PM 2018 11 Anteprima

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ANNO 92 - N. 1066 - € 3,00 POSTE ITALIANE S.P.A. SPEDIZIONE IN ABBONAMENTO POSTALE DECRETO LEGGE 353/2003, (CONVERTITO IN LEGGE IL 27/02/2004 N. 46) ARTICOLO 1, COMMA 1, DCB VERONA

numero 11 novembre 2018

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come Oscar

NON MI CHIAMO UI A BANG TRIZIA CON PA

clandestino


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scritto da ALESSANDRO GHEBREIGZIABIHER disegnato e colorato da CHIARA RAINERI


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scritto da padre ELIO BOSCAINI

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he meraviglia gli splendidi colori dell’autunno, che spettacolo abbagliante! È a volte così bello che rimaniamo veramente a bocca aperta. E questo è possibile perché viviamo nel fresco e luminoso clima autunnale. E soprattutto perché viviamo tra tanti alberi. Il 21 novembre celebriamo la Giornata nazionale degli alberi. La festa intende sensibilizzare tutte e tutti noi sull’importanza che questi esseri viventi hanno per la vita sulla Terra. L’occasione ci è offerta per piantare nuovi alberi, riscoprire i boschi e le aree verdi del territorio dove abitiamo e imparare a proteggerle. Proteggere gli alberi, infatti, è uno dei modi più efficaci e semplici per lottare contro i cambiamenti climatici e le emissioni di quel CO2 che avvelenano l’aria.

parola di direttore E poi, se non ci fossero gli alberi, nessun bambino o bambina proverebbe più l’emozione di costruire una casa sull’albero. Il senso della giornata è racchiuso nell’augurio formulato da una comunità educante agli studenti e studentesse della loro scuola: «Siate come gli alberi, costruite la vostra vita su solide radici, la famiglia e le relazioni significative; vivete una vita piena, come le foglie che formano una chioma». Cari alberelli, buona Giornata nazionale e buona festa. E, come diceva la poetessa Lucy Larcom, «Chi pianta un albero, pianta una speranza»!

PIXABAY

Siate

i r e b l a e m co e d i l o s e l l a d ! i c i d ra

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ALFABETO

TO ROVESCIA

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di don Marco

Campedelli

scar era un bambino timido, dagli occhi profondi. Si rifugiava spesso nei libri. Camminava sul bordo delle pagine. Riposava tra un capoverso e l’altro. Da grande qualcuno dirà di lui che era “un topo da biblioteca”, ma lui i libri li amava. Non li collezionava. Sua madre si chiamava Guadalupe de Jesús. Era piccola di statura ma aveva un

cuore così grande che sembrava impossibile tenerlo dentro uno spazio tanto ridotto come il volume del suo corpo. Oscar amava i libri ma anche la natura. Gli alberi soprattutto. Piangeva se moriva una farfalla, se veniva spezzato un fiore. La madre gli raccontava il vangelo. Ed era così brava nel raccontare, che Oscar immaginava di essere anche lui dentro quel libro speciale. Seduto accanto a Gesù, sul monte delle Beatitudini. Era lui quel ragazzino che aveva con sé cinque pani e due pesci. Quella volta che Gesù moltiplicò i pani e i pesci l’aveva visto da vicino. Aveva anche lui gli occhi profondi. Anche lui, Gesù, piangeva se moriva una

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farfalla. Se veniva spezzato un fiore. Se si spegneva una stella. Anche sua madre si chiamava Maria, un altro modo di chiamarsi Guadalupe. Quel bambino non sapeva che un giorno avrebbe vinto la sua timidezza. Sarebbe diventato un uomo coraggioso. Vi chiederete: «Cosa è diventato? Un guerriero? Un potente uomo di affari? Un generale dell’esercito?». No. Niente di tutto questo. Sarebbe diventato un vescovo di un Paese dell’America Latina chiamato El Salvador. Sarebbe stato il buon pastore di un gregge ferito e bastonato. Oscar, che si rifugiava da bambino nei libri, aveva scoperto di avere una voce

