Due figlie e altri animali feroci Preview

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Impaginazione Officine Bolzoni Supervisione Michele Foschini Proofreading Leonardo Favia, Francesco Savino e Andrea Petronio Colori di copertina Lorenzo Ortolani

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Via Leopardi 8 – 20123 Milano chiedi@baopublishing.it – www.baopublishing.it Il logo di BAO Publishing è stato creato da Cliff Chiang. Due figlie e altri animali feroci è © 2019 Leo Ortolani Per l’edizione italiana: © 2019 BAO Publishing. Tutti i diritti riservati. ISBN: 978-88-3273-222-1 PRIMA EDIZIONE


A Johanna, Lucy Maria e Caterina. Volevo donarvi il mio cuore, ma ce l’avete già . Allora vi ho preso un libro.



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VUOLE CENARE CON ME, AL RISTORANTE? C’è un particolare, all’inizio di questa storia, che ricordo solo io. Siamo in macchina, sto guidando. A fianco c’è Caterina, mia moglie, dietro ci sono la sorella di Caterina e suo marito, siamo giovani e belli, e ridiamo e scherziamo, e a un certo momento sento la mia voce che dice: «A me l’adozione non interessa». Dieci anni dopo, mi sveglio in un fosso senza un rene e con due figlie colombiane. Ricordare cosa sia successo in questi dieci anni non è facile. Io di solito mi dimentico sempre tutto, non mi sentirete mai raccontare delle barzellette, perché poi le sbaglio. Tipo: «Pronto, Telecom?» «Nop.» Questa la capite se avete più di trent’anni. E noi, Cate e io, avevamo più di trent’anni, e da qualche anno eravamo sposati, ma figli, niente. C’era l’endometriosi che stava facendo dei danni dentro la Cate, così cercavamo di capire in che modo risolvere la cosa, perché se hai l’endometriosi non puoi avere figli, ma se hai figli, l’endometriosi sparisce. Allora dammi il cubo di Rubik che te lo risolvo prima. E non devo nemmeno spogliarmi nudo. Insomma, c’è stata questa serie di visite, presso i luminari della medicina, una dopo l’altra, a guardare dentro la Cate per vedere se le tube, se le ovaie, se le cisti, se, se, se. E anche a guardare se quello lì, quello che sembra il maschio, ha tutto a posto. Così ti danno un barattolino e ti dicono di riempirlo. Ora. Tutti avrete visto i film americani, dove ci sono queste cliniche sulla fertilità che ti offrono il barattolino e poi ti mandano in una stanza con film per adulti, riviste di donne allegre e prosperose, giusto per aiutare il donatore. Per darti una mano. Nel vero senso della parola. Lì mi hanno indicato un bagno, un po’ più isolato, dove potevo andare a fare quel che dovevo fare, che tutto intorno c’era un gran viavai di gente che doveva riempire i barattolini di feci o di urina, un po’ come fare il tema libero. A me invece avevano dato «La poetica del Manzoni»,

