Periodico della Scuola Superiore di Giornalismo “Massimo Baldini” Numero 2 Marzo 2022
16
Conflitto L’orgoglio ucraino
36
26
I bambini non parlano più
Il «nuovo vocabolario» di Ennio
41
La follia diventa arte
28
Dicotomia urbana
Data Lab
Italian Digital Media Observatory Partners: Luiss Data Lab, RAI, TIM, Gruppo GEDI, La Repubblica, Università di Roma Tor Vergata, T6 Ecosystems, ZetaLuiss, NewsGuard, Pagella Politica, Alliance of Democracies Foundation, Corriere della Sera, Fondazione Enel, Reporters Sans Frontières, The European House Ambrosetti, Harvard Kennedy School e Ministero degli affari esteri e della cooperazione internazionale
La parola
di Beatrice Offidani
Start
Mappe e infografiche della guerra di Luisa Barone e Claudia Bisio
Guerra
Periodico della Scuola Superiore di Giornalismo “Massimo Baldini”
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Numero 2 Marzo 2022
Gli occhi del nemico
8
La finestra Twitter sulla guerra
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Le informazioni come armi
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La guerra più social
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L’Unione Europea tra due fuochi
14
Contro i numeri di Putin
16
Nella rete del nemico
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Tutte le bugie di Putin
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Putin contro Zelensky
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Il fantasma dei corridoi umanitari
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Le conseguenze dell’ecocidio russo
24
«I bambini non parlano più»
26
di Elena La Stella
di Yamila Ammirata e Silvia Andreozzi di Giulia Moretti
di Claudia Bisio e Giorgia Verna di Luisa Barone
di Silvano D’Angelo
di Lorenzo Sangermano
di Leonardo Pini e Martina Ucci di Francesco Di Blasi
di Silvia Stellacci e Martina Ucci
di Leonardo Aresi e Federica De Lillis di Giulia Moretti
Photogallery
Dicotomia urbana
di Giorgio Brugnoli e Anastasia Pensuti
Italia
28
Le vite degli altri
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Quando un bicchiere diventa bottiglia
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Addio al posto fisso per un sogno
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Lividi nella mente
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di Elena Pomè
di Giorgio Brugnoli
di Maria Teresa Lacroce
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4
di Silvia Morrone
Cultura
Il «nuovo vocabolario» di Ennio
36
L’opposto di me stessa
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Gerda e Robert, fra guerra e amore
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La sfida di Giuditta
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La follia diventa arte
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di Valeria Verbaro di Silvia Pollice
di Anastasia Pensuti di Valeria Verbaro
di Leonardo Pini e Silvia Stellacci
Spettacoli
La bomba dentro casa
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Cibo contro l’odio
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Novecento, il secolo dimenticato
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di Lorenzo Sangermano di Enzo Panizio
di Alissa Balocco
Sport
Il fútbol all’ombra della Giralda
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Dalla curva alla trincea
48
La nuova Super Lega
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di Antonio Cefalù
di Niccolò Ferrero di Antonio Cefalù
Cibo
Cena a Mosca
di Caterina Di Terlizzi
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I concerti dell’estate
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Parole e immagini
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La guida di Zeta di Claudia Bisio
Dove sei, mondo bello, West Side Story di Ludovica Esposito
Ci sono cose da fare ogni giorno: lavarsi, studiare, giocare, preparare la tavola, a mezzogiorno. Ci sono cose da far di notte: chiudere gli occhi, dormire, avere sogni da sognare, orecchie per sentire. Ci sono cose da non fare mai, né di giorno né di notte, né per mare né per terra: per esempio, la guerra. “Promemoria” di Gianni Rodari
Conflitto Utilizzato in campo giuridico, politico e nei terreni di battaglia che di frequente diventano teatro dell’imprescindibile violenza umana. Dal latino fligo (colpisco). La forma intensiva, flecto (piego, fletto), ricorda l’azione del fabbro che piega il ferro, con l’aiuto del fuoco che arde (flagro). Il termine nelle sue accezioni è ben lontano dall’ispirare in chi lo ascolta o lo pronuncia sentimenti di gioia che rendono accettabile, nella sua complessità, la vita umana. Il conflitto è nella società, nella quotidianità, nella profonda essenza dell’essere umano. Già nel 1932 Einstein interrogava Freud sulla possibilità di estirpare la pulsione di odio dall’animo umano. La risposta di Freud indica una soluzione nell’unione degli individui, nella comunità: «la violenza viene estirpata dall’unione di molti». È nell’accettazione dell’altro che si può tollerare ed apprezzare l’essenza multiforme dell’umanità. Ma non è possibile conoscere, accettare il vicino senza aver prima imparato a conoscere, accettare se stessi. Nel verbo riflettere si intravede una nuova prospettiva: non più la volontà di prevaricare il nemico, l’opposizione, ma la ricerca di ragioni profonde. Riflettere. Ripiegarsi. Flettersi su se stessi. In un mondo che corre e non lascia il tempo di riflettere, i conflitti invadono la Elena La Stella
ZETA Periodico della Scuola Superiore di Giornalismo “Massimo Baldini” supplemento di Reporter Nuovo Registrazione Reg tribunale di Roma n. 15/08 del 21/01/2008
Direttore responsabile Gianni Riotta Condirettori Giorgio Casadio Alberto Flores d’Arcais
quotidianità e sembrano essere condicio sine qua non dell’essere umano. Il più doloroso, profondo dei conflitti è interiore. Comprendersi veramente è utopia, un lungo percorso per la più impervia delle strade: l’introspezione. Eppure è l’unica via percorribile per la risoluzione dei contrasti con gli altri. Nella riflessione, nel confronto con se stessi, non c’è sconfitta. Al contrario nelle guerre, da sempre protagoniste della storia, non c’è vittoria: tutti sono perdenti. Gli uomini combattono contro altri uomini e solo raramente sono gli ideali a guidare i soldati. Spesso ordini distanti pervengono ai militari da lontano: chi comanda, noncurante del valore della vita umana, indica la via da seguire. La volontà di dominio attanaglia la mente dell’uomo e qui si trova la radice e ragione di tutti i conflitti. Per prevaricare l’altro è lecito ogni mezzo: la distruzione e demolizione di ciò che è più vicino al cuore del nemico ne sono la dimostrazione. Riflettere significa entrare nel profondo di sé e scrutare i più reconditi ambiti, le più segrete emozioni della propria anima. La guerra confonde e disorienta le menti, ma la riflessione può spegnere i conflitti in favore del dialogo. Solo così, colui che viene definito per utilitarismo e convenienza “nemico” può divenire fratello, figlio dello stesso mondo. A cura di Silvia Andreozzi Giorgio Brugnoli Giulia Moretti Enzo Panizio Elena Pomè Martina Ucci Valeria Verbaro
Redazione Viale Pola, 12 – 00198 Roma Stampa Centro riproduzione dell’Università Contatti 0685225358
Zeta — 3
La parola a cura di Beatrice Offidani
Conflitto s. m. [dal lat. conflictus -us «urto, scontro», der. di confligĕre] 1. Combattimento, guerra, scontro di eserciti 2. fig. Urto, contrasto, opposizione Definizione dal dizionario Treccani
Armato Una guerra è la prima associazione che il cervello crea con il tema del conflitto. La situazione in Ucraina ha monopolizzato le pagine dei giornali e i feed di Instagram e Tik Tok, da quando è iniziata l’aggressione russa nel Paese, lo scorso 24 febbraio. È la guerra più raccontata di sempre sui social, ma anche la più grande crisi dei rifugiati dal dopoguerra ad oggi.
La citazione
«Il conflitto è componente integrante della vita umana, si trova dentro di noi e intorno a noi» Sun Tzu
4 — Zeta
CON
Artistico
Sociale
Per costruire una storia serve una dicotomia. L’eroe che combatte contro il villain è la struttura di ogni favola che si rispetti, ma anche di film, libri e serie tv. Bene contro male, luce contro tenebre. L’amore impossibile di due amanti ostacolato dal conflitto tra le loro due famiglie, come in West Side Story di Spielberg, o il conflitto identitario dei millenials di oggi nei libri di Sally Rooney.
L'Italia del 2022 è quella in cui nascono meno bambini. La società ha dovuto affrontare una pandemia e i conflitti si sono acuiti. I giovani lasciano il posto fisso in favore di una maggiore libertà, ma la disoccupazione aumenta. I liceali, che hanno dovuto rinunciare alla loro socialità per due anni, scendono in piazza. Sulle rive opposte del Tevere convivono tende dei senzatetto e chi fa jogging.
NFLITTO Interno
Morale
Esistono il bianco e il nero dentro ogni essere umano. Prendere quella strada o un’altra? Restare o partire? Fare la cosa più giusta oppure no? Guardarsi dentro spaventa. Esiste un abisso di possibilità dentro ciascuno, un lato che nascondiamo per paura che non sia adatto alla vita in società.
Che cosa è giusto? In una società in cui i punti di riferimento sono cambiati il dibattito sull'eutanasia riaccende il conflitto interno alle coscienze. Il contrasto è quello tra la propria libertà e i sostenitori della vita a tutti i costi.
Zeta — 5
Start
1
a cura di Luisa Barone e Claudia Bisio
2
1. The New York Times 2. Consiglio dell'Unione Europea 3. Financial Times 4. The New York Times 5. UNHCR 6. UNHCR 7. The New York Times
6 — Zeta
Location of Nato forces and key headquarters
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5
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6
7 Zeta — 7
Guerra
Coverstory
2
Gongadze (fatto decapitare dai servizi segreti per ordine dello stesso Kuchma).
1
Dopo di lui, Viktor Jushenko (2005-2010), iniziò un processo di democratizzazione, distensione e avvicinamento all’Europa e alla Nato. Nell’anno dell’elezione, Jushenko, durante una cena ufficiale, subì un avvelenamento da diossina - per fortuna non letale - che lo costrinse a ricorrere a cure in Svizzera, lasciandolo sfigurato. Si richiesero riscontri ai quattro laboratori al mondo in grado di produrre il veleno, l’unico a non rispondere fu quello moscovita.
La tragedia del popolo ucraino, la paura di un conflitto che grava sull’Europa, i vani tentativi di mediazione diplomatica, lo spettro di una Terza Guerra Mondiale e di una catastrofe nucleare impongono una seria, equidistante ed equilibrata presa di coscienza. Va riavvolto il filo di questa storia, dove s’intrecciano gravi questioni di geopolitica, spionaggio, ingerenze e provocazioni. Per cercare la pace, è necessario approfondire le ragioni di entrambe le opposte fazioni.
Dal 2010 al 2014 fu la volta di Viktor Janukovic, già rivale di Jushenko nelle precedenti elezioni. Salì al governo con un programma che, dietro il paravento di un finto avvicinamento all’Europa, perseguiva ambigui rapporti con la Russia di Putin. Dopo numerose rivolte, per paura di essere destituito, chiese un intervento armato a Putin, che invase la Crimea nel 2014, sottraendola al controllo dello stato Ucraino. Seguendo il vecchio copione sovietico delle invasioni d’Ungheria (1956) e Cecoslovacchia (1968), Putin dichiarò di soccorrere le popolazioni vessate dai governi locali. In seguito, le province del Donetsk e Luhansk insorsero indicendo un referendum che sancì la loro vicinanza ideologica alla Russia.
Dal 1991, dopo il crollo dell’Unione Sovietica, in Ucraina si sono alternati governi filo-russi e filo-europei. Leonid Kuchma, Presidente della Repubblica (1994-2005) con forti tendenze filorusse, finì travolto da scandali e rivolte contro la sua politica tesa a restaurare il regime. Sono a lui imputati gli arresti dei dissenzienti, la censura contro la stampa e l’assassinio di giornalisti come Georgyj
Nel 2019, dopo le presidenze di Turcynov e Poroshenko, venne eletto presidente Volodomyr Zelensky, che deliberatamente ignorò le reiterate richieste di Putin che l’Ucraina non si avvicinasse al Patto Atlantico e non ospitasse centrali nucleari riconducibili alla Nato. Dopo anni di scontri e violenze nella regione del Donbass, nel 2021 Putin ha cominciato ad ammassare truppe al
Gli occhi del nemico Dal crollo dell'Urss ad oggi. Le radici del conflitto attraverso diverse prospettive ESCALATION
di Elena La Stella
08 — Zeta
confine e, il 24 febbraio, l’esercito russo ha invaso il territorio ucraino nelle prime ore del mattino con un’azione a tenaglia da nord e sud. Momento rilevante è stato la presa della centrale nucleare di Zaporizhzhia destinata, secondo il Cremlino, all’arricchimento dell’uranio d’intesa con i governi occidentali. Il Paris Charter for a New Europe, nel 1990, aveva lo scopo di ridisegnare il volto dell’Europa dopo la caduta del Comunismo nel rispetto degli ecosistemi politici. Promesse disattese, come denunciato da Gorbachev in un severo intervento del 1997 al Congresso Americano. «Se i mattoni del Muro di Berlino sono soltanto souvenir è grazie al grande sforzo del popolo russo. Non umiliatelo». In un articolo del 1997, ripreso da Herald Tribune e New York Times, scriveva «Who is threatening whom?». Dopo la fine della Guerra Fredda era fondamentale non turbare i nuovi precari equilibri con un’espansione della NATO ad Est, giudicata pericolosa perché destabilizzante e inutile come forza di protezione e dissuasione.
armamenti in un periodo di recessione economica a causa della pandemia che ha colpito la vita e la salute del mondo. Nonostante la guerra incombente, deve esserci un filo di speranza perché si possa scongiurare il dilagare della follia. L’esame delle ragioni delle due parti, il non demonizzare l’altra prospettiva e guardare la realtà con gli occhi della controparte
potrebbero indicare una strada stretta, ma percorribile per riprendere le trattative e riconsiderare gli equilibri geopolitici europei.
Luis Gomez de Teran Pittore, nato a Caracas e cresciuto a Roma. Esorisce con la strret art, ma nel tempo approda alla pittura realistica. 1-3. Mors tua - Pt. I Oil and fire on plexi. Unauthorized. Close to Rome. 2-4. Mors tua - Pt. II Acrylic, epoxy resin, chain. Settecamini, Rome. Omaggio a Polina, bambina di 10 anni, uccisa a Kiev durante la guerra.
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Nel 2007 Putin, intervenendo a Monaco di Baviera, denunciava la distribuzione da parte della NATO di folti contingenti militari in Europa, che costituivano una minaccia per il popolo russo, in totale spregio della firma del Trattato di Parigi del 1990. L’altra faccia di questo tremendo massacro è la guerra dichiarata, l’invasione premeditata e portata a compimento con la distruzione di una nazione dalla lunga, gloriosa storia, radice e madre della cultura e della civiltà russa. La falsa propaganda non inganna tanti russi onesti e non ferma le rivolte di piazza. Migliaia di arresti non piegano il dissenso popolare e numerosi sono i coraggiosi che si oppongono al massacro dei fratelli ucraini. Eroica la giornalista Marina Ovsyannikova che ha fatto irruzione in un telegiornale, sul primo canale dell’informazione russa, mostrando un cartello con scritto in inglese e in russo: «Stop alla guerra, non credete alla propaganda». Quest’azione potrebbe costarle 15 anni di carcere, la pena comminata ai «diffusori di fake news». L’invasione dell’Ucraina è principio e pretesto di un conflitto più grande che coinvolge le superpotenze. La Nato rifiuta di istituire una no-fly zone, che potrebbe innescare un conflitto mondiale. La risposta europea alla minaccia nucleare è lo stanziamento di ulteriori fondi per gli
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La finestra Twitter sulla guerra CRONOSTORIA
L'invasione russa ha sancito l'inizio del primo conflitto social della storia
a cura di Yamila Ammirata e Silvia Andreozzi
La notte tra il 24 e il 25 febbraio le truppe russe hanno invaso l'Ucraina. Nella strategia comunicativa del Presidente Volodymyr Zelensky si è rivelato fondamentale l’uso dei social, fin dal primo momento, quando ha annunciato lo scoppio del conflitto 10 — Zeta
con un Tweet in cui paragonava le azioni della Russia a quelle della Germania nazista. Da quel momento le comunicazioni ufficiali relative all’aggressione sono passate attraverso i canali social delle diverse istituzioni coinvolte. Anche i leader dell’Ue si sono affidati ai
nuovi mezzi di comunicazione. Ursula von der Layen, presidente della Commissione europea, ha annunciato l’inedito invio di armi ed equipaggiamenti ad un paese sotto attacco nello stesso tweet in cui annunciava le prime sanzioni contro gli oligarchi russi.
Twitter non è stata solo piattaforma di comunicazioni istituzionali, ma anche diffusore di materiale informativo sugli avvenimenti della guerra e sulle sue conseguenze. Le immagini del bombardamento sull’ospedale pediatrico di Mariupol, delle donne ricoverate nel reparto di maternità scortate in barella lontano dalle macerie di quello che doveva essere un posto sicuro in cui concludere la
propria gravidanza, hanno avuto una diffusione che i mezzi di comunicazione tradizionali non avrebbero mai potuto dare loro. Twitter è stato anche un importante argine alla disinformazione russa. I giornalisti occidentali hanno potuto documentare e diffondere le immagini delle aggressioni operate dalle truppe russe in Ucraina ai danni della stampa occidentale. Anche il dissenso
interno alla Russia ha trovato spazio sui network on-line. La visibilità internazionale, per fare un esempio, è stata fondamentale nel caso della giornalista Marina Ovsyannikova che, dopo essersi platealmente schierata contro la guerra di Putin durante una diretta tv, è stata irrintracciabile per 14 ore e costretta a pagare una multa di 30mila rubli prima di essere rilasciata dal regime russo.
Zeta — 11
Guerra Mentre i carri armati avanzano, però, c’è un’altra guerra che procede parallela a quella fatta a colpi di fucile e lanci di missili. È la guerra dell’informazione. I soldati sono i giornalisti che, tra le macerie e la disperazione, continuano a fare il proprio mestiere. «I miei colleghi giornalisti stanno lavorando tanto dai rifugi» e dopo il bombardamento della torre della Tv continuano ad avere «accesso alla connessione satellitare e hanno ingaggiato le stazioni di riserva. Il nemico ha pensato che lanciando la bomba sulla torre avrebbe fermato il lavoro dei giornalisti. Ma i miei colleghi stanno continuando a informare.»
Le informazioni come armi I giornalisti ucraini informano la popolazione anche dai bunker, provando a colpire la propaganda di Putin RESISTENZA
di Giulia Moretti
«Sono convinta che l’assassino deve essere processato insieme ai suoi complice che commettono omicidi contro il mio popolo». Trema di rabbia e dolore la voce di Larysa Bohdanova, giornalista di Rada TV, l’emittente televisiva ucraina del parlamento. Il destinatario del suo sfogo è Putin. Larysa il 24 febbraio scorso si trovava a Roma per una breve vacanza con la figlia Elina che vive in Italia da sei anni. Nessuna avvisaglia preventiva dell’imminente invasione del proprio paese natale tanto che la sera prima aveva preparato la valigia per tornarsene a casa. La mattina seguente uno scenario inimmaginato: «Mi sono svegliata alle 6 di mattina dalla quantità enorme dei messaggi che mi arrivavano, solo venuta solo per tre giorni con una piccola valigia e sarei dovuta partire il giorno in cui tutto è iniziato. Non avevo paura ero sotto shock. Dopo un’ora ho scoperto che il volo era stato cancellato, dopo un’altra ora ho iniziato a pensare a cosa avrei fatto e dove sarei andata».
compagni la loro gatta. «Noi abitiamo a piano terra e sotto abbiamo un rifugio dove lui scende quando ci sono gli attacchi aerei. Il nostro palazzo ha nove piani e mio marito aiuta anziani e vicini a scendere nel bunker. In più controlla la zona perché nei primi giorni c’erano molti casi di soldati russi infiltrati tra la popolazione».
