Codice Lo Cascio - il metodo efficace che unisce scienza e cucina

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CODICE

LO CASCIO

il metodo efficace che unisce scienza e cucina

Gianfranco Lo Cascio Rossella Gallotta Neiadin


Gianfranco Lo Cascio Rossella Gallotta Neiadin

Codice Lo Cascio

Il metodo efficace che unisce scienza e cucina Immagine di copertina Rossella Gallotta Neiadin Autori dei testi Gianfranco Lo Cascio Rossella Gallotta Neiadin Fonti A. Brown, Understanding Food, Principles and Preparation, Wadsworth Cengage Learning, 2011 N. Myhrvold, C. Young, M. Bilet, Modernist Cuisine (vol I, II, III, IV, V, VI, At Home), The Cooking Lab, 2011-2012 H. McGee, On food and cooking, the science and lore of the kitchen, Scribner, 2004 G. Crosby PH.D, The Science of Good Cooking, Cooks Illustrated, 2012 K. L. Alt, The Food Lab: Better Home Cooking Through Science, W. W. Norton & Company, 2015 Meathead, Ph.D. G. Blonder, The Science of Great Barbecue and Grilling, Houghton Mifflin Harcourt, 2017 D.Bressanini, La scienza della pasticceria, la chimica del bignè, Gribaudo, 2014 Revisione Nunzia Clemente Copertina e impaginazione Carlo Trono Fotografie Rossella Gallotta Neiadin

le fotografie a pagina 116, 183, 232, 235, 236, 256, 273, 274, 316, 318 sono su licenza Adobe Stock

Illustrazioni Eleonora Castagna La ricetta del pane a pagina 272 è di Alessandro Trezzi L'approfondimento a pagina 346 è di Virgilio Brunetti Stampa Grafiche Antiga SPA Finito di stampare Ottobre 2021 2

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Codice LoCascio è un prodotto in concessione a Netaddiction S.r.l. Copyright 2021

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Ve lo confesso, mi piace navigare in acque difficili. Da anni ormai mi sono buttato anima e corpo nella ricerca della perfezione in ogni aspetto della cucina, ho avuto delle convinzioni, sono cambiate, ho studiato, cercato e ricercato, ho viaggiato per conoscere culture gastronomiche diverse dalla nostra, ho provato ad applicarne i principi e replicarli fondendoli tra di loro. Tutto questo per amor di scienza e conoscenza. È inutile negare, però, che provo sempre un sottile piacere di fondo quando vado a minare alla base le incrollabili certezze dei gastrotalebani, quelli che si indignano per qualsiasi cosa, dal Parmigiano nella carbonara alla panna nel tiramisù, e che hanno un colpo apoplettico se appena appena si osa mettere in discussione i metodi di cottura delle loro nonne. Ogni tanto, per stanarli, lancio appositamente nella BBQ4All Community (su Facebook) delle provocazioni di cui si accorgerebbero anche Polifemo e il suo unico occhio. Ma niente da fare, i gastrotalebani medi ci cascano sempre. Sempre. 4

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Grazie a questo mio amore per il periglio, ho affrontato una a una molte delle incrollabili credenze popolari sul cibo, ho preso di mira i capisaldi della cucina italiana e mi sono divertito a guardare annaspare i tradizionalisti nello zabaione salato della Carbonara scientifica, quelli che sono rimasti scottati cinque minuti per lato e quindici in piedi di fronte al Revit sulla Fiorentina, e quelli che hanno urlato all'alto tradimento quando ho dichiarato che la cottura migliore del risotto è quella per assorbimento. Sono state esaltanti le lotte intellettuali che ho dovuto affrontare in questi anni. Ci ho messo un decennio a scalfire i luoghi comuni radicati nella testa delle persone per cercare di portarle ad un livello maggiore di consapevolezza. Sono stato bersagliato e apostrofato con ogni epiteto possibile: egocentrico, presuntuoso e compagnia bella. Ma alla fine cosa ho fatto in tutto questo tempo? Ho semplicemente dimostrato che ognuno di noi può trarre benefici di grandissimo valore semplicemente sostituendo il giudizio al pregiudizio. INTRODUZIONE

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Indice Prefazione Introduzione

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CAPITOLO UNO

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Aglio, olio e peperoncino Pasta al pomodoro Pesto di basilico Le arancine Pasta con la genovese Spaghetti all'assassina Risotto al Parmigiano CAPITOLO DUE

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Il ragù Braciola di maiale con patate arrosto Cotechino con lenticchie e purè Lo spezzatino Guancia brasata CAPITOLO TRE

Cacio e pepe Spaghetti alla gricia Mac and Cheese Nacho Cheese Sauce

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92 104 112 126 142 G

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CAPITOLO QUATTRO

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W I C H B U R G E

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Carbonara Omelette Frittata di patate

CAPITOLO CINQUE

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Insalata di riso Tabulè CAPITOLO SEI

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Katsu sando Cuban sandwich GLCheeseburger

Besciamella e croquetas de jamón Guacamole Ketchup

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246 260 270 284

Club sandwich

CAPITOLO SETTE

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INTRODUZIONE Quante volte avrete mangiato una carbonara in vita vostra? Scommetto tantissime. A volte era cremosa, a volte no. A volte sapeva di pollaio, altre di uova strapazzate. Quante volte avete cercato “i trucchi” per fare una carbonara perfetta? Se state leggendo queste pagine vuol dire che amate cucinare, quindi scommetto che lo avete fatto tante volte. Chi sbatte le uova col formaggio, chi senza. Chi mette il sale, chi no. Chi usa l’acqua della pasta per mantecare. Chi la fa mantecare prima col grasso e il formaggio e poi aggiunge le uova fuori dal fuoco. Insomma, ognuno cerca di dare i propri consigli e ognuno pensa di avere la verità in tasca. In questo libro non vi dirò quali sono i trucchi per una carbonara perfetta. Vi spiegherò invece quali sono le reazioni che avvengono nelle uova col calore, alle diverse temperature. Capirete perché quella volta sapeva di pollaio e quell’altra di uovo strapazzato. Comprendere i processi vi aiuterà a trasportare la conoscenza verso la perfezione. Saprete a quale temperatura l’uovo si mostra nella sua espressione migliore, quando fonde il formaggio, perché a volte fila e altre volte no. Conoscerete ogni aspetto, ogni reazione e, applicando il metodo pedissequamente, otterrete un piatto perfetto. Si potrà rifare uguale ma non migliore, semplicemente perché la scienza deve essere replicabile. Codice Lo Cascio è un libro che vi aiuterà ad analizzare ogni ricetta in modo oggettivo, a rimettere tutto in discussione sfidando i pregiudizi e ad applicare quei micro-processi che la scienza ha messo a beneficio della gastronomia, per migliorare la resa del piatto stesso. Non è solo una raccolta di ricette, ma la trascrizione di un metodo che insegna a legare il pensiero scientifico alla cucina. Questo libro è apparentemente un ricettario che uso come pretesto per illustrare processi fisici e chimici che indissolubilmente si legano alla realizzazione di un piatto. 10

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Ciò che davvero è importante cogliere è l’astrazione del concetto perché lo stesso può essere applicato in tantissime preparazioni. Tanto per dirne una, apprendere i processi che stanno alla base della gelificazione degli amidi ci permetterà di cuocere una pasta in maniera impeccabile ma anche di ispessire una minestra o addensare una salsa con ciò che rimane da una cottura in padella o in forno. «Divide et impera» (Dividi e domina) è il fil rouge che accompagna ogni rivisitazione dei piatti di questo libro. La filosofia dietro ogni pietanza è quella di scomporla in singole preparazioni, applicare i principi fisici e chimici per fare esprimere al meglio ogni segmento, e infine rimontarlo insieme equalizzando le note gastronomiche. Non consideratelo un libro di ricette quindi, ma un vero e proprio libretto di istruzioni per creare i vostri piatti e farli esprimere al massimo delle loro possibilità. Iniziate subito ad esplorarlo. Imparate prima e divertitevi poi. Lanciatevi nelle preparazioni, raccogliete le espressioni, le sfumature e poi esercitatevi nella pratica. Applicatevi con dedizione, senza fretta. Acquisite prima il metodo; avrete poi tempo per trovare le scorciatoie. Misurando, ad esempio, la temperatura dell’uovo col termometro e fermando la cottura in un determinato punto apprenderete, col tempo, qual è la consistenza che si raggiunge a determinati gradi centigradi. E da quel momento in poi potrete fare a meno dello strumento di misurazione, non perché avrete fatto pratica ma perché saprete esattamente in quale stato fisico e chimico si trova l’uovo a quella data temperatura. Non è straordinario? Immaginate di applicare principi diversi a ingredienti diversi per poi farne un piatto. L’approccio alla preparazione cambia completamente, le conoscenze che si possono acquisire tramite questo compendio ti consegnano la chiave del codice, che ti permetterà nel tempo di creare le tue versioni scientifiche dei piatti proposti e di molti altri. Troverai tanti spunti interessanti che cambieranno, per sempre e in meglio, il tuo legame con la cucina.

Gianfranco Lo Cascio I NTRODUZIONE

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PASTA E RISO

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1.1 – AGLIO, OLIO E PEPERONCINO Quando ho iniziato il mio percorso di rivoluzionario gastronomico, mi pareva cosa buona giusta affrontare per prima una ricetta intoccabile del panorama culinario italiano: la pasta aglio, olio e peperoncino. Allacciatevi le cinture perché il viaggio inizierà con una serie di scossoni e non esistono uscite di sicurezza. Da quanto esiste l'aglio, olio e peperoncino? Probabilmente è antica quanto le botte con il cucchiaio di legno della mamma e il fastidio dei pranzi con i suoceri. Eppure, se fate un giro su Google, il 90% delle ricette effettuate dai naviganti non sono poi così diverse fra di loro. E praticamente tutte mancano di un dettaglio fondamentale che fa tutta la differenza del mondo. Gli italiani sono ossessionati dalla pasta. E tutti (o quasi) adorano che cosa? I sughi. I condimenti. Fermo restando che una pasta in bianco si mangia volentieri, lo standard è aggiungere una salsa e rendere la pasta cremosa. Ora, l’aglio, olio e peperoncino è una pasta condita con un sugo? La risposta è no. L’aglio, olio e peperoncino è condita con un olio aromatizzato, non con una salsa. “Eh, ma la mia è cremosa!” Sì, ci credo. Ma è cremosa perché la vai a mantecare con l’acqua di cottura che crea una salsina e gelatinizza l’amido. La base del condimento resta un olio aromatizzato, non un intingolo. Partendo dall’assunto che voglio mangiare gli spaghetti aglio, olio e peperoncino, perché non creare un sugo a base di aglio, olio e peperoncino? Bene. Facciamolo, allora. AVVERTENZA #01. Il risultato è un piatto che crea dipendenza e dal quale non si torna indietro. Sapete che quando dico questa frase non scherzo nemmeno un po’. Imparata questa, non mangerete mai più aglio e olio da nessuna parte, ristoranti compresi, per il resto della vostra vita. Come per le bistecche, avete presente? Uguale. State ancora leggendo? Non vi siete ancora lanciati dal finestrino col paracadute? Bene. Per voi c'è speranza. AVVERTENZA #02. Avete presente la ricetta della vostra aglio, olio e peperoncino? Ecco, cancellatela e fate spazio per quella nuova. Rimettete in discussione ogni certezza e fidatevi di me. AVVERTENZA #03. Siete della religione aglio ma non troppo o solo uno spicchio o in camicia e poi lo tolgo, insomma dei choosy dell’aroma aglioso? Questa ricetta non fa per voi, e non si può cambiare o modificare. Non verrebbe bene, quindi evitate di continuare nella lettura. Ci siamo. Per prima cosa gli ingredienti: serve una mezza testa d’aglio e mezzo bicchiere d’olio extravergine di oliva A PERSONA. Siamo in 2? 1 testa d’aglio e 1 bicchiere d’olio. Siamo in 4? 2 teste d’aglio e 2 bicchieri d’olio. Siamo in 6? 3 teste d’aglio e 3 bicchieri d’olio. PASTA E RISO

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Emulsione

L'emulsione è una miscela temporaneamente stabile di due fluidi immiscibili, una delle quali (chiamata fase dispersa) è dispersa nell'altra (la cosidetta fase disperdente) sotto forma di goccioline. Qualche esempio di emulsione molto comuni: olio sospeso in acqua o fase acquosa, oppure acqua sospesa in olio. Tali fasi sono stabilizzate da un film interfacciale di tensioattivo o di polimero idrofilo intorno alle goccioline disperse Emulsioni alimentari che non vi aspettavate essere tali: il latte e il burro (stabilizzati dalle proteine) e moltissime salse, come la maionese (stabilizzata dalle lecitine dell'uovo).

E così via. Adesso passiamo al procedimento. Pelate tutti gli spicchi e metteteli in un tegame piccolo dai bordi alti. Esatto, non in padella. Buttate dentro l’olio e la quantità di peperoncino che vi piace. Mettete sul fornello a temperatura bassissima e lasciate che l’aglio si ammorbidisca senza mai soffriggere. Se inizia a soffriggere spegnete il fuoco. Se avete un termometro a sonda, stabilizzate l’olio a 65°C. Si va avanti finché è necessario. L’obiettivo è “sgonfiare” gli spicchi d’aglio e renderli così teneri da poter essere frullati. Mettete su la pentola con l’acqua, buttate la pasta e quando siete a metà cottura fate questa operazione: ponete l’aglio e l’olio nel bicchiere del mixer e aggiungete tanta acqua di cottura quanto olio usato all’inizio. Avete usato 1 bicchiere d’olio? Allora 1 bicchiere di acqua di cottura della pasta. Avete usato 2 bicchieri d’olio? Allora 2 bicchieri di acqua di cottura della pasta. Poi dovete fare una cosa importantissima. Occhio che questa operazione fa la differenza. Dovete aggiungere un cucchiaino di succo di limone per ogni bicchiere d’olio che avete usato. Avete usato 1 bicchiere d’olio? Allora 1 cucchiaino di succo di limone. Avete usato 2 bicchieri d’olio? Allora 2 cucchiaini di succo di limone.

Allicina

A questo punto aggiungete un po’ di sale. Per dare un minimo di sapidità e per aiutare il processo di emulsione. Mettetelo adesso altrimenti rischiate di strappare il composto e l'emulsione non si forma. Emulsionate -aggiungendo l'acqua poco alla volta- fino ad ottenere una salsa liscia e vellutata dal colore bianco/giallognolo. Come per la maionese, avete presente? Abbiamo appena ottenuto un'emulsione stabilizzata di acqua e olio. La pasta d'aglio è un eccellente stabilizzante delle emulsioni. Come le lecitine dell'uovo. Solo che sono in pochi a saperlo. Perché l'aglio e olio scientifica è molto più leggera e digeribile di quella tradizionale? Perché l'aglio contiene alliina, una molecola che ha dentro dello zolfo. Quando la struttura si rompe, grazie ad un enzima chiamato alliinasi, l'alliina si trasforma in allicina, un complesso sulforganico che dà all'aglio il tipico profumo pungente. In uno spicchio integro, l'alliinasi è confinato in sacche (vacuoli) nella cellula, mentre l’alliina fluttua liberamente nel citoplasma. Frantumando e sminuzzando il bulbo di aglio, queste sostanze vengono in contatto e producono l’allicina, che ha quel distinguibile odore sferzante ed intenso. Imparato questo, vi è senz’altro chiaro il motivo per cui tagliare uno spicchio e rimuovere il germe per rendere l'aglio più digeribile è una cavolata galattica e di proporzioni bibliche, che però non ne vuole sapere di sparire dalla testa degli italiani . Eliminando “l’anima” (letteralmente, l'avrete appena veduta al demonio), inizierete ad innescare la reazione che genera l'enzima colpevole della fuga di Dracula.

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Allina

Amminoacido non proteinogeno e solfossido naturale. È contenuto nell'aglio fresco.

L'allicina è un composto solforganico che si ottiene facilmente dall'aglio. Si trova sotto forma liquida con l'odore pungente e caratterizzante dell'aglio e simili, caratteristica di molti composti solforati come tio-alcoli, -esteri -eteri e derivati di basso peso molecolare. L'allicina fa parte dei vari meccanismi di difesa dell'aglio quando è potenzialmente esposto a pericoli, come i parassiti.


Salsa all'aglio

Ingredienti per 4 persone: 2 teste di aglio 2 bicchieri di olio 2 bicchieri dell'acqua di cottura della pasta 2 cucchiaini di succo di limone peperoncino q.b. sale q.b. Procedimento: 01. Pelate gli spicchi d'aglio mantenendoli interi; 02. Poneteli in oliocottura stabilizzando a 65°C insieme al peperoncino, finché gli spicchi non diventano morbidi; 03. Aggiungete parte dell'acqua di cottura, il sale e il limone; 04. Emulsionate con un mixer aggiungendo la restante acqua poco alla volta fino ad ottenere una salsa liscia e vellutata dal colore bianco/giallognolo.

Ci stai dicendo che tutte le mamme, le nonne e gli chef che dicono di rimuovere il germe per rendere l'aglio più leggero e digeribile hanno sempre detto una castroneria? Sì, proprio così. Ho una buona notizia per voi, però: ad alte temperature, l'alliinasi si disattiva e non è in grado di produrre allicina. Produce invece disolfuro di allile, il composto che ha il confortante odore di "aglio cotto”, per niente aggressivo e più dolciastro. Quindi se vi dico di cuocere l'aglio intero e di non tagliarlo per rimuovere il germe, voi fatelo. Nel frattempo avrete tritato un prato di prezzemolo, con tutti i gambi (non buttate i gambi o vi taglio le mani). Tritateli insieme alle foglie, è lì che si trova il sapore. Scolate la pasta, meglio se spaghettoni, riservate l’acqua di cottura e saltatela in padella con la salsa di aglio e il prezzemolo. Mantecatela bene, aggiungete acqua di cottura se serve e impiattatela. Sormontate con il Parmigiano, se vi piace, direttamente nel piatto. Sarà la pasta aglio, olio e peperoncino migliore della vostra vita. Ma non saprà troppo di aglio? La risposta è NO. Sarà molto ma molto più delicata di una aglio e olio tradizionale. Questa salsa potrà diventare la base soprattutto per gli spaghetti alle vongole. Vedrete la gente impazzire e rotolare nella vostra sala da pranzo per quanto è buona. Mettete le vongole in una padella, lasciate che si aprano e sfumate con un goccio di vino bianco. Per il resto è tutto identico. Provatela. Picchierete la testa sul tavolo dalla libidine. E al diavolo (senz’anima dell’aglio) la tradizione. PASTA E RISO

Allinasi

La alliina liasi (o alliinasi) è un enzima appartenente alla classe delle liasi presente nelle piante del genere Allium, come l'aglio e la cipolla. La alliina liasi è responsabile della catalisi delle reazioni chimiche implicate nella produzione dei composti volatili che conferiscono a questi alimenti i caratteristici aromi, odori e proprietà lacrimogene Quando il bulbo è rotto, spezzettato o pestato l'alliina viene rilasciata ed interagisce con l'enzima presente nei vacuoli cellulari adiacenti. Il contatto tra alliina e alliinasi porta alla formazione per idrolisi di intermedi reattivi (acidi solfenici come l'acido allilsolfenico), che si autocondensano velocemente a formare vari tiosulfonati, dei quali mediamente l'allicina rappresenta il 70%

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“È indispensabile che tutti gli esseri e tutti i popoli saggi della terra capiscano che pane e pomodoro è un paesaggio fondamentale dell'alimentazione umana. Piatto peccaminoso per eccellenza perché comprende e semplifica il peccato rendendolo accessibile a chiunque.” MANUEL VÁZQUEZ MONTALBÁN Ricette immorali, 1988 19


1.2 – PASTA AL POMODORO Quante versioni di pasta al pomodoro esistono? Centinaia, migliaia forse. Tutti i Paesi, i distretti, i condomíni hanno una loro versione. La guerra dei pianerottoli tra chi la fa meglio inizia di domenica con le zaffate arroganti di pomodoro e basilico che, affamate d’aria, scappano via dai balconi. La mia pasta al pomodoro scientifica non vuole scuotere la sequoia dei ricordi a cui vivete abbracciati, ma è un pretesto per concentrare il gusto del pomodoro che, oltre a conferire un’importante impronta aromatica, riesce a dipingere sfumature di rosso molto intense. A volte. Questo apporto cromatico potrebbe, infatti, non bastare. Ho deciso quindi di inserire tra gli ingredienti della pasta il colorante in gel (o pasta), di quelli che si usano generalmente in pasticceria per colorare la pasta di zucchero o la ghiaccia reale. Il mio intento è quello di fondere i due elementi, la pasta e il pomodoro, non di destrutturare, fabbricando una vera e propria granata umami. Perché accontentarsi di una pasta al pomodoro quando si può preparare una pasta DI pomodoro? Il POMODORO NELLA STORIA Parliamo dell’emblema dell’italianità, del frutto (sembra strano, ma botanicamente è considerato tale) che trascende le distinzioni regionali e sociali, uno degli alimenti più diffusi in tutto il mondo: basti pensare alla pizza, alla pasta, ai sughi, alla caprese e così via. Il suo ingresso nella cucina italiana è stato tardivo e faticoso: giunse in Spagna dalle Americhe ad inizio del ‘500, ma non ebbe un gran successo. Forse proprio perché era una pianta radicalmente nuova, che colpiva ma anche sconcertava per la forma e per il colore rosso acceso. Veniva considerata velenosa in quanto presentava affinità con specie tossiche come l’erba morella e la mandragola. I primi pomodori erano presumibilmente piuttosto piccoli, tanto è vero che venivano scambiati per grosse ciliegie; alcune specie erano gialle e per questo, sembra, gli italiani li battezzarono pomi d’oro (mela d’oro, pomodoro). “Al mio gusto è più presto bello che buono”, dichiarò un medico modenese dell’epoca. L’Italia fu il primo Paese europeo, dopo la Spagna, a conoscere questo frutto, grazie agli stretti rapporti esistenti tra i Borbone e le famiglie regnanti dell’epoca, e ai domini spagnoli su territorio italiano. Ma la sua diffusione nel nostro Paese fu tuttavia assai lenta: la diffidenza iniziale verso il nuovo frutto, non associabile a nessun cibo già conosciuto, ne mortificò a lungo le potenzialità gastronomiche.

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Furono le classi popolari che cominciarono a degustarlo per prime, friggendolo nell’olio con sale e pepe, allo stesso modo delle melanzane e dei funghi. Sulle tavole dei ricchi, ancora alla meta del ‘600, il pomodoro compariva soltanto come elemento di decoro. Solo alla fine del Seicento riemerge nell’alta cucina grazie al ricettario napoletano Lo scalco alla moderna di Antonio Latini ((cuoco e gastronomo italiano, 1642-1696), nel quale troviamo la “salsa di pomodoro”. Questa diffusione è facilitata dal fatto che il suo utilizzo come salsa di accompagnamento rientra nella modalità d’uso che in un certo senso favoriva l’accettazione del nuovo prodotto, riconducendolo ad una tradizione gastronomica consolidata, quella antica, medievale, rinascimentale. Anche per questo il pomodoro trova piena accoglienza nella cucina italiana del Settecento e dell'Ottocento: il toscano Panunto, il romano Leonardi e il napoletano Vincenzo Corrado lo includono ormai senza remore nei loro ricettari. Troviamo le prime testimonianze di associazione con la pastasciutta e con la pizza nel Cuoco maceratese del 1779 di Antonio Nebbia e poi in Cucina casereccia pubblicato nel 1839 da Ippolito Cavalcanti. Il matrimonio con la pasta, avvenuto dunque nell’Ottocento, segna il trionfo del pomodoro dopo tre secoli dal suo arrivo in Europa: la versione moderna della salsa e dei suoi usi ci è data da Pellegrino Artusi nel 1891. BIOLOGIA DEL POMODORO (Lycopersicon esculentum) Secoli e secoli fa, i pomodori spuntavano come piccole bacche amare sui cespugli nei deserti della costa occidentale del Sud America. Oggi, dopo la loro domesticazione in Messico (il loro nome deriva dal termine azteco per "frutto carnoso", tomatl) e un periodo di sospetto europeo durato fino al XIX secolo, vengono divorati in tutto il mondo in una grande varietà di dimensioni, forme e colori screziati di carotenoidi. A cosa dobbiamo il loro grande fascino? E perché questi frutti agrodolci vengono trattati come una verdura? Le risposte risiedono senz’altro nel loro sapore unico. Oltre ad un contenuto di zucchero relativamente basso per un frutto (3%), simile a quello di cavoli e cavoletti di Bruxelles, i pomodori maturi racchiudono una quantità insolitamente grande di acido glutammico salato (fino allo 0,3% del loro peso), così come composti aromatici di zolfo. L'acido glutammico e gli aromi di zolfo sono più comuni nelle carni che nella frutta, e questa caratteristica li predispone a completare il sapore delle proteine, o a sostituire quel sapore, e certamente ad aggiungere profondità e complessità a salse e altre preparazioni miste. Questo potrebbe anche essere il motivo per cui, a differenza di molti frutti che da marci hanno un piacevole odore di fermentazione, i pomodori deteriorati puzzano da morire. Ad ogni modo, i pomodori sono un alimento buono e giusto, un super cibo da assumere più volte alla settimana. Sono ricchi di vitamina C e le varietà rosse standard forniscono un'eccellente dose di licopene, un carotenoide antiossidante che è presente in dosi massicce nel concentrato che compriamo in tubetto. PASTA E RISO

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ANATOMIA E SAPORE DEL POMODORO A parte le varietà a pasta relativamente secca, la maggior parte dei pomodori ha quattro diversi tipi di tessuto: una cuticola (o pelle) sottile e dura che a volte viene rimossa, la parete esterna del frutto, il nucleo centrale e una gelatina semiliquida che racchiude il succo, che a sua volta circonda i semi. Il tessuto della parete del pomodoro contiene la maggior parte degli zuccheri e degli aminoacidi, mentre la concentrazione di acido nella gelatina e nel succo è doppia rispetto a quella della parte esterna. La frazione maggiore dei composti dell'aroma si trova, invece, nella cuticola e nella parete. Il sapore di una fetta di pomodoro dipende quindi dalle proporzioni relative di questi tessuti. Molti cuochi pre-trattano i pomodori da cuocere rimuovendo prima la pelle, la gelatina interna e il succo. Questa pratica rende la polpa di pomodoro più raffinata e meno acquosa, ma stravolge l'equilibrio del sapore a favore della dolcezza, sacrificando l'aroma. Gli acidi citrico e malico del pomodoro non sono volatili e non cuociono, quindi l'acidità e un po' di aroma possono essere ripristinati cuocendo la pelle, gelatina e succo insieme fino a quando gran parte del liquido è evaporato, filtrando poi il resto nella polpa di pomodoro in cottura. Come i cuochi sanno da tempo e i chimici del gusto hanno verificato, il sapore complessivo dei pomodori può essere intensificato con l'aggiunta di zucchero e acidità. Avete letto bene, lo zucchero intensifica il sapore, ma non tampona l’acidità. Per bilanciare una salsa troppo acida potete aggiungere pochi grammi di bicarbonato di sodio, che è un ingrediente basico. Munitevi di pHmetro, aggiungete pochi grammi di bicarbonato alla volta (produrrà una leggera schiuma estemporanea) e rimanete in un range tra 4 e 4.3 . I pomodori lasciati maturare completamente sul raspo accumulano più zucchero, acido e composti aromatici e hanno un sapore più pieno. Un elemento importante dell’aroma del pomodoro maturo è fornito dal composto aromatico chiamato furaneolo, che assomiglia a quello del caramello salato (accresce anche il sapore di fragole e ananas maturi). La maggior parte dei pomodori da supermercato vengono raccolti e spediti quando sono ancora verdi e stimolati artificialmente ad arrossire e maturare con una bella sgasata di etilene. Per questo motivo non hanno un gran sapore e sono diventati sinonimo di prodotti scialbi e anonimi. Tuttavia, in alcune parti dell'Europa e dell'America

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Latina si preferisce fare insalate con pomodori verdi maturi, meno fruttati e più erbacei. In altre, i pomodori verdi vengono cucinati o messi in salamoia. Nel Perù rurale, le varietà pregiate sia di pomodoro che di tomatillo sono parecchio amare. I POMODORI COTTI Quando i pomodori freschi vengono cotti per preparare una bella salsa densa, guadagnano alcune sfaccettature di sapori - in particolare, sfumature di rosa e viola dei carotenoidi - ma perdono le fresche note "verdi" fornite da frammenti instabili di acidi grassi e da un particolare composto di zolfo (tiazolo). Poiché il raspo ha un pronunciato aroma di pomodoro fresco grazie ai suoi enzimi fogliari e alle ghiandole oleifere aromatiche prominenti, alcuni cuochi aggiungono alcune foglie alla salsa, verso la fine della cottura, per ripristinare le note fresche. Le foglie di pomodoro sono state a lungo considerate potenzialmente tossiche perché contengono un alcaloide difensivo, la tomatina. Studi recenti hanno scoperto, però, che la tomatina si lega strettamente alle molecole di colesterolo nel nostro sistema digestivo, così che il corpo non assorbe né l’uno né l’altro. In parole povere, i pomodori abbassano l’apporto netto di colesterolo (anche i pomodori verdi contengono tomatina e hanno lo stesso effetto). Va bene, quindi, rinfrescare il sapore delle salse di pomodoro con le loro foglie. I pomodori freschi si cuociono facilmente fino ad ottenere una purea liscia, ma questo non accade con molti pomodori in scatola. Le ditte conserviere spesso aggiungono sali di calcio per rassodare le pareti cellulari dei frutti (preservando l’integrità dei pezzi) e questo può interferire con il loro disfacimento durante la cottura. Se volete preparare un piatto dalla struttura fine con i pomodori in scatola, controllate le etichette e scegliete un marchio che non elenchi il calcio tra i suoi ingredienti. LA CONSERVAZIONE DEI POMODORI I pomodori provengono da zone a clima caldo e dovrebbero essere conservati a temperatura ambiente. Il loro sapore fresco risente in maniera massiccia della refrigerazione. I pomodori allo stadio verde maturo sono particolarmente sensibili al raffreddamento a temperature inferiori a circa 13°C: subiscono danni alle loro membrane, che si traducono in uno sviluppo minimo del sapore, una colorazione a macchie e una consistenza molle e farinosa quando riportati a temperatura ambiente. I pomodori completamente maturi sono meno sensibili, ma perdono sapore a causa dell’indebolimento dell'attività enzimatica che produce sapidità. Parte di questa attività enzimatica può PASTA E RISO

Furaneolo

Il furaneolo è un composto organico, molto comune nel mondo della cosmesi e dei profumi in generale. È formalmente un derivato del furano ed è uno dei tanti prodotti della disidratazione del glucosio. Ha una doppia faccia: è maleodorante ad alte concentrazioni, mentre con le giuste dosi e diluito presenta un dolce, gradevole aroma di fragola. Si trova nelle fragole e in molte varietà di altri frutti ed è in parte responsabile dell'odore dell'ananas fresco, del grano saraceno e del pomodoro maturo.

Tomatina

La tomatina è un glicoalcaloide che si trova nel fusto e nelle foglie delle piante di pomodoro, dotata di proprietà fungicide. I sintomi di avvelenamento da tomatina sugli animali sono simili ai sintomi di avvelenamento da solanina, un glicoalcaloide presente nelle patate Rispetto a questa però, la tomatina sembra avere meno effetti tossici nei mammiferi. Non ci sono prove che il consumo di pomodori possa causare effetti tossici acuti. Inserire nel proprio regime alimentare alimenti ricchi di tomatina sembrerebe ridurre il colesterolo nel sangue e prevenire l'artereosclerosi.

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Pectina

La pectina è un eteropolisaccaride, ottenuto con l'unione di vari monosaccaridi e formato in parte da unità esosano C6H10O5. Per pectina si intende il composto estratto dalla frutta, dalla protopectina in essa contenuta Le pectine formano dei colloidi gelatinosi, abbondanti nella parete cellulare della frutta: essi vengono idrolizzati con la maturazione da alcuni enzimi come la pectasi e la pectinasi La percentuale di pectina di un frutto dipende dalla specie e dal grado di maturazione dello stesso. La pectina cementifica lo spazio tra una cellula e l'altra, tenendole unite e dando croccantezza alla frutta. Con il procedere della maturazione questo legame si scioglie e il frutto perde consistenza

COMPONENTI ADDENSANTI NEL POMODORO (percentuali espresse sul totale del peso) Pomodori crudi parte solida 5%-10% pectina e emicellulosa 0,5%-1,0% Passata in scatola parte solida 8%-24% pectina e emicellulosa 0,8%-2,4% Concentrato di pomodoro parte solida 40% pectina e emicellulosa 4%

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essere stimolata nuovamente, in questo modo: lasciate recuperare i pomodori refrigerati a temperatura ambiente per un giorno o due prima di mangiarli. SALSA DI POMODORO: ENZIMI E TEMPERATURE La passata di verdura più familiare in Italia, e forse nel mondo, è la conserva di pomodoro. I solidi nei pomodori sono per circa due terzi zuccheri saporiti e acidi organici, e il 20% carboidrati della parete cellulare che hanno un certo potere addensante (10% di cellulosa e 5% di pectina ed emicellulosa). Le passate di pomodoro commerciali possono includere tutta l'acqua presente nei pomodori originali, o solo un terzo. Il concentrato di pomodoro è la passata di pomodoro cotta in modo da contenere meno di un quinto dell'acqua del vegetale crudo. Il concentrato di pomodoro è quindi una fonte concentrata di sapore, colore e potere addensante (è anche un efficace stabilizzatore di emulsioni). Ci sono diverse variabili nella preparazione delle puree che possono influenzare consistenza e sapore finali. LA CONSISTENZA DEL POMODORO La consistenza finale di una passata di pomodoro dipende non solo da quanta acqua è stata rimossa, ma anche da quanto tempo la purea trascorre a temperature moderate o alte. I pomodori maturi hanno enzimi molto attivi il cui compito è rompere la pectina e le molecole di cellulosa nelle pareti cellulari del frutto, e quindi dare al pomodoro la sua consistenza morbida e fragile. Quando i pomodori vengono schiacciati per la prima volta, gli enzimi e le loro molecole bersaglio si mescolano a fondo e i primi enzimi iniziano a rompere le strutture delle pareti cellulari. Se la purea cruda viene tenuta a temperatura ambiente per un po’, o riscaldata ad una temperatura inferiore alla temperatura di denaturazione degli enzimi della pectina, circa 80°C, allora gli enzimi romperanno molti dei rinforzi della parete cellulare e queste molecole liberate daranno una consistenza notevolmente più spessa alla purea. Tuttavia, quando la purea viene poi riscaldata per rimuovere l'acqua e concentrarla, le alte temperature rompono le molecole già danneggiate dagli enzimi in pezzi più piccoli che sono addensanti meno efficienti, e la purea richiede una riduzione molto maggiore per ottenere lo spessore desiderato. Se invece la salsa cruda viene cotta rapidamente in prossimità dell'ebollizione, il risultato è una passata più densa, che richiede una minore riduzione successiva. Gli enzimi di pectina e cellulosa vengono denaturati e diventano inattivi, mentre allo stesso tempo le pareti cellulari vengono distrutte dal calore. Le pectine delle pareti cellulari che fuoriescono nella fase fluida durante la concentrazione (e relativo riscaldamento) sono molecole più lunghe e addensanti più efficienti. ENZIMI DEL POMODORO E SAPORE Oltre agli enzimi di pomodoro che influiscono sulla consistenza, ci sono enzimi che influenzano anche il sapore: nel caso del gusto, una certa attività enzimatica iniziale può essere desiderabile. Le molecole fresche dall'odore "verde" (esanale ed esanolo) che CODICE LO CASCIO


sono un elemento importante nel sapore del pomodoro maturo, sono generate dall'azione degli enzimi sugli acidi grassi quando il tessuto del frutto viene schiacciato, sia in bocca che nella pentola. La cottura rapida fino all'ebollizione riduce al minimo questo elemento di sapore fresco, mentre lasciare la purea cruda a temperatura ambiente (per una salsa messicana, per esempio) o riscaldare la salsa lentamente porterà ad un accumulo di queste molecole di sapore nella purea. Il metodo più efficace da seguire è quello di dimezzare o dividere in quarti i pomodori, poi cuocerli in un forno a bassa temperatura per rimuovere l'acqua e infine cuocerli velocemente in un tegame. Questa tecnica minimizza il mescolamento di enzimi e obiettivi, quindi le cellule rimangono relativamente intatte e si sviluppa poco aroma erbaceo. Poi c'è la preparazione tradizionale italiana chiamata estratto: inizia con pomodori freschi cotti fino a un certo punto, che poi vengono mescolati con un po' di un po' di olio d'oliva fino ad ottenere una pasta, che viene stesa su tavole per farla asciugare ulteriormente al sole. Questo è spesso descritto come un processo relativamente "delicato" rispetto alla cottura, e probabilmente risparmia qualche danno alle molecole di pectina. In verità sottopone un certo numero di molecole sensibili, tra cui il licopene del pomodoro e gli acidi grassi insaturi nell'olio d’oliva, a una potente e dannosa luce ultravioletta, che conferisce all'estratto un caratteristico sapore forte e di “cotto”.

COMPOSIZIONE DEL POMODORO % in peso di zuccheri 3% % in peso di acidi 0,5% rapporto zucchero/acido 6

IL CONCENTRATO DI POMODORO È una salsa ottenuta dalla concentrazione a diversi livelli del succo di pomodoro (residuo secco compreso tra il 12% ed il 36%) e si ottiene dal succo di pomodoro riscaldato a cui viene sottratta una quantità di acqua tale da determinare tre categorie di prodotti finiti: il concentrato, il doppio concentrato ed il triplo concentrato, che differiscono tra loro per il diverso livello di concentrazione degli zuccheri contenuti. In base al tipo di pomodoro il concentrato può essere ottenuto con due tipi di lavorazione, Cold Break o Hot Break. Il primo metodo è solitamente utilizzato per la produzione di triplo concentrato di pomodoro, tramite il quale il pomodoro fresco viene triturato e riscaldato a basse temperature, che vanno dai 65°C ai 75°C. Il metodo Hot Break utilizza invece pomodori triturati e riscaldati a temperature che variano dagli 85°C ai 100°C, ottenendo salse più simili al ketchup. Doppio concentrato di pomodoro: per legge deve avere un residuo secco non inferiore al 28%, al netto del sale eventualmente aggiunto. Occorrono circa 6 kg di pomodori freschi per ottenere 1 kg di doppio concentrato. Triplo concentrato di pomodoro: per legge deve avere un residuo secco non inferiore al 36%, al netto del sale eventualmente aggiunto. Occorrono circa 7 kg di pomodori freschi per ottenere 1 kg di triplo concentrato. Esiste una varietà, detta elioconcentrato la cui concentrazione avviene tramite l’esposizione diretta ai raggi del sole. Processo di concentrazione del sugo di pomodoro totalmente naturale, l’elioconcentrato è prodotto in minori quantità rispetto al concentrato “classico” di cui si serve l’industria alimentare. PASTA E RISO

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POMODORO: L’ESTRAZIONE IN OLIO Grassi e oli stessi sono creati e immagazzinati da animali e piante come una forma concentrata e compatta di energia chimica, che contiene il doppio delle calorie rispetto allo stesso peso di zuccheri o di amido. Oltre a grassi, oli e fosfolipidi, la famiglia dei lipidi comprende betacarotene e pigmenti vegetali simili, vitamina E, colesterolo e cere. Sono tutte molecole prodotte da esseri viventi e consistono principalmente di catene di atomi di carbonio, con atomi di idrogeno che sporgono dalla catena. Ogni atomo di carbonio può formare quattro legami con altri atomi, quindi un dato atomo di carbonio nella catena è solitamente legato a due atomi di carbonio, uno per lato, e due idrogeni. Questa struttura a catena di carbonio ha una conseguenza fondamentale: i lipidi non possono sciogliersi in acqua. Sono sostanze "idrofobiche" o "che temono l'acqua". Il motivo è che gli atomi di carbonio e idrogeno esercitano una forza simile sui loro elettroni condivisi. Quindi, a differenza del legame ossigeno-idrogeno, il legame carbonio-idrogeno non è polare e la catena idrocarburica nel suo insieme è non polare. Quando acqua polare e lipidi non polari si mescolano, le molecole di acqua polari formano legami idrogeno l'una con l'altra, le lunghe catene lipidiche formano un tipo di legame più debole tra loro (legami di van der Waals), e le due sostanze si separano. Gli oli minimizzano la superficie di contatto con l’acqua coalescendo in grossi blob ed oppongono resistenza alla divisione in goccioline più piccole. Grazie alla loro parentela chimica, lipidi diversi possono dissolversi l'uno nell'altro. Ecco perché i pigmenti carotenoidi - il betacarotene nelle carote, il licopene nei pomodori - e la clorofilla (intatta), la cui molecola ha una coda lipidica, colorano i grassi in cottura molto più intensamente dell'acqua di cottura. Ricordatevi di questo passaggio più tardi. I lipidi condividono altre due caratteristiche. Una è la loro consistenza appiccicosa, viscosa e oleosa, che deriva dai molti legami deboli formati tra le lunghe molecole di carbonio-idrogeno. L'altra è di essere molecole così voluminose che tutti i grassi naturali, solidi o liquidi, galleggiano sull'acqua. L'acqua è una sostanza più densa grazie al suo intenso legame idrogeno, che impacchetta le sue piccole molecole più saldamente tra loro. PASTA E RISO

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Le cultivar ideali per la salsa

Anche se il San Marzano (scenderemo nel dettaglio di questa meraviglia tra un po', abbiate pazienza) fa la parte del leone dell’orto, l’Italia conta moltissime tipologie di pomodoro ideali alla cottura. Spesso si tratta di prodotti locali praticamente sconosciuti fuori dalle zone in cui vengono coltivati. Antico pomodoro di Napoli È l’ecotipo Smec 20, riconosciuto da Slow Food come il clone più vicino al Kiros, cioè il pomodoro che viene successivamente trasformato in San Marzano DOP. Viene coltivato nell’Agro Sarnese Nocerino e aree limitrofe ben delimitate, grazie al relativo presidio Slow Food. Camone Pomodoro insalataro liscio e tondeggiante, piuttosto piccolo, con “spalla” verde e sfumatura rosso-arancio nella parte inferiore, polpa carnosa, consistenza croccante. Non è una varietà antica ma un ibrido coltivato in serra, soprattutto in Sardegna; sul mercato da dicembre a giugno. Ciliegino Piccolo e tondo, noto anche come cherry, è uno dei pomodori più apprezzati per la dolcezza e la succosità. Coltivato soprattutto in Sicilia, sia in campo che in serra, è in vendita tutto l’anno. Corbarino Pomodorino appena allungato di colore rosso carico, carnoso e dal sapore intenso e agrodolce, coltivato in aridocoltura nei terreni vulcanici dei Monti Lattari, in particolare nella zona di Corbara, Salerno. A rischio d’estinzione, è stato recuperato negli

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ultimi anni e oggi rappresenta un’eccellenza campana. Da consumo fresco, da conserve e da serbo, si intrecciano i rametti dei grappoli di pomodorini, da usare durante l’inverno. Cuore di bue Pomodoro da insalata costoluto, grosso e irregolare, con buccia liscia e sottile, polpa carnosa, povera di acqua e con pochi semi, sapore ricco, dolce e poco acido. Datterino Deve il nome alla forma, piccola e allungata, e al sapore dolcissimo e intenso che ricorda il dattero. Ha polpa consistente, buccia sottile, pochi semi, capacità di conservarsi a lungo. Fiaschetto Pomodorino dolce e succoso, di forma ovale con la tipica codina e buccia sottile. È una storica varietà pugliese con la quale da sempre a fine estate si faceva la passata. Il fiaschetto di Torre Guaceto, piccola enclave del Brindisino baciata da un ecosistema favorevole, è oggi tutelato da un Presidio Slow Food. Marinda Pomodoro costoluto di dimensioni medie oppure grandi e dalla forma appiattita, con “spalla” verde, ha profumo fresco, gusto intenso molto dolce, sapido e persistente, polpa soda e croccante. È un pomodoro invernale e si raccoglie tra il tardo autunno e la primavera. Viene coltivato soprattutto in Sicilia. Pera d’Abruzzo Pomodoro autoctono abruzzese, molto


rustico, di forma grande e costoluta, con gusto dolce e vellutato, polpa abbondante e pochi semi. Da poco è stato salvato dall’estinzione grazie un lavoro di recupero del seme “sanificato” realizzato dall’assessorato all’Agricoltura della Regione Abruzzo in collaborazione con il CRA. La nuova varietà è stata denominata Saab-Cra (Sapore Antico Abruzzo). Pizzutello Pomodorino dolce-acidulo, ovale e con la caratteristica puntina nella parte inferiore, da cui il nome. È coltivato nella zona del Vesuvio in aridocoltura e in Sicilia. Pomodoro di Pachino Non “Pachino”, ma di Pachino, paesone del Siracusano che ha legato il suo nome a questo pomodoro diffuso ormai ovunque. Ma solo quello proveniente dalla zona intorno al piccolo centro della Sicilia sud-orientale è Igp. Quattro le tipologie: costoluto, ciliegino, tondo liscio e a grappolo. Pomodoro di Villa Literno Varietà tonda convenzionale, da salsa, coltivata sulla creta in aridocoltura nella zona di Villa Literno, nel basso Casertano. È in corso la richiesta di Igp per la passata di questo pomodoro trasformato secondo le tradizioni delle famiglie liternesi. Pomodoro giallo Erano gialli i primi pomodori che gli europei videro nel XVI secolo: il nome, “pomo d’oro”, lo conferma. Ne esistono di diverse forme e dimensioni, piccoli e medi, tondi e allungati, a lampadina, varietà bionde di ciliegino, di datterino, di pomodorino del piennolo. Vengono coltivati ovunque,

in particolare in Campania. Hanno sapore delicato, dolce e poco acido. Pomodoro siccagno Non una sola varietà ma diverse. Prende il nome dal tipo di coltivazione: neanche una goccia d’acqua bagna le sue radici. È molto concentrato nella consistenza, nel sapore e nella dolcezza. Straordinario quello ottenuto da cultivar autoctone siciliane e in montagna. Prunill Antica varietà autoctona pugliese, un piccolo pomodoro leggermente oblungo simile alla susina selvatica (da cui il nome), dal gradevole sapore asprigno. Non ha bisogno d’acqua. Dà il meglio di sé trasformato in passata. Regina Pomodoro autoctono pugliese, da serbo e adatto a crescere in aridocoltura, coltivato nell’alto Salento in terreni salmastri lungo la costa adriatica tra Fasano e Ostuni. Di forma rotonda, ha sapore dolce-acidulo e buccia spessa. Deve il nome alla forma del picciolo, che crescendo diventa una sorta di coroncina verde. Il pomodoro Regina di Torre Canne è un Presidio Slow Food. Riccio di Parma Antica varietà autoctona che ha fatto grande l’industria conserviera parmigiana. La coltivazione, quasi abbandonata negli anni ’50-’60, è stata ripresa grazie a un progetto di recupero della biodiversità rurale emiliana. Ha forma grande, tondeggiante e leggermente depressa, costolature irregolari, buccia molto sottile color rosso scarlatto, polpa carnosa, sapore dolce e delicato. PASTA E RISO

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Roma Pomodoro lungo, corrispettivo ibrido del San Marzano, di cui condivide la destinazione. È la varietà preferita dall’industria grazie alla buccia dura, che lo rende più resistente a malattie e attacchi di parassiti, e al fatto di essere adatto alla conservazione, alla raccolta e alla lavorazione meccanizzate. Torpedino Pomodoro piccolo e allungato appartenente alla categoria dei mini San Marzano, figlio di un progetto legato alla piana di Fondi e prossimo a diventare il primo pomodoro a marchio del Lazio. È una tipologia a doppia attitudine, da insalata quando è verde, da sughi freschi e conserve quando viene raccolto rosso a piena maturazione.

• dimensione medio-grossa, con una lunghezza compresa tra i 60 e gli 80 mm; • forma è cilindrica e allungata; • non è presente il peduncolo; • il colore è rosso brillante, uniforme e tipico; • buccia, sottile e consistente, che si stacca facilmente dalla polpa quando la maturazione è completa; • polpa è soda ed elastica, poco acquosa e quasi priva di semi. • acidità è scarsa con il pH massimo è 4,50. • sapore è tipicamente agrodolce, fresco e intenso.

San Marzano Forma a lampadina allungata, pelle sottile, due fossette laterali, una codina appuntita alla base, polpa delicata, gusto rotondo con un’amabile nota aspra, è il re dei pomodori, sinonimo di pummarola. Il suo habitat è la Valle del Sarno, alle falde del Vesuvio, tra Napoli e Salerno. È tutelato da un Consorzio che riconosce solo le varietà San Marzano 2, Kiros e le linee migliorate; queste sono le uniche si possono fregiare della Dop “pomodoro San Marzano dell’Agro Sarnese-Nocerino”. Soltanto il pomodoro pelato ed immerso in succo di pomodoro, raccolto a partire da un determinato giorno e che segue il disciplinare di produzione, raccolta e trasformazione, può fregiarsi della DOP. Se potete, scegliete questo pomodoro per la vostra salsa.

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Le caratteristiche del pomodoro San Marzano

Pasta al pomodoro scientifica Ingredienti per 4 persone

Per la pasta 500 g di semola rimacinata di grano duro 170 g di triplo concentrato di pomodoro 110 g di uova intere (circa 2) 15 g di colorante alimentare rosso in gel 35 g di acqua Per il sugo di pomodoro 1,5 kg di pomodori maturi (io ho usato metà camone e metà Piccadilly) 350 ml di olio extravergine di oliva (io ho usato un 100% nocellara del Belice) sale q.b. Per la finitura Foglie di basilico fresco q.b.


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01. LA PASTA Fate la classica fontana con la semola e metteteci dentro le uova intere, il concentrato di pomodoro e il colorante disciolto nell’acqua. Sbattete con una forchetta e pian piano incorporate la farina dai bordi, fino ad avere un impasto grezzo. Lavorate l’impasto sul piano di lavoro e modellatelo in una pallina. Coprite con pellicola e lasciatela riposare almeno 30 minuti, per permettere alle maglie di glutine di rilassarsi. Riprendete l’impasto, dividetelo in piccole porzioni e passatelo nella sfogliatrice. Una volta ottenuti dei lenzuoli spessi dai 3 ai 7mm (lo spessore lo stabilite in base ai vostri gusti) ricavate delle tagliatelle, fettuccine, spaghetti o perché no, bucatini! Questo impasto si presta anche ad essere estruso dall’apposita macchinetta. Disponete i vostri spaghetti sullo stendi pasta o a nido in una teglia, previa infarinatura e vigoroso scuotimento. Lasciate asciugare per qualche ora. 02. IL SUGO Per preparare un sugo carico di sapore dovete concentrare gli aromi. Tagliate i pomodori a metà in senso verticale e disponeteli in una teglia da forno bassa, in modo da facilitare l’evaporazione dei liquidi di vegetazione. Impostate la temperatura del forno sui 70°C e lasciate asciugare per bene. La polpa dovrà risultare ben asciutta al tatto. Prendete i pomodori parzialmente essiccati e passateli nel passaverdure, manuale o elettrico non fa differenza. Ripetete il procedimento più volte per estrarre quanta più polpa e succo possibile, ma non buttate le bucce, vi serviranno più tardi. Trasferite la salsa cruda in un tegame e versate a filo l’olio extravergine di oliva. Lasciate restringere a fuoco basso, per preservare tutte quelle sostanze volatili che vengono annientate dalle temperature troppo violente. Man mano che la salsa cuoce, schiumatela con cura ma non buttate cioè che sarà affiorato: quella cremina densa ha un sapore incredibile ed è ricca di licopene. A cottura ultimata, lasciate decantare il sugo per qualche ora, a temperatura ambiente. Vi accorgerete che tutto l’olio sarà emerso in superficie e sarà facilissimo separarlo dalla polpa cotta. 03. GLI SCARTI Avete presente le pellicine accartocciate, i semini frantumati e i piccioli legnosi che sono avanzati? Scrostateli dal passaverdure, disponeteli su una teglia bassa foderata di carta forno e lasciateli asciugare a 70°C per 7/8 ore, oppure schiaffateli nell’essiccatore a 40°C per 12/24 ore. Scartate i semi, che potrebbero conferire note amarognole, e riducete il tutto in polvere finissima. Potrete usarla per aggiungere un tocco umami al piatto. 04. IL SERVIZIO Lessate la pasta in abbondante acqua salata e non preoccupatevi se diventa rossa: è il colorante che sta cedendo del pigmento. La pasta, invece, non lascerà aloni di colore nel piatto. Non appena sale a galla, scolatela e conditela con l’olio al pomodoro, che avrete separato dalla salsa. Mettete una mestolata di sugo nel piatto, aggiungete ciò che sarà affiorato dalla salsa e formate un nido di pasta al pomodoro condita con l’olio. Ultimate con piccole foglie di basilico e, se vi piace, con il pulviscolo di pomodoro ricavato dalle bucce. PASTA E RISO

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La variante all'amatriciana La mia pasta al pomodoro sa di pomodoro a bestia. Ma se la carica glutammica del pomo infuocato risultasse poca roba per voi, potete proiettare il piatto nell’iperuranio dei sensi aggiungendo del guanciale caramellato, ovvero spadellato nel suo grasso e poi sfumato con aceto di mele, pecorino a scaglie e pepe nero macinato al momento, a grana grossa. Ora siete pronti a gustare la pasta al pomodoro più pomodorosa che abbiate mai assaggiato. E mentre masticate e godete, ricordate: conoscenza è sapere che il pomodoro è un frutto, saggezza è non metterlo in una macedonia.

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1.3 – IL PESTO DI BASILICO Luddismo s. m. [dall’ingl. luddism, der. del nome di un operaio del Leicestershire, Ned Ludd, che nel 1779 avrebbe infranto per protesta dei telai per maglieria]. Movimento operaio che in Inghilterra, all’inizio del sec. 19°, reagì violentemente contro l’introduzione delle macchine, ricorrendo, come metodo di lotta, alla distruzione delle macchine stesse, considerate la causa principale della crescente disoccupazione; il movimento luddista fu represso con numerose impiccagioni e deportazioni. (fonte: www.treccani.it)

Oggi con le macchine abbiamo fatto pace, ci conviviamo senza particolari acredini e a nessuno verrebbe in mente di sostituire il computer con il pallottoliere o la mitica Lettera 22. Ma il luddismo sopravvive tra le frange oltranziste del fatto a mano a tutti i costi. Nelle nostre comunità, a volte anche in forma piuttosto sguaiata, possiamo comunque registrare un frequente biasimo dell’artificio meccanico, di come quest’ultimo si sostituisca alla manualità dell’uomo. E non mi riferisco solo al piglio oscurantista di alcuni, quanto a teorie su ciò che per vari motivi non può o non deve essere delegato ad una strumento: prendiamo ad esempio le rimostranze luddiste rivolte allo smartphone, o le critiche di quelli che vogliono liberare la produzione agricola da una solerzia sintetica e senza cuore, pensiamo infine a quelli che si rifiutano di preparare il pesto con il frullatore, perché il famoso condimento di basilico si fa solo nel mortaio di marmo. Ma perché insistere, perché farsi venire una tendinopatia del sopraspinato pur di rimanere aggrappati alla sottana della tradizione? Mistero. STORIA DEL PESTO ALLA GENOVESE Olio extravergine di oliva Riviera Ligure, basilico Genovese DOP, Parmigiano Reggiano stravecchio, Fiore Sardo, pinoli pisani, aglio di Vessalico, sale di Trapani: è questa la ricetta da disciplinare del pesto genovese. L’antenato della ricetta che conosciamo tutti è probabilmente il moretum romano, ovvero un mix di erbe, formaggio pecorino, sale, olio d’oliva e aceto. Per trovare le prime tracce scritte sulla nostra salsa, però, bisogna saltare in avanti nel XIX secolo, con precisione tra le pagine del volume “La vera cuciniera genovese” di Giobatta Ratto, anno di pubblicazione 1863. Poi c’è anche chi ritiene che si tratti di un’evoluzione dell’agliata (aggiada, in dialetto genovese), fatta con aglio, mollica di pane, olio d’oliva, vino e aceto, solitamente utilizzata per accompagnare il pesce. Insomma, sulle origini del pesto è ancora buio (pesto). PASTA E RISO

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IL BASILICO Ne esistono di diversi tipi, ma quello che preferisco usare per preparare il pesto è il cosiddetto Italiano Classico, uno delle 60 cultivar di Ocimum basilicum esistenti sul Pianeta Terra, coltivato un po’ dappertutto. Tra le altre tipologie troviamo basilico comune crespo, quello lattuga o anche noto come basilico napoletano, quello greco, thai, rosso, porpora o Dark Opal. Il basilico italiano Classico o Genovese ha foglie piccole, dalla forma ovale e convessa, di colore verde tenue. L’aroma ricorda il gelsomino, la liquirizia ed il limone. Non vi è traccia invece della nota mentolata tipica del basilico Napoletano o Siciliano. COME CONSERVARLO La cosa migliore, se non avete a disposizione le classiche piantine da davanzale, è conservare i mazzetti di basilico avvolti in fogli di carta assorbente bagnata, messi in una bustina di plastica non sigillata. Non fate mai l’errore di chiudere le erbe in una busta, poiché l’ambiente asfittico permetterebbe all’umidità di trasformare i vostri bei fasci di basilico in bouquet flosci e neri.

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DEBUNKING MORTAIO VS MIXER Roberto Panizza è forse l’uomo più titolato al mondo per parlare di pesto genovese, ideatore del Campionato Mondiale del Pesto al Mortaio nonché titolare a Genova del ristorante Il Genovese e del Pesto Rossi, il pesto più buono mai messo in commercio. Questo è quello che dice sulla preparazione della salsa alla vecchia, cioè con il mortaio. “Prendete un bel grembiule pulito, meglio se di colore verde così non si vedranno gli schizzi della salsa. Poi un

mortaio di marmo, rigorosamente, e un pestello di legno. Mai di ulivo, che è pieno di venature: lì si va ad annidare il pesto, irrancidendosi, e sarà poi difficile da pulire. Il legno invece deve essere di fibra compatta, come quello di pero o di altri alberi da frutta. Sulla sequenza degli ingredienti ci sono diverse scuole di pensiero. Io parto dall’aglio e lo schiaccio. Poi i pinoli, e li schiaccio. Poi il basilico e il sale grosso, sempre insieme perché il sale aiuta la macinatura del basilico. Quando basilico e sale sono ridotti in crema aggiungo il Parmigiano Reggiano e il pecorino grattugiati, e subito dopo l’olio extravergine d’oliva. Un altro giro di pestello e il pesto è pronto. Se i formaggi sono a pezzi schiaccio anche loro e alla fine aggiungo l’olio. Un’altra tecnica è quella di schiacciare aglio e pinoli e di toglierli mettendoli da parte. Poi si procede con il basilico e il sale grosso, in seconda battuta con i formaggi aggiungendo alla fine i pinoli e l’aglio ridotti in crema in modo da dosarli meglio, soprattutto l’aglio! Qualcuno aggiunge i formaggi grattugiati contemporaneamente all’olio. Anche riguardo al movimento, al “pestaggio”, ci sono diversi metodi a misura di fisicità e di scelta. In genere all’inizio si batte e poi si ruota il pestello, le foglie di basilico vanno ammaccate con un movimento dall’alto verso il basso, una volta che sono pestate e già quasi ridotte in crema umida non si può battere altrimenti la salsa schizzerebbe, quindi si continua a schiacciarla ruotando il pestello lungo il mortaio”

Eppure lo stesso Panizza, da uomo intelligente e illuminato qual è, prepara il suo pesto, 40

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il famosissimo Pesto Rossi citato poc’anzi, nel mixer. Non ha mica un esercito di Umpa Lumpa che lavorano per lui pestello alla mano e gomito in su. E se lo fa lui, che nella vita avrà preparato tonnellate di condimento verde senza perdere la cittadinanza genovese, perché non potete farlo anche voi?

Attività enzimatica

Il pesto si fa solo col mortaio di marmo perché così rimane verde: Falso. L’ossidazione è un processo noto ed è causato da un complesso di enzimi che si chiamano polifenolossidasi e che vengono attivati sempre, mortaio o non mortaio. Solo che con il frullatore la faccenda diventa più evidente poiché l'attrito della rotazione scalda le lame e gli enzimi si attivano più velocemente. Ma qui ci viene in soccorso la scienza. Vi basterà immergere il basilico per 10 secondi nell’acqua bollente, poiché l’enzima si disattiva tra gli 80°C e i 95°C, e poi immediatamente in acqua e ghiaccio. E per preservare la resa cromatica in maniera ancora più efficace potete aggiungere un pizzico di acido citrico o in alternativa un cucchiaino di succo di limone e il problema è risolto (trovate le dosi nella ricetta). E non c’è alcun bisogno di storcere il naso perché è garantito che

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l’acidità, a quelle grammature, non sarà minimamente percettibile tuttavia sufficiente a evitare l'ossidazione e mantenere il pesto di un bel verde brillante.

Il basilico dev’essere solo quello di Pra' perché è più buono: Falso. Pra’ non è una città, è un quartiere di Genova ed è grande quanto il salotto di casa mia. E per quanto basilico ci possa crescere, buono o no è un altro discorso, basterebbe probabilmente per un mese di consumo dei soli abitanti di quel quartiere circoscritto. Avete presente il Pistacchio di Bronte? Bronte equivale a 3 o 4 campi di calcio, ma intanto tutto il mondo mangia il suo pistacchio. Un buon basilico è un buon basilico, ovunque si coltivi. Può variare la forza aromatica, parlando sempre di Ocimum basilicum italiano classico, ma sfido chiunque a distinguere quello coltivato a Pra’ e quello che viene da un balcone di Sant’Ilario. Quindi no, non esiste “il basilico”, esistono i diversi tipi di basilico. E un buon basilico va benissimo per il pesto. Quello che invece è inappuntabile è il potere aromatico delle foglie giovani e piccoli, se avete a disposizione delle piante, scegliete solo quello per preparare il pesto. L’aglio va messo categoricamente crudo: Falso. La ricetta del pesto prevede l’aglio crudo ma voi sapete che io me ne frego di quello che dice la tradizione. Il punto è che, per il mio palato, l’aglio crudo non ha assolutamente nulla che non va. Pesto scacciavampiri? Ci sto, mi piace. Ma non perché qualcuno ha deciso così 250 anni fa, ma semplicemente perché piace a me. Ci sono però tante persone che hanno una serie di problemi con l’aglio, ed è a queste che mi rivolgo con il mio pesto scientifico: invece del succedaneo senza Allium sativum proverete la mia versione, dove l’aglio ci sarà, ma non avrete nessun problema a digerirlo.

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Preparare il pesto perfetto non è un affare da poco, maneggiare il basilico è una faccenda spinosa e per due motivi: 1. Il basilico, come il prezzemolo, ha una parte aromatica volatile, che si disperde facilmente con il calore 2. Il basilico si ossida rapidamente e cambia nel colore

IL TEST:

stessa ricetta, tecniche diverse

Per dimostrare praticamente che si può preparare un ottimo pesto anche con il mixer, ho deciso di fare un test adoperando da una parte il mortaio e dall’altra un comunissimo frullatore. Ho utilizzato gli stessi ingredienti, seguendo la ricetta ufficiale del Campionato Mondiale del Pesto al Mortaio, apportando però delle piccole modifiche nel procedimento a macchina. PESTO AL MORTAIO Ho raccolto le foglioline di basilico direttamente dalla pianta, le ho sciacquate delicatamente e le ho lasciate asciugare su un panno. Ho inserito pinoli e aglio crudo nel mortaio, pestato con cura fino a ricavare una pasta traslucida e senza grumi e messo da parte. Poi ho riempito l’incavo del mortaio con il basilico, aggiunto il sale grosso e ho cominciato a pestare, facendo roteare il pestello come si diceva prima. Quando il basilico ha cominciato a stillare un liquido verde smeraldo ho aggiunto i due formaggi grattugiati (Parmigiano e Pecorino) e la pasta di aglio e pinoli. Ho unito l’olio a filo, continuando a pestare, fino a quando non ho ottenuto una salsa piuttosto densa. Colore: verde intenso. Odore: delicato di basilico, prepotente quello di aglio crudo (ma anche il Pecorino non scherza). Sapore: gradevole e fresco di basilico, umami a palla, ma l’aglio rimane comunque frizzantello sulla lingua. PESTO AL MIXER Ho sistemato lame e bicchiere del mixer in congelatore, per raffreddare per benino il tutto. Ho raccolto un secondo batch di foglioline, ho messo su la pentola con l’acqua e il sale e ho aspettato che bollisse. Con un setaccio in acciaio piuttosto ampio ho immerso le foglie per dieci secondi nell’acqua bollente e poi le ho trasferite velocemente in una boule con acqua e molto ghiaccio. Quindi le ho asciugate delicatamente e le ho messe da parte. Nel frattempo ho versato l’olio extravergine in un pentolino, ho aggiunto l’aglio e ho lasciato che si sgonfiasse (dopo vi spiegherò meglio il perché). Quindi ho buttato nel mixer tutti gli ingredienti (basilico, aglio, pinoli, formaggi, sale e acido citrico), aggiungendo a filo l’olio extravergine d’oliva. Con quattro o cinque pulsazioni ho ottenuto una salsa densa e quasi fosforescente. Colore: verde neon, alla faccia dell’ossidazione e della spondilite anchilosante. Odore: piacevole di basilico, equilibrato. Sapore: bilanciato, l’aglio è dolce e non schiaccia le note fresche ed erbacee del basilico.

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Pesto di basilico scientifico Ingredienti per 4 persone

160 g di basilico italiano classico (Ocimum basilicum) 140 g di Parmigiano Reggiano 60 g di Pecorino sardo 60 g di pinoli tostati in padella 4 spicchi d’aglio 10 g di sale grosso 2 g di acido citrico (oppure 30 ml di succo di limone) 160 ml di olio extravergine di oliva

Tirando le somme, il pesto fatto al mortaio è ottimo, la consistenza è pari a quella di un paté, ma richiede una certa manualità, velocità di esecuzione (potete notare l’accenno di ossidazione nelle foto comparate) e l’aglio crudo rimane per alcuni una mina vagante. Il pesto fatto al mixer è sicuramente più facile da preparare, con le dovute accortezze del caso, più verde, più veloce ed equilibrato. Ma si può fare di meglio. Non scrivo Pesto alla genovese perché non ha nulla a che fare con la versione classica, ovviamente. Sarà migliore? Peggiore? Sono state combattute guerre per molto meno, non entrerò nel merito. Ha però 3 obiettivi precisi: 1. Esaltare il gusto del basilico. 2. Evitare l'ossidazione per mantenerlo verde brillante. 3. Migliorare la digeribilità dell’aglio. Ribadisco: non sono in competizione con gli oltranzisti del pesto tradizionale, la mia versione è una normale evoluzione che smussa alcuni spigoli. Di certo è più pesto del pesto senza aglio, per dire. Adesso vi spiego come prepararlo. Per ricavare quella quantità di foglie ho fatto fuori quasi 3 piantine di basilico. A costo di sterminare tutta la flora del vostro terrazzo, vi consiglio di prepararne un bel quantitativo per volta, sia per ottimizzare i tempi che per assicurarvi un risultato perfetto. Non avete l’acido citrico in dispensa? Potete sostituirlo con il succo di limone. Considerate che in un litro di succo di limone ci sono 63,4 grammi di acido citrico, il 6%. Quindi 30 millilitri di succo corrispondono a 2,1 grammi di acido citrico puro. Prima di sbianchire il basilico, mettete l’aglio in una bustina per il sottovuoto aperta (potete fissarla alla vasca con una molletta) e versate nel sacchetto dell’olio extravergine d’oliva, fino a coprire il tutto. Lasciate scaldare a 65°C fino a quando gli spicchi non risultano cedevoli al tatto. Oppure utilizzate un pentolino, avendo però l’accortezza di tenere sotto controllo la temperatura dell’olio, che non deve mai friggere. A cosa serve questo passaggio? A rendere l’aglio più digeribile. L’aglio contiene alliina, una molecola che contiene zolfo. Quando la struttura si rompe, grazie ad un enzima chiamato alliinasi, l'alliina si trasforma in allicina, un complesso sulforganico che dà all'aglio il profumo e gusto penetrante che conoscete. Ne abbiamo parlato ampiamente nella ricetta della Pasta aglio e olio (approfondimento a pagina 14). Ma non è finita qui: ad alte temperature, l'alliinasi si disattiva e non è in grado di produrre allicina. Produce invece disolfuro di allile, il composto che ha il confortante odore e aroma di "aglio cotto”, per niente aggressivo e più dolciastro. Quando l’aglio è pronto e si sarà raffreddato, passatelo al mixer con i pinoli tostati fino ad ottenere una crema. Quindi, aggiungete il basilico ben asciugato (non lo stropicciate!), il sale grosso e l’acido citrico (o il succo di limone). Date qualche colpetto di mixer e aggiungete i formaggi grattugiati, poi aggiungete a filo l’olio extravergine di oliva, fino ad ottenere una pasta piuttosto densa. Se il vostro frullatore ve lo consente, una volta aggiunto il basilico poggiate il bicchiere in una ciotola con poco ghiaccio, per abbassare

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la temperatura del contenitore. A questo punto avrete un bel po’ di salsa per condire trofie, trenette, spaghetti, o la trafila di pasta che vi piace di più, magari con la collaudatissima accoppiata fagiolini e patate. Oppure potete usarla per arricchire un panino o una bruschetta. LA CONSERVAZIONE Il pesto scientifico si conserva in frigorifero per una settimana, travasatelo in un barattolo in vetro e copritelo con un velo d’olio. Oppure congelatelo, potete custodirlo in freezer per almeno due mesi. Sempre che vi avanzi, sia chiaro.