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avevo bisogno di stare più concentrato. E così entro in questo bagno, senza nessun filmino, senza nessuna rivista. Avevo con me solo un libro, IL DRUIDO DI SHANNARA, che però avevo lasciato fuori. Non che ci fossero delle figure, però c’era questo mago anziano in copertina... non era nemmeno un brutto uomo. Comunque, alla fine mi hanno appena dato la sufficienza. Mi ero preparato su Pirandello. Siamo stati da professori che facevano gli indovini. «Buongiorno, professore, sono...» «NO! Non me lo dica! Lei è la signora Buzzanuovo, vero?» «No, professore, sono Caterina Ortolani, ci siamo sentiti al telefono per...» «Ah, ma certo! Ortolani, ma certo! Lei ha chiamato per programmare quel cambio di sesso.» «No, professore, sono qui per l’endo...» «... metriosi! Certo! Mi scusi un attimo, che devo rispondere al telefonino: Sì, pronto? Ah, la signora Mallapponi, giusto?... BERSEGHELLI! Berseghelli, ma certo!» Siamo stati anche da un professore famosissimo che va in televisione a dire che la fecondazione assistita è una grande risorsa, salvo la volta che poi a una coppia bianca è nato un bimbo nero perché hanno scambiato le provette. Mi sembra che non sia più andato in televisione, dopo, ma non guardandola mai non ne sono sicuro. Comunque siamo andati anche da lui, e c’è questa clinica che ha un nome che unisce la tecnica alla natura, qualcosa tipo “BioTrivella” o “Tecnocippa”, una cosa così. Io la fecondazione assistita me la sono sempre immaginata che sono tutti lì a guardare, mentre sei a letto con tua moglie, e intervengono continuamente: «Dai! Dai, muovi il bacino!» «Vai di gambe, gioco di gambe!» «Smarcati! Smarcati!» «Ma daaai! Ma nooo! Ma come si fa?!» «Fallo!» Invece prendono i fermenti lattici (possibilmente vivi) del papà e li mettono nella centrifuga della mamma e poi, forse, nasce qualcosa. Forse. Che più anni hai, meno possibilità hai. È la legge spietata della natura. Nel laboratorio accanto, infatti, c’era un leopardo che azzannava la gazzella più lenta. Dopo la Tecnocippa, ci siamo guardati in faccia e abbiamo concluso che era più naturale l’adozione. È il 2001.

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Ora, chiunque abbia adottato sa bene che non esiste un percorso uguale all’altro. Non esiste una strada ben segnata che se la prendi arrivi sicuro ad adottare. Per questo, un sacco di coppie si perdono. Come quando viaggi nel modenese. Fino all’ultimo bivio ci sono le indicazioni per Pozza di Maranello, senti che ce la puoi fare; poi non ci sono più cartelli e ti ritrovi a Rubiera. E quando sei a Rubiera, sei così stanco di girare a vuoto che non ce la fai a tornare indietro, a riprovare, ne hai abbastanza, e molli tutto. Peccato, perché a Pozza di Maranello c’è una fumetteria bella grossa. In generale partiamo tutti insieme con le riunioni di gruppo. Siamo lì in dieci, dodici coppie, che ci raccontano cos’è l’adozione, quali sono le procedure, sia burocratiche che di indagine famigliare e psicologica, tutte cose che trovate sul sito dei servizi sociali della vostra città. Quello che non trovate sul sito è che voi, cari genitori adottandi, avete iniziato un viaggio che nemmeno Frodo Baggins. Un viaggio dentro e fuori di voi, dove la risposta è sbagliata, e che potrete interrompere in qualunque momento, premendo il bottone rosso che avete sul petto. Quale bottone rosso? Bravi, vedo che cominciate a capire. Invece noi non lo sapevamo. Ci guardiamo intorno, guardiamo le altre coppie, alcune timorose. Ma timorose di che? Ah! Ah! Ah! Noi non abbiamo paura di niente! Noi ci sentiamo in gran forma, abbiamo già tutto il nostro piano: prima ne adottiamo uno, poi ne adottiamo un altro. Dai che ce la possiamo fare! Dai, dai, dai. Così ci guardiamo intorno, e secondo me lì dentro siamo sicuramente i migliori genitori che un bambino potrebbe desiderare. Cioè, tu fai entrare un bambino in questa stanza e gli chiedi: «Chi vuoi, come genitori, piccino?» e lui si dirige verso di noi e ci getta le braccine al collo, senza esitazioni. La scena la puoi immaginare più tosta se nella stanza ci sono i suoi stessi genitori biologici. Poi la Cate mi dice: «Vuoi stare attento?» Con questo stesso spirito, affrontiamo i colloqui faccia a faccia con l’assistente sociale e lo psicologo. Ci basta una sola seduta per tracciare un loro profilo e per dare

