è di 4/6 ore, e il ritorno è assicurato dalla presenza della ferrovia. Questo percorso regala un modo originale per attraversare il confine.
Se si preferisce il paesaggio marittimo allora si consiglia la ciclabile dei fiori. Situato tra Genova e Ventimiglia, il percorso va a sostituire la ferrovia (Ospedalotti - San Lorenzo) dismessa nel 2001. Sono 20 chilometri di costa mediterranea, costellati da piccoli borghi liguri dove poter sostare per riprendere fiato e mangiare l’ottimo pesto fatto in casa. Tra le città che si incontrano lungo il viaggio vi è Arma di Taggia e la famosa Sanremo. Nel periodo estivo è anche possibile fermarsi per farsi un bel tuffo nelle incredibili acque del Mar Ligure, le cui spiagge sono state decorate con ben 32 bandiere blu, riconoscimento che va a premiare le coste più limpide e organizzate. Il Grab è un percorso ciclistico di 43 chilometri situato all’interno della città di Roma. Pensato allo scopo di scoraggiare l’utilizzo dell’automobile, è oggi un ottimo modo per visitare la capitale in maniera poco convenzionale. Il percorso è circolare, proprio come il noto Gra (Grande raccordo anulare), e passa per i grandi parchi romani (villa borghese, Villa Ada e Parco Appia Antica), zone note (come il Colosseo), altre meno famose (quartiere di Pietralata e il Quadraro) Al sud c’è una grande ciclabile che si sviluppa lungo le condotte storiche dell’acquedotto. Sono 500 chilometri che vanno dalle Sorgenti della Sanità Caposele in Campania, al Santuario di Santa Maria di Leuca, nell’estrema punta della Puglia, passando per la Basilicata. Si tratta di un viaggio verso il profondo sud, costeggiando l’opera idraulica più
imponente del nostro paese. Il tempo di percorrenza è di 7/9 giorni, ma anche solo percorrerne una parte ne vale sicuramente la pena. Questi sono solo alcune delle ciclabili che l’Italia offre. Quindi scegliete il percorso che preferite e con Bicycle Race dei Queen in sottofondo partite con la vostra vecchia e fedele amica per un viaggio all’insegna dello sport e della natura Per molti la pausa estiva è il momento migliore per fare un bilancio dell’anno lavorativo appena passato e capire come muoversi nei mesi che verranno, e non c’è niente di meglio che una bella passeggiata per schiarirsi le idee. Visto che in estate il tempo a disposizione si dilata, allora si può pensare a un percorso più lungo del solito. Sono 190 i chilometri di Via degli Abati, un percorso che ha origini ben più antiche della più famosa Francigena. Già utilizzata nel VII secolo, la Via degli Abati si sviluppa nell’appenino tosco emiliano e passa per i comuni di Pavia, Broni, Castana, Canevino, Pometo, Caminata, Romagnese, Bobbio, Coli, Farini, Bardi, Borgo Val di Taro, Pontremoli. Il tragitto è solo in minima parte sull’asfalto, tutto il resto è formato da sentieri, mulattiere e carrarecce. Durante la “passeggiata” è possibile provare la deliziosa cucina del posto, e soggiornare nei pittoreschi borghi che si incontrano. Il Tratturo Magno è un percorso creato dal calpestio delle greggi. Si sviluppa su 244 chilometri su erba, pietra e terra
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4 1. La famosa Ciclabile dei Fiori che si snoda lungo la costa ligure tra Genova e Ventimiglia 2. Il GRAB, il Grande Raccordo Anulare delle Bici, a Roma, qui nei pressi dell'Appia Antica 3. Trekkers lungo la Via Francigena 4. La Grande traversata delle Alpi, per chi ama i percorsi più impegnativi
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battuta e copre tre regioni: Abruzzo, Molise e Puglia. Si parte dall’Aquila e si arriva a Foggia. Strada facendo si costeggia il mar adriatico e si passa per i comuni di Bazzano, San Gregorio, Poggio Picenze, Capestrano, Lanciano e Vasto. Percorrere il Tratturo Magno significa immedesimarsi nella figura dell’allevatore, ed entrare nella poesia di D’Annunzio, “I Pastori”. “È tempo di migrare. Ora in terra d'Abruzzi i miei pastori lascian gli stazzi e vanno verso il mare: scendono all'Adriatico selvaggio che verde è come i pascoli dei monti”. La Grande Traversata delle Alpi è il cammino perfetto per chi è allenato e ama i panorami mozzafiato. Si tratta di un’escursione di circa 1000 chilometri che si suddivide in 65 tappe ognuna raggiungibile in cinque o otto ore di marcia. Il percorso è formato da mulattiere, sentieri e valichi. Mediante questa traversata ci si immerge nel paesaggio alpino piemontese con la sua fauna, le sue vette e il suo clima fresco, ottimo per sfuggire all’afa cittadina. Storia, natura, cultura ed enogastronomia. Quattro parole che riassumono la
Via degli Dei, 130 chilometri che collegano Bologna a Firenze, attraversando l’appennino tosco-emiliano. Camminando si entra nei comuni di Monte Adone, Passo della Futa, San Piero a Sieve e Fiesole, si può osservare l’acquedotto romano, l’oasi di San Gherardo, il Ponte di Vizzano, 2 il giardino botanico Nova Arbora, il colombario di Monte del Frate, il convento Bosco ai Frati, tra i più antichi della Toscana, il Castello del Trebbio, amato da Lorenzo il Magnifico ed abitato da Amerigo Vespucci. La Via di Francesco è un percorso di 245 chilometri che attraversa l’Umbria e ripercorre la vita di San Francesco. Le città che si incontrano lungo il tragitto sono La Verna, Greccio e ovviamente Assisi. Può essere visto come un vero e proprio pellegrinaggio spirituale, ma anche, per chi non è credente, un tuffo nella storia, nella natura e nella cucina umbra. Anche qui non sono presenti tutti i cammini presenti in Italia, quindi se nessuno di questi vi ha ispirato prendete la cartina, scegliete quello che fa per voi e con delle buone scarpe da ginnastica ai piedi partite e buona passeggiata!■ Zeta — 13
Coverstory
Autostop, il futuro è digitale on the road
Il covid non ha fermato il cambiamento in atto da 10 anni sull’organizzazione dei viaggi tra i più giovani. E la nostalgia dell’autostop si è trasformata in qualcosa di più smart MOBILITÀ
di Camillo Barone
«L’autostop è il ricordo per eccellenza dei miei anni più trasgressivi, in un periodo in cui trasgredire significava partire per l’estero senza un soldo in tasca, solo per affermare un distacco generazionale con la mentalità dei miei genitori». A parlare è Carmelo, 81 anni, una vita da dirigente affermato in una società di costruzioni bergamasca, immigrato all’età di 19 anni da un piccolo borgo nella provincia di Messina. «Non avendo i soldi per il treno per raggiungere la Lombardia, dove già lavoravano alcuni cugini in cerca di fortuna, l’autostop è stata la mia unica risorsa per arrivare a Bergamo in una settimana, fermandomi dove potevo per le notti e rincorrendo le auto più clementi sulle strade statali».
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Il lavoro come operaio, l’innamoramento con una studentessa universitaria di Lettere che lo convince ad iscriversi ad Ingegneria a Milano, la borsa di studio e il primo lavoro in società, rimasta poi sempre la stessa ma cresciuta nei decenni: la vita di Carmelo ha il sapore delle strade polverose dell’Italia del boom economico e l’inquietudine degli anni delle opportunità del riscatto sociale. «Ho ripreso in mano i miei diari dei primi anni tra Bergamo e Milano quando eravamo in pieno primo lockdown e l’ansia di morire premeva sulla necessità di ricordare tutto quello che è stato», spiega Carmelo, già vedovo da quattro anni. «Quando il mio stipendio da operaio non bastava, tutti i viaggi fuori Milano che ho fatto in solitudine o con quella che era la mia fidanzata cominciavano e finivano con gli autostop. Fare altrimenti sarebbe stato impossibile». Alzando il pollice sul ciglio della strada Carmelo è arrivato a Siviglia, Parigi, Bruxelles, Vienna, Monaco, scampando pericoli e costruendo amicizie che ha portato avanti fin quando ha potuto, in anni in cui viaggiare anche solo in Euro-
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pa era complicato per motivi economici e burocratici. «Non sapendo nemmeno di essere vicino al confine con l’Ungheria nel 1963, salii nella macchina di due ragazzi che ho scoperto mesi dopo far parte dei servizi segreti americani. Avevano bisogno di un compagno di viaggio che mascherasse il loro entrare in terra sovietica, ed io ero perfetto, ma non mi accorsi di nulla. Uno di loro è morto, con l’altro ci siamo rivisti 20 anni fa in un viaggio sulla costa Est degli Stati Uniti». Più che un ricevere dei favori attraverso i passaggi, Carmelo ha interpretato l’autostop sempre come un “baratto umano”: «Il più delle volte mi sono ritrovato a riparare automobili quasi in panne in strade calde e improbabili, o ad arricchire una compagnia di amici o fidanzati che mal si sopportavano a vicenda in viaggio. E in ogni caso ho sempre e comunque dato più che ricevuto, senza spendere il poco che avevo». Discorsi inimmaginabili per i viaggiatori di oggi, già prima che la pandemia di coronavirus impedisse gli spostamenti tra paesi, soprattutto se a viaggiare sono i più giovani. Non esistono dati che quantifichino il numero degli autostop eseguiti ogni anno, ma secondo Alessandro Tombari, 43 anni, operatore turistico a Milano, «quello dell’autostop è una modalità di viaggio che non attrae più, e soprattutto non conviene». Non solo perché mettersi in cammino senza sapere se e quando qualcuno potrà fidarsi di te è diventato sempre più complesso, ma perché a prezzo stracciato è possibile muoversi di città in città in tutta Europa grazie ad app e servizi digitali sbarcati sugli smartphone dieci anni fa.
una persona di buona compagnia e che non crea problemi. «Persino l’interrail ha perso il suo fascino che ha esercitato fino ai primi anni 2000 nelle estati del diploma di Maturità. I viaggi dei neo-18enni sono quasi tutti su aereo e Bla Bla Car una volta arrivati a destinazione, quando si vuole scoprire l’entroterra di un paese europeo», dice Tombari, aggiungendo che con l’arrivo del covid «sono esplosi i gruppi organizzati di viaggiatori indipendenti su Insta-
gram. Persone che non si conoscono e che vogliono partire in solitaria ma senza rinunciare alla forza del gruppo hanno trovato la loro strada in queste nuove modalità organizzative». Tutto questo fa pensare che anche sul fronte del viaggio i social network hanno in mano il futuro dei nuovi modelli di business degli spostamenti. E chissà se il signor Carmelo avrebbe potuto immaginare che alzare il pollice e chiedere un passaggio sarebbe un giorno passato di moda.■
Tra le app più scaricate che offrono questi servizi a pendolari e viaggiatori di ogni tipo c’è la francese Bla Bla Car: dalla sua nascita ad oggi ha registrato più di 8 milioni di utenti per oltre 4 miliardi e mezzo di chilometri percorsi. «Viaggiare oltreconfine se non si sceglie di percorrere distanze troppo lunghe con Bla Bla Car è diventato un risparmio assoluto. Il tempo di organizzazione è minimo, e a guadagnarci sono entrambe le parti tra chi mette a disposizione una macchina e chi si lascia condurre nella massima fiducia». Per ogni conducente compare un profilo con una scheda che informa sul numero delle “ospitate” già effettuate, con tanto di votazione e recensione sullo stile del comportamento alla guida. Stesso discorso per chi si fa ospitare con questo autostop digitale: è necessario dimostrare di poter pagare il prezzo stracciato del viaggio e soprattutto di essere Zeta — 15
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Aldous Huxley, scrittore e filosofo inglese, in The Doors of Perception, il saggio pubblicato nel 1954 nel quale descrive la sua esperienza con l’uso dell’allucinogeno. L’opera è divisa in due parti: il ricordo e l’analisi. Era una domenica di maggio e lo psichiatra Humphry Osmond, conosciuto per aver utilizzato per la prima volta la parola psichedelico, andò a casa di Huxley e gli somministrò 400 gr di mescalina. L’esperienza durò 8 ore, lo psichiatra e la moglie di Huxley, Maria, rimasero con lui durante il viaggio: da casa fino al drugstore, sette blocks - isolati - più avanti. Poi di nuovo a casa e infine lungo le colline sopra Los Angeles.
Oltre le porte della coscienza The Doors of Perception di Huxley ha ispirato la cultura psichedelica degli anni ’60 e ’70. Un viaggio tra gli effetti della mescalina SPERIMENTAZIONE
di Chiara Sgreccia
Mescalina: alcaloide dotato di proprietà allucinogene contenuto nel peyote, una pianta cactacea di origine messicana. Isolata alla fine del 1800, sintetizzata per la prima volta nel 1919, ebbe la sua fase di notorietà negli anni ‘50. Poi arrivò l’LSD, sigla di un acido dal nome tedesco in grado di alterare la percezione, capace degli stessi effetti della mescalina ma con una potenza decisamente maggiore. Tra questi c’è la dissoluzione dell’Io, la possibilità di essere Non-Io, parte non indipendente dell’ambiente attorno, la sensazione di essere ovunque. “Il consumatore di mescalina non vede ragione di fare niente in particolare e trova la maggior parte delle cause per le quali, in tempi normali, egli era pronto ad agire e a soffrire, profondamente prive di interesse. Egli non può preoccuparsene, per la buona ragione che ha di meglio da pensare” scrive
The Doors of Perception, da cui trassero ispirazione per il nome Jim Morrison e la sua band - i Doors -, e gli studi di Osmond diedero un grande contributo allo sviluppo della cultura psichedelica degli anni ’60 e ’70. Dal greco psykhé che significa anima e dêlos, chiaro, evidente. É psichedelica quindi una sostanza, come la mescalina, capace di espandere la coscienza e causare alterazioni sensoriali. “La mia attenzione si arrestò e contemplai affascinato, non la pallida eroina, né il suo compagno, non la folta chioma della vittima, né il paesaggio invernale sullo sfondo, ma la seta purpurea del corpetto pieghettato e della gonna gonfia di Giuditta”. Huxley parla del Ritorno di Giuditta a Betulia, il dipinto di Botticelli oggi conservato nella Galleria degli Uffizi a Firenze. Si sofferma sull’opera mentre sfoglia un libro dedicato all’autore. C’è qualcosa che non aveva mai capito prima: nei drappeggi dell’abito di Giuditta, Huxley vede il genio di Botticelli e il vero significato delle cose che normalmente trascuriamo perché impegnati a fare altro. Le stesse pieghe sono nel tessuto di flanella che copre le sue gambe incrociate. Tutti gli esseri umani civilizzati indossano abiti, quindi, non può esserci racconto senza la rappresentazione dei tessuti a pieghe. Sotto l’effetto della mescalina l’esistenza appare pura, essenziale. Oltre l’approccio utilitarista che lega l’uomo alle cose, The Doors of Perception svela come sentirsi, con tutti i cinque sensi, parte del Tutto, come scoprire nella quotidianità frammenti di infinito, spiragli di un altro ordine, costituito dai significati veri delle cose, che anche l’arte non ha il potere di esprimere completamente. “Nello stadio finale della condizione di Non-io vi è una conoscenza oscura che Tutto è in tutto, che Tutto è effettivamente ciascuno. Questo, me ne resi conto, è quanto più vicino una mente finita possa arrivare a perce-
pire ogni cosa che avviene dovunque nell’universo”. Questo è il modo in cui bisognerebbe vedere, spiega Huxley. Ma, se costantemente tutti fossimo capaci di questo tipo di visione, passeremmo la vita a non fare nient’altro: solo guardare e essere il Non-io di un libro, di un fiore, una sedia, un tessuto. Abbiamo dentro una tensione verso la trascendenza. La voglia di entrare in contatto con una realtà ulteriore rispetto alla quotidiana e il desiderio di liberazione che un bicchiere di vino o una sigaretta sono in grado di soddisfare supera gli effetti collaterali di alcol e fumo - come gli incidenti nel traffico e il cancro ai polmoni - che, invece, una mente razionale prederebbe in considerazione. “Oggi si spende molto di più per bere e per fumare di quanto si spenda per l'educazione.