bellissima. Una voce piena di vento, foreste, mari. Allora non uccidevano solo una farfalla, non spezzavano un fiore. Uccidevano bambini e donne. Mettevano uomini in prigione e li torturavano. E lui, Oscar, li difendeva. Li copriva con il suo mantello. Come quello di Guadalupe. La sua voce, chiara come la luna, attraverso la radio arrivava in tutto il Paese. Ogni volta Oscar diceva il nome degli uccisi dall’odio e diceva anche il nome degli assassini. I poveri si aggrappavano al suo corpo come ci si aggrappa a un albero quando ci assale un uragano. Oscar cantava l’amore. I giovani soldati, assoldati dai signori della guerra, sentivano quella voce che bussava alla loro porta: mettete dei fiori nei vostri cannoni. Non sparate ai bambini e bambine. Non uccidete i vostri fratelli e sorelle. Hanno due occhi e due mani come voi. Una volta lo disse gridando verso il cielo e tanto forte era il suo grido che tutta la terra tremò. E piansero perfino i pesci e gli uccelli. Era una domenica di marzo. Primavera. Era domenica quel giorno. Mentre il vescovo Oscar celebrava la messa lo colpirono con un fucile al cuore. Cadde morto in mezzo al suo popolo. Quel giorno tutti gli alberi persero le foglie dallo spavento. E la terra si contrasse in una smorfia di dolore. Lui però aveva scritto che se l’avessero ucciso sarebbe risuscitato nel suo popolo. Nel girotondo delle bambine e dei bambini. Nella forte tenerezza delle donne. Nella voce chiara dei poeti, nei piedi degli esseri liberi. Nel suo popolo. Era il 24 marzo del 1980 quando questo accadde. Si chiamava Oscar Romero. Era stato un bambino timido, divenne un gigante di coraggio. Sul corpo di quell’uomo ucciso si posò una farfalla. Leggera e piena di colori. E piangeva. NOVEM BRE 2018

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amici

per la pelle

scritto e illustrato da CREAZIONI DI GARAGE

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opo le avventure con lo yoga indiano, oggi è Jasmine ad accompagnarci attraverso la cultura islamica. Si stima che per circa un quinto della popolazione mondiale l’islam sia religione e stile di vita. I musulmani professano una religione di pace, misericordia e perdono. Sono le stesse caratteristiche del cristianesimo, no? Infatti, non ci crederai, ma le due religioni hanno le stesse origini e credono nella stessa concatenazione dei profeti. Ma il messaggio finale di Dio agli uomini, secondo i musulmani, è stato rivelato al profeta Muhammad (che significa “grandemente lodato”) attraverso l’arcangelo Gabriele. Oggi l’islam è conosciuto anche per un’altra parola, jihad: la guerra santa professata dai musulmani integralisti contro gli infedeli, cioè contro chi non condivide la loro religione. Un fenomeno che fino a poco tempo fa ci sembrava lontano mentre ora ci coinvolge direttamente, creando confusione e attriti anche con le persone vicine a noi, con i tanti musulmani e musulmane che vivono in Italia. Ma il problema principale è nella cattiva interpretazione della famosa parola jihad, che letteralmente significa sforzo, e inizialmente indicava la lotta interiore, lo sforzo che ogni fedele deve fare per migliorare sé stesso secondo i dettami della religione di pace. Niente a che vedere quindi con una lotta armata. Purtroppo, alcune cellule integraliste hanno usato questa parola per giustificare atti violenti, violenze dalle quali

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la religione islamica ufficiale si dissocia completamente. Di qui l’importanza di aprire dialoghi tra le diverse religioni, per isolare i singoli gruppi terroristici, così come da Roma sta attivamente facendo papa Francesco. La nostra Jasmine ci racconterà che cosa significa per una giovane italiana di origini islamiche vivere in Italia nel 2018, portare il velo e quindi essere subito da tutti riconosciuta come musulmana. L’uso del velo per la donna è assai più antico dell’islam. Se ne parla già nella letteratura persiana, bizantina e in quella greca: si tratta di un’antichissima usanza delle civiltà dell’area mediterranea dove la donna sposata era tenuta a coprirsi con il velo.