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giudizi a tutti e due. Mentre loro ci fanno fare una serie infinita di colloqui, luuunghi, pesaaanti, in cui si ostinano a cercare, tra le pieghe dei nostri racconti meravigliosi, un cavillo, una magagna, anche piccola, per poterci dire che non andiamo bene. Ma è evidente che siamo così straordinariamente genitori, che se entrasse nella stanza il figlio dell’assistente sociale, ci griderebbe: «Portatemi con voi! Voglio vivere con voi!» E l’assistente sociale fuggirebbe in lacrime, sconfitta sul piano stesso della genitorialità. E invece continuano a farti domande su domande, cercando non si sa cosa. Com’erano i tuoi genitori? Hai fratelli? Com’è il vostro rapporto? Hai nipoti? Credi negli UFO? Sette per otto? Ma non è facile trovarmi impreparato, perché conosco un sacco di casi di adozione. Tarzan, per esempio. Adottato dalle scimmie, adesso è il re della giungla. Superman. Uno dei più famosi casi di adozione internazionale, in quanto privo di burocrazia. Adesso è famosissimo e salva il mondo. E l’Uomo Ragno. Adottato dagli zii. E adesso escono anche i film. Insomma, è chiaro che un’adozione non può che andare a buon fine, dai, dai, dai. Per fortuna sono sposato con Caterina, che ha sempre vissuto in una famiglia aperta all’accoglienza, e che ha sempre avuto l’idea di adottare un bimbo, oltre ad averne di suoi. E alla fine i colloqui per l’adozione sono andati bene. La relazione finale dice che vorremmo un figlio sano, non importa che sia un neonato, simile a noi, quindi di pelle bianca, di nazionalità italiana, bello, simpatico, intelligentissimo, non privo di difetti, certo, ma che lo rendano speciale, tipo che sa volare. In sostanza quello che vuole circa l’ottantanove per cento delle coppie. Così ci inseriscono nel mucchio informe dei “Genitori specialissimi come tutti gli altri”. E lì restiamo per tre anni, senza che succeda niente. Perché il Tribunale dei Minori di Bologna, di coppie come la tua, ne ha così tante che è costretto a ricorrere a dei piani di abbattimento con l’aiuto delle guardie forestali, mancando i nostri nemici naturali che sono le orche. Fate un giro sui forum dei genitori che stanno cercando di adottare.

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Ovunque, il timore del giudizio dei giudici, la richiesta di un consiglio su come rispondere agli psicologi, se sia meglio raccontare tutto, ma proprio tutto, oppure se sia più prudente tacere del nonno che ammazzava le vecchie e le sotterrava nell’orto, accennando solo all’incredibile dimensione delle zucchine. Perché tutte queste coppie, tutti questi poveri disgraziati, almeno una volta, durante il loro percorso, hanno pensato che se avessero avuto un figlio biologico, nessuno gli avrebbe rotto le balle in questo modo. Invece veniamo rivoltati come guanti, perché se potremo essere genitori lo decideranno gli altri, gli esperti, che noi non sappiamo nemmeno chi sono, e che magari quel giorno lì hanno preso una multa per divieto di sosta, hanno scoperto che il marito manda sms di nascosto alla cognata o sono semplicemente stanchi. Durante questi tre anni non succede niente, tranne una volta che ci chiamano dal Tribunale dei Minori per farci non si sa quali domande. Capiamo subito che si tratta del favoloso TOTO COPPIA! Significa che c’è un minore da dare in adozione e i giudici fanno dei colloqui con le possibili coppie che rispondono ai requisiti richiesti per quel bambino. E poi scelgono la coppia vincente. Dai, dai, dai. Così ci troviamo di fronte due giudici, due donne: una tipo vecchia prof. di matematica e un’altra con gonna zingara, modello ex-Sessantotto. Siamo così sicuri di noi, così straordinariamente genitoriali, felici, uniti, radiosi, che ci scartano subito. C’è qualcosa che ci sfugge, ma siamo ancora troppo inesperti, per capirlo, lo capiremo più avanti. Nel frattempo, continuiamo ovviamente i nostri esperimenti casalinghi di fecondazione, pensando che, chi lo sa, magari. Ma siamo sempre più lenti, e anche le gazzelle iniziano a superarci. Con il senno di poi, ci rendiamo conto che è stato meglio così. Che non sia successo niente. Perché in questi tre anni abbiamo avuto modo di maturare, di diventare più consapevoli del passo che abbiamo deciso di fare. Non importa se non ci hanno dato nessun bimbo, tanto erano ancora acerbi.