«Se le porte della percezione fossero sgombrate, ogni cosa apparirebbe com'è, infinita» William Blake
Ciò, naturalmente, non sorprende”. Questo perché, per Huxley, all’educazione pensano soltanto i genitori negli anni in cui i figli vanno a scuola mentre la necessità di evadere è in ognuno di noi. Impossibile puntare sul proibizionismo però. Per soddisfare la necessità di ogni persona di trascendere la coscienza dell’io, che è un’inclinazione dell’anima, c’è bisogno di qualcosa di nuovo che induca uomini e donne a cambiare le vecchie abitudini per altre meno dannose. Huxley propone di ricollegarsi alla dimensione spirituale dell’esistenza e la mescalina, seppur dalle conseguenze ancora non abbastanza note, è una via per allargare la coscienza.■
1. The Doors of Perception e Heaven and Hell, di Aldous Huxley, copertina originale 2. Aldous Huxley scrittore e filosofo inglese 3. An american Prayer, ultimo album del gruppo rock statunitense The Doors
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Un viaggio mentale appesi a una liana Una coppia romana e l'esperienza con l'Ayahuasca, il famoso infuso allucinogeno preparato con due piante amazzoniche RITI
di Simone Di Gregorio
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«Mari ed io ci siamo conosciuti da volontari, proprio in Perù, cinque anni fa. Quell’esperienza ci ha convinto a provare l'Ayahuasca. Non è una questione di sballo. Almeno, non solo. Significa immergersi nella cultura di un popolo, entrarne in contatto con le tradizioni». Jacopo ha trent’anni, Mari è di poco più giovane. Hanno deciso di sperimentare gli effetti allucinogeni del decotto di liane e foglie di Chacruna due anni fa, durante un viaggio in Sudamerica. «Ero affascinato dagli effetti. Chi l’aveva già assunto parlava di sogno lucido. Volevo farne esperienza», continua Jacopo. Sapeva già che in alcune culture amazzoniche è, insieme alla medicina tradizionale, un rimedio legale al trattamento dell’anima e del corpo.
Lo spiega anche la dottoressa Annalisa Valeri, psicologa e autrice di “Ayahuasca e psicosi”, un saggio sul trattamento delle situazioni di malessere profondo con l'ayahuasca. «Per i peruviani è una pianta madre, come il tabacco. Nella cultura amazzonica viene utilizzata come medicina, per molte patologie ma anche per incrementare conoscenza e benessere. Ha effetti visionari e non dà dipendenza. Nel centro peruviano di Takiwasi, ad esempio, c’è una comunità che fonde la medicina tradizionale con gli strumenti della psicoterapia occidentale. Lavorano da vent’anni per curare le dipendenze patologiche». La cosmologia di questi popoli non distingue, come fanno gli occidentali, la cura della mente dalla cura del corpo. La psicologia, dalla medicina. Per rendersene conto, Jacopo e Mari, da Iquitos, nel Perù nord-orientale navigano sul Rio delle Amazzoni a bordo di un Peke Peke, la tradizionale lancia lunga circa quattro metri, chiamata così per il rumore del motore. È il primo pomeriggio quando, dopo circa un’ora di navigazione, il pic-
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colo scafo sbatte contro la morbida mantellata del molo. Non c’è nient’altro intorno. Non un villaggio, solo l’Amazzonia e Roger, il curandero. «Sono figure guida, dei veri e propri medici tradizionali che sanno trattare ogni stato d’animo e ogni malattia», spiega la dottoressa Valeri. «Il mio curandero trattava la mamma diabetica con l’Ayahuasca». Anche Valeri ha fatto esperienza del mix di erbe. A differenza di Jacopo e Mari, all’inizio era spaventata dagli effetti. «Provoca degli stati modificati di coscienza, in Italia è illegale ma ci sono molti studi, come il mio, che cercano di approfondirne le capacità terapeutiche». La coppia, invece, saluta impaziente lo sciamano che li accoglie al bordo di un sentiero battuto nella foresta. Avrà più o meno sessant’anni, una polo a righe e un cappellino celeste con la visiera. Lo seguono per un quarto d’ora e il fiume scompare alle loro spalle. Il sentiero si apre in un piazzale con al centro una palafitta di legno. «Sarebbe stata casa nostra, per quella notte. Roger ci ha presentato la moglie, Margarita, poi abbiamo saldato il conto, 100 soles sono circa 21 euro compreso il rito, il pernottamento e la colazione del mattino seguente».
manifestazioni. A me è successo di avere pensieri mai avuti prima. La cosmologia amazzonica dice che quella è la pianta che ti parla. Un inconscio selvatico, potremmo dire». La foresta, o qualsiasi cosa sia, parla anche a Jacopo. «Ho chiuso gli occhi e sono cominciate le visioni, come in un sogno, ma ero cosciente. All’inizio erano esagoni e spirali, come un caleidoscopio che poi prende forma ed è diventato la foresta amazzonica. Mi sentivo un’appendice della terra, un tutt’uno con la natura, non so come descriverlo». «Ero un albero e ho cominciato a vedere insetti volarmi intorno. Mi è passato davanti un puma. Ho allungato un braccio per toccare Mari, seduta accanto a me, ma al posto della mano avevo delle radici che le avvolgevano i polsi. Ogni tanto aprivo gli occhi, mi rendevo conto di sorridere, piangevo di gioia, è come un’estasi». Valeri spiega che possano emergere ricordi precoci, prelinguistici, come immagini. La persona sente che quella sensazione ha a che fare con lui anche se non sa perché. «A un certo punto ero nel ventre materno, sentivo calore, vedevo una luce che mi attirava, potentissima. Riuscivo a respirare. Ho pensato, ‘questo è quello che si prova quando si nasce’. Poi
ho parlato con mio padre, disegnato tra le stelle, con il volto di uno scimpanzé». Jacopo ha perso il papà durante l’adolescenza. Poi, comincia a provare nausea e intorno a sé le persone vomitano, ma non è un’allucinazione. È l’effetto del decotto che si esaurisce. La dottoressa Valeri spiega che non tutti hanno questa reazione, ma è del tutto normale: «Il corpo intossicato espelle sostanze nocive. Si purifica dal superfluo, in ogni modo». «Mi sentivo stanchissimo, sembrava passata un’eternità, invece erano trascorse quasi tre ore. Potevamo scegliere di berne ancora, ma abbiamo deciso di andare a dormire. Non potevo credere a ciò che avevo visto, ma stavo bene», ricorda Jacopo. Valeri, invece, racconta un’esperienza meno intensa. «Ho visto cose che non sono riuscita a spiegarmi. Durante la cerimonia, ad esempio, hanno acceso dei sigari. Era notte fonda e nel buio il bagliore della fiamma che appicciava la foglia di tabacco mi faceva vedere persone vecchissime. Quando l’ho detto al curandero, non ha avuto dubbi: “si, Annalisa. Hai visto gli antenati"».■
La cerimonia inizia alle 8, Roger indossa la tunica bianca tradizionale, prende una boccetta di vetro e la benedice nel nome del padre del figlio e dello spirito santo. Jacopo è eccitato: «Avevo fame, eravamo completamente a digiuno da due giorni. Seduto sul terrazzo della palafitta, uno spazio di 35 mq con delle sedie a dondolo, ognuna munita di coperta per ripararsi dal freddo, guardavo le persone arrivare». Sono gli unici turisti, avvolti dal silenzio come fossero a una messa. I partecipanti hanno dai 20 anni di età in su. «Il sapore è disgustoso, sembra di bersi il legno. Ho dovuto mandarlo giù in un sorso solo», mentre il curandero, con le maracas scandisce una litania incomprensibile. Questi canti, commenta Valeri, fanno parte della cerimonia e della cura. Come un mantra, ripetuto che accompagna durante il viaggio. Non tutti reagiscono allo stesso modo a queste sostanze. Non c’è una risposta chiara, ma la cerimonia è fondamentale perché accadano alcune
Lungo il Rio delle Amazzoni nei pressi di Iquitos, la città più remota del mondo su una massa continentale, impossibile da raggiungere via terra, ci si può arrivare solo in barca o in aereo Le immagini sono degli intervistati
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Nel Paese delle Meraviglie (o in quello degli orrori) di Erika Antonelli The Electric Kool-Aid Acid Test è un saggio del 1968 di Tom Wolfe, popolare esempio di New Journalism. Wolfe presenta le esperienze di Ken Kesey e della sua banda Merry Pranksters, che hanno viaggiato attraverso gli Stati Uniti in uno scuolabus colorato, il Furthur. Kesey e i compagni sono diventati famosi per il loro uso di droghe psichedeliche come l'LSD per raggiungere l'espansione della loro coscienza. Il libro racconta gli Acid Tests (feste con Kool-Aid intriso di LSD), e gli incontri con personaggi illustri dell'epoca come Hells Angels, Grateful Dead e Allen Ginsberg.
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Dal suo scopritore casuale, lo scienziato svizzero Hofmann, agli artisti che ne hanno fatto uso. Un viaggio nelle influenze culturali dell’LSD INFLUENZE
Creatività amplificata. La fantasia esplode nel tentativo di catturare labirinti colorati, fiori e figure multiformi. Sono gli effetti dell’assunzione dell’LSD, un derivato dell’acido lisergico sintetizzato per la prima volta nella seconda metà del secolo scorso. Chi l’ha provata parla di «fuoco acustico e visivo», un vortice di sensazioni che «aumentano la capacità percettiva della coscienza». È un trip, un viaggio. E può portarti nel Paese delle Meraviglie o in quello degli orrori. Lo dimostra anche l’etimologia della parola: psykhé, anima, e dēlóō, mostro. L’LSD è stata scoperta per caso il 19 aprile del 1943, un giorno noto come il “Bicycle Day”. Il primo trip della storia è avvenuto in sella alle due ruote mentre il suo scopritore casuale, lo scienziato svizzero Albert Hofmann, pedalava verso casa con immagini caleidoscopiche negli occhi. Il chimico lavorava nella casa farmaceutica Sandoz e poco prima di lasciare il laboratorio aveva assunto accidentalmente la dietilamide LSD-25, un composto da lui stesso sintetizzato e derivante dalla muffa della segale. Anni dopo, nel 2006, ricorderà le sensazioni provate durante il suo ritorno a casa: «Appena arrivato mi sono sdraiato e ho avuto un'esperienza meravigliosa. Qualsiasi cosa immaginassi era pittoricamente davanti a me, profondamente gratificante. È durato tre o quattro ore e poi è scomparso». Qualche giorno dopo Hofmann decide di assumere intenzionalmente altra droga ma esagera con il quantitativo e stavolta è «un viaggio dell’orrore». Di trip poi ce ne sono stati altri. È celebre il racconto che Aldous Huxley fa dell’assunzione di mescalina (una sostanza allucinogena naturale) nel suo libro Le porte della per-
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cezione del 1954. Prima ancora, I Paradisi Artificiali di Baudelaire, un saggio sulle droghe scritto nel 1860. Anni dopo, l’LSD diventerà parte integrante della cultura pop degli Stati Uniti. L’acido va di moda nei circoli intellettuali, tra artisti, scrittori e divi di Hollywood. Sono tutti curiosi di provare le alterazioni fortissime provocate dal composto chimico e l’LSD diviene anche strumento di esplorazione cosmica, soprattutto grazie allo psicologo (e professore di Harvard) Timothy Leary. Lo studioso è uno dei principali promotori della diffusione alle masse delle sostanze psicoattive, considerate da lui come il futuro dell’evoluzione umana. L’LSD si lega a un luogo e a un genere musicale: San Francisco e il Rock’n’Roll. I giri di chitarra si mescolano ai trip di acidi ed è l’inizio di un legame inossidabile. Sono gli anni Sessanta, l’America è sconvolta dal conflitto in Vietnam e tra la gente si fa sempre più forte il desiderio di evasione. C’è voglia di rompere gli schemi e infrangere qualsiasi regola. Artisti, poeti e scrittori si ribellarono e cercarono di vivere liberamente un’esistenza priva di tabù e incentrata sulla creatività. Nasce la controcultura in cui le parole d’ordine sono amore, pace e acidi, un lasciapassare per aprire le porte della mente. In questo periodo un gruppo di giovani artisti, detti “Merry Pranksters” e influenzati dalla Beat Generation, dà origine a una nuova pratica: nascono gli “Electric Kool-Aid Acid Test”, una serie
di feste create appositamente per esplorare le nuove regioni della mente tramite l’uso dell’acido. Regalano Kool Aid, una bevanda in polvere a base di aranciata, mischiata all’LSD. L’idea di questi eventi venne allo scrittore Ken Kesey e rappresenta il prototipo dei grandi festival destinati a fare epoca negli anni successivi, uno su tutti quello di Woodstock del ’69. Sono i prodromi della filosofia Hippie e di quel vivere comune che porterà con sé sperimentazione psichedelica e disinibizione sessuale. Tuttavia, lo stato della California decide di dichiarare illegale l’uso di LSD nel ’66. Il movimento Hippie viene colpito, ma reagisce a modo suo. Esplode la “psychedelic music” e il provvedimento non serve a sradicare l’acido dal consumo di massa. Come tutte le storie d’amore, però, il tempo porta a galla i difetti. Gli anni passano e l’LSD diviene sinonimo di psicosi, suicidio e danni cerebrali permanenti. La sostanza viene inclusa nella lista degli stupefacenti vietati negli Stati Uniti nel 1966. Negli anni seguenti il divieto tocca anche l'Europa e la Sandoz cessò la produzione. Nel 1971 viene messa al bando dall’Onu, che vieta anche ulteriori sperimentazioni. Chi non ha mai smesso di amarla è il suo scopritore casuale, Hofmann, lo scienziato dai capelli grigi e gli occhi buoni: «Ha aperto la mia sensibilità interiore alla meraviglia della creazione, e per questo sono grato al mio destino», disse il giorno del suo 100° compleanno. Era il 2006, sarebbe morto due anni dopo.■
Il “bicycle day”, l’anniversario del primo trip di LSD della storia. Il 19 aprile del 1943, lo scienziato svizzero Albert Hoffmann faceva un giro in bicicletta dopo aver assunto per la prima volta la nuova sostanza che aveva sintetizzato: l'LSD-25, che lui chiamava "il mio bambino difficile" e al cui studio avrebbe dedicato il resto della vita. È la prima esperienza di un uomo con l'LSD. Hofmann racconta di aver "visto un flusso ininterrotto di immagini meravigliose, forme straordinarie con un intenso gioco caleidoscopico di colori". L'esperienza durò circa due ore.