«Il nemico ha pensato che lanciando la bomba sulla torre avrebbe fermato il lavoro dei giornalisti»
Il pensiero di Larysa è lì, con la sua gente e i suoi colleghi, nonostante lei sia a migliaia di chilometri dalla guerra. Si dice sicura che i suoi compatrioti resisteranno con caparbietà fino a quando potranno all’avanzata russa, ma è ancor più convinta che ci sia bisogno di un intervento congiunto della comunità internazionale Igor Bohdanov, il marito, è rimasto in e che Putin debba essere portato di fronte Ucraina e non intende muoversi, a fargli all’Aja a rispondere dei propri crimini. 12 — Zeta
Natalia Kudryk, inviata speciale in Italia di Radio Liberty e collaboratrice della rivista The Uckrainian Week, è in contatto con i colleghi «La mia redazione è stata trasferita nella parte occidentale del paese, alcuni inviati sono rimasti nelle zone bombardate, non solo a Kiev, e lavorano lì per come è possibile. Alcuni di loro imbracciano il fucile e passano l’informazione tramite i canali che sono disponibili anche se la connessione, già di per sé debole, è ancor più instabile del solito». Continuare a garantire un flusso informativo puntuale e accurato «può aiutare ma è difficile sostenere che sarà decisivo» nell’esito del conflitto e nel depotenziare Putin, sia sul fronte interno sia nell’ambito internazionale. Negli ultimi 8 anni, da quando la Russia aveva invaso la Crimea, l’Ucraina ha fatto grandi passi per contrastare la propaganda russa. Già prima dell’invasione, infatti, il paese aveva chiuso tre canali propagandistici russi 12 Ucraina, NewsOne, Zik e oscurato i siti di blogger anti-Ucraina. Seppur nelle difficoltà del conflitto armato il governo di Zelensky sta continuando a combattere anche su questo fronte «Sui canali governativi vengono messi degli annunci che invitano gli utenti a fare attenzione ad alcune fake news e rassicurano le popolazioni dei villaggi che, secondo quanto erroneamente diffuso da fonti russe, sarebbero accerchiati e invitarli a non piegarsi all’occupante. Inoltre, vengono segnalati ai cittadini ucraini i canali Telegram creati dai Russi per disinformarli». Per informare i cittadini sono stati creati diversi canali Telegram istituzionali come quello dell’esercito e quello del sindaco di Kiev. Inoltre, c’è un canale specifico di contrasto alla disinformazione in cui vengono debunkate le fake news diffuse. Si combatte sul campo e sotto le macerie, nei bunker.
La guerra più social Il coinvolgimento della Generazione Z nel conflitto fra Russia e Ucraina MEDIA
di Claudia Bisio e Giorgia Verna
Il conflitto Russia-Ucraina è stato definito la guerra più social di sempre. Da non confondere con la Primavera Araba, che ha usato i social per organizzare manifestazioni e incontri, limitando il tutto a Facebook. Il ruolo dei social, questa volta, è molto lontano da tutto ciò che fino ad oggi si è conosciuto. A capo di questa rivoluzione social nel far diventare le piattaforme un tool politico/sociale c’è la Generazione Z. Alcuni esempi di movimenti politici sono: Black Lives Matter, Fridays for Future, e i movimenti della comunità LGBTQ+. Tutti temi che hanno avuto risonanza mediatica a livello globale. Solo su Instagram a Giugno 2020 con l’hashtag #JusticeforGeorge e #BlackoutTuesday (del movimento BLM, dove un adulto nero era stato soffocato da un poliziotto americano) si sono raggiunti milioni di interazioni, arrivando a 14.6 milioni di post pubblicati in sola mezza giornata.
Negli ultimi due anni si è aggiunto anche il social TikTok all’ascesa di tool politico (come è successo soprattutto per Instagram ma anche per Twitter e Facebook). Tiktok è una piattaforma che nasce da Musically.it dove venivano pubblicati principalmente video in lipsync. Ad oggi, è il terzo social più utilizzato dalla Generazione Z (dopo Youtube e Instagram) e non è solo divertimento. Grandi testate giornalistiche come The telegraph e il Washington Post, e i new media come Will, Torcha e Fanpage sono approdate sulla piattaforma con l’intento di sviluppare un nuovo modo di informazione. Ed è proprio il social cinese che, dallo scoppio della guerra tra Ucraina e Russia lo scorso 24 febbraio, è stato una fondamentale fonte di informazione, fornendo migliaia di video che informavano su cosa stava accadendo in Ucraina e sul campo di battaglia. Ma non solo: la generazione Z si sta rendendo testimone attiva di ciò che sta accadendo e i social sono la loro principale fonte di informazione, diffusione ed espressione.
Abbiamo condotto un sondaggio su più di cento lettori di Zeta per comprendere quanto il loro coinvolgimento sia attivo o passivo, nell’informarsi sui social network e nel partecipare attivamente alla diffusione di contenuti sul conflitto. Su una totalità di 114 lettori, il 69% dei quali in una fascia d’età tra i 19 e i 25 anni, l’85,6% afferma di utilizzare come principale social Instagram non solo per svago, ma come primaria fonte d’informazione (58,8%), lasciando stranamente solo un 3% a TikTok. Il 25,4% ha affermato di non utilizzare i social per informarsi, eppure dalle nostre indagini continuano a rimanere in minoranza i giornali, le agenzie, le televisioni e la radio, mostrando come la generazione Z si informi ormai quasi esclusivamente con le informazioni open source online (quasi il 30%). Il 28%, infatti, ha affermato di utilizzare “prevalentemente i social” per reperire le informazioni (con una totalità di più del 50% per l’informazione online). Questa contraddizione potrebbe essere semplice frutto dell’imprecisione che alle volte accompagna le indagini statistiche eseguite per sondaggi a campione, ma è dilagante, soprattutto tra i più giovani, la forte sfiducia nei giornalisti, ritenendo invece i social più affidabili della televisione o dei giornali. Infine, un buon 55% dei votanti si è mostrato attivo sui social, ricondividendo contenuti informativi, o meno, su ciò che sta accadendo in Ucraina. Il 14% ha inoltre affermato di aver creato dei contenuti ad hoc per spiegare e commentare il conflitto, tra post, storie e video. La restante parte, minoritaria, ha affermato di utilizzare i social solo in maniera passiva, come fruitore di informazioni. Possiamo concludere da questi risultati che quasi il 70% dei lettori di Zeta, appartenenti alla generazione Z, è informato sul conflitto e bramoso di fare la sua parte, condividendo attivamente contenuti e utilizzando i social come fonte d’informazione. Siamo davvero alla guerra più social di sempre.
Un altro esempio riguarda il climate change, invece, quando Greta Thunberg ha iniziato il movimento “Fridays for future”. Iniziando a pubblicizzarlo sui vari social nel 2018, a settembre 2019 è riuscita a raggiungere 6 milioni di persone in 150 paesi. Zeta — 13
Guerra
L’Unione Europea tra due fuochi Il conflitto in Ucraina preoccupa i leader europei mentre la tensione tra Stati Uniti e Cina si sovrappone alla guerra EUROPA
di Luisa Barone
«Il diritto internazionale si basa sul principio di sovranità e uguaglianza degli stati. Ma nel corso della storia sono state molte le invasioni e le aggressioni rimaste impunite, come quella turca a 60 km di profondità nel nord della Siria. Il risultato è stato quello di svegliarci in un mondo senza regole». Rosario Salvatore Aitala, giudice della Corte penale internazionale, è critico nei confronti del Consiglio di Sicurezza che «raramente riesce ad approvare le risoluzioni necessarie alla protezione e al mantenimento della pace». 14 — Zeta
Il giorno successivo all’inizio del conflitto, i 15 membri dell’organo Onu preposto alla tutela della sicurezza internazionale si sono riuniti per decidere sulla mozione di condanna dell’invasione russa, che invitava Mosca a ritirare immediatamente le truppe e fornire un accesso sicuro ai soccorsi umanitari. Ma l’azione della comunità internazionale è stata bloccata dal veto posto dalla Russia come membro permanente del Consiglio, mentre il suo ambasciatore Vasily Nebenzya ringraziava Cina, India e Emirati Arabi per essersi astenuti. Se l’astensione
cinese non è stata una sorpresa, lo stesso non si può dire per le altre due, storiche alleate USA in Medio Oriente preoccupate che la risoluzione potesse chiudere la finestra sulla diplomazia. «Russia, puoi porre il veto a questa risoluzione, ma non puoi porre il veto alle nostre voci e alla tua responsabilità». L'ambasciatrice degli Stati Uniti Linda Thomas-Greenfield sottolinea l’intento della mozione che dimostra l’isolamento di Mosca sulla scena internazionale. L’idea secondo cui il governo russo «sia sempre più solo» è confermata in sede di Assemblea Generale delle Nazioni Unite, riunitasi mercoledì 2 marzo. Dei 193 paesi chiamati a votare, 141 si sono espressi a favore della condanna di Mosca per l’aggressione contro l’Ucraina. Alessandro Marrone, responsabile della difesa per l’Istituto Affari Internazionali, sostiene che l’astensione di numerosi paesi in via di sviluppo «non ha peso a livello geopolitico» ma riflette l’influenza degli investimenti russi sul continente africano e nel sud-est asiatico, e la relativa «inefficacia europea» in queste zone. I diplomatici hanno spiegato il loro voto, dovuto alla sproporzionata risposta occidentale all’invasione di una nazione europea rispetto ai conflitti in corso nel resto del mondo.
Il Professore di International Organizations Pietro Pustorino risponde a coloro che si interrogano sull’ efficacia del diritto internazionale: «le norme sono chiare, alla violazione del divieto di uso della forza è permesso rispondere militarmente». L’effetto deterrente dell’arma nucleare compatta la Nato rispetto ad un unico interesse, proteggere la popolazione mondiale dagli effetti di una guerra chimica e nucleare. L’Occidente intende quindi persistere sulla via della diplomazia adottando «sanzioni economiche e finanziarie contro le persone fisiche, le imprese e gli oligarchi russi di una portata mai vista prima nella storia», facendosi al contempo carico della necessità di compensare i danni nei paesi europei che registrano i maggiori scambi commerciali con la Russia – Germania e Italia in primis. Pietro Pustorino solleva anche la questione della tutela dei cittadini russi. «Sarà la popolazione a pagare il prezzo di queste misure diplomatiche». In ambito di Consiglio Europeo, è stata inzialmente intrapresa una procedura di sospensione, e dunque la perdita per la Russia del diritto di rappresentanza e partecipazione. Ma per evitare di divenire vittima di un processo decisionale a cui non avrebbe preso parte, Putin ha notificato il recesso. Così il Comitato dei Ministri ha espulso la Russia dal Consiglio d’Europa «forzando un po’ le norme». Dal momento in cui l'espulsione produrrà effetti, la Russia non sarà più parte della Cedu. Perciò, nel caso di violazione dei diritti umani, per i cittadini russi non sarà possibile portare il paese davanti alla Corte europea dei diritti dell’uomo.
Secondo Alessandro Morrone per negoziare con la Russia e porre fine al conflitto in Ucraina, proteggendo quanto più possibile l'integrità territoriale insieme all'indipendenza e alla vita degli ucraini, è necessario che dal tavolo delle trattative spariscano le richieste per un cambio di regime in Russia e l'ingresso dell'Ucraina nell'Unione Europea. Non solo perché «non integrabile in quanto coinvolta in un conflitto aperto», ma soprattutto perché «è solo su queste condizioni che la leadership russa può trovare, nella sua razionalità distorta, paranoica e condannabile, i motivi per interrompere il conflitto. Lo stesso vale per il deferimento di Putin alla Corte penale internazionale, che non lo incentiva a negoziare». La partita diplomatica più complessa si gioca tra Cina e Stati Uniti. I leader militari americani affermano che non lasceranno che l’Ucraina li distragga e Biden promette una “alleanza delle
democrazie”. «La posizione della Cina è ambigua». Xi Jinping e i suoi diplomatici si astengono sulla mozione di condanna in ambito Onu ma non appoggiano apertamente la guerra perchè, causando un aumento dei prezzi, rappresenta un grande danno economico. Le parole forti di Biden lo hanno escluso dai possibili interlocutori con Mosca, lasciando il posto da mediatori a Erdoğan e Macron, entrambi forti degli storici rapporti con la Russia. «Durante la Guerra Fredda all’Italia era riconosciuto il ruolo speciale di intermediario sia con il mondo arabo che con l’Unione Sovietica». Giuseppe Scongamiglio, diplomatico e presidente di Eastwest European Institute, ritiene che oggi sia necessario rafforzare il ruolo dell’Italia all’interno dell’UE per essere percepita come affidabile pilastro della costruzione europea. «È solo al suo interno che abbiamo la possibilità di contare qualcosa sulla scena internazionale. Non possiamo lasciare agli Stati Uniti la ledership diplomatica di un conflitto in corso sul continente europeo». In un contesto di crisi delle democrazie degli stati nazionali d’Europa, dovuta ad una lunga crisi finanziaria poi aggravata dal covid, «la nostra unica speranza per fronteggiare le sfide globali è l’integrazione europea. Centralizzando le politiche di difesa, estere e fiscali a Bruxelles avremo la possibilità di essere player competitivi come USA e Cina». Zeta — 15
Guerra
1
L’orgoglio ucraino contro i numeri di Putin Lo svolgimento dell’invasione russa, tra strategia, errori di calcolo e le prospettive per un conflitto che potrebbe trascinarsi per molto tempo VOCI
di Silvano D’Angelo
Il suono delle sirene sveglia i cittadini ucraini all’alba del 24 febbraio. Alzando gli occhi al cielo vedono i caccia russi volare indisturbati. La Russia ha colpito e si teme che sia solo questione di tempo prima che i carri armati entrino a Kiev per deporre il presidente Zelensky, reo di 16 — Zeta
aver guardato troppo a Occidente. Ma la conquista lampo immaginata da Putin si rivela presto un miraggio.
La sproporzione di forze «Per le forze in campo la sproporzione è di 50 a 1 e di 100 a 1 se contiamo l’aviazione». Usa un’iperbole il vice direttore di Repubblica, Gianluca Di Feo. Ma anche nei rapporti reali il divario rimane evidente. Secondo il sito della Cia, la Russia nel 2021 poteva contare, considerando tutte le forze armate, su oltre un milione di effettivi. Circa 200mila uomini sono stati impiegati nell’invasione dell’Ucraina e con il prolungarsi del conflitto Putin ne starebbe richiamando ancora da altri distretti militari, ricorrendo anche ai riservisti per non sguarnire il paese. Le forze armate ucraine a inizio invasione non contavano più di 200mila uomini, ma chi difende in genere ha un vantaggio di 1 a 3 sull’invasore e subito dopo l’attacco il presidente Zelensky ha chiamato alle armi tutti i cittadini maschi tra i 18 e i 60 anni.
Ancora più desolante il raffronto dei mezzi: 60mila veicoli militari totali contro 12mila, tra cui 12.500 carri armati contro 2.500 e 1400 tra caccia e cacciabombardieri russi contro soli 128 ucraini. Inoltre, dopo le difficoltà riscontrate nelle guerre in Cecenia e Georgia del 2008, l’esercito russo ha intrapreso un processo di rinnovamento organizzativo e tecnologico che, pur con ritardi e inefficienze, gli ha permesso di sviluppare un arsenale molto più moderno di quello ucraino.
L’invasione Il conflitto si è aperto con un attacco aereo che ha preso di mira la contraerea ucraina e gli aeroporti, per isolare il paese aggredito e spianare la strada all’invasione di terra, avvenuta con un’offensiva combinata dai confini di Russia e Bielorussia. Ma per gli esperti l’attacco russo si è rivelato subito atipico. «Il primo giorno sono stati colpiti pochissimi obiettivi», spiega Gregory
Alegi, docente della Luiss e esperto di aeronautica militare. Un attacco di questo tipo dovrebbe distruggere tutte le infrastrutture strategiche del nemico, i russi invece si sono limitati agli aeroporti e solo dopo diversi giorni hanno colpito obiettivi come le torri della Tv e le centrali elettriche (evitando quelle nucleari), che di solito invece sono tra le prime cose ad andare distrutte per impedire all’avversario di diffondere messaggi. Mantenere intatte queste strutture sarebbe servito per avere gioco più facile al momento di controllare il paese. «Probabilmente Putin si aspettava un collasso ucraino alla sola vista dei carri armati» e il segno che la campagna fosse stata prospettata come una guerra lampo è dato dalla colonna lunga 60 km di mezzi russi fotografata più volte nei pressi di Kiev, rimasta a lungo ferma «in attesa di rifornimenti, perché era partita con provviste per pochi giorni». Il presidente russo si aspettava di essere accolto come un liberatore, perlomeno nelle zone di confine a forte maggioranza russofona. «Ma dopo la presa della Crimea e otto anni di conflitto in Donbass la gran parte dei filoputiniani si era già spostata in Russia», commenta Gianluca Di Feo. L’invasione ha seguito una logica novecentesca con un largo dispiegamento di uomini sul campo, così come sono vecchi di trent’anni anche la maggior parte dei mezzi impiegati. Ciò ha permesso agli ucraini di organizzare una difesa efficace. Le forze russe non sono state affrontate in campo aperto, come si aspettavano i generali del Cremlino, ma in un primo momento sono state fatte passare. Gli ucraini hanno nascosto mezzi e uomini per poi attaccare il nemico alle spalle. L’altro fattore decisivo è la strenua resistenza opposta dal popolo ucraino, del
tutto sottovalutata da Putin. Il Ministero della Difesa ha diffuso un video su Twitter, poi eliminato, che spiegava come costruire bombe molotov e anche gli influencer, come Nastya Tyman (4 milioni di follower) hanno cominciato a postare dei brevi video tutorial su TikTok in cui spiegano come guidare un carro armato o usare altri tipi di armi. Non si tratta però, o almeno non ancora, di una guerriglia disorganizzata. L’esercito ucraino è in grado di organizzare la difesa delle principali città, coordinando anche l’azione dei civili e servendosi dei droni turchi Bayaraktar TB2. A Mariupol, la città che sta subendo l’assedio più duro, sono impegnati i battaglioni ultranazionalisti Azov e Aidar. Ciò che però ha sorpreso di più i russi, sottolinea il professor Alegi, è «la voglia di combattere dimostrata da esercito e popolazione ucraina, senza la
quale i numeri servono a poco». Voglia che nell’esercito russo, formato per un quarto da soldati di leva poco più che ventenni, comincia a vacillare man mano che le scorte diminuiscono e le perdite aumentano.