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Pensa che potevamo anche cambiare idea, durante questi tre anni, e aprirci all’adozione internazionale. Potevamo. Se ce lo avessero detto, che potevamo. Invece nessuno ci ha detto niente. Pensa. E così, per un altro anno, ci guardiamo in faccia, riflettendo su cosa fare, se restare a Rubiera o se riprovare a prendere quella strada che segnava Sassuolo, ma che secondo la Cate portava a Pozza di Maranello. Sei sicura? Sono sicura. Allora ci prendiamo per mano e ripartiamo. Ricapitoliamo. Nel 2001 ci rivolgiamo ai servizi sociali per iniziare il percorso dell’adozione, nel 2002 facciamo i colloqui di gruppo e di coppia, nel 2003 il Tribunale ci giudica idonei all’adozione. Passano tre anni, 2004, 2005 e 2006 senza che succeda niente e nel 2007 decidiamo di tentare di nuovo. Il nostro piano è infallibile! Ci apriamo all’adozione internazionale e puntiamo ad adottare due fratellini! Due! Non possono dirci di no, dai! Dai, dai, dai. E partiamo, certi che stavolta sarà tutto più veloce. Devono solo aggiornare una relazione, no? No. No, perché stavolta ci troviamo di fronte una persona con degli evidenti problemi personali. Succede. Magari andate in posta a prendere dei francobolli, l’impiegata vi tratta male perché ha le balle girate, o è depressa e sta assumendo farmaci che alterano la sua capacità di giudizio. Pazienza. Venti minuti dopo non ci pensate nemmeno più. Ma sì, ma che vada a fare la cacca, pensate. Che vada a fare qualcosa nel sedere. Cose così, ma dette con più foga. E venti minuti dopo non ci pensate davvero più. Per dei francobolli, poi. Ora, immaginatevi di volere un bambino, e che da soli, purtroppo, non possiate farlo, e che ci sia un leopardo che vi segue, e che solo una persona possa decidere se farvelo avere o meno. E questa persona sia la stessa dei francobolli. Lo so cosa state pensando. Che esagero, che può succedere, di incontrare una persona che magari vi sta antipatica, o che voi stiate antipatici a lei. Può succedere. Pensate così perché voi i francobolli nemmeno li comprate più, spedite le e-mail. Per un anno siamo costretti a incontrarci con questa persona, per