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Buskerville, giù dal palco Prestigiatori, giocolieri, musicisti e acrobati. Hanno fatto della strada il loro teatro e dei passanti il loro pubblico, si levano il cappello per salutare e regalano momenti di evasione attraverso esibizioni fuori dagli schemi PHOTOGALLERY
a cura di Simone Di Gregorio
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1. Filippo Porcari. Prestigiatore e tecnico del suono cinematografico. Sin da piccolo ha fatto della magia la sua grande passione. Usa elastici, sfera, corda, ma la specialità sono gli anelli cinesi
2. Adriano Bono. Musicista, ex frontman della band romana "Radici nel Cemento". Ideatore e direttore artistico dello spettacolo itinerante per artisti di strada, "Reggae Circus"
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3. Paolo Ippolito. In arte "Pablito". Equilibrista e giocoliere, è fuggito dal tornio delle fabbriche brianzole per esibirsi in giro per l'Italia con pallone, birilli e rola bola a bordo di un camper
4. Daniela Cardellini. Questa ex cassiera romana si è reinventata giocoliera. Così, gira per le piazze della capitale per regalare un sorriso con i suoi numeri. Parola d'ordine, regalare un sorriso a chi passa per guardarla
5. Alice Bellini. Dieci anni di ginnastica acrobatica, poi il contatto con una compagnia teatrale la convince a lasciare un ambiente troppo competitivo e stressante. "Svenka" ha 22 anni e si esibisce ai semafori tra una ruota e una verticale
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La rotta dei migranti dimenticati «A Lipa è tutto come prima» Dalle isole greche fino al confine italiano. Durante il viaggio i migranti della rotta balcanica vengono inghiottiti in un imbuto dal quale è difficile uscire BALCANI
di Gabriele Bartoloni
Per i migranti che partono da est, la strada verso l’Europa comincia dove inizia la terraferma. Una sottile lingua di acqua salata separa la Turchia dalle isole del Mar Egeo: Kos, Lesbo, Samos, Leros, Chios; punti di approdo per i barchini che trasportano i profughi in fuga dal Medio Oriente. Allontanarsi da una crisi per incontrarne un’altra. Perché il destino di chi sbarca sulle coste greche è quello di rimanere per anni chiuso in un limbo fatto di tendopoli, lamiere e miseria. Pochi metri dividono le baracche dei 24 — Zeta
migranti dalle case vacanza che durante l’estate si popolano di turisti. «Lì tutti possono vedere quello che succede», spiega Andrea Contenta, ex responsabile umanitario per Medici Senza Frontiere in Grecia. Da poco tornato in Italia, racconta il fallimento di un intero sistema d’accoglienza. «L’hotspot dell’isola di Samos era stato pensato per ospitare massimo 648 persone, ma negli anni è arrivato ad accoglierne anche 10 mila». Una situazione di sovraffollamento, quella che da anni grava sull’arcipelago greco, dove i profughi sono costretti a vivere in alloggi di fortuna. Solo un telo adagiato su un bancale in legno consente loro di non dormire con la schiena appoggiata contro il fango. Con l’arrivo della pandemia le autorità greche hanno deciso di serrare i confini con la Turchia. Se solo nel mese di gennaio 2020 gli arrivi avevano toccato quota 4 mila, ad aprile di quest’anno non sono arrivati neanche a 200. «In questo momento a Samos vivono circa 2 mila persone», spiega Andrea. Un alleggerimento che non è bastato a migliorare le condizioni umanitarie nelle baraccopoli.
I migranti continuano a vivere in alloggi di fortuna, senza servizi essenziali, con un’assistenza medica che si limita all’intervento delle Ong e delle organizzazioni internazionali. «In queste isole le persone muoiono», dice Andrea. «Ora stanno costruendo un nuovo campo a 6 chilometri di distanza da quello attuale. Si tenta di nascondere la polvere sotto al tappeto. Con la differenza che qui non parliamo di polvere, ma di esseri umani». I migranti rimangono per anni in attesa di un lasciapassare che permetta loro di raggiungere il continente, di uscire da quel limbo giuridico che li blocca a cavallo tra Europa e Asia. «Da là non si possono muovere, se non seguendo un lungo e complicato iter amministrativo. È così che ognuna delle cinque isole finisce per trasformarsi in un centro di detenzione». Per chi non viene respinto, per chi riesce a sopravvivere al confinamento, spesso, la Grecia non è altro che una tappa di passaggio. Una volta lasciato il mare alle spalle, sono i sentieri balcanici a segnare la rotta verso l’Europa: Serbia, Montenegro, Croazia, Bosnia-Herzegovina. Una tratta battuta da più di vent’anni, lunga
tanto quanto le crisi che hanno messo in ginocchio i Paesi del Medio Oriente. «Parliamo dell’eterno conflitto in Afghanistan, della guerra in Siria, di quella in Iraq». Lo spiega Gianfranco Schiavone, presidente del Consorzio italiano di solidarietà, un’associazione che offre assistenza ai migranti che arrivano nella zona di Trieste e Gorizia. Secondo i dati dell’Unhcr, nel 2020 sono stati oltre 4 mila i migranti che hanno attraversato la frontiera con la Slovenia. Si tratta del 10% del totale degli arrivi in Italia, sui quali si accendono i riflettori solo durante i mesi invernali, quando le temperature scendono e, con loro, la pressione sui confini. Perché in realtà «è durate il periodo estivo che il flusso migratorio aumenta. Come per chi attraversa il Mediterraneo, la stagione fredda svolge un ruolo di deterrente per chi si mette in cammino».
menti durante la fase del respingimento. Soprusi che si concentrano al confine bosniaco, dove le autorità croate tentano il tutto e per tutto pur di chiudere le porte dei confini europei. «Qui le persone vengono depredate dei pochi averi che hanno», spiega Gianfranco. «La polizia spoglia i migranti in pieno inverno, distrugge i loro telefoni, li tortura con armi da taglio e corrente elettrica». Quello che potrebbe essere considerato puro sadismo, in realtà non è altro che un metodo di dissuasione. «Il semplice respingimento, per quanto illegale, non risulta sufficientemente efficace. Chi viene riportato al di là del confine, specie se giovane, il giorno dopo è di nuovo lì, pronto a ritentare l’attraversamento». Il confine bosniaco rappresenta l’ultimo miglio prima dell’arrivo in Europa, l’ultimo sforzo prima di raggiungere l’obiettivo. Questo spiega la brutalità della polizia di frontiera, alle prese con un Gianfranco opera nel campo dell’ac- flusso migratorio reduce dell’imbuto che coglienza dalla metà degli anni Novanta. parte dalle isole greche e finisce ai confini Conosce bene il sistema che i Paesi bal- europei. canici hanno messo in piedi con l’obbiettivo di contenere il flusso proveniente Sono 16 mila i migranti arrivati in Boda est. «L’Unione Europea ha costruito snia nel 2020. Un numero che si somma una strategia ben precisa per impedire a quelli che da anni vivono nelle baracche i migranti valichino il confine». Nel copoli sparse tra le foreste e gli altipiani, biennio 2019-2020, in Croazia sono state dove durante l’inverno le temperature respinte «non meno di 25 mila persone scendono sotto lo zero. Succede nel camverso la Bosnia». Gianfranco definisce i po di Lipa, a venti chilometri a sud di contorni di un meccanismo brutale, stra- Bihać, al confine che la Croazia. Il 23 ditificato su due livelli di violenza: una giu- cembre un incendio distrusse gran parte ridica e l’altra fisica. La prima riguarda i della tendopoli, lasciando senza riparo respingimenti alla frontiera praticati dai più di mille persone. Durò giusto qualche paesi di transito, il cui unico fine, spesso, giorno la commozione dell’Europa daè quello di tenere i migranti alla larga dai vanti all’ennesimo dramma umanitario confini europei. «Una qualsiasi procedura di allontanamento dovrebbe avvenire attraverso un provvedimento scritto, motivato e impugnabile davanti all’autorità giudiziaria con la possibilità di chiedere asilo. Ma questo non avviene». È una prassi fondata sull’illegalità generalizzata, quella descritta da Gianfranco. «Ci siamo disfatti dell’umanità come se fosse un peso morto», ammette con un filo di amarezza. «E’ come se ad un cittadino qualsiasi venisse sequestrata la casa senza motivo. Chiunque lo considererebbe inaccettabile».
della rotta balcanica. «I parlamentari che andarono visitare il campo si ritrovarono davanti anche i migranti respinti dall’Italia», racconta Gianfranco. Perché chi prova ad attraversare il confine, spesso, finisce nella trappola dei respingimenti a catena, che partono dall’Italia e, a ritroso, proseguono in Slovenia, Croazia e, infine, in Bosnia. «E’ come se il confine si dilatasse all’infinito. Non ha importanza quale Paese abbia raggiunto il migrante. Quest’ultimo finisce per ritrovarsi al punto di partenza: fuori dai confini europei» L’incendio di Lipa arrivò lo stesso giorno in cui l’Organizzazione mondiale per le Migrazioni ne decretò la chiusura. Il campo era ritenuto inadeguato per ospitare delle persone. Ora, a sei mesi di distanza, i riflettori si sono abbassati e nulla è cambiato. «Una volta uscito dall’occhio della cronaca il campo è tornato a sprofondato in quello che è sempre stato», spiega ancora Gianfranco. «Sono state montate delle nuove tende, ma quello di Lipa è un campo tuttora inabitabile. Non ci sono servizi igienici, non c’è riscaldamento. Le persone vivono in una condizione di totale sovraffollamento nonostante il rischio di contagio». Punto e accapo, dunque. La situazione è la stessa di quando fu decretata la chiusura per inabitabilità. Così i migranti rimangono intrappolati nell’invisibilità, chiusi tra la polizia di frontiera e le catastrofi che si lasciano alle spalle. Un limbo, appunto. Dove è ormai troppo tardi per tornare casa e troppo presto per smettere di cercarne un’altra. ■
Il secondo livello di deterrenza, invece, si fonda sull’uso della forza. Secondo il Danish refugee Council, il 70% dei migranti afferma di aver subito maltratta1. Un campo profughi nella regione di Idlib, in Siria, dove un decennio di guerra civile ha prodotto un flusso costante di migranti in fuga verso l’Europa. 2. Il confine tra Bosnia-Erzegovina e Croazia. Un punto di snodo fondamentale per i migranti che percorrono la rotta balcanica.
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Esteri
Carisma, ma anche acume politico. Il presidente turco ha saputo sfruttare il soft power, esercitando il potere anche attraverso mezzi non bellici. Per Piccoli, «è stato il sostenitore della riscoperta del lascito ottomano nel Paese, promosso all’estero con attività culturali, come le Musalsalat (soap opera). Pensiamo anche alla recente conversione del Museo di Santa Sofia in una moschea e alla rimozione dei visti, per gli arabi, per visitare la Turchia e incentivarne il turismo». In un’area dove l’eredità imperiale dell’Islam è andata perduta, Erdogan ha offerto una leadership inedita: «Un politico che parla un linguaggio conservatorereligioso – dice l’esperto – ma che è stato democraticamente eletto, che ha vinto tutte le elezioni dal 2002 in poi e che non esita ad affrontare quelli che per molti arabi sono nemici, Stati Uniti e Israele su tutti».
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Erdogan, il sultano che piace agli arabi Il presidente della Turchia è ancora il più popolare in Medio Oriente. Il suo mondo lo acclama, per l'Occidente è un dittatore GEOPOLITICA
di Angelica Migliorisi
Erdogan, «lo Sradicatore». Erdogan, «il Sultano». Ma anche Erdogan, il più amato. Secondo l’ultima indagine dell’Arab Barometer, la rete di ricerca che rileva gli atteggiamenti nel mondo arabo, il leader turco è il più popolare in Medio Oriente e in Nord Africa. Non in Europa, dove per il presidente del Consiglio italiano, Mario Draghi, è Erdogan, «il Dittatore». «Le elezioni continuano a essere libere ma non corrette come prima. C’è un’ombra, ma definirlo così è tecnicamente sbagliato: al massimo, è un autocrate», chiarisce Wolfango Piccoli, esperto di Turchia e direttore della divisione rischio politico della società di consulenza Teneo. 26 — Zeta
La repressione dei nemici interni, il controllo crescente sull’economia e sul sistema giudiziario, la stretta sulla stampa, l’atteggiamento muscolare in Siria e Libia e il «grande gioco» del gas a largo di Cipro: l’Occidente si indigna, il suo mondo lo acclama. Ed è proprio a quel mondo che bisogna guardare. «Sono anni che Erdogan è il più popolare della regione. Dopo la caduta dei vecchi regimi in Egitto, Tunisia e Libia, non è ancora emersa una figura che nei Paesi arabi abbia lo stesso fascino», spiega Valeria Talbot, condirettrice della divisione Medio Oriente e Nord Africa dell’Istituto per gli studi di politica internazionale (Ispi).
«Uno dei suoi punti di forza è stata la capacità di leggere i desideri del cittadino medio, di interagire con i ceti più bassi, di solito ignorati dalla politica» Wolfango Piccoli, Teneo
Quando tra il 2010 e il 2011 le primavere arabe travolsero il Nord Africa, l’Africa Occidentale e il mondo arabo, «il presidente sostenne la rivoluzione nei Paesi in transizione verso regimi democratici – prosegue –. Diversi dissidenti egiziani, siriani, yemeniti hanno trovato asilo politico in Turchia, da dove conducono ancora la loro attività politica». Oggi, però, quella guida vacilla. Negli ultimi anni, Ankara si è ritrovata sempre più isolata a causa soprattutto del suo sostegno al movimento islamico della Fratellanza musulmana. «Dopo otto anni di interruzione dei rapporti diplomatici, Erdogan sta cercando un riavvicinamento con l’Egitto per poter entrare in quei giochi regionali sullo sfruttamento delle risorse energetiche, da cui al momento è escluso; in gioco, tra i due Paesi, anche la partita dei confini marittimi. Entrambi, poi, hanno interesse alla pacificazione della Libia, ma restano diversi problemi», spiega Talbot. A sud, la situazione non è migliore, con l’instabilità della Siria che da anni spinge al confine migliaia di profughi e che è teatro di scontri con le milizie curde.
Sul fronte interno, la Turchia è un Paese polarizzato. Istanbul e Ankara, nel 2019, sono passate al Partito repubblicano del popolo, la forza d’opposizione. «La perdita della prima, in particolare, è una ferita aperta per il leader turco: è la città più grande, il centro economicofinanziario. Lui stesso, alla vigilia delle elezioni amministrative, aveva detto che chi avesse vinto Istanbul, avrebbe vinto il Paese», commenta la studiosa. Ma lasciandosi alle spalle le metropoli, procedendo più a sud, c’è la regione dell’Ana-
«Dopo otto anni di interruzione dei rapporti diplomatici, Erdogan sta cercando un riavvicinamento con l’Egitto per poter entrare in quei giochi regionali sullo sfruttamento delle risorse energetiche, da cui al momento è escluso» Valeria Talbot, ISPI
tolia, meno istruita, più conservatrice: la vera Turchia di Erdogan. «Uno dei suoi punti di forza è stata la capacità di leggere i desideri del cittadino medio, di interagire con i ceti più bassi, di solito ignorati dalla politica», sottolinea
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Piccoli. Gruppi che rappresentano circa il 50% della popolazione. «Il presidente ha riscoperto i turchi neri, quelli lasciati indietro. Questo si è tradotto nella rinascita di diverse città del centro-sud, trasformate in potenze economiche, come Konya, Kayseri e Gaziantep, al confine con la Siria. Zone che non erano mai apparse nella mappa socio-economica del Paese, diventate capaci di esportare più di un miliardo di dollari l’anno. Tutto questo è successo sotto la sua guida». Un rapporto, quello tra Erdogan e la Turchia più profonda, che si sta logorando. A pesare, soprattutto la cattiva performance dell’economia. «L’inflazione – continua
– è tornata al 16% e colpisce soprattutto i ceti sociali più bassi. È un Paese che deve crescere ogni anno del 7-8% solo per creare i posti di lavoro necessari agli studenti che finiscono le scuole superiori. Tassi di crescita che Ankara non vede da tempo». A minare la popolarità del presidente, anche la gestione della pandemia: giovedì 29 aprile il lockdown più duro, durato fino al 17 maggio. Una quarantena che i turchi hanno trascorso chiusi in casa e senza alcol. ■ 1. Recep Tayyip Erdogan, presidente della Turchia 2. Torre di Leandro, Istanbul 3. Mausoleo di Ataturk, Ankara
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Esteri
Palestina e Israele con gli occhi della Generazione Zeta
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Un'intervista per mettere a confronto le visioni su un lungo scontro che ancora oggi fa discutere. Lo sguardo di due studentesse VOCI
di Elisabetta Amato e Martina Coscetta
Perché sei legata alla Palestina/a Israele? Dyala: La Palestina è casa mia, dei miei nonni e bisnonni. È dove ho fatto i miei primi passi, dove ho conosciuto il mio primo amore. La Palestina è il calore della famiglia, i ricordi di infanzia e quelli di adolescenza. La Palestina è l’unica casa che abbia mai conosciuto. Micol: Israele rappresenta la base di quello che è l’ebraismo e di quello che sono io. La religione, la tradizione e la cultura ebraica nasce proprio in quelle strade, tramandata di generazione in generazione. Il fatto che ora ci sia uno Stato, per me significa aver chiuso un cerchio che è rimasto bloccato dalla diaspora, quando i romani obbligarono gli ebrei a lasciare la propria terra.