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1.4 – LE ARANCINE


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Ve lo immaginate Giovanni Verga con un account Facebook a disposizione, il giorno di Santa Lucia? Il 13 Dicembre avrebbe scritto qualcosa del genere prima di onorare la festa col suo piatto tradizionale, citazione di Boris (la serie TV) compresa. A punta, a punta alta, tonda o ovale, per me l’arancina, come tutte le cose belle, è fimmina. Una palla di riso farcita e fritta, accarne (alla carne, con ragù) o abburro (al burro), mangiata in piedi a colazione o a mezzanotte sul divano. Ma come si fa a preparare l’arancina di riso perfetta, avvolgente ma coi chicchi ancora integri, il sughetto saporito e grassoccio più la crosta super croccante? Seguitemi con attenzione e fiondatevi a recuperare gli ingredienti: questa ricetta è stata perfezionata negli anni dal sottoscritto e testata da palati parecchio snob ed esigenti. Pensate che da quando l’ho messa a punto non faccio più raid notturni in rosticceria, ho sempre qualche pallina dorata in congelatore, pronta da friggere. E qualche amico che scrocca la cena. IL RISO Partiamo dalla base: la scelta e la cottura del riso. Commercialmente parlando, il riso si classifica in quattro gruppi: comune originario, semifino, fino e superfino. Questa distinzione si basa su forma e dimensioni del chicco. Il comune è tondeggiante, mentre il superfino è lungo e ha dimensioni maggiori. I risi comuni. Hanno chicchi piccoli e tondi, cuociono velocemente (in 12-13 minuti) e sono molto indicati per minestre e dolci. Le varietà che appartengono a questa tipologia 48

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sono il Rubino, il Bali, il Ticinese, il Selenio, il Pierrot, il Razza 253, l'Americano 1660, l'Elio, l'Auro, il Raffaello, il Cripto e il riso Originario. Il riso Originario è chiamato anche riso Comune o Balilla, ed è una cultivar molto antica e già classificata negli anni '20 del Novecento. Si tratta di un prodotto molto economico e saziante, la prima scelta delle famiglie meno abbienti del ventennio. Ha chicchi corti e tondi e un'elevata capacità di assorbimento dei liquidi, i tempi di cottura sono molto brevi, tra i 13 e i 15 minuti, ed è perfetto per preparare anche torte e dolci, minestre, minestroni e talvolta (non questa volta) arancine. I risi semifini. Hanno chicchi tondi di lunghezza media. La cottura si aggira intorno ai 13-15 minuti. Perfetti per condimenti in bianco, timballi e antipasti. Fanno parte di questa categoria il Titanio, il Monticelli, l'Italico, il Maratelli, il Piemonte, il Padano, l'Argo e il Vialone Nano. Ma anche varietà più ricercate come il Lido, il Romeo e il Rosa Marchetti. I risi fini. I chicchi dei risi fini sono lunghi e affusolati e hanno tempi di cottura non inferiori ai 16 minuti. Tengono molto bene la cottura e sono quindi adatti alla preparazione di risotti e insalate, dove i granelli devono restare ben separati tra di loro. Fanno parte del gruppo l'Europa, il R.B., il Ringo, il Romanico, il P. Marchetti, il Radon, il Veneria, il Rizzotto, il riso Ariete, il Bonnet, il Loto, il Molo, il Riva, il Cervo, il riso Drago, il riso Smeraldo, il Vialone nero, il pregiato Sant'Andrea e il Ribe. I risi superfini. Sono il meglio del meglio, si distinguono per i chicchi grossi e molto lunghi. La loro cottura non è inferiore ai 17-18 minuti, ma in alcuni casi può arrivare anche a 20. Perfetti per i risotti, grazie alla quantità di amido che rilasciano in cottura e alla loro capacità di assorbimento di acqua e contorni. Fanno parte di questa categoria: il Redi, l'Arborio, il Volano, il Roma, il Razza 77, l'Ilapatna, il Silla, il Gritna, il Koral, l'Onda, il riso Strella, il Miara, il Panda, il riso Vela, il riso Star, il riso Baldo e il più pregiato di tutti, il Carnaroli. La varietà Roma è quella perfetta per la nostra ricetta delle arancine. Si tratta di un riso a chicco lungo, affusolato e perlato: quest'ultima caratteristica lo distingue dal riso Baldo, a prima vista molto simile. Molto versatile in cucina, anche grazie ai suoi tempi di cottura contenuti, assorbe molto bene i liquidi grazie al chicco corposo, caratteristica fondamentale per la riuscita di un buon timballo, sformato o riso in bianco. Con la produzione iniziata nel 1931, si coltiva in tutte le terre da riso del nostro Paese: dai prevedibili Lombardia e Piemonte alla Sardegna.

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La cottura per assorbimetno

Cuocere il riso è facile, ma cuocerlo a puntino non lo è affatto. Se non lo fate in maniera scientifica, ovviamente. Può attaccarsi alla pentola, scuocere, diventare appiccicoso. Per fronteggiare questi ed altri incidenti culinari ci hanno venduto il riso parboiled, dall’inglese partially boiled, parzialmente bollito. Dopo essere stato posto in ceste metalliche e lasciato immerso in acqua calda a 50°C, questo riso “truccato” viene trattato con getti di vapore sotto pressione che indurisce l’amido presente in superficie. Successivamente viene “sbramato” ed essiccato. Il chicco del riso parboiled non scuoce e assorbe meno grassi, non si ammassa e risulta particolarmente digeribile e indicato per piatti freddi, pilaf e timballi. Ma dove sta la fregatura? In realtà, ce ne sono due: una nella cremosità, l'altra nel sapore. Il riso parboiled è sconsigliato per i risotti poiché, non liberando amido durante la fase di cottura, non si amalgama e richiede giocoforza l’aggiunta di altri ingredienti (panna, besciamella) per renderlo commestibile. Come se non bastasse, avendo la superficie molto liscia, il chicco trattiene poco condimento. Non compratelo per fare le arancine, date retta a me. Il riso è un seme della pianta nota con il nome scientifico di Oryza sativa. Quando viene raccolto, è coperto da una lolla protettiva, una specie di buccia insomma. Dopo che la lolla viene rimossa si ottiene il riso integrale, che è composto da tre parti: la crusca (che racchiude uno strato di cellule chiamato strato di aleurone, ricco di olio e di enzimi), il germe e l'endosperma. Per diverse migliaia di anni, il riso integrale è stato parboiled e poi macinato per rimuovere la crusca e il germe, lasciando solo l’endosperma ricco di amido. Come con le patate o la pasta, la sfida principale quando si cucina il riso è capire come controllare gli amidi al millimetro. Tuttavia, mentre le patate o la pasta sono spesso

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cotte in molta acqua per lavare via l'amido in eccesso, il riso richiede un metodo di cottura più preciso. Se si fa bollire e si scola, si finisce per lavarne via il sapore delicato e per inzuppare eccessivamente i chicchi. Il riso, fidatevi, si cuoce meglio con una quantità misurata di acqua in una pentola coperta, per scongiurarne l’evaporazione. II granuli di amido, che sono il componente primario del riso, tendono a non assorbire liquidi a temperatura ambiente. Mentre si riscalda il riso in acqua, invece, l'energia delle molecole del fluido in rapido movimento comincia ad allentare i legami tra le molecole di amido, permettendo all'acqua di penetrare. Questo a sua volta causa il rigonfiamento dei granuli di amido, i quali rilasciano alcune molecole gommose che poi agiscono come una colla per tenere insieme i chicchi. Il riso, a questo punto, si ammorbidisce e diventa appiccicoso o “inamidato". Come i nostri tuberi preferiti, il riso contiene due tipi di molecole di amido: l'amilosio e l'amilopectina. La quantità di amilosio e il contenuto proteico dei granuli di amido determinano le proprietà strutturali del riso - da sgranato e tenero ad appiccicoso e gommoso quando è cotto. Eccezioni permettendo, il riso con un più alto contenuto di amilosio e proteine (come il riso a chicco lungo), una volta cotto, si presenta in grani separati, leggeri e teneri. Al contrario, il riso con un basso contenuto di amilosio e proteine (come l’Arborio) risulta piuttosto umido e cremoso, con chicchi che tendono ad appiccicarsi l’un l’altro. A causa delle differenze nel contenuto di amilosio e proteine, i granuli di amido nel riso a chicco lungo si gonfiano e gelatinizzano a una temperatura molto più alta (70°C) rispetto ai granuli nel riso a chicco medio (62°C). I granuli di amido che gelatinizzano ad una temperatura più bassa rilasciano più amilosio, anche se ne contengono meno. Questo permette ai chicchi di attaccarsi tra di loro. Il riso a chicco lungo contiene circa il 22% di amilosio e l'8,5% di proteine; i grani sono da quattro a cinque volte più lunghi di quanto siano larghi. Necessita di più acqua per cuocere e, una volta cotto, rimane in grani separati che si induriscono man mano che si raffreddano (a causa del più alto contenuto di amilosio, sempre lui). Il riso a chicco medio contiene circa il 18% di amilosio e il 6,5% di proteine, e i grani sono da due a tre volte più lunghi di quanto siano larghi. Questo riso ha bisogno di un po' meno acqua per cuocere rispetto al riso a chicco lungo e risulta tenero e leggermente appiccicoso. Il chicco corto contiene circa il 15% di amilosio e il 6% di proteine ed è quasi rotondo. Si cuoce in quantità d'acqua ridotte e può essere abbastanza appiccicoso e tenero da cotto. È l’ideale per piatti come sushi, in cui i chicchi devono rimanere praticamente incollati. PASTA E RISO

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La ricetta del riso per le arancine

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Dosi per 28 arancine da 135 g

1 kg di riso Roma (o Originario o Bomba) 2 l di brodo vegetale 0,3 - 0,4 g di zafferano (3 bustine di quelle che trovate sugli scaffali dei supermercati) 150 g di burro

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Mettete il riso in uno scolapasta o in un colino a maglie fini e sciacquatelo leggermente con acqua fredda. Servirà ad eliminare l’amido in eccesso. Versate in una pentola il brodo, che avrete preparato con i classici sedano, carota e cipolla e il sale, e aggiungete il riso e lo zafferano, mescolando continuamente fino a quando i chicchi diventano “gessosi” e opachi (da 1 a 3 minuti). Alzate la fiamma e portate ad ebollizione. Abbassate la fiamma, coprite con il coperchio e cuocete a fuoco lento fino a quando tutto il liquido non sarà stato assorbito. Fuori dal fuoco, rimuovete il coperchio e mantecate con il burro, il grasso servirà ad apportare gusto e creare un film scivoloso attorno al riso. Quindi posizionate un canovaccio pulito piegato a metà sopra la pentola; rimettere il coperchio. Lasciate riposare per 10-15 minuti, il vapore verrà assorbito dal tessuto. Rovesciate il riso su una teglia raffreddata in congelatore e foderata con carta forno. Livellate e fate asciugare i chicchi, coprite con della pellicola e fate riposare in frigorifero dalle 4 alle 12 ore.


IL RAGÙ SCIENTIFICO VELOCE O una versione semplificata. Per questa preparazione, già laboriosa di per sé, apportiamo delle modifiche agli ingredienti e nei processi alla ricetta che già conoscete. 01. Il brodo vegetale Lasciate sobbollire gli ingredienti nell’acqua e salate solo alla fine. Mettete da parte e dedicatevi alla preparazione del ragù.

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02. Il sugo Per ottenere un sugo bello sostanzioso ci occorrono due tagli di carne: un taglio ricco di tessuto connettivo, da cuocere insieme al triplo concentrato di pomodoro; un taglio più magro, da macinare e con il quale dare struttura al sugo;

Per arricchire la salsa con una buona dose di gelatina possiamo utilizzare uno dei seguenti tagli: • geretto anteriore o posteriore, molto compatto e ricchissimo di collagene; • biancostato, situato nella parte bassa delle coste e particolarmente carico di collagene; • punta di petto, il muscolo della parete addominale, arricchito di tessuto adiposo e del collagene delle costole.

Brodo vegetale 1,25 l d’acqua 1 costa di sedano 1 carota 1 cipolla rossa 1 foglia di alloro Grani di pepe nero

Sugo 1 kg di polpa di stinco di manzo, biancostato o punta di petto 1 l di brodo vegetale 500 g di triplo concentrato di pomodoro 1/2 cipolla rossa 1 bicchiere di vino rosso abbondante basilico olio extravergine di oliva q.b. sale q.b. pepe nero q.b.

E come facciamo ad estrarre questa gelatina e trasferirla direttamente nel sugo? Semplicissimo, basterà portare la carne ad una temperatura superiore a 68°C. È proprio in quel momento che il collagene si scioglie e si trasforma in un gel saporito. Mettete sul fornello un tegame di ghisa a bordi alti. In alternativa potete utilizzare una pentola ampia di coccio o di acciaio a fondo spesso. Tagliate la polpa dello stinco (o del brisket/ biancostato) in grossi cubi e rosolateli a fiamma alta in un fondo di pochissimo olio. Aggiungete la cipolla tagliate a cubetti, fate imbiondire, deglassate il tutto con un vino rosso corposo e lasciate evaporare l’alcol. Unite il triplo concentrato di pomodoro e diluitelo con il brodo caldo, aggiungete le erbe e le spezie e lasciate cuocere lentamente, su un soffio di calore, per almeno quattro o cinque ore. Lasciate pippiare il sugo con il coperchio ben collocato e controllatelo di tanto in tanto, spegnete solo quando l’acqua sarà evaporata del tutto e la carne si sarà sfaldata. Salate, filtrate il tutto e mettete da parte la carne, la mangerete a parte o la riutilizzerete in altre ricette. 03. La carne Adesso si passa alla preparazione del macinato, l’ingrediente che serve a dare corpo al ragù e soprattutto sapore di tostato. Scegliete un pezzo “magro”: il girello è perfetto per questo scopo. Parliamo del taglio rotondeggiante e affusolato situato lungo il posteriore, una porzione di muscolo molto tenero e perlopiù utilizzato nella preparazione di carpacci o arrosti. PASTA E RISO

La carne 1 kg di Eye Round (girello) di Black Angus GLC Top Selection olio extravergine di oliva q.b.

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Perché utilizzare carne relativamente magra? Perché il sugo sarà già bello carico di gelatina e la parte grassa la inseriremo successivamente, come avete già imparato a fare. Macinate o fatevi macinare la carne dal macellaio in maniera grossolana, distribuite il macinato su una teglia ricoperta di carta forno, asciugate con cura con della carta assorbente e ungete leggermente con poco olio. Scatenate una furibonda reazione di Maillard cuocendo in forno preriscaldato, con il grill sparato a 230°C e posizionando la teglia al centro del forno. Lasciate lo sportello leggermente aperto per permettere al vapore di fuoriuscire. A queste punto non vi resta che rigirare il foglio di carta forno e lasciar rosolare l’altro lato, sempre a 230°C, a grill andante. Attenti a non far seccare troppo la carne, mi raccomando. Perché rosoliamo il macinato in forno e non nella pentola? Perché nel secondo caso si sarebbe sviluppato un grande quantitativo di vapore, che avrebbe sicuramente lessato la carne. E lì dove si fosse riusciti a tostarla, sprecando tantissimo tempo, avremmo ottenuto dei granelli secchi e completamente privi di umidità. Ecco perché usiamo il metodo dello strato sottile in forno. Le due superfici cauterizzate ci daranno sufficiente Maillard. Ma la carne al centro conterrà ancora succosità e sapore. Ora mettete da parte e dedicatevi alla preparazione del soffritto non soffritto.

Soffritto non soffritto 200 g di cipolla rossa (40%) 150 g di carota (30%) 150 g di sedano (30%)

04. Le verdure Così come il macinato, le verdure tradizionalmente utilizzate per il soffritto ci serviranno per amplificare la nota tostata e per apportare dolcezza, nota erbacea e soprattutto freschezza. Non le abbiamo cotte insieme alla carne o al sugo per preservarne gusto, intensità e consistenza. A questo punto preparate una brunoise con cipolla rossa (40%), carota (30%) esedano (30%). Tagliate le verdure a cubetti di 2-3 mm, asciugatele con cura con della carta assorbente, ungete con olio, che veicolerà il calore, e distribuitele su una teglia ricoperta di carta forno. Cuocete in forno preriscaldato a 180°C posizionandole al centro del forno e rigirandole di tanto in tanto. Dovete ottenere dei cubetti di verdura caramellati, freschi, saporiti e soprattutto ancora intatti. 05. L’assemblaggio Per dare corpo, struttura e leggerezza al ragù dovete emulsionare la salsa con un grasso. Non con panna, latte e derivati. È importante però che il sugo sia ben caldo per ottenere una crema densa e vellutata. A questo punto potrete aggiustare di sale, pepe e quant'altro.Aggiungete 100 ml di olio extravergine di oliva, tuffate il minipimer nel tegame e via ad agitare finché non diventa densa e di un colore arancione brillante. Una volta raggiunti i 70°C- 80°C “condite” la salsa emulsionata sgranando con le mani la carne macinata arrostita e le verdure rosolate. Lasciate raffreddare e mettete da parte.

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I piselli

Dosi per circa 28-30 arancine 200 g di piselli freschi o surgelati 25 g di burro 1 scorzetta di limone sale q.b. pepe q.b.

Io non ho particolare simpatia per questa leguminosa verde, però devo ammettere che nell’arancina ci sta da Dio. L’unico modo per non sciupare i piselli è cuocerli sottovuoto ad 84°C per un’ora e unirli al ragù una volta pronti. In questo modo eviterete di stracuocerli e ne preserverete gusto, dolcezza e consistenza. Versate nel sacchetto i piselli e aggiungete il burro, la scorzetta di limone, il sale e il pepe. Agitate e lasciate nel bagno termostatico. Rimarranno belli verdi e gonfi. Un volta cotti, aggiungeteli al ragù di carne e mettete da parte.

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LA FORMATURA DELLE ARANCINE Abbiamo tutta linea pronta, gli ingredienti sono disposti sul piano di lavoro e si sono raffreddati, non ci resta che assemblare il tutto. Esistono in commercio degli stampi modulari per la formatura delle arancine, sono accessori semplicissimi da utilizzare, io ce li ho di tutte le forme e misure perché sono veramente comodissimi. Per chi non avesse voglia di investire in un attrezzo specifico, che resta francamente una gran figata, si può sempre utilizzare uno stampo a semisfera in silicone o il palmo della mano. Bagnato, mi raccomando, altrimenti vi ritrovate con chicchi di riso pure nelle orecchie. Prendete il vostro stampo, riempitelo di riso, fate il buchetto per il ripieno e chiudete. Al ragù potete aggiungere cubetti di provolone o del formaggio semi stagionato che vi piace di più. Inumidite le mani leggermente, sistemate le arancine in fila come tanti soldati (con la panza) su una leccarda foderata di carta forno e riponete in frigo.

La pastella 120 g di farina di riso 90 g di amido di riso (o mais) 6 g di sale 500 ml di acqua (dose indicativa)

Il glutine (quella grossa molecola proteica che si forma quando si impasta la farina con l’acqua e gliadine e glutenine si dispongono a formare una rete) in frittura, non serve. Quello che ci occorre non è un composto elastico e gommoso ma una soluzione colloidale che renda la nostra arancina croccantissima e friabile, arricchita da una crosta sottile e asciutta. Useremo la farina e l’amido di riso perché questo cereale non riesce a formare il glutine, poiché le prolammine (proteine dei cereali) contenute in esso sono in bassissima concentrazione. Una volta preparata la pastella unendo a freddo tutti gli ingredienti, seguite questi step: • Immergete le arancine nella pastella (aiutatevi con una schiumarola), che avrete sistemato in una ciotola profonda, e poi rotolate subito nel pangrattato. Impanate bene facendo aderire su tutti i lati e sistemate le arancine in una teglia foderata con carta forno. • Disponete le arancine su un unico strato su di un vassoio e trasferite in congelatore per venti minuti, o in frigorifero per un paio d’ore. Una volta raffreddate completamente, scaldate l’olio. • Quando l'olio avrà raggiunto i 190°C friggete le arancine in immersione, devono sprofondare completamente. Pochi pezzi alla volta o la temperatura dell’olio si abbassa e inzuppate la panatura. • Cuocete fino a quando non si colorano esternamente, dovete solo portare a cottura la pastella perché riso e ripieno sono già cotti. L’ingrediente segreto È facoltativo. Di tanto in tanto aggiungo alla pastella dell’amido di mais modificato, o E1420. Questa polverina arricchita in amilosio crea un film che in frittura si trasforma letteralmente in vetro croccante, proteggendo inoltre l’arancina da un assorbimento di olio incontrollato. La proporzione è 2,5%, 2,5 grammi per 100 grammi di pastella. PASTA E RISO

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PER OGNI PROBLEMA UNA SOLUZIONE Perché gli incidenti capitano anche nelle migliori famiglie. 1) L’arancina rimane attaccata allo stampo. Cause: • Avete aggiunto uova al riso o formaggio. Disgraziati che non siete altro. • C’è troppo poco burro nel riso. • Il riso è ancora troppo umido e caldo. • Avete utilizzato una tipologia di riso poco adatta. Soluzione: provate a ungere leggermente lo stampo con dell’olio o burro, ma la prossima volta attenetevi scrupolosamente alla ricetta. 2) L’arancina si spappola, è troppo molle e non riuscite a friggerla. Cause: il riso è ancora troppo umido e caldo. Soluzione: lasciate raffreddare e asciugare per bene il riso e fatelo riposare in frigorifero per qualche ora, anche una notte se necessario. CONSERVAZIONE E RIGENERAZIONE Con un kg di riso vi vengono fuori circa 28 arancine, ma nulla vi vieta di raddoppiare le dosi e farne di più (con tutto quel ragù ne preparate almeno una sessantina). Potete pre-friggerle, farle raffreddare e surgelarle. Quando ne avete voglia, potete tuffarle nuovamente nell’olio da surgelate, oppure ripassarle in forno ventilato a 190°C. E regalarvi sprazzi infiniti di godimento assoluto: mordere la crosta scrocchiarella e saporita, affondare nel riso profumato di burro e zafferano, arrivando fino al ripieno, aromatico e sapido, con le note balsamiche di basilico che si arrampicano sugli sbuffi di vapore. 58

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1.5 – PASTA CON LA GENOVESE Per i pochi sventurati che non lo sapessero, il sugo alla genovese è una sorta di ragù bianco totalmente estraneo agli affari della capitale ligure. Sono davvero tantissime le leggende su quella che viene chiamata semplicemente "la genovese". Qualche certezza: pare davvero che sia nata a Napoli, che è di sicuro un piatto della cucina popolare e che si ottiene dalla cottura lunga di bilici di cipolle e carne. Questa cottura infinita disfa sia le une che l’altra. Oltre a trasformare l’intera casa in una pompa di metano. Solitamente, si condiva il sugo con la pasta e si lasciava la carne per secondo. Oggi si mangiano assieme in tutta la loro complessità. Se avete provato la genovese partenopea saprete che è un piatto che respinge qualsiasi via di mezzo: è opulento, potente, unto, spiccatamente dolce e al contempo acido. Dopo averlo ingerito il vostro alito profumerà come quello di un Alpino ubriaco con la cirrosi epatica dopo che ha masticato tabacco e tartufo nero. Ma quanto è buono, maronna mi’. Smisuratamente godurioso. Un cibo confortante che placa la golosità e ti lascia immerso nelle endorfine. I rischi in cui si incorre cucinando la genovese sono molteplici: scegliere il taglio di carne sbagliato, cuocere troppo le cipolle, esagerare con le carote, ritrovarsi con un sugo che sa di bollito, coi condimenti praticamente devastati dal calore, per poi sporcare appena la pasta con una salsa slegata e unta. Il compitino ambizioso che mi ero assegnato era quello di eliminare gli elementi fastidiosi da questo piatto senza intaccarne aroma e godibilità. Concentrare ed esaltare i sapori di carne e cipolle e migliorare la ricetta dal punto di vista della digeribilità. E devo dire che dopo qualche tentativo ci sono riuscito. Il risultato è stato devastante. Per chi l’ha assaggiata, una genovese “scostumata” e ottantamila leghe superiore all’originale, più buona e più digeribile. Mai più fiato da sciacallo e manate di Vigorsol, giuro. LA STORIA C’è chi è pronto a spergiurare sull’esistenza di un cuoco inventore che di cognome faceva Genovese, chi invece si intestardisce con la storia del monzù (monsieur, Signore, in pratica i cuochi che provenivano dalla corte di Francia, approdando alla cucina napoletana e completandone la grandezza e... grassezza) di Ginevra (Genève, Genevois e quindi Genovese), chi straparla di osti genovesi e proprietari di numerose trattorie in zona Napoli porto (pare che questi stufassero la carne con le cipolle, nonostante non se ne faccia menzione in nessun libro sulla gastronomia ligure). Sta di fatto che la genovese è una ricetta famosa a tutte le latitudini, che dà la possibilità (e una volta, questa era la regola) di mangiare anche la carne come secondo piatto, servendo la pasta con il solo sugo delle cipolle ed alcuni pezzettini di carne sfaldatisi durante l’interminabile cottura. L’unica certezza che abbiamo su origine e usi, a parte PASTA E RISO

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il liquorino digestivo a fine pasto, è l’essenzialità e la semplicità degli ingredienti: carne e cipolle. Nella mia versione non giocheremo con i componenti ma con la tecnica: andremo a preparare una demi-glace di carne esagerata, un “assoluto di cipolla” e condiremo la pasta aggiungendo del macinato ben rosolato e una julienne di cipolla arrosto. Intrigante, no? LA CARNE A stare appresso ai napoletani dovremmo utilizzare solo il “lacierto”, il girello, che dovrebbe essere rigorosamente di annecchia (cioè una manzetta macellata prima che compia un anno) o la “colarda” (in italiano, scamone). Ma sono entrambi tagli troppo magri e poveri di collagene per essere cotti a lungo. Solo i più scafati tra i campani utilizzano il “gammunciello” (gamboncello, il geretto posteriore di manzo), un taglio che potrebbe anche prestarsi, ma che noi utilizzeremo in un altro modo.

Ingredienti per il brodo 1 stinco di manzo 1 cipolla ramata 2 carote 1 costa di sedano Pepe in grani Bacche di ginepro Rametti di timo fresco 2 foglie di alloro 3 litri di acqua

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IL BRODO Per preparare la genovese scientifica vi serve un buon brodo di carne. E per preparare un buon brodo di carne vi serve uno stinco di manzo, anteriore o posteriore non fa differenza. Fatevi disossare il geretto dal macellaio e chiedetegli di segare l’osso a rondelle o a baguette, in senso verticale. Raschiate via il midollo e mettetelo da parte, ci servirà per la demi-glace. Tostate le ossa e la polpa dello stinco in forno a calore feroce (230°C) con poco olio, poi deglassate con acqua la crosticina brunita che si sarà formata sul fondo. Trasferite il tutto in una pentola alta e aggiungete acqua, sedano, carote, cipolla, alloro, bacche di ginepro e grani di pepe. Lasciate sobbollire e mettete da parte. LA DEMI-GLACE VELOCE (Senza perdere il sonno dietro alla ricetta francese, che già abbiamo tanto da fare.) Seguendo la scia profumata del mio ragù, la genovese scientifica deve avere un sugo di carne bello intenso, e per ottenerlo ci servono due tipologie di tagli: CODICE LO CASCIO


• 1 taglio ricco di tessuto connettivo, che sarà la base della demi-glace • 1 taglio più magro, con il quale dare struttura e consistenza al sugo finale. La carne ricca di collagene andrà ad arricchire la salsa, mentre il macinato darà consistenza e sapore al piatto, senza essere inutilmente esposto alla cottura lunga. Per arricchire la demi-glace con una buona quota di gustosa gelatina possiamo utilizzare: • Top Blade, Feather blade, Oyster Blade, oppure in italiano Copertina di spalla e Cappello del Prete. In base alla nomenclatura italiana è il muscolo della spalla, quindi proveniente dalla mezzena anteriore dell’animale. È il taglio perfetto per le cotture prolungate grazie al quantitativo generoso di tessuto connettivo; • Chuck Roll, o Reale, comprende i muscoli del collo dell'animale fino alla quinta vertebra. È un taglio incredibilmente saporito, una parte del manzo ricchissima di tessuto connettivo e grasso. • Biancostato, situato nella parte bassa delle coste e particolarmente carico di collagene; • Punta di petto, il muscolo della parete addominale farcito di tessuto adiposo e del collagene delle costole; Scegliete tra uno di questi quattro tagli e nessuno si farà male, io ho usato i primi due.

Ingredienti per la demi-glace 2 kg di Top Blade (cappello del prete) o di Chuck Roll (reale) GLC Top Selection Blue Ox Prime 1 carota 1 cipolla 1 costa di sedano 1/2 testa di aglio 50 g di concentrato di pomodoro 50 g di burro 1 bicchiere di vino rosso 2 litri di brodo Il midollo dello stinco utilizzato per il brodo (non è fondamentale) 2 rametti di rosmarino 1 chiodo di garofano sale q.b.

Ma come facciamo ad estrarre questa gelatina dalla ciccia e trasferirla direttamente nella demi-glace? Semplicissimo, basterà portare la carne ad una temperatura superiore a 68°C. È proprio in quel momento che il collagene si scioglie e si trasforma in un gel saporito. Dobbiamo dunque fare una salsa, bella densa ma comunque fluida. E che sappia di manzo, ma di brutto. Quindi l'obiettivo fondamentale è quello di estrarre sapore dalla ciccia e infilarlo nella salsa. Per fare questo ci concentriamo sue due processi: generiamo quanto più sapore possibile e poi lo estraiamo. Primo step: tostatura della carne in forno Tagliate la carne a cubi grossi, mettete la placca nel forno, sotto al grill e tostatela come se fosse l'ultimo giorno prima del lockdown, senza nemmeno il pelo di un cane da portare giù. Ben brunita, Maillard a cannone. Vi resteranno dei liquidi e grassi disciolti nella teglia. Recuperate fino all'ultima goccia perché ci servirà dopo. Stessa identica cosa farete con i cubetti di verdura: sedano, carota, cipolla, più l’aglio a spicchi interi. Mescolate la verdura con dell'olio e poi tostate bene in forno. Abbiamo creato tantissima superficie aromatica sia grazie alla reazione di Maillard che alla caramellizzazione. PASTA E RISO

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Queste reazioni, come sappiamo, creano molecole profumate e gustose che non esistono in natura. Molecole che, in buona parte, passeranno alla fase liquida successiva. Abbiamo ottenuto ciò che avevamo in testa: generare sapore. Secondo step: estrazione Adesso possiamo passare alla fase successiva che sarà quella dell'estrazione. Fiamma sostenuta, poco burro nel tegame, si buttano dentro le verdure rosolate, il midollo e la carne tostata con i suoi liquidi. Aggiungiamo del concentrato di pomodoro, sciogliamo bene e amalgamiamo al resto. Terzo step: la fase liquida Prima bagniamo con un bel bicchierone di vino rosso di buona struttura. Lasciamo che l'alcol evapori e poi allunghiamo con il brodo di manzo preparato in precedenza. Potete sostituirlo con del brodo vegetale, di pollo, come vi pare, l’importante è non salarlo. Se non ce l'avete usate l’acqua. Aggiungete il rosmarino e i chiodi di garofano, se volete potete utilizzare una garza e assemblare un bouquet garni (un mazzetto di erbe aromatiche che preferite).

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Fate prendere il bollore sempre a fuoco feroce, abbassate la fiamma e lasciate cuocere con il coperchio, fin quando la carne non si sarà disfatta. Fate ridurre della metà, date una schiumatina se occorre (potrebbero affiorare delle impurità) e poi filtrate il tutto. Vi serve solamente la parte fluida. Con la carne e le verdure ormai strizzatissime potete fare due polpette da friggere. Ci rompete un uovo dentro, pane ammollato, un po' di Parmigiano e via di stuzzichino. A questo punto abbiamo un fondo bruno super carico di sapore. Non resta altro da fare che trasformarlo in demi-glace, facendolo ridurre in un pentolino. Una volta ottenuta una salsa spessa, aggiungete il sale (non-salate-prima!), trasferite in un boccale e immergete il contenitore in acqua fredda. Emulsionate con un minipimer fin quando non avrete ottenuto una crema areata, simile ad una maionese. Trasferite in frigorifero, una volta freddo acquisirà la consistenza di un paté. LA CIPOLLA In Italia siamo maestri della diversificazione e della specializzazione. Le cipolle non sono tutte uguali, ma manco per sogno. Ogni cipolla ha le sue caratteristiche ben precise, uno scopo e un utilizzo. La cipolla bianca: le cipolle bianche dividono: c'è chi dice che siano le più pungenti e chi sostiene che siano molto delicate. Questo perché di cipolle bianche ne esistono moltissime varietà. La cipolla rossa: la dolcezza è sicuramente la forza della cipolla rossa. Il suo sapore è un po' più pungente e il suo profumo più potente di quello della cipolla bianca, ma il contenuto di zuccheri è maggiore. La sua naturale dolcezza le rende l’ingrediente ideale per i sottaceti o per le composte. L'altra caratteristica imprescindibile di questi bulbi è chiaramente il colore: questa sfumatura di rosso che regala ai piatti una nota cromatica molto particolare. La cipolla ramata: ha un contenuto solforoso molto importante che le dona un sapore e un odore molto forti. Cucinarla è un dovere, non azzannatela mai cruda, poiché il calore permette alla dolcezza della cipolla ramata di esprimersi alla perfezione.

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Le cultivar da conoscere

Cipolla rossa di Tropea IGP. Orgoglio gastronomico di Calabria, ha il riconoscimento IGP se coltivata e raccolta in provincia di Vibo Valentia e Cosenza. Ha forma ovale, colore fucsia acceso e gusto dolcissimo. Ottima a crudo e in composta. Cipolla di Certaldo Dai versi del Decamerone allo stemma cittadino, la cipolla di Certaldo, comune della provincia di Firenze, è entrata nella storia. Comunemente detta La Certaldo, dolce e viola nella varietà statina, rossa accesa e pungente nella vernina, è particolarmente indicata per preparare la zuppa di cipolle. Cipolla belendina di Andora Rossa, grossa, succosa e dolce. La cipolla belendina di Andora fa parte dei prodotti appartenenti ai Presidi Slow Food e coltivato sulla piana di Andora, tra le provincie di Savona e Imperia: il salvatore di questa cultivar ha nome e cognome, ed è il contadino Trentino Bellenda (da cui il nome). Bellenda, in solitaria, ha recuperato la specie. La belendina ha una caratteristica forma a fiasco e può arrivare a pesare oltre un chilo. Si usa per preparare la farinata di ceci con cipolle. Cipolla rossa di Lamezia Terme Varietà molto antica dal sapore dolce e dalla consistenza croccante, anch’essa Presidio Slow Food. Ottima per la panzanella. Cipolla rossa di Breme La particolarità della rossa bremese, cipolla dolcissima pavese, consiste in un ciclo di produzione lunghissimo (quasi due anni) realizzato interamente a mano.

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Fondamentale per due piatti tipici della zona, l’insalata bremese con cipolla, tonno e fagioli e il baruat a base di cipolla, rane e polenta.

Cipolla rossa genovese Questa varietà sferica e molto dolce viene coltivata nell’entroterra di Chiavari, Lavagna e Sestri Levante. Conosciuta anche come “cipolla di Zerli”, è molto apprezzata a crudo, sulla focaccia o nelle torte salate della cucina tipica ligure. Cipolla rossa di Acquaviva Acquaviva delle Fonti, provincia di Bari, deve il suo nome alla falda sotterranea perenne, riserva di acqua dolce che nutre e arricchisce il suolo di sali minerali. Soprattutto, lo rende adatto alla coltivazione della cipolla rossa locale, dolcissima e dalla classica forma appiattita. Questo Presidio Slow Food, la cui produzione è limitata al solo territorio comunale, si mangia volentieri a crudo o caramellato. Cipolla rossa di Bassano Di colore variabile tra il rosa e il rosso, la cipolla di Bassano del Grappa ha forma piatta, polpa bianca e gusto spiccatamente dolce. Si fa sott’olio, fritta oppure in saor, il tipico agrodolce veneto con uvetta, aceto, pinoli e le immancabili sarde. Cipolla vernina di Firenze La forma è quella di una trottola. La vernina di Firenze ha colore rosso acceso e odore forte e pungente. Per domarla bisogna stufarla o arrostirla, come nelle salsicce con patate e cipolle al forno.


Cipolla di Cannara Le prime testimonianze della cipolla di Cannara, provincia di Perugia, risalgono al Cinquecento. Dall’Ottocento la produzione di questa varietà dal sapore delicato e dall’ottima digeribilità si fa specifica e dedicata. Dà il meglio sulla pizza tonno e cipolla.

Cipolla paglina di Castrofilippo Minuscolo Presidio Slow Food della provincia di Agrigento, si distingue per il colore giallo pallido, il sapore dolce e delicato e la versatilità in cucina. Ottimo da crudo, si utilizza nei piatti tradizionali come la cipuddata e la frittata di cipuddetti.

Cipolla di Brunate Bianca, globosa, croccante e fragrante: la brunatese o scigulìtt in dialetto comasco è una cipollina medio- piccola, ideale per essere messa in conserva sott’olio o sott’aceto. Complice inseparabile della luganega, diventa protagonista assoluta nella zuppa di cipolle.

Cipolla bionda di Cureggio e Fontaneto Bionda, piatta e dolce, va ad arricchire i piatti tipici del territorio come la frittata rognosa, a base di salame, e la rustìdä, un secondo a base di carne e frattaglie di maiale.

Cipolla bianca di Margherita IGP Questa IGP pugliese coltivata nella zona di Barletta si distingue per forma piatta e precocità. Le sue caratteristiche principali sono croccantezza e succulenza. Il sapore dolce e pungente si apprezza particolarmente a crudo: ad esempio nell’insalata tonno, olive, pomodorini e cipolle. Cipolla bianca di Chioggia Con la cipolla bianca di Chioggia, perfettamente tonda e croccante, si preparano le sarde in saor, aromatiche e agrodolci, oppure il fegato alla veneziana Cipolla bianca di Fara Filiorum Petri Coltivata dal 1300 in Val di Foro, nel cuore dell’Abruzzo, questa varietà antichissima del comune di Fara Filiorum Petri, ovvero la “terra dei figli di Pietro”, è protetta da Presidio Slow Food. Dal sapore dolce e aromatico, si apprezza da sola, alla brace o nella cipollata, lo stufato di cipolle, olio e acqua.

Cipolla di Sermide La Sermide è una varietà mantovana di colore giallo paglierino e dal gusto spiccatamente dolce. Il suo uso tradizionale è nel tiròt, una focaccia a base di cipolle il cui impasto viene “tirato” direttamente nella teglia prima della cottura. Cipolla di Banari Questa varietà del sassarese ha bulbo bianco e schiacciato che può raggiungere dimensioni (e peso) considerevoli. Ha un gusto particolarmente dolce ed è ottima al forno o fritta in pastella. Cipolla dorata di Parma La cipolla dorata di Parma è una delle cultivar più diffuse in Italia, perfetta per soffritti, sughi e brodi. Cipolla di Suasa Questa cipolla marchigiana, coltivata tra Pesaro-Urbino e Ancona, è rosa dentro e viola fuori. Recuperata in extremis una ventina di anni fa, è buonissima alla brace, al gratin o in composta. PASTA E RISO

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Cipolla di Alife La cipolla di Alife (comune in provincia di Caserta), documentata fin dall’epoca romana, prima di diventare una specialità gastronomica è stata medicina e talismano. Oggi purtroppo è a rischio estinzione, tenuta in vita dal Presidio Slow Food e dall’impegno di pochi e accurati produttori. Ha colore rosso ramato ed è buona anche cruda. Cipolla di Cavasso e della Val Cosa Nella provincia friulana di Pordenone si nasconde la Val Cosa, tra i prodotti tipici spicca la cipolla, ora ramata, ora rosa acceso ma con un inconfondibile cuore croccante e dolce. Il Presidio Slow Food ne tutela la produzione, caratterizzata da una lunga conservazione in trecce. Cipolla di Vatolla Piccola e a forma di trottola, dalle sfumature rosate, la cipolla di Vatolla (Perdifumo, provincia di Salerno) ha un gusto delicato e versatile in cucina. Dal Cilento, terra in cui è nata la dieta mediterranea. Cipolla borettana Piccola e piatta, la borettana è la varietà suprema da aperitivo, da infilzare senza pietà. Un modo originale per gustarla è arrosto con miele e spezie. Cipolla di Isernia Da secoli a Isernia si coltiva questa varietà bianca dal bulbo molto schiacciato, raccolta tradizionalmente verso la fine di giugno e celebrata in occasione della festa di San Pietro e Paolo. Considerata una cipolla fresca, ha odore e sapore poco accentuati ed è ideale per essere consumata a crudo. Cipolla di Giarratana 68

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Un Presidio Slow Food e un peso massimo delle cipolle: la Giarratana parte infatti dai 500 grammi e può superare i 2 chili di peso. Ingrediente della gastronomia tipica ragusana, questa varietà sapida e poco pungente viene utilizzata comunemente nelle scacce, panzarotti ripieni di pomodoro e cipolla. Perfetta anche per lo sfincione palermitano Cipolla di Pignona Bionda tendente al ramato e leggermente schiacciata, la cipolla di Pignona è una varietà ligure della Val di Vara che può raggiungere il chilo di peso. Per dimensioni e gusto dolce, si presta alle cotture aggressive come frittura e griglia. Cipolla di Treschietto Un esemplare più unico che raro, la cipolla di Treschietto è di forma piatta e di colore rosso rubino intenso. Coltivata sull’Appennino tosco-emiliano, è un prodotto cosiddetto a “edizione limitata”. Buonissima cruda, in insalata. Cipolla piatta di Andezeno Solo quattro produttori tengono in vita questa varietà piatta e dorata della provincia di Torino. Ha consistenza tenera, gusto dolce e si serve ripiena. Cipolla ramata di Milano La ramata di Milano è caratterizzata dalla forma allungata, le grosse dimensioni e sapore pungente. Goduriosa in pastella in stile onion rings. Cipolla ramata di Montoro Eccola qui. La cipolla perfetta per la pasta alla genovese? La ramata di Montoro, varietà dolce e aromatica della zona tra Avellino e Salerno. È lei la nostra cipolla.


LA SCIENZA DEL SAPORE DELLA CIPOLLA Le cipolle possono essere dolci, saporite, aspre, morbide o croccanti, hanno così tante facce diverse, e tutte si palesano in contesti differenti. Tuttavia, le diverse espressioni hanno origine dalla stessa cipolla e dalle stesse molecole, tanto per cominciare. Tutto inizia con una cipolla cruda, le cipolle sono un ortaggio unico nel loro genere: crescono sottoterra e sono fatte a strati. Poiché si tratta di bulbi, sono destinate a immagazzinare molta energia per la crescita della pianta, che viene stoccata sotto forma di zuccheri. Le cipolle sono strettamente imparentate con l'aglio, un bulbo anch’esso, ed entrambi appartengono alla famiglia degli Allium. L'importanza del suolo. Lo zolfo è un atomo essenziale per lo sviluppo dei sapori e degli odori tipici della cipolla, ma può essere assorbito solo attraverso il terreno. Di conseguenza, nei terreni con più zolfo cresceranno cipolle con sapori e odori più forti. Naturalmente, molto dipende anche dalla cultivar, alcune cipolle assorbono meno zolfo rispetto ad altre. Come scegliere la cipolla giusta? A domanda rispondo. Le dimensioni contano? Ahhhhh, una domanda che ritorna sempre. Le dimensioni di una cipolla hanno poca influenza sul sapore. Almeno su questo potete stare tranquilli. Come faccio a distinguere le cipolle mature da quelle andate a male? Non importa che tipo di cipolle scegliete, assicuratevi che siano sode al tatto quando le acquistate. Se le radici o l’estremità dello stelo vi sembrano un po’ moscette, è probabile che anche gli strati interni siano marcescenti. Qual è il posto migliore per conservarle? Conservate le cipolle in un luogo fresco, asciutto, buio, ma mai in un contenitore sigillato, che intrappolerebbe l’umidità e le farebbe marcire. Le cipolle già tagliate possono essere messe in un sacchetto di plastica e conservate in frigorifero. Avrete notato che, come le scarpe e le sale cinematografiche, alcune cipolle “odorano” più di altre. C'è un modo per saperlo prima di comprarle? L'odore di una cipolla dipende in gran parte da quanto tempo è stata conservata. Più è stata in magazzino (in alcuni casi, fino a mesi), più sarà pungente. Generalmente le cipolle vengono vendute senza un’etichetta di produzione, ma per distinguere le “vecchie” dalle “nuove” dobbiamo guardare la “buccia”. Le prime hanno uno strato superficiale più spesso e duro, mentre le cipolle più fresche hanno tuniche esterne (così si chiamano gli strati che generalmente buttiamo via) più sottili e trasparenti.

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LA CHIMICA DELLA CIPOLLA: I TIOSOLFATI La chimica della cipolla (e degli Allium in generale) è determinata per la maggior parte da molecole che contengono un atomo di zolfo (S), i cosiddetti composti solforati. Ciò che determina il sapore e l'odore delle cipolle sono i tiosolfati. Sono questi componenti che ci fanno piangere a fontanella, ma che conferiscono anche aroma e profumo (o puzza, decidete voi). Quello che è interessante, però, è che la cipolla cruda non contiene queste molecole in forma attiva. Al contrario, si formano solo quando viene danneggiata o tagliata a fette. L’azione della lama rompe le strutture cellulari, liberando il contenuto dei vacuoli. Di conseguenza, specifici enzimi (le allinasi) entrano in contatto con le molecole della cipolla e catalizzano una serie di reazioni. che portano alla formazione di acido solfenico e successivamente di tiosolfati, come ad esempio il tiopropanal-S-ossido, la molecola che stimola la lacrimazione e contribuisce anche al caratteristico odore e sapore di cipolla, . Ma cosa si può fare per evitare l'azione dell'allinasi?

Acido solfenico

L'acido solfenico è un acido organico contenente un atomo di zolfo e avente formula generale RSOH. Gli acidi solfenici sono prodotti attraverso la decomposizione enzimatica dell'alliina e dei composti correlati in seguito al danneggiamento dei tessuti dell'aglio, delle cipolle e di altri appartenenti al genere Allium. L'acido 1-propensolfenico, formato quando vengono tagliate le cipolle, viene convertito enzimaticamente in modo rapido formando il tiopropanal-S-ossido che è un agente lacrimogeno.

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Il controllo dei tiosolfati Il taglio della cipolla è la prima misura di controllo dei tiosolfati. Poiché i componenti dell'odore e del sapore si formano solo dopo che la polpa è stata tagliata a pezzi, tagliando una cipolla più finemente questa sprigionerà più sapore. È vero anche il contrario però, se si fa bollire una cipolla, si disattivano gli enzimi prima ancora che catalizzino una reazione chimica. Di conseguenza, a questa cipolla mancherà una parte del suo sapore caratteristico. E quindi, che si fa? Cuocere le cipolle. Un italiano impara la lezione solitamente prima di iniziare ancora la fase della lallazione. Quando si saltano le cipolle a calore moderato, queste diventano di un marroncino chiaro, color caramello. Stiamo parlando della cara e vecchia reazione di Maillard, una reazione tra zuccheri riducenti e proteine. In un mondo ideale, mentre le cipolle cuociono, tre cose accadranno contemporaneamente: 1. il completo ammorbidimento delle strutture cellulari della cipolla; 2. la massima caramellizzazione degli zuccheri (prima che le note amare comincino a svilupparsi); 3. una buona reazione di Maillard. CODICE LO CASCIO


Ve l’ho promesso all’inizio: la genovese scientifica sarà un concentrato di gusto e più digeribile di quella tradizionale. E per concentrare e alleggerire la quota cipolle, dobbiamo fare una cosa importante, che avete già imparato a fare con l’aglio e olio: disattivare gli enzimi cattivi. Mai più alito che sa di Apocalypse Now.

L'assoluto di cipolla Ingredienti

15 cipolle ramate (preferibilmente le già sopracitate cipolle di Montoro).

Lista degli ingredienti più che essenziale, vi serviranno solo delle buone cipolle ramate. Prendetele così come sono, senza nemmeno pelarle, sistematele su una teglia rivestita di carta forno e mettetele in forno a 230°C fino quando non arrivano a 65°C interni. Per misurare la temperatura, utilizzate una cipolla “spia”, che infilzerete con la sonda e scarterete una volta pronta. Una volta cotte, pelatele e tenete da parte mezza cipolla per commensale, ci servirà per finire il piatto. Il resto delle cipolle va infilato direttamente in un estrattore di succhi (o grattugiato/tritato) e poi spremuto e filtrato. Quel liquido, ricchissimo di glucosio, fruttosio e saccarosio, va versato in un pentolino dal fondo spesso e poi cotto, fin quando non si riduce ad un terzo e diventa color caramello mou. PASTA E RISO

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Ingredienti per il condimento 6 Burger Blue OX del Megastore olio extravergine di oliva q.b.

CONDIMENTO #01: IL MACINATO DI CARNE Adesso si passa alla preparazione del macinato, dev'essere un mix bilanciato di magro, grasso cartilagine. Quindi avete l'opzione "vado dal macellaio e mi faccio tritare un po' di questo e un po' di quello" oppure prendete i nostri burger e avete risolto la pratica”. Sono già perfetti così. Distribuite il macinato su una teglia ricoperta di carta forno, asciugate con cura con della carta assorbente e ungete leggermente con poco olio. Scatenate una massiccia reazione di Maillard cuocendo in forno preriscaldato, con il grill sparato a 230°C e posizionando la teglia al centro del forno. Lasciate lo sportello leggermente aperto per permettere al vapore di fuoriuscire. A queste punto non vi resta che rigirare il foglio di carta forno e lasciar rosolare l’altro lato, sempre a 230°C, a grill spinto. Fate uno strato di carne non troppo sottile, così le due superfici cauterizzate ci daranno sufficiente Maillard, ma la carne al centro sarà ancora succosa e morbida. CONDIMENTO #02: LA JULIENNE DI CIPOLLE Ricordate le cipolle infornate che vi ho fatto tenere da parte? Ricavatene una julienne, anche grossolana, vi servirà per condire la pasta. L’ASSEMBLAGGIO DEL PIATTO A questo punto avrete preparato la demi-glace, ormai fredda ed emulsionata, l’assoluto di cipolla, il macinato tostato e la julienne di cipolla. È arrivato il momento di mettere su l’acqua: calate ziti spezzati, candele, paccheri, rigatoni o calamarata, l’importante è che sia pasta trafilata al bronzo ed essiccata lentamente, bella ruvida e porosa. Terrà la cottura senza fare una piega e tratterrà per benino il sugo. In una padella, stemperate un cucchiaio abbondante di demi-glace e due cucchiai rasi di assoluto di cipolla per commensale, aggiungete acqua di cottura, il macinato bello sgranato, la julienne di cipolla e terminate la cottura della pasta, agitando bene per tirare fuori tutto l’amido. Servite la genovese con una spolverata di Parmigiano, o del formaggio stagionato che preferite, andrà ad equalizzare le note dolci della cipolla. E poi dite a tutti che Gianfranco l’eretico l’ha fatto di nuovo. Il limonage è salvo, pure senza mentine.

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1.5 – SPAGHETTI ALL'ASSASSINA In molti casi, il cucinare può diventare una forma di omicidio colposo. C’è chi ammazza con il pollo crudo, chi assassina con l’uovo bavoso, chi soffoca con la torta asciutta. Esiste però un primo piatto pugliese che di criminale ha solo il nome: gli spaghetti all’assassina. Il delitto vero sarebbe non assaggiarli almeno una volta nella vita. Ma cosa ha di così straordinario questa ricetta da meritare una rivisitazione scientifica, vi starete chiedendo. Ebbene, nella pietanza barese di cui sto per svelare ogni segreto, gli spaghetti non vengono lessati in acqua bollente e salata, ma cotti nella salsa di pomodoro e una dose importante di peperoncino, direttamente nella padella di ferro. In questo modo il condimento si restringe per bene e gli spaghetti soffriggono e si sbruciacchiano pure un po’, creando una crosticina paradisiaca. Buoni da morire. LA STORIA Gli spaghetti all’assassina nascono poco più di una cinquantina di anni fa, esattamente al 1967, in una piccola trattoria della città di Bari. Felice Giovine, demologo, storico della città di Bari, Direttore del Centro Studi Baresi, dell’Archivio Storico delle Tradizioni Popolari Baresi e dell’Accademia della Lingua Barese “Alfredo Giovine”, è l’intellettuale che ha ripercorso la storia della ricetta attraverso ricerche fatte su documenti storici di sua proprietà e intervistando l’inventore degli spaghetti in questione: un foggiano. Il suo nome è Enzo Francavilla. Riporto parte dell’intervista. ““Ero un giovane cuoco – racconta Francavilla – e avevo fatto la gavetta al Sarti di Foggia, ma sono

venuto a lavorare a Bari insieme ad altri due amici di Cerignola, perché assunto alla “Sirenetta”, locale in via Melo, di proprietà della storica famiglia Vincenti. Alla “Sirenetta”, ho lavorato per una decina d’anni, ma poi ho deciso di mettermi in proprio e di rilevare dai Fusaro “Il Sorso preferito”. Contemporaneamente lavoravo anche alla “Sirenetta a mare”, sul lungomare che da San Giorgio porta a Torre a Mare, poco dopo il lido “Il Trullo”. Il mio aiuto era necessario soprattutto in quelle serate in cui venivano ad esibirsi i grandi cantanti di quegli anni, come Mina, Fred Bongusto, Peppino di Capri, Patty Pravo, Bruno Martino, Gianni Morandi e popolari attori dell’epoca come Gino Bramieri e Renato Rascel. Appena ho aperto il “Sorso”, solo un paio di giorni dopo, sono entrati due signori provenienti dal Nord Italia e mi hanno chiesto di preparare loro un primo piatto che fosse gustoso e sostanzioso. Mi sono inventato così un piatto di spaghetti con una salsa di pomodoro e una generosa dose di peperoncino, preparati direttamente nella padella di ferro, facendo “stringere” bene il condimento e creando così una gustosa crosticina esterna. Li ho serviti consigliando loro di bere soltanto a fine piatto e così hanno fatto. Poi mi sono avvicinato per chiedere se avessero gradito e uno di loro mi ha detto soddisfatto:”Buonissimi davvero”. Poi, sicuramente riferendosi a quanto erano stati graditi ma soprattutto alla piccantezza, ha aggiunto sorridendo:” Sei un assassino”. Così ho deciso che il nome perfetto era proprio “Spaghetti all’assassina” e, da quella sera, il piatto è diventato una richiestissima specialità del ristorante Al Sorso preferito.”

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GLI OBIETTIVI Quando ho scoperto questa ricetta, ho erroneamente pensato che si trattasse di un piatto di recupero di pasta avanzata. Alla luce di cotanta ricostruzione storica fatta attraverso la testimonianza del suo stesso inventore, possiamo sancire a cuor leggero che mi sono sbagliato di brutto. Non si tratta, quindi, di un piatto di riciclo ma, genesi alquanto frequente dei piatti popolari, del frutto dell’ingegno di un cuoco colto alla sprovvista dalla richiesta di un cliente. Enzo Francavilla non ha fatto altro che mettere insieme alcuni concetti, arrangiandosi con quei pochi ingredienti che aveva a disposizione e sfruttando al meglio le attrezzature modeste del suo ristorante. Si è senz’altro ispirato a quella pasta avanzata che la domenica sera si “arrusca” o “sfrigge” in tutte le case meridionali; oppure, ancora più semplicemente, alla crosticina superficiale della pasta al forno. Negli anni ’60 e ’70 del secolo scorso, sia in casa che nei ristoranti, per ripassare i cibi si usava frequentemente la padella di ferro, ormai bandita in tutte le cucine. Era completamente nera perché non veniva mai lavata, bensì strofinata con carta di giornale per rimuovere i residui solidi. In questo modo si favoriva la formazione di una patina oleosa che impediva alla ruggine di formarsi. A Bari quella padella si chiama “sartàscene” e ancor oggi è possibile acquistarla in qualche mercatino. Ai giorni nostri si preferisce usare la “lionese”, una padella molto più pesante e spessa, ma sempre in ferro, e soprattutto a norma.

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Ma quali sono gli obiettivi degli spaghetti all’assassina perfetti? Gli spaghetti devono assorbire il sapore di pomodoro tramite una “risottatura” con passata di pomodoro diluita con acqua. 2. Gli spaghetti devono essere tostati e croccanti, formando una crosticina frutto della caramellizzazione del pomodoro, delle proteine e degli zuccheri presenti nella pasta. E qual è il difetto di questa e tante altre ricette della tradizione? Il metodo. È totalmente empirico. Dobbiamo buttare tutto nella padella, calcolando i tempi un po’ a occhio e pregare San Nicola che la pasta risulti perfettamente al dente ma sbruciacchiata, e con la giusta dose di salsa. Un assassinio del nostro sistema nervoso, e potenzialmente pure dei commensali.

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Cosa ho fatto per migliorare la tecnica e renderla replicabile sempre, tutte le volte? Ho preparato un consommé di pomodoro, estraendo la parte liquida del frutto e usandola come acqua di cottura, e ho tostato gli spaghetti prima di buttarli in padella. Risultato? Spaghetti perfettamente cotti, belli salsati e pomodorosi al massimo, con una crosticina croccante ed ambrata (non nera bitume come mi è capitato di vedere spesso) frutto della combinazione tra pomodoro caramellato e pasta tostata. Siete pronti a scoprire come si fa? CHIARIFICARE IL POMODORO: IL CONSOMMÉ È una delle zuppe più interessanti: un liquido chiaro dal sapore intenso e con un corpo distinto ma delicato. Il nome deriva dal francese "consumare", "utilizzare", e si riferisce alla pratica medievale di cuocere il brodo di carne fino al raggiungimento della giusta consistenza. Il consommé più diffuso, quello di carne, è fatto preparando un brodo di base principalmente di ciccia, non di ossa o pelle povere di sapore, che viene poi chiarificato. È una sorta di doppio brodo fatto espressamente per la zuppa; per produrre una porzione possono servire anche 500 grammi di carne. Il consommé di pomodoro, che è quello che interessa a noi, si può ottenere in quattro modi. 1. Consommé e chiarificazione con albumi d’uovo La chiarificazione del consommé si può ottenere mescolando il pomodoro passato o ridotto in purea in un estrattore, insieme a diversi albumi d'uovo leggermente sbattuti. La miscela viene portata lentamente a ebollizione e lasciata decantare per circa un'ora. Man mano che la passata si riscalda, le abbondanti proteine dell'albume iniziano a coagulare in un reticolato fine simile ad una tela fittissima, ed essenzialmente filtrano il liquido dall'interno. La parte solida del pomodoro viene facilmente intrappolate dal reticolato di albume; gradualmente la rete proteica sale in cima alla pentola per formare una "zattera", che continua a raccogliere le particelle portate in superficie dalla convezione del liquido. Quando la cottura è terminata, la zattera viene scremata e tutte le particelle rimanenti vengono rimosse con un filtraggio finale. Il liquido risultante è molto chiaro. La chiarificazione con l'albume rimuove sia parte delle molecole di sapore che gli agenti addensanti contenuti nel pomodoro (cellulosa, pectina, emicellulosa).

Agar agar

L'agar agar è un gelificante naturale, polisaccaride ricavato da alghe rosse appartenenti a diversi generi (tra i quali Gelidium, Gracilaria, Gelidiella, Pterocladia, Sphaerococcus). Dal punto di vista chimico è un polimero costituito principalmente da unità di D-galattosio (è quindi detto poligalattoside). L'agar-agar ha un alto contenuto di mucillagini (65%) e di carragenina (sostanza gelatinosa, nota in farmacopea come alginato). La gelatina di agar-agar è ricca di minerali ed una un sapore tenue Viene impiegato nella preparazione di gelatine per dessert e aspic, poiché ha la proprietà di non alterarne il sapore naturale. L'agar-agar produce una gelatina più solida di quella commerciale, non si scioglie facilmente, ed è inoltre completamente vegetale. Viene assorbita in minima parte dall'organismo, quindi non fornisce alcun apporto calorico. La sua preparazione è facile e veloce e richiede solo una breve cottura, il tempo più lungo è richiesto per la sua solidificazione: un'ora a temperatura ambiente. Visto che non necessita di zuccheri per gelificare, viene utilizzata moltissimo per produrre confetture e preparazioni a basso indice glicemico.

2. Consommé e chiarificazione con agar agar Si preparano 500 grammi di passata di pomodoro fredda, altrettanti 250 grammi di passata di pomodoro fredda e 1,5 grammi di agar agar, un agente gelificante che si ricava dalle alghe (0,2% del peso totale del succo) e che servirà ad acchiappare e separare le frazione solida del pomodoro. Si mescola l'agar agar nei 250 grammi di passata di pomodoro fredda, per poterlo disperdere, poi si scalda il tutto e si porta ad ebollizione, mescolando e lasciando sobbollire un paio di minuti per idratare il gelificante. PASTA E RISO

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Mentre si sbatte vivacemente la soluzione di agar bollente, si aggiungono a filo i 500 grammi di passata di pomodoro, sempre fredda. È importante evitare che la miscela scenda sotto i 35°C o la pre-gelificazione potrebbe rovinare il risultato finale. A questo punto si mette su un bagnomaria di ghiaccio per solidificare il composto. Una volta solidificata, la “cagliata” di agar agar va rotta con una frusta, come se si trattasse di formaggio. Quindi si trasferisce in uno chinois foderato di garza finissima, la mussola che viene usata nei caseifici insomma. Si solleva e si spreme, attorcigliando il panno molto delicatamente, per evitare che il gel di pomodoro contamini il consommé. Con questo metodo si ottengono 500 ml circa di acqua di pomodoro. 3. Consommé e criofiltrazione La criofiltrazione sembra un affare complicato, almeno a giudicare dal nome. In verità è molto semplice e non richiede alcuna attrezzatura costosa. La parte migliore? I risultati sono sorprendenti con quasi tutti i brodi, con la frutta e con la verdura. E poiché non richiede alcun riscaldamento, preserva il sapore e gli aromi originali della preparazione. Consiste semplicemente nel congelare il vostro prodotto (potete farla con qualsiasi cosa - brodi, frutti, ortaggi…) e poi scongelarlo in frigorifero su una teglia con i buchini, con un contenitore sotto che raccolga i liquidi. Il supporto ideale è la teglia forata per la cottura a vapore, appositamente foderata con 4 strati di garza. Il risultato sarà un’acqua di pomodoro cristallina con un sapore impressionante di pomodoro fresco. Come si fa? Mo’ ve lo spiego. Procuratevi 3 kg di pomodori. Per pelarli, rimuovete il peduncolo e fate un paio di tagli a croce sulla pelle, partendo dalle estremità. Metteteli in acqua bollente per 10-15 secondi e trasferiteli in un recipiente con acqua fredda e ghiaccio. Aspettate un paio di minuti e pelateli con le mani, lo shock termico vi aiuterà nel processo. Rimuovete i semi. Tagliate i pomodori in piccoli pezzi e passateli al passaverdure o al mixer. Mettete la passata di pomodoro in un contenitore piatto nel congelatore. Assicuratevi che la mattonella ghiacciata entri poi nella teglia forata. Foderate la teglia con i buchini con 4 strati di garza e mettetela dentro una teglia non forata delle stesse dimensioni. Trasferite la passata di pomodoro congelata sopra la garza e conservatela in frigorifero per 24 ore. Raccogliete l'acqua di pomodoro limpida che sarà filtrata sul fondo e utilizzatela nelle vostre ricette.

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4. Consommé e filtrazione a caldo Di tutte le tecniche è di gran lunga la più facile, per questo l’ho scelta per la ricetta degli spaghetti all’assassina. È un ottimo compromesso tra semplicità di esecuzione, rapidità e spreco di materie prime. Vi serviranno: 3 kg di pomodori da sugo (o anche pomodorini) sale q.b. 1 panno di cotone pulito estrattore di succhi, passapomodoro o passaverdura a maglia finissima Prendete i vostri pomodori (o pomodorini), lavateli, tagliateli a pezzi grossolani e passateli nell’estrattore di succhi o nel passapomodoro. Se proprio non avete questi strumenti, utilizzate un passaverdure manuale con la maglia molto stretta, per schiacciare bene le bucce ed evitare di far cadere nella polpa i semini. Trasferite la purea di pomodoro fresco in una pentola e lasciate sobbollire per qualche minuto. I moti convettivi del liquido porteranno in superficie tutta la parte solida (pectina, cellulosa, emicellulosa, licopene) e vi basterà scansare la polpa galleggiante per vedere il liquido giallo semitrasparente sul fondo. A quel punto foderate una ciotola di vetro con un panno in cotone spesso, sterilizzato. Versate all’interno la passata ormai separata e fate decantare per qualche minuto. Sollevate il panno e stringete con delicatezza, vi ritroverete con una sorta di concentrato di pomodoro nel panno (usatelo per fare il sugo della pasta!), e l’acqua di pomodoro nella ciotola (circa 2,5 litri). Conservate il liquido per le vostre preparazioni, si presta a tantissimi utilizzi.

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LA PASTA Io ho una passione viscerale per la pasta di Gragnano. Mi piace l’aspetto, la rugosità, la sua capacità di addensare tutti i sughetti, il gusto, i formati tipici della zona. L’ho scelta per questa ricetta perché: 1. La adoro; 2. Le sue caratteristiche organolettiche ci daranno tanta soddisfazione in cottura.

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Ma prima di vedere come si cuoce, vediamo cosa rende la pasta di Gragnano così speciale. 1. Il fattore Gragnano. Il clima di questa zona, la ventilazione giusta, l’acqua. Tutti fattori che incidono fortemente sulla riuscita della pasta di Gragnano, fregiata anche del riconoscimento IGP. 2. Superficie rugosa. Sebbene i formati siano tutti diversi, prodotto della fantasia dei pastai gragnanesi, la superficie è rugosa, perfetta per trattenere sughi e condimenti. 3. Trafilatura al bronzo. Se è così ruvida e porosa è perché le trafile che lavorano la pasta di Gragnano sono tutte in bronzo. Intendiamoci: anche una trafilatura al teflon ben eseguita garantisce una pasta gialla ambrata, levigata e dal buon sapore. Ma quelle in bronzo o in oro rendono migliore la finitura della superficie, ruvida e più pallida rispetto ai colori carichi dati dal teflon. Oltre ad assimilare meglio il condimento, una maggiore porosità facilità l’assorbimento dell’acqua durante la cottura, per questo la pasta di Gragnano dev’essere cotta al punto giusto per essere al dente. Essiccazione lenta e a bassa temperatura. A seconda del formato, la pasta di Gragnano viene essiccata a una temperatura compresa tra i 40°C e gli 80°C, per un tempo che va dalle 6 alle 70 ore, in dei tunnel dove circola aria calda o in celle statiche. Per avere un termine di paragone: l’essiccazione delle paste comuni dura 4-7 ore a 75°C. Che effetti produce l’essicazione lenta a bassa temperatura? La risposta difficile è che consente alla struttura proteica di restare inalterata. Per farla semplice, una pasta ben essiccata difficilmente si spezzerà durante la cottura, ma conserverà un corpo elastico e tenace sin dopo la mantecatura in padella. La materia prima. Dal tipo di grano utilizzato derivano il sapore della pasta, la capacità di tenere la cottura e quella di assorbire il condimento. Il metodo di coltivazione influenza la qualità del chicco di grano, un grano che subisce forti trattamenti chimici nel campo ne porta le tracce sin dentro il piatto. Semola di grano duro. È il simbolo della pasta di qualità per un motivo molto semplice: per la ricchezza proteica del grano duro, superiore rispetto a quella del grano morbido. Da una percentuale di proteine superiore al 13,5% deriva un elevato indice

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di glutine e il relativo “dente” durante la cottura. Il confezionamento. Da disciplinare, il confezionamento e l'etichettatura può avvenire nel solo comune di Gragnano e a distanza di 24 ore dal termine della essiccazione. L’esperienza insegna. La relazione tra l’arte bianca e l’area di Gragnano dura da almeno 500 anni. Abbastanza da far sì che la cittadina del napoletano sia riconosciuta come capitale della pasta dalla metà del 1800.

LA TOSTATURA DEGLI SPAGHETTI La prima cosa da fare è mettere gli spaghetti in una teglia bassa foderata con carta forno, ungerli con poco olio, che servirà a veicolare il calore, e metterli in forno a 170°C. Bisogna farli diventare color miele, non troppo scuri. Questo processo è tecnicamente ciò che viene definito destrinizzazione. È qui che stiamo aggiungendo un po’ di scienza alla nostra preparazione. La pasta non è altro che semola di grano duro. Sappiamo che al suo interno ci sono amidi, ovviamente, amilosio e amilopectina, ma c’è anche una buona quantità di glutine, quindi di proteine. Nella pasta di Gragnano, in particolare. Che succede durante il momento di tostatura a secco? Beh, sostanzialmente due cose. La prima è ciò che viene individuata come destrinizzazione dell’amido, come detto. Avviene quando l’amido viene sottoposto a calore secco. Gli zuccheri presenti si trasformano in destrine. Le destrine hanno il tipico colore bruno e tendono a fornire una nota dolce e profumata. Ma non è tutto. Che succede se abbiamo calore secco, zuccheri riducenti e proteine? Esatto, avviene la Reazione di Maillard. Negli spaghetti ci sono proteine (glutine), ci sono zuccheri riducenti (destrine derivanti dalla tostatura) e se diamo abbastanza calore di certo si catalizza la reazione di Maillard. Che vuol dire più sapore. Dopo la tostatura, gli spaghetti avranno una dominante più dolciastra e il tipico sentore di crosta di pane appena sfornato. Questo ci permetterà di controllare meglio la cottura, conferendo sì il sapore di tostato, ma evitando di prolungare troppo la cottura, evitando la formazione di quegli agglomerati neri di pomodoro bruciato.