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un anno la Cate sta male ogni volta che dobbiamo andare, e ne esce distrutta. E io che cerco di farle coraggio, e le dico: «Dai, non ci pensare. Per dei francobolli. Manderemo un’e-mail, dai. Dai, dai, dai.» Arriva finalmente l’ultimo incontro. Prima di entrare le prendo la mano, le sorrido: «Dai che è l’ultimo incontro, hai visto che ce l’abbiamo fatta, stai tranquilla, stai calma, ancora quest’oretta e poi è finita.» Entriamo. Dieci minuti dopo, sono lì che urlo, con le giugulari grosse come due rami di pioppo, e le dico tutto quello che le devo dire, a questa persona, che ora basta. Basta, prendere in giro la gente. Basta, considerarci carne da adozione. Basta. Alé. Penso. Tutto giù per il cesso. Dopo qualche secondo di gelo, si stabilisce la necessità di fare un ulteriore incontro. Allora, dopo, a casa, abbiamo capito cosa c’è che non va, in noi. Cos’è che dà tanto fastidio a questi che devono giudicare se siamo in grado di fare i genitori o no. Dà fastidio che non soffriamo abbastanza. Ci vedono lì, sereni, che ci vogliamo bene, che siamo comunque in grado di affrontare la vita, anche senza figli, che se non dovessero venire non ci tagliamo le vene. E non va bene. Non va bene che un bambino che ha sofferto finisca in una famiglia che non conosce il valore della sofferenza. In una famiglia felice. Da due semplicioni. No, no, no, no, no. Un genitore adottivo deve stare male. Deve soffrire perché è irrisolto. Deve elaborare il lutto. La culla vuota. Il pannolino pulito, fate un po’ voi. E allora ci facciamo furbi. Per una volta. Per una volta fingiamo di stare male. E l’ultimo incontro va benissimo e, anzi, sono contenti che io sia esploso, che abbia mostrato un’emotività che durante le precedenti sedute non saltava fuori. Io, che in tutta la mia vita sarò esploso sì e no due volte. Io, che sicuramente sono un animo violento. Uno incline all’ira. Noto negli ambienti della polizia come “O’ Spaccammuòrt”. Uno che ieri ha preso a schiaffi Gandhi. E voi direte: «Ma Gandhi è morto.» Lo so. Vi diranno che lo hanno fatto apposta, a portarvi al limite, che vo-

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gliono vedere cosa si cela dietro quei visi sereni, dietro quelle vite tutte perfette, perché devono tutelare il bambino che verrà. E a me va bene, povero bambino. Ma perché devi prendermi a calci nelle palle, per capire chi sono? Non ti basta, quello che ti racconto? Allora chiedi! Chiedi, per l’amor di Dio. Sono lì apposta. Lo so che è più divertente prendermi a calci nelle palle. Fanno un suono buffo, come quando suoni le vecchie trombette: POTI! POTI! Prima che pensiate che sia stata soltanto una nostra personale disavventura, sappiate che questa persona ha giudicato decine e decine di coppie, tra cui due che noi conosciamo, creando problemi anche a loro. E, come nei migliori film americani, una scritta prima dei titoli di coda vi direbbe che alla fine questa persona è stata allontanata dai servizi sociali della città. Ma prima era lì, dietro quella scrivania, a decidere se voi potevate adottare o no. Mentre con l’altra mano accarezzava la testa al leopardo. Stavolta scegliamo di percorrere entrambe le strade. Quella dell’adozione nazionale e quella dell’adozione internazionale. Non ci sono più limiti, nemmeno dentro di noi. I bambini sono bambini, di qualunque colore e di qualunque nazionalità siano. Ma quando non puoi avere figli, il primo passo che fai è sempre quello di cercare qualcuno che ti assomigli. Non c’è da vergognarsene. L’importante è capire. Crescere. E noi adesso siamo cresciuti! E siamo sicuramente la migliore coppia di genitori adottivi che un bambino di qualunque colore e di qualunque nazionalità potrebbe desiderare! Tipo che se chiedi a tutti i bambini del mondo chi vogliono come genitori, questi ci indicano senza esitare e urlano: «Vogliamo loro!» Che pare di essere nel video di WE ARE THE WORLD, e tutti applaudono, mentre ci consegnano la targa Genitore d’oro 2008! «A cosa stai pensando?» mi chiede la Cate. «Io? A niente, perché?» Funziona poi che ci sono gli enti per l’adozione internazionale e tu ne scegli uno, e insieme lavorate per arrivare ad adottare i bambini del

