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La vittoria del cavaliere dipende dal benessere e dalla felicità del cavallo

Mauro Checcoli

Per chiarire il significato del titolo del mio intervento, ecco due storie vere, accadutemi ad anni di distanza, ma quando ancora ero in piena attività agonistica. 1972, anno delle Olimpiadi di Monaco, Fabio Mangilli, friulano e mio grande Maestro fin dal 1960, era pieno di acciacchi e aveva lasciato la squadra di completo al suo conterraneo Lucio Manzin. La squadra era composta da molti giovani promettenti, ma che non soddisfacevano pienamente Mangilli, Consigliere del Completo, che mi chiese di unirmi al gruppo in allenamento, ultimo arrivato. Naturalmente accettai, nonostante fossi già sposato, con una figlia e laureato da poco con ambizioni professionali. A Mangilli non potevo dire di no, certo, e così mi presentai ai Pratoni del Vivaro, dopo aver trovato casa a Velletri. Lucio Manzin mi assegnò due cavalli che, in un modo o nell’altro, riteneva poco utili: l’irlandese grigio Sligo e il baio, purosangue argentino, Rosario. Erano due bellissimi soggetti, io ne ero molto contento e appena arrivato in scuderia, mi accinsi a provare Rosario, che aveva una bella origine perché era stato comprato giovane da Graziano Mancinelli in Argentina, al ritorno dal Cile dove era andato per i Mondiali. Poi, non so perché, Graziano lo mandò ai Pratoni per la squadra di Completo, dove era stato montato per un poco da vari cavalieri. In scuderia mi portarono grande rispetto e mi prepararono il cavallo. Non ci feci caso, lì per lì; poi notai che, mentre scendevo in sella verso i prati di allenamento, alla spicciolata e alla chetichella vari personaggi delle scuderie mi seguirono da lontano. Di nuovo non ci feci caso e mi avviai all’allenamento. All’inizio sentii Rosario un poco teso, contratto; poi piano piano, mentre chiacchieravo con lui, lo accarezzavo. Così si tranquillizzò, rilassandosi. Feci un bel lavoro di

allenamento, calmo ma intenso e Rosario fu collaborativo anche se, ogni tanto, lo sentivo preoccupato e contratto. Bastava una carezza e riprendeva attento. Finito il lavoro tornai in scuderia dove mi aspettava Manzin e qualcun altro e la cosa finì lì. Più tardi, però, chiesi al caro Albino Garbari, grande uomo di cavalli, istruttore e capo della scuderia Olimpica: “Albino, perché la gente veniva dietro a me e Rosario?”. E lui: “Niente, niente...” Allora, incuriosito, insistetti e cedette raccontandomi la storia di Rosario, che aveva preso un vizio davvero brutto. Una volta arrivato giù ai campi di allenamento, dopo pochi minuti, si girava verso la scuderia e partiva pancia a terra, incurante del cavaliere! Anzi, più di una volta, era entrato al galoppo in scuderia: un vero rischio di far male a sé e all’uomo. Così, ultimamente, avevano smesso di allenarlo e faceva solo passeggiate e brucate di erba. Allora Albino mi chiese: “Ma tu, come hai fatto per averlo così tranquillo e collaborativo?”. “Niente!” risposi ed era vero. Ma quel niente, in realtà, era fatto di tante piccole azioni e gesti di rispetto e attenzione verso Rosario, frutto dell’amore che dobbiamo agli animali da un lato, e dall’altro degli insegnamenti di quel grande Maestro che era il Marchese Mangilli. Infatti lui mi aveva cambiato completamente da come ero prima di conoscerlo, insegnandomi che i cavalli ci capiscono immediatamente, ci pesano, ci misurano, da come ci muoviamo, come li tocchiamo e, soprattutto, come imponiamo il nostro corpo sulla loro schiena, come teniamo e usiamo le redini; come comunichiamo con loro, attraverso il corpo e le mani. Rosario in pochi secondi aveva capito che poteva fidarsi di me dalla gentilezza che il mio corpo gli aveva trasmesso. Istantaneamente mi aveva accettato e, in pochi mesi, è diventato un vincitore, felice di esserlo e di condividere le vittorie con il “suo” umano, qualificandosi per le Olimpiadi.

Altra storia incredibile: dieci anni dopo, con una figlia in più, nel 1982. Da un po’ di anni non facevo gare, preso dalla vita e dal lavoro. Ricevo una mattina una telefonata da un amico, il Generale Honorati, responsabile per la F.I.S.E. delle Scuole di Equitazione. “Mauro, succede un fatto molto brutto: un bel puledro di cinque anni della Federazione sta andando al mercato di Modena per essere venduto e fare una brutta fine. Lo faccio fermare a Bologna, tu per piacere guardalo bene: dicono che sia diventato cieco, ma così giovane mi pare impossibile. Sappimi dire.” Vado a vedere il puledro: davvero un bel baio, di nome Eremita, allevato in Maremma da un amico, Mario Mencarelli. Lo guardo e lui mi guarda, con i suoi grandi occhi curiosi. Penso che i ciechi non guardino e che i conti non tornino. Telefono ad Honorati e gli dico: “Per me non può essere cieco, ci stai a comprarlo, metà per uno?” Così comprammo Eremita per poche lire, per pura simpatia istintiva, e lo mettemmo in un box. La mattina seguente lo sellai e lo montai con gli stessi sentimenti di dieci anni prima per Rosario, espressi da parole gentili e carezze. Ma, soprattutto, lo montai con il rispetto e l’attenzione che sono dovuti a tutti gli animali, in particolare ad un puledro di classe e personalità. Con garbo e gentilezza lo scavalcai e mi inforcai su di lui come Mangilli mi aveva insegnato: come se fosse una creatura fragile e delicata. Eremita fu perfetto: passo, trotto, galoppo senza mai un’incertezza. Allora provai un salto: perfetto! Un cavallo cieco non salta... Allora provai una serie di salti senza che ne sfiorasse neppure uno. Insomma, Eremita non era cieco e dopo tre mesi mi fece vincere il Criterium dei cinque anni di Completo. Semplicemente, aveva pensato, da essere intelligente, che se avesse finto di non vedere gli ostacoli abbattendoli al suolo, forse lo avrebbero lasciato in pace! Non aveva purtroppo calcolato che lo avrebbero messo da parte ma portandolo al mercato delle carni... Così Eremita fece molti anni di gare con tanti giovani cava-

lieri che non seppero mai di montare un cavallo “cieco”! A me Eremita fece un grande regalo: al Criterium era giudice Fabio Mangilli. Vide che, nonostante avessi quarant’anni e da tanto lontano dalle gare, ero ancora efficiente e mi propose di ritornare nella Squadra Olimpica di Completo. Grazie a lui ed Eremita, così partecipai alla mia ultima Olimpiade. Per concludere: i cavalli di gran classe e di forte personalità devono essere riconosciuti e trattati come tali, altrimenti preferiscono piuttosto correre rischi mortali. Se noi sapremo comportarci, come è giusto, con loro, ci ripagheranno in abbondanza, felici di farlo e di sentirsi vincitori insieme a noi.

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