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Posso tenere con me la mia gatta?
Stefania Spadoni
Questa è stata la prima domanda che ho rivolto al mio ematologo il pomeriggio del colloquio pre-trapianto. Posso tenere con me la mia gatta? Ero disperatamente sorda a ogni sua replica, seppur sensata. Stefania hai compreso cosa accadrà? Azzeriamo il tuo sistema immunitario. Ricovero, chemio, radio. E poi ti diamo il sangue di tua sorella. E non sarà una passeggiata. Sarà un percorso lungo. Dovrai avere pazienza. Vita, dolore, speranza, cure, morte, cibo, visite, isolamento, rischio, cambi… Ok va bene ma quando torno a casa, posso tenere con me la mia gatta? E` un pensiero stupido lo so, un po’ come la prima volta che un medico ti guarda negli occhi e con tutta la disciplina che conosce ti comunica che dovrai iniziare un protocollo chemioterapico perché hai il cancro e tu lo guardi basita e la prima stupida cosa che ti esce dalla gola è: perderò i capelli? Chi se ne frega direbbe chi il cancro non ce l’ha. Chi se ne frega lo dico anche io adesso che col cancro ho convissuto per cinque anni e che ora lo guardo allontanarsi ma lo temo sempre. Ma sapete è come quando una bomba esplode e tu ti copri la faccia nel disperato tentativo di proteggerti? Azioni inutili? Domande inutili? Richieste futili? Forse, chi lo sa. Intanto sotto quella bomba ci sono io e, a me, il pensiero della morbidezza di quell’esserino peloso e pieno di germi faceva stare bene. Uno a zero per il mio gatto. E` una partita irreale quella dei sentimenti che metti in campo durante una crisi. Eppure esiste e conta tanto quanto la terapia giusta, il farmaco giusto, il tempismo giusto, il donatore giusto.
Più importante, meno importante, stiamo davvero ancora considerando questa scala di valori? Ve lo dico onestamente guardandovi negli occhi. Noi pazienti ce ne fottiamo delle scale. Abbiamo bisogno di vivere al meglio anche quando stiamo peggio. E credetemi se mollo io mollate anche voi. Io mi chiamo Stefania e ho 35 anni. Quando mi sono ammalata ne avevo 28. Linfoma di H, chemio resistente. Ho passato tanto tempo in ospedale e a casa altrettanto, chemio, terapie sperimentali, due trapianti, e poi ancora terapie per salvarmi dal trapianto stesso. Sono stata fortunata però perché ho trovato medici eccellenti, ospedali all’avanguardia, e ho avuto accesso a protocolli innovativi e super ristretti, ho avuto fortuna perché ho trovato subito il mio donatore e la conoscevo da quando era nata e io avevo solo 5 anni. Sono stata fortunata perché non mi è mai mancato nulla. Supporto medico e psicologico, ma soprattutto amore e progettualità. Amici, famiglia, la mia gatta e la possibilità di fare sempre nei limiti del consentito esperienze che mi hanno permesso di guardare oltre la mia malattia, di sentirmi altro rispetto alla mia malattia e se ciò non bastasse di usare la mia malattia per diventare altro e costruire altro. Perché quando ti ammali non sei solo un numero incasellato in delle statistiche, sei una persona, con tutti i suoi bisogni che rimangono, anzi a volte urlano, necessitano spazio. Negarli, nel limite del possibile è a mio parere non idoneo alla terapia, al percorso di cura, alla guarigione. Aggiungere invece che sottrarre. Fare spazio. Curare a 360 gradi. Credere che la scienza è la base solida che permette di poter continuare a vivere. A vivere appunto. Vita, fatta di tutto quello che la vita è. Imparare a sopravvivere e uso questo termine non a caso, sopravvivere alla malattia e a volte addirittura imparare a conviverci, anche per sempre. Ci sono malattie che fanno parte della vita delle
persone per sempre. Ecco perché lo sguardo deve essere globale. Il benessere deve essere raggiunto unendo tutti i puntini che fanno parte del percorso umano. Quindi grazie a chiunque sviluppi progetti paralleli alla scienza e alla ricerca, progetti che facciano amare la vita per quello che è, che aiutino ad accettare le difficoltà o semplicemente spostino il pensiero altrove quando rimanere lì è troppo. Una Visione laterale del pensiero di cura La cura oggi è più intelligente più sofisticata più umana e ogni passo verso quest’umanizzazione è un passo gigante per la storia della medicina.
Seconda parte