ANNO 93 - N. 1070 - € 3,00 POSTE ITALIANE S.P.A. SPEDIZIONE IN ABBONAMENTO POSTALE DECRETO LEGGE 353/2003, (CONVERTITO IN LEGGE IL 27/02/2004 N. 46) ARTICOLO 1, COMMA 1, DCB VERONA
numero 3 marzo 2019
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INSIEME
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per il pianeta
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Vicini di casa H
TERZO EPISODIO
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Bella gente Il mio nome è Greta
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scritto, disegnato e colorato da TAKOUA BEN MOHAMED
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scritto da padre ELIO BOSCAINI
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arzo, come ben sai, è il mese della giornata della donna e quella del papà… Quest’anno ti invito a celebrare anche la Giornata della felicità, fissata dalle Nazioni Unite il 20 marzo. Tutte e tutti noi viviamo un desiderio inestinguibile di felicità. Segno che è Dio che accende in noi la scintilla. Esistono tanti modi di essere felici, tanti quanti siamo noi che abitiamo la Terra. Ognuno deve riuscire a trovare il suo, con pazienza e fantasia. La felicità, infatti, non si ottiene facendo qualcosa, perché è piuttosto uno stato d’animo. Composto di tante semplicità quotidiane come fare una passeggiata al parco con papà e mamma, giocare, stare con gli amici, studiare, andare in bicicletta, adottare un coniglietto, godersi un tramonto sul mare quando sarà estate… Scopriamo così che per essere contenti bisogna svegliarsi con lo spirito giusto. E che può bastare avere una bella famiglia
parola di direttore
in cui si mescolano alcuni “ingredienti” – amore per i propri cari e per chi ci sta attorno; rispetto e gentilezza, perché il cuore va educato e guidato con saggezza; creatività per inventare soluzioni alle difficoltà e scavalcare gli ostacoli – importanti per essere felici. A una classe elementare è stato chiesto “cosa vuol dire essere felici”. «Ci vuole tanto senso dell’umorismo», ha risposto Ismaele; per Martina invece «bisogna ridere insieme agli altri almeno una volta al giorno»; «i grandi sono così tristi, pensano sempre a lavorare, sono seri, sorridono poco, sono nervosi», ha raccontato Paola. E tu come pensi che si possa ottenere la felicità? Guardando gli “ingredienti” scritti sopra, come andrebbero mescolati per ottenere una perfetta torta della felicità? Perché non farcelo sapere? Papa Francesco, lui, pensa che la via alla vera felicità sia vivere le Beatitudini, quelle che troviamo nel vangelo di Matteo, al capitolo 5. Che ne pensi? MARZO 2019
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ALFABETO
TO ROVESCIA
di don Marco
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Campedelli
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hissà che incanto la volta che il Creatore accese un cerino in mezzo al buio. La Terra era informe e deserta e le tenebre ricoprivano l’abisso. Fu luce per la prima volta. Perché questa storia è tutta una prima volta. E per la prima volta si proiettò un’ombra. E come sarà stata l’ombra di Dio? Ma è proprio quando disse “Sia la luce” che per la prima volta la luce venne al mondo. Questa cosa fu così importante che ogni volta che si viene al mondo si dice “venire alla luce”. In memoria di quella prima volta. Poi, separò la luce dalle tenebre. Non sappiamo se sia stato facile o difficile. A tutti poi risulterà non semplice separare la luce dal buio. Per la prima volta “fu sera e fu mattina”. Che bello la prima sera. La prima mattina.
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e m co
E così nacque il tempo. Prima non c’era. Non c’erano gli orologi, le sveglie. Non c’era la fretta. Non si aveva paura di non arrivare in tempo, perché il tempo non c’era ancora. Ma questa parola tempo significa tagliare, misurare. Insomma appena il tempo nacque si voleva misurarlo: tempo corto, lungo, veloce, tempo che non passa mai. Il Creatore, ed era il secondo giorno, fece poi il firmamento. E separò le acque di sopra dalle acque di sotto. Creò il cielo. Da allora si poteva guardare in su. E non si poteva ancora guardare in giù. Ma nel cielo ci sarebbero state le nuvole? Se non ci sono le nuvole non si può dire “oggi è bel tempo oppure oggi è brutto tempo”. E se ci sono state le nuvole, forse il Crea-
e n o i z a e cr arte) (prima p
tore provò a stare per un po’ sotto la pioggia. Allora non c’erano gli ombrelli e neppure gli alberi sotto cui ripararsi. Se veniva la pioggia non c’era altro da fare che prenderla. Immaginiamo Dio sotto la pioggia. Magari quella gentile, che viene a primavera. Perché i temporali si stavano organizzando ancora. Forse le nuvole erano così timide che non si erano ancora scontrate. Il terzo giorno, che poi ha sempre avuto un fascino, forse per via di quella erre che ti rimane in mezzo ai denti, il Creatore raccolse tutta l’acqua in un punto e fece il mare. Fu il primo a vedere il mare. E deve essere stata una cosa molto bella. Forse aprì una sdraio e si mise a guardarlo. Era la prima volta. Tutto ciò che non era mare era l’asciutto. Dio era seduto sull’asciutto per vedere meglio il mare.