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La padella lionese

La padella in ferro, detta anche “lionese” dall’aggettivo francese lyonnaise, di Lione, ha tantissime virtù. La forma di questo strumento è così antica che un attrezzo simile è stato ritrovato negli scavi di Pompei; l’attuale padella, rotonda con manico, dovrebbe risalire al XVII secolo, e già allora era realizzata in ferro battuto a martello. I PLUS DELLA LIONESE 1. La sua particolarità principale, dovuta alle proprietà del ferro, è quella di favorire la Reazione di Maillard. Per questa ragione, la lionese è indispensabile per rosolare la carne o il pesce. Perfetta anche per la cottura al salto: dal riso alla pasta a vari tipi di verdure; in più, funziona benissimo per tostare frutta secca e semi tipo il sesamo. 2. Il ferro consente di raggiungere velocemente alte temperature e di mantenerle costanti, un aspetto essenziale che rende le padelle in ferro ideali per friggere; l’olio si scalda in fretta e in modo uniforme, e la temperatura rimane costante, evitando sbalzi termici improvvisi quando s'immerge il cibo. Preferite una padella dal fondo spesso, la termoregolazione sarà ottimale. Inoltre il ferro è un materiale adatto a qualsiasi tipo di riscaldamento (tranne il forno a microonde!): molto utilizzato per i classici piani cottura, a gas o elettrico, è ideale per la cottura a induzione e può essere messo tranquillamente in forno. In quest’ultimo caso, non mettete la padella fredda nel forno già caldo perché non sopporta forti sbalzi di temperatura; lasciatela raffreddare nel forno per la stessa ragione. E controllate che il manico sia dello stesso materiale. Ricordate di utilizzare sempre la padella su un supporto e un fuoco adeguato alla dimensione, per non rischiare che il fondo si pieghi. 3. Cucinare nel ferro non rilascia sostanze dannose nel cibo. 4. Il suo smaltimento non reca alcun danno all’ambiente circostante. 5. La padella in ferro ha un costo relativamente basso e una durata nel tempo ottimale. Se poi avete la fortuna di avere tra le mani la fedele padella in ferro della nonna e ancora non la state usando, qualche attenzione e cure speciali la riporteranno all’antico splendore. Se la usate già, sappiate che le sue prestazioni migliorano man mano che viene utilizzata, purché ci si prenda cura di lei. LA CORRETTA MANUTENZIONE DELLA PENTOLA DI FERRO I nemici principali di questa padella sono l‘ossidazione e la ruggine che ne consegue: ecco cosa fare per evitare che si formino. Manutenzione straordinaria: quando è nuova o leggermente arrugginita, la padella in ferro va “condizionata”. L’operazione si chiama brunitura e servirà a pulirla, rendendola antiaderente. A. Il procedimento consiste nell’immersione della lionese nuova in acqua molto calda e poco detergente per piatti per 10 minuti; sfregatela bene con una spazzola per piatti, risciacquatela e asciugatela con cura.

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B.

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Ungetela poi con olio di semi di arachidi (anche le pareti interne) – gli oli vegetali hanno un alto punto di fumo - e trasferitela nel forno a 200°C fino a quando la superficie interna avrà preso una colorazione grigio-blu. Quando è ancora calda (attenti a non scottarvi), passatela con carta assorbente da cucina unta di olio di semi prima e asciutta poi; rimarrà comunque un po’ unta. Versatevi uno strato di sale grosso e rimettetela in forno qualche minuto, fino a quando il sale inizia a imbrunire. Smuovete il sale ogni tanto. Versate il sale nel lavandino (si scioglierà con l’acqua) e passate nella padella un foglio di carta da cucina asciutto per levare i residui. Appena si sarà raffreddata, ungete tutto l’interno con carta da cucina.

La padella sarà pronta e potrete utilizzarla subito. Una volta brunite, le padelle in ferro non vanno mai lavate con detersivo e mai messe in lavastoviglie. Manutenzione ordinaria: dopo la cottura, aspettate che la lionese sia tiepida; se del cibo si fosse attaccato al fondo, grattatelo pure con una spatola. Per pulirla basterà strofinarla con fogli di carta da cucina, tre o quattro passate saranno sufficienti; poi ungetela di nuovo con poco olio di semi e carta assorbente e mettetela via. Se volete essere sicuri di non trasferire gli odorini fra una cottura e l’altra, ripetete l’operazione con il sale grosso al passaggio D prima di ungerla - oliate accuratamente sia l’interno sia l’esterno - e riponete la padella in un luogo asciutto. Il sale pulisce bene ed esercita un’azione anti-muffa Qualunque sia il tipo di cottura, con la lionese si dovranno sempre utilizzare grassi come olio, burro chiarificato o strutto; man mano che si utilizzerà la padella, il ferro si velerà e si ungerà, e sarà possibile diminuirne la quantità da utilizzare. Bisogna evitare che i cibi vi sostino a lungo; cercare di trasferirli prima possibile in modo che si formino poche incrostazioni nella padella e la pulizia risulti più facile. Deve rimanere sempre leggermente unta al tatto e va riposta in un luogo fresco e asciutto, lontana dall’umidità. Se impilate più padelle, separatele con fogli di carta assorbente. Nel caso di padelle molto arrugginite: eseguite il passo A, mescolando all’acqua la stessa quantità di aceto di vino bianco e immergetevi la lionese; l'intera padella dovrà essere coperta dal mix di acqua e aceto. Lasciatela immersa diverse ore (il tempo dipenderà dallo strato di ruggine), ma controllate spesso: una volta sciolta la ruggine, l’aceto intaccherà il ferro. Proseguite poi con le successive operazioni di brunitura (da B a E).

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Olio siccativo

Gli oli siccativi sono particolari oli che all'aria seccano, formando un vero e proprio film. Questo fenomeno è dovuto a reazioni radicaliche di polimerizzazione delle catene di acidi grassi insaturi e polinsaturi che costituiscono l'olio. Contengono miscele di trigliceridi con acidi grassi ad alto grado di insaturazione. Sono oli siccativi quelli usati nella pittura ad olio e per le tecniche di protezione del legno. Tra questi, troviamo l'olio di lino, l'olio di cartamo, l'olio di noce e quello di papavero. Anche se non sono considerabili propriamente degli oli siccativi, molti olii alimentari di uso comune contentengono un sufficiente quantità di acidi grassi insaturi e polinsaturi che possono dare luogo a reazioni di polimerizzazione, una volta scaldati quasi fino al punto di fumo e lasciati raffreddare. Realizzando più strati di olio polimerizzato sulla superfice della pentola, questa sarà protetta dalla ruggine e inoltre acquisirà proprietà antiaderenti. Ad esempio, l'olio di arachidi ha un ottimo punto di fumo, non degrada ed ha una quantità di acidi grassi polinsaturi sufficienti a dar luogo alla polimerizzazione, inoltre non rilascia cattivo odore durante il processo come invece avviene per l'olio di lino. Per questo motivo è consigliato per trattare le pentole in ferro. Al contrario, è sconsigliabile l'utizzo dell'olio di oliva (oltre per il costo), perché essendo principalmente composto da acidi grassi monoinsaturi, non da luogo ad una adeguata polimerizzazione.

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Spaghetti all'assassina scientifica

Preparate un sugo ristretto con la passata di pomodoro e il concentrato ottenuto dal filtraggio del consommé. Tegame, olio extravergine, spicchio d’aglio a soffriggere. Versate la passata e fate cuocere fin quando non diventa bella densa. Salate e aggiunIngredienti per 6 persone gete foglie di basilico spezzate con le mani. 500 g di spaghetti o spaghettoni di Gragnano IGP Mettete sul fuoco una padella antiaderente o una padella tipo lio750 ml di acqua di pomodoro nese, è importante che il diametro sia maggiore della lunghezza 1 l di passata di pomodoro (usate anche il concentrato ottenuto dalla preparazione del consommé) degli spaghetti, così che la pasta cuocia comodamente e bella olio extravergine di oliva q.b. distesa. Coprite gli spaghetti già tostati (vi ho spiegato prima 1 spicchio d’aglio Peperoncino fresco o secco q.b. come fare) con l’acqua di pomodoro e portate a metà cottura. Quando gli spaghetti avranno riacquistato elasticità, aggiungete una mestolata di sugo di pomodoro pronto e spadellate. A questo punto spostate gli spaghetti sui bordi della padella, affinché stiano ben a contatto con la superficie riscaldante, fate un giro d’olio sui bordi (tra gli spaghetti e la padella si intende) e fateli sfrigolare per bene. Al centro aggiungete la salsa avanzata, basteranno un paio di mestolate. Tenetene un po’ da parte da usare nella fondina. Servite gli spaghetti in questo modo: mestolata di sugo sul fondo del piatti, spaghetti croccanti e fogliolina di basilico ribelle (nella ricetta originale non è prevista). Mettete a tavola il peperoncino, lasciando la libertà ai commensali di vivere un’esperienza gastronomica sbalorditiva, o di morire per colpa della capsaicina. Li farete secchi in ogni caso.

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1.6 – RISOTTO AL PARMIGIANO Cosa succede quando l'amido del riso gelatinizza a causa della somministrazione di calore legando i chicchi tra loro in un composto setoso e vellutato? Esatto, quel riso diventa risotto. Esiste un protocollo per creare il risotto perfetto e suggellare la sublimazione dell'Oryza sativa? Non ho nessun dubbio nell’affermare che sì, esiste e passa attraverso quattro variabili ben precise: 1. Scelta del riso. 2. Tostatura del riso. 3. Cottura del riso. 4. Mantecatura del riso. SCELTA DEL RISO D’accordo, iniziamo dal riso: superfino Carnaroli e semifino Vialone nano, due varietà che rilasciano un tipo particolare di amido, ad alto contenuto di amilopectina e basso di amilosio. Ma cosa sono questi due polisaccaridi? Ne abbiamo già parlato a proposito di arancine (approfondimento a pagina 47). Qui, ve la farò in maniera molto breve. Amilopectina e amilosio sono due componenti dell’amido che danno risposte diverse ai liquidi e al calore. A differenza dell’amilopectina, l’amilosio non è solubile in acqua ma forma una dispersione gelatinosa quando viene a contatto con i liquidi tiepidi. Un po’ come il brodo che magicamente si addensa con il roux, sapete, l’addensante ottenuto mescolando farina e burro. L’amilosio attenua la tendenza dell’amilopectina a cristallizare, in altre parole la indebolisce, permettendo ai liquidi di permeare i chicchi. Sembra complicato ma non lo è: due risi con basse quantità di amilosio “tengono” la cottura grazie a un modesto rilascio di amido, che tuttavia è ancora in grado di gelatinizzare. Ovviamente, comprendere quando fermare il rilascio dell’amido fissandone così la cremosità, è compito nostro, di noi che stiamo cuocendo il risotto, ecco. TOSTATURA DEL RISO: SÌ O NO? Prima di iniziare, si fa con burro, olio extravergine di oliva o entrambi? È in gran parte una questione di gusto personale. Potreste anche utilizzare entrambi, non ve lo vieta nessuna. Ricordate però: una miscela di burro e olio continuerà a bruciare alla stessa temperatura del burro. Sono le proteine del latte nel burro che bruciano e non importa se sono riscaldate nell'olio o nel burro puro. Ma qual è lo scopo della tostatura del riso? L’aggiunta di sapore. Aggiungendo i chicchi di riso crudi ad una padella con un grasso caldo si sviluppano intensi aromi di nocciola e tostatura. Cos'altro succede quando si tosta il riso? Provate a fare un esperimento. Prendete due quantità identiche di riso. La prima porzione la cuocerete in maniera tradizionale, la seconda la tosterete per 3 o 4 minuti prima di aggiungere il PASTA E RISO

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liquido, durante i quali avrà acquisito una leggera tonalità dorata e un aroma di nocciola. Alla fine giungerete a questo risultato: Il riso non tostato restituirà una salsa più cremosa del riso tostato. Ma al contempo avrà un sapore meno intenso. E come si ottiene un risotto sia cremoso che saporito? Semplice. Si rimuove l'amido prima di tostarlo e si aggiunge di nuovo prima di idratarlo IL RISOTTO IDEALE Il risotto ideale è dunque ancora al dente, né troppo liquido né troppo poco, con una sgranatura dei chicchi evidente, una generosa quantità di grassi per dare nerbo e, fate attenzione, una parte acida accuratamente bilanciata. Chi ha gusti un po’ omologati tende ad azzerare la componente acida del sapore, eppure, vi assicuro che maggiore è la quantità di recettori attivati, più intensa sarà l’esperienza sensoriale. La percezione acida smorza i toni del grasso producendo una maggiore armonia. L’importante è non eccedere, proviamo a bilanciare il tono acre in modo da livellare la sensazione di unto che, se da una parte amplifica la percezione del gusto, porta con sé il difetto di una consistenza fastidiosa. COTTURA Come con le patate o la pasta, la sfida principale quando si cucina il riso è capire come controllare gli amidi al millimetro. Tuttavia, mentre le patate o la pasta sono spesso cotte in molta acqua per lavare via l'amido in eccesso, il riso richiede un metodo di cottura più preciso. Se si fa bollire e si scola, si finisce per lavarne via il sapore delicato e per inzuppare eccessivamente i chicchi. Il riso, fidatevi, si cuoce meglio con una quantità misurata di acqua in una pentola coperta, per scongiurarne l’evaporazione. II granuli di amido, che sono il componente primario del riso, tendono a non assorbire liquidi a temperatura ambiente. Mentre si riscalda il riso in acqua, invece, l'energia delle molecole del fluido in rapido movimento comincia ad allentare i legami tra le molecole di amido, permettendo all'acqua di penetrare. Questo a sua volta causa il rigonfiamento dei granuli di amido, i quali rilasciano alcune molecole “gommose” che poi agiscono come una colla per tenere insieme i chicchi. Il riso, a questo punto, si ammorbidisce e diventa appiccicoso o “inamidato”. La cottura tradizionale Istruzioni di base per un risotto vecchia scuola: scaldare una grande pentola di brodo e tenerlo caldo. Tostare brevemente il riso nel burro e/o nell'olio d'oliva, poi aggiungere un solo mestolo di brodo (o vino per questa prima aggiunta) e mescolare lentamente con un 86

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cucchiaio di legno fino a quando il brodo non verrà assorbito. Aggiungere un altro mestolo e ripetere. Continuare fino a quando il brodo è stato assorbito tutto e il riso risulta cremoso. Togliere dal fuoco e aggiungere il burro freddo e/o Parmigiano Reggiano mescolando vigorosamente per fermare la cottura e sviluppare cremosità. Per carità, è una tecnica che funziona, ma è comunque piena di pecche. Prima di tutto, non c'è bisogno di riscaldare il brodo in una pentola separata. Certo, si risparmia qualche minuto sul tempo di cottura del riso, ma ne starete sprecando dell’altro per riscaldare il brodo, per non parlare del lavaggio di due pentole invece di una. Fate una prova. Preparate un risotto col brodo tirato fuori dal frigorifero e non noterete alcuna differenza percettibile nel prodotto finale. E aggiungere il liquido tutto in una volta? Si può? Basta usare una padella larga e poco profonda. In questo modo il riso forma uno strato sottile abbastanza omogeneo sul fondo, il che si traduce in una cottura molto più uniforme. Usando un fuoco molto basso magari, dopo aver inizialmente portato il liquido ad ebollizione. Insomma, si ottengono risultati perfetti aggiungendo il riso e quasi tutto il liquido in una volta sola, coprendo la padella e cuocendo a fuoco molto basso, mescolando solo una volta durante il processo. Oppure si può cuocere il riso per assorbimento, ed anche qui trovate tutta la spiegazione scientificata nella sezione dedicata alle arancinearancine (per l'approfondimento riguardo a questo metodo di cottura per il riso, andate a pagina 50). LA RETROGRADAZIONE DELL’AMIDO La retrogradazione non è altro che una parziale ricristallizazione degli amidi gelificati. Non tornano allo stato iniziale ma quasi. Vi faccio un esempio. Avete presente il pane raffermo? Ecco, quello è un amido retrogradato. Quando il pane viene cotto in forno, in presenza di umidità, gli amidi gelatinizzano. La mollica di pane, per esempio, è amido gelatinizzato. Finché si trova dentro al pane è soffice e umida. Ma se lo lasciamo all’aria per un po’ si asciuga, si secca ed assume una consistenza croccante. Questo è proprio il fenomeno di cui vi parlavo, la retrogradazione dell’amido. La ricristallizazione delle molecole di amido che formano il gel. La cosa interessante è che il processo è reversibile. Basta reidratare l’amido per tornare in condizione di gel. Capita la tecnica potrete preparare delle porzioni di risotto a metà cottura e rigenerarle al momento, impiegandoci la metà del tempo. Comodo, no?

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La ricetta del risotto per assorbimento Ingredienti per 6 persone

500 g di riso Carnaroli o Vialone Nano 1 l di acqua (o brodo vegetale) 150 g di burro (meglio se di centrifuga) 150 g di formaggio grattugiato (Parmigiano Reggiano 40 mesi GLC Top Selection) pepe bianco q.b. Per la cialda di Parmigiano 150 g di Parmigiano Reggiano 40 mesi GLC Top Selection

Mettete il riso in uno scolapasta o in un colino a maglie fini e immergetelo in una ciotola piena d’acqua fredda. Servirà ad eliminare l’amido in eccesso. Sollevate il colino e mettete da parte l’acqua “inamidata”, potrebbe servirvi in fase di mantecatura (vi basterà farla ridurre sul fuoco e aggiungerla alla manteca per addensare). Versate in una pentola 500 ml di brodo o acqua, che avrete preparato con i classici sedano, carota e cipolla, e aggiungete il riso, mescolando continuamente fino a quando i chicchi diventano “gessosi” e opachi (da 1 a 3 minuti). Alzate la fiamma e portate ad ebollizione. Abbassate la fiamma, coprite con il coperchio e cuocete a fuoco lento portando il riso a metà cottura. Noterete che il liquido verrà totalmente assorbito.

Trasferite il riso su una placca da forno, meglio se forata, spandetelo e sgranatelo bene. Lasciate che si raffreddi e si asciughi completamente (potete coprirlo con una retina), mettetelo da parte. Se avete intenzione di prepararlo per il giorno dopo, conservatelo in un contenitore a chiusura ermetica, in frigorifero. Preparate la cialda grattugiando finemente il formaggio. Scaldate una padella antiaderente, disponete il formaggio sul fondo e aspettate che si sciolga e si formi la cialda. Ci vorranno pochi minuti, il formaggio si solidifica e acquisisce un colore ambrato. Quando ls cialda si è rassodata, trasferitela su un piatto e lasciatela raffreddare. La sbriciolerete al momento di servire. Mettete sul fuoco una padella ampia con bordi alti. Versate 500 ml di acqua o brodo, aggiungete il sale e portate ad ebollizione. Aggiungete il riso e il burro e cominciate ad agitare il tutto con una spatola. Quando il riso è quasi cotto, aggiungete il formaggio stagionato grattugiato e rimestate in modo vigoroso, per creare le famose onde nella padella. Servite in una fondina o su una piatto piano, battendolo leggermente per farlo spandere. Finite con la cialda di Parmigiano sbriciolata al momento e una macinata grossolana di pepe bianco. Oppure aprite il frigo, prendete una delle 4 o 5 ciotoline di riso precotto, mettetele in padella, seguite questo metodo e con due carote, un radicchio, un pezzo di porcino e una salsiccia nel congelatore, un pezzo di formaggio, insomma quello che vi pare, in 5 minuti di orologio avrete un risotto cotto alla perfezione in tavola. Impossibile da distinguere da un risotto espresso. 88

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2.1 – IL RAGÙ


“VIRGINIA: Signo', ma io credo che tutta questa cipolla abbasta. ROSA: Adesso mi vuoi insegnare come si fa il ragù? Più ce ne metti di cipolla più aromatico e sostanzioso viene il sugo. Tutto il segreto sta nel farla soffriggere a fuoco lento. Quando soffrigge lentamente, la cipolla si consuma fino a creare intorno al pezzo di carne una specie di crosta nera; via via che ci si versa sopra il quantitativo necessario di vino bianco, la crosta si scioglie e si ottiene così quella sostanza dorata e caramellosa che si amalgama con la conserva di pomodoro e si ottiene quella salsa densa e compatta che diventa di un colore palissandro scuro quando il vero ragù è riuscito alla perfezione. VIRGINIA: Ma ci vuole troppo tempo. A casa mia facciamo soffriggere un poco di cipolla, poi ci mettiamo dentro pomodoro e carne e cuoce tutto assieme. ROSA: E viene carne bollita col pomodoro e la cipolla. La buonanima di mia madre diceva che per fare il ragù ci voleva la pazienza di Giobbe. Il sabato sera si metteva in cucina con la cucchiaia in mano, e non si muoveva da vicino alla casseruola nemmeno se l'uccidevano. Lei usava o il «tiano» di terracotta o la casseruola di rame. L'alluminio non esisteva proprio. Quando il sugo si era ristretto come diceva lei, toglieva dalla casseruola il pezzo di carne di «annecchia» e lo metteva in una sperlunga come si mette un neonato nella «connola», poi situava la cucchiaia di legno sulla casseruola, in modo che il coperchio rimaneva un poco sollevato, e allora se ne andava a letto, quando il sugo aveva peppiato per quattro o cinque ore. Ma il ragù della signora Piscopo andava per nominata.” (Da "Sabato, Domenica e Lunedì", commedia di Eduardo De Filippo prima e film di Lina Wertmuller poi)

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Io di cognome faccio Lo Cascio, ma vi garantisco una cosa: la formula del ragù che sto per rivelarvi metterà d’accordo proprio tutti. Sì, i tempi per realizzarlo sono un po’ lunghetti e i passaggi laboriosi, ma vi assicuro che ne vale davvero la pena. Il vostro ragù sarà meglio di quello della mamma, della nonna e di tutte le mamme e le nonne bolognesi e napoletane messe insieme. Vi serviranno pochi ingredienti e tanto tempo a disposizione. E siccome il tempo non va misurati in ore e minuti ma in trasformazioni, stavolta la trasformazione è di quelle radicali.

GIORNO 1

Pronti per una full immersion di tre giorni sul concepimento del ragù migliore di sempre? Iniziamo. IL GRASSO Lo strutto e il grasso bovino, si sa, sono ottimi per friggere. Hanno un punto di fumo molto alto (lo strutto 240°C e il sego bovino 230°C) e vengono utilizzati in moltissime ricette o adoperati nella frittura delle patatine. Donano una fragranza ed un gusto molto particolare alle pietanze, agli impasti, persino ai dolci. Per preparare la nostra versione del ragù ci occorre una discreta quantità di sego bovino. Non fate i maliziosi eh, la terza media l’avete finita diverse primavere fa. Il punto di fusione di un lipide è tanto più elevato quanto maggiore è il grado di “saturazione” degli acidi che lo costituiscono. Ovvero la fluidità di un lipide è tanto più elevata quanto maggiore è il grado di “insaturazione” degli acidi grassi che lo costituiscono. Mentre gli oli si presentano in forma liquida a temperatura ambiente, il sego è un blocco bianco e solido che comincia a sciogliersi solo se portato ad una temperatura superiore ai 40°C. Ed è proprio scaldando dei pezzi di grasso scartato dalla lavorazione della carne che dovrete autoprodurvi il sego. Ora vi spiego come. Per prima cosa procuratevi 500 grammi di grasso di manzo, quanto più pulito possibile, e fatevelo macinare dal macellaio: è importante che venga ridotto in piccoli pezzi. Prima di fare qualunque cosa, mettetevi i guanti: se il pezzo è quello giusto, questa roba unge. Altrimenti dovrete lavarvi le mani con il napalm. A questo punto potete procedere in uno dei tre modi seguenti: 1. Trasferite il grasso triturato in una pentola a bordi alti, aggiungete 2 litri d’acqua e cuocete per circa 2-3 ore. L’acqua vi servirà a non superare il punto di fumo del grasso e a sciogliere il tutto gradualmente. Filtrate a caldo con un colino a maglie strette e trasferite in una ciotola di vetro. Lasciate raffreddare il sego a temperatura 94

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ambiente, il composto si solidificherà e diventerà bianco opaco, e vedrete tutte le impurità depositarsi sul fondo. Per eliminarle vi basterà capovolgere la ciotola, sformare delicatamente e grattare via lo strato di collagene e di piccole frazioni di carne che non sarete riusciti ad eliminare in fase di filtraggio. Conservate in frigorifero ben coperto. 2. Sistemate il grasso triturato in una pentola a bordi alti e scaldatelo a bagnomaria, collocandola in una seconda pentola riempita con acqua. Lasciate sciogliere lentamente, filtrate a caldo con un colino a maglia finissima in uno o più barattoli di vetro. Lasciate raffreddare e conservate in frigorifero. 3. Versate il grasso polverizzato in un sacchetto per la cottura sottovuoto e scaldate in sous vide a 90°C per 4-5 ore, o fino a quando il grasso non si sarà sciolto del tutto. Filtrate e colate in uno più barattoli di vetro. Lasciate raffreddare e conservate in frigorifero. IL BRODO Per preparare il ragù scientifico vi occorre uno stinco di manzo, anteriore o posteriore non fa differenza. Fatevelo disossare dal macellaio e chiedetegli di segare l’osso a rondelle o a baguette, in senso verticale. Raschiate via il preziosissimo midollo e mettetelo da parte, ci servirà per il sugo. Con le ossa preparate un buon brodo tostandole a fuoco spinto con poco olio, poi deglassate con acqua la crosticina brunita che si sarà formata sul fondo fino a coprire per 2-3 cm; aggiungete una costa di sedano, una carota, una cipolla, alloro, bacche di ginepro e grani di pepe. Lasciate sobbollire e salate solo alla fine. Mettete da parte il brodo ottenuto perché vi servirà il giorno successivo.

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GIORNO 2

IL SUGO Ora inizia la parte interessante. Il mio ragù non prevede un’aggiunta di carne di maiale o insaccati, gli ingredienti sono solo: triplo concentrato di pomodoro, sedano, carota, cipolla, carne di manzo, brodo di manzo, grasso di manzo, midollo di manzo. Manzo elevato al manzo, una matrioska di bovidi in pratica. Niente mischioni di proteine animali, pussa via aggiunte di latte e derivati. Estraiamo il massimo dai pochi ingredienti elencati e tiriamo fuori un gusto potente, irruento ma lineare. Per ottenere un sugo carico, saporito e opulento ci occorrono due tagli di carne: • un taglio ricco di tessuto connettivo, da cuocere insieme al triplo concentrato di pomodoro • un taglio più magro, da macinare e con il quale “riempire” e strutturare il sugo. È come il matrimonio eterno tra il ragù partenopeo e quello bolognese. È il meglio dei due mondi perché bilanciato e cotto con raziocinio. La carne ricca di collagene andrà ad arricchire la salsa, mentre il macinato darà consistenza e sapore, senza essere inutilmente violentato dall’esposizione prolungata al calore.

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Ingredienti per il sugo 1 kg di polpa di stinco di manzo (in alternativa biancostato o punta di petto) 1 litro di brodo di manzo 500 g di triplo concentrato di pomodoro Il midollo ricavato dall’osso dello stinco 1/2 cipolla rossa 1 bicchiere di vino rosso qualche foglia di alloro fresco basilico bacche di ginepro olio extravergine di oliva sale pepe nero

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Per arricchire la salsa con una buona quota di gustosa gelatina possiamo utilizzare: geretto anteriore o posteriore, un taglio molto compatto e ricchissimo di collagene. Lo stinco è senz’altro la mia prima scelta poiché mi consente di utilizzare anche il midollo che racchiude all’interno del suo osso; biancostato, situato nella parte bassa delle coste e particolarmente carico di collagene; punta di petto, il muscolo della parete addominale farcito di tessuto adiposo e del collagene delle costole.

E come facciamo ad estrarre questa gelatina e trasferirla direttamente nel sugo? Semplicissimo, basterà portare la carne ad una temperatura superiore a 68°C. È proprio in quel momento che il collagene si scioglie e si trasforma in un gel saporito. Mettete sul fornello una tegame di ghisa a bordi alti. Perché di ghisa? Perché accumula il calore e lo ridistribuisce sul fondo e lungo le pareti, equalizzando la temperatura lungo tutta la sua superficie. In alternativa potete utilizzare una pentola ampia di coccio o di acciaio a fondo spesso. Tagliate la polpa dello stinco in grossi cubi e rosolateli a fiamma alta in un fondo di olio. Aggiungete la cipolla tagliate a cubetti, fate imbiondire, deglassate il tutto con il vino rosso e lasciate evaporare l’alcol. Unite il triplo concentrato di pomodoro e diluitelo con il brodo caldo, aggiungete il midollo, le erbe e le spezie e lasciate cuocere lentamente, su un alito di calore, per almeno quattro o cinque ore. Lasciate pippiare il sugo con il coperchio ben piantato e controllatelo di tanto in tanto, spegnete solo quando l’acqua sarà evaporata del tutto e la carne si sarà sfaldata. In questo modo avrete concentrato al massimo i sapori e avrete ottenuto un sugo carico CODICE LO CASCIO


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e denso, color palissandro proprio come quello di Sofia Loren in Sabato, Domenica e Lunedì. Salate, filtrate il tutto e mettete da parte la carne, potete mangiare la carne a parte o riutilizzarla in altre ricette. Hey, qui è quando mi date retta e non prendete l’iniziativa di “pullare” la carne dentro al sugo. Non fatelo perché farà saltare tutte le proporzioni. Il sugo vi verrà fuori troppo denso e poi darete la colpa alla ricette. La carne stracotta va tolta, tutta. E il sugo filtrato. Mangiatela dentro al “cuzzitiello” del filone di pane, con una bella grattata di ricotta salata. Ve lo ripeto: dovete toglierla. Ha dato ciò che doveva dare. Adesso non fa più parte della ricetta.

Ingredienti 1 kg di Eye Round (girello) GLC Top Selection olio extravergine di oliva q.b.

LA CARNE Adesso passiamo alla preparazione del macinato, il condimento, il riempimento del sugo, l’elemento che dà corpo al ragù e soprattutto sapore di tostato. Procuratevi un pezzo magro, il girello andrà benissimo. Per “girello” o “magatello” intendo il taglio tondeggiante e affusolato che si trova lungo il posteriore, ve ne ho parlato anche nella ricetta delle arancine. Utilizzo carne relativamente magra perché il sugo è già ricchissimo di gelatina e di grassi, che verranno aggiunti successivamente con una manovra a sorpresa. Macinate o fatevi macinare la carne in maniera grossolana, deve avere grani belli grossi e separati tra loro. Distribuite il macinato su una teglia ricoperta di carta forno, asciugate con cura con della carta assorbente e ungete leggermente con poco olio. Innescate una ruggente reazione di Maillard cuocendo in forno preriscaldato, con il grill spinto a 230°C e posizionando la teglia al centro del forno. Lasciate lo sportello leggermente aperto per far fuoriuscire il vapore. Con ogni probabilità, la carne inizierà a buttar fuori dei liquidi. Non buttateli via ma toglieteli dalla teglia; per i motivi che ho già spiegato sopra. Versate il liquido nel 98

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Ingredienti per il soffritto non soffritto 200 g di cipolla rossa (40%) 150 g di carota (30%) 150 g di sedano (30%)

tegame con il sugo attraverso un colino. Aggiungerà sapore. A queste punto non vi resta che rigirare il foglio di carta forno e lasciar rosolare l’altro lato, sempre a 230°C, a grill frizzante. Vi ho giù spiegato ampiamente il perché del forno, ma ci tengo a ripeterlo. Rosolando il macinato in pentola si sarebbe sviluppato un sacco di vapore, che avrebbe sicuramente lessato la carne. E anche riuscendo a tostarla, impiegandoci sicuramente più tempo, il risultato sarebbero stati trucioli di ciccia secchi e completamente strizzati . Ci serve la reazione di Maillard ma ci serve anche succulenza e sapore. Ecco perché usiamo il forno. Le due superfici si saranno tostate alla perfezione, mentre il centro resterà bello tenero e succoso. Ora mettete da parte e dedicatevi alla preparazione del soffritto non soffritto. LE VERDURE Così come il macinato, le verdure tradizionalmente utilizzate per il soffritto ci serviranno per amplificare la nota tostata e per apportare dolcezza, nota erbacea e soprattutto freschezza. Non le abbiamo cotte insieme alla carne o al sugo per preservarne gusto, intensità e consistenza. A questo punto preparate una brunoise con cipolla rossa (40%), carota (30%), sedano (30%). Tagliate le verdure a cubetti di 2-3 mm, asciugatele con cura con della carta assorbente, ungente con olio, che veicolerà il calore, e distribuitele su una teglia ricoperta di carta forno. Cuocete in forno preriscaldato a 180°C posizionandole al centro del forno e rigirandole di tanto in tanto. Dovete ottenere dei cubetti di verdura caramellati, freschi, saporiti e sopratutto ancora intatti. L’ASSEMBLAGGIO Ci siamo quasi, se chiudete gli occhi potete già sentire l’eco degli applausi e lo schiaffo bruciante della suocera invidiosa. Per dare corpo, struttura e leggerezza al ragù dovete emulsionare la salsa con un grasso. Non con la panna, il latte e derivati. È importante però che il sugo sia ben caldo per ottenere una crema densa e vellutata. 100

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A questo punto potete aggiustare di sale, pepe e quant'altro. Aggiungete 200 grammi di sego bovino fuso, tuffate il minipimer nel tegame e via a smurritiàre (smuovere) su e giù finché non diventa densa e di un colore arancione brillante. In questa fase potete aggiungere poca acqua calda, nel caso il “proto ragù” vi sembrasse troppo gelatinoso. Una volta raggiunti i 70°- 80°C “condite” la salsa emulsionata “sbriciolando” con le manine sante la carne macinata arrostita e le verdurine rosolate. Potreste anche azzardare e calare la pasta, ma vi perdereste 3/4 dell’esperienza. Pazientate un altro pochino, fate raffreddare a temperatura ambiente e poi lasciate maturare in frigorifero. Il ragù si addenserà e tutti gli ingredienti si sposeranno fra loro finché fauci non li separi. Hey, di nuovo. Resistete alla tentazione. Dovete attendere la maturazione del ragù in frigo. Servono 24 ore.

GIORNO 3

SERVIZIO È arrivato il momento di mettere la tavola. Quella dei giorni speciali, dei pasti da ricordare. Scaldate il quantitativo di ragù che vi occorre per condire la pasta in una padella ampia, che vi consenta di saltarla nel sugo in agilità. A me il ragù piace con i paccheri, quelli di Gragnano essiccati lentamente, ruvidi, porosi e che trattengono bene il sugo, ma nulla vi vieta di utilizzarlo per condire delle strepitose tagliatelle all’uovo. L’importante è che vi ricordiate di terminare la cottura della pasta nella padella del ragù, allungandolo con pochissima acqua di cottura. Saltatela bene per tirare fuori l’amido e spadellate per quei 3-4 minuti finali. Impiattate e servite incandescente, ma ricordatevi di tenere un po’ di ragù caldo da parte, da aggiungere sopra per fare il montino. Se vi piace, aggiungete una spolverata di Parmigiano Reggiano. Portate a tavola e prendetevi qualche secondo per osservare le reazioni… “Venivano gli amici e dicevano: «Signo', ma come lo fate questo ragù che fa uscire pazzo a vostro marito? L'altra sera ci ha fatto una testa tanta "E il ragù di mia moglie sotto, e il ragù di mia moglie sopra..."» e mammà tutta contenta l'invitava; e quando se ne andavano dicevano: «Aveva ragione vostro marito». E si facevano le croci.”

Preparate questo ragù per i vostri cari e fidatevi di me: vedrete tante di quelle mani incrociarsi in preghiera che manco alla messa della Vigilia di Natale. Carne

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2.2 – BRACIOLA DI MAIALE CON PATATE ARROSTO

La maggior parte degli esseri umani ha una capacità infinita di dare per scontate le cose. Un tetto sopra la testa. L’affetto dei propri cari. La braciola di maiale dura, talmente dura che vostra mamma la lanciava in modalità wireless al posto della tradizionale ciabatta. Siamo talmente abituati a quell’aspetto bollito, a quella consistenza tipica di camera d’aria che ormai ci siamo arresi al brutto. Mangiamo la braciola ma non la mastichiamo, la buttiamo giù come una medicina. Per fortuna che ci sono le patate di contorno. Eppure vi confesso, cari i miei piccoli estimatori del porco, che esiste un modo per ottenere una braciola morbida, succosa e con una bella crosticina ambrata e fragrante. Ma prima che vi sveli tutti i segreti, partiamo dalla base. IL TAGLIO La braciola si ricava dalla lombata del maiale, solitamente porzionata con il tipico osso a forma di “T”, un po’ come per la T-bone. Una volta disossata, da questa si ottengono il lombo (o lonza) ed il filetto, entrambi tagli estremamente magri e poveri di collagene e tessuto connettivo. Per fortuna, però, esistono razze e protocolli di allevamento che assicurano una ottima infiltrazione di grasso intramuscolare, come nel nostro caso, che rende la carne succulenta. Una volta cotta, dalla vostra ciccia si sprigioneranno sentori di castagna, ghianda e nocciola. Ma solo se la lavorate e la cucinate nella maniera corretta. CONVINZIONI ERRATE SULLA CARNE DI MAIALE Temperatura al cuore e sicurezza alimentare Le battaglie su come e a che temperatura vada cotta la carne di maiale si consumano da che ho memoria. Autorità ed esperti ci hanno sempre raccomandato di stracuocerla perché potenzialmente contaminata dall’infingardo verme cilindrico altresì noto come Trichinella spiralis. Ma certe posizioni, che mi consentirete definire piuttosto antiquate, non prendono in considerazione tre fattori molto importanti: 1. I miglioramenti nelle pratiche di allevamento e lavorazione della carne suina hanno praticamente eliminato la contaminazione da Trichinella nella carne prodotta commercialmente nei paesi sviluppati. Uno studio ha dimostrato che solo otto casi di trichinellosi potevano essere attribuiti alla carne lavorata negli Stati Uniti tra il 1997 e il 2001. Durante lo stesso periodo, la popolazione americana ha consumato circa 32 miliardi di kg di maiale. Si tratta di una quantità enorme di carne, no? E si sono ammalati solo in 8. Carne

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2. 3.

La maggior parte della carne di maiale in commercio viene abbattuta per uccidere il parassita. La Trichinella si elimina facilmente cuocendo la carne a bassa temperatura. ll nostro Istituto Superiore di Sanità raccomanda una temperatura di cottura di 73°C al cuore, sia per scongiurare la contaminazione da nematodi che quella perpetuata da batteri come la Salmonella. A discapito però della resa gastronomica. Sappiamo benissimo cosa succede alla carne quando si supera la soglia dei 60°C.

Ma perché questa disinformazione continua a persistere? Semplice, per preservare autorevolezza e status quo. Una volta inculcato alla gente che la carne di maiale ha bisogno di essere cotta ad alte temperature, ci vuole un po' di coraggio per cambiare rotta, soprattutto se significa ammettere di aver commesso un errore. Trichinella: cos’è e come contamina la carne Un'infezione invasiva da Trichinella inizia quando un animale consuma tessuto muscolare che contiene un verme incistato. Liberate dal tessuto dal processo digestivo del nuovo ospite, le larve maturano rapidamente in adulti maschi e femmine, accoppiandosi e rilasciando nuove larve. Ogni larva scava in una cellula muscolare, convertendola in una cosiddetta cellula infermiera, secernendo proteine che favoriscono la formazione dei vasi sanguigni. I vasi sanguigni si sviluppano poi intorno alla larva e la alimentano. Le larve possono vivere in cisti calcificate protettive per anni fino a quando l'ospite muore e viene mangiato. E via che ricomincia il ciclo in un altro ospite. Lo so che ‘sta roba fa accapponare la pelle, ma ve lo dovevo dire. La buona notizia è che i vermini bastardi si possono disintegrare in due modi: col freddo e col calore. Tenete presente che un congelatore domestico può arrivare a -18°C / -30°C. Non sapete a che temperatura potete spingere il vostro elettrodomestico? Vi basterà contare gli asterischi raffigurati accanto al nome: * ** *** ****

-6°C -12°C -18°C -24°C / -30°C

Ebbene, la Trichinella si elimina tenendo la carne a - 15°C per 20 giorni o a -18°C per 106 ore, vale a dire poco meno di 5 giorni. Va da sé che la permanenza al fresco si riduce esponendo la carne a temperatura ancora più basse (-21°C per 82h, -23°C per 63h, -26°C per 48h, -29°C per 35h). Oppure potete cuocere la vostra braciola sottovuoto a bassa temperatura, eliminando simultaneamente sia i vermi che i batteri. Vi basterà attenervi alla tabella riportata nel riquadro a lato. A quel punto potrete scegliere se abbattere (ora sì!) la carne e congelarla, oppure cuocerla e consumarla subito. 106

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Spessore

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58°C

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61°C

62°C

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65°C

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143.6°F

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MOLLA L’OSSO: Sì o No? Vediamo cosa succede quando poggiamo la nostra braciola sulla griglia o sulla piastra. Con osso: la carne si ritira perché si contrae longitudinalmente o trasversalmente, l’osso tocca la piastra o la griglia e dove non c’è contatto tra superficie riscaldata e carne avremo meno Maillard, meno crosticina brunita insomma. Senza osso: siamo liberi di disossare la braciola e cuocerla senza. È solo questione di preferenza, senza l’osso che fa da impaccio avremo senz’altro una reazione di Maillard più uniforme, ma filetto e lonza separati. LA COTTURA IDEALE: 60°C al cuore Facciamo un ripassino sulla mutazione nella consistenza e nel colore della carne di maiale a determinate temperature. Sotto i 45°C. La carne è da considerarsi cruda, sia le miofibrille (i filamenti del muscolo) che i “fasci crociati” di collagene (il tessuto connettivo) sono ancora integri. A 45°C. La miosina, la parte rossa per intenderci, inizia a coagulare strizzando fuori i liquidi che vengono in parte raccolti nelle guaine di collagene (le guaine che avvolgono le fibre muscolari). A 60°C. Tutte le proteine che restano coagulano spingendo ancora liquidi all’esterno, rendendo la carne opaca e turgida. A 66°C. Anche le proteine della guaina (in gran parte collagene) si coagulano Carne

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Destrosio

Il glucosio è uno zucchero monosaccaride presente in natura come molecola chirale, ovvero ne esistono due forme una speculare all'altra: il D-glucosio e l'L-glucosio. Queste due molecole, in rapporto tra di loro come due immagini riflesse in uno specchio, sono dette enantiomeri. Delle due, la forma più abbondante è la D, che viene chiamata anche Destrosio. Solo il D-glucosio o destrosio viene utilizzato dagli esseri viventi in diversi processi metabolici. Il glucosio è praticamente la fonte principale di energia per gli organismi. Il glucosio è uno zucchero riducente: come tale, entra in gioco quando si parla di reazioni di Maillard.

repentinamente e si contraggono. L’effetto è quello che si ottiene strizzando una spugna intrisa d’acqua, a questo punto la braciola è diventata una mensola di betulla. Come detto in precedenza, in Italia l'Istituto Superiore di Sanità raccomanda una temperatura di cottura di 72°C (l’FDA americana di 71°C) per il maiale. Un consiglio per salvaguardare la sicurezza alimentare (a quelle temperature si elimina la maggior parte dei batteri) più che il risultato in termini di gusto. Ma noi sappiamo che esistono tanti modi per mangiare la carne in sicurezza, e quindi possiamo stabilire il primo criterio per la nostra braciola perfetta senza troppe paturnie: la temperatura ideale per cuocerla è tassativamente 60°C - 62°C. Prima di iniziare a giocare con termometro e griglia, dobbiamo tener presente che gli zuccheri riducenti nella carne di maiale sono pochi, e che la Maillard (la crosticina) su questo taglio conserva sempre quell’aspetto a “macchia di leopardo”. Ormai l’avete imparato: per avere un pezzo di carne perfettamente cauterizzato vi servono 3 cose: temperatura superiore ai 140°C, concentrazione dei reagenti (zuccheri riducenti e proteine) e assenza di umidità. Ma cosa possiamo fare per potenziare la Maillard e intenerire la carne, senza però ricorrere ad una salamoia o alle injection? La risposta si chiama Maillard Booster. È un composto di sale e destrosio che serve a far assorbire alla carne gli zuccheri riducenti che si trovano in superficie. Sarà il sale a mantenere la carne succosa e a far penetrare gli zuccheri al suo interno. Il mix si prepara unendo una parte di sale, una parte di destrosio in polvere e, se volete, 1 parte di aromi in polvere (cipolla, aglio, semi di senape tritati). Una volta miscelato il tutto dovete seguire gli stessi step di un normale dry brining: cospargete la carne da una parte e dall’altra con le polveri e lasciate in frigo per 12 h; trascorso questo intervallo di tempo rifate la procedura e attendete altre 12 h. A questo punto entra in gioco il forno ventilato, ma prima spendiamo due paroline per il contorno: le patate arrosto. PATATE ARROSTO: come scegliere quelle giuste La cultivar gioca un ruolo fondamentale nella scelta delle nostre patate, ma è preferibile basarsi sulla valutazione dello stato d’idratazione del singolo tubero, misurandone la densità mediante il principio di Archimede. Ve la ricordate la legge dei solidi immersi in un liquido? Quella lì. La patata giusta per la nostra ricetta deve avere un contenuto equilibrato di amidi e umidità: questo implica una densità intermedia tra una patata giovane, fresca, ricca d’acqua di vegetazione e una patata vecchia, conservata a lungo, ricca di amidi e fortemente disidratata. Per selezionare patate con queste caratteristiche dovrete ricorrere a questo semplice metodo. Preparate due soluzioni saline a differente densità: la prima a bassa densità: 9% di sale (90 grammi di sale disciolti in 1 kg d’acqua); la seconda ad alta densità: 12% di sale (120 grammi di sale in 1 kg d’acqua). Le soluzioni, messe in due grossi contenitori, devono avere volume sufficiente al fine di valutare la spinta idrodinamica sulle singole patate.

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Le patate che galleggeranno nella soluzione a bassa densità andranno scartate: sono troppo ricche d’acqua per il nostro scopo. Le patate che affonderanno nella soluzione a bassa densità saranno le vincitrici della prima selezione, si qualificano come idonee e passano allo step successivo. A questo punto bisogna testare le candidate superstiti immergendole nella soluzione salina più forte: le patate che affondano anche in questa soluzione vanno messe da parte perché troppo disidratate e ricche di amido, mentre quelle che galleggiano sono le candidate perfette per noi. FASE 1: Sbollentare le patate Adesso è il momento di sbollentare i nostri tuberi. Tagliate le patate in quarti (non le pelate!), lavatele sotto l’acqua corrente fin quando non diventerà limpida e immergetele in acqua a 90°C per circa mezz’ora. Le patate devono conservare una consistenza sufficientemente soda da poter essere maneggiate. Scolate le patate e mettetele da parte. Oppure cuocetele in sous vide. Dopo aver tagliato le patate come spiegato precedentemente preparate una soluzione miscelando, per 1 kg di patate: : 1 kg di acqua (1 litro); 15 g di sale; 2.5 g di zucchero semolato; 2.5 g di bicarbonato di sodio. Questo intruglio donerà una crosta superficiale incredibile alzando il pH e fornendo una dose di zuccheri riducenti che accelereranno la reazione di Maillard nelle successive fasi di cottura. Il bicarbonato di sodio, che è alcalino, innesca una reazione a catena che scompone letteralmente la spina dorsale delle molecole di pectina contenuta nelle patate e le disintegra. Dunque, imbustate le patate e aggiungete la stessa quantità in peso di salamoia (300 g di patate più 300 g di soluzione). Sigillate la busta eliminando tutta l’aria e cuocete per 15 minuti a 90°C. Successivamente abbattete o raffreddate il più rapidamente possibile, scartate la salamoia e asciugate le patate; anche in questo caso cercate di non esagerare con la cottura, le patate devono essere cotte ma non devono disfarsi. FASE 2: Asciugare le patate Tutta la procedura collima nell’ultimo passaggio in forno, a quel punto dovrete controllare tutte le variabili che governano la reazione di Maillard: alta temperatura, pH basico, presenza di zuccheri riducenti e soprattutto totale assenza di umidità superficiale. Ma è a questo punto che aggiungo al metodo ormai sdoganato dall’immenso Heston Blumenthal (Fat Duck, Bray on Thames, Berkshire, Inghilterra) il mio personalissimo tocco. Seguitemi con attenzione. Carne

Perchè questi metodi funzionano?

Devono accadere due cose affinché una patata diventi croccante, ed entrambe dipendono dall'umidità. In primo luogo, i granuli di amido contenuti nel tubero devono assorbire acqua e gonfiarsi, liberando un po' del loro amilosio. In secondo luogo una parte dell'amilosio deve scomporsi in glucosio, un tipo di zucchero. Una volta che l'umidità evapora sulla superficie della patata, l'amilosio si indurisce in un involucro simile a un guscio di plastica, che donerà croccantezza, mentre il glucosio si scurisce, producendo una crosticina ambrata deliziosa.

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Braciola con patate arrosto scientifica

Ingredienti per 4 persone

4 braciole di maiale alte 3,5 cm l'una Per il Maillard Booster 10 g di sale 10 g di destrosio in polvere 2,5 / 5 g di cipolla in polvere 2,5 / 5 gr di aglio in polvere Per le patate arrosto 2 kg di patate a pasta gialla precotte (come descritto nella Fase 1) olio extravergine di oliva q.b. sale q.b. pepe q.b. rosmarino fresco / erbe aromatiche a piacere

Partiamo dalla braciola. Per prima cosa dovete preparare il Maillard booster: vi basterà pesare gli ingredienti e miscelarli in una ciotolina. A questo punto prendete le vostre fettone di carne e cospargetele con le polveri da una parte e dell’altra, poi lasciate in frigo la carne per 12 ore. Trascorsa la mezza giornata rifate la procedura. Sistemate la carne su una griglia o su una teglia forata, quindi mettetela in forno a 60°C e piazzate la vostra sonda all’interno della braciola. Per poter eliminare qualunque rischio per la salute, dovete assicurarvi di lasciarla in forno per almeno 2 h.

Preferite scaldare la braciola sottovuoto? Sigillatela in un sacchetto adeguato alla cottura sottovuoto e lasciatela in un bagno termostatico a 60°C per almeno 50 minuti (meglio se per un paio d’ore). Successivamente estraete le braciole dai sacchetti, asciugatele con della carta assorbente e trasferitele in forno ventilato a 60°C per 30-60 minuti. E le patate? In forno, insieme alle braciole! L’asciugatura prima della cottura definitiva servirà a formare un film attorno alle patate, che con il calore formerà una crosta talmente croccante che pure i vicini vi sentiranno masticare. L’umidità residua interna spingerà contro la pellicola esterna formando uno strato soffiato e crunchy che vi ripagherà di tutto il tempo speso nella preparazione. Lasciate quindi asciugare le patate sbollentate per almeno un’ora, devono risultare asciutte al tatto. A questo punto prendete una teglia abbastanza profonda e fatela preriscaldare in forno a 180°C. Una volta raggiunta la temperatura, versate mezzo centimetro di olio extravergine di oliva e sistemate le patate sulla teglia, ungendole con cura. Fate cuocere fin quando non risulteranno dorate e croccanti, girandole di tanto in tanto e ruotando la teglia. Nel frattempo mettete a scaldare la vostra padella in ghisa oppure predisponete una cottura diretta nel vostro dispositivo. Ungete le braciole con un velo d’olio extravergine e cauterizzate per pochi minuti, quel tanto che basta per ottenere una Maillard soddisfacente. Fate attenzione a non superare i 60°C al cuore, mi raccomando, la carne deve essere rosata e morbida. Servite calda assieme alle super patate e preparatevi ad assaggiare la migliore bistecca di maiale della vostra vita. I vostri familiari vi butteranno le braciole al collo.

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2.3 – COTECHINO CON LENTICCHIE E PURÈ "NON POSSO FARE IL COTECHINO COME CINQUANT'ANNI FA. DIGERIREI DOPO DUE SETTIMANE. LO STILE DI VITA È CAMBIATO. SPESSO SI SENTE DIRE "AH, UNA VOLTA...". UNA VOLTA C'ERA LA FAME. OGGI MOLTO MENO. IN COMPENSO CI SONO AGRICOLTORI E ARTIGIANI BRAVISSIMI E PRODOTTI STRAORDINARI. IO PARTO DA UN DUBBIO: LA TRADIZIONE È POI COSÌ RISPETTOSA DELLE MATERIE PRIME?" L’ha detto lo chef sul tetto del mondo, Massimo Bottura, a proposito di tradizione, di rispetto, di cotechini. E io sono più che d’accordo con lui. We stan, direbbero i giovani. Siamo proprio sicuri che il cotechino bucato e lessato (argh!) con un contorno di bucce di lenticchie della mensa sia il massimo da offrire sulla tavola delle feste? Che ricchezza potrebbe mai portarci una vassoiata di legumi bolliti alla meno peggio? Ve lo dico io, manco i punti fragola del supermercato. Quanto sarebbe figo invece servire del succulento cotechino tagliato in fette, piastrato e croccantizzato, accompagnato da un purè di patate setoso e ricco, lenticchie in due consistenze e una spruzzata di salsa Teriyaki? Grasso, sapido, dolce e acido. Una seconda portata perfettamente equalizzata, che non si risparmia in termini di aroma e calorie. E siccome si mangia a Natale, ci meritiamo porzione doppia. Perché la dieta migliore che esista è evitare i cibi che non ci piacciono. IL COTECHINO È un salume tipico della tradizione modenese, ma che viene confezionato un po’ in ogni parte d'Italia. È uno di quei prodotti della macellazione del maiale che viene mangiato per primo, insieme alla coppa (o torta) di testa e ai ciccioli. Anche per questo motivo viene tradizionalmente consumato a Natale: il maiale si macella abitualmente in dicembre. Il cotechino è un insaccato cosiddetto “povero”, viene ricavato dai tagli del maiale meno nobili, inadatti a lunghe stagionature e quindi non impiegati nella produzione di salami, prosciutti, salsicce e altri insaccati decisamente più snob. L'ingrediente principale del cotechino è (o meglio era) la cotenna, seguita dagli spolpi della testa e del collo, tutte carni ricche di tessuto connettivo che richiedono una cottura lunga e che assumono, una volta cotte, la consistenza gelatinosa tipica del cotechino. Entra in 112

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gioco l'idrolisi del collagene: se non la conoscete, è il momento giusto (per approfondimento, andate alla ricetta dello spezzatino scientifico, a pagina 130). Storicamente, il cotechino veniva insaccato dalle sapienti manine dei "lardaroli e salsicciari" modenesi, che si riunirono in una Corporazione Autonoma nel 1547. La prima citazione ufficiale è datata 1745, in un documento che ne calmierava il prezzo. La prima ricetta compariva invece l'anno successivo, nel 1746. COMPOSIZIONE DEL COTECHINO Il cotechino è uno dei salumi più volubili per quanto riguarda la scelta degli ingredienti che lo compongono. La ricetta tradizionale prevede l'utilizzo di cotenna per almeno il 50%, come indicato nel 1841 da Vincenzo Agnoletti, cuoco romano al servizio di Maria Luigia, granduchessa di Parma, il quale afferma che "[...] l'impasto deve essere per metà di cotenna e per metà di nervetti e carne magra". Questo mix di tagli viene insaccato nel budello del maiale, messo ad asciugare per qualche giorno (1-2 settimane al massimo) e poi consumato, previa lunga cottura necessaria alla trasformazione del collagene della cotenna e delle carni ricche di connettivo che contiene. Oggi solo i produttori artigianali, ancora legati alle tradizioni contadine, continuano a produrre il cotechino seguendo i vecchi dettami. La produzione industriale si è infatti spostata su una ricetta meno ricca di cotenna e infarcita di carni grasse. Nel cotechino da scaffale troviamo solo il 20% di cotenna, il resto 80% è composto da carne magra e grassa (spalla, pancetta, ecc). La cottura del cotechino artigianale può richiedere fino a 3-4 ore, soprattutto se la cotenna non ha subito una precottura prima di essere macinata e insaccata. Va consumato con il purè, oppure con mostarde di mele o di zucca, o ancora con il cren, la pasta di rafano, più o meno piccante, che si sposa molto bene con le carni opulente e gelatinose. IL COTECHINO DI MODENA I Cotechini Modena IGP sono tra i più antichi prodotti della salumeria italiana. La leggenda narra che hanno fatto la loro prima apparizione nel 1511 a Mirandola, durante l’assedio delle milizie di papa Giulio II della Rovere. In quell’occasione, per sottrarre cibo al nemico, i mirandolesi si sarebbero ingegnati insaccando la carne di maiale macinata nella cotenna e nelle zampe. Nacquero così, per istinto di sopravvivenza e un poco di cazzimma, il cotechino e lo zampone. 114

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Le carni vengono macinate delicatamente e insaporite con spezie ed erbe aromatiche (chiodi di garofano, pepe, noce moscata, cannella e vino). L’impasto così ottenuto viene poi insaccato: lo Zampone Modena IGP in un involucro costituito dalla cotenna della zampa anteriore del maiale, il Cotechino Modena IGP in budelli. Protagonisti indiscussi delle tavolate natalizie, sono sempre più “destagionalizzati” e divorati tutto l’anno.

Il cotechino scientifico Ingredienti

1 cotechino fresco da 1 kg

Il principio è molto semplice. Abbiamo detto che il cotechino fresco al suo interno custodisce pezzi tritati di carne “povera” che fondamentalmente contengono moltissimo tessuto connettivo, oltre a una buona quantità di grasso. Questo ci porta a fare un ragionamento ben preciso e cioè cuocerlo nella finestra di idrolisi del collagene in modo che risulti molto tenero e burroso. La cottura non poteva che essere in sous vide: mettete il nostro salsicciotto in un sacchetto e immergetelo in un bagno termostatico a 85°C per 4 ore. In questo modo il connettivo avrà tempo di sciogliersi a dovere. Una volta cotto, abbattetelo con acqua e ghiaccio e mettetelo in frigorifero. Dobbiamo affettarlo ben freddo, quando il collagene si sarà nuovamente solidificato. Prima di farlo, però, ripulitelo della gelatina e dello strutto di cui sarà inevitabilmente coperto. Quando avrete anche i contorni pronti, taglierete dei medaglioni non troppo spessi, non più di un paio di centimetri. Li passerete sulla piastra a calore feroce per cauterizzare il prima possibile e dare inizio alla nostra cara reazione di Maillard. C’è tanto collagene sciolto e tanto grasso, quindi la crosta sarà molto evidente. Ciò che dovete fare è abbinare una salsa dal tono acido per sgrassare il boccone. Uno sciroppo di amarene ci starebbe da Dio. Ma anche una Teriyaki, la salsa giapponese, preparata con la ricetta che segue. Carne

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La salsa Teriyaki Ingredienti

120 ml di sake 120 ml di mirin 120 ml di salsa di soia leggera 60 g di zucchero semolato

La Teriyaki tradizionale di base è composta da 3 ingredienti: salsa di soia, mirin (un sake leggermente dolce) e zucchero. Può essere utilizzata come condimento, come marinata o come salsa di glassatura. Visto che la abbineremo ad un salume particolarmente sapido, il mio consiglio è di partire da una salsa di soia leggera, in modo che restringendosi non diventi troppo salata. Potete sostituirla con una riduzione di vino rosso o con una salsa di amarene. Oppure utilizzarne una confezionata di buona qualità. Mescolate tutti gli ingredienti in un pentolino, portate ad ebollizione e lasciate ridurre a fuoco lento. Quando avrà raggiunto la consistenza di uno sciroppo denso, spegnete il fuoco e versate la salsa in un contenitore sterilizzato. Si conserva in frigorifero per 2-3 settimane.

LE LENTICCHIE Le lenticchie sono tra i primissimi legumi coltivati dall’uomo. Le prime tracce si fanno risalire alla Mezzaluna fertile e se ne trovano testimonianze anche nella Genesi, nel famoso racconto di Esaù che – cito – proprio per un piatto di lenticchie cedette il diritto di primogenitura al fratello Giacobbe. Pare che dall’antico Egitto partissero regolarmente navi cariche di lenticchie verso i porti greci e italici. O almeno, così si dice. Certo è che venivano apprezzate sia ad Atene che a Roma, tanto che l’autore latino Plinio il Vecchio, nella sua opera Naturalis Historia, le cita come alimento dal grande valore nutritivo e capace di infondere tranquillità nell’animo. Sembra addirittura che l’obelisco del colonnato di Piazza San Pietro a Roma (portato nella Città Eterna per volere 116

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dell’imperatore Caligola) abbia attraversato il Mediterraneo protetto da un gigantesco carico di lenticchie. Sin dal Rinascimento sono simbolo di prosperità e denaro, tanto da attribuire loro il potere di portare soldi, soprattutto se mangiate a Capodanno. Il motivo? Perché a parità di peso con altri legumi, le lenticchie sono molte di più. Nella cultura ebraica, invece, simboleggiano il ciclo della vita per via della loro forma rotonda. La pianta e la produzione Quel che si mangia sono i semi della Lens culinaris, della famiglia delle Fabaceae. È una pianta annuale, coltivata in diversi paesi in tutto il mondo, ma che non si trova praticamente più allo stato selvatico. Oltre che in Europa, principalmente nei paesi meridionali e orientali come Italia, Grecia e Cipro, la lenticchia si produce in Asia Minore e Centrale, nel Vicino Oriente, Canada e Australia. In Italia viene coltivata praticamente in tutte le regioni, con particolare cura in Sicilia, Abruzzo e Umbria. Si adatta bene anche a zone semi-aride, terreni poco fertili, zone montane, e ha una buona resistenza agli attacchi dei parassiti. Inoltre è preziosa nella rotazione delle colture. La pianta ha uno stelo tra i 20 e i 70 cm con foglie alterne e composte. Ha dei fiori a corolla, bianchi o blu, riuniti in grappoli, mentre i frutti sono costituiti da baccelli piatti che contengono uno o due semi di dimensione e colore vari, dall’arancione al giallo, dal verde chiaro a tonalità più scure fino al bruno. Sono proprio questi semi la parte che mangiamo. Lo sapevate? Le lenticchie in cucina La cucina regionale le vuole cotte in umido, abbinate alla pasta o come ingrediente principale di zuppe o minestre (queste ultime ricette, soprattutto al Sud). Ma si abbinano ad ingredienti autunnali come zucca o funghi, con carni grasse – il cotechino appunto – o frutti di mare. Si acquistano secche e si devono conservare al buio, in un luogo fresco e asciutto. Nel caso di varietà dalla pelle sottile, o delle lenticchie rosse decorticate, non necessitano di ammollo prima della cottura. Proprietà nutrizionali Di elevato valore nutrizionale (circa 300 calorie per 100 grammi) e dal bassissimo contenuto di grassi (1 grammo per 100 grammi), le lenticchie sono una buona fonte di carboidrati complessi, proteine e fibre. Contengono anche potassio, ferro e fosforo. Importante citare anche l’apporto di vitamine B1 e B2. Le lenticchie inoltre non contengono glutine, cosa che le rende particolarmente adatte per chi è affetto da celiachia. Carne

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Otto varietà italiane di lenticchie 118

Lenticchia di Castelluccio di Norcia Coltivata lungo tutto l’altopiano di Castelluccio all’interno del Parco Nazionale dei Monti Sibillini, la lenticchia di Castelluccio di Norcia è caratterizzata soprattutto dalla grande varietà dei suoi colori e dalla forma rotonda ed appiattita. Dalla buccia estremamente sottile, ha un tempo di bollitura di venti minuti e un’alta digeribilità. È perfetta consumata con le carni grassi e, naturalmente, con i salumi umbri. Lenticchia di Altamura Si coltiva tra le piante di lino e cotone nello scenario delle Murge, ad Altamura (dove fanno il famoso pane, proprio lì). Questa varietà si caratterizza per le sue grandi dimensioni e il colore verdastro. Viene servita – tradizionalmente – in minestra con aglio, cipolla, sedano ed olio extravergine d’oliva. Lenticchia di Mormanno Ci spostiamo nel cuore del Parco Nazionale del Pollino dove – nel paese di Mormanno – si coltiva da secoli una varietà di lenticchia dal seme molto piccolo e dal colore che varia dal rosa al verdone. Si tratta di una lenticchia molto leggera, dalla buccia sottile cucinata soprattutto nella zuppa con abbondante peperoncino locale. Lenticchia di Santo Stefano di Sessanio Coltivata a circa 1200 metri di altitudine all’interno del Parco Nazionale del Gran Sasso, secondo alcuni documenti addirittura dall’anno Mille, la lenticchia di Santo Stefano di Sessanio si caratterizza per le sue dimensioni estremamente piccole e per la sua naturale sapidità. È l’ingrediente CODICE LO CASCIO

principale di zuppe con erbe, aglio ed olio extravergine d’oliva. Lenticchia di Ustica Si tratta di una delle lenticchie più piccole d’Italia. Coltivata su terreno lavico e di colore marrone scuro, la lenticchia isolana di Ustica è usata soprattutto per zuppe con ortaggi della zona e finocchietto selvatico, oltre che con la pasta. Dal sapore delicato, ha tempi di cottura molto rapidi. Lenticchia di Villalba Il comune di Villalba, in Sicilia, è stato tra i principali produttori di lenticchie in Italia fino alla prima metà del Novecento. La varietà autoctona è a seme grande e le sue qualità nutrizionali sono straordinarie. Questa lenticchia infatti può contenere anche più di 10mg di ferro per 100 grammi di prodotto e possiede un ottimo tasso di proteine. Viene utilizzata soprattutto per le minestre. Lenticchia di Rascino Piccola e marroncina, la lenticchia di Rascino viene coltivata nella zona del Cicolano tra orchidee selvatiche e farro, al confine tra Lazio ed Abruzzo. Seminata ad aprile ed irrigata con le acque sorgive del parco della Peschiera, questa lenticchia è stata da sempre consumata dai pastori della zona, che la cuocevano nel latte e la servivano agli ammalati. Si tratta di una lenticchia piccola che necessita di ammollo ed è ottima per preparare zuppe col farro locale o col grano biancòla tipico di questo territorio. Lenticchia di Soleto Nel cuore della Grecìa salentina dove i


discendenti della Magna Grecia parlano ancora oggi un dialetto dorico (griko), viene coltivata un’antichissima varietà di legumi molto simile ad una lenticchia chiamata vicia (al quale appartengono anche le fave). Anche se il colore nero e la consistenza

rugosa possono far immaginare il contrario, si tratta di una varietà estremamente digeribile che prevede una cottura breve. È impiegata di solito per preparare minestre con olio extravergine d’oliva ed erbe locali.

Le lenticchie scientifiche Ingredienti

500 g di lenticchie (verdi o rosse) 1 cipolla 2 carote 1 costa di sedano 2 rametti di rosmarino fresco sale q.b. pepe q.b.