Prospettive Di fronte alla strenua resistenza di Zelensky e del suo popolo i missili che cadono sui civili si sono fatti sempre più frequenti. «È il modo russo di fare la guerra. Hanno pochi armamenti di precisione e fallito il tentativo di guerra lampo sono tornati ai metodi già usati in Siria e Cecenia», commenta amaro Alegi. «Loro non credono nel minimizzare le vittime civili, lavorano più sul terrore che sull’obiettivo strategico». È la stessa logica che porta a sparare sui corridoi umanitari per dare un messaggio di ineluttabilità della sconfitta. Questa psicologia del terrore non sembra per ora sortire effetti. Gli Ucraini non hanno intenzione di arrendersi, ma lo scenario più probabile è che finiscano i mezzi prima dei russi, per poi passare a una logorante guerriglia partigiana che porterà moltissimi morti civili. Dall’Occidente stanno arrivando armi adatte a questo tipo di conflitto che possono essere usate da chiunque senza addestramento. Alla domanda se la Russia possa permettersi di mantenere un’occupazione militare dell’Ucraina il professor Alegi risponde: «Possono permettersela, ma a costi economici, sociali e politici enormi che potrebbero portare allo sviluppo di una vera opposizione interna a Putin». 1. Edificio in fiamme a Kyev, Maxim Dondyuk via Flickr
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Guerra
Nella rete del nemico CYBER WAR
Anonymous e la guerra informatica contro la Russia
di Lorenzo Sangermano
«Come un reporter o un artista, questo è il nostro modo di diffondere il messaggio nel mondo» dice Younes. Vent’anni da poco compiuti, una vita da universitario e, nel frattempo, l’hackeraggio di siti russi. Younes si è unito come attivista ad Anonymous nel 2019, appartenenza confermata da un consulente informatico sentito dalla redazione, e nel tempo libero ha deciso di scendere in guerra. Non tra spari o bombardamenti, ma lottando nel labirinto delle reti informatiche. Carri armati, missili, armi nucleari. L’invasione russa in Ucraina viaggia anche lungo le linee dell’etere informatico. A fianco di Kiev si sono schierati diversi gruppi di hacker. Il più famoso è proprio quello di Anonymous. Collettivo di attivisti informatici nato nel 2003 all’interno del sito 4chan, ora ha dichiarato guerra al regime di Putin. Anonymous appare come un’identità collettiva che racchiude dentro di sé hacker mossi da ideali comuni. «Ci piace pensare che le nostre azioni possano cambiare il mondo. O per lo meno lo speriamo». Portavoci di proteste online e anche fisiche, riconoscibili per la maschera di Guy Fawkes, i membri dell’associazione agiscono protetti 18 — Zeta
dall’anonimato. Younes ne fa parte da pochi mesi prima che la pandemia bloccasse tutto il mondo. La sua attività è ora focalizzata a pieno sul conflitto russo-ucraino. «Per ora come collettivo stiamo lavorando tutti al tentativo di danneggiare il più possibile le infrastrutture russe». All’interno dell’organizzazione, i compiti vengono divisi in base alle capacità di ciascuno. «Alcuni di noi sono specializzati nel raccogliere informazioni sulla Russia. Altri, come me, hanno il compito di hackerare i siti governativi russi». Accanto ad Anonymous, agiscono anche altri collettivi. «Io e il mio altro gruppo Ghostsec», conosciuto anche come Ghostsecurity e attivo a lungo contro l’Isis, «abbiamo trascorso gli ultimi giorni a localizzare gli IP che attaccavano l’Ucraina. Abbiamo iniziato a contrattaccare perché molto probabilmente sono pesanti operazioni cyber russe contro Kiev». La lotta a colpi di hackeraggi e intercettazioni sembra poco rilevante rispetto alla guerra tradizionale, che secondo le autorità di Kiev avrebbe già causato migliaia di morti. «Ovviamente attaccare gli obiettivi governativi russi non è paragonabile ai bombardamenti,
ma stiamo tentando più che possiamo di far passare un inferno alla Russia e causargli più danni possibili». La guerra non è ancora finita. Anonymous e Ghostsec hanno già chiare le strategie di attacco. «Stiamo conducendo altri hackeraggi. Siamo infiltrati in profondità nella rete russa. Ci sono ancora molti attacchi che non abbiamo pubblicato perché non vogliamo allertare il Cremlino, facendo sì che intervengano sui loro sistemi e ci impediscano l’accesso». Dal 25 febbraio, Younes ha già ottenuto i primi successi. Dopo le prime esperienze sul campo hackerando i siti governativi statunitensi in risposta alla morte di George Floyd, anche la Russia ha subito i suoi attacchi. Le telecamere russe, che monitoravano i movimenti ucraini per organizzare gli attacchi militari, sono state bloccate e disattivate. Infiltratosi nella rete delle pompe del gas russo, prodotta dalla società italiana Fornovo Gas, insieme al gruppo Network Batallion 65’ ha disattivato e spento il sistema. Non solo però dipartimenti governativi, gli attacchi vanno dal settore dell’informazione a quello economico. Younes ha ottenuto l’accesso anche al Nica, il Nuclotron Ion Collider Facility, l’acceleratore nucleare russo di Dubna. Per Younes è un lavoro continuo, misto tra passione e attivismo. «Ho ancora una vita al di fuori di Anonymous. Provo a fare in modo che questa attività non consumi tutto il mio mondo e il mio tempo. Dalla mia prospettiva però è necessario che io, e chiunque sia in grado, continui questi hackeraggi il più possibile».
allora però nessuna azione è stata presa in merito. Inoltre, dobbiamo ricordare come il processo di ammissione sia molto lungo: basti pensare che Macedonia del Nord e Montenegro, gli ultimi due paesi ad entrare, abbiano dovuto aspettare anni prima che il loro ingresso venisse ratificato.
Potenziale attacco nucleare «L’Ucraina ha grandi competenze nucleari grazie al suo passato sovietico» Risale al 1994 il Memorandum di Budapest, siglato da Boris Yeltsin, predecessore di Putin, per il quale la Russia avrebbe rispettato la sovranità ucraina se lo stato avesse acconsentito alla rimozione delle armi nucleari presenti sul proprio territorio dalla dissoluzione dell’Urss. L’accordo è stato però infranto dal presidente nel 2014 con l’invasione e l’annessione al territorio russo della Crimea.
Tutte le bugie di Putin Le fake news usate dal presidente russo per giustificare linvasione in Ucraina DEBUNKING
di Leonardo Pini e Martina Ucci
Nei discorsi con cui si preparava all'inizio dell’"operazione militare speciale" il presidente russo, Vladimir Putin, ha utilizzato diversi pretesti per giustificare l’invasione del 24 febbrario in Ucraina. Tra falsi riferimenti storici e contesti di natura geopolitica ribaltati, le argomentazioni di Putin non reggono. Di seguito il fact checking delle sue asserzioni.
L’Ucraina è nata dalla Russia «La maggior parte dell’Ucraina è stata creata dalla Russia comunista bolscevica. Lenin e i suoi compagni hanno fatto a pezzi alcuni dei territori che facevano parte della Russia senza tener conto delle persone che vivevano lì» La fondazione della città di Kiev risale probabilmente già a prima del V secolo quando funzionava come snodo commerciale tra Costantinopoli e il nord-
est europeo. Ma la città, storicamente nota come Rus’ di Kiev, nel IX secolo fu la capitale del principale stato Slavo orientale-Variago. Questa città viene paragonata da Putin allo Zardom di Russia incentrata a Mosca che emerse invece nel XVI secolo.
L’Ucraina nella Nato «L’Ucraina rinunci all’ingresso nella Nato, gli accordi di Minsk non ci sono più» Uno dei primi pretesti assunti da Putin, per lo schieramento delle truppe sul confine, fa riferimento all’imminente entrata dell’Ucraina nella Nato. Infatti, per il presidente questo sarebbe un attacco alla sovranità e alla sicurezza russa. Nonostante quanto detto dal presidente russo, il processo di integrazione nella Nato dell’Ucraina non è mai iniziato. Il presidente americano Joe Biden ha dichiarato che la membership ucraina non è stata presa in considerazione dall’organizzazione. Tornando indietro al 2008, al summit Nato di Bucarest, il presidente americano George W. Bush insistette per far inserire all’interno della relazione la possibilità che Ucraina e Georgia sarebbero state un giorno ammesse. Da
Genocidio Donbass «La nostra opinione è che quello che sta accadendo in Donbass sia un genocidio» L’Alto commissariato delle Nazioni Unite per i diritti umani ha fatto una stima del totale delle vittime del conflitto in Ucraina dal 14 aprile 2014 al 31 dicembre 2021, che si aggira attorno ai 51.00054.000 cittadini. Sono 14.200-14.400 i morti, di cui 3.404 civili, 4.440 forze ucraine e 6.500 membri di gruppi armati. I feriti sono 37-39 mila. Le Nazioni Unite non ritengono che vi sia in atto un reale o tentato genocidio da parte dell’Ucraina nei territori contestati.
Regime di Kiev «L’obiettivo è proteggere le persone che sono state sottoposte ad abusi da parte del regime di Kiev per otto anni. E a tal fine, ci impegneremo per la smilitarizzazione e la denazificazione dell’Ucraina, per consegnare alla giustizia coloro che hanno commesso numerosi e sanguinosi crimini contro i civili, compresi i cittadini russi» Nell’aprile 2019 ci sono state libere elezioni in Ucraina che hanno portato alla vittoria di Volodymyr Zelensky con una maggioranza del 73% dei voti. L’Ucraina rimane una repubblica semi-presidenziale, che garantisce una rappresentanza politica multipartitica. Non vi è alcuna evidenza di un regime autoritario e illiberale. Zeta — 19
bacini comunicativi nazionali erano chiusi, nel secondo conflitto mondiale in parte si aprirono grazie alla radio, ma in questa guerra i due fronti sono del tutto permeabili grazie ai social media» dice Edoardo Novelli, sociologo dei processi comunicativi dell’Università Roma Tre. Quando nel 1938 la Bbc trasmetteva Radio Londra alle popolazioni dell’Europa nazi-fascista per sfidare la propaganda dei regimi, gli apparecchi radio erano pochi milioni. Oggi quasi sei miliardi di persone hanno uno smartphone in tasca, mentre TikTok e Instagram hanno rispettivamente uno e due miliardi di utenti. Il tentativo russo di oscurare siti e social occidentali ha effetti parziali e il campo di battaglia per conquistare l’immaginario collettivo resta la rete. Se da una parte c’è la trincea di chi diffonde video dal fronte, dall’altra c’è la prima linea comunicativa dei capi di stato.
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Putin contro Zelensky La guerra per conquistare l’immaginario collettivo è già mondiale COMUNICAZIONE
di Francesco Di Blasi
Per terra, per aria, per mare, ma anche per narrazioni. La guerra si combatte in tanti modi e la comunicazione è uno di questi. Il conflitto tra Russia e Ucraina è già globale dal punto di vista comunicativo e ha in Vladimir Putin e Volodymyr Zelensky i suoi due protagonisti. «Durante la prima guerra mondiale i
«Il presidente Zelensky è riuscito a prendere il controllo della narrazione del conflitto grazie alla capacità di imporre i suoi frame e usare in modo differenziato i vari canali comunicativi, cosa che Putin non è riuscito a fare», sostiene Lorenzo Pregliasco, direttore di YouTrend. Considerando le società iper-mediatizzate in cui viviamo non sorprende vedere l’intensità e la velocità con cui le immagini della guerra vengono rilanciate tra i vari device. Ciò che però dà una nuova centralità alla comunicazione in questa guerra è la figura di Volodymyr Zelensky. «Si sta rivelando importante nell’orientare le opinioni pubbliche, soprattutto quelle occidentali, attraverso la narrazione di un paese resistente e determinato a respingere l’invasione con coraggio ed eroismo» dice Pregliasco. Prossimità e distanza Chiuso nella sua torre d’avorio al Cremlino, intento a ricevere i suoi ospiti a distanza, con un tavolo di oltre sei metri che li divide, Vladimir Putin incarna la figura novecentesca dell’autocrate. Secondo Novelli: «La sua è una comunicazione istituzionale e monolitica fatta con mezzi tradizionali e mainstream che ne celebrano la figura. Le inquadrature e gli spazi in cui è inserito lo descrivono come un leader solo al comando. Tra lui e il resto delle persone c’è sempre un grandissimo spazio e i suoi movimenti sono quelli di un leader autocompiaciuto di sé stesso, anche fisicamente».
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I messaggi del presidente Zelensky vanno dal tweet diplomatico al messaggio ai parlamenti occidentali, fino al video
sexy diffuso sui social. È vicino a noi, si muove con il cellulare in mano con una maglietta mimetica e mostra i suoi ministri e compagni di guerra al suo fianco. Diffonde i video della resistenza, ma non abusa del tragico, ricondividendo contenuti sarcastci, come il video di un carro armato russo trainato via da un contadino ucraino. «La vicinanza con il suo popolo – dice Pregliasco – traspare da molti segnali, a partire dall’ambiente in cui si raffigura. È spesso all’aperto, in luoghi espliciti, come l’ospedale di Kiev dove ha visitato i militari o davanti al palazzo presidenziale. Traspare una sorta di rivendicazione di questa sua presenza sul territorio. Al contrario di Putin che è quasi sempre al chiuso e appare isolato e lontano da tutti». Il particolare e l’universale L’apparizione allo stadio olimpico Luzhniki di Mosca in mezzo ai suoi sostenitori è stato il primo cambio di paradigma comunicativo del presidente russo dopo tre settimane di guerra. Una voce femminile ne ha annunciato l’arrivo sul palco come una star dell’Nba: «Vladimir…Putin!!!», poi musica, bandierine, l’entrata in scena e l’ovazione della folla. L’immagine dell’autocrate novecentesco viene democratizzata con i mezzi dello spettacolo, ma il culto del leader non sparisce, semmai diventa pop. Il putinismo in salsa Andy Warhol resta elitario e veste il made in Italy amato dagli oligarchi, non le uniformi militari dei soldati di leva mandati a morire in Ucraina. «Nella scena mediatica internazionale ciascun leader parla ai propri, ma anche a chi ascolta da fuori. Si parla all’interno, ma anche all’esterno. Su questo punto c’è una grande differenza tra Putin e Zelensky. Il primo sembra preoccupato solo di parlare ai suoi, mentre il presidente ucraino è impegnato anche a parlare a noi» ricorda Pregliasco.
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stesso voluta. Non trova terreno fertile al di fuori della Russia perché si basa sulla falsità secondo cui l’Ucraina sarebbe governata da filo-nazisti. L’incapacità di Putin di comunicare con l’esterno non sembra tanto legata ai suoi limiti nell’utilizzo dei nuovi media, quanto più nella difficoltà di produrre una narrazione veritiera. Il messaggio di Zelensky tocca corde universali: la resistenza di un popolo aggredito è un archetipo senza colore politico che viaggia nella rete e conquista gran parte del mondo. Eppure, potrebbe non bastare. Non solo perché le guerre si vincono con le armi prima ancora che con le narrazioni, ma anche per il rischio della nostra indifferenza. «È il pericolo della
politica Netflix – sostiene Pregliasco – la tendenza della nostra epoca di vivere di fiammate di interesse, partecipazione, attivismo, mobilitati da migliaia di influencer. Senza un impianto ideologico generale però, quell’interesse rischia di scemare come dopo un paio di puntate di una serie in streaming.» 1. Putin alla manifestazione allo stadio olimpico Luzhniki di Mosca in mezzo ai suoi sostenitori 2. Benito Mussolini e Vladimir Putin fotografati in una posa simile con un felino tra le braccia. Collage pubblicato da Edoardo Novelli 3. Volodymyr Zelensky in video collegamento con i leader dell'Unione Europea 4. Bombardamento russo su Kiev
Parlando di “denazificazione” dell’Ucraina nello stadio di Mosca, Putin ha unito i suoi connazionali intorno all’immaginario della “Grande guerra patriottica”: il termine con cui i russi ricordano la vittoria sul nazismo nella Seconda guerra mondiale e l’affermazione dell’Urss come grande potenza. Il messaggio di Putin pare costruito per avere risonanza tra i suoi connazionali immersi nella disinformazione da lui
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Guerra
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Il fantasma dei corridoi umanitari
«Quando c’è una guerra non c’è alcuna possibilità di aprire dei corridoi umanitari”. Da quando è iniziato il conflitto in Ucraina, il 24 febbraio, si è tentato più volte di creare delle vie d’uscita sicure, per tutti coloro che vogliono scappare. Di “cessate il fuoco” dichiarati dalla Russia e non rispettati ne abbiamo visti tanti nei giorni passati. Tentativi diplomatici per evacuare città, ospedali, orfanotrofi. Ma nessuno di questi ha avuto l’esito sperato. L’esercito russo non ha rispettato quanto promesso. Non è stato possibile aprire nessuna via di fuga sicura.
Vie di fuga sicure dall’Ucraina non esistono, ma associazioni e Ong intervengono per aiutare chi scappa PROFUGHI
di Silvia Stellacci e Martina Ucci
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«I giornali e i media usano l’espressione 'corridoio umanitario' in maniera impropria. I corridoi umanitari, intesi come accordi tra governi che permettano una via d’uscita sicura, non esistono». Così Andrea Iacomini, portavoce di Unicef Italia, ha spiegato quella che è la realtà dei fatti in Ucraina. Il corridoio umanitario è un passaggio protetto, che permette alle persone che vogliono abbandonare un Paese di poterlo fare nella tutela del Paese ospitante. «Parliamo di corridoi umanitari in casi come l’Afghanistan, la scorsa estate, quando un accordo tra governi ha permesso agli aerei italiani e degli altri Paesi di mettere in salvo diverse persone. Oppure quando sono stati portati centinaia di migliaia di siriani in Italia. Sono degli accordi spot che vengono presi tra governi in situazioni di crisi».
«In un momento di guerra come questo, dovrebbe essere il Cremlino a decretarli e, soprattutto, a rispettarli», afferma uno dei portavoce del Ministero degli Affari Esteri. Ma la realtà è un’altra, non ci sono né i mezzi né i presupposti per creare queste vie di fuga. «Non c'è un accordo tra i governi ed è proprio questo ciò che ha permesso, e permette tutt’ora, ad associazioni come sant’Egidio, di prendere centinaia di persone dal Corno d’Africa, o da zone critiche, per portarle qui attraverso passaggi safe», continua Iacomini. La comunità di Sant’Egidio, molto conosciuta dalle organizzazioni che operano in territori di crisi, da anni ha avuto un ruolo chiave nella promozione e nell’attuazione dei corridoi umanitari, che, frutto di un protocollo d'intesa tra la comunità stessa e altre associazioni cattoliche, sono organizzati su più strati. Innanzitutto, le associazioni inviano sul posto dei volontari, i quali prendono contatti diretti con i profughi dei Paesi interessati dal progetto e predispongono una lista di potenziali beneficiari da trasmettere alle autorità consolari italiane. Dopo un controllo da parte del Ministero degli Interni, vengono rilasciati dei visti umanitari che sono validi solo per l’Italia. Poi, i rifugiati vengono trasportati in maniera sicura e legale in territorio italiano, dove possono presentare domanda di asilo. Da febbraio 2016 a oggi, la Comunità di Ssant’Egidio ha portato in Italia più di 4.300 persone, tra cui soprattutto siriani in fuga dalla guerra e rifugiati dal Corno d'Africa e dalla Grecia.
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Secondo Iacomini, al momento, ciò che più si avvicina ad un corridoio umanitario dall’Ucraina è l'applicazione della direttiva 55 decretata nel 2001 dal Consiglio dell’Unione Europea per il Kosovo. Apertura totale delle frontiere europee con il riconoscimento dello status di rifugiato temporaneo per tutti i cittadini ucraini che arrivano. «Questo è ciò che è stato fatto e che ha consentito, e consentirà, a tutte queste persone di godere dei diritti dello status di rifugiato per un anno, prorogabile a tre, nel paese in cui il cittadino ucraino va a rifugiarsi». Sono tanti coloro che sono arrivati in Italia tramite altre vie sicure, ad esempio sfruttando il ricongiungimento familiare. L’associazione culturale cristiana italoucraina di Roma, dallo scoppio della
guerra, è diventata uno snodo molto importante per permettere, a chi ha parenti o amici in Italia, di venire qui tramite un passaggio sicuro. Opera sul territorio ormai da anni, grazie ad itinerari che collegano l’Italia all’Ucraina. I pullman a loro disposizione, in questa situazione di emergenza, si sono rivelati molto utili per inviare aiuti e beni di prima necessità e portare in Italia chiunque desideri scappare. «Noi siamo qui e facciamo il mestiere dell’accoglienza, per ridare fiducia e serenità a chi scappa dalla guerra», conclude il presidente dell’associazione, Mario Tronca. Fondamentale è il lavoro che viene fatto ai confini dell’Ucraina, dove molte associazioni si sono mobilitate per prestare un primo soccorso ai profughi. Giovanna Di Benedetto, operatrice di Save the Children, è sul campo a Siret, in Romania. «È stato aperto un buco nella frontiera, per permettere alle persone di scappare. Qui noi, insieme a molti altri, ci occupiamo della distribuzione di beni di prima necessità, come cibo e coperte». Numerose anche le comunità che si sono attivate per un’accoglienza vera e propria, come quella rumena in cui «i cittadini hanno messo a disposizione le loro case». «Adesso - conclude Iacomini - la sfida sarà quella di non trasformare i centri di accoglienza ai confini in strutture permanenti, come è successo in passato con chi è scappato da territori di guerra».