Ma il quarto giorno fu davvero speciale. Dio chiese alla Terra di fare germogli che producano seme e alberi da frutto. Prima di allora, non si sapeva cosa significasse germogliare. Era una delle meraviglie più impensabili. La Terra era incinta. Generava, aspettava… germogliava. Così nacquero gli alberi, le piante e i fiori. Possiamo credere con sufficiente probabilità che Dio si commosse davanti agli alberi. Per come erano fatti. Come una sintesi tra la terra e il cielo. Piantati nella terra con radici profonde, i loro rami si stendevano verso il cielo. C’erano alberi immensi e alberi più leggeri, che si piegavano con il vento. Gli alberi fecero i fiori, come un primo grazie. Così, senza interesse. Dio annusò i fiori, si inebriò del loro profumo. Ma non c’era ancora nessuno a cui dare un fiore, nessuno a cui poter dire la parola amore… (...continua) MARZO 2019
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Sono Greta Thunberg e ho 16 anni: li ho compiuti il 3 gennaio scorso. Io il venerdì non vado a scuola. No, non ho la settimana cortissima. È una mia scelta. Le mie compagne e i miei compagni a scuola ci vanno. Io no. Da quando a settembre sono riprese le lezioni, mi reco all’esterno della sede del Parlamento del mio Paese, la Svezia, per chiedere che siano prese decisioni che contrastino il cambiamento climatico che da tempo minaccia il nostro pianeta. Lo so cosa state pensando: vi sembro un’ingenua. Vi state chiedendo perché mai i politici dovrebbero dare retta a una ragazzina come me… Ma io lo so esattamente. Ritengo che qualcuno debba pur cominciare, e che ciascuno debba fare la propria parte. Non si può solo sperare che loro facciano delle buone leggi. Bisogna
passare all’azione, e chiedere che le facciano davvero. Per noi, che siamo quelli e quelle che loro rappresentano. Perché quella che viviamo oggi è la crisi più grave dell’umanità. La scorsa estate, nel mio Paese, ci sono state, oltre a tanti incendi, mai così numerosi, anche delle ondate di caldo eccezionali. Segno che il clima sta cambiando in modo pericoloso per il pianeta.
Giustizia climatica Per questo, a inizio dicembre 2018, sono stata, insieme al mio papà, alla Conferenza mondiale sul clima, la COP24, il vertice internazionale voluto dalle Nazioni Unite, che si è tenuto in Polonia. Là sono riuscita a farmi ascoltare due volte! Gliele ho cantate! Senza tanti giri di parole, ho detto: «Nel 2078 festeggerò il mio settantacinquesimo compleanno. Se avrò dei bambini, un giorno mi faranno probabilmente delle domande su di voi. Forse mi chiederanno come mai non avete fatto niente quando era ancora il tempo di agire. Voi dite di amare i vostri figli sopra ogni cosa, ma state rubando loro il futuro davanti agli occhi». Lo so, sono stata dura, ma è da tanto tempo che mi preoccupo di questo problema, leggendo tantissimo. Avevo 8 anni quando ho iniziato. Questo mio
interesse lo devo alle mie insegnanti che mi hanno raccontato cosa succede e di quale gravità è il problema ambientale che tutte e tutti ci riguarda. Dico quello che penso, rischiando anche di divenire impopolare. Ma non mi interessa; ciò che più mi importa è la giustizia climatica e un pianeta vivibile. Oggi, la civiltà viene sacrificata per dare la possibilità a una piccola cerchia di persone di continuare a fare profitti. La nostra biosfera viene sacrificata per far sì che le persone ricche in Paesi come il mio possano vivere nel lusso. Sono in molti a soffrire per garantire a pochi di vivere nel lusso. L’idea che nessuno facesse qualcosa di concreto mi faceva star male, tanto da farne davvero una malattia… Poi ho capito che non era ammalandomi che avrei dato il mio contributo, ma facendo sentire la mia voce. Così ho cominciato a protestare. La mia voce si è diffusa e la rivista Time è arrivata a considerarmi l’attivista più influente del 2018.