Dovete cuocere le lenticchie in due batch: il primo sacchetto da 250 grammi lo immergete in sous vide a 85°C per 1 ora. Nel sacchetto dovrete versare dell’acqua, in volume il doppio rispetto alle lenticchie. E dovete aggiungere 1 grammo di sale ogni 100 grammi d’acqua. Non avrete bisogno di metterle a mollo e si cuoceranno perfettamente, non si staccherà nemmeno una buccia. Il secondo sacchetto, sempre da 250 grammi, lo fate cuocere a 90°C per 2 ore. Una volta cotte le lenticchie le frullate e le filtrate: dovete ottenere una purea, che andrà condita con le lenticchie cotte nell’altro sacchetto. A parte preparate una brunoise di carote, cipolla e sedano. Come se fosse un soffritto. Lo fate andare in padella con un rametto di rosmarino e quando è pronto lo aggiungete alla crema di lenticchie. Carne

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LA SCIENZA DELLA COTTURA DELLE PATATE: IL PURÈ Tutto sull'amido Le patate sono uno degli alimenti più versatili in cucina. Potete servirle cotte al forno, fritte, bollite, schiacciate, sono sempre buone. Il loro amido viene utilizzato per un sacco di cose, basta dare un'occhiata a qualche etichetta di cibi confezionati. Non ci sono molti altri alimenti che riescono a raggiungere questi livelli di trasformismo. Avete mai fatto uno spuntino con chips di broccoli, broccoli gratinati o broccoli bolliti? Di cosa è fatta una patata? Ormai le patate vengono coltivate in tutto il mondo, migliaia di anni fa erano un’esclusiva del Sud America. Parliamo di uno dei principali alimenti di base del pianeta, un ingrediente capace di sfamare come pochi ed apportare tanta energia. Come qualsiasi alimento vegetale, la patata è composta da acqua, circa l'80%. Il resto è costituito da carboidrati (18%), di cui la maggior parte amido (più dell’85%), poi un pochetto di grasso e altrettante proteine, oltre a varie vitamine e minerali. Tra le cellule della patata troviamo molte sostanze pectiche (pectine) così come la cellulosa e l’emicellulosa, l’elemento che tiene tutto insieme. Ciò che distingue la patata da molti altri prodotti della terra è un'enorme quantità di amido. È l'amido che le conferisce la maggior parte delle sue proprietà funzionali. Cos'è l'amido (di patate)? L'amido è un carboidrato di grandi dimensioni e una fonte di energia molto comune in natura. È costituito da due tipi di molecole: amilosio e amilopectina. L'amilosio è una lunga catena più o meno lineare di zuccheri glucidici, una molecola relativamente piccola rispetto all'amilopectina. L'amilopectina è una molecola grande e fortemente ramificata, molto più ingombrante dell'amilosio. L'amido si trova lungo tutta la patata sotto forma di granuli. Questi granuli possono essere abbastanza grandi (rispetto ad altri tipi di amido), fino a un decimo di millimetro. La forma dei granelli, se vista al microscopio, è in realtà abbastanza simile a quella della patata stessa. L’amido non è ovviamente un’esclusiva della patata, lo ritroviamo in vari alimenti come la farina o il mais. Ognuna di essi ha un tipo diverso di granulo, ma anche un diverso rapporto e un diverso contenuto di catene di amilosio e amilopectina. La fecola di patate, ad esempio, contiene catene di amilosio piuttosto lunghe (per conoscere davvero tutto sugli amidi e relativi composti, trovate l'approfondimento nella ricetta dello spezzatino scientifico a pagina 135). Cosa succede quando si cuoce una patata? 120

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Il processo principale che avviene durante la cottura di una patata, indipendentemente dalla tecnica, è di base un aumento di temperatura. La fase inizierà riscaldando l'esterno e poi lentamente tutta la patata. Come con qualsiasi processo di trasferimento del calore, ci vuole un po' di tempo prima che l’intero tubero si riscaldi del tutto. Più piccoli sono i pezzi, però, più velocemente si riscalderà. Quel calore causerà poi varie reazioni chimiche, le tre più importanti sono: 1. Ammorbidimento della patata, la struttura cellulare si disfa, proprio come succede per le altre verdure. 2. L'amido “cuoce". 3. In alcuni casi (ad esempio con la frittura) la patata può prendere quel bel colore dorato e sviluppare sapori extra. Per semplificare, il calore dissolverà la "colla" che tiene insieme le cellule e romperà le pareti delle cellule stesse. Questo porterà la patata a perdere la sua consistenza. L’acqua evaporerà e il tubero perderà il suo turgore. Cuocere gli amidi Quando si scalda una patata, le grandi quantità di amido contenute in essa vengono cotte. Come vi ho già detto prima, l'amido si trova nelle patate sotto forma per lo più di granuli e di amilosio libero. A temperatura ambiente, questo amido non si scioglie in acqua. Quando l’acqua viene riscaldata, invece, l'amido è in grado di dissolversi, i granuli la assorbono e si gonfiano. Sono proprio questi processi che rendono difficile la miscelazione dell’amido con l'acqua calda. A contatto col liquido, la superficie esterna dell’amido si gonfierà immediatamente e contemporaneamente si formeranno dei grumi. L'interno di questi grumi conterrà amido che non ha ancora assorbito acqua, che però non potrà più penetrare perché il guscio gelatinizzato glielo impedisce. Se avete mai provato fare la cioccolata calda con il latte bollente e l’amido, avrete senz’altro capito di cosa sto parlando. Durante il rigonfiamento di questi granuli, un po’ dell’amido verrà rilasciato. È per questo che quando bolliamo le patate, l’acqua diventa torbida. Questo processo di rigonfiamento, scioglimento e anche fuoriuscita di amido è chiamato gelatinizzazione, un processo irreversibile che può avvenire solo in presenza di acqua. Patate farinose vs patate cerose La maggior parte di voi avrà sentito parlare della distinzione tra patate farinose e patate cerose, le prime più secche mentre le altre lasciano una sensazione più morbida in bocca. È tutta una questione di amido Se una patata è farinosa o cerosa, tutto dipende dal tipo di amido di cui è fatta. Cosa le rende diverse, quindi? È interessante, ma i ricercatori non sembrano mettersi d’accordo su questa faccenda. Tutto dipende, almeno sembra, da una combinazione Carne

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di amidi e dalla struttura della patata, dalle dimensioni delle cellule e come le cellule sono attaccate l'una all'altra. In generale, sembra che un più alto contenuto di amido dia patate più farinose, che tendono ad avere anche cellule più grandi e più “resistenti”. Per quanto riguarda le patate cerose, invece, pare che rilascino più facilmente l’amido. IL PURÈ PERFETTO: TUTTI I TRUCCHI 01. Utilizzare un passaverdure o uno schiacciapatate Passando le patate cotte attraverso un passaverdure o uno schiacciapatate si ottiene una consistenza liscia e setosa. Per preparare un purè cremoso dovete limitare la quantità di stress meccanico per evitare danni alla struttura della patata. Perché le patate diventano appiccicose, dite? L’appiccicosità si sviluppa quando si usa il mixer, quando si scuotono troppo le patate e si tira fuori l’amido. 02. Asciugare le patate prima di aggiungere il burro Dopo aver passato le patate con un passaverdura o uno schiacciapatate è meglio lasciarle asciugare per qualche minuto. Dovete eliminare quanta più umidità possibile. L'acqua non è amica delle patate, poiché farà gonfiare i granuli di amido, li scomporrà e questi rilasceranno una parte del loro contenuto in essa. 03. Aggiungere abbastanza burro Vi siete mai chiesti perché il purè del ristorante è più buono del vostro? Perché gli chef hanno la manina pesante con il burro, e fanno bene! Provate ad usare il burro in un rapporto da 4:1 a 2:1 rispetto alle patate. Servirà anche a formare un film lipidico attorno ai granuli di amido, contrastando la formazione dei grumi. 04. Condire bene le patate con la dose adeguata di sale Il sale è importantissimo per esaltare i sapori. NOTE SULL'AMIDO NELLE PATATE: (Repetita iuvant.) I granuli di amido contengono due tipi di molecole: l’amilosio, che è lineare, e l'amilopectina, che è ramificata. Queste molecole di amido hanno la capacità di formare altre molecole appiccicose, gel o emulsioni. In acqua fredda l’amido non si dissolve: l'amilopectina è altamente insolubile in acqua, e l'amilosio è solubile solo in acqua ad una temperatura di circa 55°C. Quando immerse in acqua calda, le molecole d'acqua dissolvono le molecole di amilosio e modificano la struttura del granulo dell’amido causandone il rigonfiamento e la rottura. Delle patate bollite lasciate in acqua cominceranno a gelificare e aumenteranno di volume, diventando gonfie e acquose. Se il purè di patate risulterà acquoso, diventerà appiccicoso. Ecco perché è importante asciugare le patate. Quando le patate incontrano il latte, invece, l'amido reagisce in modo diverso. Latte, panna e burro contengono diversi tipi proteine della caseina. La caseina riduce le quantità di amilosio che fuoriescono dai granuli di amido, e limita anche il rigonfiamento dell'amido, il che comporta una consistenza più liscia e piacevole al palato. La caseina è un potente emulsionante e legante. 122

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Il purè scientifico Ingredienti

1 kg di patate vecchie (qui ho usato patate di montagna della Sila) 250 gr d panna fresca* (o latte fresco intero) 175 gr d burro di centrifuga noce moscata q.b. sale q.b.

A scelta Parmigiano Reggiano stagionato almeno 30 mesi *Se utilizzate il latte, aumentate il peso del burro (minimo 250 grammi)

• •

Gli ingredienti sono quelli classici, ma la tecnica prevede delle accortezze. Utilizzo di sole patate vecchie, più “secche” delle patate nuove. A me piacciono le patate ratte, che hanno un naturale sapore nocciolato e una consistenza burrosissima. C’è chi utilizza esclusivamente patate a pasta bianca, più farinose delle altre e ricche di amido, e chi preferisce le patate rosse che hanno una polpa più soda. A prescindere dalla tipologia di tubero è consigliabile scegliere patate vecchie per scongiurare il rischio mastice. Cottura delle patate a secco. Sottovuoto o nella pentola di coccio apposita, proprio per evitare un ristagno di acqua e la formazione della colla per manifesti. Setacciamento. Le patate vanno prima schiacciate (o passate al passaverdure) e poi setacciate spatolandole in un setaccio di quelli circolari a maglie fini che si usano per la farina. Rapporto patata/grassi da 4:1 a 2:1.

Prendete le patate, pelatele e pesatele: devono essere 1 kg preciso, senza buccia. Tagliatele a cubetti di 2 cm per lato e mettetele in un sacchetto predisposto per il sottovuoto. Immergete in acqua a 90°C e fate cuocere per 90 minuti. Schiacciate le patate con uno schiacciapatate facendole cadere in una boule di pyrex (o un contenitore qualsiasi resistente al calore) scaldata in forno a 70°C. Le patate non devono raffreddarsi. Una volta schiacciate passatele al setaccio aiutandovi con una spatola o con un tarocco (quelle palette che si usano nella panificazione). Aggiungete il burro a pezzetti e mescolate con cura, poi trasferite il tutto in un pentolino, aggiungete la panna calda ed amalgamate con una spatola. Non lavorate troppo il purè o diventerà appiccicoso. Togliete dal fuoco, aggiungete la noce moscata, se vi piace, e salate in base al vostro gusto. Tenete al caldo prima del servizio.

ASSEMBLAGGIO E SERVIZIO Avendo cura di aver raffreddato per bene il cotechino, potete agilmente tagliarlo in fette (non meno di un 1,5 cm) e piastrarlo in stile teppanyaki, cioè su piastra rovente. Lo rigirate più volte fin quando i grassi disciolti non avranno veicolato una Maillard da urlo. Servite con il purè tiepido, se vi piace arricchite con del Parmigiano Reggiano, la salsa Teriyaki (o la riduzione di vino rosso di cui parlavamo prima, o ancora la composta di amarene), le lenticchie in due consistenze e una spolveratina d’oro alimentare. L’oro sì che porta soldi, mica le lenticchie da sole. Non hanno nemmeno le braccia. Come fanno, poverine.

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2.4 –LO SPEZZATINO SCIENTIFICO


Certo che è incredibile… Cosa?

Pensavo a quanto è difficile oggi mangiare dell'ottima carne in umido. Brasato, spezzatino, stracotto. Mi ricordo da bambino, alla domenica, quando andavo da nonna, c'era un profumo che invadeva casa e non vedevi l'ora di sederti a tavola per mangiare. Che fame mi veniva. E le tagliatelle al ragù.

Eh si, anche quelle. Ma il profumo dello spezzatino, non so perché, resta quello che più manca. Era complesso, rotondo. Poi quando lo mangiavi sentivi questa carne sciogliersi in bocca. Il sugo era denso, non so che intrugli facesse lei. Saranno state le patate o forse le carote, non so. Resta che quel sugo era brillante, potente. Forse perché da bambino gli odori e i sapori ti restano più impressi ma ti giuro, senza campanilismo, che uno spezzatino buono così non l'ho mai mangiato. Si si, ti capisco. Io ho lo stesso ricordo ma con il ragù. Nonna mi faceva sempre pucciare un po' di pane nel tegame, ma di nascosto, altrimenti mamma si arrabbiava. Che buono quel ragù. Ma raccontami di questo spezzatino, mi hai incuriosito. Come lo faceva?

Ma che ne so. Ricordo bene che c'erano le patate e le carote tagliate a cubettoni grossi. Avevano un colore scuro, erano morbide ma integre, tenere al punto giusto. La carne non la tagliava a pezzi. Mamma lo faceva così. Nonna te la metteva nel piatto a fette, poi metteva le verdure attorno e le bagnava con questo sugo denso. Io raccoglievo il sugo con le patate ma anche col pane. Da noi c'era quasi sempre la polenta.

Eh ma qui non si usava. Nessuno la cucinava mai. Ma c'era il pane di grano duro, quello bello tosto. Lo inzuppavi che era una meraviglia. Quello che mi ricordo era la carne. Buona, tenera. Ogni tanto arrivava qualche pezzo di cartilagine ma era talmente morbida che mi piaceva masticarla. Anche qualche pezzetto di grasso. Ma poco, il grosso lo toglieva sempre. Il pane lo scaldava con cura in forno prima di metterlo a tavola. Anche quello, che profumo. Mamma, mentre te la racconto sto sbavando, riesco a sentire di nuovo quegli odori che sentivo a tavola. Ma quindi dovresti conoscere la sua ricetta. Perché non te la fai a casa.

Ma in realtà non è mai saltata fuori. E poi come faccio, mica ho tempo di star lì a cuocere per ore. Ci ho provato qualche volta ma non viene mai come quello lì. Quello di Nonna era sempre uguale, sempre perfetto, sempre lui. Beh ma guarda che le tecniche per farlo esistono, basta imparare quelle e con qualche tentativo si riesce eh. Come ti dicevo, io avevo una predilezione per il ragù di Nonna. Ho imparato a farlo e tutte le volte mi viene uguale. Te lo giuro, mi fa tornare bambino. Quanto me lo godo quando lo preparo.

Mi hai fatto ritornare la voglia di fare lo spezzatino. Cos'è che devo fare per avere lo stesso risultato secondo te? Ma guarda, non è così complicato. Per prima cosa ti servono dei tagli “di scarto”. Li fai tostare, in tegame o in forno, finché diventano scuri. Poi fai un soffritto di sedano, carote, cipolla e patate tagliate a cubettini, aggiungi un po' di vino rosso e con un cucchiaio di legno stacchi dal fondo tutti gli umori rappresi. Lasci evaporare il vino, aggiungi un po' di brodo e fai cuocere finché i ritagli di carne non si sfaldano. Aggiungendo acqua se serve.

E poi? Che ne faccio dei ritagli? Eh, aspetta, ti sto spiegando. Quando vedi che il fondo è bello scuro e marrone lo filtri e togli tutti i ritagli di carne, ma la verdura no, la frulli. Il fondo lo tieni da parte per dopo.

Ma che carne devo farmi dare dal macellaio? Per i ritagli ti fai dare un po' di ossa, cartilagini, carnetta, roba che non può vendere insomma. La userai per il fondo. Per la ciccia vera e propria puoi chiedere del biancostato o un reale o la punta di petto. Anche il garretto volendo, viene molto potente però.

E poi? E poi prendi un altro tegame, aggiungi la carne tagliata come preferisci e la fai rosolare bene, inteso che deve colorarsi, fare una bella crosta. Questa crosta è il prodotto delle reazioni di Maillard e sono quelle reazioni secondo cui proteine e zuccheri riducenti, quando sottoposti a calore, formano molecole profumatissime e gustosissime. Pensa alla crosta del pane, alla pelle del pollo arrosto.

Ecco, tutte reazioni di Maillard.

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Questo è il momento in cui si interrompe il racconto per approfondire il primo step. Vi prometto che poi riprendiamo col dialogo. LE REAZIONI DI MAILLARD Che non sono le faccine che il dottor Maillard sceglierebbe per i vostri post su Facebook. Parliamo di reazioni, che avvengono in tre fasi separate, fra gli zuccheri riducenti e gli amminoacidi. Affacciamoci per un istante sul passato. Louis Camille Maillard è stato un medico francese, nato nel 1878. Dopo la maturità, conferitagli a sedici anni, a soli diciannove anni si laureò in Scienze. E credetemi quando vi dico che non aveva proprio niente a che fare con la cucina: studiava le malattie dei reni. Fu proprio durante le sue ricerche in campo medico che scoprì alcune reazioni tra zuccheri e amminoacidi, che da questi prendono l’altisonante nome. Sfortunatamente, però, le sue ricerche furono sepolte dall’oblio fino alla Seconda Guerra Mondiale, quando alcuni ufficiali dell’esercito americano cercarono di capire perché il cibo disidratato dei soldati si scurisse con il tempo. In cosa consistono queste reazioni di Maillard? Scaldandosi, gli zuccheri detti riducenti e gli amminoacidi contenuti nella carne si legano e creano centinaia di nuove molecole, perdono acqua e producono immine (il gruppo aldeidico o chetonico dello zucchero e il gruppo amminico dell'amminoacido formano un ponte tra i due composti organici, dando luogo quindi a nuovi composti). Continuando a scaldarsi, il legame fra zuccheri e amminoacidi degenera, la perdita d’acqua accelera e l’insieme forma i composti di Amadori e di Heyns. Segue la degradazione di Strecker che produce composti scuri e aromi caratteristici. Detto con parole più semplici? Le reazioni di Maillard si traducono nei profumini della bistecca dorata, del pollo arrosto e della crosticina croccante del pane. Contrariamente a quello che si sente dire spesso, le reazioni di Maillard iniziano a prodursi già a temperatura ambiente, molto lentamente, senza cottura. E ritorniamo alla faccenda dei soldati di cui sopra. Prendiamo il prosciutto crudo: avete presente quando, tenuto all’aria, si scurisce? Quel cambiamento cromatico è dovuto, fra le tante cose, alle reazioni di Maillard. Quando il calore aumenta, le reazioni si moltiplicano: la temperatura aumenta di 10°C? Le reazioni si moltiplicano per 100. Passando dai 20°C della temperatura ambiente ai 130°C dell’esterno della bistecca, il numero di reazioni si moltiplica di 10 trilioni. Incredibile, vero? Quando la carne si è un po’ asciugata e la temperatura esterna supera i 130°C, le reazioni avvengono molto velocemente. A 180°C (mi riferisco alla temperatura della carne e non della padella o del forno) queste reazioni lasciano il posto alla pirolisi. La carne si brucia insomma. Cosa succede quando si adagia un pezzo di carne di manzo su una piastra rovente? Con il calore, zuccheri e amminoacidi si legano: ma la reazione è invisibile a occhio nudo. 128

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+ + +

CALORE TROPPO DEBOLE. Se il calore non è sufficiente, si svilupperanno poche reazioni. Provate a dorare una bistecca a fiamma bassa, stracuocerà e diventerà stoppacciosa prima di di imbrunirsi. Quindi calore infernale, sempre. CALORE PROGRESSIVO. Se iniziate a cuocere troppo dolcemente e poi alzate il fuoco, le proteine della superficie avranno già iniziato a coagularsi e non potranno trasformarsi: non sarà più possibile dorare il vostro pezzo di carne. Quindi, fuoco a manetta da subito! TROPPA ACQUA. Troppa acqua impedirà l’innesco delle reazioni di Maillard. È per questo che non bisogna mai cuocere un arrosto o un pollo in un liquido se volete dorarli un minimo. Ed è anche la ragione per cui si “rosola” la carne prima di stufarla. MARINATE ACIDE. L’acidità della carne frena di parecchio l’avviamento delle reazioni di Maillard. Ecco perché tutte le carni marinate in un agente acido, come il vino rosso, non si croccantizzano durante la cottura, anche se sono state sciacquate e asciugate.

CALORE. Innanzitutto, serve calore, molto calore: per innescare rapidamente le prime reazioni servono una padella, una piastra o un grill ad almeno 180°C. GRASSO. Servono zuccheri, amminoacidi e acqua, tutti già presenti nella carne. Ma se si aggiunge un elemento grasso, si aumenta la trasmissione di calore e quindi la rapidità delle reazioni. È per questo motivo che una carne unta si rosola molto meglio, più velocemente e in modo molto più uniforme rispetto a una carne non unta. ASCIUGARE, ASCIUGARE, ASCIUGARE! La carne contiene fra il 70 e l’80% d’acqua mentre le reazioni di Maillard si producono in modo più efficace quando l’acqua contenuta nella carne è fra il 30 e il 60%. Perciò, ecco due cose importanti da fare: asciugare la carne con della carta assorbente prima di cuocerla oppure togliere la carne dal frigorifero con largo anticipo e asciugarla in forno.

Provocare le reazioni di Maillard consente di donare sapori e aromi alla carne e ottenere uno strato scrocchiarello sull’esterno che contrasti con la succosità dell’interno, come una deliziosa caramellina.

Carne

Come ottenere le reazioni di Maillard

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Ecco i fattori che influenzano negativamente o positivamente la reazione di Maillard

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Il legame inizia a perdere acqua, ve ne accorgete quando inizia a risalire quel leggero pennacchio di fumo bianco. Con l’aumentare della temperatura, l’acqua continua ad evaporare e il fumo bianco aumenta. I profumi cominciano a pervadere la cucina. Il lato della carne a contatto con la piastra comincia a cambiare colore, da rosso ad ambrato. Col tempo l’esterno si fa più scuro e marroncino. Ma riprendiamo con il racconto. Dopo aver ottenuto la crosticina croccante, prendi i tuoi pezzetti di carne rosolata e mettili in un sacchetto, sot- tovuoto. Imposti la temperatura e lasci andare. In questo momento la carne inizierà a rilasciare liquidi dentro al sac- chetto. Questo accade perché il calore fa contrarre le fibre e questa contrazione fa espellere i liquidi. Ma a te va bene perché te li ritrovi comunque nel piatto.

E le patate quando le metto? Le patate le cuoci in un sacchetto a parte. Cominciano a perdere struttura quando superano i 90°C di temperatura. Anche la carne inizia ad intenerirsi a quella temperatura. Perché avviene l'idrolisi del collagene cioè il tessuto con- nettivo che prima rendeva la carne dura adesso è diven- tata gelatina. Ed è quella che genera la succulenza che ti piace tanto, quel gusto rotondo, pieno, succoso.

Ma pensa te. Ecco cos'era. Esatto.

Facciamo una pausa in modalità Alberto Angela. IDROLISI DEL COLLAGENE Il collagene è strutturato come una corda: all’inizio ci sono 3 fili attorcigliati insieme. Poi si arrotolano insieme più gruppi di fili attorcigliati, e poi ancora più gruppi di fili e così via, fino a ottenere una corda resistentissima. Una volta assemblate, le corde formano una guaina che circonda le fibre della carne, per tenerle incollate. Questa guaina circonda le fibre ma anche i fasci di fibre muscolari, i fasci dei fasci e così via, fino a circondare l’intero muscolo. Scaldandosi, le guaine di collagene si restringono, si contraggono ed espellono i succhi contenuti nelle fibre. Vediamo un po’ cosa accade a diverse temperature. 60°C - Il collagene si irrigidisce ma non si contrae ancora. Espelle pochi succhi. 68°C - Quanto più si alza la temperatura, tanto più si contrae. 100°C - Quanto più si contrae, tanto più le fibre espellono una grande quantità di liquidi.

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Quando il collagene è sottile e poco resistente, una cottura breve è sufficiente per scioglierlo e rendere la carne tenera. Al contrario, quando è spesso e coriaceo è necessaria una cottura lunga in un ambiente molto umido per riuscire a scioglierlo. Si trasforma allora in una gelatina che assorbe l’acqua. Risultato: la carne ritorna succosa. È per questa ragione che anche con una cottura molto lunga le carni dure rimangono morbide. TAGLI TENERI VS TAGLI DURI Ci sono muscoli che lavorano molto e altri un po' pigri, che lavorano di meno. Non hanno tutti la stessa struttura e questa è la ragione principale che determina le carni tenere e le carni dure. UNA QUESTIONE DI GRANA Avete già sentito parlare della grana della carne? I professionisti si esprimono così per definire la struttura e la dimensione delle fibre, cioè la tessitura. Quanto più un muscolo è sottoposto a sforzi prolungati e/o sostenuti, tanto più le sue fibre sono spesse e corte. Al contrario, quanto più un muscolo è pigro, tanto più le sue fibre sono lunghe e sottili. Le fibre spesse dei muscoli lavoratori sono molto, molto più dure da masticare rispetto alle fibre dei muscoli pigri. Questa è la ragione principale della durezza o della tenerezza della carne. Muscolo pigro = grana fine = collagene sottile = carne tenera Muscolo lavoratore = grana grossa = collagene spesso = carne dura IL COLLAGENE, ANCORA E SEMPRE LUI… Le fibre dei muscoli pigri sono avvolte da un collagene sottile e tenero, mentre quelle dei muscoli attivi sono avvolte da un collagene spesso e duro. Ecco perché si adottano cotture brevi o lunghe a seconda che le carni siano tenere o dure. Carni dure Si definiscono dure le carni che contengono molto collagene, come quelle per il bollito o lo spezzatino, per l’appunto. Per renderle tenere, occorre sciogliere il collagene, azione che si produce a partire da una temperatura di 65°C. In realtà, accade una cosa buffa: la carne si scalda e perde dell’acqua; anche il collagene si scioglie e si trasforma in gelatina. E ta-dah, ecco che accade la magia! La gelatina, come una carta assorbente, riassorbe l’acqua. Insomma, in poche parole, durante la cottura dello spezzatino la carne si asciuga e poi riassorbe l’acqua che ha perso, ritornando succosa. Incredibile, no? Carne

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1. 2. 3.

La carne si scalda, perde dell’acqua, si asciuga e il collagene si scioglie. Sciogliendosi, il collagene si trasforma in gelatina. La gelatina assorbe l’acqua che la carne aveva perso. E si ottiene una carne morbidissima e scioglievole.

Carni tenere... che tenere devono restare. Ottenere carni tenere sarebbe semplice se risultassero tutte “al sangue” o ben cotte alla stessa temperatura. Madre Natura, però, ci ha smantellato un po’ i cabbasisi. Affinché un pezzo di ciccia resti succoso, alcune proteine devono modificarsi e altre no, altrimenti la carne potrebbe diventare dura come una mensola IKEA. Per semplificare, è necessario che la miosina si denaturi (cioè cambi la struttura proteica) ma anche che l’actina non si modifichi troppo. E le temperature a cui avvengono questi cambiamenti sono diversi per ogni animale. Per quanto riguarda il manzo, l’actina si denatura dai 65°C ai 75°C, mentre la miosina si denatura dai 50°C ai 60°C. Ma ritorniamo all’amabile dialogo pregno di amarcord. Ma con quel fondo di prima? Che ci devo fare? Quando vedi che la carne è ben tenera e le patate sono della consistenza giusta, togli carne e patate dai sacchetti, metti tutto in un tegame e versa il fondo. Poi sciogli un cucchiaio di amido di mais in un bicchiere d'acqua fredda e mescola bene. Che sia fredda però, altrimenti ti vengono i grumi. Quando tutto è a bollore versa poco alla volta la miscela di acqua e amido e vedrai che il sugo inizierà ad addensarsi.

Ma posso metterci anche le carote? Nonna lo faceva con patate e carote. A volte ci trovavo anche del sedano. Certo ci puoi mettere quello che vuoi, anche cipolle.

Ma l'amido a che serve? L'amido ha la capacità di far gelatinizzare i liquidi. Ecco perché il sugo di tua nonna era così denso. Usava l'amido. A partire dai 75 gradi l'amido fa gelatinizzare il liquido di cottura e lo addensa creando questa salsa brillante e viscosa.

Il racconto si interrompe di nuovo, ma giuro che è l’ultima volta! COSA SONO GLI AMIDI: LA STRUTTURA L’amido è un polisaccaride costituito da lunghe catene di molecole di glucosio collegate tra loro sotto forma di amilosio (che è composto principalmente da molecole lineari) o amilopectina (le cui molecole sono altamente ramificate). Le proporzioni di amilosio e amilopectina che si trovano negli amidi variano a seconda della fonte vegetale dell’amido, ma la maggior parte di essi contiene circa il 75% di amilopectina e il 25% di amilosio. È il contenuto di amilosio variabile a causare differenze di consistenza negli alimenti: amidi e fecole con livelli più alti di amilosio tendono a gelificare, mentre quelli con un contenuto più elevato di amilopectina ci daranno un prodotto “gommoso”. 133


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LE CARATTERISTICHE DEGLI AMIDI Gli amidi subiscono quattro processi: gelatinizzazione, gelificazione, che è la formazione del gel, retrogradazione e destrinizzazione. Sono queste capacità che li rendono così preziosi nella preparazione dei cibi, anche se alcuni sono più utili di altri. La concentrazione di amilopectina e amilosio determinano e fissano il range di temperature entro i quali questi fenomeni hanno luogo. Gli amidi possono anche essere modificati chimicamente o fisicamente per meglio servire a scopi specifici (vedi amidi ibridi o pre-gelatinizzati). Amido

Amilosio %

Amilopectina %

Patata

21

79

Tapioca

17

83

Mais

28

72

Mais "ceroso"

0

100

LA GELATINIZZAZIONE La gelatinizzazione avviene quando i granuli di amido vengono riscaldati all’interno di un liquido. L’acqua, il latte o il brodo sale di temperatura, i legami di idrogeno che tengono insieme l’amido si indeboliscono, permettendo alla parte acquosa di penetrare nelle molecole di amido, causandone il rigonfiamento fino al raggiungimento del picco di densità. I granuli di amido si idratano progressivamente, gonfiandosi e perdendo la Tipologia di amido

Temperatura critica

Caratteristiche dell'amido cotto

Radici e tuberi (patate e tapioca)

56°C - 70°C

Viscoso, pasta semi-trasparente, gel poco stabile

Cereali (mais, sorgo, riso, frumento)

62°C - 75°C

Viscoso, pasta opaca, gel stabile

Ibridi cerosi (mais e sorgo)

63°C - 74°C

Molto denso, pasta chiara, resistente alla gelificazione in fase di raffreddamento

Ibridi ad alto contenuto di amilosio (mais)

100°C - 160°C

Rigido, pasta opaca, gel molto stabile

struttura cristallina, amilosio e amilopectina entrano in soluzione con l'acqua, formando legami con essa, di conseguenza l’acqua in forma libera diminuisce e la viscosità della soluzione aumenta. Per capire questo concetto, immaginate di avere una piscina piena di acqua e di palloncini vuoti: si potrà ancora nuotare in mezzo ai palloncini, ma se li gonfiamo con l'acqua della piscina, il liquido nel quale possiamo nuotare verrà intrappolato, e se il numero di palloncini aumenta, non potremo più sguazzare perché non ci sarà più acqua in forma libera. Così, se scaldiamo una quantità sufficiente di granuli d'amido in un litro di latte, quando questi si saranno gonfiati avranno sottratto gran parte dell'acqua libera, che si sarà trasformata in una soluzione densa e viscosa. L'aumento Carne

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del volume e della “gommosità” associato alla gelatinizzazione cambia radicalmente la consistenza di molti alimenti. Pasta, riso, avena, patate e la maggior parte delle salse, minestre e budini sono molto diversi in termini di consistenza, prima e dopo la cottura. La gelatinizzazione dipende da diversi fattori: quantità d’acqua, temperatura, tempi di cottura, agitazione e presenza di acidi, zuccheri, grassi e proteine. • Acqua. Deve essere disponibile in quantità sufficiente per l'assorbimento da parte dell'amido. La percentuale di liquido necessaria dipende dalle concentrazioni di amilosio e amilopectina nell'amido. Quando si preparano alimenti amidacei come i cereali o la pasta, l’acqua non viene aggiunta solo per coprire l’alimento, ma anche per consentire l’evaporazione e l’espansione in termini di volume. • Temperatura. Gli amidi non si dissolvono in acqua fredda o a temperatura ambiente. Nei liquidi riscaldati, i granuli di amido si gonfiano e scoppiano, rilasciando più particelle di amido nel liquido. L'intervallo di temperatura entro il quale la gelatinizzazione può verificarsi varia a seconda del tipo di amido. L'ispessimento inizia di solito a circa 60°C. Alcuni amidi derivati da radici, come la tapioca, hanno alte concentrazioni di amilopectina, e questo innesca l'ispessimento a temperature più basse. La maggior parte degli amidi gelatinizza quando la temperatura raggiunge i 56°C-75°C. Più grandi sono i granuli di amido (vedi quelli della patata) più gelatinizzeranno a temperature più basse, mentre i granuli più piccoli, come quelli del grano, gelatinizzeranno a temperature più elevate. • Tempi di cottura. Il riscaldamento oltre la temperatura di gelatinizzazione riduce la viscosità. I granuli di amido si rompono quando il riscaldamento continuo sollecita i legami che li tengono insieme. • L’agitazione. È necessario mescolare durante la formazione precoce della pasta di amido o della miscela di amido gelatinizzante al fine di garantire una consistenza uniforme e di evitare la formazione di grumi. Un rimescolamento continuo o troppo energico, tuttavia, provoca la rottura prematura dei granuli di amido, con il risultato di una pasta di amido scivolosa e meno viscosa. Questo vale anche per l’utilizzo del frullatore ad immersione o del colino. • Acidi. Gli acidi, come il succo di limone, il vino e l'aceto, indeboliscono la capacità degli amidi di addensarsi. In particolare, un pH inferiore a 4,0 diminuisce la viscosità di un gel di amido. Tenetelo presente quando lavorate con le riduzioni di vino. • Zuccheri. Lo zucchero compete con l'amido per l'acqua disponibile, ritarda l'insorgenza della gelatinizzazione e rende necessaria una temperatura di esercizio maggiore. Gli zuccheri che hanno più impatto, in ordine da minimo a massimo, sono: fruttosio, glucosio, lattosio e saccarosio. Altri fattori che contribuiscono al rallentamento della gelatinizzazione causata dagli zuccheri sono il ridotto rigonfiamento granulare e le ridotte interazioni amido-zucchero e amido-acqua. • Grassi/Proteine. I grassi o le proteine ritardano la gelatinizzazione poiché rivestono con una “patina” i granuli di amido e gli impediscono di assorbire l’acqua. 136

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LA GELIFICAZIONE La gelatinizzazione deve avvenire prima della fase successiva, la formazione del gel, chiamata anche gelificazione. Una pasta di amido fluido è un sol, mentre una pasta semisolida è nota come gel. Non tutti gli amidi gelificano, ma tra quelli che lo fanno, il gel si forma dopo che il sol gelatinizzato è stato raffreddato, di solito a meno di 38°C. La formazione del gel dipende dalla presenza di un livello sufficiente di molecole di amilosio, perché l'amilosio gelificherà e l'amilopectina no. Le molecole di amilosio lineari formano legami forti, mentre le molecole di amilopectina altamente ramificate formano legami troppo deboli per contribuire alla densità del prodotto finale. I legami che si formano tra le molecole di amilosio creano una rete tridimensionale che intrappola l'acqua e aumenta la rigidità della massa d’amido. LA RETROGRADAZIONE Quando l'amido gelatinizzato si raffredda, avviene un fenomeno chiamato retrogradazione (o ricristallizzazione) dell'amido, un processo che tende a far tornare l'amido in una configurazione simile (sebbene mai identica, la gelatinizzazione è un processo irreversibile) a quella iniziale. Quello che avviene con la retrogradazione è un riarrangiamento delle catene di amilosio e amilopectina, con conseguente esclusione di una parte dell'acqua che era stata inglobata dalla struttura. La retrogradazione è un processo reversibile, nel senso che fornendo calore al prodotto l'amido gelatinizza nuovamente. LA DESTRINIZZAZIONE Un altro processo caratteristico degli amidi è la destrinizzazione, che si traduce in un aumento della dolcezza. L’effetto collaterale è che gli amidi destrinizzati perdono molto del loro potere addensante poiché sono stati scomposti in unità più piccole; quindi, è necessario più amido per addensare la salsa se la farina è stata rosolata con un grasso (vedi roux bruno per esempio). COSTRUZIONE DI UNA SALSA: L’AGENTE ADDENSANTE Quello più utilizzato è senz’altro la farina di frumento, specialmente in Nord America e in Europa, mentre nei paesi asiatici si fa largo utilizzo di amido di riso o mais. Uno dei primi passi nella preparazione di una salsa è quello di aggiungere un addensante amidaceo sotto forma di roux, beurre manié (pomata di burro e farina 1:1), o roux freddo (mix di acqua e farina).

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Ci sono le verdure, c’è la carne e c’è il suo fondo di cottura. Questi tre elementi verranno ancora divisi Le verdure. Cuoceremo separatamente le carote, il sedano, le cipolle, le patate e i piselli. La carne. Cuoceremo la carne, prima tostandola e poi aggiungendo le verdure e il brodo. Il fondo. Prepareremo il fondo con carni ricche di connettivo, perché contiene un elemento importante che darà un gusto esplosivo alla preparazione. Partiamo. Le carote Preparate il sous vide e preriscaldatelo a 84°C.Tagliate le carote a cubetti non troppo piccoli, due o tre centimetri di lato. Nel sacchetto aggiungete un pezzetto di burro, rametti di timo, delle dimensioni di un pollice. Un pizzico di sale e pepe. Tenete il sacchetto nel bagno termostatico per un’ora. Poi raffreddatelo immediatamente con acqua e ghiaccio e conservatelo in frigo, senza aprirlo. Il sedano Sous vide sempre a 84°C. Pelate le coste di sedano con un pelapatate per rimuovere i filamenti. Tagliatelo della stessa dimensione delle carote. Aggiungete un cucchiaio d’olio e un pizzico di sale e pepe. Cuocetelo come per le carote, un’ora. Poi raffreddate con acqua e ghiaccio e conservatelo in frigo senza aprire il sacchetto. I piselli Come sopra, sous vide a 84°C. Solito cucchiaio di olio extravergine d’oliva e un pizzico di sale e pepe. Come sopra, cuoceteli per un’ora, raffreddate e lasciate in frigo. Potrete ottimizzare i tempi usando tre sacchetti nello stesso bagno termostatico, durante la stessa ora di cottura. La cipolla Qui niente sous vide. Non so se vi è mai capitato, ma se cuocete la cipolla sottovuoto rischiate di far scoppiare il sacchetto a causa dei gas che sviluppa in cottura. In questo caso, quindi, userete il forno. Cuocete la cipolla intera a 230°C fin quando non si bruciacchia all’esterno e diventa morbida all’interno (65°C al cuore). Sfogliate i petali come se fosse un fiore e mettete da parte.

Lo spezzatino scientifico Ingredienti per 8 persone

Per la carne 1,5 kg di flap meat/top blade/chuck roll/brisket/ boneless beef ribs (Io ho usato flap meat di Wagyu F1 grado di marezzatura 5+ Crimson Crest del Megastore) olio extravergine di oliva q.b. Per il fondo 500 g di chuck roll (potete usare ritagli, ossa, cartilagini) (Io ho usato chuck roll di Wagyu F1 3+ Crimson Crest) 1 cipolla (60 g) 2 carote (60 g) 30 g di sedano 2 foglie di alloro 2 rametti di rosmarino 2 spicchi d’aglio 2 bacche di ginepro 1 chiodo di garofano 150 ml di vino rosso 1 l di brodo di carne o pollo 1 cucchiaio di triplo concentrato di pomodoro Amido di mais q.b. Per le verdure (ingredienti separati per busta) 200 g di carote 25 g di burro 3 rametti di timo sale e pepe q.b. 60 g di sedano olio extravergine di oliva q.b. Sale e pepe q.b. 250 g piselli freschi o surgelati Olio extravergine di oliva q.b. Sale e pepe q.b. 1 cipolla (rossa, bianca o dorata) sale q.b. 1 kg patate a pasta gialla 100 g burro sale q.b. Per la finitura Pane tostato o polenta grigliata sale e pepe q.b. rosmarino fresco / erbe aromatiche a piacere

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Le patate Vanno nel sous vide a 90°C per 80 minuti. Tagliate le patate (già pelate) a cubetti e aggiungete due noci di burro e un pizzico di sale. Lasciate raffreddare e mettete da parte. Il fondo Riducete la carne in pezzi o recuperate dei ritagli, ungete con olio extravergine di oliva e tostate a temperatura infernale, in padella o in forno a 230°C. Una volta formata la crosta brunita, aggiungete una mirepoix di sedano, carota, cipolla, bagnate con il vino e lasciate ridurre (oppure versatelo nella teglia e trasferite tutto in un tegame con la dadolata di verdure), aggiungendo un cucchiaio di triplo concentrato di pomodoro, per colorare un po’ il sughetto. Dealcolate (il calore farà evaporare la parte alcolica) e fate ridurre della metà. Raffreddate il più velocemente possibile e filtrate, rimuovendo tutta la carne. Raccogliete il liquido e le verdure che saranno rimaste intrappolate nel colino e frullate con il mixer ad immersione. Mettete da parte. La carne Ovviamente vi do i parametri da tenere in considerazione per la mia carne, perché è la mia e la conosco come le mie tasche di manzo. La mia prima scelta è la flap meat (bavetta grande), poi il top blade (cappello del prete). Va bene il chuck roll (reale). Vanno bene le beef ribs (biancostato). Va bene il brisket (punta di petto). Decidete voi. Se serve, eliminate il grasso in eccesso e tagliate la carne a cubi da 3cm per lato. Asciugatela bene. Spalmate di olio e scatenate una massiccia reazione di Maillard cuocendo in forno preriscaldato, con il grill sparato a 230°C e posizionando la teglia al centro del forno. Lasciate lo sportello leggermente aperto per permettere al vapore di fuoriuscire. Oppure tostatela in padella... o perché no, friggetela! Con ogni probabilità, la carne inizierà a buttar fuori dei liquidi. Non buttateli via ma toglieteli dalla teglia; per i motivi che ho già spiegato sopra. Versate il liquido nel tegame con il fondo attraverso un colino. Aggiungerà sapore. A queste punto non vi resta che rigirare i cubetti di carne e lasciar rosolare l’altro lato, sempre a 230°C, a grill spinto. Mettete i pezzi di carne belli arruscati in un sacchetto e preriscaldate il sous vide a 75°C. Quando sarà arrivato a temperatura, immergete il sacchetto della carne e cuocete per 4 ore. Avete più tempo a disposizione? Cuocete a 65°C per 24 ore. Una volta pronta la carne, rimettetela nel tegame con i succhi che vi ritroverete nel sacchetto e con il fondo di cottura. Fate ridurre a fuoco moderato finché non vela il cucchiaio. Dovrà essere molto viscoso. Fidatevi perché ci sarà dentro tutto il connettivo rilasciato dalla carne che tenderà a gelificare. Quando il fondo sarà pronto potrete assemblare gli elementi. Aggiungete le patate, i petali di la cipolla e tutte le verdure preventivamente scolate dal loro liquido prodotto nel sacchetto. Mescolate e amalgamate bene. A questo punto preparate una miscela di acqua e amido di mais, a saturazione. In parole povere prendete un bicchiere d’acqua fredda e aggiungete l’amido, agitate e continuate ad aggiungere la polvere fin quando non si deposita sul fondo. Aggiungete la miscela nel tegame, un cucchiaio alla volta, aspettate che raggiunga i 75°C: a quel punto comincerà a gelatinizzare e ad addensare la salsa. Spegnete quando il sughino avrà raggiunto la consistenza che vi piace. Servite con delle fette spesse di pane tostato o con della polenta appena grigliata. 140

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Ma quante ne sai! Spettacolo. E alla fine? E alla fine niente, lo servi e lo mangi così.

Grazie mille. Mi hai fatto una lezione di cucina pazzesca. Posso tornare ad assaporare lo spezzatino di mia Nonna. Non so come ringraziarti, sei davvero un amico! Ringrazia tua nonna.

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2.5 – GUANCIA BRASATA Se è vero che per essere un buon cristiano bisogna porgere l'altra guancia, è anche vero che Gesù Cristo, con molta intelligenza, di guance ce ne ha date soltanto due. E così come l’essere umano, allo stesso modo il sacro bovide, l’animale disceso sulla terra per sollazzare il nostro palato, presenta ai lati del muso due masse cicciose che danno il meglio di sé quando sposate con un buon vino. Dai tempi in cui la cottura sottovuoto ha messo uno stinco tra gli stipiti delle cucine professionali, la guancia brasata cotta a bassa temperatura è diventata il lasciapassare per una cena essenziale e sofisticata. Quando cucinata a dovere ovviamente, e seguendo gli step che sto per snocciolarvi di seguito. IL TAGLIO Partiamo dall’ingrediente principale. Le guance, note anche come muscolo massetere, si trovano in tutti gli animali e sono le dirette responsabili della masticazione. Generalmente presenziano fieramente nella lista dei tagli pregiati. Parliamo di muscoletti che lavorano duramente sul campo, triturando costantemente l’erba e, come tali, sono eccellenti se cotte lentamente, per permettere al tessuto connettivo, ai tendini e al grasso di disintegrarsi e rilasciare il loro sapore. Le guance di manzo hanno l'ulteriore vantaggio di essere di dimensioni maneggevoli, pesano generalmente 300 g -350 g ciascuna, e possono essere facilmente cotte intere fino a quando non diventano morbide e succose. Potrebbe essere necessario rimuovere lo strato di silver skin (membrana esterna ed argentea) dalla parte superiore della guancia prima della cottura. Fate semplicemente scivolare il coltello tra la “pellicina” e la carne e, angolando la lama verso l'alto, fatela scorrere lungo la membrana per rimuoverla. Peso del taglio: compreso tra i 300 g e i 400 g COTTURA CONSIGLIATA: brasato CUCINARE CON L'ALCOL I cuochi usano vini, birre e distillati come ingredienti in un florilegio di piatti, da zuppe e salse salate e stufati a creme e torte, soufflé e sorbetti. Contribuiscono a sviluppare sapori distintivi, spesso includendo acidità, dolcezza e sapidità (note che derivano dagli acidi glutammico e succinico), e la dimensione aromatica fornita dall'alcol e da altre sostanze volatili. Alcune peculiarità possono costituire una vera sfida per il cuoco, come l'astringenza dei vini rossi e l’anima amaricante della maggior parte delle birre. L'alcol stesso fornisce anche un terzo tipo di fluido - oltre all'acqua e all'olio - in cui le molecole di sapore e colore possono essere estratte e dissolte, così come le molecole Carne

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reattive, che possono combinarsi con altre sostanze nel cibo per generare nuovi aromi e maggiore profondità di sapore. Mentre grandi quantità di alcol tendono a intrappolare altre molecole volatili nel cibo, piccole tracce aumentano la loro volatilità e quindi intensificano l'aroma. I In sostanza cucinare con l’alcol può essere un’opportunità, ma anche un rischio. Il vino, la birra, i distillati hanno le loro note pungenti, leggermente medicinali, e queste caratteristiche vengono accentuate fino a far emergere coloriture aspre nei cibi caldi. Sta a noi, quindi, far sobbollire le salse per un po' di tempo, per far evaporare quanto più alcol possibile. Nella pirotecnica preparazione chiamata flambé, dal francese “fiammeggiare" si incendiano i vapori riscaldati di liquori e vini ad alta gradazione e si trasformano in fiamme blu tremolanti e scenografiche, che conferiscono un sapore leggermente bruciato al piatto. Tuttavia, nessuna di queste tecniche elimina del tutto l’alcol dal cibo. Test clinici hanno dimostrato che i brasati trattengono circa il 5% dell'alcol aggiunto inizialmente, i piatti cotti brevemente dal 10 al 50% e i flambé fino al 75%. L’astringenza Il gusto di un vino è in gran parte una questione di astringenza e di viscosità. L'astringenza - la parola deriva dal latino adstringere, "legare insieme" - è la sensazione che percepiamo quando i tannini nel vino “tanninizzano”, conciano le proteine lubrificanti nella nostra saliva come si fa con il cuoio: legano le proteine in modo incrociato e formano piccoli aggregati che rendono la saliva ruvida piuttosto che liscia. Questa sensazione di secchezza e allappamento, insieme alla morbidezza e alla viscosità causata dalla presenza di alcol e altri componenti (nei vini dolci lo zucchero) creano l'identità del corpo del vino, dell’aroma e della gradazione. Nei vini rossi giovani, i tannini possono essere così palpabili che alcuni li definiscono ”masticabili”. CUCINARE IN UN LIQUIDO Come mezzo di cottura della carne, l'acqua ha diversi vantaggi. Trasmette il calore rapidamente e uniformemente, la temperatura è facilmente regolabile in base alle esigenze del cuoco di turno, e può trasportare e impartire sapori e diventare una salsa. A differenza dell'olio, non può scaldarsi abbastanza per generare 144

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sentori di rosolatura sulla superficie della carne; ma le carni possono essere pre-maillardizzate e poi rifinite in liquidi a base d'acqua. Ci sono diversi nomi che descrivono il semplice e versatile metodo di cottura della carne in un liquido, che può essere brodo di carne o di verdure, latte, vino o birra, purea di frutta o verdura. Le varie tecniche comportano differenze nel liquido di cottura usato, nella dimensione dei pezzi di carne, nelle proporzioni relative di carne e liquido, e nella precottura iniziale. Ad esempio, per brasati e arrosti si usano tagli più grandi e meno liquido rispetto agli stufati. In tutte quante le metodologie, comunque, la variabile chiave è la temperatura, che dovrebbe essere mantenuta ben al di sotto dell'ebollizione, intorno agli 80°C. Molti brasati e stufati vengono cotti in forno a bassa temperatura, ma le temperature consigliate di solito (vale a dire 165°C / 175°C) sono abbastanza alte da portare il contenuto di una pentola coperta all’ebollizione. Il braisier originale in Francia era una pentola chiusa, seduta sulle braci e sormontata da alcuni carboni ardenti; da qui, il termine “brasare”. Le carni cotte in un liquido dovrebbero essere lasciate raffreddare in quel liquido, e migliorano se servite a temperature basse, a circa 50°C. La capacità del tessuto della carne di trattenere l'acqua aumenta quando questa si raffredda, ne consegue che riassorbirà parte del liquido che ha perso durante la cottura. Le parole sono importanti: cuocere in camicia, brasare, stufare Questi vari termini per lo stesso processo di base hanno origini molto diverse. L’espressione “in camicia” ha origine medievale; deriva dal francese e indica il "vestito" di albume che avviluppa il tuorlo quando immerso in acqua bollente. Brasare e stufare sono entrambi prestiti del XVIII° secolo, il primo termine viene da “braciere” e si riferisce alla pratica dell’epoca di mettere i carboni sotto e sopra le pentola di cottura, il secondo viene da “étuve” o “stufa”, poiché il cibo veniva cotto in stufe o recipienti speciali. Carni tenere: cottura sorprendentemente rapida L'acqua calda è un trasmettitore di calore così efficace che cuoce molto rapidamente i tagli di carne sottili e teneri. Braciole, petti di pollo, bistecche e filetti di pesce sono generalmente tutti pronti in pochi minuti. Se vengono rosolati prima in una padella per sviluppare la famosa crosticina brunita, potrebbero aver bisogno solo di un minuto o due per finire la cottura. La prassi suggerisce di portare il liquido di brasatura a ebollizione, aggiungere la carne per distruggere i batteri presenti in superficie, e dopo pochi secondi aggiungere del liquido freddo per riportare la padella a 80°C, in modo che le porzioni esterne della carne non si surriscaldino e ci sia una finestra di tempo più ampia durante la quale il cuore può arrivare alla temperatura target. Se il liquido deve essere bollito per concentrare il sapore o per rendere più densa la salsa, si toglie prima la carne.

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Linee guida per brasati e stufati succulenti

TAGLI DURI E GRANDI: PIÙ LENTO SIGNIFICA ANCHE PIÙ UMIDO Le carni con una quantità significativa di tessuto connettivo duro devono essere cotte ad un minimo di 70°C-80°C per sciogliere il loro collagene in gelatina, ma questo intervallo di temperatura è ben al di sopra del range in cui le fibre muscolari strizzano via i loro succhi (60°C-65°C). Rendere succulente le carni dure diventa una sfida, quindi. La chiave è cucinarle lentamente, quanto basta per innescare la dissoluzione del collagene o appena sopra, per minimizzare l’asciugatura delle fibre. La carne deve essere controllata regolarmente e tolta dal calore non appena risulta tenera: dovreste riuscire a tagliarla con una forchetta. Il tessuto connettivo stesso può aiutare, perché una volta sciolto, la sua gelatina trattiene una parte del dei succhi spremuti dalle fibre muscolari e quindi conferisce una sorta di succulenza alla carne. Gli stinchi, le spalle e le guance degli animali sono ricchi di collagene e con questi tagli si preparano dei brasati da applausi. Un brasato o uno stufato umido e tenero è il risultato dell'attenzione cumulativa del cuoco ai diversi dettagli della procedura. La regola più importante? Mai lessare la carne. 1. 2. 3.

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Poi ce ne sono altre sette. Mantenere la carne il più possibile intatta per minimizzare le superfici di taglio attraverso le quali i fluidi possono fuoriuscire. Se la carne deve essere sezionata, tagliarla in pezzi relativamente grandi, almeno 2,5 cm per lato. Rosolare la carne molto velocemente in una padella calda in modo che al cuore si scaldi solo leggermente. Questo abbatte la carica batterica superficiale della carne e crea il sapore. Avviare la pentola o il tegame con la carne e il liquido di cottura in forno freddo,

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5. 6.

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con il coperchio socchiuso per consentire un po' di evaporazione, e impostare il termostato sui 93°C, in modo che riscaldi lo stufato a circa 50°C lentamente, in circa due ore. Alzare la temperatura del forno a 120°C in modo che lo stufato si riscaldi lentamente da 50°C a 80°C. Dopo un'ora, controllare la carne ogni mezz'ora e fermare la cottura quando riuscite a trafiggerla agilmente con i rebbi di una forchetta. Lasciate raffreddare la carne nel tegame, dove riassorbirà un po' di liquido. Il liquido dovrà probabilmente essere ridotto ad alta temperatura per migliorare il sapore e la consistenza. Rimuovere prima la carne, però.

Uno degli ingredienti più importanti nei brasati e negli stufati è il tempo - un'ora o due - durante il quale il cuoco gestisce attentamente l'aumento della temperatura della carne fino ad accompagnarla in una cottura a fuoco lento. Il tempo che la carne passa sotto i 50°C equivale a un periodo di “invecchiamento” accelerato che indebolisce il tessuto connettivo e riduce il tempo necessario all’asciugatura delle fibre. Un segno che la carne brasata o stufata è stata riscaldata molto delicatamente e gradualmente è il colore rosato al cuore, anche se si presenta ben cotta: lo stesso riscaldamento lento che permette agli enzimi della carne di intenerirla e insaporirla, permette anche alla maggior parte del pigmento della mioglobina di rimanere intatta. Cuocere i tagli duri oltre il ben cotto I tagli di carne “duri” non devono per forza risultare sgradevoli. Possono diventare teneri e fondenti, ma solo se cotti a puntino. Sulle prime, questo sembra in contraddizione con la maggior parte delle cose che si dicono sulla carne, cioè che più tempo questa trascorre in ambiente caldo, più diventa incartapecorita e immasticabile. COME FUNZIONA LA SCIENZA DEI BRASATI La carne è composta principalmente da quattro elementi: fibra muscolare, tessuto connettivo, grasso e molta acqua. Le fibre, che sono lunghe, sottili e raggruppate in fasci allungati, creano la "grana" Carne

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della carne. Anche se piccole negli animali giovani, le fibre muscolari crescono sia con l'età che con l'esercizio. Sono generalmente tenere a causa del loro alto contenuto d'acqua, che si aggira intorno al 75%. In cottura, i filamenti delle fibre muscolari cominciano a ridursi, prima in diametro tra i 40°C e i 63°C e poi in lunghezza sopra i 63°C gradi. Durante questo processo, si espelle l'umidità mentre si contraggono, come quando si strizza un asciugamano bagnato. Il tasso di perdita di umidità diventa significativo intorno ai 60°C; tuttavia, quando il tessuto connettivo che circonda le fibre muscolari inizia a contrarsi, comprime i fasci ancora più saldamente. Questo è il motivo per cui i tagli teneri sono molto più buoni quando cucinati “al sangue” o a media cottura, prima che questo processo abbia inizio. Il tessuto connettivo che circonda i fasci di fibre è una membrana traslucida che consiste di cellule e filamenti proteici e fornisce struttura e supporto ai muscoli. Il collagene è la proteina predominante nel tessuto connettivo e si trova in tutto l’animale, dai tendini dei muscoli agli zoccoli. In contrasto con le fibre muscolari, il collagene è composto da tre catene proteiche strettamente avvolte in un'elica a triplo filamento e, quindi, risulta immangiabile quando è crudo. In cottura, questa robusta proteina rimane in gran parte inalterata quando viene riscaldata a temperature inferiori ai 60°C. È solo quando la carne supera questa temperatura che il collagene comincia a rilassarsi, srotolandosi in singoli sfilacci. Se tenuto tra i 71°C e gli 82°C per un lungo periodo di tempo, la tripla elica del collagene si srotola per formare gelatina, una proteina a singolo filamento in grado di trattenere fino a 10 volte il suo peso in umidità, intenerire la carne e conferire densità e ricchezza alla salsa del brasato. La conversione del collagene in gelatina dipende sia dalla temperatura che dal tempo; più a lungo il cibo viene tenuto nel range di temperatura ideale, più il collagene si scompone. La cottura prolungata distrugge i tagli magri con poco collagene (come il filetto di maiale) perché, man mano che le fibre muscolari si contraggono, cedono costantemente i loro succhi e diventano più secche e dure. Pertanto, i tagli con poco collagene dovrebbero essere cucinati tenendo conto del mantenimento dell'umidità, con una temperatura finale al cuore non più alta di 54°C per il manzo o 66°C per il maiale. I tagli ricchi di collagene, invece, sono troppo duri da mangiare se cotti al sangue o medi. La cottura prolungata migliora effettivamente la consistenza dei tagli duri con molto collagene (come la punta di petto di manzo), perché permette a questa componente, presente in maniera invadente, di trasformarsi in gelatina, trattenendo significativamente più umidità, e alle fibre muscolari tese di rilassarsi un po', richiamando l'umidità all'interno della ciccia.

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Attività degli enzimi proteolitici

Livello di cottura

Aspetto della carne

40°C

Raw

Soffice al tocco, liscia, umida, traslucida, colore rosso brillante.

Attivi.

Iniziano a sbrogliarsi.

45°C

Bleu

50°C

Rare

Inizia a rassodarsi e diviene opaca.

Molto attivi.

La miosina inizia a denaturare e coagulare.

Medium rare

Elastica al tocco, meno liscia, più fibrosa. Rilascia succhi quando tagliata. Colore rosso chiaro, opaca.

Denaturati, diventano inattivi e coagulano.

Miosina coagulata.

La guaina di collagene inizia a contrarsi.

Medium

Inizia a restringersi e perdere elasticità. Trasudano i succhi. ll colore rosso sfuma a rosa.

Le altre proteine delle fibre denaturano e coagulano.

Il collagene si contrae, strizzando le cellule.

I succhi fuoriescono dalle cellule per la pressione del collagene.

Inizia a denaturare.

Medium well

Continua a restringersi, poca elasticità. Pochi succhi liberi. Il rosa vira al grigliomarrone.

70°C

Well

Continua a restringere. Solido. Pochi succhi. Colore grigiomarrone.

Inizia a dissolversi.

Il flusso cessa.

Denaturata e coagulata.

75°C

Well

Temp.

55°C

60°C

65°C

80°C

Well

85°C

Well

90°C

Well

Fibre muscolari

Connettivo e collagene

Acqua legata alle proteine

Mioglobina

Intatto.

Inizia a separarsi dalle proteine e accumularsi nelle cellule.

Normale.

Separazione e l'accumulo accellerano.

L'actina denatura e coagula. Il contenuto delle cellule diventa compatto. Le fibre si separano facilmente una dall'altra.

Si dissolve rapidamente.

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Gli effetti del calore sulle proteine, sul colore e sulla struttura della carne

DAL COLLAGENE ALLA GELATINA: IL MELTING DOWN A temperature superiori ai 60°C, la tripla elica del collagene si srotola per formare tre filamenti di gelatina (per capirci di più, consultate l'approfondimento sull'idrolisi del collagene a pagina 130). Ma date un’occhiata alla tabella che segue per capire cosa succede alla carne quando esposta a determinati range di temperatura.

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La guancia brasata scientifica Ingredienti per 6 persone

Per la carne 2 guance Crimson Crest 5+ Wagyu F1 Crossbreed (da circa 360 g l’una) olio extravergine di oliva q.b. 2 spicchi d’aglio bacche di ginepro sale q.b. pepe q.b. qualche cubetto di ghiaccio (circa 4 per queste quantità) Per il fondo 800 g di stew Blue Ox Prime di Black Angus (potete usare anche ritagli, ossa, cartilagini) 2 rametti di timo 2 bacche di ginepro 1 chiodo di garofano 1 l di vino rosso (Amarone, Primitivo, Barolo) 160 g di carote 180 g di cipolle rosse 100 g di sedano Per la finitura purè di patate o polenta peperoni cruschi riduzione di vino rosso

C’è la carne e c’è il suo fondo di cottura a base di Amarone. Contrariamente alla preparazione tradizionale, che nessuno vi vieta di fare, questi due elementi verranno divisi e cotti separatamente. Prepareremo il fondo col vino in un tegame, insieme allo stew, e la guancia sottovuoto insieme ai suoi condimenti. Questo per assicurarci di cuocere le guancette a puntino, evitare di insacchettare il vino (la busta si gonfierebbe) e stratificare i sapori, unendo i cubetti di carne alla nappatura aromatica, ricca di gelatina e corroborante di vino. Cuoceremo la carne sottovuoto, prima condendola e poi aggiungendo poco ghiaccio. Prepareremo il fondo con carni ricche di connettivo, perché contiene un elemento importante che darà un gusto esplosivo alla preparazione. Il fondo. Recuperate lo stew o riducete la carne in pezzi, ungete con olio extravergine di oliva e tostate a temperatura infernale, in padella o in forno a 230°C. Una volta formata la crosta brunita, aggiungete una mirepoix di sedano, carota, cipolla, bagnate con il vino e lasciate ridurre (oppure versatelo nella teglia e trasferite tutto in un tegame con la dadolata di verdure). Dealcolate (il calore farà evaporare la parte alcolica) e fate ridurre della metà, a fuoco dolcissimo: in questo modo la carne avrà il tempo di scaricare tutta la gelatina. Raffreddate il più velocemente possibile e filtrate, rimuovendo tutta la carne. Raccogliete il liquido e le verdure che saranno rimaste intrappolate nel colino e frullate con il mixer ad immersione. Mettete da parte.

La carne. Ovviamente vi do i parametri da tenere in considerazione per le mie guancette, perché sono le mie e la conosco bene. Prendete le guance e rifilatele, eliminando il grasso esterno e la silverskin (la membrana argentea esterna). Ungete ben bene con olio, aggiungete sale, pepe, aglio, ginepro e qualche cubetto di ghiaccio. Mettete i pezzi di carne in un sacchetto e preriscaldate il sous vide a 82°C. Quando sarà arrivato a temperatura, immergete il sacchetto della carne e cuocete per 8 ore. Avete più tempo a disposizione? Cuocete a 70°C per 24 ore. Una volta pronta la carne, rimettetela nel tegame con i succhi che vi ritroverete nel sacchetto e con il fondo di cottura. Fate ridurre a fuoco moderato finché non vela il cucchiaio. Dovrà essere molto viscoso. Fidatevi perché ci sarà dentro tutto il connettivo rilasciato dalla carne che tenderà a gelificare. Quando il fondo sarà pronto potrete assemblare gli elementi. Il sughino vi sembra troppo lento? Preparate una miscela di acqua e amido di mais, a saturazione. In parole povere prendete un bicchiere d’acqua fredda e aggiungete l’amido, agitate e continuate ad aggiungere la polvere fin quando non si deposita sul fondo. Aggiungete la miscela nel tegame, un cucchiaio alla volta, aspettate che raggiunga i 75°C: a quel punto comincerà a gelatinizzare e ad addensare la salsa. Spegnete quando

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il sughino avrà raggiunto la consistenza che vi piace. Tagliate le guance a cubetti, nappate col fondo e servite con quenelle di polenta o puré di patate, il tutto sormontato da peperoni cruschi sbriciolati e poche gocce di riduzione di vino. Per ottenerla vi basterà ridurre il vino in un pentolino, fino a quando non avrà ottenuto una consistenza sciropposa. E come disse il vate Guzzanti, se vi do uno schiaffo, porgete l'altra guancia, se no pure la stessa che cambio io la mano. Per mangiarla, mica per schiaffeggiarvi. Carne

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3.1 – CACIO E PEPE Da quando è nata la cucina, è abitudine dare un "nome ai piatti" per individuarli e incasellarli in una categoria. Il nome di un piatto, però, ha sempre determinato un concetto e non una pietanza specifica. Mi spiego meglio. Cosa vuol dire cacio e pepe? A quale cacio ci riferiamo? Quale pepe? E anche quando diciamo Pecorino Romano, fatto da chi? Quando? Da quali pecore? Cosa hanno mangiato questi animali? E in quale stagione? Pensate davvero che esista un'unica sfumatura di pecorino? Perché la ricetta "originale" della cacio e pepe sarà stata prodotta con uno specifico formaggio. E per quanto impegno ci possiate mettere, voi, la prima cacio e pepe del mondo non l'avete mica assaggiata. Se facessi una cacio e pepe e, per esempio, mi venisse voglia di sbriciolarci dentro mezza salsiccia, quella non sarebbe più una cacio e pepe? Sarebbe una cacio e pepe con salsiccia, semplice. La cacio e pepe non è un piatto, è un concetto. E su questo non ci sono dubbi. Perché due "cacio e pepe" identiche è materialmente impossibile farle, soprattutto se realizzate in due finestre storiche diverse. Se alla cacio e pepe aggiungiamo il guanciale otteniamo la gricia. Quindi la gricia non è più una cacio e pepe perché c'è il guanciale? Con quale guanciale poi? Fatto da chi? E dove? Quanto stagionato? Esistono due gricie identiche a diverse latitudini? No. Se aggiungessi del radicchio stufato alla gricia smetterebbe di essere una gricia? O sarebbe una cacio e pepe con guanciale e radicchio? E se aggiungiamo il pomodoro alla gricia? Diventa amatriciana, giusto. Quindi se volessi un'amatriciana senza pomodoro dovrei chiedere una gricia, o una cacio e pepe col guanciale? L'amatriciana è un concetto. Posso aggiungere dei broccoli spadellati con l'aglio e chiamarla amatriciana ai broccoli? Per me sì. E se alla gricia, invece del pomodoro, aggiungessimo l'uovo? Si otterrebbe la carbonara. Ma quindi posso chiedere una cacio e pepe col guanciale e l'uovo invece della carbonara? Posso ordinare una carbonara senza uovo e guanciale o devo per forza dire cacio e pepe? Il punto focale è che la nomenclatura può essere qualcosa di "comodo" da sfruttare, che non ha alcun bisogno di essere difeso. Perché combinare ingredienti, da quando esistono le pentole, è la cosa più naturale del mondo. Mettere, togliere e sostituire è la FORMAGGI

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base della cucina. E il concetto che voglio affrontare con voi stavolta, è proprio quello che si cela dietro la pasta cacio e pepe. Ci giro intorno da molto tempo e quando ho iniziato a sperimentare ero solo stuzzicato dall'idea di questo boccone di pasta formaggioso e avvolgente. Lo so bene che intorno a voi ci sono centinaia se non migliaia di “Pro” della Cacio e Pepe perfetta "che a Roma so secoli c'a famo mo te ce voi nzegnà a caceppèpe a noi che so dici nartra vorta t'arèstano." Ma voi, come sempre, ve ne fregherete altamente e andrete avanti per la vostra strada. Ce ne sono due in realtà, di strade: una facile e una un pochino più rognosetta. Iniziamo con quella semplice e fissiamo l'obiettivo: ottenere una crema densa di formaggio, senza grumi e che non fila mai. LA VERSIONE SEMPLIFICATA Come si fa ad ottenere una crema calda di formaggio senza che si metta a filare? La scienza ci aiuta a trovare la risposta, ma ci infila in un tunnel molto tortuoso che io vorrei aiutarvi ad esplorare. Prendete un pentolino, mettetelo sul fuoco 300 ml di vino bianco. Portate a bollore e fate ridurre. Mentre il vino è sul fuoco, grattugiate con una microplane, la grattugia lunga, 250 grammi di Pecorino Sardo semi stagionato e 150 grammi di Pecorino Sardo Vecchio. Aggiungete un cucchiaio di amido di mais al Pecorino e mescolate bene, a secco, per amalgamare il più possibile. Quando il vino si è ridotto a 1/3 del suo volume, aggiungete un cucchiaio di succo di limone, abbassate il fuoco e iniziate ad aggiungere il composto di formaggio e amido al vino dealcolato, girando con una frusta. Continuate ad aggiungere, una manciata alla volta, e fermatevi quando la crema si sarà perfettamente addensata. Scolate la pasta, rigorosamente di Gragnano, e spadellatela con la salsa e un po’ di acqua di cottura. Impiattate e aggiungete una generosa manciata di pepe nero. Che cosa abbiamo fatto con questa operazione? L'acidità del vino ha rotto le scatole al calcio che è la colla che "tiene legate" le proteine (caseina). Quando sono legate tra loro, le proteine non vanno molto d'accordo con il grasso. Ma visto che in questo caso il calcio si è sciolto, le proteine si ritrovano a dover dividere la stanza con l'acqua e il grasso in una specie di "brodo" strano. La maizena ad un certo punto dice: "Ma che è sto casino? Dai, su, mettetevi in riga!”. E si mette lì ad unire proteine, acqua e grassi tutti insieme e fa in modo che nessuno si muova. In sostanza stabilizza l'emulsione creata sbattendo con la frusta. Ve la spiego ancora meglio: 156

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Il vino contiene acido tartarico, malico e citrico. I sali di questi acidi, specialmente di quello citrico, legano il calcio e allentano i legami delle proteine. In questo modo si crea il "brodo" di caseina, acqua e grasso. Il movimento con la frusta emulsiona questi elementi e l'amido fa da stabilizzante, restituendoci una bella crema. Senza questi "sali di fusione" il calcio impedisce alla proteine di rompersi (denaturazione) e queste, col calore, continuano ad allungarsi ma senza rompersi. Ecco perché il formaggio fuso fila. La mozzarella scaldata fila perché contiene molta acqua e poca acidità. Il calcio non si lega e le proteine si allungano. Quando sentite che basta solo un po' d'acqua di cottura e "la cremina della cacio e pepe si forma lo stesso" è vero. Perché l'acqua di cottura contiene amido e quindi fa da stabilizzante. Ma se continuate a mescolare sul fuoco e denaturate le proteine, cioè se andate troppo in alto con la temperatura, vedrete che il formaggio tenderà di nuovo ad aggregarsi e tornerà a filare. In questa versione "facile" c'è ovviamente una componente aromatica lasciata dal vino e un'acidità presente. Ma il punto è che abbiamo iniziato a capire qual è il processo che ci permette di non far filare il formaggio per ottenere una crema. Volendo andare allo step successivo bisognerà necessariamente iniziare a lavorare con i soli sali di fusione, che vi assicuro non avranno ripercussioni aromatiche. Il citrato di sodio, appunto, aprirà le porte a mondi e modalità di cottura fino ad ora impensabili per voi. LA RICETTA CON IL CITRATO DI SODIO Cos'è il citrato di sodio? Il citrato di sodio, comunemente conosciuto anche come sale acido, sale citrico o citrato trisodico, è un sale cristallino che si trova naturalmente negli agrumi. Prodotti da una reazione chimica durante la fermentazione dell'acido citrico, questi cristalli bianchi hanno un sapore salato e leggermente aspro, che viene spesso utilizzato come agente aromatizzante in bevande come succhi, soda e bevande energetiche. Il citrato di sodio è un comune sequestrante che agisce come stabilizzante e migliora la qualità del cibo. Con l'aggiunta di un po' di citrato di sodio possiamo fondere perfettamente quasi tutti i formaggi esistenti sul globo terraqueo. FORMAGGI

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Quali sono gli utilizzi del citrato di sodio? Il citrato di sodio è l'ingrediente segreto di tutte le salse al formaggio presenti in commercio. È molto facile da usare: basta sbatterlo in un liquido e poi mescolarlo al formaggio sul fuoco et voilà, salsa al formaggio liscia e fluida.Riduce l'acidità del formaggio, rende le sue proteine più solubili e impedisce che si separi. Le salse di formaggio preparate col citrato possono essere raffreddate e riscaldate, modellate o tagliate a mo’ di sottiletta. Il citrato di sodio è anche un ingrediente comune della cucina molecolare e viene integrato nella tecnica della sferificazione. Viene spesso aggiunto a liquidi altamente acidi per aiutare a neutralizzarli e promuovere la gelificazione. Inoltre riduce il contenuto di calcio (che previene la gelificazione precoce) in altri liquidi. Nell’industria alimentare viene utilizzato come emulsionante, conservante e come tampone. È un ingrediente chiave nelle comuni bevande a base di soda e previene la coagulazione dei grassi nel gelato. Dove si acquista il citrato di sodio? Online, sugli e-commerce specializzati, oppure nella vecchia e cara farmacia. Come si aggiunge il citrato di sodio al liquido? Il citrato di sodio si disperde e si idrata facilmente a qualsiasi temperatura del liquido, tuttavia si dissolve più velocemente e più facilmente quando viene riscaldato. Una frusta da pasticceria è sufficiente per mescolarlo a dovere, ma il frullatore a immersione aiuta molto a emulsionare il formaggio. Come si prepara la crema di formaggio con il citrato di sodio? Ci sono tre componenti principali per fare una salsa di formaggio fuso con citrato di sodio: il formaggio, il liquido e il citrato di sodio. Variando la quantità di formaggio e di acqua utilizzata cambierà lo spessore risultante del formaggio fuso. Per preparare le vostre salse al formaggio, individuate prima quale sapore debba avere la preparazione. Poi scegliete un formaggio o due che si adattino a quel profilo gustativo. Ricordate, qualsiasi formaggio che non sia super-stagionato andrà benone. Poi, scegliete un liquido che completerà il formaggio: birra, vino, sidro, brodo, latte o succhi di frutta. A seconda della consistenza finale desiderata, potete usare il 35% di liquido, per un formaggio da affettare, fino al 120% per una salsa sottile e fluida. Lo spessore della salsa dipenderà dal rapporto tra liquido e formaggio. 0% al 35% di liquido sul peso del formaggio darà un formaggio sodo, da tagliare a fette 35% - 85% di liquido sul peso del formaggio darà una salsa di formaggio densa e fluida 85% - 120% di liquido sul peso del formaggio darà una salsa di formaggio sottile, ideale per condire la pasta 120% di liquido o più darà una salsa molto lenta e acquosa. L’ingrediente finale da aggiungere è il citrato, grazie al quale il formaggio rimane unito mentre si scioglie. Di solito viene utilizzato in un rapporto tra il 2,0% e il 3,0% del peso totale del liquido, più il formaggio. Dal momento che il citrato di sodio apporta un sapore salato e aspro, è importante usarne una quantità appropriata, tenendo presente il sapore finale del piatto. 158

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Gli ingredienti della cacio e pepe

IL PECORINO SARDO DOP Il Pecorino Sardo DOP (dal 1996) è prodotto unicamente con latte di pecora intero proveniente dalla zona di origine, ovvero la bella e selvaggia Sardegna. L’alimentazione degli ovini è a base di erba, quella dei pascoli naturali, prati ed erba. Esistono due tipologie differenti di Pecorino Sardo per tecniche di lavorazione, stagionatura, caratteristiche: il dolce e il maturo. La lavorazione del Pecorino Sardo DOP Il disciplinare di produzione prevede che il latte intero di pecora, eventualmente pastorizzato, debba essere inoculato con colture autoctone di fermenti lattici e successivamente coagulato con caglio di vitello ad una temperatura compresa tra 35°C e 39° C. Successivamente la pasta viene sottoposta a rottura fino al raggiungimento di granuli di cagliata delle dimensioni di una nocciola per la tipologia dolce, e di un chicco di mais per la tipologia maturo. La cagliata viene quindi semi-cotta ad una temperatura non superiore a 43°C e successivamente posta in appositi stampi di forma circolare, diversi per le due tipologie. Il formaggio così ottenuto è sottoposto a stufatura e/o pressatura in condizioni di temperatura e per tempi tali da consentire l’acidificazione e lo spurgo ottimali. Ultimato lo spurgo del siero, il formaggio viene salato per via umida o a secco, con tempi distinti per le due tipologie. Segue la fase della maturazione/stagionatura che avviene in appositi locali a temperatura ed umidità controllate. Tutte le fasi del processo produttivo, dalla produzione della materia prima alla stagionatura del prodotto finito, devono rigorosamente avvenire in Sardegna. IL PECORINO ROMANO DOP Il Pecorino Romano è un formaggio a pasta dura, cotta, prodotto con latte fresco di pecora intero, proveniente esclusivamente dagli allevamenti della zona di produzione. Si presenta con una crosta sottile di colore avorio chiaro o paglierino naturale, talora cappata con appositi strati protettivi per alimenti di colore neutro o nero. La pasta del formaggio è compatta o leggermente occhiata e il suo colore può variare dal bianco al paglierino più o meno intenso, in rapporto alle condizioni tecniche di produzione. Il gusto del formaggio è aromatico, lievemente piccante e sapido nel formaggio da tavola, piccante intenso nel formaggio da grattugia. Le forme sono cilindriche a facce piane, con un’altezza dello scalzo compresa fra i 25 e i 40 cm e il diametro del piatto fra i 25 e i 35 cm. Il peso delle forme può variare tra i 20 e i 35 kg; queste riportano impresso su tutto lo scalzo il marchio all’origine (un rombo con angoli arrotondati e contenente al suo interno la testa stilizzata di una pecora) con la dicitura Pecorino Romano. Il Pecorino Romano può essere venduto con una stagionatura minima di 5 mesi come formaggio da tavola e di 8 mesi nella tipologia da grattugia. La lavorazione del Pecorino Romano DOP La lavorazione del Pecorino Romano, limitata alle regioni del Lazio, della Sardegna e alla provincia di Grosseto in Toscana, è il frutto di secoli di esperienza. I passaggi fondamentali sono affidati ancora oggi alla mano dell’uomo, in particolare a quelle esperte del “casaro” e del “salatore”.