Nel Corano, il libro che contiene le sacre scritture della religione islamica, ci sono diversi versetti che ricordano alle donne di indossare un abbigliamento che le protegga e che le distingua come credenti. Il velo che vedi portare alle donne musulmane in Italia si chiama hijab: deriva dalla parola araba hib che significa coprire. Si tratta di un velo di stoffa che copre il capo e la parte superiore del busto e può

essere di seta o lana, colorato o bianco, per il giorno o per la sera. I modi di indossare il velo sono tanti. In questi ultimi anni, molti stilisti hanno creato collezioni di moda dove il velo è protagonista, e le giovani musulmane come Jasmine lo portano elegantemente, lo indossano con molta cura dei dettagli e soprattutto con la libertà di sentirsi giovani donne musulmane.

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Speciale Progetto Mondiario 2018/19

i u g A Bann co ! A I Z I PATR

scritto dalla REDAZIONE

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ono tanti anni oramai che Patrizia vive in Africa, prima in Angola e poi, dal 2003, in Centrafrica, vicino alla capitale Bangui, dove è arrivata all’indomani del colpo di stato, inviata a seguire un progetto europeo di cooperazione. Tra la gente non si fa fatica a capire quali siano i bisogni veri di donne, uomini, bambine e bambini. Patrizia poi, che è medico e donna molto pratica, non ci ha messo molto a individuare quali fossero le necessità delle persone che la circondavano. Così, con il sostegno delle suore benedettine italiane, ha pensato che si potesse trasformare la casetta di padre Adeli-

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Patrizia nella redazione del PM


no Brunelli, missionario comboniano che ci ha lasciati all’inizio di quest’anno, in qualcosa di utile per la comunità. La piccola casa è stata quindi ampliata, tanto da diventare un piccolo ospedale dove accogliere chi ha bisogno di cure… e i pazienti non si sono fatti certo attendere. Alcuni dei loro visi li avete visti sul Mondiario Slow di quest’anno. Perché a questo piccolo ospedale pediatrico dedicato a papa Celestino V (detto Pietro da Morrone), abbiamo deciso di dare parte del ricavato delle vendite della vostra agenda scolastica. La dottoressa che lo gestisce invece, Patrizia Emiliani, la conoscerete attraverso queste righe. Visto che è venuta qui in redazione del PM a ringraziarvi personalmente! «I miei bambini e bambine sono 427 – ci racconta Patrizia –. Per lo più sono malati di un’anemia particolare, che colpisce solo la gente nera. In tanti sono accompagnati da mamma e papà, altrettanti arrivano da soli. Chi non abita lontano dall’ospedale riceve una razione di cibo per settimana. Di cibo ne abbiamo tanto, grazie a papa Francesco, che, quando ha conosciuto la storia del nostro piccolo ospedale, ci ha caricato di ogni tipo di alimentari… e meno male!». La dottoressa Patrizia in questi anni di guerra ne ha viste davvero di tutti i colori. Bambine e bambini colpiti da proiettili vaganti, terrorizzati solo all’idea di affacciarsi appena fuori di casa. Altri talmente malnutriti da sembrare piccole marionette di scheletrini. Tanti oramai senza mamma e papà, con il fratellino o la sorellina legati sulla schiena, che zappano la terra e iniziano ad avere problemi di salute come gli adulti.

«Alea ha 13 anni. Ha percorso 15 chilometri con il fratellino ferito sulle spalle, Gualtier di 7 anni. La forza di questa sorella non si può dimenticare. Così come quella di Sara – continua a ricordare Patrizia, con gli occhi che le si illuminano –. Appena arrivata in ospedale per le cure, ha acceso il fuoco per scaldare il latte. Una volta caldo, lo distribuiva per cucchiaini agli altri bambini più piccoli». Se guardi Patrizia mentre racconta, con il suo tipico accento toscano, non puoi non notare l’affetto con cui descrive i suoi piccoli pazienti, «i miei bambini e bambine…». Li ricorda tutte e tutti per nome. E sì che ne ha conosciuti in questi anni! «Quando si comincia a sparare forte, i più piccoli si spaventano tanto. Vedono il terrore negli occhi degli adulti. E allora in ospedale una suora congolese li prende, li porta in un grande stanzone, un laboratorio di cemento. Lì iniziano a suonare l’acqua. Non chiedetemi come facciano. Ma quella musica riesce a coprire gli spari e per un po’ a far dimenticare ciò che succede all’esterno». NOVEM BRE 2018

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