I VIAGGI DI
BRUPAGURO scritto da MARIA ANTONIETTA BERGAMASCO
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i scrivo dopo aver preso il primo aereo della mia vita da Brupaguro: dalla Sardegna sono volato dritto alla capitale d’Italia: Roma. Ero curioso di visitare Refugee ScART, un laboratorio di artigiani. Lo sapete cosa fa un artigiano? Crea oggetti interamente a mano o con l’uso di semplici attrezzi. A Roma ho incontrato degli artigiani molto speciali, dei sarti che vengono da tutto il mondo e che, prima di cucire, costruiscono la stoffa con le loro mani usando… la plastica degli imballaggi!
Adesso vi spiego bene questa storia, eh. Inizio dal raccontarvi chi sono: sono 4 uomini arrivati in Italia per presentare domanda di protezione internazionale. Le persone che fanno questa domanda vengono da Paesi in cui la vita è in pericolo, a causa di guerre, persecuzioni, conflitti politici o disastri naturali. Se la richiesta viene accettata, gli viene riconosciuto lo stato di “rifugiato”. Adesso capite la prima parola: Refugee. E la seconda? ScART si ottiene mettendo insieme la prima lettera di ogni parola di questa frase: “Spostamenti Coraggiosi Aiutando Riciclo Terra”. ScART, insomma, vuol dire che chi viene in questa sartoria per imparare questo mestiere, poi può portare con sé quel che ha imparato in qualunque parte del mondo vada, sia che resti in Italia, che possa un giorno tornare a casa sua o che scelga di andare in un altro Paese. Ma vuol dire anche che oltre a fare qualcosa per sé (imparare un mestiere), fa anche qualcosa per la Terra: ricicla! In
i d i n a i g i t r a i l G
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questo laboratorio si ricicla uno dei rifiuti più difficili da smaltire: la plastica. Facciamo un esperimento? Per una settimana provate a far caso a quanta plastica si butta via a casa. È tantissima. Anche se le leggi di tutela dell’ambiente chiedono di usare sacchetti biodegradabili, la plastica contiene molte delle cose che compriamo. Gli artigiani di Refugee ScART recuperano le plasticacce degli imballaggi, cercano quelle più colorate, le tagliano in tante striscioline e le attaccano una a una su grandi fogli di plastica trasparenti (ricavati, ad esempio, dalla pellicola che protegge i vestiti che mamma e papà ritirano in lavanderia), poi ci passano sopra il ferro da stiro, il cui calore fa sì che le plastiche si fondano insieme, creando delle stoffe di mille colori, un po’ rigide, ma che si riesce a cucire con le macchine, per realizzare borse di diversi modelli. Con gli scarti di lavorazione, poi, costruiscono orecchini, portachiavi e altri piccoli oggetti. Questo laboratorio è speciale perché è un luogo dove gli artigiani imparano un mestiere e lo insegnano ad altri e, nel mentre, cercano un lavoro e progettano il loro futuro. Dal 2011, quando Refugee ScART è nato, sono passati per di qua più di 50 uomini: alcuni adesso fanno i sarti, altri fanno altro; ma tutti hanno imparato da chi sapeva di più e hanno insegnato a chi sapeva di meno e questa è la cosa che mi piace di più di Refugee ScART: non c’è un maestro con tanti allievi, ma ci sono persone che, insieme, cercano di trovare una soluzione a un momento difficile della loro vita, come quando devi lasciare la tua casa, perché, come dice la
poetessa somala Warsan Shire: «A nessuno verrebbe di lasciare la propria casa, a meno che casa tua non ti abbia detto affretta il passo, lasciati i panni dietro, striscia nel deserto, sguazza negli oceani, salvati». Spostamenti Coraggiosi, quelli che hanno fatto questi artigiani. E coraggioso questo imparare insieme, diventando maestri gli uni degli altri.
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