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Il latte fresco di pecora, proveniente da greggi allevate allo stato brado e alimentate su pascoli naturali, viene trasferito nei centri di lavorazione con moderne cisterne refrigerate. Al suo arrivo nel caseificio il latte viene misurato, filtrato e lavorato direttamente crudo o termizzato ad una temperatura massima di 68°C per non più di 15 secondi'. Vengono così riempite le vasche di coagulazione dove viene aggiunto un fermento detto “scotta innesto”, preparato giornalmente dal casaro secondo una metodologia che si tramanda da secoli. L’innesto è uno degli elementi caratterizzanti del Pecorino Romano ed è costituito da un’associazione di batteri lattici termofili autoctoni. Aggiunto l’innesto, il latte viene coagulato ad una temperatura compresa tra i 38°C e i 40°C utilizzando il caglio di agnello in pasta. Accertato l’ottimale indurimento del coagulo, il casaro procede alla rottura dello stesso fino a quando i coaguli di cagliata non raggiungono le dimensioni di un chicco di grano. Dopo il raffreddamento, le forme sono sottoposte alla marchiatura. IL PEPE La pianta del pepe è una liana legnosa tropicale originaria dell’India sud-occidentale. Le liane si arrampicano intorno a pali di legno (spesso si tratta di altri alberi) alti 2 metri, che servono da sostegno. Crescono ad una temperatura costante compresa fra 20°C e 30 °C. Il pepe matura in grappoli lungo le liane, e ha un colore diverso (verde, nero, bianco o rosso) a seconda del grado di maturazione. Il sapore e l’aroma del pepe si concentrano al centro del grano, mentre la piccantezza si trova sul pericarpo, cioè all’esterno. Quanto più la macinatura è fine, tanto più prevarrà la piccantezza e coprirà il sapore. Per esaltare le sue caratteristiche, macinate il pepe con il mortaio o regolate le lame del macinapepe sulla macinatura più grossa. Macinatura molto fine: prevarrà la piccantezza. Macinatura media: otterrete un mix fra piccantezza e sapore. Macinatura grossa: privilegerete il sapore.

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Tipologie di pepe

IL PEPE VERDE Il primo colore dei grani di pepe è il verde. Estremamente fragile nel momento in cui viene colto. Si trova essiccato, in salamoia e talvolta liofilizzato. Ha un sapore fresco, vegetale e poco piccante. Compratelo fresco, è molto raro ma se lo trovate c'è solo da approfittarne. IL PEPE NERO Lasciato maturare, il pepe verde diventa giallo chiaro. Allora si raccoglie, si fa essiccare e il suo pericarpo, cioè la parte esterna, diventa nero. Il sapore è più intenso, legnoso e piccante. Offre un ventaglio aromatico complesso.

PEPE NERO DI KAMPOT Un pepe dal sapore floreale, leggermente dolce, intenso, caldo e dalla lunga persistenza in bocca.

IL PEPE BIANCO Se il pepe matura ancora, i grani diventano arancioni. A questo punto si lasciano macerare nell’acqua piovana per circa 10 giorni, si lasciano essiccare e si elimina il pericarpo, scoprendo la parte bianca. Il pepe bianco è un po’ più aromatico e dal sapore meno intenso.

PEPE BIANCO DI KAMPOT Ha note vegetali del sottobosco (mentolo, eucalipto) e anche di arachidi tostate.

IL PEPE ROSSO Se si lascia maturare il pepe ancora di più, i grani diventano di colore rosso scuro. Si immergono quindi nell’acqua calda per fissare il colore prima di essiccarli. Si lascia il pericarpo. Il vero pepe rosso è raro, dal sapore caldo e rotondo.

PEPE SELVATICO DEL MADAGASCAR VOATSIPERIFERY Questo pepe cresce selvatico nella parte meridionale dell’isola del Madagascar, su liane che spuntano in cima ad alberi alti fino a 20 metri. La forma ricorda quella del pepe di Java (a coda). Comparso in Europa solo qualche anno fa, è un pepe ancora molto raro. Da degustare intero o leggermente macinato.

PEPE BIANCO DEGLI UCCELLI In Cambogia, gli uccelli beccano i grani più maturi direttamente sulle liane. Quando il pepe raggiunge il gozzo dei volatili, una reazione enzimatica ne modifica il sapore. Dopo aver consumato il pericarpo (l’involucro), gli uccelli rigurgitano i grani, che verranno raccolti a mano dal suolo. Il prezzo di questo pepe è quindi molto alto.

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PEPE DI KAMPOT (IGP) Il pepe di Kampot, in Cambogia, è stato il primo, nel 2009, a godere della classificazione IGP (Indicazione Geografica Protetta). Praticamente scomparso quando i Khmer vi preferirono la coltura del riso nel 1975, il pepe di Kampot è riapparso gradualmente da una ventina d’anni. Viene coltivato sulle coste e risulta fresco ed elegante.

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PEPE ROSSO DI KAMPOT Colto quando giunge a maturazione, è un pepe caldo, dal sapore dolce, elegante e piccante.

PEPE SELVATICO NERO VOATSIPERIFERY Dal sapore intenso di terra fresca con note legnose, fruttate, agrumate e con una piccantezza decisa, persistente.


PEPE SELVATICO ROSSO VOATSIPERIFERY Vanta le stesse caratteristiche del pepe nero ma con un sapore più caldo. PEPE LUNGO ROSSO Cresce in diversi Paesi (Indonesia, Cambogia ecc.) ma il più sorprendente si trova in Giappone, sull’isola di Ishigaki-Jima. A forma di spiga, questo pepe sviluppa un sapore di cacao, di caffè, di burro e persino di pomodori essiccati. PEPE NERO DEL MADAGASCAR In Madagascar, il pepe è stato introdotto all’inizio del XX secolo dal francese Émile Prudhomme. I suoi piccoli grani sprigionano un sapore dolce di brioche, di pinoli, persino di cacao e di pan di spezie, bilanciato da note di frutti verdi aciduli. Molto piccante. PEPE DI MALABAR Originario della costa di Malabar, a sud-ovest dell’India, fra Goa e il Capo Comorin, questo pepe approfitta di due monsoni per sprigionare un sapore molto delicato e persistente in bocca: muschio e legno bruciato. È anche leggermente dolce e con una lieve acidità. PEPE DI TASMANIA (FINTO PEPE) Questo “pepe degli Aborigeni” è un falso pepe che cresce selvatico in Tasmania, a sud-est dell’Australia. I suoi grani, inizialmente gradevoli e poi più caldi, sviluppano un sapore di alloro, di noci verdi e poi di frutti neri (more, mirtilli e ribes). PEPE DI TIMUT (FINTO PEPE) Si tratta di un altro falso pepe, che cresce selvatico in Nepal. Sviluppa note agrumate (limone e pompelmo), pur essendo dolce e persistente in bocca. Attenzione, questa bacca risulta leggermente anestetizzante sulla lingua e sulle labbra! 163


Cacio e pepe scientifica

Ingredienti per 6 persone

500 g di spaghettoni di Gragnano 200 g di Pecorino sardo semi stagionato grattugiato 100 g di Pecorino sardo stagionato grattugiato 300 g di acqua 40 g di vino bianco 9 g di citrato di sodio (3%) 2,5 g di pepe Tellicherry Extra Bold 2,5 g di pepe nero lungo del Bengala 2,5 g di pepe di Timut 2,5 g di pepe del Malabar

Versate l’acqua (300 grammi) e il vino in un pentolino, aggiungete il citrato di sodio e mescolate con una frusta fin quando non si dissolve completamente. Quindi spostatevi sul fuoco (basso) e aggiungete il formaggio grattugiato, un cucchiaio alla volta. Sciogliete a calore moderato e tenete al caldo su un bagnomaria, oppure fate deaolcolare il vino sul fuoco, inserite tutti gli ingredienti in un sacchetto per il sottovuoto e far sciogliere a 75°C per una quindicina di minuti. Emulsionate con il mixer solo se necessario. Lessate la pasta in acqua senza sale, mi raccomando, scolatela al dente e tenete da parte due mestoli di acqua di cottura. Spadellate la pasta in una padella ampia con la crema di formaggio e un mestolo di acqua di cottura. Amalgamate con cura e servite con una spolverata generosa dei pepi, che avrete schiacciato o macinato poco prima.

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Preparate la crema di Pecorino come sopra. Nel frattempo tagliate il guanciale a cubetti o petali e mettete sul fuoco una padella. Fate soffriggere il guanciale nel suo stesso grasso, a fiamma flebile, lentamente, fin quando non avrà assunto un bel colore ambrato e la consistenza dei corn flakes. Deve suonare quando lo rimestate. Quindi spruzzatelo con poco aceto di mele e fatelo caramellare. Lessate la pasta in acqua senza sale, scolatela al dente e tenete da parte due mestoli di acqua di cottura. Spadellate la pasta con la crema di pecorino e una mestolata di acqua di cottura. Aggiungete il guanciale croccante e tenetene un po’ da parte da spolverare sopra. Servite la pasta con una pioggerella di guanciale e uno sbuffo di pepe macinato fresco.

Spaghetti alla gricia scientifica Ingredienti per 6 persone

500 g di spaghettoni o mezze maniche di Gragnano 200 g di Pecorino sardo semi stagionato 100 g di Pecorino sardo stagionato 300 g di acqua 150 g di guanciale 40 g di vino bianco 9 g di citrato di sodio (3%) 5 g di pepe Tellicherry Extra Bold Aceto di mele q.b.

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Mac and Cheese 280 g di latte intero o acqua 12 g di citrato di sodio (4%) 300 g di Cheddar di qualità (potete sostituirlo con una Groviera) 300 g di pasta tipo cavatappi Varianti per la salsa di formaggio

Con Cheddar stagionato e formaggio svizzero 270 g di Cheddar stagionato 30 g di formaggio svizzero Con Gorgonzola e Fontina 60 g di Gorgonzola dolce 260 g di Fontina Con Gouda e Cheddar di capra 150 g di Gouda di capra 150 g di Cheddar di capra

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Versate l’acqua e il citrato di sodio in un pentolino, dissolvete la polvere aiutandovi con una frusta e portate tutto sul fuoco. Aggiungete il formaggio (o i formaggi) grattugiato finemente, un cucchiaio alla volta, mescolando continuamente. Non vi fermate fin quando la salsa non risulta perfettamente liscia ed emulsionata. Potete eventualmente utilizzare un mixer ad immersione. Conservate la salsa a bagnomaria o comunque al caldo, perché raffreddandosi si addenserà troppo. Trucchetto: se notate che il grasso comincia a separarsi dall’acqua (se l’emulsione si rompe in pratica) portate il composto a bollore e emulsionate a caldo con il mixer ad immersione. Se anche questa operazione non dovesse risultare efficace, barate e aggiungete un cucchiaio di panna fresca e mescolate. Lessate la pasta in acqua poco salata, scolatela bella al dente e conditela con la crema di formaggio. Servitela immediatamente con una grattugiata di formaggio fatta al momento, oppure ripassatela in forno ricoprendola con uno strato di formaggio grattugiato e passandola al grill fin quando non si sarà formata una bella crosticina.


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Preparate il bagno termostatico per il sousvide impostando una temperatura di 75°C. Grattugiata i formaggi, unite il latte e il citrato e chiudete il sacchetto. Fate sciogliere per circa 15 minuti, o quando il formaggio sarà completamente fuso. Trasferite in una ciotola, poggiatela su un pentolino riempito di acqua calda ed emulsionate a bagnomaria con un mixer ad immersione. Servite immediatamente con una carriola di nachos, magari guardando la vostra serie preferita.

Nacho cheese sauce dose da 600 g circa

200 g di Emmenthal 100 g di Cheddar 300 g di latte intero 10 g di citrato di sodio

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4.1 – CARBONARA 2.0 Dopo aver fatto sempre la stessa cosa nello stesso modo per due anni, inizia a guardarla con attenzione. Dopo cinque anni, guardala con sospetto. E dopo dieci anni, gettala via e ricomincia tutto daccapo. Di anni ne sono passati quasi quattro dalla pubblicazione del famigerato video sulla mia carbonara scientifica e più che guardarlo con circospezione è decisamente ora di affinare certe asperità. Dopo una serie di esperimenti fatti e centinaia di recensioni più o meno richieste (“Sa troppo di formaggioh11!!”) ho messo a punto una nuova carbonara scientifica, la sua versione migliore fino ad ora, e mi sono ripromesso di condividerla solo con voi. Ma prima di snocciolare tutte le novità e rivelarvi gli inusitati barbatrucchi, facciamo un ripasso della teoria e di tutte le reazioni chimiche che ci sono alla base del piatto che ci fa litigare più della suocera: la carbonara. LE UOVA Partiamo dall’ingrediente caratterizzante: l’uovo. Da che cosa è composto? Albume e tuorlo, volgarmente chiamati bianco e rosso. L'albume è prevalentemente costituito da acqua e proteine, il tuorlo da proteine e grassi. Che cosa succede quando somministriamo calore ad un uovo? Semplice: da liquido diventa solido. Il bianco, da liquido traslucido trasparente, diventa solido e opaco. Il rosso, da liquido viscoso e brillante diventa un solido arancione dalla consistenza sabbiosa. Ma che cosa succede esattamente a livello delle strutture interne? Rinfreschiamo la memoria o familiarizziamo con due termini con cui avremo a che fare ogni volta che ci capiterà di cuocere proteine: denaturazione e coagulazione. Per spiegare bene il concetto di denaturazione proviamo ad immaginare uno di quei cavi arrotolati a forma di elica. Avete presente le cornette del telefono degli anni '80? Immaginate che le proteine siano fatte a spirale. La denaturazione è quel momento in cui tagliamo i legami agli estremi che obbligano l'elica a rimanere arrotolata. Una volta denaturate, le proteine possono “srotolarsi” e combinarsi insieme ad altri elementi. La denaturazione può avvenire per via chimica, meccanica o termica. L'acidità del limone, per esempio “cuoce” le proteine. L'albume montato a neve è un esempio di denaturazione per azione meccanica e la cottura dell'uovo al tegamino è un esempio di denaturazione e coagulazione per via termica. Immaginiamo le proteine dell’uovo come dei gomitoli di lana sospesi sul pelo dell'acqua. Inserendo sostanze acide, agitando l'acqua o aumentando la temperatura, alcune proteine cominciano a “srotolarsi” parzialmente: si “denaturano”. La coagulazione, invece, è molto più evidente della denaturazione e si ha quando le proteine denaturate si separano dagli altri elementi e solidificano. Applicare calore per UOVA

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un tempo più o meno lungo fa in modo che le proteine creino una struttura che intrappola l'acqua e crea un gel, un solido morbido. Avete presente le uova strapazzate? La meringa? Quando due proteine denaturate si incontrano nel mare in cui sono sospese, si possono legare tra loro e poco alla volta formano un reticolo tridimensionale solido, che ha intrappolato l'acqua al suo interno: questa è la coagulazione. Se questo reticolo proteico diventa troppo fitto, finisce che l'acqua intrappolata viene “strizzata” fuori e ciò che rimane è un groviglio di proteine asciutte. Ecco spiegato l'uovo troppo sodo in cui l'albume sembra silicone e il tuorlo una biglia di gesso verde.

1. 2. 3. 4.

Quattro punti fondamentali per capire la differenza fra coagulazione e denaturazione: La denaturazione avviene SEMPRE prima della coagulazione. Le proteine prima si “srotolano” e poi si solidificano. La coagulazione è un processo visibile, la denaturazione non lo è. La coagulazione è possibile SOLO su proteine denaturate. La coagulazione può essere controllata, la denaturazione no. Un po' la differenza che c'è tra la manopola del volume e il tasto di accensione della radio. Posso stabilire quanto coagulare ma non posso stabilire quanto denaturare. Si può quindi sovracoagulare ma non si può sovradenaturare.

Adesso focalizziamoci sulla coagulazione delle proteine dell'uovo per via termica. L'uovo e l'albume contengono diverse proteine. Non tutte si denaturano allo stesso modo e non tutte coagulano allo stesso modo. Coagulano a temperature diverse, alcune non coagulano affatto e alcune non si denaturano facilmente col calore.

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Partiamo dall'albume. Le proteine più importanti che ci interessa conoscere sono tre: Ovalbumina che rappresenta il 54% dell'albume, si denatura sia per azione

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• •

meccanica che termica e coagula ad una temperatura minima di 84°C. Conalbumina che rappresenta il 12% dell'albume, si denatura per azione termica e coagula a 61,5°C. Ovomucina, non coagula ma stabilizza la schiuma.

Il tuorlo ha una struttura più complessa perché non è costituita solo da proteine. Il rosso d'uovo è fatto dal 50% di acqua, dal 32% di grassi e dal 16% di proteine. Questi grassi e queste proteine, di solito, sono però associate e legate insieme in particelle, che prendono il nome di lipoproteine. Il tuorlo è una dispersione di granuli in una massa acquosa. È già di suo, per conformazione naturale, un'emulsione, cioè una soluzione di acqua, proteine e grasso stabilizzata, grazie anche all'elevato contenuto di lecitine. Fissate bene questo passaggio perché è importante in funzione della ricetta. Del perché e percome il tuorlo d'uovo si solidifichi ci importa fino a un certo punto. Ciò che è importante sapere è che le maggiori responsabili della capacità del tuorlo di diventare duro sono le lipoproteine LDL (Low Density Lipoproteins), che rappresentano all'incirca l'85% del totale delle proteine presenti nel tuorlo. Queste lipoproteine iniziano a coagulare a 65°C e finiscono di coagulare a 70°C. Per farla breve, alcune proteine dell'albume solidificano a 61,5°C; la maggior parte, invece, a 84°C. La maggior parte delle proteine del tuorlo inizia a coagulare a 65°C e finisce di coagulare a 70°C. Questo ci dice che gli stadi intermedi aumentano, man mano che sale la temperatura, la viscosità del tuorlo. TEMPERATURA DI COAGULAZIONE DELLE UOVA Contenuto su un uovo intero

Temperatura di coagulazione

m.g.

Acqua

Albume

58-60%

Inizio ispessimento 62°C Coagulazione 65°C

Tuorlo

30-32%

Inizio inspessimento 65°C Coagulazione 70°C

29%

53,50%

Uovo intero

88-90%

Inizio inspessimento 65°C Coagulazione 68°C-70°C

8,70%

77,10%

Guscio

10-12%

87,70%

Note: le temperature di coagulazione possono essere differenti in base alla freschezza dell'uovo e all'ingrediente con cui si cuoce. L'albume fresco è più solido e meno trasparente di quello vecchio, difatti coagula tra 62°C e 64°C. Le temperature di coagulazione diminuiscono con l'aumento del pH e del passare del tempo; quando un uovo invecchia il pH aumenta, modificando la sua struttura e il suo comportamento a contatto con il calore. Ingredienti come sale e succo di limone, fanno abbassare le temperature di coagulazione, mentre lo zucchero le fa aumentare.

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LA NUOVA CARBONARA SCIENTIFICA Voglio una salsa cremosa, senza grumi, che non sappia di gallina padovana sotto la pioggia d’autunno e che non faccia il filo di bava quando sollevo la forchetta. Non voglio sentire il sapore sulfureo dell'uovo cotto ma non voglio nemmeno avere la sensazione di mangiare pasta e gel per i capelli. La soluzione si chiama zabaione salato, ma fatto con soli tuorli: consiste nello scaldare i tuorli sbattuti a bagnomaria insieme ad altri ingredienti. In questo caso, con Parmigiano Reggiano e pecorino romano. Ho scelto lo zabaione salato fatto con soli tuorli per 5 motivi fondamentali: 1. L'uovo come agente schiumogeno. Le uova sbattute aumentano il loro volume poiché schiumano inglobando aria 2. L'uovo come agente legante. Abbiamo visto che le uova sono viscose e coagulano in uno stato semisolido o solido. Questa loro caratteristica influisce sulla capacità di legare altri ingredienti; pensate alle crocchette di patate o alle polpette. I tuorli con le loro proteine possono addensare i liquidi, conferendo una struttura soffice e cremosa. Esattamente quello ci serve nella nostra salsa. 3. L'uovo come agente emulsionante. I tuorli stessi sono una concentrata e complessa emulsione di grasso in acqua. Pertanto contengono al loro interno molecole emulsionanti come le lecitine. Queste hanno una parte idrofila che si lega all'acqua e una parte idrofoba che si lega ai grassi. In pratica fanno da collante fra tutti questi diversi elementi. Avete presente la maionese? Lo stesso principio. 4. L'uovo come agente coagulante e gelificante. Le proteine del tuorlo, quando sono riscaldate, formano un reticolo in grado di inglobare i liquidi. Ad esempio nei budini, nella salsa inglese e nella crema pasticciera, l'aggiunta delle uova determina la gelatinizzazione del liquido. 5. Solo tuorlo e niente albumi. Lo potete leggere nella tabella sulle temperature di coagulazione delle uova. L’albume è composto quasi al 90% di acqua, ha un sapore blando e dona alle preparazioni un’elasticità che noi dobbiamo evitare come la peste. Immaginate una crema che torna su come la bava di un San Bernardo. Il tuorlo, invece, è composto per metà da grassi e proteine, elementi che ci assicurano sapore, cremosità e stabilità, tutte caratteristiche che noi pretendiamo da una carbonara perfetta. Due tuorli grandi a testa e il raggiungimento dei 62,5°C ci assicureranno gusto, consistenza e, fattore non meno importante, sicurezza alimentare. 178

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°F 125.6 126 127 127.4 128 129 129.2 130 131 132 132.8 133 134 134.6 135 136 136.4 137 138 138.2 139 140 141 141.8 142 143 143.6 144 145 145.4 146 147 147.2 148 149 150 150.8 152 152.6 154 154.4 156 158 160 162 167 170 170.6 175 176 180 185

TEMPO 5h 14m 4h 46m 3h 48m 3h 28m 3h 1m 2h 24m 2h 17m 1h 54m 1h 31m 1h 12m 1h 57m 31s 45m 44s 39m 51s 36m 22s 28m 55s 26m 23s 23m 18m 17s 17m 28s 14m 32s 11m 34s 9m 12s 7m 39s 7m 19s 5m 49s 5m 4s 4m 37s 3m 41s 3m 21s 2m 55s 2m 19s 2m 13s 1m 51s 1m 28s 1m 10s 58s 44s 39s 28s 26s 18s 11s 7.1s 4.5s 1.4s 0.7s 0.6s 0.23s 0.18s 0.07s 0.02s

TABELLA FDA 6.5D: inattivazione Salmonella negli alimenti La tabella a lato riporta le combinazioni di tempo e temperature sufficienti per eliminare il rischio di contaminazione da Salmonella nel pollame, manzo e maiale. Le temperature indicate sono riferite a quelle raggiunte nel nucleo del cibo, e il tempo viene calcolato a partire del raggiugimento di quella temperatura interna. È necessario un termometro accurato. In caso di dubbio, è sempre opportuno mantenere la temperatura scelta per un tempo superiore al tempo indicato. Le raccomandazioni di cottura della FDA per alimenti freschi si riferiscono ad una riduzione di 6,5 D (dove D sta per "decimale" o Fattore 10), che corrisponde all'uccisione del 99,9997% dei patogeni presenti. (Tabella tratta da "Modernist Cuisine: The Art and Science of

Sicurezza alimentare

°C 52 52.2 52.8 53 53.3 53,9 54 54.4 55 55.6 56 56.1 56.7 57 57.2 57.8 58 58.3 58.9 59 59.4 60 60.6 61 61.1 61.7 62 62.2 62.8 63 63.3 63.9 64 64.4 65 65.6 66 66.7 67 67.8 68 68.9 70 71.1 72.2 75 76.7 77 79.4 80 82.2 85

Cooking")

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Prendiamo due tuorli grandi per commensale (40 grammi), mettiamoli in una bastardella (ciotola d’acciaio predisposta Dosi per 6 persone per la cottura a bagnomaria) e iniziamo a sbattere con una 240 g di tuorli d'uovo frusta. Questo movimento meccanico ci dà la certezza di 60 g di Parmigiano Reggiano 30 mesi GLC Top Selection 40 g di Pecorino Romano denaturare buona parte delle proteine. È lo stesso principio che sta alla base del tuorlo montato per la crema pasticciera. Il movimento meccanico denatura le proteine. Queste, una volta denaturate, si srotolano formando il reticolo e imprigionando l'acqua e l'aria in piccole bollicine, che rimangono legate fra loro.

Lo zabaione salato

A questo punto consideriamo circa 17 grammi di formaggio a persona. Abbiamo anche la possibilità di calcolare 50 grammi a persona, ma potrebbe essere una botta troppo grande di umami per alcuni tra voi. Voi scegliete il mix e la proporzione che preferite (potete scendere anche a 8 grammi di formaggio a persona), io uso 10 grammi di Parmigiano Reggiano e 7 grammi di Pecorino Romano. Aggiungo prima il pecorino e continuo a sbattere per amalgamare il tutto. Quando è ben amalgamato, aggiungo il Parmigiano. Prendo la mia bastardella e la metto in un tegame pieno d'acqua scaldata a 90°C. Deve sobbollire, non serve il bollore completo. Continuo a sbattere per emulsionare e intrappolare quanto più aria possibile, voglio che la mia salsa sia spumosa e vellutata. La scaldo fino a quando non raggiunge la temperatura di 62,5°C. È fondamentale raggiungere i 62,5°C e rimanere in quella finestra di temperatura per almeno 4 minuti e mezzo: solo in questo modo sarò sicuro di aver eliminato ogni traccia di salmonella dalle uova. Ricordatevi di rimanere tra i 62°C e i 63°C; mai superare i 65°C, perché altrimenti rischiate una frittata. Togliete dal fuoco e lasciate raffreddare continuando a mescolare e immergendo la bastardella in acqua e ghiaccio. Oppure liberatevi dello stress e preparate tutto in sous vide: sbattete i tuorli con il formaggio, mettete nel sacchetto e scaldate sottovuoto per un’ora a 62,5°C. Potete anche preparare lo zabaione in anticipo, raffreddare velocemente il sacchetto e conservarlo in frigorifero (o freezer, perché no). Il risultato sarà una crema liscia e della consistenza simile a quella del miele.

UOVA

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IL GUANCIALE Sapete che differenza passa tra guanciale e pancetta? Innanzitutto, parliamo di due tagli di carne diversi. Come suggerisce la nomenclatura, la pancetta si ricava dalla pancia del maiale, mentre il guanciale dalla guancia. Ciò che le differenzia, oltre alla derivazione anatomica, sono le lavorazioni con cui si arriva al prodotto finito e che ne determinano il gusto e la consistenza. La pancetta si ottiene dal tessuto adiposo sottocutaneo della pancia del maiale. In generale la pancetta viene salata e messa a stagionare in un luogo fresco e asciutto, insaporita con diverse spezie, che variano a seconda della regione in cui viene preparata. Conosciamo tre forme di pancetta: la pancetta tesa, che ha un periodo di stagionatura breve (circa 20 giorni), la pancetta arrotolata, che è un vero e proprio salume e si ottiene condendo la carne con spezie e lasciando stagionare per un lungo periodo, e la pancetta affumicata, senza dubbio quella più saporita del gruppo. Il guanciale invece si ottiene dalla guancia di un maiale di almeno 9 mesi. Strofinato con sale e pepe, nel Lazio viene insaporito ulteriormente con aglio, salvia e rosmarino. Il periodo di stagionatura è di almeno tre mesi, durante i quali il prodotto acquista un sapore molto intenso e sviluppa la la caratteristica “crosticina” esterna, che lo rende leggermente croccante.

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Da un punto di vista nutrizionale, pancetta e guanciale hanno un diverso apporto calorico. Cento grammi di pancetta contengono poco più di 450 calorie, con il 45% di grassi e il 40% di acqua. La stessa quantità di guanciale è decisamente più grassa, con un apporto di 655 calorie, 70% di grassi e 22% di acqua. Ed è per questo che si preferisce usare il guanciale a discapito della pancetta, perché è più “ciccione”. E non per dogmi mai messi in discussione o perché ce l’ha detto la Sora Lella in sogno. Vi piace di più la pancetta? Mettetecela, io non mi offendo. Ma torniamo alla ricetta. Taglio il mio guanciale o la mia pancetta, lo butto in padella e lo faccio diventare croccante. Separo il grasso e lo metto in una ciotola, mi servirà in un secondo momento. Una volta “sgrassato” spruzzo o verso sui cubetti dell’aceto di mele. Perché? Perché gli zuccheri contenuti nell’aceto caramellizzeranno, rendendo il guanciale più croccante e lucido, mentre l’acido acetico e l’acido malico doneranno una punta di acidità che andrà ad equalizzare la nota grassa dello zabaione. Cuocio 600 grammi di spaghetti di Gragnano IGP (100 grammi a persona) e nel frattempo riscaldo una padella. Non serve che sia rovente, dev'essere ben calda per non rubare calore agli elementi che andremo a mescolare. Ricordatevi di spegnere il fuoco prima di mettere gli altri ingredienti però. Due cucchiai di zabaione salato sono sufficienti per una singola porzione di pasta. Vi ricordate del grasso fuso del guanciale? Potete aggiungerlo allo zabaione in piccole quantità, un cucchiaino a persona va più che bene, per renderlo ancora più cremoso e saporito. Scoliamo senza troppi fronzoli i nostri spaghetti nella padella, aggiungiamo un paio di cucchiai di acqua di cottura, lo zabaione e mantechiamo. Qui potete fare come più vi piace. La girate, la saltate, quello che conta è che la sbattiate come si deve per far uscire l'amido della pasta e creare la salsina cremosa. Non vi fermate, se la padella è ben calda l'acqua si asciuga e l'amido viene fuori. Quando ottenete la consistenza che vi piace, la impiattate. Mettete gli spaghetti, mettete ancora un po' di guanciale croccante e poi una macinata di pepe. Sì, ma quale?

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Carbonara Scientifica

Dose per 6 persone 600 g di spaghetti di Gragnano 160 g di guanciale aceto di mele q.b. pepe q.b. Per lo zabaione salato 240 g di tuorli d'uovo 60 g di Parmigiano Reggiano 30 mesi GLC Top Selection 40 g di Pecorino Romano

IL PEPE Questi tre sono i miei preferiti: Pepe Tellicherry Extra Bold. Intenso, robusto e facilmente reperibile. Pepe Nero Lungo del Bengala. Non è un vero pepe, ma profuma tantissimo ed è poco piccante. Pepe di Timut. È un pepe di Sichuan selvatico, con note agrumate importanti. È così pungente che intorpidisce leggermente la lingua.

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Surf & Turf

LA CARBONARA SCIENTIFICA CON LUPINI E FRIARIELLI Lo zabaione salato, questa crema soave di tuorli e formaggio, si abbina con agio ad un sacco di ingredienti. Di carbonare egocentriche ne esistono: ve ne presento una, giusto per iniziare, quella con lupini e friarielli. Vongole o lupini Da una parte il lupino, la vongola povera, dall’altra la verace, quasi scomparsa, e in mezzo, a rompere le conchiglie la filippina, quella monovalve allevata nel fango. La Dosinia exoleta, il lupino appunto, ha uno scrigno di forma subtriangolare con rigature concentriche, per una pezzatura che si aggira intorno ai 3-4 cm. La sorella verace, più grande e carnosa, ha conchiglia ovale e arriva a misurare 5-6 cm. C’è chi preferisce l’una all’altra, io non discrimino e le mangio entrambe. Questa volta ho usato i lupini. Prima di cucinarli, assicuratevi che siano stati spurgati a dovere. Sennò metteteli a bagno per 1-2 ore in uno scolapasta immerso in acqua in cui avrete disciolto del sale, 36 grammi di sale per litro di acqua per essere precisi. Lo scolapasta vi serve per far cadere i residui di sabbia sul fondo del contenitore. I friarielli I broccoli di rapa o cime di rapa coltivati in Campania sono conosciuti come “friarielli" perché generalmente fritti in padella con aglio, olio e peperoncino. Grazie alla loro caratteristica nota erbacea e amarognola rappresentano il contorno più azzeccato per molti secondi opulenti, come le salsicce di maiale, la braciola o la provola. A Roma si 188

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chiamano broccoletti, broccoli di rapa in Calabria, cime di rapa in Puglia, rapini (o rapi) in Toscana. Sono le infiorescenze appena sviluppate della cima di rapa, vengono coltivate tutto l'anno anche se danno il meglio di sé nel tardo autunno e ad inizi primavera; dei friarielli mangiamo solo le foglie più tenere e i fiori verdi, che diventano anche ripieno per pizze rustiche o sughi inusuali. Ma se c’è una cosa che detesto è quando vengono cotti a casaccio diventando marroni. Come si fa a preparare dei friarielli perfettamente “scoppettiàti”, verdi e brillanti? Bisogna prima di tutto inquadrare il fenomeno che c’è dietro l’imbruttimento di tutte le verdure. Mi riferisco all’ossidazione, un processo noto e causato da un complesso di enzimi che si chiamano polifenolossidasi e che vengono attivati dal calore. Per conservare colore e turgidità vi basterà immergere i friarielli per 10 secondi nell’acqua bollente, poiché l’enzima si disattiva tra gli 80°C e i 95°C, e poi immediatamente in acqua e ghiaccio.Per preservare la resa cromatica in maniera ancora più efficace potete aggiungere un pizzico di acido citrico (3,7 grammi) e il problema è risolto. E non c’è alcun bisogno di inalberarsi perché è garantito che l’acidità, a quelle grammature, non sarà minimamente percettibile. A quel punto potrete spadellarli in olio sfrigolante con aglio e peperoncino, rimarranno verdi come la speranza (e la certezza) di preparare un piatto fenomenale.

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Carbonara scientifica con lupini e friarielli

Ingredienti per 6 persone

Per prima cosa preparate lo zabaione salato come da indicazioni, in questo caso ingentilito da una quantità minore di formaggi (potete anche prepararlo il giorno prima). Il dosaggio è stato ricalibrato per non sovrastare il sapore dei lupini e per non alterare la sapidità complessiva del piatto.

600 g di spaghetti di Gragnano IGP 1,2 kg di lupini o vongole veraci 2 spicchi di aglio peperoncino q.b. Pepe olio extravergine di oliva

Tagliate il guanciale a cubetti o listarelle, rendetelo croccante e spruzzatelo con aceto di mele, come descritto sopra. Mettete da parte (potreste conservare il grasso del guanciale disciolto, filtrarlo e ripassarci dentro i friarielli, vedete voi).

100 g di guanciale aceto di mele q.b. Per i friarielli 300 g di friarielli (broccoli di rapa) 1 spicchio di aglio Olio extravergine di oliva Per lo zabaione salato delicato 120 g di tuorli (6 tuorli grandi) 15 g di Parmigiano Reggiano 10 g di Pecorino Romano

Capitolo friarielli: lavateli, eliminate le foglie più dure, sbianchiteli come vi ho spiegato nel paragrafo precedente, immergendoli prima in acqua bollente per dieci secondi e poi in acqua ghiaccio. Asciugateli, tagliateli e ripassateli in padella a fuoco vivace con olio, aglio, peperoncino e un pizzico di sale. Ora è il momento di cuocere i lupini: dopo averli lasciati in acqua salata per un po’, avete due strade. Metodo #01: cuocete i lupini a secco a fiamma vivace, fateli aprire e toglieteli con una pinza man mano che si aprono. Filtrate il sughetto per eliminare anche l’ultimo residuo di sabbia possibile e unite un soffritto di aglio preparato a parte. Metodo #02: mettete sul fuoco una padella, aggiungete olio e aglio e lasciate sfrigolare. Unite i lupini e toglieteli dalla padella man mano che si schiudono, tenendo da parte l’intingolo. Sgusciate i 2/3 delle vongole e unitele al sughetto di aglio nella padella. Scolate gli spaghetti al dente, aggiungete un mestolo di acqua di cottura e spadellate con i friarielli ed il guanciale. Fuori dal fuoco aggiungete lo zabaione salato e fate saltare, impiattate con solerzia e guarnite con qualche lupino ancora nella conchiglia e una spolverata di pepe macinato al mulinello. Lo spaghetto che ricade sensuale su se stesso, con quel sughetto paradisiaco che lo percorre tutto, fino a toccare il fondo del piatto. I lupini minerali e sapidi, i friarielli leggermente piccanti ed amarognoli, il guanciale croccante e profumato…

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4.2 – OMELETTE Se delle buone uova strapazzate richiedono pazienza, una omelette perfetta richiede coraggio: una omelette di due o tre uova si cuoce in meno di un minuto, quindi vi giocate tutto in quei secondi lì. Auguste Escoffier descrisse l'omelette come delle uova strapazzate tenute insieme in un involucro coagulato, una “pellicola” di uovo cotta che passa dallo stadio umido e soffice a quello asciutto e sodo, in modo tale da contenere e modellare il resto. La preparazione richiede una padella più calda di quella per le uova strapazzate. E una padella rovente, badate bene, implica una cottura veloce per prevenire il disastro. Una chiave importante per una omelette di successo è contenuta nel nome del piatto, che dal Medioevo è passato attraverso varie forme - alemette, homelaicte, omelette (lo standard francese) - e deriva in definitiva dal latino lamella, " lastra sottile”. Il volume delle uova e il diametro della padella dovrebbero essere bilanciati affinché la miscela formi uno strato relativamente fine; altrimenti la massa strapazzata impiegherà troppo tempo a cuocere e sarà difficile da tenere insieme. La solita raccomandazione è tre uova in una padella di medie dimensioni, che dovrebbe avere una superficie ben oliata o antiaderente in modo che l’omelette si stacchi senza lasciare residui. La “pellicina” di un'omelette può essere formata sia alla fine della cottura, sia fin dall'inizio. La tecnica più veloce è quella di strapazzare vigorosamente le uova con un cucchiaio o una forchetta in una padella calda finché non iniziano a rapprendersi, poi spargere il composto in un disco grezzo, lasciare che il fondo si consolidi per qualche secondo, scuotere la padella per rilasciare il disco e ripiegarlo su se stesso. Si ottiene una massa più consistente e dall'aspetto più uniforme se le uova vengono lasciate indisturbate per un po' per permettere che la base si rapprenda. La padella viene poi scossa periodicamente per sollevare la superficie dello strato esterno, mentre la parte ancora fluida viene mescolata fino a renderla cremosa, e il disco infine piegato e fatto scivolare su un piatto.

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Un altro modo è quello di aspettare che il fondo del composto si solidifichi, poi si solleva un bordo con la forchetta e si inclina la padella per far scorrere sotto la parte liquida dell'uovo. Questo viene ripetuto fino a quando la parte superiore non è più fluida; la massa viene poi ripiegata. L’omelette soufflée, una versione dalla consistenza particolarmente leggera, si ottiene montando le uova fino a quando sono belle spumose, o montando gli albumi separatamente e unendoli delicatamente alla miscela di tuorli e aromi. Il composto viene versato in una padella riscaldata e cotto in forno a temperatura moderata. 3 SEGRETI PER UOVA PIÙ SOFFICI Le uova strapazzate dei nostri sogni dovrebbero essere un montino di fiocchi di uova soffici e cremosi. Dovrebbero anche essere abbastanza cotte da mantenere la loro forma al momento del taglio, ma abbastanza morbide da essere mangiate con un cucchiaio. Un'omelette fatta a mestiere deve risultare abbastanza soda da poter essere arrotolata o piegata, ma le uova devono conservare tenerezza e cremosità. La realtà è che troppo spesso entrambi i piatti si rivelano asciutti, duri o gommosi. La cottura eccessiva è uno degli errori più comuni, ma le uova hanno bisogno di un aiutino - sotto forma di grasso - per rimanere cedevoli e goduriose, anche quando sono completamente cotte. Quando le uova vengono riscaldate, l'acqua contenuta si trasforma in vapore. Allo stesso tempo, i filamenti proteici si dispiegano, si attaccano l'uno all'altro e alla fine formano una maglia a reticolo. Idealmente, queste proteine formano un intreccio che è in grado di trattenere l'acqua, il che renderà le uova cotte umide e morbide. Tuttavia, con la cottura prolungata, queste proteine reticolate formano legami molto stretti che strizzano via il liquido. Il risultato finale? Uova gommose e secche. La maggior parte delle ricette di uova strapazzate contengono un qualche tipo di latticino, di solito il latte. Perchè? Il grasso del latte ricopre le proteine e rallenta il processo di coagulazione. L'acqua nei latticini fornisce un'umidità aggiuntiva che aiuta a mantenere le uova strapazzate morbide. Questo liquido aggiunto produce anche più vapore, che si traduce in uova strapazzate più soffici e leggere.

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La scienza delle omelette è simile ma la tecnica usata per prevenire l'eccessiva coagulazione è diversa. Mentre le uova strapazzate devono essere soffici, un'omelette è più compatta (deve essere arrotolata o piegata). Non c'è bisogno quindi di un liquido aggiuntivo o di vapore. Infatti il liquido extra prolungherebbe il tempo di cottura e renderebbe l'omelette più dura. Molto meglio utilizzare il burro, che contiene molto grasso e pochissima acqua. Il grasso nel burro ricopre le proteine dell'uovo e restituisce un'omelette soda ma ancora tenera. SEGRETO #01: Cuocere le uova con un grasso Ma cosa succede quando le uova cuociono con un grasso? UOVA CRUDE: i filamenti di proteine globulari sono aggrovigliati e intervallati da molecole d’acqua. UOVA COTTE SENZA GRASSI: la cottura fa sì che i filamenti proteici si allineino e si leghino insieme. La cottura continua strizza via le molecole d’acqua. UOVA COTTE CON UN GRASSO: i grassi rallentano questo processo, mantenendo le uova soffici e umide. Fate questo esperimento: preparate due omelette, una con il burro all’interno e una senza. Poi prendete due oggetti pesanti e poggiateli al centro di entrambe le omelette. Noterete che l’omelette che contiene burro verrà schiacciata senza pietà, mentre quella senza mostrerà solo una leggere depressione. Perché questa drammatica differenza? Dal momento che le uova nelle omelette senza burro contenevano poco grasso che interferiva con la coagulazione, la rete proteica reticolata era in grado di formare legami più stretti. Questi legami più stretti si sono tradotti in una frittata più dura e resistente, ottima per sostenere un sacco di peso, ma non per essere mangiata. Quando i cubetti di burro si sono sciolti nelle omelette fatte con il burro, il grasso ha impedito ai filamenti proteici nelle uova di formare legami più stretti. Il risultato è un'omelette che mantiene la sua forma ma risulta comunque molto soffice. SEGRETO #02: Salare le uova prima della cottura Non c'è da aspettare: provvedi a salare le tue uova strapazzate. Salare prima della cottura ci dà una cagliata tenera e umida. Alcune fonti suggeriscono di aspettare a salare le uova strapazzate fino a poco prima di servire. Il pericolo - dicono - è che il sale sbattuto nelle uova crude può renderle acquose. Per scoprire se questa idea è valida, abbiamo salato le uova sbattute un minuto prima della cottura e un altro lotto subito dopo averle strapazzate. Ai nostri assaggiatori non sono piaciute le uova salate dopo averle strapazzate, trovandole gommose e sode. In confronto, le uova salate prima della cottura erano tenere e umide. Con questi risultati in mano, ci siamo chiesti se salare le uova sbattute un'ora prima della cottura le avrebbe rese ancora più tenere. Non è successo; erano quasi identiche alle uova salate appena prima della cottura.

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La scienza qui è abbastanza semplice. Il sale influisce sulla carica elettrica delle molecole proteiche nelle uova, riducendo la tendenza delle proteine a legarsi tra loro. Una rete proteica più debole significa che le uova hanno meno probabilità di coagularsi eccessivamente e si cuoceranno tenere, non dure. SEGRETO #03: Preriscaldare la padella lentamente La modalità con cui preriscaldate la padella prima di aggiungere le uova è cruciale per ottenere un'omelette cremosa con un esterno uniformemente dorato. Invece di preriscaldare a fuoco medio-alto per due o tre minuti (come fanno tutti), preriscaldate la padella a fuoco basso per ben 10 minuti. Su un fornello a gas, la fiamma alta lambisce i lati della padella, creando punti caldi sui bordi esterni del fondo. Questi punti caldi, a loro volta, possono favorire la formazione di spot, di macchioline marroni bruciacchiate sul fondo della frittata. Preriscaldare a fuoco lento assicura che il calore sia distribuito più uniformemente e vi concede più tempo per aggiungere le uova. A fuoco alto, ci vogliono solo 30 secondi perché la padella passi da una temperatura di 120°C a una temperatura di 150°C gradi (che rassoda le uova). Per dimostrare l'importanza di preriscaldare alla giusta temperatura (bassa), ho distribuito uno strato di Parmigiano Reggiano grattugiato sul fondo di due padelle, poi ne ho riscaldata una a fuoco medio-alto e l'altra a fuoco basso. Il formaggio riscaldato a fuoco medio-alto si è bruciacchiato sui bordi, mentre il formaggio riscaldato a fuoco basso si è sciolto e ha preso un colore uniforme.

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Omelette scientifica

Dosi per 2 omelette

6 uova grandi, fredde 30 g di burro non salato, tagliato in 2 pezzi 1/2 cucchiaino di olio extravergine di oliva (2.5 ml) 2 cucchiai di formaggio Gruyère grattugiato (15 g circa) 4 g di erba cipollina fresca tritata sale q.b. pepe q.b.

01. Tagliate il pezzo di burro a metà e fondetene una parte. Nel frattempo, scaldate l'olio in una padella antiaderente da 20 cm di diametro a fuoco basso per 10 minuti. 02. Rompete 4 uova in una ciotola media e aggiungete due tuor­li; conservate gli albumi per altro. Perché togliamo gli albumi? Perché altrimenti dovremmo aggiungere più burro, e l’omelette risulterebbe pesante. Aggiungete 2 grammi di sale e due pizzichi di pepe. Rompete i tuorli con una forchetta, poi sbattete le uova a ritmo moderato, con circa 80 colpi, fino a quando i tuorli e gli albumi sono ben miscelati. Con una forchetta o una frusta, l’importante è non montarle troppo. Unite il burro fuso. 03. Quando la padella è completamente riscaldata, usate della carta assorbente per pulire l'olio, lasciando un sottile strato sul fondo e sui lati. Aggiungete circa 10 grammi di burro nella padella e scaldatelo fino a quando non si scioglie. Spargete il burro con cura, aggiungete il composto di uova e cuocete a calore a medio-alto. Usate 2 bacchette cinesi o il retro di un cucchiaio di legno per strapazzare le uova (la forchetta righerebbe la padella), facendo un rapido movimento circolare intorno alla padella, raschiando l'uovo cotto dai lati, fino a quando le uova sono quasi cotte ma ancora un po' liquide (ci vorranno dai 45 ai 90 secondi). Spegnete il fuoco, allontanate la padella dal fornello e appiattite le uova in uno strato uniforme usando una spatola di gomma resistente al calore. Cospargete l'omelette con il formaggio e l’erba cipollina. Coprite la padella con un coperchio ermetico e lascia riposare per 1 minuto. 04. Scaldate la padella a fuoco basso per 20 secondi, togliete il coperchio e usando una spatola di gomma, allentate i bordi della “frittata” dalla padella. A questo punto potete procedere in due modi: Tecnica facile Mettete un foglio di carta forno su un piatto riscaldato e fate scivolare l'omelette fuori dalla padella sulla carta in modo che l'omelette sia piatta e penda circa 2/3 cm dalla carta. Arrotolate l'omelette in un cilindro e mettete da parte. Riscaldate la padella a fuoco basso e scalda 2 minuti prima di ripetere le istruzioni per la seconda omelette, iniziando dal punto 2. Servite. Tecnica più difficile Sollevate il lembo dell’omelette sul lato sinistro e date un colpetto alla padella per aiutarvi ad arrotolare verso destra. Premete contro il fondo per dare all’omelette la forma di cilindro perfetto. Servite.

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Omelette Country Style Dosi per 2 omelette 1 dose di miscela per omelette (vedi ricetta Omelette Scientifica) 100 g di prosciutto cotto arrosto 100 g di formaggio svizzero grattugiato

Realizzate la ricetta dell'omelette fino al punto 4. 05. Dividete idealmente l’omelette in due semicerchi e condite la metà superiore con il formaggio grattugiato ed il prosciutto. 06. Ripiegate l’omelette a mezzaluna e servite immediatamente.

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Tamago yaki

(aka l'omelette giapponese) Dosi per 2 omelette

4 uova 60 g di dashi 10 g di salsa di soia 7,5 g di mirin 7,5 g di zucchero semolato sale q.b. olio di semi di arachidi q.b.

In una bacinella, amalgamate le uova con i condimenti. Scaldate una padella quadrata e ungetela con olio di semi. Versate uno strato sottile di miscela d’uovo e distribuitela bene nella padella. Arrotolate la frittata e spingete il rotolo in avanti. Verste altro composto per coprire nuovamente il fondo della padella, sollevando leggermente il primo rotolo in modo che il secondo strato possa aderire al precedente. Procedete fino al termine della miscela di uovo. Avvolgete il rotolo ottenuto nel tappeto di bambù per sagomarne la forma. Lasciate raffreddare a temperatura ambiente e tagliate a fette di 2 cm di spessore. Accompagnate con la salsa di soia e il daikon grattugiato. 200


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Omelette Tornado Dosi per 2 omelette

1 dose di miscela per omelette (trovate tutto più su, per l'omelette scientifica)

Realizzate la ricetta come sopra e al punto 4 seguite queste istruzioni passo passo: Con la mano destra, pizzicate l’omelette al centro con le bacchette, mentre con la sinistra ruotate la padella verso destra, avvitandola. Tenete la presa per 30 secondi e adagiate su una porzione di riso saltato. 202


4.2 – FRITTATA DI PATATE frittata s. f. [der. di fritto]. – 1. Pietanza a base di uova frullate o sbattute, gettate in padella con olio o burro bollente finché acquistano una determinata consistenza: frittata semplice (a un foglio), ripiegata (a due fogli), arrotolata o avvolta (omelette), ripiena; spesso mescolata, prima o durante la cottura, con verdure o altri ingredienti: frittata con i carciofi; frittata di spinaci, di asparagi, di zucchine; frittata verde, in genere, a base di erbe tritate; frittata col prosciutto, col formaggio.

(fonte: www.treccani.it)

Con le patate. Quante volte l’avete mangiata ancora bollente, magari in un bel panozzo, davanti alla tv? Scommetto che la mia versione non l’avete mai provata, però. Ma prima di passare alla ricetta, aggiungiamo ancora qualche tassello su uno dei miei ingredienti preferiti: l’uovo. IL SAPORE DELLE UOVA: UNA QUESTIONE DI CHIMICA Le uova fresche hanno un sapore molto delicato, oggettivamente difficile da decifrare. Quello che sappiamo per certo è che l’albume conferisce la tipica nota sulfurea, mentre il tuorlo quella dolce e burrosa. L'aroma prodotto da un uovo appena deposto è debole, e diventa più forte quanto più a lungo viene conservato prima della cottura. In generale, l'età delle uova e le condizioni di conservazione hanno un impatto sul sapore maggiore rispetto alla dieta della gallina e alla sua libertà di movimento. Tuttavia, sia la dieta che la razza dell’animale possono fare la differenza. Le razze che producono uova di colore marrone non sono in grado di metabolizzare un componente inodore delle farine di colza e soia (colina o vitamina J), e i loro batteri intestinali lo trasformano in una molecola dal sapore sgradevole di pesce (trietilamina) che finisce nelle uova. I mangimi a base di farina di pesce e alcuni pesticidi possono causare lo sviluppo di sapori sgradevoli. La dieta imprevedibile delle galline veramente ruspanti produrrà uova stravaganti, mai costanti. Nell'aroma delle uova cotte sono stati identificati qualcosa come 200 composti. Il più caratteristico è il solfuro di idrogeno, H2S. In grandi dosi - ad esempio, in un uovo avariato o in alcuni scarti industriali - l'H2S è molto sgradevole. Si forma prevalentemente nell'albume, quando le proteine cominciano a dispiegarsi e a liberare i loro atomi di zolfo per reagire con altre molecole, a temperature superiori a 60°C. Più a lungo l'albume rimane a queste temperature, più forte sarà l'aroma di zolfo. Più invecchia e più ne produce. Poiché l'idrogeno solforato è volatile, può fuoriescire dalle uova cotte durante la conservazione, che in questo modo perdono quella “puzzetta” tipica. Durante la cottura poi, si sviluppano anche piccole quantità di ammoniaca, che danno un contributo subliminale al sapore delle uova. UOVA

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La struttura interna dell'uovo

TUORLO La maggior parte delle vitamine e dei minerali dell'uovo, così come tutti i grassi e metà delle proteine, si trovano nel tuorlo. Contiene anche la lecitina, un potente emulsionante. Il tuorlo è più sodo quando è freddo, ricordatevelo quando dovete separarlo dall’albume. MEMBRANA VITELLINA Questa membrana contiene e protegge il tuorlo e si indebolisce man mano che l'uovo invecchia. Questo è il motivo per cui le uova fresche sono più facili da separare rispetto a quelle vecchie. CHALAZA Questi cordoni biancastri si estendono da ogni estremità del polo e centrano il tuorlo. Man mano che un uovo invecchia, i chalazae si indeboliscono e il tuorlo può diventare fuori centro. Spesso filtriamo le salse e le creme (come la crème brûlée) in modo che i chalazae non ne rovinino la consistenza e l'aspetto. ALBUME DENSO INTERNO E ALBUME LIQUIDO ESTERNO Il bianco, chiamato anche albumina, è fatto di proteine e acqua ed è diviso in strati spessi e sottili, con lo strato più spesso più vicino al tuorlo. Una leggera torbidezza indica un'estrema freschezza. Con l'invecchiamento delle uova, il bianco diventa più sottile e chiaro. CAMERA D'ARIA Il vuoto all'estremità larga dell'uovo è il risultato della contrazione dovuta al raffreddamento dell'interno dopo la deposizione dell'uovo. Questo spazio aumenta di dimensioni man mano che l'uovo invecchia e l'umidità all'interno dell'uovo evapora attraverso il guscio. GUSCIO Il guscio e la membrana interna mantengono il contenuto al suo posto e tengono fuori i batteri. Il guscio è permeabile e col tempo il contenuto di un uovo può evaporare. Non usare mai un uovo con il guscio rotto o spaccato.

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ETICHETTA Sull’etichetta delle uova devono essere riportate per legge: 1. Data di consumo preferibile (per le uova fresche è considerata superata il ventottesimo giorno dalla deposizione, ma devono essere ritirate dal commercio sette giorni prima della scadenza). 2. Categoria di qualità e peso. 3. Numero di uova confezionate. 4. Nome e ragione sociale, oppure il marchio commerciale del centro di imballaggio. 5. Raccomandazioni per una corretta modalità di conservazione. Sull’etichetta possiamo trovare: data di deposizione, indicazione del miglior uso dell'uovo (ad esempio uova per pasta gialla), sistema di allevamento (a terra, con metodo biologico ecc.) ed alimentazione della gallina (dieta esclusivamente vegetale ecc.).

Categoria A Uova fresche, non lavate, né refrigerate o sottoposte a trattamenti di conservazione, camera d'aria di altezza inferiore ai 6 mm, meno di 28 giorni dall’imballaggio. Uova extra fresche, come le precedenti, ma con camera d'aria inferiore ai 4 mm e meno di 7 giorni dall'imballaggio o di 9 dalla deposizione. Categoria B Uova di seconda qualità o conservate. Sono refrigerate a temperatura inferiore a 5°C o conservate in miscela diversa da quella atmosferica. Camera d'aria inferiore ai 9 mm.

CATEGORIE DI PESO (solo per uova di categoria A) XL L M S

grandissime, da 73 grammi e più grandi, da 63 a 73 grammi medie, da 53 a 63 grammi piccole, meno di 53 grammi

CODICE ALFANUMERICO Come si interpreta il codice alfanumerico ad undici caratteri impresso sul guscio? È molto semplice. All'inizio del codice è presente un numero che indica il sistema di allevamento delle galline ovaiole: 0 1 2 3

per l'allevamento biologico per l'allevamento all'aperto per quello a terra per quello in gabbia (o batteria)

Segue una sigla che specifica il Paese di produzione (IT per l'Italia, SP per la spagna, FR per la Francia e così via). Un altro numero di tre cifre segnala il comune di provenienza; viene inoltre riportata la sigla della provincia di allevamento (MI per Milano, BO per Bologna, NA per Napoli ecc.). Le ultime tre cifre identificano l'allevamento dal quale provengono le galline, tramite una sequenza numerica che viene assegnata dalle autorità sanitarie locali dopo i controlli sull'idoneità dell'azienda.

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Etichettatura e qualità delle uova

CATEGORIE DI QUALITÀ

Categoria C Uova declassate destinate all'industria alimentare; non possiedono i requisiti delle uova di categoria A e B.

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LA CONSERVAZIONE DELLE UOVA In frigorifero. Se il vostro frigorifero ha il classico vassoietto per le uova sullo sportello, buttatelo. Le uova dovrebbero essere conservate sul ripiano, dove la temperatura è inferiore ai 4°C. Le uova si conservano più a lungo nella loro scatola protettiva; quando vengono scartate possono assorbire gli odori di altri alimenti. Il cartone aiuta anche a mantenere l’umidità corretta, idealmente intorno al 70-80%, rallentando l'evaporazione del contenuto delle uova. In freezer. Gli albumi, che avanzano sempre, possono essere congelati, tenendo presente però che perdono le loro proprietà lievitanti. I bianchi congelati sono perfetti per lucidare i prodotti da forno o in ricette in cui non serve montarli. I tuorli, tuttavia, non possono essere congelati così come sono; l'acqua forma dei cristalli di ghiaccio che stracciano la rete proteica. Possiamo aggiungere però dello sciroppo di zucchero (2 parti di zucchero per 1 parte di acqua), mescolando un ¼ di cucchiaino di sciroppo per tuorlo prima di mettere il composto in freezer. LE PATATE NELLA FRITTATA SI FRIGGONO DUE VOLTE La patata fritta perfetta? È tutta una questione di temperatura dell'olio. Quando friggiamo il cibo, generalmente lo facciamo in olio tenuto tra i 160°C e i 190°C gradi. Mettiamo le patate nella padella e la loro umidità superficiale si trasforma immediatamente in vapore. (Avete presente le bolle che spiccano non appena immergiamo il cibo nel grasso caldo? L’olio non sta bollendo, è l'umidità che fuoriesce). Anche se sembra controintuitivo, la frittura è un metodo di cottura a calore secco. Mentre il vapore scappa via dal cibo che frigge, lasciando piccoli crepe nella sua scia, una piccola quantità di olio si muove per prendere il suo posto. E mentre il cibo cuoce, il suo rivestimento esterno di amido (perché generalmente friggiamo cibo amidaceo, o cibo non amidaceo pastellato nell'amido) si asciuga, diventando poroso e croccante, con un sacco di olio che aderisce alla crosta appena formata. L'alta temperatura è fondamentale: se l'olio non è abbastanza caldo, l'umidità non si trasformerà in vapore, la superficie esterna non si asciugherà e la caratteristica crosticina dorata e crunchy non si formerà. Dopo tutto, le reazioni che producono sapore, come la caramellizzazione e le reazioni di Maillard, non avvengono rapidamente fino a quando non si raggiungono certe temperature. E se la crosta croccante non si materializza, non c'è nulla che impedisce all'umidità del cibo fritto di migrare verso i bordi esterni. Il risultato? Fritto molle e unto. Questo è il motivo per cui spesso friggiamo un po’ alla volta. 206

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Calare tre kg di patate nell'olio caldo abbassa significativamente la temperatura dell'olio e ci restituisce patatine fritte mollicce. Una crosta croccante non solo è più saporita, ma anche più asciutta. Che ci crediate o no, la temperatura dell'olio durante la frittura è solo una parte del motivo per cui il cibo può risultare unto. Infatti, più caldo è l'olio, maggiore è la perdita di umidità e la quantità di olio assorbita. La maggior parte dei cibi fritti assorbono il grasso DOPO la cottura, quando l'olio in superficie riesce a penetrare nella crosta. Una bella crosta croccante non vieta a una patata di assorbire olio, ma le impedisce di diventare flaccida e grassoccia. Occhio anche a non esagerare con il calore. Quando la temperatura dell'olio sale oltre i 205°C gradi, l'esterno del cibo può bruciare prima che l'interno sia cotto. E anche se l'interno si cuoce, il calore violento può causare un'eccessiva perdita di umidità, che indurisce la nostra pietanza. Anche se i termini sono spesso usati in modo intercambiabile, per definizione, un grasso è solido a temperatura ambiente mentre un olio è liquido. L'olio fresco per friggere è composto da più del 98% di trigliceridi, che sono composti da tre acidi grassi legati chimicamente a una molecola di glicerolo. I trigliceridi che sono ricchi di acidi grassi saturi, come quelli della carne, sono solidi a temperatura ambiente, mentre quelli che sono ricchi di acidi grassi insaturi, come quelli dei vegetali, sono liquidi. Quando i grassi e gli oli vengono riscaldati per poi essere messi a contatto con il cibo, possono succedere due cose: I trigliceridi possono reagire con l'acqua del cibo per formare altri acidi grassi liberi e glicerolo e gli acidi grassi insaturi possono essere ossidati dall'aria. Entrambe queste reazioni limitano la vita utile dell’olio, facendolo fumare ad una temperatura sempre più bassa. Questo punto di fumo, o la temperatura alla quale l'olio inizia ad emettere fumo sgradevole, cambia da olio a olio, a seconda di quanto velocemente si scompone in acidi grassi liberi. La quantità di questi acidi grassi liberi nell'olio è un'indicazione dell'idoneità alla frittura ad alta temperatura. Ogni olio alla fine inizierà a fumare, e più lo usi, più il punto di fumo diventa basso.

UOVA

PUNTO DI FUMO DI GRASSI E OLI Olio di cocco 195°C Olio di vinaccioli 200°C Olio extravergine d’oliva* 210°C Olio di sesamo 210°C Olio di arachidi 220°C Olio di mais Punto di fumo : 230°C Olio di semi di girasole 230°C Olio di canola 205-240°C Grasso di anatra 190°C Sego bovino 230°C Strutto di maiale 240°C * Il punto di fumo degli oli d'oliva filtrati può essere più alto, anche se tutti variano ampiamente in base alla fonte..