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1. Tom Remp per Unicef, Polonia, 2022 2. Tom Remp per Unicef, Polonia, 2022 3. Tom Remp per Unicef, Polonia, 2022 4. Aleksey Filippov per Unicef, Ucraina, 2022
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Guerra
Le conseguenze dell’ecocidio russo La devastazione del territorio ucraino e le emissioni di CO2 in Italia AMBIENTE
di Federica De Lillis e Leonardo Aresi
«La distruzione di massa ai danni di flora e fauna, l’avvelenamento dell’aria e delle risorse d’acqua, e tutte le azioni che possano causare un disastro ambientale», in altre parole un ecocidio, crimine riconosciuto da pochi Stati al mondo, tra cui l’Ucraina. Secondo il Conflict and Environment Observatory (Ceobs), organizzazione che monitora le conseguenze degli interventi militari per l’ambiente e le persone, le azioni della Russia sul suolo ucraino rientrerebbero proprio negli estremi di questo reato, non ancora riconosciuto dalle Nazioni Unite. L’invasione del territorio ucraino da parte dei soldati russi ha provocato una delle più gravi crisi umanitarie in Europa dal secondo dopoguerra. Ma non solo. L’uso indiscriminato di armi pesanti, gli incendi e le esplosioni stanno provocando anche gravi danni ambientali. Secondo 24— Zeta
l’ultimo report del Ceobs, a preoccupare sono la qualità dell’aria in seguito agli incendi dei serbatoi di carburante delle basi militari, oltre all’inquinamento che viene dalla distruzione di materiale militare. A ciò si aggiunge il pericolo proveniente dal controllo russo delle centrali nucleari di Zaporizhzhya, la più grande d’Europa, e di Chernobyl. Nel documento si legge: «Picchi di radiazioni gamma intorno agli edifici principali del sito di Chernobyl sono stati individuati prima che il sistema
di monitoraggio si disattivasse per due giorni. Quando i monitor sono tornati online, sotto il controllo russo, quelli dove sono stati registrati i picchi più alti erano ancora offline». L’aspetto delle aree rurali e urbane è stato modificato in modo radicale: relitti militari occupano le strade, crateri si sono aperti al centro delle città, ponti sono stati fatti esplodere per rallentare l’avanzata russa, con il pericolo che detriti e agenti contaminanti distruggano gli habitat fluviali. L’uso indiscriminato di armi esplosive ha esposto gran parte della popolazione all’inalazione di materiale da costruzione polverizzato e a problemi di smaltimento dei detriti. L’Italia, anche se non colpita direttamente dalle bombe, potrebbe subire delle conseguenze energetiche e ambientali. Il nostro Paese dipende per il 40% dei consumi dal gas russo. La Fondazione Eni Enrico Mattei (Feem) ha elaborato alcuni scenari di cosa accadrebbe in Italia se le forniture provenienti dalla Federazione russa venissero interrotte. Anche se si dovessero massimizzare le importazioni da Algeria e Libia, mantenere stabili quelle dell’Azerbaijan e incrementare di poco la produzione nazionale, «l’Italia
potrebbe disporre di circa 54,8 miliardi di metri cubi di gas, ovvero una quantità vicina al 75% della domanda del 2021 e del 77% della domanda del 2019. Ci sarebbero circa 16-18 miliardi di metri cubi di gas in meno rispetto a un anno normale». Sul tema si è pronunciato ai nostri microfoni anche Alessandro Lanza, direttore esecutivo della Fondazione Enrico Mattei. «Tutte le ipotesi prospettate nel report, sia che l’Italia decidesse di non comprare più gas sia che la Russia interrompesse le forniture, implicherebbero un’implementazione dell’utilizzo delle centrali a carbone». In base ai dati di Terna S.p.a, il carbone è responsabile della maggior parte delle emissioni annue di CO2 in Italia insieme al gas. Nel settore termoelettrico, che sfrutta la combustione per generare energia elettrica, e che fornisce circa il 50% dell’elettricità di cui abbiamo bisogno, il carbone genera il 18% delle emissioni complessive.
Il carbone genera il 18% delle emissioni complessive di CO2 «Non condivido l’implementazione delle centrali a carbone. Avrebbe un impatto immenso sull’ambiente e sulla vita delle persone» ha commentato così la notizia Eleonora Cherubini, 24 anni, ingegnere energetico e membro attivo di YES-Europe, associazione che promuove l’attività dei giovani europei appassionati di energia e sostenibilità. «Riaccendere le centrali a carbone e non rispettare l’impegno di dismettere o riconvertire quelle già in funzione entro il 2025 comporterebbe un grave allontanamento dall’obiettivo di contenere l’aumento della temperatura terrestre entro gli 1.5 gradi, come era previsto dall’Accordo di Parigi del 2015».
Secondo Cherubini il prezzo che pagherebbe la comunità sarebbe troppo alto. «L’unico modo per cercare di risolvere la situazione nel più breve tempo possibile è il mix energetico. Non è necessario, né saggio, pensare a sistemi basati del tutto su impianti eolici o fotovoltaici. Bisogna sfruttare tutte le risorse a disposizione, percorrere al contempo più strade per arrivare al più presto a un’indipendenza energetica». L’ingegnera si dice preoccupata per il futuro. «Stiamo assistendo a una guerra che ci ha sconvolto. Non ci dobbiamo dimenticare però che da tempo viviamo anche un’altra crisi. Al cambiamento climatico dovremmo dare lo stesso peso del conflitto armato. La guerra provoca migliaia di morti. Il cambiamento climatico fa la stessa cosa, con l’unica differenza che si tratta di un conflitto in cui non ci sono né bombe né armi e i suoi danni si espandono più lentamente nel tempo. Se non ce ne curiamo, una soluzione potrebbe non esserci più».
Le centrali in Italia • Brindisi, Puglia, A2A, 2.640 MW • Torrevaldaliga, Lazio, Enel, 1.980 MW • Fusina, Veneto, Enel, 976 MW • La Spezia, Liguria, Enel, 682 MW • Sassari, Sardena , EP, 600 MW • Portovesme, Sardegna, Enel, 480 MW • Monfalcone, Friuli, wA2A, 336 MW
Cherubini non ha dubbi sui danni che produrrebbero le centrali. Il problema più grande è rappresentato da tre sostanze: particolato, ossidi di zolfo (SOx) e ossidi di azoto (NOx). Se inalate, possono essere causa di tumori, malattie respiratorie e cardiache. «Avrebbe senso implementare la produzione delle centrali solo se gli impianti venissero dotati delle più avanzate tecnologie di rimozione degli inquinanti e cattura della CO2. A livello economico significherebbe sostenere costi esorbitanti». Zeta — 25
«I bambini non parlano più» Non solo ucraini PROFUGHI ma un caleidoscopio di nazionalità è quello che sfugge dalla guerra e arriva al confine con la Polonia di Giulia Moretti
«Ci sono bambini che hanno smesso di colpo di parlare. Sembra che si siano dimenticati come si fa a parlare e si sono chiusi in un mutismo che è frutto del travaglio subìto». È così che i profughi ucraini arrivano in Polonia, dopo un viaggio durato giorni tra il freddo e la nostalgia di una vita che non esiste più. Nei loro occhi le macerie delle bombe, il rombo degli aerei, il fischio sinistro dei carri armati, il dolore per parenti e amici caduti o rimasti in patria a portare avanti la resistenza. A raccontare le loro storie è Giovanni Visone, collaboratore di rientro dalla Polonia di Intersos, un’organizzazione non governativa che ha stabilito la propria base a Korczowa, città polacca sulla direttrice di Leopoli. «C’è un posto che è un centro commerciale a circa quattro chilometri dalla frontiera sulla principale 26 — Zeta
autostrada per Leopoli. È stato svuotato e riconvertito a centro di transito e di prima accoglienza per i rifugiati». Da Leopoli la strada si biforca e chi scappa arriva a Korczowa o a Przemysl, a una ventina di chilometri a sud di Cracovia. Le persone arrivano alla frontiera vicina e vengono trasportate nel centro di Intersos per ricevere una prima indicazione su dove andare e un primo screening medico. «A manifestare il bisogno di cure mediche sono state soprattutto mamme con bambini, spesso anche molto piccoli. In molti casi si tratta di problemi non particolarmente gravi: febbre e difficoltà respiratorie». Sono le conseguenze di un viaggio, durato molte ore se non giorni, che queste famiglie hanno dovuto affrontare in condizioni precarie per arrivare al confine. «Ci siamo trovati di fronte anche a bambini di pochi giorni o a casi di malattie, in forma acuta o grave, come leucemie e tumori, non trattate». Migliaia di persone sono state colpite dalla guerra mentre erano in cura in qualche ospedale e sono stati costretti a interrompere le cure. Non mancano i casi traumatici: «è arrivata da noi una donna che aveva
appena partorito. Aveva avuto un’emorragia e necessitava di una trasfusione urgente. In quel caso è stata fondamentale la collaborazione con le autorità sanitarie locali». L’altra categoria di pazienti che arrivano al centro è fatta di persone con malattie croniche, come ipertensione, diabete e asma, che hanno dovuto in-
terrompere le loro cure per mancanza di medicinali. «In generale, ci siamo trovati a trattare persone molto provate, sia fisicamente sia psicologicamente. Ancora una volta questo dramma è particolarmente evidente nelle donne e nei bambini. Le mamme sono spaventate, alcune vengono da noi anche se il figlio ha poche linee di febbre. Sono in cerca di conforto e di qualcuno che si prenda curo di loro». Anche i più piccoli hanno subito il trauma della guerra: «i bambini più piccoli sono estremamente provati fisicamente, quelli che hanno già qualche anno, a partire dai due,tre anni sono molto traumatizzati». Non si può dire con certezza se il chiudersi nel mutismo sia indice di un vero e proprio disturbo posttraumatico da stress, ma quello che è certo è che «serve una cura umana, oltre che medica». Sul campo, oltre alla presenza dei medici specializzati in migrazioni, sono necessari anche altri tipi di professionalità, come quelle di mediatori linguistici ed esperti di protezione umanitaria. «Una parte importante del lavoro che occorre potenziare è l’indirizzamento su percorsi di protezione delle persone più vulnerabili come donne sole e i minori non accompagnati. C’è grande presenza di volontari sul territorio, ma ancor più necessaria è una presenza umanitaria strutturata anche per garantire certi standard nella risposta alle esigenze che si
presentano». Tra le persone assistite non ci sono solo gli ucraini, ma anche tanti stranieri che vivevano in Ucraina, come cittadini uzbeki e tagiki , e sono stati allestiti i punti di supporto delle ambasciate dell’Uzbekistan e del Pakistan per favorire il ritorno a casa di queste persone. «È capitato di assistere una donna norvegese e una famiglia vietnamita che vivevano in Ucraina. Anche molti studenti di medicina dell’Università di Kharkiv erano giordani e indiani. È un mondo in fuga ed è importante che a tutte queste persone sia garantita protezione internazionale».
Secondo le stime generali delle Nazioni Unite sono ormai oltre un due milioni i profughi. Ogni giorno nel centro di prima accoglienza di Intersos arrivano tra le seimila e le settemila persone. «Le persone si fermano qui per riposarsi per alcune ore o per una notte». Poi il viaggio prosegue: «bus messi a disposizione gratuitamente si dirigono verso altre città della Polonia o anche verso città europee o italiane». La guerra è alle spalle, di fronte una vita da ricostruire.
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Dicotomia urbana: due rive, due realtà Il Tevere divide la Capitale in due sponde che si guardano pacificamente. Se da una parte i romani corrono scaricando la tensione della vita frenetica, dall’altra sacchi a pelo e tende formano piccoli villaggi di clochard PHOTOGALLERY
a cura di Giorgio Brugnoli e Anastasia Pensuti
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4. La bocca: la sede dell'identità, del logos e del soffio vitale
Sponda sinistra
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Italia
Le vite degli altri VOCI Scegliere l’eutanasia dovrebbe essere un diritto. Il primo passo è comprendere e accettare la libertà di tutti
di Elena Pomè
«Perdonatemi». Su un biglietto accanto al letto, Michele Troilo ha lasciato poche parole. All’alba ha aperto la finestra del terrazzo del quarto piano e si è gettato nel vuoto. Michele aveva 72 anni e una leucemia all’ultimo stadio che, una notte, ha provocato un episodio di incontinenza. Marta, la badante, ha spogliato, lavato e cambiato il corpo umido. Un’umiliazione intollerabile per Michele, uomo riservato, intelligente, colto, appassionato degli spettacoli di lirica della Scala e del San Carlo, estimatore delle pellicole di Luchino Visconti, viaggiatore, amico e fratello. Quella notte, tra le lenzuola è annegata la sua dignità. «La dipendenza da altri contrastava completamente con la sua visione della vita» spiega il fratello Carlo Troilo, giornalista e collaboratore dell’Associazione Luca Coscioni. In una lettera all’amico Corrado Augias, Troilo ha raccontato la storia del suicidio di Michele per ravvivare il dibattito sull’eutanasia. «Secondo i dati Istat, ogni anno sono più di 1000 i suicidi dei malati in Italia» denuncia. «Eppure, ogni persona malata, se lucida, dovrebbe essere libera di scegliere quando e come morire. La
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sofferenza fisica e psichica è soggettiva, e dipende anche dalle condizioni familiari. Alcuni malati sono assistiti da famiglie affettuose, altri invece si consumano nella solitudine e nella disperazione». Anche Paolo Flores d’Arcais, direttore della rivista Micromega, sostiene che «la vita appartiene a chi la vive», e sottolinea il paradosso sull’eutanasia: «Il fine vita non è un tema divisivo, anzi, c’è unanimità. Infatti, sul fine vita tutti pretendono di decidere per sé, e nessuno accetta le decisioni altrui, magari basate su valori opposti ai propri». Il problema, per Flores, nasce dalla «prepotenza di alcuni cittadini», che spesso è «prepotenza clericale», di imporre le proprie scelte anche agli altri. Negare l’eutanasia, però, significa non solo ignorare le vite torturate dei malati inguaribili, ma anche avvallare l’eutanasia clandestina nei reparti di rianimazione. Flores ricorda i risultati di un questionario anonimo di un congresso di medici e infermieri di circa trent’anni fa: «Erano incredibili, o meglio, credibilissimi per chi vuole sapere come stanno realmente le cose. Tutto ciò ha un nome: si chiama ipocrisia, rimozione, omertà».
In Italia, il cammino del riconoscimento dei diritti sul fine vita è impervio. Da un lato, il 15 febbraio scorso la Corte Costituzionale ha dichiarato l’inammissibilità del referendum Eutanasia Legale per la legalizzazione dell’eutanasia perché non avrebbe garantito la tutela minima della vita, soprattutto delle persone deboli e vulnerabili. «È vero il contrario» afferma Flores «Senza l’eutanasia, più la persona è debole e vulnerabile, meno può porre fine alla tortura che è diventata la sua vita». Dall’altro lato, la Camera ha approvato la proposta di legge sul suicidio assistito che ora passerà all’esame del Senato, ma il testo attuale risulta incerto e discriminatorio. Infatti, potrebbero richiedere il suicidio assistito solo i malati dipendenti da trattamenti di sostegno vitale. «Una mostruosità» afferma Flores «che escluderebbe i malati terminali di cancro, non tenuti in vita da macchine ma comunque vittime di sofferenze terribili».
«Ho percepito un’estrema dolcezza nel lasciare la vita così, cullati dal brano musicale preferito, circondati dagli abbracci dei cari, con consapevolezza, senza imprevisti né dolori.» Avy Candeli, direttore creativo dell’Associazione Coscioni, concorda: «Occorre evitare discriminazioni incomprensibili che entrano nelle camere da letto dei malati». Come Daniela, 37 anni, paziente oncologica, morta senza il diritto di anticipare una fine annunciata, e come Irene, 30 anni, malata di tumore, attaccata alle bombole e morta nel terrore che le farmacie d’agosto esaurissero le scorte di ossigeno.
1 1. La mappa del fine vita in Europa Hanno legalizzato l'eutanasia attiva e il suicidio assistito l'Olanda (2002), il Belgio (2002), il Lussemburgo (2009) e la Spagna (2021). Il solo suicidio assistito è invece legale in Svizzera (1942) e in Austria (2021).
Nelle cliniche svizzere dell’ultimo giorno di Fabiano Antoniani e Davide Trentini, c’era anche Candeli. DjFabo, goloso di vita, ma reso tetraplegico e cieco da un incidente stradale, ha scelto di morire in una data multiplo di tre. «Se fosse stato solo tetraplegico e avesse conservato la vista, o viceversa, avrebbe deciso di restare, ma così era troppo» racconta Candeli. Prima di ricevere il semaforo verde della clinica, «Fabo era triste e incerto», ma dopo «Fabo era felice. È difficile incrociare persone felici nel momento in cui sono felici nella vita, e lui lo era». Prima di lasciare Fabo tra le braccia dell’amore Valeria e della mamma Carmen, Candeli ha scherzato e riso con lui fino all’ultimo. «Mi ha chiesto: “La mia storia arriverà anche in Giappone?”, e io ho risposto: “Lo spero”. Alla fine, la sua foto è finita in prima pagina su un giornale giapponese. Non l’ha mai saputo».