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Questione Israele-Palestina. Che cosa sta succedendo? D: La Corte suprema di Israele ha deciso di sfrattare sette famiglie palestinesi dalle loro case nel quartiere di Sheikh Jarrah, a Gerusalemme est, che secondo gli accordi di Oslo del 1967 dovrebbe essere sotto l’amministrazione palestinese. Per questo i palestinesi hanno iniziato a mani-
festare pacificamente. Gli israeliani hanno bombardato Gaza con fosforo bianco, illegale. Hamas, da Gaza, ha lanciato razzi. Tutto questo nonostante Israele abbia fatto una tregua con Hamas. M: Vi è una grave crisi, sia dalla parte della Palestina che dello Stato d’Israele che ha portato a un’escalation di eventi che adesso ci sta facendo affacciare all’ennesimo conflitto. Come si è arrivati a questo punto? D: Israele non vuole dare ai palestinesi nessun diritto di stare in quella terra, perché il loro obiettivo è cancellare l’esistenza di tutti palestinesi e creare uno stato solo per gli ebrei. Per questo stanno proseguendo con questa “pulizia etnica” dal 1948, anno della “alnakba” (la “catastrofe palestinese”), quando Israele ha occupato la maggior parte della Palestina cacciando via le famiglie dalle loro case. M: Il tema fondamentale è la questione di leadership per entrambe le parti. Se dalla parte della West Bank abbiamo l’autorità palestinese che è gestita da Fatah,
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Gerusalemme che cosa significa per te? D: Gerusalemme è la mia capitale. E non ci posso andare senza un permesso israeliano, che peraltro non è semplice da ottenere. Bisogna avere un motivo, per esempio una necessità di tipo medico. Solo così puoi sperare che te lo diano, ma non è detto. M: Gerusalemme è la città emblema dell’ebraismo e dove si trova l’unico scorcio di monumenti storici dell’ebraismo, come il Muro del Pianto. Quando vado a Gerusalemme provo una sensazione unica, perché è lì che tutto è nato. È lì che cammino su quelle che sono le mie radici e per me è una grande emozione. Conosci persone che vivono in Palestina/Israele? Che cosa ti raccontano? D: I palestinesi non possono più accettare di essere trattati senza umanità. Non possiamo muoverci tra le nostre città. A Gaza non possono neanche viaggiare, vivono in una prigione. I miei amici palestinesi con il passaporto israeliano sono considerati cittadini di secondo livello, dato che non sono ebrei. Gli è proibito lavorare in determinati posti essendo palestinesi cristiani e musulmani, e non ebrei. Sono trattati con razzismo. M: Sì conosco persone che vivono a Israele. Quando si tratta di guerra si soffre sempre, sia da una parte che dall’altra. Dal lato israeliano mi raccontano sempre che loro vivono consapevoli del fatto che la guerra può essere sempre dietro l’angolo. L’ansia e il rischio fa parte della loro vita. Sono educati al suono della sirena, consapevoli che quando suona devono correre al riparo, che non sempre c’è.
Micol, 21 anni, nata a Roma (Italia), di religione ebraica. Studentessa di Economia a Roma
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Dyala, nata a Nablus (Palestina). Vive in Italia da tre anni, frequenta un master in Comunicazione d’Impresa all’Università di Siena
nella striscia di Gaza abbiamo Hamas, organizzazione terroristica, che in qualche modo incide sulle scelte politiche palestinesi.
Come pensi stia reagendo la comunità internazionale alla questione? D:La risposta internazionale è stata limitata. Alcuni paesi hanno parlato dell’occupazione israeliana in Palestina come se fosse un conflitto alla pari, ma non è così. In questo caso c'è l'oppresso e l'oppressore. Allo stesso tempo ho visto diversi popoli entrare in solidarietà con la Palestina. Tutti hanno sentito il nostro dolore grazie ai giovani palestinesi, che hanno usato i social media per far vedere quello che stanno affrontando. Ci sono stati anche stessi ebrei che hanno manifestato contro il sionismo. Perché non tutti gli ebrei sono sionisti, e noi come palestinesi non siamo
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contro una religione. Noi non siamo contro gli ebrei, ma contro il sionismo. M: Sono rimasta piacevolmente stupita dalla presa di posizione di Biden, discretamente pro-Israele. Dall’altra parte l’UNSCO (Coordinatore delle Nazioni Unite per il processo di pace in Medio Oriente) ha dichiarato quanto Hamas sia un’organizzazione terroristica e come tale Israele ha diritto a difendersi contro di loro. Altra questione è quella dei paesi arabi, soprattutto quelli sunniti. Tutti, tranne l’Arabia Saudita, non hanno preso una vera e propria posizione, anche perché Hamas è supportata dall’Iran, grande nemico. L’unica speranza secondo me che porterà la pace è che alcuni stati che hanno legami con entrambe le parti possano intervenire e creare un trattato di pace, come Giordania o Egitto. Sei mai andata in Palestina/Israele? Ci racconti brevemente la tua esperienza? D: Io sono cresciuta in Palestina e per me la Palestina è una storia di resistenza. Quando cammini per le strade vedi le persone che sorridono e si divertono con le poche cose che hanno. Quando avevo nove anni ho vissuto un coprifuoco. A volte non potevamo neanche accendere la luce, non potevamo andare a scuola. Ma poi abbiamo costruito la nostra scuola nel nostro quartiere e abbiamo continuato a vivere e a studiare. M:Sì sono andata molte volte in Israele. Ci vado per diverse ragioni, per visitare un paese che è vivo, è innovazione, come Tel Aviv, chiamata start up nation. Anche per questioni legate ai miei studi vado lì per scoprire novità nel mondo tech. Vado lì però anche per il legame che ho con la mia religione. Ho anche dei parenti che abitano lì. Quando vado a Israele c’è un duo perfetto di innovazione e radici che stanno sempre insieme.■ 1,2. Gerusalemme, la capitale contesa 3. Tel Aviv, famosa località costiera, la capitale economica dello stato di Israele 4. Proteste a maggio 2021 da parte dei Palestinesi
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Sport
Bianca Caruso, vela spiegata verso Tokyo
Photo credits Gabrio Zandonà
Gruppo Marina Militare, disciplina vela olimpica, classe 1996: «È il sogno di una vita, da bambino inizi a fare sport pensando un giorno di andare alle olimpiadi» OLIMPIADI
di Livia Paccarié 30 — Zeta
«Il processo di selezione per le olimpiadi sarebbe dovuto durare un anno, dall’inizio del 2019 a maggio 2020, ma il covid ha allungato questo tempo di un altro anno». Bianca Caruso, velista del gruppo della Marina Militare, qualificata ai Giochi Olimpici di Tokyo nella categoria 470 insieme alla sua compagna Elena Berta, ricorda l’ultimo anno con soddisfazione, senza dimenticare la fatica che l’ha portata a essere una dei sette selezionati dell’Italia della vela. «È stato un processo molto lungo, e anche travagliato. Ce la giocavamo con un altro equipaggio di due ragazze, noi siamo state migliori nell’ultimo periodo e loro all’inizio, quindi la selezione è stata combattuta e molto stretta fino all’ultimo».
L’ultima regata cui Caruso ha partecipato è stato il Mondiale 2021 della classe olimpica 470 a Vilamoura in Portogallo concluso a marzo. «Lì abbiamo vinto la medaglia di bronzo, dopo questo podio eravamo abbastanza sicure di essere scelte per Tokyo». Un risultato, assicura l’atleta, ottenuto con tanto lavoro, tempo ed energie. «Quando mi sono classificata ho provato pura gioia. Mi sono sentita quasi sollevata. Non avere la certezza che alle olimpiadi ci andrai proprio tu è un bel peso da sopportare, insieme alla consapevolezza di doversi impegnare al massimo perché quella era l’ultima selezione». Il pensiero dell’ultima gara infatti, dice Caruso, «non ti lascia mai, ti ci svegli e ci vai a dormire tutti i giorni».
Per questo, racconta, «forse la parola giusta per descrivere come mi sono sentita è relief, perché ho provato un misto di felicità e di sollievo». Partecipare a una campagna olimpica significa partecipare alle gare più importanti del mondo per un atleta, «È il sogno di una vita che però si avvera, da bambino inizi a fare sport e fare le prime competizioni agonistiche pensando un giorno di riuscire a partecipare alle olimpiadi». Bianca Caruso ha condiviso le emozioni delle selezioni con la sua compagna Elena Berta, con cui gareggia dalla stagione 2018. «Nel mio percorso ho cambiato diverse volte compagna di barca e in alcuni momenti ammetto che ho pensato anche di smettere perché non riuscivo a trovare la persona giusta». Caruso però non si è scoraggiata. «Ci sono voluti alcuni anni e poi per fortuna ho incontrato Elena. Tre anni fa ci siamo unite e abbiamo trovato il nostro equilibrio, siamo due persone molto simili quindi ci siamo trovate in armonia fin da subito». Caruso e la sua compagna puntano a portare in Giappone la loro armonia mentre si preparano con gli ultimi allenamenti. «Adesso ci stiamo allenando in Spagna, dove facciamo 8 giorni di allenamento e poi torniamo a casa, a settimane alterne. La settimana di allenamento segue molto le condizioni del meteo, decidiamo quando andare in acqua in base al vento, quando è il miglior momento della giornata. La vela è uno sport che ti insegna a dover sempre considerare qualche cambio di programma. Di solito il nostro allenamento dura quattro ore in mare e poi facciamo circa due ore e mezza in palestra o di attività funzionali, come la corsa o la bici». Prepararsi a Tokyo vuol dire anche seguire la burocrazia che gira intorno a una competizione olimpica. «Ora manca davvero poco e stiamo pensando alle ultime scadenze, viviamo un po’ tra la palestra e le e-mail per avere tutto al proprio posto quando partiremo». Caruso e la sua compagna andranno a Tokyo insieme agli altri nove selezionati che compongono la squadra italiana di vela: Mattia Camboni (RS:X maschile), Marta Maggetti (RS:X femminile), Ruggero Tita/Caterina Banti (Nacra 17), Silvia Zennaro (ILCA 6) e Giacomo Ferrari/ Giulio Calabrò (470 maschile).■
Photo Credits João Costa Ferreira
«Il pensiero dell’ultima gara non ti lascia mai, ti ci svegli e ci vai a dormire tutti i giorni»
Photo Credits Martina Orsini
LA VELA A TOKYO
Le competizioni di vela sono in programma dal 25 luglio al 4 agosto all'Enoshima Yacht Harbor, baia a sudovest di Tokyo. Sono previsti 10 eventi: cinque maschili (RS:X, Laser, Finn, 470, 49er), quattro femminili (RS:X, Laser Radial, 470 e 49erFX) e uno misto (Nacra17). 470, 49 e Nacra hanno equipaggi di due atleti, le altre gare sono individuali. In tutti gli eventi ci saranno quattro o cinque giornate di gare preliminari prima della competizione finale. Il numero di partecipanti è stato ridotto da 380 a 350 atleti rispetto a Rio 2016, con eguale distribuzione tra uomini e donne. La qualificazione a Tokyo è iniziata già ai Mondiali di vela di Aarhus del 2018, dove sono stati assegnati 101 spot. Altri pass sono stati distribuiti alle successive rassegne continentali e ai Mondiali 2019. Gli ultimi posti verranno assegnati dalla Commissione tripartita. Il Giappone ha un posto garantito in quanto Paese ospitante. La vela è uno degli sport più antichi presenti nelle Olimpiadi moderne. In programma già nel 1896, dove però non si gareggiò a causa del maltempo, da allora questa disciplina è mancata solo a St. Louis 1904. Negli anni sono cambiati il numero di eventi e la loro denominazione, mentre il debutto della prima gara esclusivamente femminile risale a Seoul 1988. La Gran Bretagna è il Paese ad aver vinto più ori (27), ma gli Stati Uniti hanno più medaglie complessive (60). L’talia ha conquistato in tutto 14 podi, di cui tre ori: la squadra azzurra negli 8 metri a Berlino 1936, Agostino Straulino e Nicolò Rode nella barca a chiglia x2: Star nel 1952 e Alessandra Sensini nel mistral a Sydney 2000.
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Sport
Marco Gubert, il cuoco che corre nella natura Atleta trentino, trascorre le giornate tra lunghi allenamenti e turni al ristorante. Ama rilassarsi tra le montagne e il termine chef non gli piace: «Apprezzo le cose semplici» PASSIONI
di Jacopo Vergari 32 — Zeta
«La ricerca è un tema comune, ma la cucina e la corsa sono diverse tra loro. Un profumo, un colore, qualcosa di sconosciuto». Marco Gubert non ama le metafore. Come per un piatto gourmet, sceglie le parole con cura, senza che l’estetica copra il sapore. Creatività, umiltà, sostanza. Qualità che mette nel suo lavoro da cuoco e ogni volta che allaccia le scarpe e inizia a correre. Vincitore dell’ultima Transgrancanaria, competizione che si svolge nell’isola spagnola, è tra i più forti trail runner, podisti che si dedicano a lunghe distanze su terreni naturali. Giornate divise tra allenamenti e la cucina del ristorante Rolly, a Riva del Garda, in provincia di Trento. Gusto e chilometri, il suo è un viaggio che ha come sfondo le amate montagne.
Classe ‘88, Marco è originario della Valle del Primiero, nel Trentino Orientale. Le gite nel fine settimana, le battute di caccia con il papà, gli odori e i sapori che lo hanno avvicinato alla professione: «Sono diventato cuoco dopo il diploma di tecnico dei servizi ristorativi, e mi sono trasferito a Tenno, nell’Alto Garda. La cucina mi ha sempre appassionato, merito di mamma e della mia bisnonna. Ho però capito che il mondo mostrato dalla tv non fa per me. Amo la tranquillità, la preparazione, i dettagli. Sono un professionista, ma la parola chef non mi piace. Ho avuto esperienze in un paio di ristoranti stellati per un periodo breve, dove sacrifici e mancanza di tempo libero mi hanno fatto riflettere. Ho capito che serve il giusto compromesso tra lavoro e vita sociale».
E poi lo sport, fin dall’infanzia una passione viscerale. Le discipline invernali all’inizio, nel 2015 l’ultra trail running. Obiettivi sempre più ambiziosi, fino ai primi successi: la Tjörnarpären 100 miglia che si tiene in Svezia, a febbraio, con temperature rigide e quasi sempre al buio. Vittoria per distacco, record della manifestazione. Al traguardo si commuove. «Ogni competizione può essere la più bella, l’importante è viverla con passione, onorare il pettorale, sapere di aver dato il massimo. Nella mia carriera ho fatto qualche migliaio di chilometri, me li ricordo tutti. Ma ce n’è una che aspetto da anni. La ‘gara delle gare’ sarà a fine agosto, la preparazione mi impegnerà per mesi. 171 km e 11.000 metri di dislivello, l’Ultra Trail Mont Blanc è il sogno di tutti».
uno sport duro e puro, ti costringe a non mentire, la preparazione richiede mesi di allenamenti, prove, fallimenti, nottate in bianco, infortuni, tante paia di scarpe consumate. Anche solo per tagliare il traguardo. Per noi ‘pazzi’ tutti aspetti positivi, che regalano orgoglio e sensazioni di pienezza impareggiabili». Ma la corsa lo ha portato a conoscere luoghi, storie, sapori. «Ho avuto la fortuna di provare diverse contaminazioni culinarie. Non ho ancora visitato culture e luoghi tanto diversi, ma ho sicuramente rubato idee. Non vedo l’ora di poter viaggiare ancora. Come la corsa, il viaggio è parte di noi, è nella nostra indole spostarci e visitare altre realtà».