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E COSA SUCCEDE QUANDO UNA PATATA TOCCA L'OLIO CALDO? A crudo - Prima di toccare l'olio, la patata trattiene l'umidità in modo uniforme al suo interno. Durante la frittura - Mentre frigge nell'olio caldo, l'umidità si trasforma in vapore ed esce, lasciando dei “buchi” sulla sua scia. Dopo la frittura - I crateri sulla superficie delle patate si riempiono di olio, aiutando la formazione della crosticina croccante e ambrata. La quantità di olio assorbita è direttamente proporzionale alla quantità di acqua persa. La temperatura dell'olio fa una grande differenza. Ho fatto un esperimento cuocendo tre porzioni di patatine: una a 200°C, una 135°C e una a 170°C. Le patatine fritte cotte a 200°C si sono dorate troppo velocemente, rasentando la bruciatura prima che l'interno della patata potesse cuocersi del tutto. Le patatine fritte cotte a 135°C, invece, si sono cotte completamente, ma non si è mai formata una crosta e sono diventate mollicce e flosce. La temperatura magica è 170°C: Il calore è abbastanza alto da trasformare immediatamente l'acqua nella patata in vapore, da asciugare lo strato esterno e formare una crosticina marrone e croccante, il tutto mentre il cuore del tubero rimane umido e cremoso. MA L’OLIO SI PUÒ RIUTILIZZARE? In parte sì. Conservate una tazza di olio usato e unitela all'olio fresco prima di friggere. Il cibo fritto diventerà più croccante e svilupperà una doratura più uniforme. Perché? L'olio “nuovo” non riesce a penetrare la barriera di umidità che circonda il cibo mentre frigge. Nel tempo, man mano che l'olio continua a rimanere esposto al calore, si scinde, producendo composti scivolosi e simili al sapone che possono penetrare la barriera d'acqua. Questo maggiore contatto tra olio e cibo favorisce la doratura e la croccantezza. (Durante il “riciclo”, il livello di acido grasso libero aumenta da circa lo 0,03-0,05% nell’olio “fresco” all’8-10% nell’olio “usato”). Quindi conservate un bicchiere o due di olio usato da mescolare con quello fresco la prossima volta che friggete (il rapporto ideale è di 1 parte di olio usato per 5 parti di olio fresco). Una volta che l'olio si è raffreddato, filtratelo attraverso un colino foderato con carta assorbente e mettetelo in frigorifero, in un contenitore ermetico. Conservato in questo modo, l'olio dovrebbe durare per due o tre usi. Ricordate però che l'olio di frittura può trasferire sapori da cibo a cibo. Di regola, buttate via l'olio in cui è stato fritto il pesce GRATTATE LA SUPERFICIE PER PATATINE PIÙ CROCCANTI Strofinare le patate, rigarle con una forchetta o creare una superficie irregolare, favorisce l'evaporazione dell'umidità e la formazione di una crosticina più croccante e consistente.La spiegazione? È tutta una questione di texture. La rosolatura o la croccantezza non può svilupparsi prima che l'umidità superficiale evapori. I pezzi di patata “raspata” hanno più superficie esposta rispetto a fette o pezzi crudi e lisci (e quindi più vie di fuga per l’umidità). Mi sono spiegato male? Immaginate allora 100 km² della regione montuosa del Trentino Alto Adige. Avranno molta più superficie esposta rispetto a 100 km² della Pianura Padana, giusto? 208

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La frittata di patate scientifica 6 uova grandi 30 g di burro non salato 350 g di patate 1 rametto di rosmarino olio di arachidi per la frittura 2 g di sale pepe q.b. sale q.b. pepe q.b.

Incidete le patate con la buccia, dividendole in pezzi irregolari (non devono essere lisci o precisi). Sciacquatele brevemente in acqua fredda e asciugatele con cura, questo passaggio servirà a scaricare l’amido in eccesso. Versate l’olio di arachidi in una padella ampia o nella friggitrice, aggiungete il rametto di rosmarino e friggete le patate a 170°C-180°C, fin quando non si forma una crosticina sottile. Scolate le patate e schiacciatele col dorso di un cucchiaio, per formare una superficie ruvida e irregolare. Friggete di nuovo fin quando non diventano ambrate e croccanti. Fate raffreddare e salatele. Ora dedicatevi alla preparazione delle uova. Tagliate il pezzo di burro a metà e tagliate una metà in piccoli pezzi, come per le omelette. Nel frattempo, scaldate l'olio in una padella antiaderente (26 cm di diametro) a fuoco basso, per 10 minuti. Deve essere una padella con manico in ferro o acciaio, perché dovrete ripassare la frittata in forno. Rompete 4 uova in una ciotola media e aggiungete due tuorli. Aggiungete 2 grammi di sale e due pizzichi di pepe. Mescolate con una frusta fin quando tuorli e albumi non saranno perfettamente miscelati. Unite i cubetti di burro freddo e le patate fritte ormai raffreddate. Quando la padella è completamente riscaldata, usate della carta assorbente per pulire l'olio, lasciando un sottile strato sul fondo e sui lati. Aggiungete circa 10 grammi di burro nella padella e scaldatelo fino a quando non si scioglie. Spargete il burro con cura, aggiungete il composto di uova e patate e cuocete a calore a medio-alto. Trasferite la frittata in forno preriscaldato a 180°C, azionando solo le resistenze superiori. Lasciate cuocere lo strato superficiale della frittata fin quando il cuore non avrà raggiunto i 70°C-75°C. Servite ancora calda.

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5.1 – INSALATA DI RISO L’INSALATA DI RISO VUOLE IL SALE DA UN SAPIENTE, L’OLIO DA UN PRODIGO, ESSERE MESCOLATA DA UN MATTO, MANGIATA DA UN AFFAMATO E RIEMPITA DI MAIONESE DA ME. Okay, okay, il proverbio non dice proprio così, ma il passaggio sulla maionese è verissimo. Io preparo l’insalata di riso solo per abbracciarla con una ricca e voluttuosa dose di salsa. Dopo avere ingegnerizzato con scrupolosità la ricetta, ovviamente. L’insalata di riso, lo dice il nome, è il piatto estivo per antonomasia: un mix di ingredienti (cotti e crudi) che impreziosiscono il pallido cereale, troppo spesso paludato dagli esecrabili condimenti in barattolo. Dire “insalata” non identifica veramente un cibo, bensì un modo di prepararlo, di condirlo. Gli antichi latini la chiamavano acetaria, spostando il focus su un altro condimento che ritenevano essenziale, ovvero l’aceto. La parola "insalata" è presente nel nostro vocabolario con il suo significato attuale dal 1342. Il nome proviene dal participio passato femminile del verbo insalare, oggi desueto ma presente in Dante (“dove l’acqua di Tevere s’insala”), formato dai termini “in” e “sale”. L’insalata è quindi “ciò che si sala”, o per meglio dire “la verdura che si condisce con sale”. Anche in francese il termine salade è a sua volta un sostantivo preso dal participio passato femminile del verbo provenzale salar. INSALATA DI RISO SCIENTIFICA: IL MIX PERFETTO Per assemblare una vera insalata di riso coi controcapperi basta seguire poche fondamentali regole. Fate attenzione a queste quattro macro-categorie: 1. Sensoriale. La nostra insalata può dare stimoli chimici, termici, meccanici, dolorosi, chemestesici ed emozionali. Gli stessi elementi che veicolano il senso dell’UMAMI. 2. Salutistica. La nostra insalata di riso fornisce fibre, vitamine, sali minerali e antiossidanti. 3. Nutrizionale. La nostra insalata di riso è equilibrata nel rapporto tra carboidrati, proteine e grassi. 4. Gourmet. La nostra insalata di riso è prima organoletticamente buona, poi tutto ciò che vogliamo rappresentare. GLI INGREDIENTI L’insalata di riso nasce tradizionalmente come piatto unico, spesso svuota-frigo, dove il riso viene amalgamato ad altri ingredienti (salumi, formaggi, uova sode, sottoli, sottaceti e vegetali) e alle salse. Una ciotola unica da parcheggiare nella parte alta del frigorifero per troppe albe e troppi tramonti d’estate. Ma perché non provare a costruire e servire le mescolanza di Oryza sativa in maniera diversa, lasciando al commensale la libertà e il divertimento di assemblare e personalizzare la propria porzione? Immaginate un cuore candido di riso, leggermente sgranato con poco olio extravergine di oliva, e intorno tutti gli ortaggi e le prelibatezze con cui infarcirlo. INSALATE

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ORTAGGI Sono tantissimi, hanno sapori decisi e consistenza perlopiù croccante. I diversi tagli permettono di variarne la percezione al palato. A foglia. Erbe aromatiche. Inutile elencarle tutte; aggiunte alla nostra insalata, basilico, prezzemolo, origano fresco e maggiorana danno aroma e sapore. Da frutto. Pomodori, melanzane, peperoni, zucchini, cetrioli e avocado. Crudi, alla piastra, al vapore o appena sbianchiti e poi raffreddati. Hanno un sapore spiccato e distintivo.

Da radice. Carote, barbabietole, rape, ravanelli, daikon e sedano rapa. Vagamente dolci, aggiungono croccantezza, sapore e note pungenti (soprattutto ravanello e daikon). Da tubero. Patata, patata dolce, topinambur, zenzero (che è un rizoma, più tubero che radice). Estremamente versatili. FRUTTA Aggiunta all’insalata di riso, la frutta dà un tocco di stile. Fresca, in piccoli pezzi, affettata o tagliata a fiammiferini, aggiunge dolcezza e acidità. UMAMI Alcuni ingredienti apportano una forte carica di sapore, potremmo dire che parlano ad un “volume" molto alto. Anche in piccole quantità fanno godere le papille gustative, controparti utilissime per i vegetali meno gustosi. Ce ne sono tanti, ma possiamo provare a classificarli.

Salumi. Selezionate il meglio: speck, culatello, il migliore prosciutto crudo o cotto, mortadella a pezzi grossi. Qualche etto concentra gusto e sapidità come poco altro. Legumi. Fagioli, ottimi quelli di Controne, i Borlotti e i bianchi di Spagna, ceci, fave, lupini, piselli. Cotti ma ancora un po' tenaci. Scolati, asciutti e sgranati aggiungono sapore e consistenze diverse. Sottoli e sottaceti. Funghi, olive, peperoni, melanzane, carciofini, ortaggi grigliati, tonno e pomodori secchi. Cercate il prodotto giusto, anche di nicchia se serve, ne basta poco per ricavare una potenza gustativa unica. Prodotti conservati nel sale. Olive nere e verdi, capperi. Aroma e picco sapido, da aggiungere interi o tagliati a piccoli pezzi. ELEMENTO CROCCANTE Serve a fornire percezioni meccaniche di contrasto. Vivacizzano l’insalata di riso e la rendono golosa. Frutta secca. Mandorle, nocciole, noci, pistacchi, anacardi, semi di sesamo, eccetera. Carica energetica per aggiungere sapore e contrasto. DRESSING Definirlo condimento sarebbe riduttivo. Il dressing è un concentrato di tecnica e conoscenza che decreta il successo di un’insalata di riso. INSALATE

Insalata scientifica: gli ingredienti

Da fusto. Sedano. Gusto deciso e consistenza croccante, oltre a una componente aromatica molto forte.

Formaggi stagionati o erborinati. Gorgonzola, Roquefort, Feta, Caprini, Parmigiano Reggiano 48/72 mesi, pecorini, tome, primosale. Stimolano la salivazione e non soverchiano gli altri sapori. Sbizzarritevi anche con la forma: briciole, petali, scaglie o fiammiferi.

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IL RISO ROMA La varietà Roma è il compromesso ideale, col suo chicco lungo, affusolato e perlato. Assorbe bene i liquidi grazie alla sua corposità, caratteristica fondamentale per la riuscita di un buon timballo, sformato o riso in bianco. Nato nel 1931, si coltiva in tutte le terre da riso della nazione: dai prevedibili Lombardia e Piemonte alla Sardegna.

La ricetta del riso per assorbimento Dosi per 8 persone

1 kg di riso Roma / Baldo / Carnaroli / Ribe / Jasmine 2 l di acqua

Anche il riso Baldo e il Carnaroli si prestano allo scopo.

“Ma mia mamma fa l’insalata di riso con quello parboiled da una vita e viene un bijoux!” Non lo metto in dubbio, ma la mia insalata di riso non nasce per essere mescolata, non necessita di un chicco che rimanga turgido a contatto con ingredienti ricchi di umidità. Per questo vi sconsiglio di utilizzarlo, con il beneplacito delle vostre mamme (per saperne di più sul riso parboiled e sulla cottura per assorbimento, andate all'approfondimento a pagina 50). Mettete il riso in uno scolapasta o in un colino a maglie fini e sciacquatelo abbondantemente con acqua fredda. Servirà ad eliminare l’amido in eccesso. Trasferite il riso in un tegame e versate l’acqua a temperatura ambiente, mescolando continuamente fino a quando i chicchi diventano “gessosi” e opachi (da 1 a 3 minuti). Alzate la fiamma e portate ad ebollizione. Abbassate la fiamma, coprite con il coperchio e cuocete a fuoco lento fino a quando tutto il liquido non sarà stato assorbito.

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Verdure e ortaggi per l'insalata scientifica

PISELLI, FAGIOLINI E FAVE: LA COTTURA Per verdurine ancora croccanti, impostate il bagno termostatico a 84°C. Cuocete 500 grammi di ogni ingrediente, sempre per 8 commensali. Per i piselli. Inserite i piselli sbianchiti (o surgelati) in un sacchetto con poca scorza di limone, olio extravergine di oliva, un pizzico di aglio in polvere, sale e pepe. Cuocete per 20 minuti (fino ad un’ora). Per le fave. Come sopra, ma condendo con olio, sale, pepe e qualche foglia di basilico (anch’esso sbianchito). Cuocete per 20 minuti (fino ad un’ora). Per i fagiolini. Fagiolini sbianchiti nel sacchetto, filo d’olio, sale, pepe e buccia di lime. Cuocete per 20 minuti. PATATE, CAROTE E LEGUMI Anche in questo caso, per ottenere la sfumatura di cottura ideale affidatevi al sous vide. Per le carote. Ve ne basteranno 6. Preparate il sous vide e preriscaldatelo a 84°C. Tagliate le carote a filetti, in senso verticale. Nel sacchetto aggiungete un pezzetto di burro, rametti di timo delle dimensioni di un pollice, mezzo cucchiaio di scorza di limone, un pizzico di sale e pepe. Tenete il sacchetto nel bagno termostatico per un’ora. Poi raffreddatelo immediatamente con acqua e ghiaccio e conservatelo in frigo, senza aprirlo. Per le patate. I nostri tuberi preferiti vanno nel sous vide a 90°C per 90 minuti. Tagliate 1 kg di patate (pelate) a cubetti o a fette spesse e lasciate cuocere con una nocina di burro, sale e pepe macinato grossolanamente. Raffreddate e mettete da parte. Per i legumi secchi (fagioli, ceci, cicerchie). Immergete 200 grammi di legumi secchi in un litro di acqua per 16 ore, parcheggiateli in frigorifero. Quindi trasferiteli nei sacchetti, aggiungete 400 grammi di acqua e cuoceteli a 90°C per 75/90 minuti. Fate raffreddare e conditeli con olio extravergine di oliva, sale, pepe e una cipolla di Tropea affettata finemente e sbianchita in acqua fredda e aceto di mela in rapporto 1:1.

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PEPERONI, MELANZANE E ZUCCHINE Conoscete l’ember roasting? Non è un incantesimo di Dungeons&Dragons ma la cottura a contatto diretto con le braci. Gli alimenti più idonei a questa tecnica sono senza ombra di dubbio le verdure: la loro buccia è perfetta per schermare il calore delle braci e proteggerne il cuore. Inoltre, data l’importante presenza di acqua di vegetazione, la cottura della polpa interna avverrà grazie al vapore generato dal calore. La procedura da seguire è semplice: assicuriamoci che il carbone sia ben acceso e con un leggero velo di cenere bianca, poi prendiamo l’alimento e lo posizioniamo sulle braci. Più volte andremo a girarlo, più il sentore di affumicato della polpa sarà intenso, grazie alla maggiore quantità di buccia interessata dalla carbonizzazione superficiale. Una volta che il nostro ortaggio sarà cedevole al tatto e avvizzito andante alla vista sarà pronto per essere tolto dalla cottura, pulito dalle parti carbonizzate e utilizzato per altre preparazioni. Provateci coi peperoni, per l’insalata ve ne basteranno 4: vanno girati più volte in modo da carbonizzare più pelle possibile, in questo modo sarà più facile eliminarla dopo la cottura. Per capire quando sono pronti è sufficiente bucarli con uno stuzzicadenti o con la punta di un termometro per alimenti. La punta dovrà entrare senza incontrare resistenza ma senza sfilacciare la polpa. I peperoni dovranno essere spellati e andranno rimossi semi e filamenti interni prima del successivo utilizzo. Provate a tagliarli a listarelle e a condirli semplicemente con olio, aglio e un trito di erbe aromatiche. Lasciate che si insaporiscano per un paio d’ore e poi serviteli col riso. Se volete, potete spruzzare qualche goccia di limone per donare una punta di acidità. Non potete accendere il dispositivo o siete a secco di carbone? Sfiammate il peperone con un cannello, come ho fatto io. Una volta fiammeggiato a modino, grattate via la pelle bruciacchiata con il dorso di un coltello, eliminate i semini e tutto il resto e tagliate a listarelle, come descritto sopra.

VERDURE: COME PRESERVARE IL COLORE VERDE Cos’hanno in comune i fagiolini, i piselli e le fave? Esatto, il colore verde. Una connotazione cromatica difficile da preservare in presenza di calore. Per fortuna noi conosciamo il metodo scientifico per risolvere il problema.

E le melanzane? Prendetene due, di grosse dimensioni (lunga viola, napoletana o violetta palermitana), tagliatele a fette spesse 5 mm o a striscioline e fatele asciugare in forno ventilato a 50°C per 30-60 minuti. Il passaggio a contatto con il calore secco servirà ad asciugare la superficie e favorire la formazione della crosta di cauterizzazione. Quindi friggete le melanzane in olio di semi di arachidi a più non posso e tenetele da parte.

Piccolo segreto dello chef: per preservare la brillantezza in maniera ancora più efficace potete aggiungere un pizzico di acido citrico o in alternativa un cucchiaino di succo di limone.

L’ossidazione è un processo noto ed è causato da un complesso di enzimi che si chiamano polifenolossidasi. Vi basterà immergere l’ingrediente per 10 secondi nell’acqua bollente, poiché l’enzima si disattiva tra gli 80°C e i 95°C, e poi immediatamente in acqua e ghiaccio per ottenere verdurine quasi fosforescenti.

Fate la stessa cosa con le zucchine, 4 saranno sufficienti. Tagliatele a rondelle spesse 3mm e sistematele su una teglia forata. Lasciatele essiccare a 50°C per mezzo’ora e friggetele in olio di semi di arachidi bollente (160°C-180°C). Una volta freddate, conditele con abbondante basilico e aceto balsamico. INSALATE

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Cipollotti marinati per l'insalata scientifica Dosi per 8 persone

4 cipollotti freschi 3 parti di aceto di vino rosso 1 parte di succo di arancia sale q.b.

Bilanciare un’insalata di riso con più elementi acidi è fondamentale. Il topping che manca al nostro piatto freddo del cuore è il cipollotto marinato, che si fa così: liberate i cipollotti dalla parte verde apicale, tagliateli a filetti e immergeteli in una miscela di aceto di vino rosso e succo d’arancia appena spremuto. Lasciate ammalvire e scolate il tutto, risciacquate velocemente sotto un getto di acqua freddissima e condite con olio extravergine di oliva, chiffonade di basilico (tagliato in filamenti) e sale.

Il dressing per l'insalata scientifica

LE SALSE PER L'INSALATA SCIENTIFICA Partiamo con il classico dei classici, la ricetta del secolo, il cibo degli dei. Iniziamo con la mia salsa (e cosa) preferita al mondo: la maionese. La maionese è un’emulsione di olio, senape e una parte acida tenuta insieme dall’uovo che fa da agente emulsionante. Olio e acqua non si mescolano, lo sanno proprio tutti. Eppure pochi sanno perché. Le molecole d'acqua sono elettricamente sbilanciate, o polari: ognuna ha una leggera carica positiva intorno all'atomo di ossigeno e cariche negative parziali intorno ai due atomi di idrogeno. Le molecole d'acqua tendono quindi a legarsi tra loro perché l'estremità negativa di una attrae l'estremità positiva di un'altra. Ma le molecole di olio, essendo apolari non interagiscono così bene con l'acqua come l'acqua si mescola con se stessa. Infatti, gli scienziati si riferiscono ai grassi come molecole idrofobe, ovvero che “temono” l'acqua. Se mescoliamo molto forte acqua e olio, questo si frammenterà in goccioline piccole piccole, che tuttavia non si scioglieranno mai veramente nell'acqua. A occhio nudo può sembrare che si mescolino perché le goccioline sospese hanno la capacità

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di diventare microscopiche. Le emulsioni sono meta-stabili, significa che, trascorsa una frazione di tempo, si separano negli elementi che le compongono. Ma questo non vuol dire che non si possa fare nulla per legare più a lungo queste componenti. Le goccioline d'olio o le bolle d'aria sospese in un liquido sembrano e si comportano come particelle solide. Queste particelle influenzano la capacità dell'acqua di muoversi e quindi conferiscono alla miscela proprietà distintive. In qualsiasi emulsione, sono due gli elementi imprescindibili: olio (o grasso liquido) e acqua (o qualsiasi liquido a base d'acqua). Uno di questi elementi svolge il ruolo della fase continua (detta anche fase disperdente), che è la porzione che sospende le goccioline dell'altro elemento, detta fase discontinua o dispersa. Se la fase continua è acqua e la fase dispersa è olio, questa viene chiamata emulsione olio-acqua, o emulsione O/A. Il latte, allo stato naturale, è un'emulsione O/A con particelle di grasso di latte disperse in tutta la fase acquosa continua. Anche la panna e la maionese sono emulsioni O/A. Per quanto riguarda il rovescio della medaglia, il burro è un esempio di un'emulsione acqua-in-olio, o emulsione A/O. Qui un elemento oleoso (grasso del burro) sospende uno stato disperso dell'acqua dalla panna. Una parte del grasso del burro si solidifica in minuscoli cristalli che aiutano a stabilizzare l'emulsione. E come facciamo per rendere stabile un’emulsione? Ridurre le goccioline alla dimensione più piccola possibile aiuta a creare un composto relativamente stabile per sua natura. Ma per far sì che l’emulsione duri a lungo è necessario aggiungere un emulsionante, un agente che aiuti a creare o a rompere un’emulsione. Di base, le miscele di emulsionanti funzionano meglio di un emulsionante solo. Una regola generale è che il volume di un emulsionante O/A deve essere circa il 5% del volume della fase oleosa. Uno tra gli emulsionanti più potenti ce l’avete in cucina, è il tuorlo d’uovo, ricchissimo di lecitine. Detto questo, passiamo alla parte divertente.

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Maionese classica

Dosi per 400 g circa

1 uovo intero (56 g) 2 tuorli (36 g) 20 g di senape 125 g di olio di semi 125 g di olio extravergine d'oliva 10 g succo di limone 10 g di aceto distillato di alcol (o aceto bianco) 3 g di sale

Prendete 3 uova e sistematele in un bagno termostatico a 57°C per 1 ora e 15 minuti. Questa è una tecnica di pastorizzazione molto rapida ed affidabile. Terminata la pastorizzazione, versate nel bicchiere del mixer i tuorli e l'uovo intero, il succo di limone, la senape e il sale. Iniziate ad emulsionare con il mixer ad immersione (se non si emulsiona subito il tuorlo tende a coagulare). Versate a filo, molto lentamente, l'olio continuando sempre a frullare. Proseguite con l'olio extravergine d’oliva versato sempre a filo. Terminate con l'aceto continuando ad emulsionare ancora un attimo, vedrete che entro pochi minuti acquisirà la consistenza giusta. Questa maionese si conserva in frigo per due settimane.

Maionese al pomodoro

Prendete dei pomodori da insalata, quelli tondi andranno benissimo. Privateli della polpa e dei liquidi di vegetazione e tenete da parte le coste, per fare un concassé (una dadolata, insomma).

4 tuorli (145 g circa) pastorizzati (come sopra) 145 g di polpa di pomodoro olio extravergine d’oliva q.b. 3 g di sale

Filtrate la polpa con un colino ed eliminate tutti i semi, quindi emulsionate con il frullatore ad immersione con il sale. Aggiungete l’olio extravergine di oliva a filo ed emulsionate fin quando la maionese non diventa come in foto

Dosi per 400 g circa

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Se avete svolto tutti i compitini, vi ritroverete con tutta questa sfilza di ingredienti già belli che pronti. Facciamo l’elenco di rito.

Insalata di riso scientifica

Predisponete un piatto piano bello spazioso per ogni commensale e impiattate 150 grammi circa di riso cotto (leggermente sgranato con poco olio), giusto nel mezzo. Divertitevi a disporre a raggiera tutti i topping, lasciando agli ospiti la libertà di dosarli in base ai propri gusti. Non vi scordate di accompagnare l’insalata di riso con due ciotoline o due piccoli squeezer riempiti di maionese e maionese di pomodoro.

1 kg di riso cotto e raffreddato 6 carote a filetti già cotte 8 fettine di limone fresco 100 g di cucunci (frutti del cappero) 200 g di olive verdi in salamoia 2 ravanelli tagliati a fettine sottilissime 300 g di prosciutto crudo a listerelle 300 g di mortadella tagliata a tocchetti 4 peperoni già pronti 4 zucchine fritte 500 g di fagiolini al lime Concassé di pomodori avanzati dalla maionese 200 g di olive nere sott'olio 4 cipollotti marinati 500 g di piselli pronti 1 kg di patate lesse e condite 2 melanzane già fritte 500 g di fave o fagioli/ceci 1 mela verde tagliata a fettine 250 g di frutta secca mista e tostata (noci, anacardi, mandorle, pistacchi, noci di macadamia, arachidi, noci brasiliane ecc..)

Sedetevi con i vostri compagni di desco e godetevi lo spettacolo delle menti creative e affaccendate ad assemblare l’insalata di riso più bella e più buona. Subito dopo, con piglio da strateghi delle padelle, riflettete sulla frase che segue.

“Fare una buona insalata di riso vuol dire essere un diplomatico

Dosi per 8 persone

da accompagnare con Maionese classica Maionese di pomodoro

brillante, il problema è identico in entrambi i casi: sapere esattamente quanto olio bisogna mettere assieme all’aceto.”

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5.2 – TABULÈ Il tabulè, tabbouleh o anche taboleh o tab(b)uli è un’insalata a base di prezzemolo. Lo confesso subito, così togliamo di mezzo ogni possibile fraintendimento: io amo la versione libanese. Anzi non la amo, la adoro con sentimenti profondi. Questo perché ho vissuto un lungo periodo in Libano ed è un posto magico che mi è rimasto nel cuore. Soprattutto la sua cucina. La cucina libanese è “strana”. Perché per quanto sia un paese a dominanza araba non conserva le caratteristiche tipiche dei piatti tipici del Medioriente. Il Libano è limone, menta, freschezza. Quasi totale assenza di piccante. Sumac, cetriolo, aglio, pochissime spezie invadenti. È una cucina rinfrescante, molto mediterranea, più vicina a quella greca che a quella tipicamente mediorientale fatta di spezie e sentori piccanti. La prima volta è stato complesso mangiare il tabulè. Perché non ero abituato a quella dominante di prezzemolo. Ma la freschezza che restava alla fine era deliziosa. A fare da spalla c’era sempre il bulgur, che è semplice grano spezzato e cotto al vapore. Nella versione libanese, la massa presente in maggiore quantità non è il bulgur ma il prezzemolo. Poi c’è il cipollotto, i cubetti di pomodoro, una generosa manciata di menta, una generosissima dose di olio extravergine d’oliva e tantissimo succo di limone. Quando di stagione, si mettono anche dei cubetti di cetriolo. Che personalmente adoro oltremisura. Sovente, si mangia con il cucchiaio. Accompagnata dall’immancabile pita e due piattini: uno di Labneh, yogurt colato con aglio, menta e olio extravergine, e l’altro con crema di aglio da strofinare sul pane. Non credo di aver passato un giorno senza mangiare il tabulè durante tutta la mia permanenza in Libano. E per quanto io non lo prepari spesso, sento di avere una profonda connessione con questo piatto. Prenderò in considerazione questa versione quindi. Perché quella siriana e palestinese hanno più bulgur che prezzemolo. Non è certo cattiva ma è un altro piatto, con altre sfumature di gusto. Come si può migliorare un piatto che sembra già essere perfetto di per sé? Forse non tantissimo, ma ritengo che ci sia sempre qualcosa che si può migliorare, quantomeno in cucina. E dove davvero non si riuscisse a migliorare, si potrebbe sempre rendere un piatto molto più aderente al nostro gusto personale, no? Nella mia esperienza il tabulè era quello che chiamavo “apri fame”. Veniva sempre servito come pietanza di apertura insieme alla pita e alla crema di aglio, il toum, un classico immancabile nelle tavole libanesi. Il toum non è altro che aglio crudo emulsionato con olio, sale e succo di limone. Si ottiene una crema bianca dal gusto incredibilmente potente. Se amate l’aglio non potete non adorarla. Per il mio palato, alternare 228

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bocconi di insalata di prezzemolo a pezzi di pita con crema di aglio era un connubio di goduria perfetto. A tal punto che se per caso, qualche volta, non c’era il Toum in tavola, preferivo aspettare prima di iniziare il mio rituale. Ed è quindi in questa direzione che ho voluto proiettare le cose. L'INGREDIENTE PORTANTE: PETROSELINUM CRISPUM Anche se la famiglia delle carote ha dato meno piante aromatiche in Europa rispetto alla famiglia della menta, ne include diverse che forniscono potere aromatico sia come erba che come spezia (alcune anche come verdure). I membri della famiglia delle carote crescono in condizioni meno estreme rispetto alle mentine mediterranee, sono generalmente tenere biennali piuttosto che arbustive o legnose perenni, e hanno sapori che sono generalmente più miti, a volte anche dolci. I semi (in realtà piccoli frutti secchi) possono contenere difese chimiche - sono quindi spezie - perché sono abbastanza grandi e allettanti per insetti e uccelli. La miristicina, un terpene condiviso da aneto, prezzemolo, finocchio e carote, e che dà loro una comune nota legnosa e calda, è probabilmente una difesa contro le muffe. Le erbe della famiglia delle carote hanno ghiandole oleifere difensive all'interno delle loro foglie, non sulle superfici. Le ghiandole si raggruppano intorno a lunghe venature e le riempiono di olio essenziale. Il prezzemolo è originario dell'Europa sudorientale e dell'Asia occidentale; il suo nome deriva dal greco e significa "sedano di pietra". È una delle erbe più importanti nella cucina europea, forse perché il suo sapore caratteristico (che deriva dal mentatriene) è accompagnato da sentori freschi, verdi e legnosi che sono un po’ ruffiani e quindi completano molti cibi. Quando il prezzemolo viene tritato, la sua nota distintiva svanisce, le note verdi diventano dominanti e si sviluppa una connotazione leggermente fruttata. Esistono varietà a foglie ricce e piatte con caratteristiche diverse; le foglie piatte hanno un forte sapore di prezzemolo quando sono giovani e solo in seguito sviluppano una nota legnosa. Le foglie ricce, invece, all’inizio presentano un sapore dolce e legnoso e sviluppano il carattere “prezzemolato” quando sono più mature.

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COS'È IL COUS COUS Di origine maghrebina, primordiale e leggero, viene servito con carne, pesce o verdure. In passato, l’ingrediente base del cous cous era principalmente la semola di grano, Triticum durum, quella farina granulosa frutto di una macinatura grossolana, ottenuta da macchine primitive. Oggi con questo nome ci si riferisce anche ad alimenti preparati con cereali diversi, come orzo, miglio, sorgo, riso, o mais. Il cous cous può essere fine, medio o grosso, bianco o bruno, e può essere cucinato con burro, olio, speziato o no, salato o dolce. L’ORIGINE Dicevamo, il cous cous affonda le sue radici nel Maghreb, terra dei Berberi, la popolazione indigena dell’Africa Settentrionale. Il processo di cottura tipico del cous cous, la cottura a vapore sul brodo in una pentola speciale, potrebbe avere avuto origine prima del decimo secolo in un'area dell'Africa Occidentale che comprende gli attuali Niger, Mali, Mauritania, Ghana, e Burkina Faso. Il cous cous ha viaggiato nell'Africa subsahariana, dal Ciad al Senegal, per raggiungere i paesi mediorientali e diventare uno dei piatti più diffusi in Francia, in Grecia e in tutto il bacino mediterraneo, soprattutto in Sardegna (Carloforte), nel livornese e nel trapanese (San Vito Lo Capo). LE RICETTE COL COUS COUS Questa semola si presta a una varietà infinita di piatti: da quello più semplice con lo smen, un burro “fermentato" e un bicchiere di latte cagliato, ai ricchissimi cous cous delle feste di matrimonio serviti con broccoli, carne di maiale o preparati nella versione dolce, con cannella, uva passa, fichi, mandorle e pistacchi. Il condimento classico del cous cous è quello con la carne di montone, di agnello, di pollo o anche di manzo a cui possono essere aggiunti altri ingredienti a piacere. Anche gli aromi possono variare. Si può per esempio unire in cottura alla zuppa di pesce una bustina di zafferano, o sedano, oppure alcune foglie di alloro. INSALATE

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La lavorazione tradizionale del cous cous 232

MACINATURA Il lavoro comincia con la macinatura del grano al mulino e con la setacciatura della semola dividendo il grosso dal fine. Durante questa fase viene recuperato anche lo "spezzato" utile a preparare il "burghol" o il "tabulè". La mafaradda siciliana è l'antico e tradizionale piatto largo e basso, a pareti svasate, di legno o di terracotta, utilizzato anche come piatto di portata, in cui si versa la farina di semola, un bicchiere d’acqua, un grosso pizzico di sale e, in qualche regione, piccole quantità di farina.

L’INCOCCIATURA Si spruzza dell’acqua salata, e si inizia a "incocciare", ossia a lavorare la semola con le mani, con le dita leggermente aperte e il palmo sollevato, con movimenti circolari, sempre nella stessa direzione, fino a ottenere delle palline non più grandi di una capocchia di spillo. Si continua a lavorare la semola fino ad ottenere delle palline piccolissime che vengono versate in un piatto fondo di vimini, per essere separate le une dalle altre. Vengono lasciate asciugare un quarto d’ora in un cestino e poi si ricomincia a lavorare , come si suol dire a "rotolare" il cous cous per farlo passare attraverso setacci di diverse dimensioni. Deve essere lasciato asciugare per tre ore su una tovaglia e conservato in un luogo molto asciutto o in giare di terracotta ermeticamente chiuse. Le dimensioni dei granelli determinano la tipologia di cous cous: • Il cous cous più grande, chiamato m’hamas, è della dimensione di granelli di pepe. • I granelli di dimensione media sono quelli utilizzati più comunemente. • Il cous cous fine si usa nei dolci o col pesce. • L’ultimo setaccio divide il cous cous grosso dalla "mazlouga" che è in tutto e per tutto simile alla fregola sarda e si usa nelle minestre invernali. Questo procedimento richiede una lavorazione molto lunga. CODICE LO CASCIO


MODALITÀ DI COTTURA Dovrebbe essere passato al vapore due o anche tre volte. Quando è cotto come si deve è morbido e leggero, non dovrebbe essere gommoso né formare grumi. LA CUSCUSSIERA Il cous cous va cotto a vapore in un tegame simile ad uno scolapasta: la cuscussiera. È costituita da due parti, quella inferiore, e quella superiore forata tipo scolapasta. Come si usa la cuscussiera? 1. Nella parte bassa si mette abbondante olio extravergine d’oliva, qualche spicchio d’aglio, spellato o in camicia, e un piccolo peperoncino. Si rosola a fuoco vivo con qualche spezia e si aggiunge un brodo di carne, o di pesce o di verdure. 2. Quando dalla couscousiera usciranno dei fumi vorrà dire che l'acqua (o brodo) bolle. 3. A questo punto si adagia lentamente il cous cous inumidito e sgranato. Si regola il fuoco ad intensità media e si sistema un canovaccio di cotone sopra la cuscussiera per non disperdere il vapore. 4. Dopo cinquanta minuti circa si rovescia il contenuto in un grande piatto, largo abbastanza per continuare a sgranare e inumidire la semola lentamente e a piccole quantità con due bicchieri d'acqua e mezzo bicchiere d’olio. Poi si aggiusta di sale. Se l'acqua dentro la cuscussiera si dovesse asciugare troppo se ne aggiunge altra e mentre si sgrana il cous cous si aspetta che riprenda il bollore. 5. Appena bolle si rimette la pentola con i buchi e si riadagia sopra il cous cous. 6. Si aspettano altri 50 minuti e si rifà lo stesso lavoro senza aggiungere olio ma solo un po' d'acqua. Alcuni fanno quest'ultima sgranata con il brodo cotto nella cuscussiera. IL COUS COUS PRECOTTO Se non si ha tempo o manualità, si può utilizzare il cous cous precotto che si trova facilmente anche nei supermercati. È solitamente passato al vapore una prima volta e poi essiccato, e le istruzioni sulla confezione consigliano di aggiungervi un po' di acqua bollente per poterlo servire. Questo metodo è semplice e rapido: basta mettere il cuscus in una ciotola e versarvi sopra l'acqua o il brodo bollente, coprendo poi la ciotola. Il cous cous si gonfia e nel giro di pochi minuti è pronto da servire, dopo averlo però sgranato con una forchetta. Diversamente da come indicato sulle confezioni, potete cucinare il cous cous precotto anche a vapore. Cuocendolo così per un’ora e più, mescolando spesso per evitare i grumi, si ottiene una semola più soffice.

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Il cous cous nel mondo

TUNISIA E MAROCCO Questo piatto è l'alimento tradizionale di tutto il Nordafrica (Algeria, est del Marocco, Tunisia, e Libia). In Algeria, Tunisia e Marocco, il cous cous viene generalmente servito con verdure (carote, rape, ecc.) lessate in un brodo più o meno piccante, e qualche tipo di carne (di solito, pollo, agnello o montone); in Marocco, si può trovare anche del pesce in salsa agrodolce con uvetta e cipolle; in alcune regioni della Libia si usano pesce e calamari. Il brodo della carne in Tunisia è rosso, fatto con pomodoro e peperoncino, mentre in Marocco di solito è giallo Oltre che nel Maghreb, è molto diffuso anche nell' Africa Occidentale. ISRAELE Conosciuto anche come cous cous in perle, è una versione a grani più grossi, che viene servito in modi diversi. EUROPA In Francia è il secondo piatto preferito dai francesi. È molto consumato anche in Belgio. SARDEGNA Il cascà o cashcà è una variante del cous cous, rappresentava un piatto povero ed era condito con cavolo cappuccio, cavolfiore o ceci. Col tempo il piatto si è evoluto, ed alla ricetta base si sono aggiunte le verdure di stagione e la carne suina. Il piatto si è trasformato in cibo della festa in epoca recente, preparato soprattutto in occasione della festa patronale di San Carlo. La lavorazione con le mani è un po' diversa da quella siciliana o nordafricana. Inoltre in Sardegna viene lavorato su un tagliere piano (quello di Carloforte è tipico) SICILIA A San Vito Lo Capo e in tutta la costa trapanese, da Mazara del Vallo a Marsala sino alle isole Egadi, il cous cous si è sposato con la tradizionale zuppa di pesce, la "ghiotta", sostituendo il pesce alla carne, ingrediente tradizionale dei Berberi. Quello preparato nel trapanese è cotto a vapore in una speciale pentola (cuscussiera) di terracotta smaltata (vedi sopra). Un'altra fondamentale differenza tra cous cous siciliano e tunisino sta nel modo di incocciare, cioè lavorare a mano la semola, che è più grossa nel Trapanese per la tipologia delle macine dei mulini locali. GLI UTENSILI DEL COUS COUS IN SICILIA Cuscussiera. Ve l'ho presentata poco più su. La cuscussiera in Sicilia è, spesso, di terracotta smaltata, ma la si trova anche di rame o alluminio. Mafaradda. Apposito contenitore siciliano di terracotta verniciata a pareti ricurve e fondo piatto, in cui vengono legati i granelli di semola. Lemmo. Chiamato lemmu in Sicilia, è il recipiente di terracotta verniciata svasato che serve a contenere la semola già lavorata.

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COME SI MANGIA Nella tradizione africana il cous cous viene consumato seduti tutti insieme attorno a un grande piatto rotondo con la carne o il pesce e le verdure al centro. Il brodo viene servito in una ciotola a parte, e ogni commensale può aggiungerlo a piacere. Prima di iniziare il pasto a base di cous cous viene sussurrato "Biss’mi Allah" ("in nome di Dio"), una preghiera di benedizione per la mensa. Poi si procede affondando le tre dita della mano destra nel cous cous, come precisa il corano, poiché con un dito mangia il diavolo, con due il profeta e con cinque l’ingordo. Si forma con le mani una pallina di semola sgranata attorno a un pezzetto di verdura o carne o pesce utilizzando le mani, ognuno attinge alla porzione davanti a sé nel piatto. Per servirsi non si utilizzano posate ma pane non lievitato. In una ciotola a parte viene servita l’harissa, una salsa molto piccante a base di peperoncino rosso fresco, aglio, olio d’oliva e tipica del Nordafrica. L'harissa ha la consistenza di una pasta.

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IL LIMONE Gli agrumi sono tra i più importanti frutti arborei. Dal loro luogo di nascita nella Cina meridionale, nell'India settentrionale e nel Sudest asiatico si sono diffusi in tutte le zone subtropicali e temperate miti del mondo. Il commercio antico portò il cedro nell'Asia occidentale e nel Medio Oriente prima del 500 a.C., fu così che i crociati medievali ritornarono in Europa con un bel po’ di arance aspre; i commercianti genovesi e portoghesi introdussero le arance dolci intorno al 1500 e gli esploratori spagnoli le esportarono nelle Americhe. Perché gli agrumi sono così popolari? C'è da dire che offrono un'insolita serie di virtù. Le loro bucce hanno aromi distintivi e forti, è questo che li ha resi attraenti dal principio, ben prima che la selezione da parte dell’uomo sviluppasse cultivar dal sapore più amabile. Le varietà migliorate hanno un succo rinfrescante, da aspro a dolce, che può essere estratto anche da poca polpa. La buccia è ricca di pectine che creano gel. Gli agrumi sono anche abbastanza robusti. Sono non climaterici: ciò significa che mantengono le loro qualità per un po' di tempo dopo il raccolto, e la buccia carnosa offre una buona protezione contro i danni fisici e l'attacco di microbi guastafeste. ANATOMIA DEGLI AGRUMI Ogni segmento di un agrume è un compartimento dell'ovario ed è pieno di piccole sacche allungate chiamate vescicole, ognuna delle quali contiene molte cellule di succo, microscopiche e individuali, che si riempiono di acqua e sostanze dissolte man mano che il frutto si sviluppa. Intorno agli spicchi c'è uno strato spesso, bianco e spugnoso chiamato albedo, solitamente ricco sia di sostanze amare che di pectina. E sopra all'albedo c'è la buccia, uno strato sottile e pigmentato con minuscole ghiandole sferiche che creano e conservano oli volatili. Flettendo un pezzo di buccia di agrumi le ghiandole oleifere scoppiano e proiettano uno spruzzo visibile, aromatico - e infiammabile - nell’aria. COLORE DEGLI AGRUMI Gli agrumi devono i loro colori giallo e arancione ad una complessa miscela di carotenoidi, di cui solo una piccola parte è disponibile come vitamina. Le bucce dei frutti sono inizialmente verdi e ai tropici spesso rimangono tali anche quando il frutto matura. In altre regioni, le temperature fredde innescano la distruzione della clorofilla nella buccia e i carotenoidi diventano visibili. I frutti in commercio vengono spesso raccolti verdi e trattati con etilene per migliorarne il colore e ricoperti con una cera commestibile per rallentare la perdita di umidità. I pompelmi rosa e rossi sono colorati dal licopene e le arance dolci rosse da una miscela di licopene e betacarotene e dalla criptoxantina. Il rosso porpora delle arance rosse deriva dalle antocianine. SAPORE E AROMA DEGLI AGRUMI Il sapore degli agrumi è creato da una manciata di sostanze, tra cui l'acido citrico (così chiamato perché è tipico di questi frutti), zuccheri e alcuni composti fenolici amari, che di 236

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solito sono concentrati nell'albedo e nella buccia. Gli agrumi sono sorprendentemente ricchi dell'aminoacido glutammato, rivaleggiando con il pomodoro (le arance raggiungono 70 milligrammi per 100 grammi, i pompelmi 250 mg). Contengono poco amido e quindi non si addolciscono molto dopo la raccolta. Di solito l'estremità del frutto in fiore contiene sia più acido che più zuccheri, e quindi ha un sapore più intenso dell'estremità attaccata al ramo. I segmenti vicini possono variare significativamente nel gusto. L'aroma degli agrumi è prodotto sia dalle ghiandole oleifere nella buccia che dalle goccioline d'olio contenute nelle vescicole del succo. Generalmente gli oli delle vescicole contengono più esteri fruttati e l'olio della buccia più aldeidi verdi e terpeni agrumati/speziati. Alcuni composti aromatici sono condivisi dalla maggior parte degli agrumi, tra cui il limonene genericamente agrumato e piccole quantità di idrogeno solforato. Nel succo appena fatto, le goccioline di olio del sacco si aggregano gradualmente con i materiali polposi e questa mescolanza riduce l’intensità dell'aroma, specialmente se parte della polpa viene filtrata. TIPI DI AGRUMI Gli alberi del genere Citrus sono meravigliosamente vari e inclini a formare ibridi tra loro, il che complica la determinazione dei rapporti di parentela da parte degli scienziati. Attualmente si pensa che i comuni agrumi addomesticati derivino tutti da tre soli “genitori”: il cedro Citrus medica, il mandarino Citrus reticulata e il pomelo Citrus maxima.Almeno un discendente è relativamente giovane: il pompelmo ha apparentemente avuto origine nelle Indie Occidentali nel 18° secolo come incrocio tra il pomelo e l'arancia dolce. I limoni potrebbero aver avuto origine come ibrido in due fasi, la prima iniziata nella zona dell'India nordoccidentale e del Pakistan, la seconda nel Medio Oriente. Arrivarono nel Mediterraneo intorno al 100 d.C., furono piantati nei frutteti della Spagna moresca entro il XV secolo, ed ora sono coltivati principalmente nelle regioni subtropicali. Sono apprezzati per la loro acidità e il loro aroma fresco e brillante. Il succo di limone ha un pH estremamente basso (2,3 – 2,5) e proprietà altamente antiossidanti, caratteristiche che lo rendono ideale non solo in cucina, ma anche in cosmesi, farmacia e pulizia. È ricco di vitamina C, potassio e flavonoidi e vanta benefici anti-praticamente in tutti i campi (anticolesterolo, antibatterico, antinfiammatorio, antisettico, antianemico…), mentre è sconsigliato a chi soffre di gastrite. Forse avrete notato che i limoni sono sempre disponibili, e il merito non è solo della GDO. I frutti infatti giungono a maturazione in diversi periodi dell’anno a seconda delle fioriture. La prima, tra marzo e giugno, dà origine ai primofiore e ai limoni invernali, che maturano rispettivamente a settembre-ottobre e tra dicembre e aprile. La seconda fioritura (maggio-luglio) produce i bianchetti, i meno pregiati sul mercato che maturano tra marzo e maggio. Infine, la terza fioritura (agosto-ottobre) dà origine ai verdelli, frutti di giugno e luglio tra i più usati per la produzione di limoncello.

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Le cultivar di limone italiano

LIMONE FEMMINELLO COMUNE Il femminello è la cultivar italiana di limone in assoluto più diffusa. Il nome fa riferimento alla notevole fertilità con ben cinque fioriture annuali che danno origine, da settembre in poi, a primofiore, bianchetti, marzani, verdelli e bastardi. Il femminello viene coltivato soprattutto in Sicilia orientale e Calabria meridionale e vanta numerose selezioni clonali. Tra le più pregiate troviamo Zagara bianca dalla fruttificazione costante e produttiva, Siracusano o masculuni caratterizzato da vigoria e alta qualità dei frutti, Apireno Continella senza semi, Santa Teresa apprezzato per i verdelli, Dosaco a basso contenuto di semi e alta concentrazione di succo, Sfusato amalfitano ricco in olii essenziali. Ulteriori cloni sono Incappucciato, Lunario, Sfusato di Favazzina, Quattrocchi e Scandurra. Ce n’è per tutti i gusti, sia che vogliate utilizzare la buccia per profumare la casa, sia per il succo da spremere copioso sull’insalata e nell’impasto di una torta. LIMONE INTERDONATO Questo ibrido è diffuso quasi esclusivamente sul versante ionico messinese e a quanto pare è reduce di una storia avventurosa. Le sue origini si fanno risalire al veterano di guerra Giovanni Interdonato, già colonnello garibaldino il quale, ritiratosi a vita privata, pensò bene di darsi all’agrumicoltura. Da un incrocio “fortuito” tra cedro e il limone locale ariddaru spuntò questo ibrido di forma allungata e carattere decisamente poco agguerrito. Il succo infatti è delicato e poco acidulo e anche la buccia è più dolce che amara. LIMONE MONACHELLO Terminiamo la triade delle cultivar italiane “di base” con il monachello, limone utilizzato specialmente per la produzione di verdelli. Si distingue per la sua resistenza alle malattie, prima fra tutti il mal secco di origine fungina; tuttavia la pianta è poco produttiva e fruttifica piuttosto lentamente. I frutti hanno forma allungata e buccia liscia, hanno poco succo e sono generalmente meno acidi dei femminello. LIMONE COSTA D’AMALFI IGP Il limone da cartolina è proprio lui, affacciato sulle terrazze a picco sul mare della Costiera più famosa. Il limone Costa d’Amalfi IGP appartiene alla varietà Sfusato amalfitano, caratterizzato da forma ellittica e affusolata, polpa priva di semi e un profumo molto intenso, ricchissimo di olii essenziali. Recenti studi scientifici hanno addirittura dimostrato che il Costa d’Amalfi contiene almeno il doppio di composti aromatici rispetto a qualsiasi altro limone. Non sorprende dunque che pochi pezzettini di buccia uniti a ghiaccio tritato diventino un dessert fenomenale: cercate questa “grattachecca” artigianale nei chioschetti ambulanti a Positano, Ravello, Tramonti e tutti gli altri comuni di questo splendido pezzettino d’Italia. LIMONE DI SORRENTO IGP Aggrappato ai classici pergolati, il limone di Sorrento IGP è il tesoro giallo oro e profumatissimo della Penisola Sorrentina. L’ecotipo Ovale di Sorrento ha forma ellittica e dimensioni medio-grandi, ha succo abbondante e scorza intensamente aromatica. Il suo utilizzo più famoso è sicuramente nel limoncello.

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LIMONE DI SIRACUSA IGP Il limone di Siracusa IGP è un femminello portentoso: le sue fioriture consentono una produzione costante durante tutto l’anno e ogni frutto presenta caratteristiche ben precise. I primofiore di ottobre sono medio-grandi, ellittici e succosi; i bianchetti o maiolini di aprile sono grandi, gialli e di forma ovale; i verdelli di giugno sono sferici e caratterizzati dalla buccia verde chiaro. Oltre ai piatti tipici come ricotta infornata e arancine, il Siracusa IGP è ideale per i dolci. LIMONE DELL’ETNA IGP Non solo vite e vino: la fertilità del vulcano più alto d’Europa dà vita anche al limone dell’Etna IGP nelle varietà femminello e monachello. Entrambi producono frutti primofiore, bianchetto e verdello caratterizzati da colore giallo-verde, forma ellittica e succo aspro e abbondante. Per gustare appieno la “sostanza” del limone Etna non potete esimervi dal rituale dei chioschi di Catania, ovvero il seltz sale e limone per placare la sete estiva. LIMONE INTERDONATO MESSINA IGP L’Interdonato di Messina IGP è una specie sui generis, lo abbiamo già detto. Questo ibrido locale giovane e vigoroso (classe 1875, non ha ancora duecento anni di vita) si distingue per la buccia sottile, la forma ellittica dalle estremità verdoline e il basso contenuto in acido citrico che lo rende particolarmente dolce. Definito “il migliore da accompagnare al tè” per gli amanti del genere. LIMONE DI ROCCA IMPERIALE IGP Ci spostiamo in Calabria nella provincia di Cosenza per questa cultivar di femminello davvero speciale. Il limone di Rocca Imperiale IGP ha forma allungata, buccia dai colori tenui e polpa quasi priva di semi. Il suo sapore delicato, né acido né amaro, lo rende ideale per aromatizzare dolci e creme. LIMONE FEMMINELLO DEL GARGANO IGP Grazie a lui anche i pasticciotti acquistano (incredibilmente) una marcia in più. Il limone Femminello del Gargano IGP è una specialità pugliese della provincia di Foggia derivata dall’ecotipo di femminello comune detto Limone nostrale. La sua forza sta nell’intensità del profumo: la buccia è infatti particolarmente ricca di olii essenziali. La varietà si presenta con forme diverse (ellittica, ovoidale, globosa) a seconda della fioritura, ha polpa succosa e sapore citrino poco amaro. LIMONE DI PROCIDA L’Arca del Gusto Slow Food recupera questa varietà isolana di femminello ovale. Grosso, spesso e tutto da mangiare, il limone di Procida è anche detto “limone di pane” per via dell’albedo che in questo caso si rivela poco amaro e decisamente appetitoso. Sull'isola di Arturo, con questo limone ci fanno praticamente di tutto: da provare, una volta nella vita, la fenomenale insalata di limoni procidani.

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Tabulè

Ingredienti per 6-8 persone 500 g di cous cous 500 ml di acqua 1 kg di prezzemolo Un mazzetto di menta 250 g di pomodori da insalata Il succo di 3-4 limoni 2 cipollotti freschi Olio q.b.

Per la salsa di aglio 1 testa di aglio olio extravergine di oliva succo di 1-2 limoni sale q.b. pepe q.b.

Ci sono pochissimi ingredienti, soprattutto verdure da consumare crude. È scontato dire che bisogna trovare quelle di qualità superiore. Il bulgur non è sempre facile da reperire e si presta poco al procedimento a cui dovremo sottoporlo. Un perfetto sostituto, più semplice da acquistare e più adatto alla tecnica è il cous cous. Anche un buon cous cous precotto andrà benissimo. La prima cosa da fare è metterlo in padella con dell’olio e tostarlo a modino. Bisogna farlo diventare ben scuro e croccante. Una valida alternativa consiste nel tostarlo in forno. Va bene l’uno e l’altro modo. In padella si fa più in fretta ma bisogna rimestarlo in continuazione per non farlo bruciare. È qui che stiamo aggiungendo un po’ di scienza alla nostra preparazione.

Il cous cous, l’abbiamo detto, non è altro che semola di grano duro. È grano spezzato e ridotto in granuli. La grana è più fine rispetto al bulgur ma più grossolana se pensiamo alla polenta. Essendo semola sappiamo che al suo interno ci sono amidi, ovviamente, amilosio e amilopectina, ma c’è anche una buona quantità di glutine, quindi di proteine. Ricordiamo che per produrre la pasta si usa proprio la farina di grano duro per la sua quantità di proteine. Opzionale: yogurt intero

Cosa si verifica durante il momento di tostatura a secco? Due cose. La prima è la destrinizzazione dell’amido, la seconda è la reazione di Maillard. Nel cous cous, infatti, ci sono proteine (glutine), ci sono zuccheri riducenti (destrine derivanti dalla tostatura) e se quindi c’è anche il calore di certo si innesca la Reazione di Maillard. Se il vostro cous cous è precotto (e di base lo sono tutti) ha subito (aiutato anche dalla tostatura) quella che si chiama retrogradazione. La retrogradazione è una parziale ricristallizazione degli amidi gelificati (per tutti gli approfondimenti, andare a pagina 135). Dopo la tostatura, il cous cous sarà molto scuro e croccante. Basterà fargli assorbire acqua per renderlo nuovamente commestibile, ma con queste sfumature di sapore e colore assolutamente deliziose. Il cous cous avrà una dominante più dolciastra e il tipico sentore di crosta di pane appena sfornato. Una volta tostato lo idratiamo con acqua bollente, come si fa di solito. Una parte di acqua bollente per una parte di cous cous. Lo si lascia coperto per dieci minuti e l’acqua verrà completamente assorbita. Anche se l’amido è retrogradato a causa della tostatura, in men che non si dica, grazie all’acqua bollente, tornerà a gelatinizzare idratando e cuocendo la semola. Sgranatela bene e lasciatela da parte. Che sia ben sgranato, mi raccomando. Adesso tocca ai pomodori. Privateli dei semi, tagliate in quarti e ricavate una concassé. Facile facile. Mettete da parte. Se ne avete e vi piacciono e sono in stagione, fate anche una concassé di cetriolo.

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Passiamo al cipollotto. Di norma andrebbe tagliato crudo. Va bene anche una cipolla rossa o comunque che non sia troppo carica di vapori sulfurei. Se avete particolari criticità nella digestione della cipolla potete usare il solito modo per eliminare gli enzimi responsabili. E cioè? Prendete le cipolle così come sono, senza nemmeno pelarle, sistematele su una teglia rivestita di carta forno e mettetele in forno a 230°C fino quando non arrivano a 65°C interni. Per misurare la temperatura, utilizzate una cipolla “spia”, che infilzerete con la sonda e scarterete una volta pronta. Adesso possiamo pensare al prezzemolo. Non si butta nulla. Si usano sia i gambi che le foglie. Separate i gambi e tritateli molto, molto, molto finemente. Per le foglie potete usare un trito un po’ più grossolano. Considerate che il modo migliore di mangiare il piatto finito è con il cucchiaio, quindi fate in modo da non avere pezzi troppo grandi da masticare. La menta è imprescindibile. Per dare freschezza e per dare la tipica aromaticità alla ricetta. Usatene una bella manciata, non lesinate. Ci sta benissimo. Tritatela finemente in modo che possa nascondersi e amalgamarsi bene insieme alle foglie. Darvi delle dosi precise sarebbe complicato. Il mio consiglio è di trovare il vostro equilibrio. Ma per indicarvi la strada giusta vi illustrerò le giuste proporzioni di base. Per ogni “tazza” di prezzemolo, immaginate orientativamente 250 ml in volume, dovreste usare un cucchiaio di cous cous, uno di menta, uno e mezzo di limone e due cucchiai di olio. Quella è la partenza. Poi aggiungete uno o due pomodori a seconda della dimensione. Uno o due cipollotti a seconda di quanto ti piace sentirlo. Un quarto di cetriolo? Mezzo? Non è fondamentale. Lì si può certamente procedere per gusto. Se ai vostri ospiti non piace il cipollotto potreste virare sull’erba cipollina e metterne una bella manciata. Insomma, l’aroma di cipolla è caratterizzante del Tabulè. Il kick finale è il dressing, ma ricordate che è un plus. Il tabulè va comunque condito con olio e succo di limone, a prescindere se poi si usi il dressing oppure no. È il voler risentire quell’aroma un po’ scarico di aglio che il toum mi lasciava in bocca nei miei soggiorni libanesi. Si procede quindi al cuocere una testa d’aglio in forno a 100°C/130°C (per sapere di tutto e di più sulla cottura dell'aglio, andate a pagina 16). A questo punto liberiamo gli spicchi dalla buccia, mettiamo nel mixer e mettiamo tanto olio quanto aglio e succo di limone pari alla metà della quantità di olio. Una manciata di sale e pepe ed emulsioniamo il tutto fino ad ottenere una consistenza cremosa. Il risultato dev’essere una salsa abbastanza liquida. Nel caso non lo fosse potete allungare con un po’ d’acqua o di yogurt intero. SERVIZIO Non mischiate tutto subito. Condite prima il cous cous, ben sgranato, con l’olio. Assaggiate e regolate di sale. Condite poi il prezzemolo con l’olio e il limone assieme a tutte le verdure, tranne il cous cous. Regolate di sale e pepe anche qui. A questo punto potete aggiungere il cous cous condito. Mescolate molto bene perché tende a depositarsi sul fondo. Assaporate il tabulè e sorridete alla vita. Ma prima controllate di non avere del prezzemolo tra i denti. INSALATE

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6.1 – CLUB SANDWICH Chi ha stabilito che un grande pane con una grande mortadella non siano gourmet quanto Royal Beluga e Krug? Il lusso vero è fare quello che ci piace quando ci va, fosse anche mangiare un sandwich con pollo e bacon che scoppia di maionese. Il Club Sandwich è uno dei miei guilty pleasure. Tre strati di carboidrati imburrati e tostati che fanno quadrato tra succulenti straccetti di pollo, bacon sfrigolato e croccante, una botta fresca di insalata verde e pomodori affettati, il tutto avvolto e benedetto da un seduttivo strato di maionese. E il naufragar m’è dolce in questo mare. IL PANE Il segreto di un sandwich da primo premio è basato sulla scelta della materia prima. Ingredienti scelti con cura, pollo e bacon cotti a puntino e una salsa fatta in casa sono alla base del successo. Fossi in voi, per prima cosa, sceglierei del pane in cassetta di qualità; molti artigiani ne producono di straordinari. Cosa davvero molto importante: ricordate di imburrare appena il pane e tostarlo da entrambi i lati sulla piastra in ghisa prima di confezionare il sandwich. In questo modo otterrete sei strati tostati, profumati e molto saporiti. Montate il sandwich molto alto per massimizzare l’impatto visivo, ma ricordate poi di tagliarlo a triangoli o cubi da due o tre bocconi al massimo. Una preparazione molto ricca deve esaurirsi in pochissimi bocconi per non risultare stucchevole ed eccessiva. IL BACON È un salume tradizionalmente prodotto nei Paesi anglosassoni: Regno Unito, Irlanda, Stati Uniti e Canada. L’abbiamo conosciuto da bambini perché protagonista della full break­fast, la colazione americana e inglese dei campioni composta da bacon, uova strapazzate, funghi saltati, frittelle di patate, salsiccette, fagioli salsati, pomodori e un piccolo toast, che troppi carboidrati fanno male. Ve lo dico subito: Il bacon non viene prodotto solo con la pancetta ma anche con altri tagli del maiale, e prende nomi diversi a seconda del taglio utilizzato e della provenienza.

Bacon o "bacoun" è un vocabolo appartenente al Middle English (l’inglese parlato dal 1150 al 1500 d.C.) utilizzato per indicare la carne di maiale in generale. Deriva dal francese bako, dall'antico alto tedesco bakko e dall'antico teutonico backe, tutte parole che fanno riferimento al dorso dell’animale. Yorkshire e Tamworth sono le razze allevate per la produzione di questo delizioso salume. Sandwich e Burger

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Il bacon nella storia

L'espressione "portare a casa il bacon" ("bring home the bacon") risale al XII secolo, quando una chiesa di Dunmow, in Inghilterra, cominciò a donare una porzione di bacon a qualsiasi uomo che potesse giurare davanti a Dio e alla congregazione di non aver combattuto o litigato con la moglie per un anno e un giorno. Chi riusciva a"portare a casa il bacon" diventava l’eroe della sua comunità.

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Epoca romana Secondo gli storici dell'alimentazione, i Romani mangiavano un salume ricavato dalla spalla del maiale chiamato petaso, che era essenzialmente carne di maiale allevato e bollita con fichi, poi rosolata e condita con il pepe. 1600 La pancetta, una fonte di proteine relativamente facile da produrre e soprattutto economica, diventa un alimento cardine per i contadini europei. La pancetta affumicata, al contrario, diventa cibo per ricchi.

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1770 L’inglese John Harris si inventa la produzione industriale di pancetta su larga scala. Apre la sua azienda nel Wiltshire, considerato ancora oggi la capitale mondiale del bacon. 1924 Oscar Mayer introduce in America il bacon preconfezionato e preaffettato. 1990 Il bacon a fette non basta più a soddisfare i suoi estimatori. Nascono moltissimi spinoff del salume affumicato, tra cui la pancetta di pollo fritto e il Bacone (un cono di bacon fritto ripieno di uova strapazzate, patate e formaggio)


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NON TUTTI SANNO CHE… L'originaria pancetta è uno dei tagli di carne più antichi della storia, risale al 1500 a.C. Il 70% di tutto il bacon negli Stati Uniti viene mangiato a colazione. Ogni anno negli Stati Uniti vengono prodotti più di 2 miliardi di libbre di pancetta. Fino alla prima guerra mondiale, il grasso di pancetta era il grasso da cucina preferito dalla maggior parte delle famiglie americane, quando il lardo di maiale preconfezionato diventa comunemente disponibile. I TAGLI Side Bacon: si ricava dalla pancia del maiale ed è caratterizzato da lunghi strati di grasso che corrono paralleli alla cotenna. Questa è la forma di pancetta più comune negli Stati Uniti, affumicato o "aqua" (non affumicato). La nostra pancetta tesa è il Side bacon italiano. Middle bacon: proviene dai fianchi dell'animale, ha un costo medio-basso e per contenuto di grasso e sapore si pone tra streaky bacon e back bacon. Back bacon (Irish bacon/Rashers o pancetta canadese negli Stati Uniti): ricavato dalla lombata al centro del dorso del maiale. Si tratta di un taglio molto magro e carnoso, con meno grasso rispetto ad altri. Ha una consistenza simile al prosciutto. La maggior parte del bacon consumata nel Regno Unito è ricavata dal lombo. Cottage Bacon: è carne magra di maiale affettata sottilmente, ricavata da un taglio di spalla che è tipicamente di forma ovale. Viene stagionata e poi tagliata in fette rotonde che vengono cotte al forno o fritte. Jowl Bacon: guanciale di maiale stagionato e affumicato. Slab Bacon: con una percentuale di grasso da media a molto alta. Si ricava dalla pancetta, dai tagli laterali e dal dorso del maiale. Collar Bacon: ricavato dal collo dell’animale. Hock: estratto dal garretto, dall'articolazione della caviglia del maiale. Gammon: dalla zampa posteriore, tradizionalmente “Wiltshire cured”. Picnic Bacon: è ricavato dal picnic, il taglio sotto la spalla che si utilizza nella preparazione del pulled pork. Questo taglio include la maggior parte del quarto della zampa anteriore del maiale, abbastanza magro e piuttosto duro. LA STAGIONATURA Può essere effettuata in due modi: A secco o dry cured: si cosparge il pezzo di carne con una miscela di sale e spezie, lasciando il tempo al sale di penetrare nella carne, disidratandola; In salamoia o wet cured: si immerge la carne in una miscela di acqua, sale e spezie.

Il bacon può quindi seguire due strade: essere affumicato oppure no. Il bacon aqua viene stagionato per circa quindici-venti giorni e poi venduto, quello affumicato può abbracciare il fumo sia a freddo che a caldo. Sandwich e Burger

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Dall’affumicatura a freddo si ottiene un prodotto identico a quello non affumicato, con una carne soda, da consumare solo previa cottura. Dall’affumicatura a caldo, somministrata a temperature superiori agli 80°C, nasce un bacon cotto, che lo rende consumabile tal quale, al pari di un salume tradizionale. Il bacon affumicato a caldo esiste anche da noi, è molto diffuso tra i salumifici delle zone alpine. BACON E PANCETTA: QUAL È LA DIFFERENZA Questo è il momento di mettere le cose in chiaro, visto che vi ho parlato di bacon e pancetta finora. Innanzitutto, il bacon si può ricavare da diversi tagli di carne, non solo dalla pancia: come già chiarito prima, il back bacon proviene dal lombo ed è quindi molto più magro, poiché composto da una parte magra e dal grasso della schiena (il lardo), il jowl bacon, ottenuto dalla guancia corrisponde al nostro guanciale, il cottage bacon si ricava dalla spalla, lo slab bacon, proveniente da tagli minori laterali e così via. Il bacon prodotto con la pancia prende il nome di streaky bacon, carratterizzato delle tipiche "strisce" di grasso inframmezzate al magro della pancetta. Il termine bacon, quindi, sembrerebbe indicare più un metodo di lavorazione che un taglio di carne, come siamo abituati a fare qui da noi. La pancetta "all'italiana" che più gli assomiglia è quella tesa (non arrotolata, vi ho suggerito il Side bacon poco più su) che però non subisce nessun processo di cottura prima di essere commercializzata, a parte quella affumicata a caldo e tipica del Trentino-Alto Adige. La differenza sostanziale sta nel tempo di stagionatura: mentre la nostra pancetta è pensata per il consumo a crudo, il bacon nasce per essere cotto. E ora vi spiego come.

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IN PADELLA CON ACQUA Come si fa: disponete le fette di bacon nella padella fredda, coprite con acqua a temperatura ambiente. Cuocete a fiamma alta e portate a bollore, poi riducete la fiamma fino a completa evaporazione, quindi girate le fette e cuocete a fiamma bassa fin quando il bacon non sarà di un bel colore dorato. Risultato: cottura disomogenea con parti croccanti e frazioni gommose. Per non parlare della patina appiccicosa e pestifera che ricopre la padella, impossibile da pulire. GLC Approved: NO

I metodi di cottura del

BACONN

Quelli più diffusi sono nove, vi descriverò pro e contro di ognuno e vi dirò come lo faccio io.

MICROONDE Come si fa: rivestite il piatto con carta assorbente, poggiate le fette di bacon ben distanziate l’una dall’altra, ricoprite con un altro strato di carta e cuocete per 4-6 minuti a potenza sostenuta. Risultato: Fettine cotte in maniera uniforme, parti grasse ben rosolate e croccanti. GLC Approved: NI. È il metodo per chi ha fretta e non vuole salvare il grasso disciolto del bacon. La cottura perfetta ha bisogno di un po’ di tuning, bisogna calcolare al millimetro i tempi ed entrare in sintonia col proprio forno. Pulire il piatto è una passeggiata, basta gettare la carta nel secchio dell’umido ed è fatta. PADELLA ANTIADERENTE Come si fa: sistemate il bacon in una padella antiaderente fredda, cuocete a fuoco medio e girate le fette alla bisogna. Risultato: cottura a macchie di leopardo, con parti più rosolate di altre. Grasso disciolto che può essere filtrato/colato in un barattolo ed usato per la altre preparazioni. GLC Approved: NI È un metodo efficace, ma la cottura a spot non mi fa impazzire. IN FORNO SU UNA GRATELLA Come si fa: Preriscaldate il forno a 200°C. Adagiate le fettine di bacon su una gratella che andrà poggiata su una teglia rivestita di carta assorbente. Cuocete fino a doratura (20-30 minuti a seconda dello spessore delle fette) Risultato: Bacon succoso e stiracchiato, con lievissimi accenni di arricciatura. La carta serve per assorbire i grassi disciolti e limitare (ma di poco) la formazione della tipica nebbia-post-pancetta. GLC Approved: NI Cottura graduale ed armoniosa, ma che spreco quel grasso risucchiato dalla carta! Per non parlare della gratella impiastricciata da raschiare alla fine.

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FRIGGITRICE AD ARIA Come si fa: Mettete le fette di bacon nella friggitrice ad aria e cuocete a 200°C, scuotendo il cestello di tanto in tanto fino ad ottenere delle strisce belle croccanti. Svuotate il contenitore dei residui di grasso tra una cottura e l’altra per non fare i suffumigi di porco. Oppure andate a (farvi) friggere in terrazzo. Risultato: Cottura azzeccata e soprattutto rapida, ci vorranno circa 5/8 minuti al massimo. GLC Approved: NI Le fettine si stropicciano moltissimo, il grasso andrà tutto sprecato e pulire la friggitrice ad aria è una vera spina nel… fianco.