L’incontro con Davide Trentini, affetto da sclerosi multipla, è invece avvenuto in autogrill durante il viaggio per la Svizzera. «Ho conosciuto un uomo scorbutico, intriso di sofferenza, fatica e rabbia. Ma alla vista della clinica è cambiato. Era una persona adorabile e piena di umanità». Candeli, presente nella stanza fino alla fine, si è fatto «trapassare» più volte, prima dalla riflessione di Davide sul significato del volere bene: «Significa desiderare il mio bene o desiderare la mia sofferenza a tutti i costi?», e poi dall’atteso congedo: «Vado? Vado». Davide si è addormentato, il cuore fermo. Candeli aggiunge: «Ho percepito un’estrema dolcezza nel lasciare la vita così, cullati dal brano musicale preferito, circondati dagli abbracci dei cari, con consapevolezza, senza imprevisti né dolori». Anche Piergiorgio Welby, affetto da distrofia muscolare, era felice di morire dopo il quiz Affari Tuoi. Non voleva più vedere e sentire nessuno. La moglie Mina Welby, invece, si sentiva uno zombie. Lui, però, l’ha rassicurata: «Tu c’hai da fa’». Ricorda Mina: «Nella camera non vedevo più niente, solo Piergiorgio, non ricordo se ci fossero altri. Ma il mio lutto è terminato con l’ultimo battito del polso. Piergiorgio aveva aperto la porta della libertà». Mentre la fiamma di una candela-Babbo Natale danzava sul televisore, il giradischi suonava Bob Dylan e tutta una vita insieme: Tonight I’ll be staying here with you. Zeta — 31
Italia
Quando un bicchiere diventa una bottiglia La storia della caduta e della rinascita di Susanna, che ha conosciuto e affrontato il dramma dell'alcolismo ROMA
di Giorgio Brugnoli
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Il cancello sobrio si apre su una villa immersa nel verde in un quartiere esclusivo della capitale. Ad accogliere gli ospiti un cane di 50 kg tanto ingombrante quanto buono. Un sentiero indica la strada e sulla soglia si presenta la padrona di casa, si chiama Susanna, ha 63 anni e lo sguardo materno. L’ingresso si affaccia su un salotto arredato con cura in cui svettano lampade d’autore che illuminano foto di famiglia, tutte elegantemente incorniciate in argento. Due figli, ormai grandi, un matrimonio felice e un’esistenza a prima vista perfetta. Nel 2012 qualcosa cambia. In principio è solo un vizio che pian piano, sotto gli occhi di tutti, inizia a farsi sempre più presente fino a diventare soffocante. «La mia storia è molto semplice. Dieci anni fa ho smesso di lavorare, avevo un negozio di abbigliamento. Di colpo le giornate si fecero vuote e io, per noia e per dolori interni, ho iniziato a occupare il tempo
bevendo». All’inizio come la maggior parte delle dipendenze conferisce uno stato benefico in cui i freni inibitori si lascano e l’euforia prende il sopravvento. Poi comincia la fase dell’ossessione compulsiva per cui da un bicchiere si passa a due fino a finire la bottiglia. «Questa dipendenza è subdola perché scatta ogni giorno allo stesso orario. Mi promettevo di non bere tutto il giorno ma arrivata la sera il mio corpo cadeva
Il problema in numeri 36 milioni di consumatori di alcol 759 mila: minorenni critici 2,7 milioni: anziani critici 670 mila m consumatori con disturbo da Uso di Alcol (UDA) 43 mila accessi in Pronto Soccorso 17 mila decessi evitabili per cirrosi epatiche, cancri e malattie cardiovascolari.
in astinenza e per me era vitale versarmi che la malattia era entrata nelle loro vite qualcosa da bere». in modo categorico. Per combattere la depressione Susanna inizia a rivolgersi Una dipendenza perversa quella a un neurologo che, senza sapere della dell’alcolismo che viene vissuta su sua condizione, le prescrive dei farmaci. entrambe le facce della medaglia. Se da «Io non solo usavo i farmaci, ma li un lato l’alcolista cerca di nascondersi usavo bevendo» un'alchimia distruttiva, per non mostrare l’evidenza, dall'altro la disgregante, disastrosa. Un giorno società accetta comportamenti pericolosi dal lettino dello studio medico vede non riuscendo a comprendere la gravità suo figlio e capisce subito tutto. «Mi del problema. «Gli amici avevano notato caddero le braccia. Entrò e mi dichiarò che ero sempre la prima alle cene a al medico. Disse “Dottore mia madre è bere e l’ultima a posare il bicchiere ma un’alcolista”». non sapevano che io, da sola spesso in camera, mi godevo una tazza di vino Inutili i costosi e ambiziosi percorsi di prima di uscire di casa». ricovero in cui si puntava al corpo e non all’anima. Inutili i piccoli dissapori nati Lucida e talvolta distaccata, Susanna riesce a spiegare la sua malattia come se parlasse di qualcun altro. «Sono un'alcolista, sono Un percorso in salita fatto di ricadute cinque anni che non bevo, «terribili» che causano dolori fisici e che obbligano ad aumentare la dose ma io sono un'alcolista e lo perché ormai la dipendenza raggiunge sarò fino all'ultimo giorno lo stadio successivo e imprigiona a sé. A interrompere il suo viaggio indietro della mia vita » nel tempo è il figlio, un ragazzo di quasi trent’anni. Appena chiude la porta di casa, con un un sorriso appena accennato ma grato, confessa «lui è stato la mia in famiglia, le parole dei figli, le dolci e salvezza». amare intese con la madre. «Un giorno mio figlio mi diede un pezzetto di carta I segnali dell’aggravarsi della situazione su cui erano segnati l’indirizzo e l’orario c’erano ma nessuno in famiglia voleva delle riunioni degli Alcolisti anonimi. pronunciare quella parola e ammettere Era categorico. Appena misi piede in quella stanza realizzai finalmente che ero malata. Solo attraverso le storie di altri che poi erano le mie ho aperto gli occhi». Il problema dell’alcolismo è trasversale e colpisce tutta la società: giovani, anziani, donne e uomini. La forza dell’associazione Alcolisti Anonimi risiede proprio nella possibilità di ascoltare, tra persone che condividono la stessa problematica, testimonianze che a poco a poco aiutano a completare il puzzle della consapevolezza. Sono passati quasi sei anni dall’ultima volta che Susanna ha toccato una goccia d’alcol ma niente festeggiamenti perché «alcolisti si rimane sempre». Non ci sono rinunce nella vita di oggi ma solo conquiste. Le cene tra amici si continuano ad organizzare e il vino continua ad essere presente sulla tavola. In casa le bottiglie non vengono più nascoste ma sono in cucina, chiuse, e quelle aperte, avanzate dai pasti, si scolano nel lavello. Sì, perché come il diabete, «l’alcolismo si cura, si tiene sotto controllo ma non si guarisce». «Ciao, mi chiamo Susanna, sono un’alcolista e sono cinque anni che non bevo».
Dodici passi 1. Abbiamo ammesso di essere impotenti per l'alcol, e che le nostre vite erano diventate ingestibili 2. Siamo giunti a credere che un potere più grande di noi stessi potesse riportarci alla sanità mentale 3. Abbiamo preso la decisione di affidare la nostra volontà e la nostra vita alla cura di Dio quando l'abbiamo compreso 4. Abbiamo cercato e realizzato un inventario morale senza paura di noi stessi. 5. Abbiamo ammesso a Dio, a noi stessi e ad un altro essere umano l'esatta natura dei nostri torti. 6. Siamo completamente pronti a far rimuovere da Dio tutti questi difetti di carattere. 7. Gli abbiamo chiesto umilmente di eliminare le nostre mancanze. 8. Abbiamo fatto un elenco di tutte le persone che avevamo danneggiato e siamo diventati disposti a rimediare a tutte 9. Abbiamo fatto ammenda a tali persone ovunque possibile, tranne quando farlo avrebbe danneggiato loro o altri 10. Abbiamo continuato a fare un inventario personale e, quando ci siamo sbagliati, lo abbiamo ammesso prontamente 11. Abbiamo cercato, attraverso la preghiera e la meditazione, di migliorare il nostro contatto cosciente con Dio 12. Abbiamo avuto un risveglio spirituale come risultato di questi passi Zeta — 33
Italia
delle Comunicazioni Obbligatorie del ministero del Lavoro e delle Politiche Sociali, sono un milione e 81 mila i dipendenti italiani che nei primi nove mesi del 2021 hanno deciso di lasciare volontariamente il lavoro. Quasi uno su due non ha più un contratto attivo e molti sono laureati e lavoratori qualificati. Numeri significativi anche se contenuti rispetto a quelli degli Stati Uniti dove si parla di “Great Resignation”: in base ai dati dell’U.S. Bureau of Labor Statistics, a luglio 2021 hanno dato le dimissioni ben 4 milioni di persone. Ma quali sono le motivazioni che portano ad una scelta così radicale?
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Dire addio al posto fisso per un sogno Le storie di chi ha scelto di cambiare vita e i dati su chi ha deciso di lasciare volontariamente il lavoro in Italia LAVORO
di Maria Teresa Lacroce
Tranquillità. È questa la prima parola a cui pensa Simone Silvani, 45 anni, quando riflette sulla scelta che ha cambiato la sua vita: lasciare il lavoro a tempo pieno da architetto per dedicarsi alla sua passione per la cucina. Era il 2017 e, dopo tredici anni di libera professione, aveva deciso che era arrivato il momento giusto per dare una svolta alla sua vita lavorativa. Così, dopo diversi corsi e stage nel settore della cucina, oggi gira per l’Emilia Romagna con il suo food truck Aspasso, con cui promuove il piatto tipico della sua regione: i passatelli.
i fiori sarebbero diventati il suo lavoro. Così, nel 2018, proseguendo ancora con il lavoro nello studio notarile, ha aperto la partita iva e ha finalmente avviato la sua attività da fiorista: un hobby più che un vero e proprio lavoro, a cui Valentina dedicava i ritagli di tempo, soprattutto la sera. Poi è arrivato il 2020, e a marzo anche la pandemia e la cassa integrazione. Totalmente ferma con il lavoro, Valentina ha concentrato tutte le energie sul suo sogno. E da lì non è più tornata indietro. Dopo aver dato le dimissioni, oggi è una “fiorista freelance ambulante” e, a bordo della sua Ape car, blu come il mare della Valentina Marchese, 40 anni, nata sua Sicilia, porta l’allegria e i colori delle a Palermo ma trevigiana d’adozione, sue bellissime creazioni in giro per Treviso invece, lavorava come segretaria in uno e dintorni. studio notarile. Era il 2007 e ogni sabato mattina, frequentava un mercato in cui Lasciare il posto fisso e ricominciare, c’era sempre un banchetto di fiori colorati. reinventandosi totalmente una carriera, Un giorno ha pensato a quanto sarebbe più coerente con le proprie aspirazioni di stato bello lavorare con i fiori e da lì ha vita. Tante le persone che, nel corso degli iniziato a comprarli, e a rendersi conto che ultimi anni, hanno fatto questa scelta. In la facevano stare bene. Pur continuando particolare, come emerge dall'indagine con il suo lavoro da impiegata, ha iniziato “Le dimissioni in Italia tra crisi, ripresa a frequentare dei corsi e a collaborare con e nuovo lavoro” della Fondazione Studi alcuni fioristi, convinta che prima o poi Consulenti del Lavoro, basata sui dati 34 — Zeta
3 1. Valentina Marchese. Credit Daniela Katia Le Fosse 2. Simone Silvani 3. Ripartizione geografica dei dimissionari. Fonte: Fondazione Studi Consulenti del Lavoro
Come racconta Simone, «spesso la gente dopo avermi conosciuto, dopo aver mangiato i passatelli e dopo aver fatto quattro chiacchiere, mi dice: ‘si vede lontano un miglio che ami questo lavoro, per come ne parli, per come ti poni nei confronti della gente’. Questo mi fa felice: lo sappiamo tutti, non è fondamentale soltanto guadagnare dei soldi ma anche fare quello che un po’ ti piace». Valentina, invece, sul suo bigliettino da visita ha stampato questa frase: «Emozionati almeno un po ogni giorno». E sul perché non tornerebbe più indietro alla sicurezza del suo posto fisso, nonostante l’impegno e la stanchezza maggiori rispetto a quello che era il suo impiego nello studio notarile, racconta: «Io tornavo a casa la sera e avevo le mani sporche del sigillo notarile. Poi lavoravo con i fiori e avevo le mani sporche delle cose che toccavo ed ero più soddisfatta, dentro mi sentivo più ricca».
«si fa trovare a letto e si finge malata». «È così che la donna riesce ad allontanare il marito dai familiari, dandogli grande sofferenza. Pretende che Federico compri una casa lontana da tutti loro». Lui è costretto a vedere la famiglia soltanto di nascosto. La vittima è in un continuo stato di angoscia e inizia a cercare conforto nell’alcool. Maria lo scopre: «prende le bottiglie e le spacca fino a quando una sera gli lesiona un tendine, obbligandolo ad andare al pronto soccorso. Il marito è consapevole di avere una moglie che abusa del suo amore e delle sue fragilità, ma non riesce ad allontanarsi da lei».
Quando l'amore estremo lascia lividi nella mente La psichiatra Donatella Marazziti racconta la storia di un paziente e del rapporto conflittuale con sua moglie STORIE
di Silvia Morrone
«Lei diceva di amarlo e lui accettava di subire violenza». Federico è stato abusato da Maria (nomi di fantasia). È la storia di un «amore estremo» che ritorna in mente, quando si parla di violenza psicologica delle donne sugli uomini, a Donatella Marazziti – dirigente medico di primo livello presso la Aoup, l’azienda ospedaliero universitaria Pisana – inserita nella rivista Class tra i primi dieci psichiatri italiani e scienziata che ha dimostrato come cambia la biologia del cervello durante la fase dell’innamoramento. La vittima è Federico, il dirigente di una grossa industria automobilistica. Da ragazzo ha avuto tante spasimanti,
tutte attratte dal suo potere, dalla sua bellezza e dalla sua simpatia. Come Jay il protagonista milionario del film Il Grande Gatsby – conosciuto per il suo “amore impossibile per la sofisticata Daisy” – così anche Federico era innamorato, da sempre, di una ragazza: Maria che non lo considerava. Ogni volta che lui si fidanzava, lei ritornava e «giocava come il gatto con il topolino». Un giorno lo convince a sposarla, ma rifiuta l’approccio sessuale fino al matrimonio. L’anno dopo nasce una bambina e in seguito «la moglie si nega sempre, comincia un gioco al massacro perché non vuole più gravidanze». La famiglia di origine di Federico è “armonica”: due fratelli e due sorelle più piccole che, dopo il matrimonio, sono tormentate da Maria. Per amore verso il fratello, cedono alle provocazioni: «hai un brutto vestito, quanto ti sta male quel taglio di capelli». Queste sono alcune delle frasi che si sentono dire nel tempo. Federico, ingannato dalla moglie, si ritrova in «una follia a due, crede che la sua famiglia non lo ami più. La moglie mina la credibilità delle sue sorelle». Continua la psichiatra, «è come se ricevesse da Maria una pillola di veleno ogni giorno». Ogni volta che lui visita la madre e poi torna a casa, la moglie
«Ci si rende conto della propria debolezza e invece di resisterle, ci si vuole abbandonare a essa»
«Sappiamo esattamente cosa fare, ce lo dice la parte superiore del cervello, ma non riusciamo a farlo. È il conflitto interiore. Siamo dilaniati. La consapevolezza che continuiamo ad amare un partner violento ci fa ancora più male, si aggiunge la sofferenza alla violenza subita» commenta la psichiatra. La vittima si colpevolizza e giustifica il suo carnefice: «non sono adeguata, lo fa per il mio bene». Donatella Marazziti chiarisce che si tratta di «una dipendenza affettiva» che lega Federico a Maria. «È la sindrome della crocerossina che è tipicamente femminile e non solo e spinge la vittima a dire: ‘l’aiuterò, la salverò’». «Alcune emozioni come l’attaccamento», un legame profondo che ci unisce nel tempo a una persona, «superano la ragione». «Sono, spesso, persone che non si sono sentite amate abbastanza dai genitori». Sarà la figlia a convincere il padre a iniziare un percorso di recupero e di distanziamento dalla moglie violenta. È la condizione dell’uomo che descrive – ricorda la psichiatra - una frase dello scrittore Milan Kundera in L’insostenibile leggerezza dell’essere: «ci si rende conto della propria debolezza e invece di resisterle, ci si vuole abbandonare a essa. Ci si ubriaca della propria debolezza, si vuole essere ancor più deboli, si vuole cadere in mezzo alla strada, davanti a tutti, si vuole stare in basso, ancora più in basso». Zeta — 35
Cultura
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Il «nuovo vocabolario» di Ennio Giuseppe Tornatore dedica alla memoria di Morricone un film musicale, oltre il documentario CINEMA
di Valeria Verbaro
Le mani, rapidissime nonostante l’età, scrivono sul pentagramma alla stessa velocità con cui chiunque scriverebbe una lettera. La musica prende forma senza che una nota venga ancora suonata. È già nella mente del Maestro Ennio Morricone, raccontato attraverso l’intima intervista di Giuseppe Tornatore. Così come il titolo del film, Ennio rinuncia a ogni formalità. È amichevole, a tratti scherzoso, spesso altrove, trascinato dalla potenza delle sue stesse partiture e dai ricordi di un passato 36 — Zeta
difficile, in cui ha dovuto lottare per affermarsi come artista fra musica colta, composizione sperimentale e cinema.
della sua generazione in grado pensare le partiture partendo dalle immagini». È forse anche il più grande in assoluto.
«Quello che ha fatto Morricone è stato uno shock culturale». Prima di lui nel mainstream italiano esisteva solo l’accompagnamento. Il Maestro ha creato invece un contrappunto continuo fra esibizioni, interpreti e base musicale, rendendo la sua musica un vero e proprio interlocutore, qualcosa con cui interagire oltre l’ascolto passivo. Così facendo ha salvato l’etichetta discografica RCA, costruendo hit come Abbronzatissima e Barattolo, in cui la sua anima sperimentale l’ha spinto a integrare suoni d’ambiente e rumori: l’acqua del tuffo, il barattolo che rotola…
È il Maestro stesso a ricordare la celebre camminata di Gian Maria Volonté in Indagine su un cittadino al di sopra di ogni sospetto (1970). L’idea musicale fu prima bocciata e sostituita da Elio Petri. Nient’altro avrebbe potuto trasmettere la tensione del momento, tuttavia, come quelle note di violino pizzicate, che modellano i rapidi e fatali passi dell’assassino. Nessun celebre compositore cinematografico, da John Williams a Hans Zimmer e Nicola Piovani, tutti intervistati da Tornatore, sarebbe in grado di pensare la propria professione senza il contributo di Ennio Morricone. «Lo si riconosce dal primo accordo, anche solo dal primo arco, da come è suonato. È incredibile come possa essere sempre lo stesso e sempre diverso». Afferma Zimmer, riassumendo anche la definizione di che cos’è un autore, nel senso più completo del termine.
La medesima musica 'delle cose' è anche quella che usa nella grande sequenza di apertura di C’era una volta il West (Sergio Leone, 1968), quando lascia suonare il vento prima ancora dell’armonica di Charles Bronson. «Morricone è l’unico grande musicista
Ciò che rende Morricone un pioniere nella musica per film è la sinestesia attraverso cui riesce a sentire la musica con tutti i sensi, ad inseguirla con le mani e a descriverla attraverso forme e azioni ben definite. Tornatore trova il modo più efficace di raccontarlo, lasciando che si crei un ipotetico dialogo fra i tre filoni del film: l’intervista, le numerose testimonianze di chi ha lavorato con il Maestro e le leggendarie sequenze cinematografiche da lui musicate. Insieme creano uno spettacolo nello spettacolo, che va oltre la funzione del documentario e diventa un omaggio commovente a quel cinema che Morricone stesso ha forgiato e rivoluzionato.
Lo sguardo di Tornatore «Ho strutturato Ennio come come uno spettacolo che attraverso gli spezzoni dei film da lui musicati, le immagini di repertorio, i concerti, possa far entrare lo spettatore nella formidabile parabola esistenziale e artistica di undei musicisti più amati del Novecento. E poi mi sono soffermato sul 'mio' Ennio». Giuseppe Tornatore riserva per sé il ruolo del doppio narratore, davanti e dietro la macchina da presa, per raccontare Ennio uomo e Morricone artista. Il regista Premio Oscar in oltre trent’anni di carriera ha infatti collaborato con il Maestro in tutti i suoi film a partire da Nuovo Cinema Paradiso (1988).Il
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legame artistico nel tempo si fa legame affettivo e permette così a Tornatore di entrare nell’intimità dello studio, della casa, persino del caos creativo del compositore e riesce a cogliere la fragilità che si mostra all’affiorare dei ricordi. La scelta di raccontare l’arte di Morricone facendola ascoltare di pari passo alle interviste è forse l’unica possibile per comprendere quanto essa abbia sempre interagito con le immagini cinematografiche. L’intreccio di diverse melodie, che caratterizza le sue partiture, si adatta al cinema, mantenendo però la sua funzione essenziale: far sentire la presenza e l’identità della musica
e di chi la crea, in una vera e propria conversazione con i film. Tornatore è abile nel raccontarlo e nel raccontare il dualismo che si cela fra l’uomo e l’artista. L’Ennio in apparenza timido e remissivo, si scioglie davanti alla telecamera e lascia sempre più spazio alla fermezza e alla potenza del compositore sperimentale, ben consapevole della sua arte e del suo valore. Il documentario è 'solo' un modo per ricordarlo per sempre a chi verrà dopo. 1-2. Ennio (2021). Courtesy of Lucky Red 3. Nuovo Cinema Paradiso (1988). Courtesy of Titanus
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Cultura tentativo di suicidio e la convinzione di non voler avere figli, derivante da anni di diagnosi sbagliate e di giudizi velenosi come quello del suo primo marito Jonathan, che Martha ringrazia per non essere riuscito a metterla incinta di «un bambino che nemmeno volevo, con una predilezione per la cocaina e i jeans bianchi».