Il presente lo coinvolge, il futuro lo intriga. «Al momento lavoro come dipendente in un ristorante d’albergo, ma mi piacerebbe gestire un posto tutto mio. Penso a un punto di ristoro, con piatti e prodotti locali, la possibilità di organizzare attività sportive e dare informazioni ai turisti sulle potenzialità del territorio. La crisi ti obbliga a ragionare e pesare le scelte prima di lasciare un posto fisso. Ma non mi spaventa, credo nelle mie possibilità. Il segreto è fare tutto con umiltà, senza la presunzione di essere migliori di altri. Nel successo come nel fallimento, siamo la stessa persona. Dobbiamo ricordarci da dove veniamo e cosa vogliamo comunicare. Sono i valori dello sport, più di un risultato cronometrico, un piazzamento sul podio, una medaglia d’oro».■
Metodico, ma dinamico. Nonostante la routine a Marco piace cambiare, rendere ogni giornata diversa. «Lavoro di sera, così il giorno sono libero di allenarmi e dedicarmi al resto. Posti e orari non sono mai gli stessi: anche se vado a dormire tardi, amo svegliarmi all’alba, prendere la macchina e raggiungere qualche luogo isolato. Salgo su una montagna e rimango ad ammirare il paesaggio. Nel silenzio». Difficile conciliare gli impegni, ci sono periodi in cui scegliere è inevitabile. «In cucina non studio da tempo, però ho buona esperienza, conosco diversi prodotti e ricette. Mi sono allontanato dalla ricerca culinaria per concentrarmi su altri aspetti, ma sono pronto in ogni momento a riprendere il mio percorso e imparare nuove tecniche». Le specialità di Marco? «Le cotture lunghe, in particolare il coniglio, le punte di maiale, gli ossibuchi o le guance di manzo. Mi fanno impazzire. La pietanza che preferisco preparare è la quiche (torta salata di origine francese, ndr) con pasta brisée, verdure spadellate, salsiccia fresca e funghi. Il bello della cucina è rendere felice qualcuno. A volte si sbaglia o non si ottiene il risultato voluto, ma se ci si mette passione è difficile che tutto sia da buttare. Apprezzo le cose semplici, i piatti casalinghi, ricchi nel gusto anche se originano da prodotti ‘poveri’». E a chi definisce la sua passione per la corsa esagerata, Marco risponde: «Ho bisogno di fare fatica, vado persino a cercarmela, ma non sono una persona eccessiva. Mi piace avere il controllo di ciò che succede, anche se chi non conosce questo sport lo reputa uno sforzo impossibile. Per il futuro sogno gare di diversi giorni su distanze ancora più lunghe, magari attraverso i deserti. L’ultra trail è Zeta — 33
Sport
Fat & Football, quando il calcio sale sulla bilancia
Un torneo di calcio a cinque nato in Inghilterra e importato in Italia: possono giocare solo persone sovrappeso e i gol si fanno anche sulla bilancia CURIOSITÀ
di Michele Antonelli 34 — Zeta
Sul prato o per strada cambia poco, il calcio diverte un po’ ovunque. Se poi approda sulla bilancia, è una questione di prospettive: "Fat and football" è un progetto importato dall’Inghilterra, un torneo di calcio a 5 in cui tutti i giocatori sono sovrappeso e hanno un indice di massa corporea (parametro che mette in relazione la massa e la statura) superiore a 28. Per vincere? Non bastano i gol, serve anche impegno nella dieta: "È un’idea per far divertire le persone favorendo il loro benessere", spiega Davide Gillo, uno degli ideatori. "Ho vissuto a Londra per 5 anni, partecipando a un’iniziativa simile. Mi piaceva e ho provato a riproporla qui, nonostante le difficoltà. Tutto è nato a luglio 2020, ma abbiamo cominciato con gli allenamenti a ottobre per passare alle prime partite a fine aprile. All’inizio è
stato difficile far capire determinati concetti, ma quando le persone iniziano ad abituarsi ci si diverte". Le città interessate dal progetto sono per adesso Genova, Milano, La Spezia e Lesmo. "Fat and football" prevede partite di 40 minuti (in due tempi da 20’) e si basa su un sistema di punti scientifico. In campo c’è il fattore alimentazione, da non sottovalutare per la vittoria: prima di ogni partita, un nutrizionista pesa i giocatori e passa il risultato agli organizzatori. Alla fine l’arbitro consegna il referto del campo e il giorno successivo si confrontano i numeri della bilancia con quelli della partita precedente, verificando quanti giocatori per squadra hanno perso peso. Se sono 2 si assegna un gol, se sono 3 se ne danno 2, se sono 4 le reti
aggiunte sono tre e se tutta la squadra perde peso i gol in più sono 5. Tutto qui? Non ancora, c’è da considerare il fattore doppietta: se un giocatore dimagrisce per 3 volte consecutive mette a segno due reti nella terza partita. "È un sistema macchinoso all’inizio, ma meritocratico per dare il giusto peso (sì, è proprio il caso di dirlo) all’impegno", spiega Manuela Testa, nutrizionista di SynLAB, che ha seguito gli sviluppi del progetto a Genova fin dagli esordi. "Il percorso - continua - non è semplice. I giocatori compilano un diario, scrivendo cosa mangiano tutti i giorni dalla colazione alla cena e annotando le attività fisiche svolte. In alcuni casi si parla di un vero cambiamento di vita, per questo c’è anche una psicologa che li accompagna e li sostiene nei momenti di cedimento. Spingo per un’alimentazione corretta, cercando di incitarli dopo ogni controllo in base alle variazioni di peso. È poi chiaro che avere un punto di riferimento settimanale aiuta, l’obiettivo è vicino ed è più facile ragionare passo dopo passo". Ma l’alimentazione quotidiana non prevede solo rinunce, "Fat and Football" consiglia ricette gustose e leggere per chiunque. Una di queste è il pancake light: dolce ma con pochi grassi, per un risveglio "attento" e pieno di energia. L’unione fa la forza, in campo e fuori. "Il calcio avvicina perché permette di fare nuove amicizie, giocando ci si diverte di più rispetto a un’ora in palestra e nel complesso i ragazzi stanno raggiungendo risultati importanti. Alcuni - conclude la specialista - seguono una dieta personalizzata e ne ottengono di migliori, ma la cosa più bella è vedere che tutti i giocatori si stimolano per portare avanti la sfida". Per sorridere, con un pallone tra i piedi e un occhio alla linea.■
«Per vincere? Non bastano i gol, serve anche impegno nella dieta: è un’idea per far divertire le persone favorendo il loro benessere»
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Cultura
«Se siete in vena di esotico vero provate Papua: soffrirete, perderete 30 chili di peso e alla fine sarete felice di tornare alla Coca-Cola ghiacciata di Bali! Fidatevi di me».
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Lawrence Osborne il viaggio come cambiamento Da Chatwin, a Hilton, a Graham Greene, per gli “scrittori di viaggio” spostarsi da un punto all’altro del globo come delle trottole spesso non è futile capriccio, è necessità LETTERATURA
di Mattia Giusto
«Avrò visitato qualche centinaio di siti web – portali per viaggi organizzati, brochure governative, semplici schermate piene di informazioni o di resoconti messi in rete da altri escursionisti. Ma il problema del viaggiatore moderno è che non sa più dove andare. Ormai l’intero pianeta è diventato un’installazione turistica, e ovunque si vada resta in bocca il saporaccio del simulacro». Inizia così Il turista nudo, saggio di Lawrence Osborne, scrittore, romanziere e giornalista inglese, che nonostante odi la definizione, è in tutto e per tutto, qualsiasi cosa voglia dire, uno “scrittore di viaggio”.
Ma la vera domanda in un mondo ormai totalmente interconnesso è una: esiste ancora “l’esotico” nell’era di Trip Advisor? L’era dell’omologazione in cui ogni villaggio turistico è una bolla uguale all’altra, in cui la natura è stata addomesticata e ai bar e ai ristoranti di ogni dove si può trovare lo stesso triste bagel con la micidiale accoppiata salmone-avocado. Dalla Dubai «che trabocca di immagini modellate sulla fantasia dei turisti», alla Bali del XXI secolo, in cui un “esotismo addomesticato” e pret-a-porter vede convivere piccoli tempietti soffocati all’ombra di mastodontici resort all-inclusive. Eppure qualche altrove ignoto sem-
so, complici le molteplici possibilità che la globalizzazione ha offerto, molto del traffico si svolge anche in senso inverso. Andando dai paesi ricchi verso i paesi poveri, e questa è un po’ la storia di Bangkok, dove ci sono tanti giovani europei così come ce ne sono tanti in Cina, in Indonesia o in Cambogia.
Sarà forse che il mondo occidentale ha raggiunto un punto di saturazione o, comunque, un punto in cui la vita non migliorerà più, un punto di stallo, di blocco. Corriamo tutti in Asia alla ricerca dell’esotismo, per scoprire che invece è e sarà la nuova padrona della terra e che «i La sua intera opera, che si tratti di nativi, invece di costumi etnici, vestono romanzi o di non-fiction, è il racconto sciccosi completi Armani». di un’inversione, una sorta di contromigrazione che avviene nel mondo conI “porti franchi” per queste esperientemporaneo dall’occidente all’oriente. ze sono sempre ex avamposti occidentali Prima erano le persone dei Paesi poveri in terra d’Oriente, da Macao, «un piccolo che andavano nei Paesi ricchi, ma ades- luogo misterioso, complicato e reticen36 — Zeta
te, un’isola di barocco europeo immersa nei mari del sud della Cina», alle capitali dell’ex Indocina Francese, a Hong Kong. Porti di traffici e perdizioni, in cui si fanno poche domande e si danno poche risposte. Gli occidentali si trasferiscono in questi Paesi e lì si reinventano, a volte svoltando, più spesso barcamenandosi, sopravvivendo alla giornata. Vincendo, rigiocandosi tutto, e spesso riperdendolo. «Agli asiatici non interessa niente, per loro gli occidentali sono praticamente invisibili».
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brerebbe esistere, Osborne lo trova infine a Papua, dopo un lungo e travagliato viaggio della speranza. «Se siete in vena andateci: soffrirete, vi ammalerete, perderete 30 chili di peso e alla fine sarete felici di tornare alla Coca-Cola ghiacciata di Bali! Fidatevi. È capitato anche a me». «Nella sua declinazione inglese, “travel” deriva dal verbo francese travailler, cioè «lavorare, faticare», che a sua volta discende dal nome latino di un forcone a tre punte usato come strumento di tortura. In origine, viaggiare significava intraprendere qualcosa di estremamente spiacevole. Era un concetto medioevale legato ai pellegrinaggi, che comprendeva l’idea di sofferenza. Ma si trattava di un tormento che, alla pari di ogni fuga dalla monotonia della vita quotidiana, veniva ritenuto catartico». Quell’idea di viaggio è stata ampiamente sorpassata: nessuno, ormai, esce di casa alla ricerca di culture ignote. Nella stragrande maggioranza dei casi il viaggio ha lasciato il posto al turismo.
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«Macao, un piccolo luogo misterioso, complicato e reticente, un’isola di barocco europeo immersa nei mari del sud della Cina» Per Osborne il viaggio, se non per forza sofferenza, dovrebbe essere prima di tutto cambiamento. Partire con in mente una sensazione di permeabilità. Prefiggersi di stare in un posto tanto a lungo da non essere più gli stessi una volta ripartiti. È viaggiare, esplorare, imparare, anche alla ricerca di un luogo da poter chiamare casa (e che non per forza deve coincidere con le proprie origini). Dopo tanto peregrinare per l’Asia, Osborne sembra aver trovato “il suo luogo” proprio a Bangkok. Dove vive da farang, termine con cui vengono appellati dai locali i bianchi europei ricchi (o presunti tali) in cerca di fortuna, o anche solo in cerca di qualcosa di diverso. E Perché proprio Bangkok? «Perché è pazza, gentile, selvaggia, caotica, corrotta, serena, meticolosa, raffinata, sensuale, brutta e bella, tutto insieme». ■
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1. Lo scrittore inglese Lawrence Osborne, nato in Inghilterra nel 1958, dopo gli studi a Cambridge e Harvard ha sempre condotto una vita nomadica, come reporter e scrittore, spesso in Oriente 2. La copertina di "Il Turista nudo", saggio di Osborne edito in Italia da Einaudi, da cui sono tratti vari passaggi contenuti nel testo 3. Un cartello nel centro storico di Macao, che riporta le indicazioni in doppia lingua, un ricordo del passato coloniale del porto 4. Il Sukhumvit, una delle principali vie di Bangkok e di tutta la Thailandia
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Cultura
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Paul Gauguin, viaggiatore irrequieto nei colori del mondo Muoversi per fuggire dalle delusioni e trovare serenità. Il pittore ha attraversato i continenti, diventando l’artista viandante per eccellenza ARTE
di Lorenzo Ottaviani
«L’arte è o plagio o rivoluzione. Credo che la salvezza sia solo nell’estremo». Non era uno da mezze misure Paul Gauguin, pittore post-impressionista attivo tra il penultimo e l’ultimo decennio dell‘800. Sperimentatore del colore e delle forme, dovette morire prima di veder riconosciuto il proprio valore di artista. Il suo stile era sintetico, antinaturalistico e simbolista. Le sue opere riguardavano soggetti bidimensionali, piatti e dai colori irreali, distinguendosi dalla teoria e dalle opere impressioniste degli anni precedenti. Un ribelle nelle scelte artistiche e di vita, è sempre stato un ramingo attratto dall’esotico. Nato a Parigi il 7 giugno 1848, fin da giovanissimo si è trovato a relazionarsi con società lontane. La madre Aline, infatti, discendeva da una famiglia 38 — Zeta
spagnola con diramazioni in Perù, dove il neonato Paul visse parte dell’infanzia prima di tornare in Francia. Crescendo, nessuna prospettiva professionale sembrava interessarlo. Dopo un percorso scolastico abbastanza deludente, nel 1861 Gauguin tornò nella natia Parigi e decise di arruolarsi sul mercantile Luzitano. Sotto l'egida della Marina Francese girò il mondo. Rivide il Perù, scoprì Rio de Janeiro e nel 1867 visitò persino l'India. Un viandante che, nonostante le delusioni scolastiche, scopriva la sua attrazione per l’arte. Iniziò a dipingere per diletto negli anni Settanta dell’800, partendo dalle istanze impressioniste fino ad allontanarsene sempre di più. Dopo le prime produzioni modeste migliorò tecnica e visione artistica, e quando il letterato Joris-Karl Huysmans gli conferì «un indiscutibi-
le temperamento di pittore moderno», Gauguin si convinse di avere le capacità per dedicare la propria vita all’arte. Trasferitosi a Rouen (Francia) con la famiglia, provò a vendere alcuni quadri senza successo. Il fallimento lo portò a spostarsi in Danimarca, ma purtroppo per lui non riuscì ad affermarsi neanche lì e i suoi dipinti, realizzati con l’ossessione di guadagnare denaro, non vennero apprezzati. Il suo animo inquieto, smosso ulteriormente dagli insuccessi, lo portò a spostarsi ancora. Stavolta a Pont-Aven in Bretagna, lontano dalla confusione metropolitana. Oltre al minor costo della vita, lo affascinava un luogo che era riuscito a proteggere le sue peculiarità storiche e geografiche dall’avanzare della modernità. Voleva cercare un modo nuovo di dipingere proprio dove la novità sembrava meno presente. Arricchito dall’esperienza bretone fece ritorno a Parigi, ma i costi della vita mondana della capitale gravavano sulle sue finanze in maniera insostenibile. Era il 1887 e Gauguin, come aveva già fatto altre volte quando le cose non andavano, si mise in viaggio. Direzione Taboga. «Conosco a una lega da Panama un'isoletta del Pacifico, è quasi disabitata, libera e fertile. Porto colori e pennelli e mi ritemprerò lontano da tutti». Queste le premesse dell’artista, che invece incontrò un ambiente avverso dal punto di vista sociale e climatico. Ultimo ma non meno importante, non vendette neanche un dipinto. Quindi cambiò ancora, trasferendosi in un villaggio sulla costa nord-occidentale dell'isola della Martinica, colonia
Alla placida acqua stagnante, Gauguin ha sempre preferito il mare in tempesta francese nelle Antille. Qui Gauguin trovò un paradiso terrestre fatto di abitanti esuberanti e vegetazione rigogliosa, che impresse sulla tela con pennellate vibranti e colori intensi. La sua pittura raggiunse un punto di svolta, ma neanche stavolta – tornato in Francia – riuscì ad ottenere il successo sperato. Altre delusioni, nuove partenze. Nel 1890 il pittore prese il largo diretto a Tahiti, dove sperava di entrare in contatto con l’antica civiltà maori, i suoi caratteri genuini e i ritmi vitali degli indigeni non ancora toccati dall’influsso coloniale. Ma l’artista non era ancora pronto per l’agognata serenità, rincorsa da sempre e frenata dagli eventi e dall’irrequietezza del suo animo. Dopo un altro infruttuoso viaggio in Europa, nel 1895 tornò in Polinesia per il suo ultimo trasloco. Nel
«L’arte è o plagio o rivoluzione. Credo che la salvezza sia solo nell’estremo»
villaggio di Paunaania Gauguin visse anni emozionanti, tra problemi di salute, amori e lutti. La meta finale dove, nonostante le sofferenze, la sua esistenza tormentata trovò un po’ di sollievo. Il luogo dove il suo viaggio lungo una vita si concluse.