SOUS VIDE + SEARING Come si fa: solo con il bacon tagliato a fette spesse, il bacon affettato sottile non ha nulla da intenerire. Inserite le fettine nel sacchetto e cuocete sottovuoto a 64°C per 8/24 ore. Tirate fuori la carne dall’involucro e rosolate in padella bollente per pochi secondi. Risultato: Bacon molto ciccioso, succulento e grassoccio dentro, soffiato e croccante fuori. GLC Approved: SÌ Tecnica laboriosa ma soddisfacente. Potete anche cuocere il bacon sottovuoto e surgelarlo, per poi saltarlo in padella (da surgelato) quando vi occorre. Si conserva in freezer fino a due mesi.

PADELLA IN GHISA Come si fa: rivestite la padella di ghisa fredda con il bacon, girate le fette ogni tot fino a doratura. Risultato: Nastri di bacon arricciati, parecchio grassi e opulenti in alcuni punti, fragranti e scrocchiarelli in altri. GLC Approved: SÌ È il miglior compromesso tra le varie metodologie. La cottura è rapida, tutto sommato soddisfacente, e potete mettere da parte i preziosi grassi avanzati dalla cottura in un barattolo.

METODO GLC Come si fa: Prendete una teglia d’acciaio o vetro temperato, rivestitela di carta forno (o se preferite un tappetino di silicone) e sistemate le fette di bacon a 2 cm l’una dall’altra. Inserite la teglia nella parte centrale del forno (a freddo), impostate il termostato su 200°C in modalità statica e lasciate cuocere per circa 15 minuti. A cottura quasi ultimata spruzzate le fettine con aceto di mele, quindi cuocete per altri 5 minuti o fino al grado di doratura che preferite. Recuperate il grasso fuso, filtratelo e colatelo in un contenitore, potrete conservarlo in frigorifero per una settimana buona. Risultato: Bacon perfettamente cotto, croccante perché “fritto” nel suo stesso grasso, brillante e caramellato dall’aceto vaporizzato. Voto 10 su tutta la linea. 252

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IL PETTO DI POLLO È la farcitura portante del panino, quindi è cruciale cuocerla bene. Troppo spesso mi sono ritrovato a masticare petti pollo di gomma, alcuni li sto ancora masticando. Sono partito quindi dalla fine, ho pensato che quasi sicuramente il problema sta nella cottura, la soluzione va cercata negli effetti del calore sulla carne. LA COTTURA IDEALE Sotto i 50°C. La carne è da considerarsi cruda, sia le miofibrille (i filamenti del muscolo) che i “fasci crociati” di collagene (il tessuto connettivo) sono ancora integri. A 50°C. La miosina, la parte rossa per intenderci, inizia a coagulare strizzando fuori i liquidi che vengono in parte raccolti nelle guaine di collagene (le guaine che avvolgono le fibre muscolari). A 60°C. Tutte le proteine che restano coagulano spingendo ancora liquidi all’esterno, e rendono la carne opaca e turgida. A 66°C. Anche le proteine della guaina (in gran parte collagene) si coagulano repentinamente e si contraggono. L’effetto è quello che si ottiene strizzando una spugna intrisa d’acqua, a questo punto i liquidi fanno ciao ciao con la manina alla carne. L’Istituto Superiore di Sanità raccomanda una temperatura di cottura di 77°C per il pollo, 82°C nel caso di un pollo intero. Un consiglio per salvaguardare la sicurezza alimentare (a quelle temperature si elimina la maggior parte dei batteri) più che strettamente gastronomico. Comunque, possiamo stabilire il primo criterio per il nostro petto di pollo alla griglia perfetto: la temperatura ideale per cuocerlo è compresa tra i 60°C e i 65°C. LA MARINATURA Esiste una differenza sostanziale fra la composizione di una salamoia ed una marinata: la salamoia è una soluzione salina a pH neutro o tendente al basico (acqua, sale e aromi) mentre una marinata è una miscela caratterizzata da una base acida arricchita di zuccheri, grassi, aromi, spezie. Ricordate che solo il cloruro di sodio, il sale in sostanza, è capace di migliorare profondamente le caratteristiche della carne in termini di succosità, sapidità e consistenza. Tutto il resto non fa altro che donare una copertura aromatica caratteristica e superficiale che si andrà a finalizzare e completare durante la cottura; i grassi, gli aromi e gli zuccheri assorbiti sulla superficie dell’alimento non faranno altro che dare una spinta alla reazione di Maillard e favorire la formazione della crosticina esterna. LA MARINATURA ACIDA Una marinatura tradizionale è costituita da: una fase acquosa acida, una fase grassa, un tensioattivo, erbe e spezie, zuccheri e sale. Quali sono gli effetti di una marinata?

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In ordine decrescente: • incremento dell’umidità della carne; • aromatizzazione; • ammorbidimento. L’acidità della componente acquosa di una marinata ha proprio il compito di magnificare la sensazione di succosità: l’esposizione diretta di piccoli tagli di carne a componenti particolarmente acide genera una trasformazione profonda dei tessuti muscolari e dei connettivi; un acido non fa altro che apportare ioni H + (derivati dall’acido acetico, citrico o lattico contenuti nelle basi acide). L’azione di questi ioni cambia radicalmente la conformazione delle proteine della carne, generando una denaturazione e successivamente una coagulazione molto simile a quella che avviene con il calore. Se immergete un pezzo di carne nel succo di limone vedrete un rapido e progressivo cambio di colore che interessa tutte le proteine, comprese i pigmenti muscolari come la mioglobina, che coagulano diventando di colore grigio. Le componenti acide, anche se hanno una velocità di penetrazione bassa attraverso la carne, modificano significativamente la struttura delle proteine rendendole capaci di trattenere una maggiore quantità d’acqua durante le fasi di cottura; parallelamente abbiamo anche un'importante metamorfosi a livello gustativo: la percezione di acido implementa in molti casi la gradevolezza del prodotto, occhio a non esagerare però. Le proporzioni tra gli ingredienti variano in base al risultato che vogliamo ottenere, ma indicativamente, il rapporto tra sostanza grassa e sostanza acida si aggira su una proporzione da 1:3 a 1:2. LE BASI ACIDE FERMENTATE Esistono moltissime basi fermentate, ma poche contengono microorganismi “vivi” responsabili del processo di fermentazione stesso. Yogurt, kefir e latticello sono sicuramente le più interessanti per quanto riguarda il profilo gustativo. L’utilizzo di questi ingredienti ha origini antichissime, tanto quanto la stessa pastorizia. I fermenti lattici e altri ceppi batterici (acetobatteri) non fanno altro che inacidire o meglio fermentare il latte generandone una parziale coagulazione. Le marinate a base di questi prodotti sono ricche di fermenti lattici che competono efficacemente con le altre specie batteriche, evitando contaminazioni crociate e conferendo una sorta di effetto conservante: i batteri lattici convertono efficacemente gli zuccheri del latte (il lattosio) in acido lattico abbassando il pH del prodotto. Il calcio, contenuto naturalmente nel latte e nei suoi derivati, favorito da un pH moderatamente acido, penetra efficacemente la carne attivando le calpaine e incrementando l'intenerimento e l’effetto di ritenzione. La cucina indiana, straordinariamente ricca per gusto e maestra nell’uso delle spezie, ha sdoganato la preparazione delle marinate a base di yogurt. Una delle preparazioni più conosciute che prevede l’uso di una marinata a base di latte fermentato è il famosissimo pollo tikka masala. Faremo così anche per il pollo del club sandwich.

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Tagliate il petto di pollo in strisce larghe 1,5cm e spesse 1cm, proprio per dare massima efficacia alla miscela. Per la marinata utilizzate uno yogurt intero, con una buona percentuale di grassi (quello greco è ottimo) nella proporzione di circa 250 grammi per kg di pollo. I tempi di marinatura possono essere spinti anche per 12 ore, rigorosamente in frigorifero. Versate lo yogurt in una ciotola o in in sacchetto per il sottovuoto e aggiungete gli straccetti di pollo. Potete aromatizzare con le spezie che preferite, io aggiungo pepe di Timut, zenzero e scorze di agrumi (limone, arancia o lime). In questo caso non è necessario rimuovere la marinatura dalla carne prima della cottura perché darà un contributo importante nella formazione del bark. La cottura L’ho detto prima, la temperatura ideale per cuocere un petto di pollo è circoscritta tra i 60°C e i 65°C. Ma sappiamo anche che le carni bianche vanno consumate solo se cotte alla perfezione, perché potrebbero essere contaminate da batteri come la Salmonella o il Cam­pylobacter. La tabella 6.5D della Food and Drug Administration (la trovate a pagina 173) riporta i tempi necessari per rendere un alimento igienicamente sicuro alle varie temperature, ma tali tempistiche si calcolano dal momento in cui il cuore del nostro pezzo di pollo raggiunge quella determinata temperatura: dobbiamo quindi prevedere con un buon margine di sicurezza il tempo necessario affinché il calore si trasferisca dalla superficie all’interno. Per evitare di correre rischi, sia per la salute che per il nostro buon nome di cuochi, trasferiremo il nostro pollo sottovuoto in acqua e lo cuoceremo a 63°C per almeno 40 minuti. Quindi lo estrarremo dal sacchetto, elimineremo la marinatura in eccesso e lo rosoleremo sulla piastra o in una padella rovente fino ad ottenere dei bocconcini di pollo succosi e ben dorati. TEMPERATURA (°C)

SPESSORE

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Spessore della carne, temperatura di cottura e temperatura al cuore: la tabella riporta il tempo necessario alle diverse temperature e a seconda dei diversi spessori per trasferire il calore al cuore dell'alimento (petto di pollo con temperatura iniziale di 5°C). Fonte: Modernist Cuisine: the art and science of Cooking.

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I POMODORI E L’INSALATA Dico, è complicato? Perché mettere un metro quadro di lattuga in un panino così com’è? L’insalata croccante, fresca, ci vuole e ci sta bene, ma non credo sia complicato lavarla, asciugarla benissimo, tagliarla a striscioline, aggiungere un goccio di olio, un po’ di pepe, un niente di sale, qualche stilla di aceto e via. Potete utilizzare la varietà che più vi piace, io vi consiglio l’Iceberg perché particolarmente croccante e fresca. E i pomodori? Per evitare che rilascino troppi liquidi di vegetazione asciugateli bene con della carta da cucina. Le mie cultivar preferite per questa ricetta (e per i panini in generale) sono il San Marzano, il Cuore di bue, il Costoluto, il Tondo insalataro e il Camone (tutto lo spiegone sui pomodori lo potete trovate a pagina 28). LA MAIONESE SCIENTIFICA La maionese è la mia salsa del cuore, ci puccerei dentro anche i mattoni (e la faccia). Ho un amore morboso per questo condimento, senz’ombra di dubbio una delle più grandi invenzioni del genere umano insieme al fuoco e alla ruota. La maionese nel Club Sandwich non dovrebbe essere un optional. Se preparata con cura, è l’unico elemento di contrasto che permette di bilanciare perfettamente il gusto pieno e corposo del pollo e quello opulento del bacon: il segreto si chiama acidità. Il rosso d’uovo, la parte che ci serve per preparare la salsa, è fatto dal 50% di acqua, dal 32% di grassi e dal 16% di proteine. Questi grassi e queste proteine sono tenute insieme in particelle che prendono il nome di lipoproteine. Il tuorlo è una dispersione di granuli in una massa acquosa. È già di suo un'emulsione, cioè una soluzione di acqua, proteine e grasso stabilizzata grazie anche all'elevato contenuto di lecitine, tra gli emulsionanti più potenti al mondo. Queste hanno una parte idrofila che si lega all'acqua e una parte idrofoba che si lega ai grassi. La maionese è quindi un’emulsione nell’emulsione (per l'approfondimento sulle emulsioni, andate a pagina 212). Prima di preparare la maionese, riscaldo le uova per due motivi. 256

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01. Pastorizzazione Non amo utilizzare l’uovo crudo nelle mie ricette, il rischio di contaminazione è sempre dietro l’angolo e voglio che prepariate questo sandwich a casa in tutta sicurezza. Potete pastorizzare le uova in due modi. Sous Vide: prendete le uova intere, col guscio, e sistematele in un bagno termostatico a 57°C per 1 ora e 15 minuti. Terminata la pastorizzazione, separate i tuorli dagli albumi. A bagnomaria: dopo aver sbattuto i tuorli con la frusta, prendete una bastardella e mettetela in un tegame pieno d’acqua scaldata a 90°C. Deve sobbollire, non serve il bollore completo. Scaldate i tuorli a 60°C per 20 minuti. Mi raccomando, non superate mai i 62,5°C o rischiate di cuocerli. 02. Potere emulsionante Somministrare calore ai tuorli d’uovo significa amplificare il loro potere emulsionante, che stabilizzerà ulteriormente la maionese. Prima di passare alle dosi, fissate bene questi tre punti: Strumenti: potete utilizzare una frusta a mano, le fruste elettriche, la planetaria, un minipimer o addirittura un frullatore. Sono tutti utensili appropriati, vi anticipo solo che con la frusta a mano impiegherete più tempo. Consistenza: volete una maionese più compatta? Aggiungete olio al vostro mix. Sapore: non vi piace l’aceto? Sostituitelo con altrettanto succo di limone o altro frutto acido (lime, arancia, passion fruit). L’aroma dell’olio extravergine di oliva vi sembra troppo invasivo? Utilizzate solo olio di semi.

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Maionese per club sandwich

dose per 400 g circa

60 g di tuorli (3-4 tuorli grandi) pastorizzati 150 ml di olio di vinaccioli/noce/semi di girasole 150 ml di olio extravergine delicato 10 ml di succo di limone, fino a 20 ml 10 ml aceto di vino bianco, fino a 15 ml 3 g di sale 1 g di pepe di Timut

Se vi piace, io non la metto: 15 g di senape di Digione (1 cucchiaino)

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Miscelate i due oli in un contenitore con beccuccio. Sbattete i tuorli pastorizzati tiepidi o a temperatura ambiente (aggiungi ora la senape se ti piace) e versa a filo l’olio, continuando a sbattere con le fruste. Una volta ottenuta un composto denso, aggiungete la nota acida del limone e dell’aceto e aggiustate di sale e pepe. Utilizzate la salsa ben fredda, si conserva in frigorifero fino ad una settimana.


Il Club Sandwich è molto meno banale di quanto pensate e copre tutte o buona parte delle percezioni che la lingua è in grado di rilevare: aspro, dolce, salato e amaro per amplificare l’esperienza gustativa.

Il montaggio del sandwich

Uno strato di pane imburrato e tostato, maionese, insalata, pomodoro, bacon, pollo e ancora maionese. Ricordatevi che le fette di pane sono 3 e gli strati totali 15. Aggiungete elementi sapidi e croccanti oltre ad un minimo di pungenza per arricchire ulteriormente la salsa (wasabi, kren). Scegliete sempre gli ingredienti in funzione dell’equilibrio gustativo riproponendovi di non mischiarli a caso. Su tutto, ricordate la nota unta e lussuriosa della maionese. Non ne serve molta (forse... ), ma è fondamentale.

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6.2 – KATSU SANDO Per fare un tavolo ci vuole il legno, per fare il katsu sando ci vuole… la cotoletta! Esistono vari tipi di katsu in Giappone, di cotolette intendo. Quella di manzo si chiama Gyu katsu, quella fatta con il pollo Chicken katsu, quella di spalla di maiale non poteva che essere Hamu katsu. Stavolta vi voglio parlare del Tonkatsu (豚カツ, とんか つ o トンカツ), la cotoletta di maiale fritta giapponese che fa parte della categoria degli “agemono”, i cibi fritti del Sol Levante. Si prepara partendo da una fetta di carne di maiale spessa 1-2 centimetri, la si immerge in una pastella di acqua e farina, poi si arrimìna nel panko (il pangrattato nipponico) e si glorifica friggendola in immersione in abbondante olio. A cottura ultimata si taglia a striscioline e si serve con cavolo cappuccio affettato sottile e zuppa di miso. Oppure si schiaffa tra due fette di pane morbido, il famoso pane al latte giapponese, lo shokupan, insieme al cavolo cappuccio tagliato a chiffonade e abbondante salsa agrodolce. Una goduria di morsi salsati incredibili, la lingua solleticata da quei crick rock della panatura che crépita come una carta di caramella. Ebbene, ho deciso di condividere con voi, cari lettori, la mia personalissima versione del sandwich più stiloso del globo terraqueo, ovviamente ragionata, ovviamente scientifica. Potevo mai proporvi una ricetta fatta a katsu? IL PANE Alla base di un buon panino c’è sempre lui, il pane. Questa volta al latte, morbido come una nuvola, con la mollica fitta e che si scioglie a contatto con la nostra ptialina. Lo shokupan, il famoso pane al latte di Hokkaido, si prepara con il metodo tangzhong, uno starter di nuova concezione fatto di acqua e farina cotti come un roux. Da queste parti, trovate anche una ricetta per fare lo shokupan. Se non avete (giustamente, direi) voglia di impastare esistono degli ottimi pani in cassetta, spessi e spugnosi, che potrebbero fare al caso vostro. Importante: ricordate di imburrare il pane dal lato della farcitura e di tostarlo sulla piastra in ghisa prima di confezionare il sandwich. Montate il katsu sando molto alto per agevolare il colpo d’occhio, ma ricordate di tagliarlo lungo il perimetro della cotoletta e soprattutto n-o-n s-c-h-i-a-c-c-i-a-t-e-l-o!

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Shokupan Ingredienti

Per il tangzhong 25 g di farina forte 280-300W 125 ml di acqua o latte (o acqua e latte in parti uguali) per lo shokupan 95 g di tangzhong 270 g di farina 300 W 45 g di zucchero semolato 1 uovo intero (45 g) 30 g di panna fresca (o latte intero) 25 g di latte intero 25 g di burro morbido 15 g di lievito di birra fresco 4 g di sale

È il pane al latte preparato con il metodo tangzhong, anche conosciuto come water roux, una tecnica nata sull'isola di Taiwan nel 2003 che prevede la preparazione di uno starter liquido costituito da 1 parte di farina e 5 parti di acqua scaldate a 65°C. Si tratta, dunque, di amido gelatinizzato: durante la cottura in forno i granuli di amido assorbono acqua, si gonfiano e formano una struttura rigida intorno all’anidride carbonica. Quando l’espansione delle bolle si arresta, l’acqua contenuta all’interno di queste evapora, creando una rete di fori comunicanti. Che poi, di fatto, è la mollica. Nel tangzhong gli amidi sono già idratati prima che avvenga l’impastamento. Questo significa che non devono gareggiare con le altre proteine presenti nella pasta per assorbire acqua. Nel momento in cui si mescolano gli ingredienti, gli amidi idratati perforano gli strati di glutine. La rigidità di questi granuli di amido è responsabile della struttura spugnosa e chiusa della mollica tangzhong, poiché l'impasto con una maglia glutinica meno perforata forma bolle più grandi e una mollica più aperta.

COME SI PREPARA IL TANGZHONG Misurare e mescolare bene la farina in acqua senza grumi. Cuocere a fuoco medio-basso e portare a 65°C, mescolando costantemente con un cucchiaio di legno, una frusta o una spatola per evitare che si attacchi e bruci sul fondo. L'impasto si addenserà abbastanza rapidamente. Rimuovere dal calore. Trasferire il tangzhong in una ciotola pulita e coprire con pellicola aderente sulla superficie, per evitare che si secchi. Lasciare raffreddare a temperatura ambiente prima dell'uso. Nota: Il tangzhong può essere usato subito una volta raffreddato, quello avanzato può essere conservato in frigorifero fino a pochi giorni. Se diventa grigio, buttatelo! Questo starter può essere usato in tutte le ricette di pane, pizza o lievitati a cui volete conferire leggerezza e morbidezza, considerando che per il water roux va usata una quantità di farina compresa tra il 5 e il 10% del totale. COME PREPARARE LO SHOKUPAN Mettere in una ciotola la farina, aggiungere il lievito di birra sbriciolato, 95 grammi di tangzhong, lo zucchero, l'uovo e gradualmente il latte e la panna. Lavorare l'impasto in planetaria o a mano: sarà piuttosto morbido e leggermente appiccicoso. Una volta incordato, aggiungere il burro a pezzetti e il sale e lasciar assorbire.Trasferire l'impasto in un contenitore e lasciar lievitare fino al raddoppio in un luogo tiepido (28°C), ci vorrà circa un’ora. Pesare l'impasto e dividerlo in tre parti uguali. Stendere con il matterello, arrotolare l'impasto su se stesso per il lato corto, appiattire con le mani, riallungare con il matterello e riavvolgerlo. Trasferire ogni rotolo in uno stampo da plumcake imburrato delle dimensioni di 21x12x7,5, con la chiusura verso il basso. Lasciar lievitare fino a che l'impasto non avrà raggiunto la superficie dello stampo. Preriscaldare il forno a 180°C e inserire un pentolino con dell’acqua, per saturare la camera di cottura con del vapore. Spennellare la superficie del pane con uovo sbattuto e mescolato a qualche goccia di latte o panna. Rimuovere il pentolino con l’acqua e cuocere in forno statico a 180°C per 30 minuti circa. 262

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LA CARNE In Giappone, il taglio preferito per il tonkatsu è il filetto (ヒレ hire) o la lonza (ロース rōsu) di maiale. La carne viene di solito condita con sale e pepe prima di essere infarinata leggermente; successivamente viene immersa nell'uovo sbattuto e ricoperta di panko prima di essere fritta in abbondante olio di semi. Ma cosa succede quando prendiamo un taglio magro, come il filetto appunto, e lo friggiamo in olio bollente a 180°C-190°C? La temperatura al cuore sale, le fibre si strizzano e la carne diventa secca come un materassino da yoga. È per questo motivo che noi useremo la coppa e cuoceremo la cotoletta in maniera completamente diversa. La coppa comprende una parte del collo e, rifilata dalle prime cinque costole, si presenta come in foto. È un taglio molto saporito perché ricco di grasso, proprio quello che ci serve per mantenere la nostra cotoletta morbida e succosa, ed è caratterizzato anche da una piccola parte di connettivo, che andrà necessariamente cotta a lungo e a bassa temperatura per poterla tramutare in gelatina. Avete capito bene: vi sto dicendo di cuocere la coppa intera sottovuoto e, solo a cottura ultimata, tagliare le fette e panarle per la frittura. Siete curiosi di sapere perché, giusto? Vantaggio #01: cuocere la coppa intera in sous vide significa fondere le parti grassi e convertire il connettivo in gelatina. Sappiamo con certezza assoluta che per intenerire la carne di maiale possiamo intervenire su due proteine: la miosina e l’actina. Dobbiamo denaturare la prima, intervenendo sulla struttura proteica e portando la temperatura interna a 60°C, e non superare i 75°C, range in cui si va a intaccare la struttura della seconda. E il collagene? Il collagene comincia a sciogliersi a partire da 55°C, a 60°C registriamo la scomparsa degli agenti infettivi, oltre i 65°C le fibre si contraggono sempre più e iniziano a strizzare fuori liquidi. Noi cuoceremo la nostra bella coppa a 65°C per 7 ore, in questa finestra temporale la carne si scalderà e perderà liquidi; anche il collagene si scalderà e si trasformerà in gelatina. In questo modo - magia della scienza - la gelatina riassorbirà tutta quell’acqua come una spugna. Contemporaneamente, il grasso si scioglierà con il calore dolce e costante, mescolandosi con gli zuccheri, gli amminoacidi e i glucidi: insieme creeranno un numero incalcolabile di molecole che produrranno una serie di reazioni gustative a catena. Sandwich e Burger

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Vantaggio #02: vi è mai capitato di mangiare una cotoletta con contorno di pangrattato? Di perdere un pomeriggio a infarinare e friggere, con le dita inguacchiate di uova e calcestruzzo, per poi assistere alla separazione dell’olio e della panatura come novelli Mosé del grasso saturo? Vi vedo, lo so come ci si sente. È successo perché non avete mai preparato una cotoletta con un pezzo di ciccia già cotto. Rifletteteci un attimo: cosa fa staccare la crosta dal pezzo di carne? 1. Il rimpicciolimento della carne. La carne cruda, a contatto con l’olio caldo, si contrae e si restringe sensibilmente. 2. L’evaporazione dei liquidi. La carne cruda immersa in un grasso bollente strizza fuori buona parte dei liquidi che contiene, generando il vapore che stacca la panatura. La cottura della carne Una volta recuperato un bel pezzo di coppa intero, trimmate leggermente la superficie, per eliminare gli eccessi di grasso e generare attrito tra carne e pastella, per farla aggrappare meglio; massaggiate con poco sale e cuocete sottovuoto per 7 ore a 65°C. A cottura ultimata abbattete la temperatura immergendo il sacchetto in acqua e ghiaccio e lasciate in frigorifero per almeno qualche ora. Dovete tagliare la carne a fette di 1,5 cm, meglio se rettangolari, rigorosamente a freddo.

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LA DOPPIA PANATURA Adesso passiamo alla preparazione della pastella. Ve lo ricordate il glutine, quellagrossa molecola proteica che si forma quando si impasta la farina con l’acqua e gliadine e glutenine si dispongono a formare una rete? Ecco: dimenticatelo, perché in frittura non serve. Anzi. Noi vogliamo un composto elastico e gommoso ma una soluzione colloidale che renda la nostra cotoletta croccantissima e friabile. Useremo la farina e l’amido di riso perché questo cereale non riesce a formare il glutine, poiché le prolammine (proteine dei cereali) contenute in esso sono in bassissima concentrazione. Una volta preparata la pastella, seguite questi step: 1.

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Immergete la carne nella pastella e poi subito nel panko*. Fatta questa prima panatura rimettete la carne in frigorifero per almeno 15 minuti, per farla aderire bene Nel frattempo sbattete 4 uova in una terrina, sfrutterete il loro potere legante e apporterete così grasso e sapore. Passate le fette già panate nell'uovo e poi subito nel panko (o nel pangrattato)*. Disponete le cotolette su un unico strato su di un vassoio e trasferite in congelatore per venti minuti. Nel frattempo scaldate l’olio. Quando l'olio avrà raggiunto i 190°C friggete le fette in immersione, devono sprofondare completamente. Cuocete fino a quando non si colorano esternamente, dovete solo portare a cottura la panatura perché la carne è praticamente già cotta.

La pastella 120 g di farina di riso 90 g di amido di riso (o mais) 6 g di sale 500 ml di acqua (dose indicativa)

*Nel vostro supermercato non vendono il panko? Niente paura, vi dico come prepararlo. Vi basterà procurarvi un filone di pane in cassetta, tagliatelo a fette di 1 cm e scaldatele in forno ventilato a 160°C per 5-10 minuti, il tempo di asciugarlo un po’. Quindi tagliate via la crosta, tritatelo al mixer o meglio ancora grattugiatelo con una grattugia a fori larghi. Quindi ripassate le briciole nuovamente in forno, sempre a 160°C, lasciando che si colorino leggermente. Lasciate raffreddare e riponete il panko fatto in caso in un contenitore a chiusura ermetica.

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Il cavolo 1 cavolo cappuccio verde o rosso 200 ml di aceto di vino bianco o aceto di mela 20 g di zucchero semolato olio extravergine d'oliva q. b.

IL CAVOLO CAPPUCCIO Molecolarmente affine al maiale, il cavolo cappuccio è il classico abbinamento orientale, ma pure italiano se vogliamo. Prendetene uno, verde o rosso, tagliatelo sottile sottile e passatelo velocemente in padella con olio, 200 ml di aceto di vino bianco o mela e 20 grammi di zucchero semolato. Fatelo appassire leggermente e mettetelo da parte. Ci farcirete il panino solo quando si sarà raffreddato. Sarà l’elemento agrodolce di contrasto che andrà ad equalizzare la parte grassa del tonkatsu. LE SALSE Maionese o salsa tonkatsu, la cosiddetta salsa barbecue giapponese? Avete l’imbarazzo della scelta, io preferisco la prima di parecchi lustri e la personalizzo con una puntina di wasabi grattugiato. Una botta di vita.

Tonkatsu

Ingredienti per 150g circa

60 g di ketchup 70 g di Worcestershire sauce 1 cucchiaino di zucchero semolato (5 gr) 2 cucchiaini di salsa di soia (10 ml)

Fa parte del triumvirato delle salse giapponesi, che si differenziano tra loro in base a viscosità e consistenza. La salsa Usuta (ウスターソース), simile per gusto ma più fine e liquida La salsa Chuno (中濃ソース) di consistenza media La salsa Tonkatsu (とんかつソース) la più densa e corposa delle tre, considerata dai più la salsa barbecue giapponese. Tutte e tre sono perfette per accompagnare takoyaki, okonomiyaki, yakisoba e katsu. Per realizzare la salsa Tonkatsu, mescolare tutti gli ingredienti e conservare in frigorifero in un contenitore sigillato fino a due mesi.

Maionese scientifica

Ingredienti per 400 g circa

60 g di tuorli (3-4 tuorli grandi) pastorizzati 150 ml di olio di vinaccioli/noce/semi di girasole 150 ml di olio extravergine delicato 10 ml di succo di limone (fino a 20ml) 10 ml aceto di vino bianco (fino a 15ml) Opzionale: 15 g di senape di Digione (1 cucchiaino) 3 g di sale 1 g di pepe di Timut

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Ormai lo sapete a menadito: la maionese è un’emulsione di olio, senape e una parte acida tenuta insieme dall’uovo che fa da agente emulsionante. La sua acidità è fondamentale per bilanciare perfettamente l’untuosità della cotoletta fritta e la dolcezza del cavolo cappuccio saltato. Per realizzare la maionese secondo il metodo scientifico, attenetevi al seguente procedimento. Miscelare i due oli in un contenitore con beccuccio. Sbattere i tuorli pastorizzati (aggiungere ora la senape) e versare a filo l’olio, continuando a sbattere con le fruste. Una volta ottenuta un composto denso, aggiungere la nota acida del limone e dell’aceto e aggiustare di sale e pepe. Utilizzate la salsa ben fredda, si conserva in frigorifero fino ad una settimana.

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L’ASSEMBLAGGIO DEL SANDWICH Abbiamo tutta linea pronta, gli ingredienti sono disposti sul piano di lavoro, le cotolette sono ancora roventi e non ci resta che assemblare il tutto. Prendete una fetta di pane, già imburrata e scaldata, spalmatela con la salsa e aggiungete il cavolo cappuccio acidulato, la cotoletta bella calda, un altro pochino di salsa e chiudete con l’ultimo strato di pane. Tenete a freno le manacce e non schiacciate niente, avvolgete delicatamente in un foglio di carta oleata il rettangolo farcito e tagliatelo a metà, quindi servitelo in un vassoio con la parte del taglio rivolta verso l’alto. E filate subito a prepararne un altro, perché i vostri commensali ne vorranno ancora.

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6.3 – CUBAN SANDWICH


Carl Casper: Aspetta un attimo. Lo trovi noioso tu? Percy: No, mi piace. Carl Casper: Sì, io l’adoro. Quello che è successo di buono in vita mia è grazie a questo. Forse non faccio tutto bene nella vita, non sono perfetto, ma sono bravo in questo. E voglio condividerlo con te. Voglio insegnarti quello che ho imparato. Entro nella vita della gente con il mio mestiere. È la mia ragione di vita e l’adoro. E se ci provassi l’adoreresti anche tu. Percy: Sì Chef. “Que se sepa” di Roberto Roena risuona nelle casse del furgone a strisce gialle e bianche. C’è Martin, che tra un ellisse disegnato coi fianchi e l’altro versa il Mojo, la salsa cubana per marinare il maiale. È così che si prepara la farcitura dei cubanos, i panini ripieni di spalla tagliata a fette, prosciutto cotto, formaggio e cetriolini sottaceto. Tutto rigorosamente imburrato e piastrato, nel film “Chef, la ricetta perfetta” così come nella vita vera. Quando il menu lo prevede non posso fare a meno di ordinarne uno. E siccome non credo di poter volare oltreoceano per un bel po’, ho deciso di preparare il cuban sandwich scientifico. Partiamo come sempre dalla base. Sandwich e Burger

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Il pane perfetto per il Cuban sandwich

Per realizzare il Cuban sandwich perfetto, abbiamo bisogno del pane perfetto. Il pane, in tutte le preparazioni in cui funge da contenitore, viene spesso visto come elemento secondario, di poca importanza. Si compra quel che si trova a buon mercato, tanto serve solo tenere insieme gli ingredienti, giusto? Sbagliato. Il pane è una prerogativa fondamentale per qualsiasi panino, sandwich, insomma: due o più fette di carboidrati complessi atte a tenere insieme una discreta quantità di companatico.. Provate a pensarci: lavorate sodo per realizzare l’hamburger migliore della vostra vita, spendete ore e ore per cuocere minuziosamente un pulled pork da maestri, curate senza sosta la carne di maiale per il cubano, e poi per colpa di una materia prima scadente vi si sfracella tutto al primo morso, rovinandovi l’esperienza. Non si fa, non è cosa. Ragioniamo quindi sul risultato perfetto che ci interessa ottenere, in modo che sia possibile prepararlo in totale autonomia a casa nostra, aiutandoci a raggiungere il nostro personale Nirvana boccone dopo boccone. Di cosa abbiamo bisogno? Di un panino estremamente friabile, dalla mollica presente ma leggera, che ceda al morso senza fatica, resista alla tostatura e che sia neutro in quanto a sapore, per lasciare il più completo spazio alla sinfonia di ingredienti che dovrà contenere. Dimenticatevi quindi farine integrali o di cereali diversi dal grano tenero: stiamo cercando un gusto equilibrato, estremamente scioglievole, una mollica che risulti arioso e quasi inesistente al palato pur conservando una sua struttura. Tradizionalmente, il Cuban sandwich si consuma (neanche a dirlo) con il pane cubano, che sostanzialmente è una sorta di baguette più cicciotta, con un’idratazione del 60-62%, senza le classiche estremità appuntite. In mancanza d’altro, spesso è possibile trovare ricette che utilizzano proprio la baguette francese come sostitutivo, ma risulta poco idoneo per i nostri scopi, perfetto come friabilità ma non come mollica. Bassa idratazione, crosta troppo dura e mollica troppo piena; se non stiamo attenti, la resistenza al morso sarà troppo elevata e gli ingredienti ci scapperanno tutti di lato. Un altro classico sostituto del pane cubano è la nostra ciabatta, un formato ad alta idratazione (75-80%), molto scioglievole ed etereo, che tuttavia presenta i difetti opposti: poca mollica (quasi inesistente a dire il vero), con conseguente quasi totale scomparsa dopo la particolare tostatura che il nostro Cuban sandwich deve subire. Come fare? Semplice, combiniamo i metodi e facciamo una pratica via di mezzo tra le due soluzioni: un pane friabile e strutturato come la baguette, croccante e scioglievole come la ciabatta. L’IMPASTO Come già anticipato, ci servirà una farina bianca, di forza medio-alta e dall’assorbimento

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farinografico minimo sufficiente per sostenere un’idratazione più elevata della classica baguette. Per aumentare la friabilità e garantire uno sviluppo omogeneo della mollica, ci rifaremo alla tecnica del poolish, un pre-fermento di origine polacca e adottata dalla Francia sin dal XIX secolo. In sostanza, si tratta di un impasto liquido ottenuto mescolando farina e acqua in pari quantità, più una percentuale di lievito che dipende dalle ore di maturazione scelte; la temperatura ideale per la lievitazione è di circa 20°C - 22°C, e il poolish è maturo quando il volume è raddoppiato e tende a cedere al centro, con una crepa ben visibile. Tale tecnica vi assicura alveoli piccoli e ben distribuiti, un effetto crunch superiore, la maglia glutinica molto estensibile grazie all’acqua in eccesso che accelera l’attività enzimatica. Il sapore è più pungente, a causa della presenza di acido acetico e alcol. Per realizzare l’impasto ci atterremo ad un’idratazione del 70%, ma è fondamentale che la farina utilizzata abbia un assorbimento minimo (verificabile nella scheda tecnica) di almeno il 60-62%; in caso contrario, l’impasto non avrà la consistenza necessaria per lievitare correttamente in forma, allargandosi in cottura e crescendo in larghezza anziché in altezza. Poco sale, in quanto utilizzando il poolish abbiamo già gran parte dell’impalcatura necessaria garantita, e una punta di malto diastasico per una carica enzimatica e zuccherina che servirà sia durante la lievitazione che per la reazione di Maillard in cottura. Con maturazioni più lunghe causa pre-fermento infatti e la presenza di una farina bianca (tipicamente ad attività amilasica più bassa) tale aggiunta può rendersi necessaria per mantenere alta l’efficienza del vostro prodotto ed evitare di arrivare alla cottura scarichi di zuccheri, ottenendo un prodotto basso, pallido e sgonfio. PREPARAZIONE DEL POOLISH Mescolate gli ingredienti in una ciotola, fermandovi non appena la farina risulterà completamente idratata. Non dovete impastare e formare glutine, ma solo uniformare il composto. Coprite con pellicola e lasciate maturare a una temperatura di 20°C - 22°C per 12 ore. Il poolish sarà pronto quando prossimo al collasso, ovvero quando inizierete a notare delle crepe sulla superficie.

Ingredienti per circa 6 panini

Per il poolish: 400 g di farina di grano tenero di tipo 0 (270-280 W) 400 g di acqua 1 g di lievito di birra fresco. Per l'impasto: 600 g di farina di grano tenero di tipo 0 (270-280 W) 300 g di acqua 15 g di sale fino 5 g di malto diastasico in polvere (o 20 g di malto diastasico in sciroppo) 0.5 g di lievito di birra fresco.

IMPASTAMENTO In una ciotola o nella vasca della vostra impastatrice o planetaria versate tutta la farina, il malto, il lievito (che servirà come starter per far partire la lievitazione) e i 3/4 dell’acqua della ricetta e iniziate a impastare, fino a ottenere una massa uniforme e asciutta. A questo punto aggiungete il sale, e proseguite mettendo l’acqua a poco a poco, solo Sandwich e Burger

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quando la precedente risulterà perfettamente assorbita. Chiudete l’impasto quando risulterà liscio, uniforme e ben incordato. Ripiegatelo sul banco per dargli una struttura, oliate un recipiente (possibilmente con i bordi alti e stretti per consentirgli di crescere in altezza), chiudete ermeticamente e mettete a lievitare a una temperatura di 26°C-28°C per un’ora. STAGLIO E FORMATURA Recuperate l’impasto, ribaltatelo sul piano da lavoro e dividetelo in sei parti uguali, formate delle palline e appiattitele delicatamente formando un ovale, poi ripiegate l’impasto verso il centro fino a ottenere un panetto regolare allungato. Lasciate quindi riposare (con il lato della chiusura in basso) 15-20 minuti per far rilassare il glutine e recuperare estensibilità. Dopodiché, appiattite ogni panetto, ripiegate ancora i lembi verso il centro per dare forza all’impasto, servirà a dargli ulteriore struttura e permettergli di crescere in altezza durante l’appretto. A questo punto arrotolate tra le mani per avere una forma allungata e uniforme, tenendo come riferimento la dimensione della vostra teglia, tipicamente da 40 cm. Infarinate un canovaccio (abbastanza lungo) e stendetelo sulla teglia, appoggiate un filone (con il lato della chiusura verso l’alto) e poi il successivo, tirando un po’ il tessuto tra uno e l’altro per tenerli separati. In ogni teglia da 30x40 cm riuscirete a mettere 3 filoni. APPRETTO Coprite con un altro canovaccio e lasciate lievitare per un’altra ora a 26°C 28°C, o comunque fino al raddoppio del volume. COTTURA Preriscaldate il forno statico a 230°C e preparate un pentolino di acqua bollente. Appena i filoni saranno pronti, capovolgeteli su una teglia foderata con carta forno. Spolverate leggermente con della farina la parte superiore e fate un taglio longitudinale con una lametta o un coltello ben affilato. Infornate per circa 10 minuti con il pentolino nella parte bassa e la teglia in posizione centrale. Trascorso il tempo, togliete il pentolino e cuocete per altri 5-10 minuti con la porta leggermente aperta per far uscire il vapore e asciugare la crosta, che dovrà risultare croccante, friabile e ben colorata. Sfornate, lasciate raffreddare su una griglia rialzata e preparatevi per farcirle a dovere.

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(ricetta a cura di Alessandro Trezzi)


LA CARNE E adesso passiamo all’ingrediente portante del sandwich cubano: la carne di maiale. Generalmente, le scuole di pensiero su quale sia il destino più dignitoso per il porco sacrificato sull’altare si dividono tra la cottura di un’intera spalla, previa salamoia, da tagliare a fettone generose; oppure il pullaggio del pezzo, condito con il famosissimo Mojo, la salsa cubana che non c’azzecca niente con i colpi di anca. Io che con le rivoluzioni, cubane e non, ci vado a nozze, ho deciso di dare il mio personalissimo tocco alla ricetta, mettendo la carne in salamoia e iniettandola con lo stesso liquido, cuocendola come il più classico dei pulled pork (il maiale sfilacciato cotto a lungo e a bassa temperatura) e irrorandola con un Mojo al lime profumatissimo. Ma partiamo dalla scelta del pezzo. I TAGLI Ciò che determina la conversione del collagene in gelatina e la conseguente destrutturazione del reticolo proteico che tiene insieme le fibre del nostro maiale è un fenomeno che prende il nome di “idrolisi del collagene": ve la ricordate? Ne abbiamo parlato a lungo nella ricetta dello spezzatino scientifico (per l'approfondimento, andate a pagina 130). In poche parole, grazie alla denaturazione di questa proteina per via termica, ciò che prima era duro e tenace si trasforma in un liquido gelatinoso. Il maiale sfilacciato si può preparare con qualunque taglio, ma dobbiamo trovare la quadra tra percentuale di grasso e collagene rispetto alla massa muscolare. Come ho spiegato più volte, il grasso migliora l'umidità e conferisce sapore, mentre il collagene, una volta convertito in gelatina, diventa un incameratore di umidità molto efficace. E non fate l’errore di scegliere tra i tagli nobili dell’animale, una volta di tanti anni fa ho preparato un pulled pork con la coscia del maiale, convinto che un pezzo così nobile mi avrebbe restituito un risultato eccezionale. Ebbene, sembrava di sfilacciare Sandwich e Burger

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l'imballo di un pacco di Amazon. La coscia di maiale è un taglio decisamente meno grasso della spalla e con un contenuto di collagene inferiore, ecco perché è poco adatto. Vi consiglio di scegliere tra: Boston Butt (taglio americano) È IL taglio: la porzione di spalla assicura il corretto apporto di collagene, mentre la coppa apporta la giusta quantità di grasso, gusto e succosità. Il Boston Butt è squadrato e compatto e comprende al suo interno la scapola (“paletta”). • Pic Nic (taglio americano) Si tratta di un taglio più economico e dalla resa inferiore, ma in grado di dare un Pulled Pork con caratteristiche abbastanza simili a quelle del Boston Butt, poiché contiene molto più collagene. • Coppa di maiale (taglio italiano) Buona quantità di grasso e quindi grande gusto, sovrabbondante rispetto al collagene. Il risultato sarà un Pulled Pork saporito, il grasso assicurerà morbidezza e una grande carica aromatica. Io ho utilizzato una coppa di 3,5 kg. • Spalla di maiale (taglio italiano) Al contrario della coppa, qui abbiamo una gran quantità di collagene su un taglio abbastanza magro. Cuocendo la spalla otterrete un maiale sfilacciato poco saporito. Fondamentale oltre al taglio è anche prendere in considerazione l’età dell’animale, che determina il tipo di struttura del connettivo. La degradazione enzimatica delle proteine post mortem (collagenasi, catepsine & co) determina la “solidità” della struttura del connettivo di quel preciso animale che richiederà tempi sicuramente diversi rispetto a qualunque altro. La quantità di grasso intramuscolare, invece, può dipendere da mille fattori. Un giusto livello di marezzatura e frollatura del maiale faranno senza dubbio una differenza abissale rispetto ad un capo magro e appena macellato. Soprattutto la quantità di liquidi ritenuti nei tessuti e il pH della carne possono dare risultati completamente diversi. •

LA SALAMOIA ACIDIFICATA La denaturazione delle proteine, oltre che per via termica, può avvenire anche per via chimica. Due elementi in grado di favorire questo processo sono il sale e l’acidità. Il cloruro di sodio, il sale in sostanza, è capace di migliorare profondamente le caratteristiche della carne in termini di umidità, sapidità e consistenza, mentre la parte acida ha il compito di magnificare la sensazione di succosità. L’esposizione diretta di piccoli tagli di carne a componenti particolarmente acide genera una trasformazione profonda dei tessuti muscolari e del connettivo; un acido non fa altro che apportare ioni H + (derivati dall’acido acetico, citrico o lattico contenuti nelle basi acide). L’azione di questi ioni cambia radicalmente la conformazione delle proteine della carne, generando una denaturazione e successivamente una coagulazione molto simile a quella che avviene con il calore. 276

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Preparando i vostri carpacci avrete senz’altro osservato che immergendo un pezzo di carne nel succo di limone si assisterà ad un rapido e progressivo cambio di colore che coinvolgerà tutte le proteine, compresi i pigmenti muscolari come la mioglobina, che coagulano diventando di colore grigio. Le componenti acide modificano profondamente la struttura delle proteine rendendole capaci di trattenere una maggiore quantità d’acqua durante le fasi di cottura; parallelamente abbiamo anche un'importante esplosione a livello gustativo: la percezione di acido implementa in molti casi la gradevolezza della carne. Ecco perché è molto importante mettere a mollo la ciccia e “pompare”, tramite una siringa apposita, la stessa salamoia acidificata all’interno del pezzo di carne qualche ora prima. Gliene infilate quanta più possibile, tanto rimarrà all’interno solo una parte, che è impossibile da quantificare a priori Preparate la salamoia e mettete a bagno il pezzo di carne, quindi copritelo con della pellicola. Lasciatelo in ammollo in frigorifero per almeno 12 ore, girandolo di tanto in tanto (diventerà grigiastro una volta trascorso il tempo necessario).

Salamoia acidificata al 5% di sale

800 ml di succo d’arancia 800 ml di acqua 200 ml di aceto di riso 200 ml di rum 100 g di sale 50 g di zucchero di canna 8 spicchi di aglio pestato 1 g di timo 2 g di rosmarino 2 g di origano 2 g di salvia 3 g di pepe nero in grani

per la "rubbatura" Senape di Digione q.b. BBQ4All Tennessee Rub

Trasferite la ciccia su un tagliere e filtrate la salamoia con un colino a maglie molto strette. Riempite la vostra siringa da allegro chirurgo con la salamoia e inoculate il liquido lungo tutta la superficie, pungendo ogni 2 cm circa. Importante: questa roba schizza. Mettete un grembiule e state alla larga da muri appena imbiancati. E non vi affaccendate a nascondere le magagne con un colpo di straccio, la vostra compagna avrà già chiamato i RIS di Parma.

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Una volta seviziato il porco, battezzatelo con un velo di senape di Digione e cospargetelo di un sottile strato di BBQ4All Rub Tennessee su tutti i lati. Ho detto sottile, non state inzuccherando il pandoro. LA COTTURA Quando si parla di pulled pork si rispolvera sempre la tenzone tra “low&slow” e “hot&fast”, le due tecniche che si contendono il titolo di cottura più adatta. In parole povere c’è chi dice che cuocere a bassa temperatura per più tempo è meglio che ad alta temperatura per poco tempo. E viceversa. Il consiglio che vi do è: diffidate da chi si schiera per l’una o per l’altra. Lo scioglimento del connettivo non avviene solo ad una data temperatura. Avviene sempre, anche quando l’animale grugnisce ancora. Il nocciolo della faccenda è che a determinate temperature questo processo si accelera in modo significativo. Questo range è compreso fra 70°C e 82°C/85°C. A 85°C si ha il picco massimo di velocità di scioglimento del connettivo. Questi 85°C però non sono il punto di arrivo, anche se il pezzo di carne raggiunge la temperatura target al cuore non significa che il connettivo che contiene si è sciolto del tutto. Il punto è che mantenendo la carne a questa temperatura sto velocizzando il processo di scioglimento. Che comunque ci impiegherà, realisticamente, qualche ora. Ed è proprio per questo motivo che entra in gioco la fase di “rest” cioè di riposo. Maggiore è il tempo in cui lasciamo la carne all’interno di questo range di temperature, più veloce sarà il processo di scioglimento. Ora comprenderete che la tecnica grazie alla quale arrivo a questa temperatura è assolutamente ininfluente (low&slow/hot&fast) se mi sono preoccupato di favorire la denaturazione per via chimica, iniettando una salamoia acidificata. Che cosa cambia quindi se ci arrivo lentamente o velocemente? Cambia l’effetto superficiale e quindi il sapore. Una cottura in low&slow, magari in foil, rende più critica la formazione e il mantenimento del bark (la crosta superificiale). Una cottura in hot&fast, probabilmente, faciliterà il sapore di “arrostito” grazie alla velocizzazione dei processi di cauterizzazione nostre care reazioni di Maillard). Ma di certo l’hot&fast non facilità né complica il processo di scioglimento del connettivo in gelatina; quello accadrà comunque ed è solo una questione di tempo. Quali sono i pregi e difetti del low&slow? Gestione più semplice del processo di cottura a fronte di tempi più lunghi. Quali sono i pregi e difetti dell’hot&fast? Gestione mediamente più complessa a fronte di tempi sensibilmente più brevi e note “arrostite” più marcate. Resta inteso che senza il controllo della fase di scioglimento del connettivo, i due metodi non apportano ulteriori benefici. Io il “puerco” l’ho preparato in low&slow, nel forno di casa. Cotto al barbecue è senz’altro migliore, la nota affumicata ci sta da Dio e qua vi faccio un riassunto dell’argomento, ma ho voluto semplificare la ricetta anche per chi non si è ancora munito degli strumenti adatti. 278

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AL BARBECUE - Le tre fasi La prima fase è quella dell'affumicatura, che è più efficace in ambiente umido. Lo scopo è identificare il giusto grado di umidità, senza trasformare però il rub in una pappetta molle. La seconda fase è quella della disidratazione del rub, è qui che l’umidità va ridotta drasticamente. La terza fase è quella che mira a raggiungere la completa gelatinizzazione del collagene e la destrutturazione della rete proteica, che consente lo sfilacciamento del nostro maiale alla cubana.

Come rigenerare il pulled pork

So già che state per chiedermelo: posso cuocere il pork il giorno prima per farcire il panino il giorno dopo? Certo che sì, il segreto sta nel riscaldarlo nella maniera corretta, per evitare che si secchi o si rovini. È fondamentale quindi mettere da parte i suoi preziosissimi succhi. Fate così: scaldate i succhi di cottura e versateli sul maiale sfilacciato che avrete conservato in una vaschetta o in una teglia di alluminio. Poi coprite e mettete a scaldare in forno ad una temperatura di circa 80°C.

Procedete in questo modo: Predisponete il carbone formando il classico snake, il sistema usato più spesso nei kettle che consiste nel creare un “serpentello” costituito da una o due file di bricchetti spenti, disposti in doppio strato e aderenti al braciere. Una volta sistemati, si versano dei bricchetti accesi su una delle due estremità del semicerchio: i bricchetti accesi intaccano quelli spenti partendo da quella estremità e si prosegue lungo tutto il cerchio. Stabilizzate la temperatura a 110°C-120°C. Disponete la carne nel dispositivo di cottura, quindi affumicate in modalità thin blue, cioè con pochi trucioli di melo che producono un fumo leggero e costante, fino a quando la carne non avrà raggiunto i 55°C. Sospendete l’affumicatura quando avrete ottenuto il bark della consistenza desiderata e di un bel color mogano. Procedete alla messa in foil con la tecnica del Texas crutch: una sorta di cartoccio costituito da un foglio di stagnola posto sotto il pezzo di carne e richiuso in maniera gentile, accartocciando i lembi sopra di esso senza pressare eccessivamente sul bark. Oppure semplicemente mettendo la ciccia in una vaschetta di alluminio e sigillando la sommità con un foglio di stagnola stretto intorno alla cornice. Sistemate una testa d’aglio sbucciata in una teglietta o su un guscio di alluminio accanto al pezzo di carne (vicino, non insieme), vi servirà per preparare una cremina da spalmare sul pane. Continuate la cottura fino a quando la carne non avrà raggiunto i 98°C al cuore. Lasciate la carne in rest e sfilacciatela con i suoi succhi. Recuperate l’aglio che sarà diventato morbidissimo, frullatelo insieme a poco olio, sale e un goccio di succo di limone. Potrete spalmare un velo di questa salsetta sulla base del panino.

IN FORNO Accendete il forno in modalità statica e impostate la temperatura sui 120°C. Poggiate la carne su una gratella (per tenerla sollevata) e piazzate una vaschetta di alluminio sotto, per non sporcare tutto. Quando il bark si sarà formato e sarà perfettamente asciutto, trasferite la ciccia in una vaschetta di alluminio e mettete in foil, come vi ho spiegato prima. A parte piazzate una testa d’aglio in una piccola teglia o in un cartoccio di alluminio. Continuate la cottura fino a quando la carne non avrà raggiunto i 98°C al cuore. Lasciate la carne in rest e sfilacciatela con i suoi succhi. Lavorate l’aglio come descritto prima. Sandwich e Burger

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IL PROSCIUTTO AFFUMICATO Nel Cuban sandwich ci va il prosciutto cotto, quello classico e senza particolari aggiunte. Ma a me pareva un ingrediente un po’ moscetto e piatto, per cui ho deciso di arricchire il panino con la nota affumicata del Prosciutto di Praga. Che potete comprare nella vostra salumeria di fiducia oppure fare in casa. Come? Ve lo spiego subito. Procuratevi una coscia disossata a femore chiuso. Così il femore e l’osso del ginocchio verranno asportati senza aprire a metà la coscia. Chiedete al vostro macellaio se può procurarvi una coscia già destinata e pre-rifilata per i prosciutti cotti HU (con molto grasso sottocutaneo) o HE (più magro). Preparate una salamoia tradizionale con acqua, sale e aromi. Indicativamente per 1 litro di liquido aggiungete 140 grammi di sale e aromi a piacere. Prima di mettere a bagno la coscia, iniettate la salamoia fin dentro la carne, rigorosamente a freddo per evitare la proliferazione batterica. Il prosciutto iniettato va fatto riposare in un contenitore per circa 6 giorni in ambiente refrigerato, tra i 2°C ed i 4°C. È sconsigliato andare oltre il 20% del peso della coscia con le iniezioni, quindi per una coscia di 10 kg iniettate 2 litri circa di salamoia. Quella che vi sto suggerendo è una ricetta semplificata, esistono metodi e lavorazioni più elaborati che prevedono l’utilizzo di additivi come nitrati e polifosfati. Passati i 6 giorni, rimuovete il prosciutto dal frigo e legatelo, fate prima un cappio stretto e saldo centralmente e poi continuate a realizzare degli anelli, tirando più che potete lo spago, fino ad ottenere una “margherita”. Mettete in griglia la vostra coscia con la cotenna rivolta verso l’alto e, se vi piace, incidete a rombo con un coltello affilato. Preparate il dispositivo per una cottura a bassa temperatura, tra i 115°C ed i 130°C, un paio di chunk di melo e iniziate ad affumicare. Fondamentale per la buona riuscita del prosciutto è saturare l’ambiente di umidità, quindi posizionate il water pan bello carico di acqua bollente, poiché il vostro obiettivo non sarà un bark croccante, ma morbidezza della carne e sentore di fumo. Proseguite dritti fino alla meta fissata a 82°C al cuore. Una volta pronto, avvolgete il prosciutto nel foil e mettetelo in rest per qualche ora. Quindi fate scendere la temperatura sotto i 35°C. Vi consiglio di prepararlo il giorno prima e di metterlo in frigo. Scendere sotto i 35°C permetterà al collagene di riacquistare consistenza e quindi potrete ricavare fette più omogenee e compatte. 280

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I CETRIOLI SOTTACETO La conservazione sott'aceto può avvenire sostanzialmente in due modi: per fermentazione lattica o con un'aggiunta di un ingrediente acido (aceto) ad un alimento precotto. I sottaceti fermentati più famosi sono appunto i cetriolini, ingrediente chiave del nostro paninozzo cubano. I cetrioli vengono sottoposti ad una proliferazione microbica: lo starter è costituito dai microorganismi naturalmente già presenti su ortaggi e verdure, mentre l'acido lattico funge da conservante. Si sfrutta l'azione di batteri lattici quali L. mesenteroides, E. faecalis, P. cerevisiae, L. brevis e L. plantarum. Per prima cosa i cetriolini vengono lavati, puliti e tagliati. Poi si aggiunge il sale da cucina, che serve a selezionare la colonia microbica giusta, attivando solo i batteri necessari alla liberazione di acido lattico. Ma esistono anche i sottaceti preparati con ingredienti lavati, tagliati, precotti e poi immersi in un liquido acido bollente, con un pH di circa 4,6. Questo perché i batteri si sviluppano prevalentemente a pH di 6,5-7,5, le muffe a circa 6, ed i lieviti in un range di pH oscillante tra 3 e 4. Con la precottura e la successiva immersione del sott'aceto nel liquido di governo ustionante è possibile abbattere quasi del tutto la carica microbica. IL METODO 1-2-3 DI MAGNUS NILSSON Esiste però una tecnica per ottenere dei sottaceti espressi, freschi e che conservano una grandissima croccantezza, poiché l’ingrediente da conservare non viene mai scaldato. È il metodo 1-2-3 che lo chef stellato svedese Magnus Nilsson (ex patron del leggendario Fäviken, ristorante passato alla leggenda nella cucina mondiale) descrive nella Bibbia della cucina nordica “The Nordic Cookbook”. È un metodo molto semplice da mettere in pratica. Gli ingredienti sono riportati nella prossima pagina nel riquadro a lato. Per prima cosa bisogna preparare la marinata. Sandwich e Burger

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Cetriolini

metodo Magnus Nilsson 1 l di aceto di vino bianco 2 kg di zucchero 3 litri di acqua 1 kg di cetrioli 40 g sale fino

Mojo 180 ml di olio extravergine di oliva 10 g di cilantro fresco 130 ml di succo arancia 130 ml di succo lime 7 spicchi di aglio tritati 10 g di buccia d’arancia grattugiata 5 g di buccia di lime grattugiata 3 g di origano 2 g di pepe nero 1 g di cumino sale q.b.

1.

Portate l’acqua a bollore e dissolvete lo zucchero, fino ad ottenere uno sciroppo. Aggiungete l’aceto e fate raffreddare. 2. Tagliate i cetrioli a fettine o a rondelle, ad uno spessore di 3mm; disponete in uno scolapiatti e cospargete con il sale. Lasciate agire per 30 minuti e poi strizzate. 3. Sistemate i cetrioli in un barattolo e ricoprite con la marinata. Fate riposare in frigo per almeno 2 ore. 4. Aggiungete aromi a piacere (semi di senape, aneto, cipolla tritata), i sottaceti così preparati si conservano in frigorifero per 1 settimana. Questa procedura è più che collaudata, ma per i cetrioli del nostro panino ho pensato di fare una piccola modifica, riducendo il quantitativo di zucchero e aumentando quello dell’aceto. Sciogliete 800 grammi di zucchero in 1,5 litri d’acqua, poi aggiungete 600 ml di aceto. Affettate 500 grammi di cetrioli (non togliete la buccia!) e seguite le istruzioni come sopra.Riempite un barattolo in vetro con i vostri cetrioli affettati e coprite con il liquido, aggiungete qualche fettina di lime per aromatizzare e qualche rametto di timo, che viene utilizzato anche per la cottura del maiale. Lasciate riposare per qualche ora e fateli sparire entro pochi giorni. Mi raccomando, questa non è una tecnica per conservare i sottaceti a lungo. LE SALSE Così come siamo soliti condire il pulled pork con una salsa, è fondamentale irrorare i nostri straccetti di maiale con un sughetto acidulo, che andrà a bilanciare la nota grassa e opulenta della carne e del formaggio svizzero, che va stratificato senza ritegno con il resto degli ingredienti. Preparate il Mojo il giorno prima, lasciando in infusione tutti gli ingredienti per 24 h. Quindi filtrate il tutto con cura ed emulsionate con il minipimer o con le fruste. E la senape? Va spalmata sotto il cappello del panino, bella spessa. Vi consiglio però di darle un po’ di friccicore aggiungendo 10 grammi di succo di lime (o limone) per ogni 100 grammi di senape. Questo permette di armonizzare i sapori di un sandwich non proprio facile da affrontare. L’ASSEMBLAGGIO DEL SANDWICH E adesso veniamo alla mia parte preferita, la costruzione finale dell’opera. Tagliate il pane a metà e spalmate del burro sia sulla parte della mollica che della crosta. Tostate la parte interna del panino, spalmate sulla base un velo sottilissimo di crema di aglio, se vi piace, e una buona dose di senape sulla parte interna dell’altra metà. Disponete le fette di prosciutto di Praga, formando dei fiocchetti grandi quanto un morso. Ora aggiungete il maiale sfilacciato e bello intriso di salsa e coprite con delle fette di formaggio svizzero (tante). Chiudete il panino, piastratelo o scaldatelo in forno per far fondere il formaggio, poi riapritelo e aggiungete i cetrioli a fette sulla sommità. Serrate e ammirate la spavalderia del vostro sandwich, magari sorseggiando un Mojito alla Fidel e urlando “Ueh Nixon! Giù le mani dal mio cubano!”

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6.4 – GLCHEESEBURGER


“È impossibile”, disse l’orgoglio. “È rischioso”, disse l’esperienza. “Provaci”, sussurrò il cuore. "Per me un cheeseburger", disse lo Zio.

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Ascoltate lo stomaco, esso sì che conosce tutte le cose. Non so il vostro di pancino, ma il mio si rallegra sovente con un buon bacon cheeseburger, rigorosamente fatto in casa. Non è gnegnegnismo e neanche gastrofighettismo, atteggiamento che mi viene spesso rinfacciato da chi è più gastrofighetto del sottoscritto senza rendersene conto. Il fatto è che se proprio nessun locale, pub o hamburgeria è disposto ad accettare i miei soldi per prepararmi un hamburger come si deve, allora non mi resta che farmelo da solo. Fine della fiera. Sì, lo confesso: sono un fanatico dell’hamburger, ma non di una qualsiasi polpetta rotonda stretta fra due strati di pan brioche, no. L’hamburger deve avere dei tratti caratteristici che i nostri fratelli americani hanno delineato per noi. Non sto parlando di ricette o di condimenti, mi riferisco alle migliori tecniche per ottenere i migliori risultati. E cosa c’è nella vita di un mangione compulsivo di più utile e salvifico della scienza? Com’è possibile preparare un hamburger impeccabile ed evitare che il figlio maggiore chiami Glovo di nascosto? Con poche e semplici regole che hanno l’unico scopo di assicurarci un risultato eccezionale, ogni volta. Bando alle ciance e partiamo subito. UTILIZZARE IL PANE GIUSTO Il panino usato per l’hamburger nel gergo si chiama bun. Il bun non deve essere un pane di tipo normale: dobbiamo utilizzarne uno che si integri perfettamente con la polpetta di carne. Un pane troppo duro, che richiede propulsione nella masticazione e per lo strappo, non sarà per niente adatto al nostro scopo; ci costringerà, inevitabilmente, a imprimere troppa forza che farebbe sgusciare fuori tutta la preziosa farcitura. Il bun deve essere simile ad una brioche, cioè dovrà essere molto morbido e abbastanza friabile. Questo non significa buttarsi sulla prima confezione di pagnottelle incartapecorite del supermercato. Premesso questo, vi propongo due panini per hamburger: entrambi con la stessa personalità, appartenenti ai lati opposti dello spettro. Il primo è un panino da slider, con una tessitura eccezionale, l’ideale per i vostri smashed burgers; il secondo è una brioche molto ricca e morbida, che ricorda i panificati di scuola francese. Esistono tantissimi altri tipi di panini (solo in Italia ne abbiamo più di 250). Queste due ricette rispondono ad alcuni dei quesiti più interessanti della panificazione: possiamo creare una brioche che non sia troppo stopposa e non troppo burrosa? Possiamo fare un panino soffice in stile fast food che abbia un sapore complesso? Possiamo farlo senza ricorrere ad additivi difficili da reperire? Sì, sì e sì. E potete farlo anche voi. 286

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GLI ADDITIVI I panini per hamburger veramente buoni richiedono un sacco di abilità nella cottura, ma anche un po' di know-how sugli ingredienti aiuta molto. La maggior parte dei bun industriali o artigianali è estremamente morbida rispetto ad altri tipi di pane. Questo accade perché i panettieri di professione fanno largo uso di additivi per la panificazione, che aiutano a emulsionare gli ingredienti, a migliorare il processo di fermentazione, a rendere i prodotti uniformi e a rendere più soffice la mollica. A casa, possiamo cavarcela usando meno additivi ottenendo risultati che non sarebbero praticabili per le attività commerciali su larga scala. Lisina. Le grandi panetterie e i fast food spesso aggiungono all'impasto un aminoacido chiamato lisina, che interferisce con il glutine (il complesso proteico contenuto nei cereali) e lo fa rilassare. L'impasto trattato con lisina avrà una consistenza più fluida e si distenderà facilmente, permettendogli di espandersi rapidamente nello stampo. Questo è importante quando si fanno centinaia di panini, ma non così fondamentale per un panificatore amatoriale. Quindi, poiché la lisina può essere difficile da reperire, all’occorrenza possiamo appiattire i panini (usando le nostre mani o una superficie piatta come una padella, un piatto) per dare loro una forma. Amilasi. Trovata in quasi tutti i prodotti da forno commerciali, l'amilasi è un enzima che scompone gli amidi in zuccheri, ammorbidendo il panino durante la preparazione e rendendo più soffice il prodotto finale. L'amilasi è naturalmente presente nel germe di grano - e quindi, naturalmente presente nella farina - ma solo in piccole quantità. Si aggiunge un po' di amilasi pura per migliorare il processo di fermentazione (ed esaltare il sapore allo stesso tempo), quando vogliamo un prodotto morbido con una mollica leggera. Un altro additivo chiamato malto diastasico in polvere contiene amilasi, ed è quello che utilizzeremo noi nelle nostre due ricette. Acido ascorbico (vitamina C). L'aggiunta di acido ascorbico all'impasto incrementa l'acidità, promuovendo un migliore processo di fermentazione. Al lievito piace l’ambiente acido: per rendere il lievito ancora più felice, aumentate un po' l'acidità dell'impasto. Potete farlo aggiungendo un pizzico di acido ascorbico (vitamina C) o sostituendo parte del liquido con un liquido acido (un cucchiaio di succo d'arancia, succo di limone o aceto). Questo è particolarmente utile quando state realizzando una ricetta di un pane dolce, una in cui il lievito sarà inibito da una maggiore quantità di zucchero. Sandwich e Burger

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FORMARE I BUN Una delle cose più belle dei panini industriali per hamburger (o di qualsiasi panino, in realtà) è il loro aspetto perfettamente liscio e uniforme. Un metodo di formatura affidabile può fare la differenza tra panini sbilenchi e ruvidi e panini dall'aspetto impeccabile e professionale. Per formare i panini, usate un movimento di arrotolamento-piegatura: spingete la pasta verso l'alto dal fondo della palla con l'indice e il medio; usando il pollice, ripiegate i bordi esterni verso il centro, tirando più pasta verso l'alto e verso l'interno, ed esponendo una nuova superficie esterna. Ripetete fino ad avere un panino a forma di cupola con una superficie liscia. Pizzicate il fondo per chiudere il buco e mettete il panino con il lato pizzicato verso il basso su una superficie non infarinata. Senza toccare il panino, mettete la mano sopra la parte superiore a mo' di "gabbia", con il palmo della mano appoggiato sul piano di lavoro. Con un movimento circolare di arrotondamento formate il panino in una palla stretta. L’EFFETTO “OVEN SPRING” “Oven Spring” è un termine di panificazione che descrive la rapida azione lievitante degli impasti di pane appena messi in forno (da “oven”, che significa forno, e “spring,” che vuol dire molla). Quando l'impasto si riscalda, l'acqua al suo interno si trasforma in vapore, facendo espandere le bolle di gas all'interno dell'impasto. La quantità di Oven Spring dipende dalle condizioni all'interno del forno: in generale, una maggiore umidità e una temperatura più alta significano più Oven Spring. Il calore contribuisce alla spinta del forno stimolando l'acqua nell'impasto a convertirsi rapidamente in vapore, e l'umidità mantiene l'impasto abbastanza elastico da reggere una rapida lievitazione. Se l'ambiente è caldo e secco, la crosta si svilupperà rapidamente e impedirà al pane di lievitare, restituendo un pane secco con una struttura ad alveoli molto fitti. Ma se si mantiene l'ambiente troppo umido per troppo tempo, il pane non avrà la possibilità di sviluppare alcuna crosta, e crollerà miseramente quando si raffredderà, formando le rughette che vediamo spesso sulla superficie dei bun.

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IMPASTAMENTO Iniziate preparando un pre-impasto con l’acqua appena tiepida, 200 grammi di farina, il cucchiaino di malto ed il lievito sbriciolato. Date una mescolata fino ad ottenere una pappetta piuttosto molle, coprite la ciotola con pellicola e lasciate gonfiare per circa 40 minuti in un ambiente caldo. Recuperate una planetaria e montate la frusta a foglia, in mancanza si va giù di olio di gomito. Niente scuse. Versate 120 grammi di farina, un uovo intero e 15 grammi di zucchero, lasciate lavorare la macchina a bassa velocità per qualche minuto e aggiungete i 15 grammi di burro morbido fino a completo assorbimento. Sostituite la frusta con il gancio e avviate la macchina per 10 minuti circa. Aggiungete un uovo alla volta, 1/3 dello zucchero e un po’ di farina fino ad esaurire gli ingredienti, unite per ultimo il tuorlo ed il cucchiaio di malto. Lavorate l’impasto per 10 minuti e aggiungete gli 80 grammi di burro, aspettate che venga assorbito in toto e versate l’olio a filo. Aumentate la velocità della macchina e lasciate impastare per 20/30 minuti circa, terminate l’operazione aggiungendo il sale e fate assorbire. Il risultato è un composto molto elastico che può essere tirato fino a formare un velo sottilissimo. Lasciate riposare comprendo la ciotola con un canovaccio per un quarto d’ora . Riprendete l’impasto e stendetelo in un rettangolo su un piano ben infarinato.