«Essere vivi è un fatto innaturale, qualcosa a cui alla fine, sai di dover porre rimedio»
L’opposto di me stessa di Meg Mason Il tema della malattia mentale raccontato dal punto di vista tragicomico della protagonista. A fare da filo conduttore, un desiderio nascosto per anni RECENSIONE
di Silvia Pollice
«Il tempo lì è generalmente tempestoso, solo piogge torrenziali e uragani imprevedibili e devastanti, il che, presumo, rende difficile vivere una vita normale. È come mi sento io». Martha Friel è seduta nello studio di un tatuatore londinese, mentre l’inchiostro imprime sulla sua pelle la mappa barometrica delle isole Ebridi, al largo della costa ovest della Scozia, che descrivono il suo “meteo cerebrale”. Quarant’anni appena compiuti, Martha tiene una brillante rubrica di cucina sulla rivista Waitrose ed è sposata con Patrick Friel, suo amico d'infanzia da sempre innamorato di lei, che due giorni dopo la sua rovinosa festa di compleanno la lascia in modo apparentemente inspiegabile. 38 — Zeta
Quando aveva solo diciassette anni, alla protagonista del romanzo bestseller “L’opposto di me stessa”, l’ultima opera della giornalista e scrittrice neozelandese Meg Mason, esplode «una piccola bomba nel cervello», che stravolge la sua vita per sempre. Una bomba senza nome, che Martha definisce con un – e che diventa il filo conduttore della trama: una malattia mentale mai definita agli occhi del lettore, che la lasciava in pace soltanto quando si rifugiava nello studio di suo padre Fergus, ma che periodicamente tornava ad incasinarle la vita sotto molteplici forme. Le crisi violente, i blackout, la paura che la incatenava a letto per giorni interi e che poi diventava apatia, la rabbia nei confronti della madre Celia per averle nascosto un segreto di famiglia che ha a che fare con la sua condizione. Poi, il
Ma nella vita di Martha ci sono state (e ci sono ancora) anche persone che l’hanno sempre supportata e amata, anche quando lei continuava ad autodistruggersi. Anche quando non riusciva più a riconoscersi. Da sua sorella Ingrid, con cui ha un legame speciale da “quasi sorelle gemelle” e che partorisce sul pavimento del lussuoso bagno di sua cugina Jessamine, a sua zia Winsome, ex pianista con la passione per la ristrutturazione periodica della sua favolosa villa a Belgravia. Da Peregrine, direttore della rivista World of Interiors e suo ex capo, che la spinge a rifugiarsi nel suo pied-à-terre parigino dopo la dolorosa rottura con Jonathan, a suo cugino Nicholas, con la stessa tendenza di Martha all’autodistruzione e compagno di infinite passeggiate da un capo all’altro di Londra, sorseggiando bibite gassate dai mille colori. Fino al dottor Robert, psichiatra che, con la diagnosi di –, la salva dal baratro in cui era sprofondata e le fa scoprire il suo desiderio nascosto di diventare madre. Infine c’è Patrick, conosciuto durante uno dei pranzi di Natale organizzati da Winsome. Si innamora della protagonista quando uno degli elastici del suo apparecchio atterra accidentalmente sulla sua mano, per poi metterselo in tasca «pensando che nessuno lo stesse guardando» e conservarlo gelosamente per anni. Patrick è lì per lei quando il narcisista Jonathan chiede a Martha di sposarlo, quando lei tenta di gettarsi da un ponte nei pressi di Oxford e persino quando lei lo accusa di essere «solo l’involucro di quello che dovrebbe essere un marito», davanti alla sua difficoltà di esternare le emozioni. Patrick rimane anche quando, dopo aver lasciato la “Prestigiosa Villetta” che divide con Martha, tutto finisce ai tempi supplementari.
passato rifiutati a priori, iniziano ad essere pubblicati sotto lo stesso pseudonimo. Legati ormai dalla passione viscerale per gli obiettivi più che dall’amore, il binomio Capa-Taro si mette alla volta del fronte bellico in Spagna, per realizzare un reportage sulla resistenza del governo repubblicano. E proprio in quei terreni di battaglia, dove condividevano la ricerca ossessiva della verità nei volti dei soldati scavati dalla paura e dalla sofferenza, si scioglie il nodo stretto tra i due destini. Nel luglio del 1937, a Brunete, Gerda incontra la morte, investita da un carro armato lealista che le squarcia l’addome.
Gerda e Robert, fotografia sul filo di guerra e amore Legati nella vita e nel lavoro, i due fotogiornalisti si gettano insieme nel racconto di «quell’inferno che gli uomini si sono fabbricati» STORIE
di Anastasia Pensuti
Robert Capa e Gerda Taro, due vite intrepide, intense, in cui la forza antitetica dell’amore e della guerra si intreccia in una trama straordinaria. Due anime che si riconoscono nella passione per la fotografia e nella vocazione al racconto della verità. Due anime che si stringono nella sfida di testimoniare assieme il fronte di guerra. Prima di passare alla storia del fotogiornalismo con il nome di Robert Capa, era l’irrequieto Endre Friedmann, un ragazzo vitale e rissoso con il sogno di diventare giornalista. Anche il linguaggio dell’immagine lo affascinava, a tal punto da istillargli il desiderio di lasciare Budapest, dove era nato, e mettersi alla volta della capitale francese. È il 1934, è la Parigi dell’emigrazione letteraria, quella che resta impressa a Simenon,
dalla cui penna salta fuori il commissario Maigret. Ma è soprattutto la capitale delle avanguardie, e la fotografia come sismografo registra questo clima. Nei caffè di Montparnasse, l’atmosfera a cavallo tra le due guerre è effervescente e satura di poliedricità. Endre Friedmann trova gli stimoli all’altezza della sua febbricitante voglia di esprimersi. Stringe amicizie destinate a cambiare per sempre la storia del fotogiornalismo, come quella con David Seymour, l’artista che sapeva ritrarre le anime, ed Henri Cartier Bresson, l’occhio del secolo, con cui fonderà “Magnum“, la più grande cooperativa di fotografi al mondo.
Distrutto dal lutto della donna che aveva amato intensamente, Capa cerca invano di superare il dolore e la solitudine gettandosi nel mondo con il suo talento. «Il grande giocatore», come lo appellava Henri Cartier-Bresson, viaggia attraverso la Cina per documentare la resistenza all’invasione giapponese, partecipa allo sbarco in Normandia, viene paracadutato insieme alle truppe americane in Germania e fotografa la conquista di Lipsia e Norimberga, vive una breve relazione sentimentale con l’attrice svedese Ingrid Bergman, parte per la Russia con l’amico scrittore John Steinbeck che di lui encomiava «il grande cuore e l’empatia irresistibile». Ristabilitosi a Parigi negli anni 50, è deciso a godere un po' della città dove aveva imparato «a bere, a mangiare e amare», ma il destino lo convoca ancora una volta all’azione, in Indocina, nel conflitto franco-vietnamita. Ma in quella guerra «folle e stupida» la morte che portava nel cuore e che raccontava attraverso i suoi scatti, lo travolge in prima persona, quando una mina antiuomo ne lacera il corpo e, come fosse il suo naturale prolungamento, la macchina fotografica che l’emozione sapeva cogliere e trattenere.
Conosce l’amore, quello per la tedesca Gerda Pohorylle, che di Parigi aveva fatto il suo rifugio dal nazismo. Una profonda affinità elettiva lega i due giovani aspiranti fotografi. Entrambi immigrati e spiantati, capiscono presto che il proprio talento sarebbe rimasto in sordina se non grazie ad un’intuizione geniale. Forse, pensava Gerda, dietro il nome di un fantomatico fotografo americano «Robert Capa», gli scatti dei due sconosciuti avrebbero potuto incontrare un destino più felice. Ci riescono. Ben presto il sodalizio sentimentale diviene complicità professionale. I loro scatti, in Zeta — 39
Cultura riverso e vivido sulle lenzuola candide. C’è il dinamismo e lo sforzo di Giuditta, la torsione affaticata del suo busto e la partecipazione attiva di Abra, non più semplice spettatrice ma complice. «La sensibilità moderna vi ha letto spesso una rappresentazione della lotta tra femminile e maschile, connessa all’episodio di violenza subìto dalla pittrice». È solo «soggettività interpretativa», che dipende più dalla visione del mondo attraverso i secoli che dalle non dichiarate intenzioni di Gentileschi, eppure il suo Giuditta decapita Oloferne, (1612 circa) ha la capacità di comunicare nel profondo con l’osservatore.
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La sfida di Giuditta Rivoluzione e violenza nelle opere di Caravaggio e Artemisia Gentileschi MOSTRE
di Valeria Verbaro
L’urlo agghiacciante di Oloferne, colto nell’ultimo spasmo della carne, e l’assoluta determinazione negli occhi di Giuditta: questo è il teatro di Caravaggio, l’immagine che diventa canone e che nel Seicento trasforma la rappresentazione dell’episodio biblico della decapitazione del comandante assiro. A settant’anni dalla riscoperta del celebre olio su tela, le Gallerie Nazionali di Arte Antica presentano a Palazzo Barberini un percorso espositivo dedicato alle versioni più belle di Giuditta e Oloferne, soprattutto quelle influenzate dall’opera del Merisi. La mostra, curata da Maria Cristina Terzaghi, assume l’opera di Caravaggio come nucleo di riferimento artistico e temporale, lo tematizza tuttavia estraendone un secondo polo: Artemisia Gentileschi. Caravaggio e Artemisia: la sfida di Giuditta. Violenza e seduzione nella pittura tra Cinquecento e Seicento, questo il titolo completo dell'esposizione, diventa un viaggio visuale e sensuale fra le ventinove versioni dello stesso episodio, fra i tre medesimi corpi – Giuditta, Oloferne e la fantesca Abra – immortalati ogni volta da un’intenzione e una sensibilità differenti e perturbanti. 40 — Zeta
«È una mostra bellissima, concettualmente e intrinsecamente, tematizzata in modo efficace e coerente per rappresentare anche una tendenza dell’epoca, una forte tensione sociale a cui la popolazione del tempo era molto sensibile». Claudio Strinati, storico dell’arte fra i massimi esperti italiani dell’opera di Caravaggio, descrive così l’allestimento aggiungendo che il soggetto rappresentato «rende visibile qualcosa di significativo per l’epoca», un conflitto non solo «tra uomo e donna ma tra classi sociali, anche se è un termine ancora improprio da usare nel Seicento». È la scena, così come impressa da Caravaggio, cruenta e sanguinaria, a trasmettere tutto ciò. Prima di lui la rappresentazione «era cauta, non incentrata sulla decapitazione ma sui momenti immediatamente successivi». Caravaggio fa dell’acme emotivo il modello a cui si attengono tutti gli artisti dopo di lui. Nessuno, tuttavia, tranne forse Artemisia Gentileschi, riesce a eguagliare la complessità psicologica dei suoi soggetti o a riprodurre le stesse «emozioni che si addensano sui volti dei personaggi, non attraversati mai da un pensiero soltanto». Nella calma risolutezza di Giuditta, per esempio, si legge anche «un leggero disgusto» per l’uomo, forse, o per il proprio gesto di estrema violenza. Nelle due versioni quasi identiche di Gentileschi – delle quali solo quella napoletana è esposta a Palazzo Barberini – c’è persino qualcosa in più. C’è la lotta fra i corpi e il sangue non solo a fiotti, ma
Artemisia Gentileschi è colei che più di tutti interiorizza la lezione di Caravaggio, subendo come altri il fascino di un’opera 'misteriosa' e quasi leggendaria, conservata e nascosta per anni dal suo originale proprietario, Ottavio Costa, per timore che venisse riprodotta e perdesse valore. Chi ebbe modo di vederla, in rare occasioni nel corso del Seicento, ne rimase folgorato tanto che la mostra di Palazzo Barberini «è la storia non tanto della fortuna di un capolavoro, ma di una parola sussurrata all’orecchio, di una fuga di notizie, insomma di una soffiata», come scrive la curatrice Terzaghi nel saggio introduttivo del catalogo ufficiale. Il suo potere, che in parte risiede anche nell’irriproducibilità che l’ha contraddistinta, è quello «di un’icona, di un totem» che in ogni tempo e in ogni luogo mantiene ancora la sua caratterizzazione epifanica.
2 1. Michelangelo Merisi detto Caravaggio (Milano, 1571 – Porto Ercole, 1610). Giuditta decapita Oloferne, 1599 circa. Olio su tela, cm 145×195. Roma, Gallerie Nazionali di Arte Antica – Palazzo Barberini 2. Artemisia Gentileschi (Roma, 1593 – Napoli, post 1654). Giuditta decapita Oloferne, 1612 circa. Olio su tela, cm 159×126, Napoli, Museo e Real Bosco di Capodimonte
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La follia diventa arte
1. Shoplifter / Hrafnhildur Arnadottir, Hypermania, 2022. Capelli sintetici su rete su moquette, tecnica mista/ Misure ambientali Courtesy l'artista 2. Ian Davenport, Poured Staircase, 2022 Pittura su MDF/Paint On MDF Misure ambientali/Variable Dimensions Courtesy Ian Davenport Studio
Al Chiostro del Bramante di Roma “Crazy” illumina il rapporto tra instabilità e processo creativo MOSTRE
di Leonardo Pini e Silvia Stellacci
necessario che ci sia una partecipazione del pubblico. Per questo tutte le opere sono abitabili, mettono alla prova il visitatore».
Enormi pietre pesano sulla testa di figure sedute su un divano di pelle. Al centro del loggiato specchi rotti riflettono l’architettura del chiostro e il cielo di Roma. Intorno, sulle pareti, maschere in alluminio dai contorni accennati riproducono volti provenienti da un’altra dimensione.
Due sono i pilastri storici che segnano il perimetro dell’intera mostra: Ambiente Spaziale di Lucio Fontana e Topoestesia di Gianni Colombo. Entrambe le opere legano al concetto di follia quello di smarrimento. In quella di Fontana, si trasmette l’idea di una momentanea perdita di riferimenti all’interno del
Nella mostra Crazy si viene catapultati in un mondo in cui follia e processo creativo si fondono. Due componenti dell’arte contemporanea, che il curatore Danilo Eccher ha voluto approfondire con il contributo di ventuno artisti internazionali e più di undici opere sitespecific. «La scelta di questo tema è avvenuta due anni e mezzo fa, prima dell’esplosione pandemica. Mi affascinava la terra di nessuno, la zona di confine tra follia intesa come malattia e follia intesa come creatività. Dopo due anni di pandemia, però, ho deciso di concentrarmi esclusivamente sull’idea di creatività fantastica». Le opere presenti restituiscono al visitatore le diverse fasi di questo processo creativo e le emozioni che ad esso si legano. «Per convenzione chiamiamo questa una mostra, ma io voglio realizzare dei racconti e per farlo è
processo creativo. «Nel caso di Colombo c’è uno smarrimento sensoriale. La perdita di equilibrio riproduce la turbolenza psicologica che poi porta alla creatività. E questo è il concetto generale della mostra». Ad accompagnare le creazioni degli artisti c’è anche un vocabolario, che abbina alle opere le parole che le rappresentano. Dismorfofobia – alla lettera paura della forma sbagliata – è il disturbo psichiatrico di chi trova disgustosa una parte di sé. Si lega a Passi di Alfredo Pirri, il manto di specchi che apre la mostra e riflette l’immagine frantumata dei visitatori che lo calpestano. Hikikomori, invece, è il termine giapponese per indicare la patologia che porta all’alienazione e all’isolamento. Si abbina a Teenager Teenager e alle altre opere di Sun Yuan e Peng Yu, in cui i massi che pendono sui personaggi rappresentati sono metafora dei pensieri che affollano la testa dell’artista.
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Durante il percorso il visitatore si perde, si rasserena, poi di nuovo si angoscia. Ma soprattutto cresce e acquista nuove consapevolezze. «A me interessa che si esca dalle mie mostre dicendo ho fatto un’esperienza», conclude Eccher. «Per me è più importante che il visitatore si metta in gioco rispetto alla passività dello sguardo». Zeta — 41
Spettacoli
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La bomba dentro casa La complessità del personaggio e la difficoltà di adattarsi alla semplicità del suo mondo, un conflitto che costruisce il cinema CINEMA
di Lorenzo Sangermano
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Le pennellate di acrilico osservano i viandanti, i corpi estranei alla casa. Le finestre ridono e scherniscono la loro incoscienza. Un rudere al centro della valle raccoglie una realtà, un microcosmo semplice ma complicato nel suo incontro con il mondo esterno. Stefano cammina sullo scricchiolio delle pietre di fiume nel dominio della sua incertezza.
Con i suoi occhi, Pupi Avati guarda da fuori quella casa, vuole conoscerne il segreto e i traumi che nasconde. Tra carabinieri, dottori e sindaci, sa che ogni storia viaggia dentro il motore narrativo di un conflitto che cresce lungo una linea di confine. Dentro e fuori, complesso e semplice. Tra la verità e la difficoltà di accettarla.
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È nella pura espressione del conflitto, la guerra, che questo scontro trova la sua massima espressione cinematografica. In Platoon, film di Olver Stone del 1986, mentre Elias, interpretato da Willem Dafoe, distende al cielo le braccia coperte da un miscuglio di napalm e sangue, Chris Taylor (Charlie Sheen) si nasconde dietro una piccola sporgenza. Un giovane ragazzo arruolato volontario per la guerra in Vietnam, mosso dall’ingiustizia che solo i ceti poveri, cresciuti nel disagio distante dalla sua ricchezza, dovessero morire sul campo.
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Parlando con un giovane Truffaut, Hitchcock ne era sicuro. Rivelare la presenza di una bomba e il suo imminente scoppio trasforma l’attesa in suspense. Da una parte la certezza della deflagrazione, la salvezza o la morte. Dall’altra l’incertezza della reazione, i pianti, gli abbracci e la rabbia. Hitchcock non voleva altro: dimostrare che le storie, e la vita, si costruiscono in un conflitto tra esseri incompatibili che, al momento del loro incontro, pongono fine al racconto. In La casa dalle finestre che ridono, Pupi Avati non ha dubbi. È la dimora della famiglia, il non luogo che la ospita e la segue passo dopo passo, a sconvolgere la storia. Al suo interno gli intrighi sono a volte nascosti, in altre sono palesati con ferocia. Per lui la casa è l’elemento del mistero nascosto nell’ombra e che, una volta scoperto, cambia per sempre la vita dello spettatore. Uno shock, il colpo di scena, la rivelazione che nessuno si aspettava.
della povertà, del razzismo, dell’odio, del divorzio dovessero raggiungere la profondità, la fuga sarebbe veloce. Ma l’adattamento avviene. Suo figlio, affetto da una grave patologia cardiaca, si mette a correre e non si ferma. Attraversa il campo di fronte casa, sposta i fili di erba alta e scompare dietro la collina di fronte casa. La complessità di Jacob riconosce i ruoli del mondo e il conflitto, come per magia, scompare. Il minari, un’erba aromatica spontanea usata nella cucina coreana, cresce lungo i bordi del fiume dove Jacob passeggia. Il mondo sembra essersi invertito. Il fuoco è diventato acqua, radici, origini, contraddizione stessa di un figlio che teme la propria morte e desidera quella dei propri predecessori. Le paure di Jacob non trovano pace dentro di sé, ma è nel suo diventare pura relazione, dove il conflitto scompare quasi con rassegnazione, che la sua storia trova conclusione.