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Per lui viaggiare significava sottrarsi ad una vita insoddisfacente, cercando nelle novità l’occasione per emergere come artista e trovare la pace interiore. Alla placida acqua stagnante, Gauguin ha sempre preferito il mare in tempesta. Una burrasca che l’ha reso artista immortale, un pittore in grado di mostrare luoghi remoti ed esotici con modernità, sintesi e intensità. ■ 1. Il pranzo, 1891, Musée d'Orsay, Parigi 2. Gli antenati di Tehemana, Tehamana ha molti genitori (Merahi metua no Tehamana), 1893, Art Institute of Chicago 3. Maiali neri, 1891, Museum of Fine Arts Budapest 4. Ritratto dell'artista con il Cristo giallo, 1889, olio su tela, 30×46 cm, Musée d'Orsay, Parigi
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Cultura
"La strada" parole e musica per dirsi addio
Con le canzoni si viaggia e si impara ad accettare il distacco. La Strada dei Modena City Ramblers è un saluto rivolto a un amico, un’esortazione a vivere senza rimpianti MUSICA
di Valerio Lento e Claudia Chieppa
Ai compagni di viaggio, “a chi è rimasto e a chi è andato e non si è più sentito”: trent’anni dopo è ancora a loro che si rivolge La Strada, storico brano dei Modena City Ramblers, tratto dall’album La grande famiglia. Una canzone per chi affronta la vita come un’avventura con le sue scoperte, le sue esperienze e i suoi dolorosi ma inevitabili addii. Iniziato a seguito di un viaggio in Irlanda nel 1989, il percorso artistico della folk band emiliana era stato per anni poco più che un gioco. Nessuna ambizione commerciale, solo la voglia di essere i cantastorie di Modena: «Sapevamo che in Irlanda ogni città ha i suoi “City Ramblers” - racconta il chitarrista del gruppo Giovanni Rubbiani nel libro Combat folk 40 — Zeta
L’Italia ai tempi dei Modena City Ramblers - e ci sembrava carino che anche Modena non fosse da meno». Non senza le insicurezze e le difficoltà iniziali tipiche di un gruppo di cantautori esordienti, il successo arriva comunque. A metà degli anni ‘90, con due album destinati a passare alla storia - Riportando tutto a casa (1994) e La grande famiglia (1996) - il gruppo modenese porta alla ribalta il genere del combat folk: un mix di cultura popolare calata nei fatti politici del proprio Paese. Sullo sfondo della formazione della band si susseguono gli accadimenti che hanno segnato il tramonto della Prima Repubblica italiana: da Tangentopoli agli omicidi di Falcone e Borsellino; dall’ascesa del berlusconismo a quella della Lega Nord.
Le 25 mila copie vendute di Riportando tutto a casa valgono ai Modena un contratto con la casa discografica Black Out/ Polygram e alcune inimicizie con certi centri sociali che non avevano apprezzato il riferimento agli anni di piombo contenuto nel brano Quarant’anni, in cui si parla di“ stragi rosse e stragi nere”. Con il successo arriva anche un radicale cambio di abitudini: diviene presto chiaro che di musica si può vivere, che può essere un lavoro. Ciò significa rinunciare allo stile di vita precedente e con esso a una creatività senza orari né vincoli. Qualcosa a cui nessuno di loro aveva mai pensato. Come racconta Alberto Cottica, il fisarmonicista del gruppo, ciò che affascinava tutti del folk irlandese era proprio il suo lato più spontaneo e amatoriale: «Mi interessava quella musica, il fatto che la si potesse suonare in casa, senza studi o amplificazioni, come facevano in Irlanda tutti quelli che avevo visto suonare nei pub. Gente normale, con una passione e un lavoro altro da quello del musicista, ma in grado di usare la musica per stare insieme la sera e raccontare le storie della propria gente». Tuttavia i ritmi sempre più serrati, le tournée e l’aumento degli impegni legati all’attività promozionale del gruppo iniziano a mettere sotto pressione alcuni suoi membri.
All’inizio del tour de La grande famiglia abbandonano la band Luciano Gaetani (banjo, bouzouki, mandolino) e Marco Michelini (violino) ma l’addio più sofferto è quello di Alberto Morselli, in arte “Albertone”, storica voce della band insieme a Stefano “Cisco” Bellotti. Le registrazioni del nuovo album, iniziate nel novembre del ‘95, sono all’insegna di due tensioni contrastanti: l’emozione per il nuovo progetto e per le numerose collaborazioni presenti nell’album (tra cui quella con il comico Paolo Rossi) e l’amarezza per la partenza di Morselli. Alla base dell’abbandono del cantante ci sono disaccordi politici e musicali. «La situazione si era appesantita», ricorda Cottica nello stesso libro. «Il suo malessere ci imponeva di vivere tutto ciò che accadeva, anche le serate più spensierate, con un senso di precarietà, con l’idea che il gruppo fosse continuamente in pericolo». L’addio di Albertone non lascia strascichi amari, al contrario è proprio al partente “hermano querido”, il caro fratello, che i Modena dedicano La Strada. “Non voltarti, ti prego. Nessun rimpianto per quello che è stato. Che le stelle ti guidino sempre e la strada ti porti lontano”. Un testo che è un inno alla vita intesa come viaggio e continua ricerca della propria felicità, ma anche come percorso originale e personale, dove alla nostalgia e alla tentazione di trattenere ogni affetto subentra la consapevolezza che ogni uomo ha un destino e che ognuno ha il diritto di fare le proprie scelte. Le strade si incontrano, si intrecciano, conducono i viaggiatori a ubriacarsi “nei pub di Galway e nei bar di Lisbona”; ognuno intraprende il viaggio con differenti speranze e aspirazioni, fin quando le strade non divergono. La forza espressiva del brano sta tutta nell’accettare la perdita come parte del viaggio, conservando il bello di ogni esperienza e di ogni rapporto. La conclusione è un augurio che viene dal cuore: “Buon viaggio hermano querido, e buon cammino ovunque tu vada. Forse un giorno potremo incontrarci, di nuovo, lungo la strada”.■
A sinistra, la copertina dell'album "La grande famiglia", del gruppo folk Modena City Ramblers, da cui è tratta anche "La strada", In questa pagina, una via di Lisbona, in Portogallo e le isole Aaran, al largo di Galway, in Irlanda, tra i vari riferimenti geografici citati dal testo
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Cultura
Quattro passi nel turismo oscuro Non tutti sono affascinati dalla normalità. Sono tanti gli appassionati di viaggi inusuali, caratterizzati da un clima spettrale DARK TOURISM
di Laura Miraglia
La curiosità, il senso di esaltazione e il fascino per l’avventura. Sono queste le principali caratteristiche che contraddistinguono una tendenza inusuale tra i viaggi di “nicchia”, il cosiddetto “Dark Tourism”. Conosciuto anche come “black tourism”, è uno dei settori più in voga dagli anni ‘90 ad oggi, grazie anche all’espansione dei mezzi di comunicazione ed è la scelta ideale per coloro che amano le gite alternative, alla ricerca di luoghi anticonvenzionali ed inquietanti. A mostrare una preferenza per vacanze un po' “particolari” sono soprattutto i turisti occidentali, attratti non da bellezze naturali o artistiche, ma da storie drammatiche quali morti accidentali, omicidi, suicidi o disastri naturali. Non 42 — Zeta
tutti però la pensano allo stesso modo. C’è chi ha criticato il dark tourism ritenendolo immorale e poco rispettoso nei confronti del dolore altrui. Tra le mete più affascinanti e coinvolgenti rientra Chernobyl, la città ucraina responsabile del più grande incidente nucleare della storia, Fukushima, nota per la devastazione provocata dal terremoto, e in Italia il comune italiano di Cogne, dove nel 2002 una madre uccise il proprio bambino di soli 3 anni. Curiosità e fascino sono le stesse peculiarità che hanno spinto milioni di spettatori a sdraiarsi sul divano e guardare un film documentario prodotto nel 2007-2008 dal documentarista tedesco Manfred Becker, dal titolo “Dark Tourist”, disponibile su Netflix dal 2018.
“Ho deciso di indagare sul turismo dell’orrore perché sono sempre stato attratto dai lati più strani della vita. Sono interessato a ciò che è folle, macabro e morboso. Viaggio per il mondo alla ricerca di esperienze estreme”. Esordisce così il protagonista della serie, David Ferrier, giornalista neozelandese, autore e narratore di otto episodi nei quali vive ed esplora otto mete diverse, ma accomunate dal rischio e dal fascino che scatenano. Accompagnato dalla sua troupe, il suo principale obiettivo è scoprire le motivazioni che spingono le persone a preferire un’esperienza eccentrica e perturbante rispetto ad una rilassante vacanza in spiaggia o su una nave da crociera. Come il giornalista ha sottolineato durante il documentario, è possibile che il vero piacere del “dark tourism” provenga dalla consapevolezza di vivere delle emozioni solo momentanee, in dei luoghi opprimenti che rimarranno solo dei ricordi dopo essere ritornati a casa. “Dark Tourist” è un docu-film che ci
permette di entrare in contatto con culture e modi di vivere differenti dai nostri usi occidentali, come i culti legati alla morte. Quest’ultimo tema, infatti, ricorre spesso durante la serie ed è anche un elemento caratterizzante del turismo oscuro. Già nel primo episodio, Ferrier raggiunge l’America Centrale sulle tracce di Pablo Escobar, alla scoperta dei rituali legati al culto messicano della “Santa Muerte”. Negli episodi successivi, la troupe si reca in Giappone, per sfidare le radiazioni di Fukushima e sviscerare i misteri legati al Bosco dei Suicidi e all’isola abbandonata di Hashima. Poi negli Stati Uniti, alla scoperta delle tappe legate alla morte del Presidente Kennedy e infine in Europa, dove il giornalista sfida l’esercito cipriota per indagare sulla città fantasma di Famagusta. La serie ha riscosso un grande successo su Netflix ed è stata molto apprezzata anche su Internet Movie Database (IMDb), sito web di proprietà Amazon, con un punteggio di 7,6 su 10. ■
“Ho deciso di indagare sul turismo dell’orrore perché sono sempre stato attratto dai lati più strani della vita. Sono interessato a ciò che è folle, macabro e morboso. Viaggio per il mondo alla ricerca di esperienze estreme” David Farrier
Nella pagina a sinistra, Chernobyl, Ucraina In alto Fukushima, Giappone Qui in basso a destra, il regista David Farrier autore della serie Dark Tourism di Netflix A sinistra Aokigahara, anche nota come "La foresta dei suicidi" situata alla base nord-occidentale del monte Fuji in Giappone
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Cultura
La scoperta di Gerace paradiso d'Europa
L'amore per il territorio della Locride nella storica guida del medico Salvatore Gemelli, studioso appassionato della sua città LIBRI
di Livia Paccarié
“Un figlio che rivive il padre nelle sue opere”, si legge così nella presentazione di Gerace Paradiso d’Europa di Salvatore Gemelli, scomparso nel 1988, firmata dal figlio Paolo Maria Gemelli. Un cammino tra le descrizioni che il padre ha dedicato all’amata città di Gerace, “descrizioni che provengono dal cuore”. «Mettere queste cose per iscritto è stato più importante che continuare a ricordarle soltanto – dice Paolo Maria Gemelli – perché consente a tutti di accedere a un pensiero che prima era intimo e che invece si sceglie di far conoscere e 44 — Zeta
condividere». Per questo la ristampa del libro muove da descrizioni di Salvatore Gemelli non solo prese dal libro Gerace Paradiso d’Europa, ma anche da tutti i libri sulla Locride che ha scritto nel corso della sua vita e che hanno saputo restituire l’identità di Gerace dall’era neolitica fino ai giorni del presente, in cui la città è un luogo di attrazione per molti turisti. «Nella mia introduzione ho ripercorso alcuni spaccati di vita in comune con mio padre, anche se è stato un tempo breve perché lui se n’è andato quando avevo sedici anni, ormai trentatré anni fa», racconta Paolo Maria Gemelli, «Ho poi dichiarato quanto questa ristampa sia un atto d’amore, una dolce fatica, che insieme a Francesco Maria Spanò abbiamo deciso di intraprendere, per l’attualità del libro e per la sua rappresentatività». «Mio padre era un medico, il primario del reparto di Geriatria dell’ospedale che nel periodo della sua attività si trovava proprio a Gerace, in questa ultima
ristampa infatti ci sono anche i ricordi di Pietro Di Nicola, professore di geriatria all’Università di Pavia e collega di mio padre, che ne racconta il carattere eclettico e altruista». Una breve biografia in cui emerge la persona attenta ai temi sociali e assistenziali della geriatria, “sempre con Gerace nel cuore”, cui è rivolto il ringraziamento “da parte dei geriatri dei geriatri di tutto il mondo”. Una personalità, quella di Salvatore Gemelli di cui non solo il figlio, ma la terra calabra, sente la mancanza. «Da quando lui se n’è andato la Calabria si è fermata, fu lui a promuovere il nuovo ospedale di Gerace, era lui che organizzava convegni europei e aveva fatto diventare la città un punto di riferimento per la geriatria. Con la morte di mio padre siamo tornati indietro di tanti anni e lì ci siamo fermati. Finalmente negli ultimi anni, soprattutto con la ristrutturazione dal punto di vista urbanistico, Gerace ha ripreso a essere considerata un’attrattiva anche per i turisti e per chi viene da fuori».■
«Un invito alla conoscenza, non solo turistica, per chi vuole scoprire senza fretta la magia di uno dei borghi più belli d'Italia, crocevia di culture, punto d'incontro tra oriente e occidente, incastonato tra le montagne, lo splendore delle spiagge e il silenzio delle selve» Marina Conti National Geographic Traveler Italia
di Salvatore Gemelli
Il vilaggio trogloditico di Contrada Parrère. È impossibile dare attualmente un'idea chiara del pur grandioso villaggio trogloditico sito nella calda convalle che si sviluppa dalla confluenza delle tre colline di Monserrato, Parrère e Stefanelli dipartentisi dalla Piana di Gerace. Il villaggio è in continuità fisica con la sovrastante Necropoli pre-protoistorica di Stefanelli, con il villaggio a fondi di capanna e con escavazioni imbutiformi di Monserrato e si addentra nella collina di Parrère interessandola in ogni sua parte tanto da sconfinare sino ai livelli della Necropoli e fino all'origine della collina di Stefanelli. In mancanza di uno scavo, è anche impossibile dare un limite cronologico superiore a questo insediamento, mentre appaiono certi la sua frequentazione in epoca medioevale e il suo collegamento tipologico con le città trogloditiche pugliesi e siciliane nonché con gli esempi ndi insediamenti rupestri segnalati a Rossano e Santa Severina. Elementi peculiari dello stanziamento geracese sono la ricchezza degli ambienti conservati, la strutturazione di questi ultimi in più vani anche su due piani (vedi esempio Ctr. Stefanelli) e intercomunicanti, la mancanza di affreschi, la ripetitività degli schemi architettonici piuttosto monotoni e la presenza di quattro esempi di grotte vastissime, di origine naturale, le quali inizialmente erano chiuse con frasche e travi e in un caso da muratura includente mattoni bizantini. Un altro fatto non secondario è che il fenomeno trogloditico geracese supera i
confini di Ctr. Parrère e abbraccia l'amba di Gerace con l'abitato e uno spicchio di territorio che, per la sua natura geologica, si estende nelle campagne solo nel settore di Sud-Est. Il fatto è degno di studio sia per la vastità che per il fenomeno in sé. Nella sua estensione maggiore, infatti, esso ingloba tipologie differenziate e specializzate di strutture trogloditiche, come le Chiese rupestri e le vie "militari" che attraversano, in più direzioni, il sottosuolo dell'abitato moderno. Tutto ciò dà una certa configurazione tipologica alla civiltà cavernicola di Gerace e, mentre sollecita gli studiosi a indagare, ne accentua il carattere ancora pregno di segreti e di misteri. Parreri, italianizzato in Parrère, è il plurale di parrera, cioè "cava di pietre", francesismo diffuso nel reggino (da perrier). La nuova Gerace, quella post-italica e post-cavernicola, è sorta grazie alla distruzione di immensi banchi di arenaria e di molassa nei quali erano scavate tantissime grotte. ■
di Francesco Maria Spanò
“Gerace Paradiso d’Europa”. È questo il titolo che Salvatore Gemelli – l’illustre geriatra che coltivava con pari passione l’arte della medicina e l’arte del donarsi generosamente agli altri – ha dato nel 1983 al suo libro, prendendo spunto da un tretastico dell’opera Veneranda Locrensis hoc est Martyris Hyeracen Elogia, scritta nel 1727 dal sacerdote, nobiluomo e latinista geracese, Francesco Malarbì. Per la città di Gerace patrizi, cittadini, artisti, e tutto il popolo rendono grande da ogni parte la città. E che dire dei luoghi, delle fonti, dei paesaggi e dell'ambiente? Essi affermano chiaramente che qui c'è il Paradiso dell'Europa.