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mondo, che nelle foto ti guardano e sembra che dicano: «Scegli me!» «No, scegli me!» In realtà stanno pensando: «Chi sei? Che vuoi?» Come si sceglie un ente per l’adozione internazionale? Tutti ti diranno che lo scegli per una questione di feeling. Nothing more than feelings. Invece ti dico io che: «I’ve got a bad feeling about this», altro che feeling. Da qualche parte dobbiamo iniziare, così iniziamo scegliendo il Paese. Optiamo per l’India. Un po’ perché abbiamo conosciuto questa coppia che ha adottato due bimbe indiane, un po’ per via della vecchia questione degli schiaffi a Gandhi. Una volta scelto il Paese, prendi internet e trovi tutti gli enti, a portata di auto, che lavorano con l’India. E cerchi di organizzare un incontro. Benvenuti nel nuovo livello di gioco. Non mi dilungo troppo, ma ci siamo trovati di fronte a enti con nomi tipo “Amici carissimi dell’India”, che riesci a ottenere il permesso di partecipare a un loro incontro di presentazione il 21 dicembre, vai là, ti parlano del Nepal, del Brasile, dell’Abruzzo, di Città del Vaticano, di Monchio delle Corti, ma dell’India niente. Tu, che gli hai scritto due volte specificando che hai intenzione di adottare in India, e hai mandato la tua e-mail al loro sito web www.amicitigiurodellindia.com, e loro ti hanno risposto tranquillamente di venire pure il giorno tale, che loro, gli amici dell’India, sono anche amici tuoi, tu, dicevo, educatamente alzi la mano e chiedi: «E l’India?» Ah, con l’India non lavoriamo più da due anni. Un altro ente ci pare serio e interessante al punto che, dopo l’incontro generale di presentazione, gli mandiamo la nostra relazione rilasciata dai servizi sociali, per prendere un appuntamento privato. Ci chiamano al telefono per dirci che con una relazione come la nostra non è sicuro che poi le cose vadano a buon fine, ci spiace, grazie, arrivederci. Se io ti ordino dei bulloni di marca BULLON, può accadere che tu mi telefoni e mi dica che la marca BULLON purtroppo non ce l’hai, che ti dispiace e arrivederci. Non ci resto male, può succedere. Ma qui non stiamo parlando di bulloni.

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Qui stiamo parlando di persone. Di persone che faticano a capire come arrivare ad adottare un bimbo, che sognano di diventare una famiglia, che non hanno nessun diritto di farlo, ma che si aggrappano l’uno all’altra e vanno avanti anche se sputi loro in faccia, tanto sono abituati. Che a volte hanno visto i loro stessi parenti scettici di fronte alla loro decisione. Che stanno facendo una fatica incredibile. Che dopo tanti anni hanno ormai l’anima sottile. E tu mi scarichi per telefono. Nemmeno ti interessa sapere che faccia ho. Nemmeno ti interessa sapere che poi ho pianto per dieci minuti di seguito, senza la forza di mandarti a fare delle cose nel sedere. Questi, e altri, sono gli enti che abbiamo incontrato sulla nostra strada. Questione di feeling. Alla fine abbiamo rinunciato all’India. E siamo arrivati in Colombia. Tra tutti i Paesi aperti all’adozione internazionale, quello che dimostra una sensibilità maggiore al problema dell’infanzia abbandonata. A livello di controlli, di assistenza sociale, di aiuti. Perché un tempo i controlli erano talmente scarsi che l’adozione lasciava troppi varchi per giri poco puliti. E i soldi che giravano erano tanti, troppi. Ci sono storie di genitori che atterrano in un Paese dell’Est, hanno una valigetta piena di soldi, si incontrano con una persona che ha un bambino per mano, avviene lo scambio e ripartono. I genitori con il bambino da una parte e l’uomo con la valigetta dall’altra. O magari i genitori con l’uomo da una parte e il bambino con la valigetta dall’altra. Cose così. Poco chiare. Adesso le cose sono cambiate, e stanno migliorando un po’ ovunque, poco alla volta. E la Colombia è tra i Paesi che più cercano il bene dei loro bambini. Siamo arrivati alla Colombia attraverso questo ente, che chiameremo per comodità “Amici del Perù”, e che abbiamo scelto perché si sono dimostrati subito disponibili a lavorare con noi e ad aiutarci. A dire il vero, in alcune occasioni anche gli Amici del Perù ci hanno fatto un po’ girare le balle, ma quando ormai stavamo per gettare

