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Dove “guerra” si dice pregando
di Dario Artale
C’è una damigiana piena di acqua santa, entrando a destra, nella chiesa russoortodossa di Roma. Chi entra per pregare prende un bicchierino di plastica – di quelli da caffè – lo mette sotto il rubinetto della damigiana, e beve tre volte. «Una per il padre, una per il figlio, l’altra per lo spirito santo» spiega una delle mamme che ogni sabato portano qui i propri bambini per imparare il russo, nei locali della parrocchia.
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La chiesa di Santa Caterina Martire si trova incastonata all’interno del parco di Villa Abamelek, residenza dell’ambasciatore russo a Roma, con cui comunica attraverso un cancelletto bianco. Svetta, con le sue guglie turchesi, su una collina verde a cento metri in linea d’aria con la Basilica di San Pietro in Vaticano. In mezzo, a separarle, passa la linea della ferrovia.
Treno a parte, «non sono molte le cose che separano noi ortodossi dai cattolici», aggiunge la donna, esibendo l’unico sorriso di benvenuto in un angolo di Roma nascosto e respingente, soprattutto per chi viene a curiosare, specialmente di questi tempi. «Sono tempi brutti» esclama, prima di prendersi una breve pausa. È trascorso un anno dall’inizio dell’aggressione russa contro l’Ucraina, che ha segnato una nuova frattura tra le comunità religiose dei due paesi, dopo lo scisma del 2018, quando il patriarca di Costantinopoli ha riconosciuto l’autonomia della chiesa ucraina, causando la reazione del patriarcato di Mosca, che si è staccato dalla chiesa-madre di Costantinopoli. La guerra ha complicato i rapporti.
«Dal febbraio dello scorso anno molti ortodossi ucraini hanno smesso di venire in chiesa» constata un’altra mamma. D’altra parte la chiesa ortodossa russa si è apertamente schierata con Putin, per voce del potente patriarca di Mosca Kirill, guida spirituale dei russi, che ha esortato i fedeli a pregare per le forze armate che hanno invaso l’Ucraina. In risposta a quanto dichiarato da Kirill, anche il patriarcato ortodosso di Kiev – che anche dopo il 2018 era rimasto vicino alla chiesa russa – ha preso le distanze da quello di Mosca.
«Così oggi in Ucraina suonano tre campane – spiega padre Germano Marani, gesuita, docente universitario e padre spirituale del Russicuum, istituto cattolico di Roma, che cura lo studio e la cultura religiosa in Russia – una è greco-cattolica, l’altra è quella ortodossa ucraina, riconosciuta indipendente da Costantinopoli nel 2018, e l’ultima è quella ortodossa rimasta storicamente vicina a Mosca, ma che di recente si è dissociata da Kirill». Padre Marani conosce bene Kirill, essendone amico di vecchia data e avendolo frequentato più volte durante i suoi soggiorni in Russia. «In questo momento Kirill e Putin hanno bisogno reciprocamente l’uno dell’altro, anche perché l’unica cosa che tiene in piedi il popolo russo è l’ortodossia. Questo, però, non vuol dire che credano l’uno nell’altro. Anzi, non ho mai visto Putin entusiasta di Kirill», specialmente da quando il patriarca ha allontanato da Mosca un altro metropolita, Tikhon Shevkunov, a cui Putin era molto legato per essere stato il suo padre spirituale all’interno del Kgb.
Messe da parte le trame di potere, è importante – secondo padre Marani – separare sempre il piano dei governanti da quello dei fedeli che da secoli frequentano la chiesa ortodossa, i quali «sono religiosamente pervasi dal sentimento della compassione, un sentimento tipicamente russo, che si ritrova anche tra le pagine di Dostoevskij». Sotto la foto incorniciata di Kirill, nella sagrestia della parrocchia di Santa Caterina a Roma, se ne sta una donna coi capelli raccolti. È una mamma anche lei, sta aspettando che il figlio finisca la lezione di cirillico, mentre al piano di sopra – in chiesa – la funzione religiosa che commemora i defunti è finita. «Io nelle mie preghiere ricordo sempre tutti, ricordo i russi e gli ucraini morti», esprime con sollievo. I preti russo-ortodossi, invece, decidono di non proferire alcuna parola. Oltre a quella di Dio. ■