Il Malarbì attribuisce a Gerace nel 1727 le giuste lodi, intese come espressione dell’amor civicus, a cui non può certo sottrarsi la parte culturalmente più elevata della popolazione. La città di Gerace pensa in grande, per un “vizio” genetico. Figlia prediletta della Magna Grecia, ha accolto nei secoli Romani, Bizantini, (Goti, Longobardi), Arabi, Normanni, Svevi, Angioini, Aragonesi, Spagnoli, Austriaci, Francesi, non come conquistatori, perché non ha un’anima servile, ma come ospiti imposti da necessità storiche, dai quali ha saputo attingere parte del suo patrimonio culturale. Ferma nel suo credo religioso (città delle cento chiese) ha cristianamente accolto una comunità ebraica e consentito una sinagoga. La Gerace del Settecento era più grande della sua area ristretta dalle mura. Dall’alto della sua rupe su cui mollemente si adagia, non si vedevano confini, ma solo orizzonti. E mentre la Storia era affaccendata a risolvere con trattati e sui campi di battaglia, problemi dinastici e di equilibri politici, e mentre cominciavano a germinare i presupposti delle Grandi rivoluzioni (americana del 1775 e francese del 1789), gli intellettuali calabresi entravano in rapporto con gli ambienti culturali di Napoli e di Roma, vasi comunicanti di altri ambienti culturali a loro volta vasi comunicanti… Come Malarbì - che potremmo definire un europeista ante litteram – e i tourists dal Cinquecento all’Ottocento si rivolgevano a un’élite culturale colta - che ha contribuito a far nascere l’Europea contemporanea -, così oggi la generazione Erasmus, il polilinguismo diffuso, la libera circolazione, potrebbero dare all’Europa la forza per un cammino comune. Perché, quale che sia la nostra nazionalità e al di sopra o al di fuori di qualunque Trattato e di qualunque volontà politica, i grandi eventi devono risvegliare l’identità di spirito europeo.».■ Zeta — 45
Cibo
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La cucina dello chef Alex Atala è un viaggio antropologico all'interno della cultura brasiliana, un esperimento apprezzato da critici e clienti di tutto il mondo che mescola gli ingredienti indigeni alle tecniche della haute cuisine CLASSICI
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Alex Atala, l'antropologo in cucina È uno degli chef più ammirati al mondo. Alex Atala è riuscito a portare il Brasile, suo paese di origine, sulla mappa della cucina mondiale e ad attirare l'attenzione di cuochi e professionisti del cibo grazie al lavoro fatto sugli ingredienti indigeni brasiliani.
di Giuliana Ricozzi
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Nato nel 1968 nella regione di San Paolo, una delle città più importanti dell'America Latina per la sua ricchezza gastronomica, Atala si scopre amante della cucina solo in un secondo momento. Il suo primo interesse e i suoi primi lavori sono infatti nel mondo della musica. Fa per molti anni il DJ, suonando nei club della città.
Il colpo di fulmine con la cucina professionale arriva durante un viaggio in Europa. Dopo la scuola alberghiera a Namur in Belgio, Atala si perfeziona all’Hotel de la Côte d’Or di Jean Pierre Bruneau e Bernard Loiseau. Per qualche anno lavora anche a Montpellier e a Milano, dove apprende le tecniche della cucina italiana e francese. Fa ritorno in Brasile dove fonda, nel 1999, il ristorante “D.O.M”, un luogo di creatività e sperimentalismo poco lontano dalle spiagge di San Paolo. Il nome è l’acronimo di Deo Optimo Maximo, il motto dei monaci benedettini spesso usato per indicare i luoghi dove i pellegrini stanchi potevano mangiare e riposare.
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Time ha inserito Atala tra le 100 personaLa cucina di Atala contiene una sfilità più influenti. da che è allo stesso tempo antropologica e culturale. Tra le tecniche dello chef ci Dieci anni dopo l'apertura del sono infatti anche i “sapori dinamici” “D.O.M.”, lo chef brasileiro ha inaugurato generati dalla putrefazione, lo stadio inun altro locale, “Dalva e Dito”, che pro- termedio fra il crudo e il cotto, per citare pone una cucina più casual fatta di piatti un’opera del celebre antropologo Claude sostanziosi e di conforto, pensati sempre Lévi-Strauss, a simbolo di una civiltà e di con lo scopo di mettere in risalto gli ingre- un modo di cucinare che non vogliono dienti brasiliani e popolari. Nel 2017 ha essere stravolti dall’occidentalizzazione infine aperto “Bio” la cui filosofia è quella e dalla modernità. di utilizzare in fase di preparazione l’intero ingrediente, dai semi alla corteccia. Con Alex Atala le comunità indigene hanno ritrovato la loro voce e dominato L’impegno di Atala non solo a produr- i presunti conquistatori, obbligando l’alta re del buon cibo ma anche a usare la cuci- cucina classica a riconoscere e valorizzana come strumento di conservazione e di re un universo culinario per troppo temresponsabilità sociale ha portato all'intro- po trascurato e tralasciato, ma in grado duzione di ingredienti nuovi e sconosciu- di riservare sorprese continue e di aprire ti nel suo menù, alla realizzazione di piat- la strada ad esperienze gustative inediti innovativi e sperimentali, pur nel loro te. «A gastronomia brasileira é um sonho attaccamento al territorio, come l'ananas viável», la gastronomia brasiliana è un con le formiche, il millefoglie di manioca, sogno realizzabile.■ le fettuccine di cuore di palma.
L’ingrediente segreto della sua cucina è il multiculturalismo. Atala si rifiuta di importare in Brasile ingredienti come caviale, tartufi e foie gras, elementi fondamentali in molte cucine di ristoranti di alto livello. Setaccia invece l'Amazzonia alla ricerca di prodotti indigeni da fondere con le tecniche classiche e lavora con le comunità indigene, inclusi i piccoli produttori, per estendere la disponibilità delle materie prime locali in tutto il Brasile. «Scommettere sull’identità e i prodotti brasiliani significa anche fornire una nuova fonte di reddito a regioni e comunità del mio paese, contribuendo attivamente alla salvaguardia dell’ambiente; il foie gras non vale più della manioca». Per la sua visione rivoluzionaria e antropologica della cucina brasiliana, Alex Atala ha ottenuto grandi riconoscimenti e molti premi, in Brasile e all'estero. “D.O.M.” è stato il primo ristorante del paese ad essere insignito di due stelle Michelin e ad ottenere le vette della classifica dei 50 migliori ristoranti dell’America Latina e del mondo. Nel 2013, la rivista 1. Alex Atala, chef brasiliano alla guida del D.O.M. di São Paulo , il miglior ristorante del Brasile 2. Fettuccine di cuore di palma con funghi Yanomami 3. La pubblicazione di Phaidon èche raccoglie tutta la ricerca e l'essenza del D.O.M. e della filosofia di Atala che ha gettato le basi per la creazione di un'alta cucina brasiliana 4. Ostrica con cupuaçu, frutto di un albero delle foreste pluviali tropicali, imparentato col cacao ma con l’aggiunta di un aroma fruttato che ricorda la papaya e le banane
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Cibo
Un halo halo vicino Termini, un rasgulla a un passo dall’Eur
Uscire dalla comfort zone per assaggiare piatti nuovi: odori, gusti e storie che raccontano Paesi e culture lontane. Un viaggio nelle comunità filippina e bangladese, la seconda e la terza più popolose della capitale TRADIZIONI
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di Natasha Caragnano
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A Roma, locande e trattorie riempiono le strade, i vicoli e le piazze del profumo di menta e basilico. Una cucina semplice, ma saporita e corposa in cui l’odore forte del pecorino romano si fonde al sapore intenso del sugo di pomodoro. Ma tra sanpietrini e guanciale, nel corso degli anni, si è fatto spazio l’aroma intenso di spezie e agrumi, odori e sapori che portano con sé culture e storie lontane: secondo i dati Istat, 501.764 per l’esattezza. La città metropolitana di Roma è al terzo posto, dopo Firenze e Milano, per l’incidenza di cittadini stranieri nella popolazione. E per conoscere le tradizioni e la cultura di questi Paesi non serve portare con sé passaporto e bagaglio.
«I filippini a Roma sono più di 42mila, non abbiamo problemi di clientela!» scherza Romolo Salvador, proprietario del ristorante Manila Restaurant, uno dei punti di riferimento per la seconda comunità di stranieri più numerosa nella capitale. «È il bello di avere un locale etnico. Vengono i tuoi conterranei per sentirsi a casa, ma anche tanti italiani per assaggiare piatti nuovi», Romolo ha la risposta sempre pronta e uno sguardo radioso. Mentre si muove tra tavoli e clienti si capisce subito che il ristorante, aperto nel 2016 insieme a sua moglie, è il suo sogno da quando è arrivato in Italia nel 1984: «Ho trovato lavoro come cameriere in un ristorante di lusso a Trastevere. È lì che ho imparato questo mestiere», specifica sorridendo.
Nella cucina filippina si fondono le tradizioni di Paesi vicini come Malesia, Indonesia e Thailandia. «La differenza con gli altri piatti asiatici è che i nostri sapori tendono al dolciastro. Ma facciamo una pausa così puoi assaggiare qualcosa!» segue contento il cameriere mentre porta una coppa di coccio e un piatto di riso. «Il Sinigang è un tipo di brodo. La carne viene cotta con acqua, aceto e succo di tamarindo, un prodotto locale simile al limone». A Manila Restaurant manca solo il rumore del mare per sentirsi su una delle sette mila isole nel Pacifico Occidentale, soprattutto quando Romolo prepara grandi tavolate ricoperte da foglie di banano. «Il Boodle Fight è un modo tradizionale di presentare i piatti che si condividono e si mangiano con le mani. Vengono tanti gruppi d’italiani a conoscere una delle nostre usanze tipiche», racconta Romolo mentre serve il dessert a un gruppo di ragazzi. «L’halo halo non è altro che una grattachecca romana, un dessert rinfrescante con diversi ingredienti come fagioli rossi dolci, gel di ananas e cocco». "Mescola mescola" è il significato del suo nome nella lingua originale e anche l’unico modo per assaporarlo. Un dolce che nasce dall’influenza di altri Paesi che nel corso dei secoli hanno occupato le Filippine. Furono gli americani a introdurre il ghiaccio nell’Ottocento e a costruirne una fabbrica nel 1902, a Manila, quando il loro dominio si sostituì a quello spagnolo, mentre all’origine della ricetta c’è il kakigori giapponese, una ciotola di ghiaccio
tritato con sciroppi e latte condensato che riempie tutto il locale dove grandi tende i giapponesi hanno importato durante la gialle aprono su una sala dai ricchi colori loro occupazione iniziata nel 1942. e un piccolo bancone. «Ti piace il dolce?», chiede gentile mentre con un cucA trenta minuti d’auto, Hasan Ba- chiaio mescola dei bocconcini gialli. «Il rishal, responsabile di sala e cucina del rasgulla è un dessert tipico a base di latte, ristorante Khan Indian Restaurant, ver- immerso in sciroppo di zucchero come sa una goccia di latte nel tè caldo: «Lo la maggior parte dei dolci preparati nella compriamo dal Bangladesh!», dice orgo- regione», ma anche la ragione del conglioso. Hasan vive in Italia da otto anni, tendere tra Bangala Occidentale e Orisdopo un breve periodo a Milano ha deciso sa, stato dell’India Orientale. Il dibattitto di trasferirsi a Roma perché «ci sono più sulla maternità del rasgulla è stata vinta persone del mio Paese d’origine». Se- dal Bangladesh che nel 2017 ha ricevuto condo i dati raccolti dall’Istat, con più di il tag GI, indice che riconosce l’origine 32mila bangladesi che vivono nella capi- geografica di un prodotto. tale quella di Hasan è la terza comunità di stranieri a Roma. «La nostra cucina è Un’azione semplice, e ormai fremolto simile a quella indiana. Il chicken quente nelle nostre vite, come prenotare biryani, pollo con diverse spezie, è uno un tavolo al ristorante può essere molto dei piatti tipici. È molto amato a Londra», di più di un pranzo o una cena. Offrire racconta mentre indica sul menù l’imma- un’esperienza unica per conoscere cultugine. La cucina del Paese è, infatti, molto re e tradizioni di altri Paesi. E le cucine famosa nel Regno Unito, mentre in Italia di Romolo e Hasan sono solo due esempi è ancora poco conosciuta «anche se ab- dei tanti sapori e aromi che colorano le biamo anche qualche cliente italiano», strade delle nostre città.■ racconta Hasan. L’odore forte del curry e delle spezie
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1. Khan Indian Restaurant, il ristorante bengalese all'Ardeatino 2. Java rice, piatto tipico della cucina filippina 3. Ragasulla, dessert bangladese a base di latte e sciroppo di zucchero 4. Halo Halo, una miscela di ghiaccio tritato e latte condensato a cui si aggiungono vari ingredienti come la nata de pina (gel di ananas) e la nata de coco 5. Germogli di soia e tofu con verdure saltate, Manila Restaurant, Roma 6. Romolo Salvador, proprietario del ristorante filippino Manila
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Ghiottone, il commensale che tutti vorremmo Dopo quasi novant’anni, il testo che ha inaugurato la critica enogastronomica in Italia è più che una semplice guida tra ristoranti, cantine e trattorie CLASSICI
di Carlo Ferraioli
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Un giornalista buongustaio, dalla corporatura robusta, e un vignettista satirico, peraltro astemio e inappetente. Inizia così il viaggio culinario da sessanta soste di Paolo Monelli e Giuseppe Novello fra osterie, botteghe e taverne italiane. Erano i primi anni Trenta del ‘900 e poco dopo, nel 1935, sarebbe uscito “Il Ghiottone errante”, libro da molti considerato capolavoro che nasce «come raccolta di articoli ma diventa un viaggio di sapori, costumi e tradizioni», dice Eleonora Cozzella, scrittrice e giornalista enogastronomica. L'opera vide la luce dopo che la Gazzetta del Popolo di Torino commissionò alcuni pezzi culinari a Monelli, che di lì in poi divenne capostipite – assieme alla sua
opera – di una serie notevole di scrittori gastronomici come Mario Soldati, Gianni Brera, Luigi Veronelli e Gianni Mura. Il Ghiottone errante è stato e rappresenta ancora oggi il viaggio italiano che associa bellezze a sapori, persone a prodotti autentici. Dal racconto ne vengono fuori resoconti acuti e spassosi, ma anche attuali. «Il testo ha dei precedenti», indica Cozzella, «ma inaugura la critica enogastronomica italiana». Se infatti partiamo da lontano, dal Rinascimento italiano, giungiamo al 1548. Quando un erudito milanese, Ortensio Lando, scrisse il Commentario delle più notabili e mostruose cose d'Italia e d'altri luoghi, una guida parodica su cibo, uomini e parole, alle quali viene attribuito un potere rivelatore. È il
di vivere». Il Ghiottone errante lega fame di buon cibo e belle lettere.