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la spugna, che la Cate aveva anche smesso di fumare da un anno ed era come vivere con una tigre a cui hanno rigato la macchina nuova, quando ormai anche i nostri genitori ci guardavano scuotendo la testa, quando la neve aveva iniziato a scendere, copiosa, sulla nostra genitorialità e gli Amici del Perù ci hanno telefonato, dicendo che dovevamo incontrarci, che c’erano delle novità. Credo che il 2009 sia stato uno dei più bei Natali della nostra vita. Nelle case di parenti e amici, sui mobili, appese al frigorifero, sui caminetti, facevano bella mostra le fotografie di due bimbe. Piccolissime. Una di quattro anni, di nome Johanna, e una di tre anni, di nome Lucy Maria. Io giravo con le stesse foto dentro la tasca del cappotto, per stare più caldo. La Cate le teneva ritagliate a forma di cuore, nel portafoglio. Insomma, andiamo dagli Amici del Perù a sentire questa novità, che già lo sappiamo, che novità è, e ridiamo scioccamente e facciamo le battute per allentare la tensione, mentre guido piano, che la neve e il ghiaccio hanno trasformato le strade in una enorme pista da pattinaggio e abbiamo già visto due auto nel fosso. Una era del leopardo. E poi ci leggono la relazione, ci raccontano la storia di queste due bimbe, che sono brave, che mangiano tutto, con preferenza per i frijoles, i fagioli, che alla piccola, la Lucy, piace suonare lo xilofono, che la grande, la Johanna, ha le fossette quando sorride, che sono alte... non si capisce. Che pesano... non si capisce nemmeno quello. Una relazione che non si capisce niente. Si capisce solo che sono molto legate tra loro. Che ballano. Che sono vivaci. Che sono contente di andare a vivere con una mamma e un papà, anche se la Lucy è triste perché deve lasciare la “zia”, la signora che l’ha curata, e cullata e cresciuta, con Johanna, per circa un anno e mezzo (o forse due, non si capisce nemmeno questo). E che adesso si tratta di fare tutta una serie di documenti e di mandare un album fotografico e dei regali alle piccole, perché là, in Colombia, gli assistenti sociali e gli psicologi inizino a prepararle al nostro arrivo. E noi guardiamo queste foto, e abbiamo gli occhi lucidi, e ringraziamo, e poi guardiamo queste foto, e non ci sembra vero.

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Le nostre bambine. Le nostre figlie. Bellissime, eh? E di carattere forte, si vede. Guarda la piccola, la Lucy. Tutta seria, con le mani sui fianchi. Guarda che faccia. Questa a 15 anni ci caccia di casa a calci. E la grande? La Johanna? Con quel sorriso da monella che non le si può dire di no? Questa ci gira su un dito come un pupazzo. E allora tutti quegli anni passati a farsi interrogare, a fare continuamente dei documenti, e poi a rifarli, e ad arrabbiarsi, e a piangere, e a sperare, e a non sperare più, tutti quegli anni spariscono, quando guardi quelle foto. Vabbe’, proprio sparire sparire, no. Che se ripensi a certe persone, ti verrebbe voglia di aspettarle sotto casa. Come la giudice che ci ha chiamati al Tribunale dei Minori durante il nostro secondo tentativo, per dirci che quasi ci siamo, che stavolta pare proprio che il TOTO COPPIA lo abbiamo vinto noi, che nel giro di pochi giorni ci richiama, che insomma stiamo pronti, che ormai... Mai più sentita. Certe persone, dicevo, ti verrebbe voglia di aspettarle sotto casa e di lanciargli addosso la Lucy. I due mesi successivi sono una corsa di documenti, di esami medici, di certificati, di autorizzazioni, di firme, di controfirme, di bolli, di Tribunali, Questure, Anagrafi. Io però mi ricordo solo che abbiamo comprato le mutande per le bambine. Bianche, a pallini colorati. Piccolissime. Che mi chiedevo continuamente: Ma che culini hanno? E la Cate, con la sua incredibile rete di conoscenze, prepara la Colombia al nostro arrivo, e tramite Patricia, la nostra amica originaria di Bogotà, riusciamo a contattare una famiglia a Cali, la nostra città di destinazione, e un paio di famiglie (tra cui i genitori stessi di Patricia) a Bogotà, dove resteremo durante l’ultima parte del soggiorno, per completare le pratiche. Persone che ci aiuteranno durante questa avventura che, a pensarci bene, non sono mai stato così lontano da casa. E così a lungo. Che a noi Ortolani piace andare all’avventura, basta che siamo a casa per cena. E si cena alle sette e mezza. Partiamo domani da Milano Linate, poi Madrid, infine Cali, direttamente. I genitori di Caterina ci accompagneranno in un albergo vicino all’aeroporto, di modo che domattina siamo già là. Con il cellulare faccio delle foto a quello che si vede dalle finestre di

