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Attraverso i suoi occhi: oltre la cura, per la persona

Carlo Gambacorti-Passerini.

Quelle che scrivo qui sotto sono riflessioni molto personali e non dati oggettivi. Per uno scienziato come me staccarsi dall’obiettività di un dato non e’ facile, ma e’ necessario per comprendere problemi non risolvibili in provetta. Nella mia carriera ho accompagnato molte persone alla conclusione della loro esistenza terrena: per molti qualcosa di quasi naturale o comunque atteso, dopo una lunga esistenza. Per altri tutto l’opposto: la morte come furto di una esistenza appena iniziata, al momento in cui il bozzolo trasforma un bruco informe in una splendida crisalide; apparentemente contro natura, contro logica, contro tutto. Per ognuno di loro ho sempre avuto la percezione di una unicità: ognuno aveva vissuto in momenti diversi, in posti diversi, si era rapportato/a con persone diverse, era fisicamente diverso/a. Una unicità questa, che li ha accompagnati saldamente anche dopo la loro fine terrena. Ho spesso avuto contezza della loro presenza in posti dove le distrazioni del mondo sono sufficientemente schermate, di solito in montagna, in posti dove il rumore, la presenza umana sono ridotte al minimo o del tutto assenti. Qui sento una connessione: sento, non vedo o misuro. Ma so altrettanto bene quanto limitato sia cio’ che percepiamo e che possiamo quindi misurare. Il nostro occhio registra radiazioni con certe lunghezze d’onda, il nostro orecchio registra suoni con una determinata frequenza. Al di sopra e al di sotto per noi e’ il buio, l’assenza. Ma non e’ cosi’. Il buio, l’assenza sono manifestazioni di un mistero. L’esistenza di questa percezione e’ pero’ anche testimo-

ne di una relazione sicuramente più misurabile, e cioe’ del rapporto umano che si stabilisce (o non si stabilisce) con ogni paziente, teoricamente con ogni essere umano con cui entriamo in relazione. Questo fatto, chiaramente e inescusabilmente, dipende da ognuno di noi. A Medicina insegniamo ai nostri studenti ad operare in maniera obiettiva, a non lasciarsi condizionare dall’emotività, e questo e’ verissimo, soprattutto per le discipline chirurgiche o dove sono necessarie decisioni rapide, in acuto. Ma questo non vuol dire insegnare il cinismo, reprimere l’umanità che impregna qualsiasi rapporto medico paziente sano. Dobbiamo insegnare questo: l’equilibrio tra oggettività- imparzialità e sensibilità-compassione. Il medico non deve essere un tecnologo o un affarista, ma appunto un medico, con scienza bilanciata a coscienza, sensibilità e compassione. Solo cosi’ possiamo formare dei medici completi e orgogliosi del proprio ruolo nella società. Pero’ molti nostri colleghi questo purtroppo non lo fanno: si ricoprono di una impermeabilità totale al vissuto del paziente: per loro trattasi di un cliente, di un caso, di un soggetto di sperimentazione, di una fonte di guadagno, perfino di un potenziale elettore; tutto tranne che una persona. E’ possibile in questi casi sentire, percepire l’unicità delle persone, quella unicità che persiste anche dopo la loro morte, dopo il loro passare in un’altra dimensione ? NO ! Quindi in questo caso quale unicità avrà avuto anche la loro esistenza ? Forse avranno avuto posizioni prestigiose, fatui onori e medagie comprate soggiogandosi ai potenti di turno. Scivoleranno via nel tempo come l’acqua sui tetti, senza lasciar traccia, come se la loro esistenza fosse stata davvero senza scopo. Ma il mondo non e’ diviso cosi’ chiaramente, manicheamente. Spesso si infila in tutto cio’ la falsa compassione, quella usata, come dire, per altri scopi, politicamente direbbero alcuni. Questa falsa compassione e’ come una

giacca di misura sbagliata: la si puo’ anche indossare ma tira da tutte le parti, ricopre a stento la pancia tendendo allo spasimo tutti i bottoni, oppure arriva con le spalle ai gomiti; e’ forzata, artificiosa, finta. E poi questo atteggiamento, questa sensibilità o ce l’hai con tutti, perche’ fa parte di te, dei tuoi valori, oppure, se usata alla bisogna, non sa mai di vero.

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