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primo esempio italiano che più si accosta all’idea di sapere gastronomico tenuto assieme in un unico testo. Lando fa uso di una specifica tecnica narrativa, immaginando un oste decantare specialità gastronomiche ed enologiche per scoprire l'Italia con un viaggio tra i prodotti e le cucine. «Il suo esser stato pioniere ha fatto sì che in Italia si conoscessero anche pietanze prima ignote aldilà dei confini regionali. Siamo negli anni ’30, dove al nord non si mangiava pasta, che era invece un alimento tipico del centro-sud. E dove in diverse aree si parlava solo il dialetto locale», sottolinea l’esperta. Eppure il primo esempio di giornalismo dedicato al buon cibo e al buon vino non è neanche di un italiano. Anzi, si può dire che il viaggio del Ghiottone abbia preso le mosse dall’opera Osteria: guida spirituale delle osterie italiane da Verona a Capri, del tedesco Hans Barth. Il testo fu tradotto per la prima volta in italiano nel 1910 con la prefazione di Gabriele d’Annunzio e, come scriverà lo stesso autore nella Notarella iniziale, vuole offrire ai suoi connazionali una guida pratica, sincera e sicura, per le osterie da lui visitate. 1. Copertina della prima edizione de "Il Ghiottone Errante" di Paolo Monelli, edito nel 1935 da Fratelli Treves, Milano 2. Vignetta fra i due commensali immaginati dall'illustratore Giuseppe Novello, in riferimento al vino Lambrusco 3. Copertina di "Osteria" del tedesco Hans Barth, 1910 4. Vignette di Giuseppe Novello su paesaggi e luoghi visitati 5. Commensale illustrato da Giuseppe Novello 6. Eleonora Cozzella, giornalista e critica enogastronomica
Ma Paolo Monelli e Giuseppe Novello nel loro girare a zonzo offrono un taglio nuovo aggiungendo per la prima volta anche l’elemento della “diatriba alimentare”. La strana coppia infatti – un ghiottone e un moderato – tratta ed esamina di cibi, osti (ma nessun masterchef ), paesaggi, tradizioni, monumenti, fino a trucchi per trovare frescura d’estate, pur partendo da gusti e appetiti diversi. «Una sorta di scherzo fra di loro che oggi potremmo ricondurre agli screzi fra vegetariani e carnivori». La prosa è aulica, corposa e raffinata. «Ho letto libri sacri e profani, ho cercato in mille volumi certezze e consolazioni - scrive Monelli - ma nessun libro vale questo volume di lasagne verdi che vi mettono davanti i sagaci osti bolognesi.... sfogliate, divorate pagine: è un decameroncino, un manuale di filosofia stoica, una consolante poesia che vi fa contenti
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Il fatto che in tutta Italia un appassionato di gastronomia avesse a disposizione la lettura di questo libro significava avviare un’unione delle culture gastronomiche. Dal punto di vista antropologico, infatti, «è interessante osservare come si siano evoluti i costumi di ristoranti e trattorie. Il modo di vedere il cibo dell’autore è sempre in relazione alle persone e al complesso. È un ghiottone perché va alla scoperta di cose buone, ma mai esagerando con estreme quantità. Addirittura, alla fine di quello che lui stesso chiamerà ‘giro d’Italia mangereccio’, dice di ritrovarsi più in forma di quando è partito, per aver praticato quello che io chiamo ‘mangiare come gesto atletico’, ossia saper gestire il proprio corpo su cosa e quanto mangiare. Saper anche rinunciare», osserva Eleonora Cozzella. Tutto è contestualizzato. Monelli ci racconta di come le persone si mettano a tavola, cosa viene prima e dopo il pasto. «È il commensale che tutti vorremmo». L’autore e Giuseppe Novello apprezzano il cibo da più punti di vista e in primis come frutto di un viaggio: mangiare non è mai un gesto fine a sé stesso. È una scoperta: come si cucina, come si serve, assaggiare un vino per la prima volta. «Anche se ha parlato di trattorie che in certi casi non esistono più, il suo è un testo attuale e non solo una recensione. Se pensiamo infatti che questo business valeva prima della pandemia fra i 5 e i 7 miliardi di euro, capiamo quanto l’autore sia stato il precursore di uno stile letterario che negli anni ha avuto un ampio ritorno economico. Lui ha iniziato un cammino dove la gastronomia è stata sia il fine che la causa».■
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La Guida di Zeta a cura di Mattia Giusto
Tre personaggi in cerca di un drink Tre drink per l'estate 2021 che omaggiano il senso del buon bere. Una selezione di cocktail che permette di portare a tavola, oltre al bicchiere, anche una storia
Hemingway's daiquiri
Papa era il soprannome con cui i cubani chiamavano lo scrittore Ernest Hemingway, un fervido e assetato, estimatore del "succo fermentato di canna da zucchero", in una parola, il rum. Durante la sua permanenza a Cuba, Hemingway provò il cocktail di punta del Floridita, il Floridita Daiquiri, e disse: «È buono, ma lo preferisco senza zucchero e rum doppio».Il bartender del Floridita, Constantino Ribalaigua, creò quindi per lui un cocktail che oggi è noto come Hemingway Daiquiri o Papa Doble. L'Hemingway Special non è altro che un Daiquiri in cui lo zucchero viene sostituito con succo di pompelmo e maraschino, il famoso liquore distillato dalla ciliegie. Tanto è vero che è chiamato anche Daiquiri Hemingway Special o Hemingway cocktail. Il risultato è un cocktail più carico e arrembante, inebriante, fresco e slanciato, ma con una gradazione alcolica molto alta, anche se camuffata dalla dolcezza del maraschino e dalla freschezza apportata dal pompelmo. 52 — Zeta
Ingredienti 60 ml di rum 40 ml di succo di pompelmo 15 ml di maraschino 14 ml lime fresco Preparazione Per preparare l’Hemingway Special c’è assolutamente bisogno di uno shaker. Colmarlo di ghiaccio e versare dentro il rum, il succo di pompelmo, il succo di lime e il maraschino. Agitare, filtrare con uno strainer direttamente in coppetta, così com’è.
Frida's Mezcal Il 6 luglio 1907, nasce a Coyoacán, un sobborgo di Città del Messico, Magdalena Carmen Frida Kahlo y Calderón. Più semplicemente Frida. Una vita travagliata, cesellata da drammi e grandiose vittorie, un ondivago percorso che avrebbe piegato chiunque come un filo di seta, ma non Lei. Eroina del suo tempo come del nostro, ancora oggi fonte d’ispirazione nel tratto artistico quanto nell’attivismo politico. “Il Frida's Mezcal” è un drink che interpreta in pochi sorsi la dicotomia di forza e dolcezza della Khalo. Il suo cuore è il Mezcal, l'anima stessa del Messico, che intrecciandosi ad Armagnac e al Triple Sec regala al palato un'esplosione di gusto, fresca e invadente insieme. In equilibrio perfetto nonostante sia fatto di voci solitamente soliste. Un puzzle liquido pieno di vita, e di contrasti, esattamente come la grande donna che l'ha ispirato. Ingredienti 30 ml di Mezcal 40 ml di Armagnac 30 ml di Triple Sec 30 ml di succo di lime 10 ml di Sciroppo d’agave Preparazione Versare tutti gli ingredienti nell’ordine come in elenco nello shaker insieme a poco ghiaccio. Agitare energicamente e trasferire il liquido nella coppa dopo aver “setacciato” per due volte con la tecnica del “rolling” - versare da un bicchiere all’altro del boston shaker, servire in una coppa da champagne.
Johnny Depp's Singapore Sling Hunter S. Thompson non ha adottato moderazione. Non un po'. Né i suoi personaggi. Dati i loro molteplici gusti in fatto di droghe e alcol, la loro scelta di una bevanda specifica è molto probabilmente abbastanza arbitraria, ma la scena in cui li bevono tende a rimanere impressa nella memoria. «Eravamo seduti lì al Polo Lounge – per molte ore – a bere Singapore Slings con mezcal e a mangiare salatini. E quando è arrivata la chiamata, ero pronto. Il Nano si avvicinò al nostro tavolo con cautela, se ben ricordo, e quando mi porse il telefono rosa non dissi nulla, mi limitai ad ascoltare.» I personaggi di "Paura e delirio a Las Vegas" sono bevitori prolifici e il Singapore Sling è solo una delle loro libagioni durante il loro viaggio. Ricreare la celebre scena a bordo piscina probabilmente si dimostrerebbe una sfida troppo grande, se non disponete di un bordo piscina, un nano e un telefono rosa potrete comunque ricreare almeno il drink.
Ingredienti 3 cl di gin 1,5 cl di apricot brandy, 0,75 di triple sec 12 cl di succo di ananas 1,5 di succo di limone 1 cl sciroppo di granatina 1 goccia di Angostura Preparazione Prendete lo shaker e versate tre cubetti di ghiaccio. Unite il gin aiutandovi e l’apricot brandy, il succo di limone, il succo di ananas, lo sciroppo di granatina e una goccia di Angostura. Agitate il tutto per 12-15 secondi. Prendete un bicchiere da long drink e versate la miscela filtrandola con lo strainer. Guarnite con un quarto di fetta di ananas e una ciliegia al maraschino.
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Saluti dalla Redazione
È finito un viaggio di crescita e condivisione. Ora quello che rimane è l’inizio di un sogno e la voglia di continuare a superare i propri limiti. Elisabetta Amato | Ai miei Profs, che mi hanno insegnato a credere in me. E ai miei compagni, che mi hanno insegnato a con-dividere. Rifarei tutto. Erika Antonelli | Due anni tosti, intensi e indimenticabili. Non è una fine, sarà uno splendido inizio. Michele Antonelli | Se guardo indietro vedo fatica. Se guardo avanti vedo speranza. Nei vostri occhi, i miei stessi sogni. Vi voglio bene, grazie di tutto Zeta Luiss. Camillo Barone | Saluto la scuola di giornalismo come si salutano i compagni di liceo l'ultimo giorno di scuola. A presto, con affetto. Gabriele Bartoloni | A una redazione che tra articoli, risate, Gr e domande esistenziali è diventata casa. A tutti noi, perché c'è ancora tanto da vivere! 再见! Natasha Caragnano | Sono stati due anni di crescita umana e professionale. Un'esperienza che non sarebbe stata la stessa senza il confronto con i miei colleghi e professori. Grazie a tutti. Claudia Chieppa | È con affetto e nostalgia che saluto la Scuola di Giornalismo, una palestra di vita che mi ha fatta crescere professionalmente e umanamente. Martina Coscetta | Solo quando finisce sai che ti mancherà. E se non finisse affatto? Viale Pola è insaziabile, non si esclude il ritorno. Enrico Dalcastagné | Mi mancherà tutto della scuola, perché l'ho amata e l'ho odiata. Simone Di Gregorio | Tante cose potrò dimenticare della mia vita, ma non la Scuola di Giornalismo Luiss. Dall’idea al metodo. Atteggiamento vincente. Professione e intensità. Chi proverà, capire potrà. Carlo Ferraioli | After such an harbor, it will be hard not to feel lost at sea. Mattia Giusto | Il tempo passa ma lo Zozzone resta. Valerio Lento | "Chi torna da un viaggio non è mai la stessa persona che è partita". E dopo due anni a Viale Pola 12, nessuna certezza appare più grande di questa. Angelica Migliorisi | Questa scuola è stato il primo goal di una lunga partita, ancora da vincere. Come una mamma, ci ha insegnato ad andare in bicicletta. Adesso tocca a noi pedalare, ma la mamma sarà sempre la mamma. Laura Miraglia | Due anni che non dimenticherò. È stato un piacere. Fadi Musa | Gli insegnamenti, la lontananza, le risate, i piani per il futuro. La redazione è stata una barca in viaggio lungo un mare increspato, ma che siamo riusciti a gestire. Non fermiamoci qui. Lorenzo Ottaviani | Finisce un viaggio e ne inizia un altro. Con la consapevolezza di aver ricevuto e dato il massimo e con la speranza di rincontrarsi lungo la strada. Livia Paccarié | Davanti a un pc, nella redazione di Viale Pola tra uno stop e l'altro: la scuola di giornalismo in questi due anni ha costruito le basi del nostro futuro. Non dimenticateci. A presto. Gian Marco Passerini | Mi dicevano: «devi andare fuori da qui, fuori dove viene fuori l’accento». Avevano ragione. Silvio Puccio | Una bella sfida durata due anni. Buona fortuna a noi e in bocca al lupo a chi prenderà il nostro posto nella redazione di viale Pola. Giuliana Ricozzi | Condividere, spartire con gli altri il proprio modo di essere. Chiara Sgreccia | Entrai a viale Pola sicuro di aver capito tutto, ma voglioso di mettermi in gioco. Ne esco, due anni e molti articoli dopo, convinto che non avevo capito niente. Ma ora sono pronto. Francesco Stati | Felice e grato per questa esperienza. Abbiamo sofferto, lottato insieme. Con coraggio e generosità. Mi mancherete. Jacopo Vergari. 54 — Zeta
Faculty: Roberto Saviano, Francesca Mannocchi, Bill Emmott, Jeremy Caplan, Sree Sreenivasan, Moises Naim, Jason Horowitz, Gianni Riotta
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