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casa nostra. Non so perché. In parte perché un po’ mi defeco addosso, al pensiero di quello che mi aspetta. In parte perché non so assolutamente cosa mi aspetta. Allora voglio portarmi queste foto inutili, per ricordarmi che prima la mia vita era diversa. E siccome è il 15 febbraio, fotografo solo strade e case coperte di neve e ghiaccio. Alberi spogli. Cielo grigio. Una vita all’insegna della gioia di vivere, insomma. Che io mi ricordi, non le ho più guardate. Prima di partire, metto in valigia il corso di spagnolo. Ammetto che non ho fatto grandi sforzi, per impararlo, perché la Cate lo parla già benissimo. Però so come si dice: «Vuole cenare con me, al ristorante?» facendo la voce da latin lover. Utilissimo, alla dogana. E poi sento che devo fare ancora un sacco di cose, che non mi basterà il tempo, che dovevo prepararmi meglio, che sta succedendo tutto così all’improvviso, che il 2001 era ieri, e che non si possono fare le cose in fretta, ho bisogno ancora di un po’ di tempo, di un mese, di qualche giorno, non può succedere adesso, non a me, non così, non... I passeggeri sono pregati di allacciare le cinture di sicurezza e di riportare lo schienale del sedile nella posizione eretta. Stiamo atterrando all’aeroporto di Cali. Grazie per avere viaggiato con noi.


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15 febbraio 2010 SI PARTE! Ciao! Se avete ricevuto questa e-mail, allora siete stati intrappolati in una lista di amici e parenti che riceveranno notizie assolutamente non richieste dalla Colombia. Quindi, chi vuole può dirmi «Scancellami dalla lista», che lo scancello subito. Manderò anche fotografie e pezzi di muro degli edifici più importanti. Chi non riuscisse a scaricare i pezzi di muro, me lo dica subito. Non vi manderò la coca. Lo so che tutti, quando vi dicevo che andavo in Colombia, era la prima cosa che mi chiedevate di portarvi. Voi fateci caso. Dite in giro che andate in Colombia e tutti vi diranno: «Portami della coca, eh?» Dai! Cerchiamo di uscire dagli stereotipi, per favore. Basta con queste battute. Già sono qui che devo andare via, lontano dalla mamma, dalla pizza e da tutte le cose belle che ci sono in Italia, perché andare all’estero? Se proprio avete bisogno di coca, posso consigliarvi la coca zero, che è meglio della light. AH! AH! AH! Simpaticissimo, come sempre! So già che non vi mancherò. L’umore è alto, la paura è tanta e le valigie NON sono ancora pronte. Un abbraccio a tutti, fate i bravi, non sporcate, non urlate, non correte. Mi sto già esercitando. ciaooo leo :)


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