Nel fango i proiettili spezzano le gocce di pioggia. Chris tiene stretto a sé il fucile e avvicina le gambe al petto come un bambino impaurito. A poco a poco il tremolio scompare. Le gambe si drizzano e, in una foresta rosso fuoco consumata fino allo scheletro, Chris inizia a sparare. Il dove o a chi nemmeno importava. I suoi occhi iniziano a battere al ritmo della scomparsa di ciò che era, delle sue certezze, della droga che gli anestetizzava la paura. Per lui la lotta, il conflitto era più vicino dei vietcong. «Io ora credo, guardandomi indietro, che non abbiamo combattuto contro il nemico... abbiamo combattuto contro noi stessi. E il nemico era dentro di noi» dice scaricando tutto il caricatore.
1-2. Minari (2021), regia di Lee Isaac Chung, Plan B Entertainment 3. Platoon (1986), regia di Oliver Stone, Orion Pictures e Hedale Film Corporation 4. La casa con le finestre che sorridono (1976), regia Pupi Avati, A.M.A. film
Stefano non capisce. Nell’indecisione della sua complessità, la facilità di un mondo che oscilla in apparenza tra buoni e cattivi, bello e brutto, lo mette in confusione. Pensava sarebbe stato facile decidere guardando quelle ante di legno spezzato e i colori sbiaditi che dipingevano la sua derisione. Come per Jacob, protagonista del film Minari di Lee Isaac Chung, la sua storia non segue vicende articolate, sviluppi mozzafiato o colpi di scena. Ma una semplice presa di coscienza, la lotta per l’adeguamento tra il dentro e il fuori. Con la sua famiglia, Jacob vive in una casa con le ruote. Se il suo raccolto di prodotti coreani fosse scarso, se le fiamme
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Spettacoli Nonostante i cittadini siano felici di non avere più svastiche intorno alle scuole e ai parchi pubblici, però, «l’amministrazione e il sindaco mi denunciano». Negli anni le denunce collezionate sono diventate parecchie. «Sindaci a non finire, assessori, consiglieri regionali, ma anche parlamentari italiani. Cercano di colpirmi o intimorirmi, ma non mi fanno più paura. Tutte le loro accuse sono cadute». Allora intervengono le minacce. «Sono arrivate a casa mia e dei miei genitori, ma io le considero un complimento. Se una persona che disegna formaggi fa così paura a organizzazioni tanto potenti vuol dire che sta lavorando bene», dice l’artista. «Anni fa ho perso trenta murales in una sola notte, se avessero voluto farmi qualcosa avrebbero potuto. E il loro intento è farmelo capire».
Cibo contro l’odio A Verona le sue opere coprono svastiche e messaggi violenti sugli edifici pubblici. STREET
di Enzo Panizio
Pizza, gnocchi, croste di formaggio. Per Cibo, nome d’arte di Pier Paolo Spinazzè, questi sono gli strumenti più efficaci per combattere i messaggi razzisti e violenti che imbrattano i muri degli edifici pubblici nel veronese. «Ero stanco di vedere celtiche e svastiche sui muri della mia città, il problema andava risolto. Il comune non faceva nulla e allora mi sono mosso io». Dal 2008, Cibo continua a seppellire le simbologie estremiste sotto quintalate di zucche, salsicce o qualsiasi cosa faccia parte dell’immaginario gastronomico nostrano. L’idea, dice lo street artist, è nata dalla voglia «di coprire le scritte brutte e cattive con i disegni buoni», in tutti i sensi. Non si tratta solo di degrado urbano, ma di una vera battaglia. La zona è segnata dalla presenza di radicate organizzazioni di estrema destra, che sfruttano la retorica fascista e nazista per marcare il territorio. «Hanno legami con la politica e lo sport. Hanno fondi, soldi praticamente illimitati, hanno pub, hanno un’articolata struttura che fa di loro un’organizzazione estremamente pericolosa». 44— Zeta
La freschezza e la bontà della trovata, come accade per i veri ingredienti in cucina, sono state apprezzate fin da subito. «Con gli italiani e il cibo sfondi una porta aperta. Io non vado a rappresentare una qualche ideologia personale, ma l’amore di un intero popolo».
Nemmeno questo è sufficiente a far desistere Pier Paolo. Per lui l’importante è non smettere di ridere e continuare a usare le sue bombolette, con impegno quotidiano. «Così gli togli la forza. Loro sono convinti di essere potenti e temibili, ma se tu gli fai vedere che non hai paura, che ti mostri mentre loro si nascondono, rimangono sgomenti. Sono abituati con la controparte, che sono gli estremisti di sinistra, che pure vanno nascondendosi. Io ci metto la faccia e in città la gente ride di loro».
Come a dire che in Italia il piacere per la tavola è un fatto culturale molto più importante di vecchie ideologie votate all’intolleranza. Oggi la sua pagina Facebook conta più di duecentomila iscritti, mentre su Instagram sono oltre trecentocinquantamila persone a seguire le avventure di Cibo. Lui provvede a mostrare i nuovi disegni, interagire con i followers, rispondere alle provocazioni con incrollabile ottimismo.
Leggerezza e ironia spiazzante, dunque, ma non senza consapevolezza. «Io sorrido, la faccio facile, perché così fa un professionista. Ma è complicato, dietro c’è tutto un raccogliere informazioni, pianificare i lavori, stare attenti a dove si va». Come detto, una vera battaglia senza esclusione di colpi. A fare la differenza, semmai, è l’artiglieria. «È una forma di conflitto, però la mia arma non è la violenza, sono i colori».
Novecento, il secolo dimenticato Leonardo Crudi rielabora l’estetica del manifesto d’avanguardia portandolo nelle strade di Roma STREET
di Alissa Balocco
Per terra, barattoli d’ogni dimensione sono circondati da macchie di colore a tempera e acrilici. Su una scrivania, matite e penne si mescolano a bottigliette d’acqua, coca cola e carte da merendina. Due tuniche sono appese al muro sopra un divano di pelle marrone. «Le ho disegnate ispirandomi agli abiti del teatro d’avanguardia di Barbara Stepanova». Pittore autodidatta, Leonardo Crudi è cresciuto negli ambienti dell’underground romano e nel 2018 ha trasformato un seminterrato in uno studio d’artista, Spazio 900. A chiunque passeggi per Roma sarà capitato di imbattersi nei suoi manifesti: volti di registi, poeti, parole e gesti attraversati da linee taglienti e forme dinamiche. «Ogni volta che dedico un manifesto a qualcuno o a qualcosa cerco di fare un racconto per immagini e restituire, tramite un volto, una mossa, o un gesto, quel che ho visto e ho letto». Tutti pezzi unici, le opere di Crudi traggono ispirazione dall’avanguardia futurista russa di primo Novecento. «L’avvicinamento è prima politico che artistico.
La mia formazione politica è avvenuta tramite l'immagine. Quando ho scoperto il cinema sperimentale sovietico sono rimasto fulminato». Così comincia a studiare e a mescolare, nelle sue opere, la sua passione per l’estetica sovietica, Renato Mambor, il dadaismo e il cinema d'avanguardia. Le sue figure sono ritratte in posizioni ispirate alla biomeccanica, il metodo teatrale creato dal regista russo Vsevolod Mejerchold per sviluppare l’espressività corporea dell’attore. «La natura del manifesto è l’affissione: il rapporto non con chi sceglie di venire a vedere la tua mostra ma con chi attraversa la città». Crudi è passato dalla pittura ai manifesti quando, nel 2017, ha inaugurato un’esposizione sul centenario della Rivoluzione d’Ottobre. «Volevo portare l’attenzione sui personaggi artistici di un periodo per ovvie ragioni dimenticato». A riscuotere più successo di pubblico è stata però la serie dedicata al cinema. «Sono molto contento perché ha avuto una grandissima risposta, e ho potuto conoscere e parlare con registi che avevo visto e apprezzato». Tra i progetti in corso, dei manifesti dedicati ai musicisti del gruppo d’avanguardia romano Nuova Consonanza. «La bellezza del mio lavoro è la concatenazione di eventi fortuiti che ti portano ad avere un interesse da approfondire. Io condivido le mie scoperte, ma ricevo qualcosa in cambio». Così il lavoro artistico diventa anche atto politico. La tecnica di ogni manifesto varia a seconda del luogo a cui è destinato. «Su
quelli che affiggo in strada lavoro con smalti e matite». Per i ritratti, invece, la penna restituisce «quel sapore analogico tipico della pellicola, oltre a permettere di imitare il fotodinamismo e le sovrapposizioni di quel tipo di cinema». «Spero di non smettere mai il lavoro che faccio per strada, perché è l’ossatura del mio discorso». Tra una commissione e l’altra, in futuro desidera un po’ di tempo libero. Sul divano del suo studio dalle forme futuriste, risponde continuamente ad email e chiamate, mentre la sua figura scompare nel caos di manifesti, statuine di Lenin e falci e martelli. Zeta — 45
Sport
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Il fútbol all'ombra della Giralda Le squadre della capitale andalusa viaggiano ad altezze mai viste prima. Il tour calcistico della città insieme a due ex CALCIO
di Antonio Cefalù
Siviglia è pigra. Sonnecchia quando c’è da stare svegli, si sveglia quando gli altri dormono. Bella com’è, può permetterselo, e poi fa caldo, non le va. Ma c’è sempre un’eccezione, e per questa città è il calcio. Per quello, si ferma anche la siesta: «Qui il fútbol si vive in modo diverso da tutti gli altri posti. È indescrivibile quello che genera, se non lo vivi non puoi capirlo», spiega Alejandro Arribas, ex giocatore del Siviglia. La prima squadra della città guardando ai titoli, la seconda stando al parere dei cugini del Betis. La disputa non è mai stata così accesa quanto quest’anno. Sebbene i rojiblancos del Siviglia vengano da grandi conquiste in campo europeo, è la prima volta in un’eternità che entrambe le squadre della città si sono trovate in lotta per il titolo. Oggi il Real Madrid ha allungato il passo — nove punti in più proprio del Siviglia, secondo — ma la capitale andalusa 46— Zeta
sogna di diventare la città spagnola più rappresentata nella prossima Champions. Un evento mai successo prima per un centro che aspira, silenzioso come un pomeriggio all’ombra della
Giralda, a diventare la nuova capitale del calcio spagnolo, storicamente divorato da Madrid e Barcellona.«È bello vederle così in alto, ognuna con il proprio stile», dice Zou Feddal, nel Betis fra il 2017 e il 2020. Lui di derbi ne ha vinti e ne ha persi («lì è come ingoiare veleno»), conosce una rivalità che inizia con la nascita stessa dei due club, quando due dirigenti del Siviglia, in disaccordo con le vedute dei loro pari sulla gestione del club, se ne andarono sbattendo la porta e, per ripicca, fondarono proprio il Betis. «Si sente nell’aria, vibra nelle strade». A volte si eccede, come nell’ultimo incontro di Copa del Rey, interrotto perché un tifoso ha tirato un bastone a Joan Jordán del Siviglia. Il Betis dell’ingegnere
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La grande sorpresa di quest’anno è la crescita del Betis, guidata da Manuel Pellegrini. Mentre lo storico motto della squadra era il fatalista «Viva er Beti manque pierda» («Viva il Betis anche se perde»), ora è «El ingeniero tiene un plan» il coro che spopola nel quartiere residenziale di Heliópolis, placido e silenzioso finché non arriva il giorno della partita. Pellegrini ha preso la squadra nel
2019 dopo un quindicesimo posto, l’ha riportata in Europa League e ora gioca con vista su Champions e Copa del Rey. Dopo 89 partite, il cileno è l’allenatore con la miglior percentuale di vittorie della storia del club (52%) come lo è ancora di Real Madrid, Villarreal e Malaga.
un progetto con un’identità e ha reso il Siviglia una squadra solida, difficile da battere. Non è un caso se da quando c’è lui le cose vanno a gonfie vele». Quasi amici Se allo stadio non c’è posto, il consiglio è di dirigersi a nord. Un pescaito frito e una Cruzcampo aiutano a sopportare l’afa nel labirinto delle stradine che si dipanano dalla Giralda. Il cammino è lungo: si attraversano le Colonne d’Ercole, si supera la basilica de la Macarena. È già la Siviglia più popolare, dove il pesce ha fatto spazio alle lumache di terra in brodo. Bisogna tirare ancora più a nord per arrivare alla nostra meta: il quartiere San Diego, dove sorge la Peña Cultural Sevilla-Betis.
«I due pregi di questo Betis sono l’unione e la calma — aggiunge Feddal. L’unione c’è sempre stata, ma Pellegrini ha saputo portare la tranquillità che mancava e adesso sta volando. Sai, questa è una città particolare: se vinci due partite va tutto alla grande, ma se ne perdi una è un caos. Ora, per fortuna, i risultati stanno arrivando». E poi c’è il gioco, arabesco come i decori dell’Alcázar, spregiudicato perché modellato attorno ai suoi talenti offensivi. Come Nabil Fekir: «Scrivilo, scrivilo grande: è il miglior giocatore della Liga, è ora che gli venga riconosciuto». O Sergio Canales, cresciuto nel Real Madrid e risorto dopo tre rotture del crociato. È un 10 «decisivo, porta tranquillità alla squadra». Pellegrini ha creato il contesto perfetto perché i suoi artisti possano esprimersi, e tutto attorno la squadra fiorisce. È vero, si prende i suoi rischi dietro, ma sono tutti ripagati con il secondo attacco della Liga, dietro solo al Real di Vinicius e Benzema. Il Siviglia del demiurgo È una bella camminata quella che porta da Heliópolis a Nervión, il barrio commerciale dove sorge lo stadio del Siviglia. Basta risalire il Guadalquivir verso nord ed è lo stesso fiume a dirci che ci stiamo avvicinando al centro: le sue sponde dapprima ospitano la Siviglia industriale, fino a trasformarsi in un cammino lungo l’anima più araba, calda e accogliente della città. In lontananza sbuca la Torre dell’Oro, costruita dagli Almohadi per vegliare sulla città, mentre a destra attende la maestosa Plaza de España. Altri 30 minuti a nord-ovest ed ecco il Sánchez Pizjuán, che all’austero Villamarín oppone la sua sfarzosa facciata coperta di mosaici. Un monumento, più che uno stadio. Se il Betis è modellato ad immagine e somiglianza dell’ingegnere, il Siviglia, invece, è creatura del suo demiurgo Monchi, principale artefice delle recenti conquiste europee grazie al suo mercato aggressivo, studiato al dettaglio eppure creativo. «È una delle figure più importanti della storia recente del club, la più vincente. Si nota che vive il sevilismo come nessun altro. È un leader e quello
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che ha messo in piedi è un progetto vincente», nota Arribas. Tornato dalla fallimentare esperienza alla Roma, il suo stile di mercato si è evoluto per accompagnare un Siviglia con ambizioni sempre maggiori. Allora ecco che oltre ai giovani diamanti grezzi (Koundé, Diego Carlos e Mir sono degli esempi) arrivano anche giocatori già affermati, di status internazionale, come Corona, Rakitic, Papu Gómez o Martial. Si dà il caso, poi, che il Siviglia abbia trovato il suo contraltare, che riesce a mettere ordine anche nel viavai di trasferimenti di Nervión. È Julen Lopetegui che, dopo le esperienze burrascose sulle panchine di Spagna e Real Madrid, «sta sapendo consolidare il club nell’élite. Ha creato
Metà delle pareti sono dipinte con strisce biancorosse, l’altra di biancoverde. Questo perché è il primo club misto, con un po’ di tifosi del Siviglia e un po’ di tifosi del Betis. «Le partite le vediamo insieme e ognuno canta i propri gol. Chi manca di rispetto, fuori». Nessuno meglio di loro incarna questo sogno collettivo che sta vivendo la città, che fra Heliópolis e Nervión vola ad altezze mai viste prima. 1. Fekir e Jordán a contrasto in un derbi di Copa del Rey. Foto: Joaquin Corchero. 2. Il Sánchez Pizjuán, la casa del Siviglia dal 1957. I mosaici della facciata sono stati inseriti nel 1982 per il Mondiale. 3. La Giralda è una torre campanaria che insieme alla Cattedrale, l’Alcázar e l’Archivio delle Indie costituisce il cuore del centro della città, fortemente influenzato dalla cultura islamica. Foto: Antonio Cefalù. 4. La Plaza de España, attraversata dalle acque del fiume Guadalquivir. Anticamente il fiume portava il suo nome latino, «Betis», da lì il nome del club. Foto: Francisco Colinet.
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Sport In Ucraina, dopo la tregua, ogni curva espone striscioni a favore del il governo filo-occidentale al coro “Putin Huïlo” [Putin stronzo] poi adottato dalla gente comune. I nemici non sono più i gruppi avversari, ma i Russi in generale. È la prima dimostrazione di unità nel mondo ultras, che nel 2014 inizia a combattere nel Donbass. Alla base c’è la cosiddetta «mentalità ultras» che si riconosce in alcune parole d’ordine: il senso di appartenenza e la lealtà, requisiti richiesti anche a un battaglione. L’organizzazione gerarchica piramidale e l’uso della violenza accomunano questi due mondi.
Dalla curva in trincea Alcuni gruppi ultras ucraini si sono uniti per difendere il loro Paese dando vita a milizie indipendenti STORIE
di Niccolò Ferrero
«Canteremo fino alla morte, innalzando i nostri color» si cantava nelle curve ucraine fino al 2014. Da allora è diventato un canto militare. Oggi gli ultras sono scesi dai gradoni e hanno imbracciato i fucili per difendere il proprio Paese. Il 13 novembre 2013, alla vigilia del conflitto russo-ucraino, a Kiev si manifesta il movimento “EuroMaidan”, formato da migliaia di persone che protestano contro la decisione del governo di sospendere le trattative con l’Unione Europea. Le bandiere dell’Unione sventolano insieme a quelle rosso-nere del movimento neonazista Pravy Sektor, Settore Destro. Istanze liberali e rivendicazioni nazionalistiche si sviluppano all’interno del movimento così come negli stadi. A febbraio 2014 in Piazza Maidan centinaia di ultras si scontrano con i reparti anti 48 — Zeta
sommossa della polizia. I protagonisti sono i White Boys Club e i Rodychi, gruppi della Dynamo Kiev che non hanno mai nascosto le proprie idee nazionalistiche, anche sotto l’URSS. Dopo gli scontri trentotto tifoserie siglano una tregua per concentrarsi sulla difesa del popolo ucraino contro il governo filo-russo. Nella storia il caso più noto è quello del capo ultrà dello Stella Rossa Belgrado, detto “la tigre di Arkan”, protagonista di atroci massacri durante la guerra nei Balcani. Dopo la sua morte fece discutere lo striscione degli Irriducibili della Lazio: «Onore alla tigre Arkan», al quale risposero gli “Ultras Granata” del Torino con “Onore a Gatto Silvestro”.
Durante la guerra nel Dombass le forze politiche iniziano a rivolgersi alle milizie composte da tifosi. ll leader del partito di estrema destra Svoboda saluta «gli eroici sostenitori di Dnipro Cherkasy, Karpaty Lviv e Vorskla Poltava», gli fa eco il presidente filo-europeo Poroshenko, elogiandoli per l’impegno «al fianco del popolo ucraino». E se gli ultras ci tengono a dichiararsi indipendenti da qualsiasi formazione politica, questo non impedisce loro di professarsi ultranazionalisti o neonazisti. Eccezione all’orientamento politico di estrema destra sono gli “Hoods Hoods Clan” dell’Arsenal Kiev, che formano una milizia antifascista che anche oggi sta combattendo nelle strade di Kiev. Il governo di Zelensky non ha mai dimostrato vicinanza ai gruppi o agli estremisti, come invece sostiene la propaganda russa: lo stesso Putin ha detto che l’obiettivo dell’invasione è «denazificare» il Paese. Alle ultime elezioni la coalizione c di estrema destra ha preso il 2,15 per cento delle preferenze e non ha superato la soglia di sbarramento. Oggi nessun politico di estrema destra siede in parlamento. Con l’invasione russa a febbraio 2022 gli ultras si uniscono al reggimento Azov, finanziato dal presidente del Dnipro, Igor Kolomoisky. Una milizia, composta da circa 10mila unità fondata da Andriy Biletsky soprannominato “Führer bianco”, che secondo un rapporto OCSE è colpevole di crimini di guerra, dall’uccisione di prigionieri a torture. Si parla di militari o civili istruiti a combattere, ben equipaggiati, considerati essenziali dall’esercito ucraino per contenere i separatisti. Yuri Huymenko, militante vicino al reggimento, ha dichiarato che «se il governo ucraino firma le trattative con la Russia, quel governo cesserà di esistere». Possiamo solo sperare che l’Ucraina ritorni a una vita normale e che i tifosi tornino a cantare solo negli stadi.
delle misure provvisorie per impedire alla Uefa di prendere provvedimenti verso la Super Lega». La Corte, dunque, potrebbe dare un’interpretazione «molto negativa per la Uefa, ma può anche pronunciare una sentenza a metà», continua. Nel primo caso, con conseguenze pesanti per l’organo regolatore del calcio europeo: «si aprirebbe la possibilità di creare competizioni parallele, il che metterebbe fortemente a rischio l’unità dell’attività perché significherebbe sottoporle ad un regime di competizione che ora non subiscono, essendo monopolisti. Potrebbe anche incorrere in sanzioni, ma in un secondo momento ».
La nuova Super Lega gioca in tribunale Il «campionato separatista» aspetta una sentenza della Corte di Giustizia dell’Ue prima di minacciare la Uefa CALCIO
di Antonio Cefalù
Ad inizio marzo, il palco del Business of Football Summit del Financial Times si è trasformato nel ring mediatico del calcio europeo. Prima vi è salito Javier Tebas, CEO de LaLiga, che ha scaldato l’ambiente sostenendo che i presidenti dei club leader del progetto Super Lega — Juventus, Real Madrid e Barcellona — «mentono più di Putin». Allo spagnolo ha dato il cambio il presidente della Uefa, Aleksander Ceferin, che ha denunciato come queste vivano «in un mondo parallelo», tanto che «prima hanno lanciato la loro idea insensata nel mezzo di una pandemia, e adesso vorrebbero proporne un’altra durante una guerra». Infine è arrivato Andrea Agnelli, che in questa fase di revival del progetto ha raccolto lo scettro di frontman da un Florentino Pérez uscito malconcio dal fallimento di un anno fa. Il presidente della Juventus non ha solo confermato che la Super Lega sia pronta a tornare, riformata e più “aperta”, ma ha anche detto quando tornerà: ovvero nel momento in cui «la Corte di Giustizia dell’Unione Europea
stabilirà se l’attuale governance è adatta, secondo i trattati europei». Ma a cosa si riferiva Agnelli? «Parla di una sentenza richiesta con un rinvio pregiudiziale da un tribunale spagnolo. Questo, chiamato a decidere se la condotta della Uefa costituisca una violazione del diritto dell’Unione, ha chiesto l’opinione nel merito della Corte di Giustizia dell'Ue. La Corte darà un’interpretazione unica e definitiva sulla questione, e sulla base di essa il tribunale spagnolo dovrà dare una risposta finale», spiega Francesco Cherubini, docente di Diritto dell’Unione Europea alla Luiss.
I precedenti hanno un forte peso nella cultura del diritto europeo, e l’unico a disposizione in ambito sportivo non è benaugurante per la Uefa. È quello della Federazione Internazionale di Pattinaggio, sanzionata dalla Corte proprio per una violazione delle regole sulla concorrenza. «Anche se quello era un caso un po’ diverso. Essendo l’unico organo a loro disposizione, agli atleti era del tutto preclusa l’attività, mentre nel calcio le federazioni, e quindi le opportunità di giocare fuori dall’ombrello della Uefa, sono moltissime».
Alla Corte è stato chiesto se la Uefa stia violando le regole europee sulla concorrenza, avendo di fatto impedito alla Super Lega l’accesso al mercato delle competizioni calcistiche. O, nelle parole di Agnelli, se si comporti come «un operatore di mercato monopolistico», atteggiamento non ammesso dal diritto europeo. «La domanda può avere varie risposte», commenta Cherubini. «L’intervento della Uefa potrebbe essere riconosciuto come necessario e proporzionato. Non solo, ma l’articolo 101, quello in questione, può prevedere la possibilità di una vera e propria eccezione. La partita è ancora aperta, però i precedenti sembrano orientarsi verso una violazione delle norme. Lo suggerisce anche il fatto che il giudice spagnolo abbia adottato
Quel che sappiamo, per il momento, è che la Corte europea abbia fra le mani la possibilità di rivoluzionare il mondo del calcio. Come già accaduto con la sentenza Bosman, che nel 1995 rese i giocatori proprietari del loro cartellino, liberandoli dal controllo dei club dopo la scadenza del contratto. In quel caso ebbe il merito di migliorare le condizioni di lavoro dei calciatori, ma siamo sicuri che anche questa volta il calcio ne gioverebbe? Zeta — 49
Cibo
Cena a Mosca prima della tempesta Eleonora Cozzella racconta la cena più strana della sua vita in uno dei 50 migliori ristoranti del mondo il giorno dell’invasione STORIE
di Caterina Di Terlizzi
«Il personale che lavora con noi in sala e in cucina è per un terzo ucraino. Fino a ieri erano nostri collaboratori, la nostra famiglia, da oggi, invece, dovremmo considerarli nemici» confessano, avviliti, i ristoratori russi Ivan e Sergey Berezutskiy, gemelli di 37 anni e proprietari del ristorante stellato Twins Garden a Eleonora Cozzella, giornalista enogastronomica per Repubblica Sapori. Si era recata a Mosca perché la capitale
russa avrebbe ospitato la premiazione dei World 50 best restaurants a luglio. «Sono partita con una tempistica tremenda, come potevo saperlo quando tanti analisti hanno sbagliato?» racconta a Zeta Eleonora Cozzella, scuotendo i capelli rossi. E giusto il 22 febbraio, a 48 ore dall’ordine d’attacco del presidente Putin contro l’Ucraina, è volata per il viaggio enogastronomico, alla scoperta dei sapori tradizionali del paese oggi sotto attacco. Il 23 febbraio, vigilia dell’invasione, accompagnata da Ivan e Sergey Berezutskiy, proprietari del ristorante stellato, visita il Danilovsky, il più bel mercato di Mosca. «Molto antico, rinnovato, posto magico, il futuro convive il vecchio, senza fastidi» ricorda Cozzella. All’interno della struttura, con una architettura che ricorda il tendone di un circo, si ritrovano i giovani moscoviti, con le loro nonne, golose dei formaggi dei pastori. «Botteghe di caffè e poke Hawaiano, banchi di frutta esotica, pescherie con assortimenti di ostriche francesi, storioni che nuotano lucenti in enormi vasche e poi i banchi con aglio marinato, cetrioli sott’aceto dei contadini, frutta secca, bottiglie di olio di girasole preparate in casa, non ce ne è mai una uguale all’altra». Gli occhi verdi di Eleonora brillano nell’elencare le delizie, questo è
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il suo mondo, ricerca enogastronomica, educazione al buon gusto, sapori indimenticabili. Poco prima di cena, Eleonora Cozzella si ferma per l’aperitivo in un ristorante ucraino, dove assaggerà vareniki, piatto classico sulle mense a Kiev, piccoli ravioli triangolari, con vari ripieni, carne, pesce, patate e formaggi, mantecati con burro fuso e panna acida. «Pensavo che non ci sarebbe stata gente vista la crisi politica, invece era pienissimo e ho compreso dunque che nessuno sapeva della guerra» ricorda amareggiata Cozzella. Anche quando arriva finalmente al Twins Garden, ristorante che ha preso da poco la seconda stella Michelin, tutto sembra normale. I gemelli Ivan e Sergey Berezutskiy cercano i loro ingredienti in ogni angolo della federazione russa, come testimonia l’insegna, TWIN per i due gemelli, GARDEN per l’orto personale dove coltivano gli ortaggi che finiscono sul menu. Ricette antiche, in chiave contemporanea, ricerca di alimenti con attenzione alla storia e geografia dei prodotti di ogni città russa, fino alla remota Vladivostok, in Siberia.
«Nessuno, si era reso veramente conto della situazione, la comunicazione era inesistente» Il giorno dopo, 24 febbraio, la Russia Invade l’Ucraina. Eleonora Cozzella è ancora a Mosca, visita la Piazza Rossa, con il Cremlino e il Mausoleo di Lenin, e d’incanto, mentre passeggia «le strade si svuotano, occupate da cingolati e blindati mezzi militari. In mezz’ora sono in un’altra città, un’altra atmosfera», dalla pace alla guerra, come nel capolavoro di Tolstoj. Verso sera, la giornalista torna al ristorante Twins Garden, «Stracolmo ancora di clienti russi che anche in quel caso non si erano resi conto di nulla. Fuori, in strada, arrivavano i primi manifestanti che urlavano lo slogan “No alla guerra, No alla guerra”. Rimarrà la cena più strana della mia vita». «Nessuno aveva una idea, si guardavano tra loro stupiti, informazione inesistente. La Piazza Rossa, che avevo attraversato qualche ora prima, fra bambini sulle giostre e passanti che lanciavano monetine nella fontana esprimendo un desiderio, come da noi a piazza di Trevi, venne chiusa, camionette della polizia ovunque nella città, ora
gelida. I due fratelli del Twins Garden, che ancora festeggiavano per avere raggiunto il posto numero 1 della classifica Where to Eat Russia, catapultati nella costernazione. La fine di un sogno». Il 25 febbraio Eleonora riesce, dopo una disperata ricerca, a trovare un volo «Non ho più idea di che cosa succeda al ristorante. Forse è aperto, per i russi, ma non ci sono più clienti internazionali. Addio anche alla lista dei migliori 50 ristoranti del mondo, la guida Michelin
ha deciso di non consigliare più ristoranti russi come sanzione» Da vera reporter Eleonora Cozzella, nella sua ultima notte a Mosca, fra un piatto e l’altro, non rinuncia a lasciare il ristorante, per capire cosa anima i coraggiosi manifestanti per la pace. Quella sera a cena, il menu Degustazione con i piatti tipici dagli sconfinati territori oltre Mosca, ormai tutti in armi, perché la Storia era diventata il più terribile degli Chef.
La Bibbia del buon mangiare The World's Fifty Best Restaurants è la lista dei 50 ristoranti migliori del mondo. Stilata ogni anno a partire dal 2002, si basa sul giudizio espresso da chef, ristoratori, cultori e critici culinari internazionali. I migliori ristoranti sono spesso precursori della gastronomia molecolare e la maggior parte degli chef serve piatti di alta cucina. La premiazione dell'edizione del 2022 doveva avere come sede Mosca ma, dopo l'invasione dell'Ucraina, dal comitato organizzativo hanno fatto sapere di aver spostato a Londra la manifestazione.
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La Guida di Zeta a cura di Claudia Bisio
I concerti che non puoi perdere quest'estate Da Vasco Rossi ai Maneskin, da Cesare Cremonini a Salmo fino ad arrivare a Stromae e Dua Lipa. Il più atteso di tutti però è Blanco, reduce dalla vittoria in coppia con Mahmood della 72esima edizione del Festival di Sanremo.
Con un genere Pop / Rapcore Blanco ha iniziato la sua carriera pubblicando “Notti in Bianco”, “Mi fai impazzire” e “La canzone nostra” tutti singoli arrivati al vertice della Top Singoli italiana. Tanti anche i feat con artisti già affermati nel panorama Rap. Dopo aver pubblicato, alla fine del 2021, il disco d’esordio “Blu celeste” vola al primo posto della classifica degli album italiana, gli viene certificato il disco d’oro e successivamente di platino dalla FIMI. Pochi mesi dopo decide di partecipare al Festival di Sanremo, in coppia con Mahmood. “Brividi” la canzona scelta, non solo ha vinto la competizione, ma è stato il primo brano con il maggior numero di riproduzioni in streaming raccolta in 24 ore.
Date Blanco 24/06 Genova SOLD OUT 27/07 Roma SOLD OUT 16/09 Milano SOLD OUT Ultimo 12/06 Firenze 17/07 Roma SOLD OUT 24/07 Milano SOLD OUT 11/07 Catania Maneskin 23/06 Lignano Sabbiadoro 09/07 Roma SOLD OUT Jovanotti 02/07 Lignano Sabbiadoro 19/08 Vasto 02/09 Viareggio SOLD OUT Ultimo, pseudonimo di Niccolò Moriconi, è un giovane cantautore italiano. Il suo ritorno negli stadi italiani, dopo aver più volte criticato negli ultimi due anni la politica dei concerti bloccati, è molto atteso e quasi sold-out. Tra i suoi singoli più famosi “Pianeti”, “Sogni appesi”, “Il ballo delle incertezze” e “Ti dedico il silenzio”. Porta negli stadi il suo quarto album “Solo”.
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Sexy, cattivi e matti. I Maneskin sono partiti dalle strade di Roma a X-Factor, arrivando primi alla 71esima edizione del Festival di Saremo per poi vincere anche l’Eurovision. Un’esplosione di energia e un sound rock che l’Italia aveva quasi dimenticato è ciò che portano sul palco. Amati da tutte le generazioni, è proprio cosí che hanno conquistato tutto il mondo in pochissimo tempo. Si sono esibiti ovunque: Tonight Show di Jimmy Fallon, hanno aperto il concerto dei Rolling Stones, erano ospiti all’Ellen DeGeneres Show. Con soli due album usciti. Attesissimo il mega-concerto all’aperto al Circo Massimo.
I Rolling Stones tornano in territorio nazionale con un’unica tappa italiana il 21 Giugno a San Siro con il “Stones Sixty Tour”. Con i loro cavallo di battaglia “I Wanna Be Your Man” scritto da Lennon-McCartney e più di 250 milioni di copie vendute nell’arco della loro carriera, tornano ad incantare e emozionare la platea. È con Mick Jagger come frontman che si festeggia il primo giorno d’estate, inaugurando una stagione all’insegna di eventi musicali.
Lorenzo Jovanotti ha iniziato la sua carriera alla fine degli anni Ottanta e nel 2021 ancora è in vetta delle classifiche italiane. I suoi più famosi successi “Walking”, il singolo che ha lanciato la sua carriera, “Penso positivo”, “Le tasche piene di sassi” e “Ti porto via con me”. Jovanotti torna sul palco con il beach party più famoso d’Italia, la festa musicale che coinvolge i giovani dall’estate del 2019 ritorna dopo due anni di pandemia con ben 20 tappe in 12 città italiane.
Un altro evento musicale imperdibile prima di quest’estate è l’Eurovision. Grazie alla vittoria dei Maneskin dell’Eurovision 2020 ospitato dai Paesi Bassi, quest’anno sarà l’Italia ad accoglierlo. Si terrà a Torino martedì 10 maggio e finirà sabato 14 maggio. L’Italia verrà rappresentata da Blanco e Mahmood mentre San Marino da Achille Lauro. A presentare l’evento saranno Laura Pausini, Mika e Alessandro Cattelan. Da loro ci si aspetta un mix di energia e simpatia, sperando in una seconda vittoria da parte dell’Italia. I biglietti per il pubblico però, non sono ancora stati messi in vendita. Zeta — 53
Parole e immagini di Ludovica Esposito
FILM
LIBRO
Dove sei, mondo bello
West Side Story
Sally Rooney
Steven Spielberg
Einaudi Supercoralli 312 pagine 20 euro
2021 20th Century Studios Disney Studios Motion Pictures
Dove sei, mondo bello (Einaudi, 2022) è il nuovo lavoro dell'irlandese Sally Rooney, terzo romanzo dopo Parlarne tra amici (Einaudi, 2018) e Persone normali (Einaudi, 2019). Questo libro parla «delle persone», come fa dire la stessa autrice a una sua protagonista. Persone che si perdono, che si trovano, che vivono le loro vite complicate. In particolare, parla di due amiche: Eileen, che è stata brillante all’università e ora lavora in una rivista letteraria, e Alice, che faceva la cameriera e ora è diventata un’autrice famosa. Il lettore è spettatore delle loro vite (e delle vite dei personaggi che si muovono intorno a loro), come lo è anche la scrittrice. Rooney descrive con minuziosi dettagli le azioni dei personaggi, ma allo stesso tempo c’è una patina di vaghezza sulla narrazione: il termine “sembra” è molto ripetuto e costringe il lettore a osservare la scena da fuori. La trama non presenta sconvolgenti misteri da risolvere, ma le ripetute azioni quotidiane permettono di identificarsi 54 — Zeta
almeno un po’ in uno dei tanti personaggi che compaiono. Forse ce n’è uno in cui si identifica anche l’autrice: Alice, la scrittrice diventata famosa a ventiquattro anni che va a fare un firmacopie a Roma… come la stessa Sally Rooney. Ai capitoli di narrazione, si alternano capitoli epistolari, scritti come email che le due donne si scambiano per tenersi informate. Sono email lunghe che parlano della loro vita e della loro visione, spesso disillusa, del mondo; sono la parte più introspettiva del romanzo, in cui viene lasciato spazio ai flussi di coscienza. Eppure, nonostante la maggiore vicinanza alla psiche delle protagoniste, si tratta pur sempre di mail, prese dalla casella di posta, non viene aggiunto altro, si mantiene sempre un netto distacco tra il lettore e i personaggi. In questi capitoli l’autrice riflette, tramite le sue protagoniste, su tanti argomenti, dal capitalismo all’Età del bronzo, e sorge il dubbio che, forse, tutto il resto della narrazione sia solo cornice, un pretesto che Sally Rooney cercava per scrivere di questo.
Se è vero che era giunto il momento di rifare West Side Story per dare a una nuova generazione portoricana la possibilità di vedersi sul grande schermo, è anche vero che non c’è più bisogno di storie in cui due ragazzi si giurano eterno amore dopo un ballo. Ma forse è il motivo per cui questo film ha ottenuto 7 candidature agli Oscar (e 1 vittoria), contro le 11 (e 10 vittorie) dell’originale sessant’anni fa. Non è colpa degli attori protagonisti che cantano e recitano con passione, ma la parte romantica impallidisce a confronto con la New York degli anni ’50, alle dinamiche di chi la abitava e alla povertà che Spielberg fotografa. I punti di forza della regia di Spielberg sono scegliere attori portoricani per interpretare gli Sharks e l’aver ingaggiato consulenti storici per ricreare con precisione il clima di quel periodo, non solo nelle insegne dei negozi, ma anche nei modi di fare, nello slang, nelle atmosfere. In quanto musical, West Side Story ha canzoni che interrompono e portano avanti la narrazione, ma ha anche balli. Una danza e
una mischia sono entrambe coreografate come un ballo e si riescono a distinguere solo per il luogo in cui avvengono. Il conflitto fulcro della narrazione è quello tra le due bande, i Jets e gli Sharks (visualizzato anche nella palette di colori usata per i vestiti: toni scuri di azzurri e marroni per i primi e caldi rossi e gialli per i secondi), ma non è l’unico. Anche all’interno di uno stesso gruppo ci sono conflitti che spingono avanti la narrazione e si riflettono su quello principale, in particolare quello tra gli uomini, desiderosi di tornare a Porto Rico, e le donne, sottovalutate e messe da parte che vogliono restare in America. Interessante come, a differenza del Romeo e Giulietta di Shakespeare (di cui questo film è un retelling), qui il conflitto non si risolva, la città continui a cambiare, modernizzandosi, e le due bande siano sempre costrette a convivere, con i loro fallimenti e dolori e pregiudizi, odiandosi, nello stesso territorio che in realtà non appartiene davvero più a nessuna delle due.
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Reporter Nuovo — 55
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