Panini da slider 700 g di farina 00 di grano tenero 300W 200 g di acqua 4 uova intere + 1 tuorlo 80 g di burro 60 g di zucchero semolato 15 g di burro morbido 14 g di sale 10 g di birra fresco 10 g di olio extravergine di oliva 1 cucchiaio + 1 cucchiaino di malto diastasico in polvere (13 g + 5 g)

Per la finitura Latte intero q.b. 2 tuorli d’uovo 1 pizzico di sale

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Fate una “piega a tre”, portando un lembo di pasta al centro del rettangolo e sovrapponendo il lembo opposto, quindi arrotolate “a campana” come in fotografia. PUNTATA Giunti a questo punto potete trasferire l’impasto in un contenitore sigillato e collocarlo per 12 ore nella parte bassa del frigorifero, oppure continuare la lavorazione. Schiacciate leggermente l’impasto con il matterello e date un secondo giro di pieghe come sopra. Coprite a campana e lasciate riposare per una mezz’oretta. STAGLIO Ricavate dei pezzetti di impasto aiutandovi con un tarocco, il peso ideale va dai 30 grammi ai 50 grammi. Richiudete tendendo la pasta nel pugno come se si trattasse di un piccolo babà e posizionatelo in una teglia circolare o rettangolare a bordi alti, leggermente unta con poco burro. Coprite con pellicola facendo attenzione a non toccare l’impasto. APPRETTO Lasciate raddoppiare in un ambiente a 28°C. Pennellate con poco tuorlo allungato con il latte e aggiungete una manciata di semi di sesamo, se vi piace. Un trucco per distribuire il cosiddetto “egg wash” senza rovinare la superficie dei panini? Versate il composto in un flacone munito di vaporizzatore e spruzzate la nebbiolina di tuorli e latte. 290

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COTTURA Preriscaldate il forno a 170°C. Cuocete in modalità statica per 40 minuti circa. Una volta pronto e raffreddato, sformate e tagliate a metà tutti i panini senza staccarli, come se fosse una torta. Tostate i due dischi dalla parte della mollica e farcite tutto insieme. In questo modo i commensali potranno strappare con le mani il proprio panino.

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Brioche Bun

Ingredienti per 18 panini grandi

1 kg di farina 00 di grano tenero 300 W 450 g di latte intero 150 g di burro morbido 2 uova (a temperatura ambiente) 80 g di zucchero semolato 20 g di malto diastasico 20 g di sale fino 20 g di lievito di birra fresco

Per la finitura latte fresco intero q.b. 2 tuorli d'uovo 1 pizzico di sale semi di sesamo q.b. semi di zucca q.b. semi di lino q.b. semi di girasole q.b. semi di papavero q.b. fiocchi d'avena q.b. grue di cacao q.b.

IMPASTAMENTO Rovesciate in un recipiente ampio (o nella vasca della vostra impastatrice) tutta la farina, il 75% del latte, il lievito sbriciolato e il malto diastasico; dopo averli amalgamati bene aggiungete il latte rimanente poco alla volta, attendendo che sia ben assorbito prima di aggiungerne un ulteriore quantità. Burro e uova devono necessariamente essere a temperatura ambiente, il primo per agevolarne l’assorbimento, le altre perché l’emulsione possa avere luogo senza problemi di natura fisico-chimica; un’ottima idea è amalgamare i due ingredienti separatamente utilizzando una frusta, aggiungendo poi il composto a poco a poco nell’impasto. Aggiungete anche lo zucchero poco alla volta in quanto, contribuendo ad aumentare in modo sostanziale l’umidità dell’insieme, va amalgamato lentamente per non compromettere la formazione della maglia glutinica. Aggiungete infine il sale (necessariamente lontano dal lievito, o potrebbe inibirne l'azione) e terminate l’impastamento quando l’insieme risulterà liscio, asciutto e setoso e la maglia glutinica si sarà formata. La temperatura interna dovrà essere di almeno 24°C per permettere a tutti i processi fermentativi e alla maturazione di avere inizio senza particolari ritardi. Lasciate riposare nella ciotola per circa 15 minuti, poi fate alcune pieghe di rinforzo per rafforzare e stabilizzare il glutine e di conseguenza la struttura dell’impasto.

PUNTATA In questa fase l'impasto matura e la maglia glutinica si stabilizza. Posizionate il tutto in un recipiente dai bordi alti ben oliato (soprattutto nella parte superiore, per evitare la formazione della pelle) e lasciate a temperatura ambiente per almeno un’ora per dar modo alla lievitazione di partire, e infine mettete in frigorifero per 18-24 ore a una temperatura di 4°C. STAGLIO Circa 4 ore prima della cottura togliete dal frigorifero e dividete l’impasto in panetti da 80 – 100 grammi l’uno. Operazione fondamentale, dopo aver pesato i singoli pezzi di impasto, è di schiacciare per bene facendo uscire l’aria formatasi durante la prima lievitazione, per poi arrotolare e formare una 292


pallina ben chiusa; in tal modo, i gas sviluppatisi durante l’appretto risulteranno uniformemente distribuiti e la mollica avrà una struttura omogenea, senza bolle d’aria indesiderate e dislocate. Adagiate su una teglia con della carta forno, ben distanziati uno dall’altro, pennellate con il composto di latte, tuorli e un pizzico di sale sbattuto con una forchetta, coprite con pellicola o con un panno umido e lasciate in appretto a una temperatura di 28°C-30°C. I panini devono triplicare di volume. Il consiglio è di non posizionare più di 6 panetti per ogni teglia 30x40 cm, per ottenere un prodotto finito che abbia circa 10 cm-11 cm di diametro. APPRETTO Durante lo staglio l'impasto viene manipolato e i lieviti ridistribuiti uniformemente; l'appretto (o seconda lievitazione) consente al semilavorato di svilupparsi al fine di ottenere la sua forma finale. Se vi piacciono i panini più bassi, dopo circa 30 minuti, inumiditevi leggermente le mani e schiacciate leggermente i panetti lievitati per formare dei dischi; questo banale trucco vi consentirà di contenere la lievitazione. Saltate “l’appiattimento” se vi piacciono i bun alti e tondi. Una volta terminata la seconda lievitazione potete pennellare nuovamente i panini con il composto di latte e tuorli e aggiungere dei semi di sesamo, papavero, zucca, girasole, lino e quanto di più vario esista. Io vado pazzo per il grue di cacao (granella di fave di cacao), provatelo. Altre tre ore e mezza a 28°C-30°C e i bun saranno pronti per essere infornati.

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COTTURA Stabilizzate la temperatura del vostro forno a 230°C e cuocete per 10-11 minuti; per verificare l’avvenuta cottura dei bun è necessario un doppio controllo: la temperatura interna, misurabile con un termometro a sonda, deve essere di 90°C e la mollica deve risultare completamente asciutta. RAFFREDDAMENTO, MANTENIMENTO E SERVIZIO Una volta sfornati i bun, lasciateli raffreddare su una griglia rialzata, evitando in tal modo la formazione di condensa che rovinerebbe il duro lavoro svolto finora. Se riposti in frigorifero in un sacchetto o recipiente a chiusura ermetica, i brioche bun si conservano perfettamente per 2-3 giorni; in caso contrario, è sempre meglio congelarli. Prima di farcire il vostro meraviglioso hamburger, tostateli dalla parte della mollica. In generale, il pane va necessariamente passato sulla piastra per due ragioni: la prima è che la tostatura sviluppa profumo e sapore ulteriore, la seconda è che, rendendo l’interno croccante, i liquidi che fuoriescono dalla carne non rischieranno di ammollarlo.

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SCEGLIERE CON CURA IL PATTY E CUOCERLO ALLA PERFEZIONE Il patty, la polpetta di carne insomma, è il centro focale di tutta la preparazione, il sapore dominante del nostro panino. L'hamburger non deve sapere di pane, di salsa e di sottaceti. Deve avere il gusto di carne. Il primo parametro di degustazione della carne è che il sapore specifico, tipico di una particolare razza, è contenuto principalmente nel grasso, non nella polpa. È importante quindi stabilire il giusto bilanciamento tra massa magra e grasso nell'impasto del nostro burger. Una polpetta fatta di solo muscolo, a fine cottura, risulterà asciutta e stoppacciosa. Quella con un minimo di grasso all'interno risulterà di gran lunga più saporita e succosa. IL RAPPORTO MAGRO:GRASSO Pesate la carne magra a cubetti e il grasso a cubetti. Potete provare qualsiasi rapporto a partire da 50:50 (molto grasso, ma ha un senso) e fino a 100:0 (molto magro, anche questo ha il suo perché). Generalmente si propende per un rapporto tra il 60:40 e il 90:10 tra magro e grasso (a seconda del metodo di cottura finale) per ottenere l’equilibrio ideale di sapore, tenerezza e consistenza. Per capire il vostro rapporto magro-grasso preferito, dividete il vostro taglio di manzo in due gruppi separati. Carne magra da una parte, grasso bianco pulito dall’altra. Per esempio, in un rapporto 60:40 di grasso, peserete 600 grammi di carne magra e 400 grammi di grasso. Tagliate a cubetti i vostri pezzi e mescolateli insieme prima di macinarli. Il rapporto magro-grasso si calcola in base alla tecnica di cottura. Volete cuocere il vostro burger in sous vide? Optate per una polpetta più magra nel range 90:10 o 100:0. Forse vi sembrerà eccessivamente magra, ma cuocendola in sous vide tratterete l'umidità che normalmente perdereste sulla griglia o su piastra. State pensando di grigliare il vostro hamburger? 80:20 è il rapporto ideale per evitare le fiammate. Cuocete l'hamburger in padella o su piastra in ghisa? Buttatevi su un 60:40! Tutto quel grasso aiuta la rosolatura e crea un hamburger super umido. Alla fine della fiera, potete macinare quello che volete e come volete, ma un burger composto all'80% di magro e al 20% di grasso è l’ideale. Sandwich e Burger

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Le quattro tipologie di burger

HAMBURGER SOUS VIDE La cottura sous vide vi restituirà il più succoso (e magro) patty di carne che potete desiderare. Otterrete una polpetta soda ma tenera, succosa all’interna per via dell’umidità trattenuta, oltre a una perfetta cottura da parte a parte che solo il sous vide può garantire. Potete mantenere alto il rapporto tra magro e grasso perché la cottura uniforme e a bassa temperatura non lo asciugherà mai Rapporto magro-grasso: 80:20 fino a 100:0. Grana: 4,5 mm. Tipo di lavorazione: rapida. Aggiunte: un tuorlo d'uovo per mezzo chilo di carne. Formatura: utilizzare uno stampo ad anello o una pressa. Temperatura di cottura consigliata: 55°C/75°C per 30 minuti/1 ora. SMASH BURGER aka BURGER SPIACCICATO Lo smash burger è tutto un equilibrio perfetto di consistenza e sapore. La croccantezza della cottura perfetta, la succosità che deriva da una percentuale di grasso elevato e il suo sapore e quello dei liquidi che si caramellano sotto la polpetta. Mescoliamo leggermente la carne e poi aggiungiamo tuorlo d'uovo e gelatina in polvere (la colla di pesce, per intenderci) per trattenere l'umidità. Si può scottare velocemente e a temperatura elevata, e ottenere comunque una polpetta perfetta. Rapporto magro-grasso: 60:40. Grana: 4,5 mm. Tipo di lavorazione: la carne va emulsionata spremendola tra le dita per cinque volte. Aggiunte: un tuorlo d'uovo per mezzo chilo di carne, 1,5% di gelatina, 1% di sale.

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Formatura: no patty, basta formare una palla. Temperatura di cottura consigliata: calda da paura! Utilizzare una piastra in ghisa o una padella antiaderente. SLIDER Sono polpettine che cuociono velocemente, delle piccole bombe di sapore, sviluppato grazie a una cottura intensa su piastra piatta. Aroma intenso, mini burger super teneri - il tutto tenuto insieme dalla speranza e da una bella fettona di formaggio - cosa si può chiedere di più? Rapporto magro-grasso: 80:20. Grana: 4,5 mm. Tipo di lavorazione: rapida. Aggiunte: un tuorlo d'uovo per mezzo chilo di carne. Formatura: no patty, basta formare una palla. Temperatura di cottura consigliata: Calda da paura! Utilizzare una piastra liscia in ghisa o padella antiaderente. STEAK BURGER Spesso e succoso. Una macinatura fine e l'aggiunta di gelatina ti assicureranno un patty sodo, pronto per essere affettato come una bistecca. Rapporto magro-grasso: 70:30. Grana: 3 mm. Tipo di lavorazione: la carne va mescolata rapidamente schiacciandola tra le dita Aggiunte: 1,5% di gelatina, 1% di sale. Formatura: Modellare a mano una bistecca oblunga, spessa circa un 2,5 cm. Temperatura di cottura consigliata: 70 minuti a 55°C con 30 minuti di riposo, poi griglia o piastra in ghisa.


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MACINARE LA CARNE: I TAGLI IDEALI Il macinato confezionato è realizzato con ritagli di carne provenienti da tutta la carcassa, schiacciati attraverso dispositivi di macinatura con fori uniformi che garantiscono una consistenza omogenea “all’impasto”. Si divide in fasce a seconda della composizione. Il macinato può essere magro (85% di carne e 15% di grasso), extra magro (90% carne e 10% di grasso), o grasso (80% di carne e 20 per cento di grasso). A casa puoi diventare un cliente ancora più pignolo e tarare le tue percentuali in base al taglio di carne. Prendi nota: Flank Steak con rapporto magro-grasso di 90:10 Chuck Eye Steak con rapporto magro-grasso di 80:20 Rib Roast senza osso, alias "Ribeye" con rapporto magro-grasso di 75:25 Boneless Chuck Short Rib con rapporto magro-grasso di 70:30 Brisket Primal, alias "Packer Brisket" con rapporto magro-grasso di 65:35 LA PUNTA DI PETTO aka BRISKET: PERCHÉ È IL RE DEGLI HAMBURGER Questo taglio è generalmente disponibile ovunque ed è anche relativamente economico per quello che si può ottenere da esso. Il costo sarà maggiore rispetto all'acquisto di carne per hamburger pre-macinata, ma non c’è paragone a livello gustativo. La maggior parte delle persone ha provato la punta di petto solo in alcuni modi. Il 298

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Corned beef, il brisket affumicato e il pastrami sono le principali trasformazioni di questo meraviglioso taglio. E in tutte queste ricette, è necessario un prolungato tempo di cottura a bassa temperatura per sciogliere tutto il tessuto connettivo. Ma quando lo usate per la carne macinata, il tritacarne vi facilita il compito. Inoltre, ho scoperto attraverso le mie prove che in genere da un brisket raggiungo un rapporto magro-grasso di circa 62:38 - il rapporto perfetto di grasso per i nostri smash burger e steak burger. Capire gli agenti leganti Una volta che il manzo è bello che macinato, che si fa? Frulliamo la carne e il grasso insieme o lo mescoliamo con le uova? Che funzione ha il tuorlo? E quando si sala la ciccia? Adesso ve lo spiego. • Leganti - Questi agenti vengono utilizzati per tenere insieme il più possibile il grasso e il sapore esistenti, rispettando la carne di manzo. • Tuorlo d’uovo - Conferisce morbidezza al burger e aiuta a trattenere più grasso e succhi nella polpetta. • Sale - Okay, il sale può rovinare il vostro hamburger se lo fate troppo presto, va aggiunto poco prima della cottura. Il rapporto è dell’1% tra sale e carne. Se non potete aggiungerlo poco prima di andare in griglia, strofinate l'esterno della polpetta. • Gelatina - Aiuta a intrappolare l'umidità e forma una crosta super vetrosa sull'hamburger. MA - c’è un grosso MA - la vostra ghisa deve essere ben condizionata o si attaccherà tutto alla piastra. Il rapporto è l'1,5% di gelatina sul peso totale della nostra carne macinata, va aggiunta dopo che la carne è stata mescolata con il tuorlo d'uovo e il sale, proprio prima di finire sul fuoco. PREPARAZIONE E IMPASTO Miscelazione o “Creaming”: varia a seconda di come cucinerete il vostro hamburger. Se vi apprestate a cucinare il burger in una padella, mantenete la carne sgranata e non la manipolate troppo, con la cottura sous vide bisogna stare nel mezzo, la cottura alla griglia invece richiede un impasto più cremoso. Porzionamento: gli smash burger e gli slider devono essere appallottolati e poi schiacciati, i burger in sous vide devono essere pressati in uno stampo ad anello dopo una leggera mantecata. Gli hamburger grigliati devono essere lavorati e poi pressati in una polpetta sottile e uniforme. COME FUNZIONA IL TRITACARNE Il tritacarne è una semplice attrezzo con una trivella che spinge i pezzi di carne più grandi contro una lama e poi attraverso uno stampo che può variare di dimensione. La carne viene triturata mentre viene forzata attraverso la trafila dalla coclea. I componenti sono quattro: il corpo, la trivella, la lama e la trafila. Il tritacarne può essere elettrico o manuale e le sue parti funzionano così:

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• • • •

Il corpo tiene insieme tutte le parti. La coclea spinge la carne verso la lama e la trafila. La lama taglia la carne contro la trafila. La trafila controlla la dimensione della grana.

Cominciamo a macinare. Suddividete la vostra carne e separatela in magra e grassa. Procuratevi un paio di ciotole o vassoi grandi e separateli per colore. Mettete la parte bianca (il grasso) in una ciotola e la parte rossa (la carne) in un'altra ciotola. Tenete la carne al freddo e lavorate su un pezzo alla volta se pensate di metterci parecchio tempo. Il taglio. Tagliate la carne in piccoli cubetti di circa due centimetri per facilitare la macinatura. Questo vi impedirà di finire con del tessuto connettivo più lungo di due dita. Stabilite la vostra proporzione. Selezionate il vostro rapporto magro-grasso e mixate in modo che il grasso sia distribuito uniformemente. Per farla semplice, per ottenere un rapporto magro-grasso di 60:40, pesate 600 grammi di carne magra per 400 grammi di grasso pulito. Per un rapporto 80:20 calcolate 800 grammi di carne magra e 200 grammi di grasso e così via. Raffreddate gli strumenti. Lavorate con gli strumenti ben freddi, vi basterà tenerli nel ghiaccio per una mezz’oretta. Ricordate che fino a quando non si è pronti per cuocere, il calore è il nemico mortale della carne macinata. Il grasso del manzo inizia a sciogliersi a circa 26°C e il calore della vostra mano è certamente al di sopra di questa soglia. Ricordate, tutto il grasso che rimane attaccato ai taglieri, alle mani e ai recipienti, mancherà alla carne. Inoltre, la temperatura ambiente, favorisce lo sviluppo della carica batterica e l’ossidazione della ciccia. Da evitare assolutamente. Macinate la carne. Le dimensioni della trafila più comuni sono: 3 mm, 4,5 mm e 10 mm. Se la macinatura è troppo fine, la carne rischia di diventare gommosa poiché la miosina appiccica tutto. Quando la grana è troppo grossolana la carne in cottura si sgrana tutta e diventa e dura. La dimensione perfetta per gli hamburger si assesta tra i 3 (in particolare per gli steak burger) e i 4,5 mm (per gli smash burger e gli hamburger grigliati). Preparazione e porzionatura. Una volta macinata, rimettete la carne di manzo in frigorifero per mantenerla bella fredda fino a quando non sarete pronti a mixarla e porzionarla. Poi aggiungete gli ingredienti e mescolate (o non mescolate) a secondo della vostra ricetta. E il peso? Io preferisco un patty da 200 grammi se mi accingo a preparare 300

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un panino, gli smash li faccio sempre da 115 grammi e gli slider da 50 grammi. Voi fate come più vi aggrada. Allineate la carne per un hamburger tenero. Vi avverto: avrete bisogno di un partner per fare questa operazione. Introdotti nella cucina sperimentale del Ristorante Fat Duck dello Chef Heston Blumenthal, gli hamburger a grana allineata vengono realizzati semplicemente raccogliendo i filamenti di carne che escono dal tritacarne, che devono rimanere distesi. Funziona così: mentre voi girate la manovella, al vostro amico toccherà raccogliere la carne assicurandosi che i filamenti rimangano allineati. La ciccia deve essere poi arrotolata nella pellicola a mo’ di caramella e messa in frigorifero, a solidificare. L'idea è che se tutti i grani restano allineati nella stessa direzione, l'hamburger finirà per essere più morbido, con una tessitura "aperta" che si sfalda con lo sguardo. Anche se questi hamburger restituiscono un'esperienza di degustazione davvero incredibile, sono molto difficili da manipolare, dato che non c’è agente legante che tenga i filamenti di carne insieme. 301


gli errori più comuni e come rimediare

Problema: Il burger rilascia troppi succhi. Soluzione: Cuocere ad una temperatura più bassa. Cuocere a calore meno intenso. Aggiungere il tuorlo d’uovo. Problema: Polpette dure e compatte. Soluzione: Cuocere a una temperatura di cottura più bassa. Aumentare la percentuale di grasso. Fare una polpetta con un impasto più allentato. Problema: Polpette sbriciolate e asciutte. Soluzione: Cuocere a una temperatura più bassa. Macinare più finemente. Problema: Le polpette sono troppo morbide. Soluzione: Cuocere ad una temperatura più alta. Risoluzione definitiva dei problemi Se non avete proprio nessuna voglia di prendere un brisket, di trimmarlo (ripulirlo dal grasso), di porzionarlo, pesarlo, trovare tutti gli ingredienti per tenere insieme la vostra polpetta? Sul Megastore di BBQ4All ci sono burger fatti appositamente per i vostri scopi. Provateli e fatemi sapere.

COME CUOCERE IL BURGER ALLA PERFEZIONE L'obiettivo è chiaro: crosticina croccante fuori, interno morbido e succoso. Per giungere a questo risultato è vietato ragionare per secondi e minuti. Il tempo di cottura è un'ipotesi. Non è possibile specificarlo con precisione, in nessuna preparazione. Quello che invece possiamo stabilire con accuratezza millimetrica è la temperatura finale della nostra polpetta. Gli effetti del calore sulla carne sono noti. La scienza ci dice esattamente a quale temperatura target dobbiamo arrivare per ottenere una data cottura: 55°C, patty poco cotto o “al sangue”, anche se sangue non è. A 65°C, cottura media. 75°C ben cotto ma anche cotto bene. La migliore temperatura per l'hamburger, cioè quella che permette di conservare umidità interna e succulenza, si aggira intorno ai 65°C. Meglio poco meno che poco più. A quel grado di cottura il grasso è fuso e i liquidi sono ancora “intrappolati” nella trama. Cuocerlo oltre significa strizzare via liquidi, quindi succosità, quindi sapore. Importante: la sonda o il termometro a penna vanno inseriti al centro del burger e sempre dai lati (mai pungerlo dalla parte superiore!). Per ottenere la crosticina esterna, invece, è buona norma rigiralo molto spesso. Questo permetterà alla crosta di formarsi, mentre il calore penetrerà con più difficoltà, aiutandoci a non stracuocere la carne. Due regole semplicissime da tenere a mente: rigiratelo spesso e fermate la cottura a 65°C.

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LA POLPETTA IN PADELLA O ALLA GRIGLIA Meglio cuocere la polpetta sulla piastra, in padella o in griglia? Dipende. La piastra o la padella, avendo una superficie più ampia a contatto con la polpetta, ci consentono di ottenere una crosticina più estesa. Visto che crosta = sapore, il risultato sarà maggiore croccantezza e gusto. Con la griglia possiamo ottenere un risultato diverso. Gli spazi tra una griglia e l'altra permettono ai liquidi di cadere sopra le braci o sopra i bruciatori. Questi liquidi, a contatto con le superfici roventi, si vaporizzano all'istante e risalgono in forma di fumo aromatico. Questi fumi di risalita investono la polpetta e conferiscono quel sapore di affumicato che ci piace tanto. Inoltre, la parte di griglia a contatto, contribuirà a formare le famose “grill marks” le righe di cauterizzazione, anche quelle portatrici sane di sapore. In definitiva, piastra = tanta crosticina, griglia = sentore di affumicato. È semplice scelta personale, non c'è un meglio o un peggio, c'è quello che ci piace.

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Citrato di sodio

Un po' di citrato di sodio - il sale dell'acido citrico - aiuterà a emulsionare le proteine e i grassi del formaggio, impedendo loro di scindersi e di formare un pastrocchio secco e filamentoso (per saperne di più sul citrato di sodio, l'approfondimento è a pagina 157).

Esametafosfato di sodio

Quando si fa il formaggio con il solo citrato di sodio, questo fonde, cola, si raffredda e poi si sbriciola. Aggiungendo un po' di sale fosfato - come l'esametafosfato di sodio - insieme al citrato di sodio si ottengono spesso risultati migliori. Questo additivo si trova in molti prodotti: sciroppo d'acero artificiale, latte in scatola, albumi d'uovo confezionati, gelatina, dessert congelati, condimenti, cereali da colazione, gelato e birra. Come il citrato di sodio, è anche usato nella sferificazione per aumentare il pH di un liquido.

Caseinato di sodio

Questo è il sale della caseina, una proteina che si trova nel latte dei mammiferi. È un composto iperproteico, l’industria alimentare e farmaceutica utilizza il caseinato di sodio per le sue incredibili proprietà emulsionanti, addensanti e per la sua eccezionale solubilità. Il caseinato di sodio è presente anche nelle diete degli sportivi, che lo utilizzano per aumentare l'introito proteico. Inoltre, è presente come aggiunta nei cereali, nel pane, nei dessert montati nonché in integratori e persino gelati e sorbetti.

FONDERE IL FORMAGGIO - LA SCIENZA NELLE FETTE DA FONDERE Prima di dire "non mi piacciono le sottilette, sono piene di schifezze chimiche”, lasciate che vi racconti la storia del formaggio fuso. È iniziata centinaia di anni fa in Europa, con la fondue dei paesi francofoni. La fonduta, come senz’altro saprete, è una miscela di formaggio e vino che viene sciolto in una pentola. E come sanno bene i grandi produttori di fonduta della ridente Svizzera, l'ingrediente segreto per far sciogliere il formaggio è sempre stato un vino molto secco, spesso troppo acido e leggermente fruttato. Un vino di questo tipo contiene naturalmente acidi di frutta concentrati come l'acido tartarico, l’acido malico e quello citrico. E i sali di questi acidi - specialmente il citrato di sodio - sono molto efficaci nel legare il calcio nel formaggio. Questo aiuta ad allentare i legami nella maglia delle proteine della caseina, che a sua volta aiuta a mantenere emulsionato l'intero mix di olio, acqua e proteine nel formaggio. Il risultato? Una fonduta vellutata e fluida. Nessuno sa con certezza a quando risalga la nascita della fonduta, ma nel 1912, due scienziati svizzeri stavano studiando una possibile soluzione al problema della pastorizzazione del formaggio, per poterlo conservare, non refrigerato, in climi caldi. Fino a quel momento, i risultati erano stati fallimenti untuosi, con i grassi che si separavano dalle proteine. Ad un certo punto, però, i due uomini si accorsero che aggiungendo il sale dell'acido citrico (citrato di sodio) al formaggio si poteva agilmente eliminare il fattore oleosità. In parole povere, avevano inventato il formaggio fuso. Qualche anno dopo, un americano fece più o meno la stessa cosa con un altro sale, l'esametafosfato di sodio. Questa scoperta divenne la pietra miliare del suo omonimo business: Kraft. Nell'industria del formaggio, questi sali sono conosciuti come sali di fusione, i moderni sostituti dell’antico vino troppo secco e aspro. Il loro scopo principale è quello di sostituire gli ioni di sodio con gli ioni di calcio legati alle proteine della caseina nel formaggio. Così facendo, allentano queste proteine e le rendono solubili in acqua. In combinazione con il riscaldamento e l'agitazione, i sali migliorano la capacità emulsionante delle proteine del formaggio. Tendono anche a portare il pH a livelli più alti, il che migliora la consistenza e la stabilità del formaggio fuso (un formaggio fuso troppo acido è instabile e ha una consistenza sgradevole). I produttori dell’industria casearia si attengono a un pH tra 5,2 e 6,3 per ottenere i migliori risultati. Oggi, gli chef smanettoni usano questi additivi per alterare la consistenza dei formaggi di alta qualità, ottenendo un ingrediente che si scioglie meravigliosamente pur mantenendo i sapori complessi dei migliori fromage. La tecnica che sto per illustrarvi spiega come fare una versione più fondente di tre tipi di formaggio. Un barbatrucco per farvi le sottilette in casa in pratica.

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SCEGLIERE I FORMAGGI GIUSTI Prima di tutto: l'età conta. Con i formaggi più vecchi, è spesso difficile ottenere una fetta che si sciolga bene. Questo perché con il tempo, le proteine del formaggio diventano così frammentate che non hanno quasi più capacità emulsionanti. Gli chef spesso mischiano diversi tagli di carne per creare i loro hamburger perfetti; così come per la carne, mischiare diversi formaggi può migliorare il sapore e la consistenza del prodotto finale. Se volete lavorare con un formaggio stagionato, mescolatelo con uno più giovane dal sapore delicato. I formaggi giovani hanno una caseina relativamente intatta, ma abbondante. Quando un formaggio invecchia, la proteina della caseina (insieme ad altre proteine) si rompe. Alcuni dei frammenti proteici creano i sapori caratteristici di un formaggio maturo, e la proteina della caseina leggermente frammentata in realtà ha maggior potere emulsionante rispetto alle proteine intatte della caseina stessa. Ecco perché spesso mescoliamo un formaggio semistagionato, solido ma flessibile, con uno più giovane o più vecchio. L’aggiunta di caseinato di sodio alla miscela può spesso aiutare ad ottenere un effetto simile. Ottenere la formula giusta per realizzare le sottilette fatte in casa può essere difficile. Per fare pratica, lavorate con queste tecniche testate prima di modificare le proporzioni.

Unite e il formaggio a cubetti, il latte, il burro e i sali in un sacchetto per la cottura sous vide. Miscelare a secco i sali prima di unirli al resto degli ingredienti aiuterà la dispersione. Mettete il sacchetto nel bagno termostatico a 75°C e riscaldate fino a quando il formaggio risulterà completamente sciolto. Trasferite immediatamente il contenuto in un frullatore e frullate fino a quando è completamente liscio ed emulsionato. Colate nello stampo desiderato (una teglia rettangolare e bassa dalla quale ritagliare le “sottilette”) e raffreddate per otto ore. E se invece avete voglia di realizzare delle sottilette di formaggio di tipo svizzero? Seguite lo stesso procedimento con 300 grammi di Emmentaler, 150 grammi di latte, 14,5 grammi di citrato di sodio e 12 grammi di sale (più 6 grammi di sodio esametafosfato). Preferite un formaggio nostrano? Mixate il Gruviera con il provolone, 150 grammi di Gruviera e 150 grammi di provolone, aggiungete 180 grammi di latte, 9 grammi di citrato di sodio, 8 grammi di sale (più 1,8 grammi di esametafosfato di sodio). Replicate il procedimento seguito per il Cheddar.

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Cheddar fondente Ingredienti per circa 20 fette

300 g di Cheddar a cubetti 120 g di latte intero 30 g di burro chiarificato 9 g di citrato di sodio 4 g di sale 0,75 g di esametafosfato di sodio (facoltativo)

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PREPARARE DA SOLI LE SALSE La salsa è un altro elemento spesso sottovalutato o sovrastimato. Nella stragrande maggioranza dei casi ci si affida alla triade ketchup, maionese e senape. Lo scopo della salsa è quello di aggiungere umidità oltre che sapore. Spesso si usa in accordo al topping come interscambio tra gli elementi. Se uso un topping acido, per esempio i sottaceti, la maionese mi aiuta a controbilanciare l'acidità. Se uso un formaggio filante, il ketchup bilancerà con la sua spalletta acida il grasso del formaggio. Topping e salse si supportano a vicenda. Il primo è solitamente un ingrediente solido, la salsa è invece un fluido. Il topping aggiunge sapore e consistenza, la salsa sapore e umidità. Insieme bilanciano i contrasti.

Maionese

Ingredienti per 400g circa

1 uovo intero (56 g) 2 tuorli (36 g) 20 g di senape 125 g di olio di semi 125 g di olio extravergine d'oliva 10 g succo di limone 10 g di aceto distillato di alcol (o aceto bianco) 3 g di sale

Ketchup

Ingredienti per 600 ml circa 200 g di doppio concentrato di pomodoro 200 g di sciroppo di glucosio (sostituibile con miele di acacia) 130/150 g di aceto distillato di alcol (o aceto bianco) 40 g di zucchero semolato 15 g di sale 1.2 g di gomma xantana 0.4 g di chiodi di garofano in polvere

Per una variante aromatica, 0.4 g cipolla in polvere 0.2 g di noce moscata in polvere 0.2 g di cannella

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In un pentolino portate l'olio di semi a 121°C. Nel frattempo versate nel bicchiere del mixer i tuorli e l'uovo intero, il succo di limone, la senape e il sale. Iniziate ad emulsionare con il mixer ad immersione (se non si emulsiona subito il tuorlo tende a coagulare). Versate a filo, molto lentamente, l'olio bollente continuando sempre a frullare. Proseguite con l'olio extravergine d’oliva versato sempre a filo. Terminate con l'aceto bollente continuando ad emulsionare ancora un attimo. In questo fase la maionese sarà calda e un po' molle, ma ci penserà il freddo a conferirle la consistenza giusta. (Per il procedimento lungo ed approfondimenti sulla mia maionese scientifica, andate alla ricetta del Club Sandwich, precisamente da pagina 256 in poi.)

Il procedimento è semplicissimo, vi occorreranno soltanto un mixer (o un minipimer) e una bilancia di precisione. Mescolate a mano il doppio concentrato di pomodoro e l’aceto, aggiungete lo sciroppo di glucosio (o il miele di acacia), amalgamate con cura per evitare che lo sciroppo si depositi sul fondo e versate il tutto nel mixer. Provate prima con 130 g di aceto ed assaggiate, siete sempre in tempo per aggiungerne dell’altro. Azionate la macchina (o il minipimer) e versate lo zucchero miscelato con la xantana nel vortice. Unite quindi i chiodi di garofano in polvere, il sale, e se vi piacciono, cipolla in polvere, noce moscata e cannella. Non lavorate troppo la salsa, bastano pochi colpetti. Trasferite il tutto in un barattolo o uno squeezer munito di tappo e conservate in frigorifero per un massimo di due settimane. (Per il procedimento lungo ed approfondimenti sul mio ketchup scientifico, c'è la ricetta a partire da pagina 338.)

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PREPARARE I TOPPING Il topping è proprio l'elemento che aggiungiamo al burger per potenziarne, arricchirne e variarne il sapore. Nelle ricette tradizionali possiamo trovare cetrioli sottaceto e fette di pomodoro. La funzione del topping è di aggiungere varietà e potenza al gusto

Cetriolini

dose per 1 kg

1 litro di aceto di vino bianco 2 kg di zucchero 3 litri di acqua 1 kg di cetrioli 40 g sale fino

1. 2. 3. 4.

Per prima cosa bisogna preparare la marinata. Portate l’acqua a bollore e dissolvete lo zucchero, fino ad ottenere uno sciroppo. Aggiungete l’aceto e fate raffreddare. Tagliate i cetrioli a fettine o a rondelle, ad uno spessore di 3mm; disponete in uno scolapiatti e cospargete con il sale. Lasciate agire per 30 minuti e poi strizzate. Sistemate i cetrioli in un barattolo e ricoprite con la marinata. Fate riposare in frigo per almeno 2 ore. Aggiungete aromi a piacere (semi di senape, aneto, cipolla tritata), i sottaceti così preparati si conservano in frigorifero per 1 settimana.

Questa procedura è più che collaudata, ma per i cetrioli del nostro cheeseburger ho pensato di fare una piccola modifica, riducendo il quantitativo di zucchero e aumentando quello dell’aceto. Sciogliete 800 grammi di zucchero in 1,5 litri d’acqua, poi aggiungete 600 ml di aceto. Affettate 500 grammi di cetrioli (non togliere la buccia!) e seguite le istruzioni come sopra. Riempite un barattolo in vetro con i vostri cetrioli affettati e coprite con il liquido, aggiungete qualche fettina di lime per aromatizzare, un po’ di aneto e dei semi di senape, se ce li avete. Lasciate riposare per qualche ora e fateli sparire entro pochi giorni. Mi raccomando, questa non è una tecnica per conservare i sottaceti a lungo.

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AMPLIFICARE IL GUSTO – IL RUOLO DEL GRASSO, DELL'ACIDITÀ E DELLA CROCCANTEZZA. A questo punto abbiamo inquadrato gli elementi che caratterizzano l'hamburger perfetto. Pane, polpetta, topping e salsa. Adesso è necessario mettere gli elementi in equilibrio ricordando questa semplice regola: aggiungere sempre un po' di grasso, una punta di acidità e degli elementi croccanti. Un cheeseburger con il classico ripieno di formaggio cheddar accoglierà la freschezza dell'insalata iceberg e l'opulenza agrodolce di un buon ketchup, oltre alla croccantezza e alla sapidità di un buon bacon. Queste semplici regole non tradiscono mai: grasso, acidità e croccantezza come complementi al vostro hamburger perfetto. IL BACON METODO GLC Come si fa: Prendete una teglia d’acciaio o vetro temperato, rivestitela di carta forno (o se preferite un tappetino di silicone) e sistemate le fette di bacon a 2cm l’una dall’altra. Inserite la teglia nella parte centrale del forno (a freddo), impostate il termostato su 200°C in modalità statica e lasciate cuocere per circa 15 minuti. A cottura quasi ultimata spruzzate le fettine con aceto di mele, quindi cuocete per altri 5 minuti o fino al grado di doratura che preferite. Recuperate il grasso fuso, filtratelo e colatelo in un contenitore, potrete conservarlo in frigorifero per una settimana buona. Risultato: bacon perfettamente cotto, croccante perché “fritto” nel suo stesso grasso, brillante e caramellato dall’aceto vaporizzato (per approfondire i metodi di cottura del bacon, andate a pagina 251). I POMODORI E L’INSALATA Niente di complicato, nemmeno in questo sandwich. Come lattuga, ancora una volta vi consiglio l'iceberg, che si mantiene croccante e fresca. Per i pomodori, i miei preferiti sono il San Marzano, il Cuore di bue, il Tondo insalataro, il Costoluto e il Camone. Ma questo, già lo sapete. Così come sapete che dovrete asciugarli ben bene con la carta da cucina, per evitare che rilascino troppi liquidi di vegetazione.

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GLCheeseburger

Ingredienti per 6 persone

6 bun preparati come da ricetta (scegliete una delle due dividendo l’impasto in panetti da 80-100 g) 6 burger Blue Ox di Black Angus da 200 g 12 fette di formaggio cheddar fondente Insalata q.b. (iceberg o lattuga) 18 fette di bacon già tostato come da ricetta 2 pomodori insalatari o cuore di bue cetriolini sottaceto q.b. maionese q.b. ketchup q.b.

Potete cuocere i burger come preferite. Volete prepararli con il sous vide? Metteteli a 55°C per 15-30 minuti (potete lasciarli nel bagno termostatico fino ad un’ora), lasciateli riposare a temperatura ambiente ed asciugateli bene prima di passarli su piastra o in griglia. Con i miei Blue OX potete saltare questo passaggio e buttarli su griglia o ghisa rovente, rigirandoli spesso, fino a raggiungere i 50°C al cuore. Aggiungete le due fette di formaggio su ogni patty e coprite il tutto per pochi secondi per farlo sciogliere. Ricordatevi di rimanere tra i 55°C e i 75°C, non superate mai questa temperatura interna. Ora potete passare alla parte divertente, ovvero la costruzione del panino. Rispettate questo ordine se volete evitare di inzuppare troppo il bun e scaldare eccessivamente la componente vegetale: base di pane tostato, maionese, patty con doppio formaggio fuso, bacon croccante, insalata lavata, asciugata e condita, pomodoro leggermente tamponato, cetriolini asciugati e tagliati a fettine sottili, ketchup e cupola di pane fragrante. Lo so, lo Zio vi dice sempre di non esagerare con gli strati e di conservare una certa sobrietà nello spessore del sandwich, per evitare di slogarvi la mascella. Stavolta voglio autorizzarvi ad esagerare, è un periodo un po’ cupo e pesante e uno strappo, all’hamburger e alla regola, ci sta tutto. Ora preparate tutto il necessario, costruite la vostra piccola opera di ingegneria gastronomica e cercate di fare del vostro meglio per domare a morsi quella bestia.

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7.1 – BESCIAMELLA E CROQUETAS DE JAMÓN

Cada maestrillo tiene su librillo, "ogni maestro ha i suoi trucchi" dicono gli spagnoli. Sì, perché le crocchette le hanno inventate in Francia, ma ogni Paese ha adattato la ricetta in base ai propri usi e costumi. In Europa esistono decine di versioni del bocconcino fritto e croccante, solitamente a base di purè di patate e pastella. Il termine crocchetta, viene quasi naturale dirlo, è onomatopeico: esso deriva da croc, lo scricchiolio che la panatura fritta produce quando la azzanniamo di gusto. Il nome cambia a seconda del territorio in cui lo cuciniamo, assumendo le caratteristiche grafiche e fonetiche di quei luoghi: croquette in Francia, kroket in Olanda, krokett in Ungheria, korokke in Giappone, croquete in Portogallo e in Brasile, kroketten in Germania, croqueta in Spagna. Spagna: è qui che diventa una pietanza molto saporita e ricca, spesso a base di besciamella e condita con pesce (bacalao, marisco, merluza, gambas), queso azúl (formaggi erborinati) e insaccati (jamón, cecina, chorizo). Le croquetas de jamón, l’avrete senz’altro intuito, sono le mie preferite: pepite di besciamella cremosa e sapida, farcite con prosciutto iberico ridotto in piccoli pezzi, ricoperte di pangrattato e poi tuffate nell’olio bollente, da mangiare ancora incandescenti, a costo di fulminarsi il palato. Viste le mie passate sortite in terra spagnola, ho deciso di mettere a terra la mia versione. Senza stare troppo a solleticarvi, ché altrimenti salivate sul libro, vi accontento subito, ovviamente a modo mio. Prima di iniziare e scomporre la ricetta, partiamo sempre dai trattati di gastronomia e, in questo caso specifico, dalla salsa madre che sta alla base delle croquetas de jamón: la besciamella. BESCIAMELLA: LA STORIA Rinnegata dagli chef causa livelli di figaggine molto bassi, la besciamella regna e sopravvive all’inanellarsi dei secoli nel tepore della cucina di ogni italiano rispettabile. Appartiene alla categoria delle “salse madri”, ufficialmente creata tra i fuochi dello chef francese François Pierre (de) La Varenne (1615 – 1678) cuoco di Nicolas Chalon du Blé, in onore del marchese di Nointel Louis de Bechameil. Voci di corridoio sostengono invece sia nata col nome toscano di “salsa colla” all’epoca di Caterina De’ Medici. Pellegrino Artusi ci mette del suo e la chiama simpaticamente balsamella, ne “La Scienza in cucina e l’Arte di mangiar bene” la indica come “il segreto principale per una cucina fine”. Una besciamella perfetta deve essere setosa, brillante e totalmente priva di grumi. Questi si possono formare se non abbiamo mescolato in modo appropriato il burro e la farina, nella prima fase, e se abbiamo aggiunto il latte caldo, che gelatinizza all’istante la parte esterna dei granuli di farina e raggruma rovinosamente ogni speranza di una buona riuscita. SALSE

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LE VARIANTI La ricetta è facilmente adattabile alla destinazione d’uso, possiamo regolare la densità della besciamella aumentando la quantità di farina e burro, ma sempre mantenendo un rapporto costante tra i due ingredienti (burro e farina in pari peso). Per una salsa piuttosto densa useremo la più classica delle ricette: 500 ml di latte intero freddo o a temperatura ambiente 50 g di burro 50 g di farina debole Per una salsa più fluida, da utilizzare in timballi o lasagne, vireremo su questa: 500 ml di latte intero freddo o a temperatura ambiente 25 g di burro 25 g di farina debole LA TECNICA Ma come preparare la besciamella? Requisiti fondamentali: un pentolino dal fondo spesso ed una frusta da cucina. Sciogliete lentamente il burro in un pentolino dal fondo spesso; trattandosi di burro non chiarificato comincerà a schiumare dopo qualche secondo. Lasciar evaporare la parte acquosa, non vogliamo che questa si leghi alla farina e trasformi la nostra salsa in una ignobile colla per manifesti. Aggiungete in un solo colpo la farina setacciata e girare velocemente con una frusta per amalgamare i due ingredienti. Lasciate cuocere per qualche minuto a fiamma dolce e far raffreddare leggermente prima di addizionare il latte. Il roux appena ottenuto può essere conservato in frigorifero ed utilizzato per addensare diverse tipologie di salse. Versare il latte a filo, freddo o a temperatura ambiente, nel pentolino, amalgamare velocemente al resto degli ingredienti con dei repentini giri di frusta e portare ad ebollizione. Prolungare la cottura della besciamella di qualche minuto e lasciar addensare, sempre mescolando. Coprire con pellicola a contatto o con un coperchio per evitare la formazione della fastidiosissima “pellicina”. I TRUCCHI Non puoi considerarti un cuoco se non padroneggi le salse madri e come ogni preparazione culinaria 316

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che si rispetti - la pratica e un po’ di ingegno rendono perfetti. Per realizzare una besciamella priva di difetti dovete fare due cose: 1. Evitate i grumi Aggiungendo latte al roux gradualmente, permettete al roux stesso di incorporare la parte liquida in maniera uniforme e a un ritmo controllabile. Mai e ripeto mai aggiungere latte caldo, rischiereste di far partire la gelatinizzazione degli amidi contenuti nella farina. 2. Aggiungete altro roux Se la vostra besciamella risulta troppo lenta, anche dopo averla cotta per il tempo necessario, potete sempre fare un secondo batch veloce di roux e rimetterla a posto. Saprete che la besciamella è pronta, e della giusta consistenza, quando riuscirà a nappare il retro di un cucchiaio di legno. ANATOMIA DELLA BESCIAMELLA Latte, farina, burro. Il grasso per dare sapore, il latte per dare corpo, la farina per addensare. Ma siamo proprio sicuri che la farina sia l’ingrediente giusto? Sono anni che non la uso più per fare salse e creme, meglio utilizzare gli amidi puri, molto più diligenti in cottura e soprattutto dal sapore meno invadente. COSTRUZIONE DELLA BESCIAMELLA: L’AGENTE ADDENSANTE Quello più usato è la farina di frumento, specialmente negli USA e in Europa, mentre nei paesi asiatici preferiscono utilizzare di amido di riso o mais. Gli amidi pre-gelatinizzati o istantanei accelerano il processo poiché si addensano immediatamente e a freddo, ma preferisco metterli da parte e perché sono difficili da reperire. Il primo step nella preparazione di una salsa è quello di aggiungere un addensante amidaceo sotto forma di roux, beurre manié (pomata di burro e farina 1:1), o roux freddo (mix di acqua e farina). Il roux “classico” si prepara così: il burro fuso ricopre i granuli di farina, che in questo modo rimarranno separati e non si appiccicheranno tra loro formando dei grumi. Il liquido freddo viene aggiunto gradualmente alla farina cotta con il burro, e questa combinazione viene scaldata fino a raggiungere la consistenza desiderata, a seconda del tipo di salsa che si sta preparando. Esistono tre tipi di roux: bianco, biondo e bruno. Man mano che il roux cuoce, diventa più scuro (la cara e vecchia reazione di Maillard): il suo sapore inamidato diminuisce, ma anche il suo potere addensante si riduce (le molecole di amido vengono scomposte dal calore). Così, più scuro è il roux, più dovrete utilizzarne per ricavare una salsa densa e vellutata.

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LA STORIA DELLA SALSA MORNAY Troppo spesso scambiata per sua madre, la besciamella appunto. In realtà, nonostante le similitudini, le salse hanno una formulazione leggermente diversa. La salsa Mornay è una besciamella a cui viene aggiunto formaggio, tuorli d’uovo e talvolta panna fresca. Generalmente si utilizza il più pop dei formaggi, il Parmigiano Reggiano, ma ci si può concedere anche il Pecorino, l’Emmentaler, il Gruviera o persino un buon Cheddar artigianale.

Salsa Mornay 500 g di besciamella 100 g di panna fresca 100 g di formaggio grattugiato (Parmigiano Reggiano, pecorino ma anche Emmentaler, Gruviera, Gouda o Cheddar) 60 g di tuorli 30 g di burro

Come avviene per molte preparazioni, c’è un dibattito infuocato sulla paternità della ricetta. Mater (la besciamella) semper certa est, del resto. Alcuni sostengono che l’inventore sia il Duca di Mornay, eppure c’è chi dissente. Filippo di Mornay visse tra il 1549 e il 1623 e fu governatore e signore della tenuta di Plessis-Marly, oltre che scrittore e apprezzato diplomatico. Il fatto che sia vissuto a cavallo tra il XVI e il XVII secolo, però, ci pone di fronte a degli interrogativi importanti. Prima di tutto: su una tavola imbandita del Seicento, una salsa di quella risma poteva essere solamente una vellutata, dato che la besciamella non aveva di certo l’aspetto e le caratteristiche della versione che conosciamo tutti. Della salsa Mornay non vi è traccia nemmeno nella decima edizione de “Le cuisinier Royal” (1820), una enciclopedia gastronomica molto autorevole. Inoltre, questa preparazione non dovrebbe essere più antica de Le Grand Véfour, storico ristorante parigino sorto nel XIX secolo, il locale in cui la salsa è comparsa per la prima volta in via ufficiale. Nella Parigi dell’epoca, quella di Carlo X, il nome Mornay apparteneva soltanto a due uomini: il marchese di Mornay e suo fratello, il conte Charles. Queste persone vengono citate nelle memorie di Lady Blessington che ricostruiscono la vita nella capitale francese tra il 1828 e il 1829. La storia è quindi controversa e manca sicuramente qualche pezzo. COME SI PREPARA Alla besciamella calda unite i tuorli, la panna fresca ed il burro. Completate con il Parmigiano Reggiano grattugiato, profumate con una macinata di pepe e regolate di sale (fate attenzione perché il formaggio è già salato di suo). Amalgamate accuratamente con una frusta fino a ottenere un composto omogeneo. Usate la salsa Mornay versandola sopra l’ingrediente che volete gratinare, già precotto, bollito o saltato e sistemato su una teglia. Si sposa alla grande con patate, cavolfiori, asparagi, capesante, uova, ostriche, cozze, ma anche con la pasta come gnocchi, lasagne o timballi.

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LA CROQUETA DE JAMÓN Abbiamo ripassato la teoria, sappiamo tutto sugli amidi e possiamo procedere con la parte divertente della faccenda: la costruzione della crocchetta. Prima di passare alla preparazione della besciamella, la massa principale, dobbiamo “affinare” e trasformare l’ingrediente chiave: il prosciutto spagnolo, noto ai più come “Pata Negra”. Facciamo un passettino indietro e spendiamo un po’ di inchiostro per approfondire: il nomignolo “Pata Negra”, letteralmente “unghia nera”, sta a differenziare i prosciutti di maiali spagnoli con gli zoccoli scuri. Volete sapere la novità? È una denominazione che non ha nessun senso. Non tutti i maiali iberici hanno l’unghia nera né l’unghia nera è un’esclusività di questa razza, sono altre le caratteristiche che distinguono un prosciutto spagnolo di qualità. A tutelare produttori e consumatori ci pensa un decreto che riconosce solo tre tipi di denominazioni di prosciutto iberico, tutte stabilite in base al tipo di alimentazione dei maiali durante la fase di ingrasso: Prosciutto Iberico De Cebo, alimentato con mangimi a base di cereali e leguminose. Prosciutto Iberico De Cebo De Campo, allevato a regime semi brado e combinato di mangimi, foraggi e risorse campestri. Prosciutto Iberico De Bellota: durante la Montanera, il periodo che va da ottobre a dicembre, il maiale vive allo stato brado e si ciba esclusivamente di ghiande di leccio, sughero o rovere. Ed è proprio questo il prosciutto che andremo ad utilizzare noi. Parliamo di una materia prima nobile e dal sapore sbalorditivo: assaporando la fibra tenera ed untuosa, scioglievole come nessun prosciutto al mondo potrà essere, si possono cogliere note stagionate che ricordano le erbe selvatiche, il fungo, il tartufo, che aumentano di intensità e complessità a seconda della stagionatura. Tornando alle nostre crocchette, gli spagnoli estraggono il sapore dal prosciutto schiaffandolo in padella insieme all’olio o al burro e la farina, preparando un roux aromatizzato da allungare con il latte. Tened paciencia, ma io soffro solo all’idea di dover friggere un prosciutto crudo così prezioso. È per questa sensazione di disagio che mi sono inventato una soluzione più efficace e meno truculenta.

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Burro prosciuttato 250 g di burro (materia grassa minimo 82%) 125 g di jamón de Bellota 100% iberico

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IL BURRO “PROSCIUTTATO” In pratica consiste in una chiarificazione del burro con un’infusione di prosciutto in pezzi. Si fa così: riducete il prosciutto in piccoli pezzi o cubetti. Io avevo a disposizione del prosciutto spagnolo sottovuoto “cortado” (affettato) a mano. Inseritelo in un sacchetto per il sous vide e aggiungete il panetto di burro, avviate il roner impostando la temperatura a 65°C e dimenticatevelo per due ore. Potete effettuare questa operazione in un pentolino a bagnomaria oppure in un gingillo simil-Bimby, l’importante è non sfondare la soglia dei 65°C. Una volta fuso, trasferite in una contenitore e piazzate in frigo per almeno 12 ore. Trascorsa la mezza giornata, scaldate il tutto e separate i pezzetti di prosciutto, vi serviranno in un secondo momento per “condire” la besciamella. Lasciate solidificare nuovamente in frigorifero: otterrete un burro chiarificato e prosciuttato a dovere, con uno strato di siero e gelatina depositato sul fondo (guai a voi se lo buttate!). CODICE LO CASCIO


Okay, okay, lo spiegazzo è stato lungo, lo ammetto. Ma adesso possedete tutti gli strumenti per spignattare la vostra pozione, senza grumi o retrogusto di gesso. Avete fondamentalmente due strade: partire da un roux di amido di frumento e burro oppure dall’amido mescolato nel latte freddo. L’importante è tenere sotto controllo la temperatura, poiché sforando i 75°C rischiate di sabotare la salsa. So a cosa state pensando. Posso usare il Bimby/Kenwood Chef? Certo che sì. Posso preparare la besciamella sous vide? Ni, perché agitare il composto durante la cottura è importante, come detto qualche paragrafo fa. Ora scegliete uno dei due metodi descritti qui sotto.

La besciamella scientifica e le croquetas de jamón Ingredienti 1 litro di latte intero 100 g di amido di frumento 100 g di burro “prosciuttato” 200 g di jamón de Bellota 100% iberico (125 g usati per l’infusione più 75 g “a crudo”) 20 g di gelatina di prosciutto (il fondo del burro chiarificato) noce moscata q.b. pepe nero macinato fresco q.b. sale q.b.

Per la panatura Pan grattato o panko q.b. 4 uova Olio di mais o arachidi per friggere

PROCEDIMENTO #01 Acchiappate un tegame, aggiungete il burro (la parte gialla) e l’amido di mais. Riscaldate delicatamente ed avrete un roux bianco, liscio e con i grassi completamente disciolti. Il passo successivo nella preparazione della salsa è quello di combinare il liquido, il latte nel nostro caso, rigorosamente a temperatura ambiente o appena tiepido, versandolo a filo sul roux caldo e lavorandolo con una frusta. Per eliminare del tutto il sapore amidaceo bisogna raggiungere i fatidici 75°C. Continuate a cuocere la besciamella a fuoco dolcissimo, fino a quando non raggiunge una densità pari a quella del purè di patate, mescolando di continuo. A questo punto aggiungete i cubetti di prosciutto, la gelatina, il pepe e la noce moscata. Assaggiate e aggiustate di sale se serve. Lasciate raffreddare con la pellicola a contatto e fate rassodare in frigorifero. PROCEDIMENTO #02 Potete saltare il passaggio del roux e partire dal latte freddo miscelato con l’amido. Disperdete con cura la polvere nel liquido e mettete sul fuoco. Portate delicatamente a temperatura (75°C), lasciate addensare e aggiungete il burro e la gelatina. Continuate a lavorare con la frusta e ultimate la salsa unendo il prosciutto, il pepe, la noce moscata. Assaggiate e regolate di sale, potrebbe essere già abbastanza salata per via dello jamon. Lasciate raffreddare con la pellicola a contatto e fate rassodare in frigorifero. SALSE

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L’ALTERNATIVA AL FORMAGGIO In Spagna non si utilizza, ma i più golosi sono liberi di sperimentare. Una volta preparata la besciamella, mettetene da parte 500 grammi e aggiungete a caldo una miscela fatta con 60 grammi di tuorli 100 grammi di panna fresca. Mescolate con una frusta e unite 30 grammi di burro e 100 grammi di formaggio grattugiato (Parmigiano Reggiano 18 mesi). Controllate la consistenza e se necessario riportate sul fuoco (basso), la salsa deve essere molto densa. Ultimate con il prosciutto e le spezie, omettete il sale. Coprite con pellicola e lasciate rassodare in frigorifero. LA FORMAZIONE DELLE CROCCHETTE Una volta raffreddata la massa, trasferitela in una sac à poche (diametro della punta: 2 cm) e dressatela nell’albume leggermente sbattuto, come in foto. Il composto a base di besciamella deve essere abbastanza denso da non perdere la forma. Tagliate dei cilindretti con le forbici e passateli nel pangrattato o panko. Fatta questa prima panatura, rimettete le crocchette in frigorifero per almeno 15 minuti, per far aderire bene. Nel frattempo sbattete i tuorli negli albumi, sfrutterete il loro potere legante e apporterete grasso e sapore. Passate le crocchette già panate nell'uovo e poi subito nel pangrattato (o nel panko*). Disponetele su un unico strato 322

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su di un vassoio e trasferite in congelatore per venti minuti. Nel frattempo scaldate l’olio, quando avrà raggiunto i 190°C friggete le crocchette in immersione, poche alla volta, per non fare abbassare la temperatura all’interno del tegame. Cuocete fino a quando non si colorano esternamente, dovete solo far dorare la panatura perché la besciamella all’interno è già cotta. *Non riuscite a trovare il panko? Procuratevi un filone di pane in cassetta, tagliatelo a fette di 1 cm e scaldatele in forno ventilato a 160°C per 5-10 minuti, il tempo di disidratarlo leggermente. Quindi tagliate via la crosta, tritatelo al mixer o meglio ancora grattugiatelo con una grattugia a fori larghi. Servite le croquetas de jamón caldissime, quasi ustionanti: schioccheranno in bocca come le nacchere, farete un viaggio sensoriale e lisergico al pari di Gaudì. La ricetta è finita. Ora procuratevi gli ingredienti necessari e ricordate: el que sigue la consigue (Chi segue i consigli raggiunge i risultati).

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7.1 – IL GUACAMOLE Sapete cos’hanno in comune gli obelischi d’Egitto, le torri di Irlanda e Scozia, i sassi piantati a Cuzco e persino l’Empire State Building? Sono tutti simboli fallici. Lo so lo so: questa è la ricetta scientifica e non si fanno discorsi del piffero, ma il protagonista di questa rubrica agostana, il frutto dell’amor che soppianta e divelle la banana è lui: l’avocado. Un po’ per la forma inequivocabile, un po’ per le sue sedicenti proprietà afrodisiache, gli Aztechi chiamavano le piantagioni su cui cresce “āhuacacuahuitl”, che si traduce letteralmente in “albero dei testicoli”. E come se non bastasse, il lemma “guacamole” deriva dall’azteco “ahuacamolli”, che significa, indovinate un po’, “salsa di testicoli”. Invitante, no? “Passami il puré di cabbasisi che ci devo inzuppare i nachos!” Diventerà la vostra catchfrase estiva preferita. Ve lo garantisco io. CHE COS’È IL GUACAMOLE In origine era solo avocado maturo schiacciato in un mortaio di basalto e pestato con del sale. È così che lo preparavano gli Aztechi 500 anni fa, facendo della deliziosa salsa il più antico cibo tradizionale ancora prodotto in America. La versione moderna viene arricchita con cipolla rossa, succo di lime, coriandolo fresco, pomodoro a cubetti e più raramente con aglio. Negli States lo amano così tanto che durante il Super Bowl, la finale del campionato della National Football League, ne ingurgitano quasi 23.000 tonnellate. Con chissà quante di nachos. Visto il consumo smodato di salsa, penserete voi, qualcuno di loro avrà senz’altro craccato il codice per evitare che i frutti, da verdi e burrosi, diventino marroni e flaccidi a distanza di poche ore dal taglio. Macché! Alcuni pensano ancora che conservare il nocciolo preservi l’avocado dall’ossidazione, per via di chissà quali poteri magici, tipo Sfera del Drago. Meno male che c’è lo Zio che si sacrifica per voi, per fare questo esperimento ho buttato talmente tanti avocado che i noccioli escono dalle fottute pareti. SCEGLIERE L’AVOCADO GIUSTO Esistono tantissime cultivar di avocado. Possono essere succosi e semiduri, come i Fuerte (grandi, grossi e con la buccia liscia), oppure ricchi e cremosissimi, come la varietà Hass (tondeggianti, violacei e con la buccia rugosa). Questi ultimi sono quelli giusti per preparare un guacamole perfetto. 327


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LA MATURAZIONE La finestra temporale in cui gli avocado sono assolutamente perfetti - morbidi e teneri, senza macchie o striature marroni - è notoriamente breve. Questa peculiarità può rendere la pianificazione di una ricetta a base di avocado un'esperienza logorante. I miei avocado matureranno in tempo per la cena Tex-Mex di sabato? E se poi diventano marroni? Fortunatamente ci sono alcuni trucchetti per accelerare o rallentare il processo di maturazione, a seconda del caso. Lo sviluppo nei frutti è regolato da un gas chiamato etilene, che viene prodotto naturalmente dalla frutta stessa. Maggiore è la concentrazione di questa sostanza, più veloce sarà la maturazione. Ecco perché è consigliabile lasciare gli avocado acerbi in sacchetti di carta insieme a delle banane: questo accorgimento concentra l'etilene e innesca una maturazione in tempi record (2-3 giorni). Ma come si fa ad individuare gli avocado maturi al banco della frutta? Regola #01 Proprio come i gioielli di famiglia, mai tastare! Dovete tenere a bada quelle manacce. Piuttosto osservate il colore della buccia: è verde brillante? L’avocado non è ancora pronto. Dovete agguantare quelli di colore bruno-violaceo, quelli marroni sono troppo maturi. Regola #02 Rimuovere il picciolo: se viene via facilmente e il forellino sottostante è di un colore verde-giallo, il frutto è pronto. Se fa resistenza è acerbo, se sotto è marrone, ahimé, è marcio. MORTAIO DUE VOLTE: I MESSICANI SONO PEGGIO DEI GENOVESI I frutti maturi ce li abbiamo, non ci resta che tagliarli a metà in senso verticale, “svitare” le due metà e rimuovere il nocciolo colpendolo con il calcagno della lama. Si estrae la biglia legnosa, si preleva la polpa con un cucchiaio e si procede con la fase più delicata: il pestaggio. Non dovete mica schiaffeggiarlo di brutto eh, limitatevi a schiacciare il tutto con lo strumento che preferite: una forchetta, una frusta da pasticceria, cambierà la consistenza del prodotto finito ma non il sapore! Il pestello magico del molcajete (mortaio messicano) di basalto non vi serve, ve lo garantisco. E il mixer? Non mi piace utilizzarlo perché si rischia di rendere il composto troppo fine. Io preferisco il guacamole con ancora qualche pezzetto da masticare. Il resto è omogeneizzato verde. SALSE

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DEBUNKING SULL'OSSIDAZIONE

Gli avocado contengono una classe di composti chiamati fenoli, che possono essere convertiti in nuovi composti chiamati chinoni quando esposti all’aria. Questo processo è accelerato dallo stesso enzima che fa scurire il basilico: la polifenolossidasi. I chinoni sono tossici per i batteri (servono al frutto per difendersi dai loro attacchi) e possono anche reagire tra loro per formare lunghe catene polimeriche, causando il mutamento del colore da giallo-verde a marrone. Questo avviene anche in molti altri frutti, ma nell’avocado il processo è più rapido dato l’altissimo contenuto di polifenolossidasi.

il nocciolo non serve a niente, lo giuro e ve lo dimostro

Schiacciare l'avocado espone all'aria l'interno delle cellule del frutto. Questo permette all'enzima, la polifenolossidasi (PPO) contenuta nelle cellule di reagire con l'ossigeno dell'aria. Questa reazione enzimatica porta alla formazione di pigmenti melanoidinici. Con il guacamole, il risultato è una poltiglia molto poco appetitoso, di colore verde brunastro. Sono stati sperimentati numerosi metodi per evitare che il guacamole diventi marrone. Forse il rimedio più antico (ma anche più stupido) e più comunemente suggerito è quello di mettere il nocciolo intero al centro del prodotto finito. Perché questo funzioni, il nocciolo dovrebbe in qualche modo interagire con la PPO per inibire l’ossidazione. Nonostante la ritenga da sempre una pratica sciamanica senza alcun senso, ho voluto provare lo stesso. Ho poggiato il nocciolo al centro di una piccola ciotola di guacamole e l’ho lasciato in frigorifero per tutta la notte. Il giorno dopo è finito nell’organico. Solo la parte direttamente sotto il nocciolo era ancora verde. Da qualche tempo a questa parte, negli States si può acquistare guacamole confezionato in buste sigillate. Il confezionamento sottovuoto prolunga la durata di conservazione sottraendo l’aria, ma alcuni marchi sono riusciti ad andare oltre. In alcune catene, la polifenolossidasi è stata inattivata dall'alta pressione, un processo che fa sì che l'enzima si dispieghi, neutralizzandolo. Anche se lasciato esposto all'aria durante la notte in una ciotola aperta nel frigorifero, il guacamole trattato ad alta pressione rimane verde come il giorno in cui è stato prodotto. La combinazione di inattivazione del PPO con l'alta pressione e la riduzione del contenuto di ossigeno tramite l'imballaggio sottovuoto permette di conservare il guacamole per diverse settimane senza tracce di deterioramento. Ho recuperato 4 avocado Hass maturi a puntino, li ho tagliati a metà, ho rimosso il nocciolo e ho predisposto le 8 campionature. Dopo 18 ore trascorse in frigorifero si presentavano così:. SALSE

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A

B

C

D

E

F

G

H

campionature di avocado dopo 18 ore trascorse in frigorifero

A. Frutto coperto con pellicola alimentare a contatto. La pellicola alimentare non riesce a proteggere la polpa del frutto, appare visibilmente deteriorata e marrone in alcuni punti. B. Frutto messo sottovuoto. Praticamente intatto, solo leggermente ammaccato dalla pressione. Consistenza perfetta, colore impeccabile: ce l’ho fatta! C. Frutto messo in acqua bollente e poi raffreddate nel ghiaccio, quindi messo sottovuoto. La cottura, seppure estemporanea, ha modificato il colore e la consistenza dello strato esterno. Vedete quell’anello marroncino esterno? Non è andata bene. D. Frutto ricoperto con cipolle affettate, poiché i suoi composti sulfurei riescono a proteggere le superfici dall’ossidazione. Nonostante l’abbia inserito in contenitore con coperchio ermetico, questo non ha impedito ad alcune parti di diventare color ruggine. 334

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E. Frutto immerso in acqua. Mi sono fatto fregare da Kenji López Alt, il giornalista scientifico di Serious Eats e autore della premiatissima rubrica “The Food Lab”. Ebbene, Kenji consiglia di immergere i frutti in acqua fredda, e così ho fatto. Niente, un altro avocado buttato. F. Frutto immerso nel succo di limone. Qui non c’è nessuna traccia di ossidazione, ma il limone ha praticamente neutralizzato il colore verde, oltre ad avere donato un’acidità alla polpa inaffrontabile: era meglio leccare una pila. G. Frutto immerso in olio extra vergine di oliva. L’avocado immerso in olio tiene botta, si è conservato perfettamente anche se in alcuni parti cominciano ad affiorare segni di imbrunimento. Troppo dispendioso come metodo di conservazione, continuo a preferire il sottovuoto. H. Frutto non trattato. Qui potete ammirare una natura morta, ma morta sul serio. Requiescat in pace.


ADDOMESTICARE LA CIPOLLA Dovreste già sapere tutto su come farlo: l’ho spiegato nella ricetta scientifica sulla pasta alla genovese. Per un breve ripasso e capire di più su questo bulbo perfetto e dei suoi composti, rileggete pure la ricetta della pasta con la genovese a pagina 60. Ho sempre adorato la cipolla cruda, la mangiavo impunemente a discapito della digestione e dei rapporti interpersonali. Ora ho scoperto come ammansirla, con un protocollo che somiglia molto a quello dell’aglio e olio scientifica. Fate così: prendete la cipolla intera, immergetela in una salamoia al 40% di sale (1 litro di acqua e 40 g di sale) e fatela cuocere al microonde fin quando non ha raggiunto i 65°C. Se vi piace, potete acidulare l’acqua con dell’aceto di mela o vino, donerà un colore molto brillante alla cipolla. Non avete il microonde? Potete immergere la cipolla in acqua, oppure utilizzare il sous vide, riempiendo il sacchetto con acqua e sale e lasciando aperta un’estremità. Una volta raggiunta la temperatura, tuffate la cipolla in acqua e ghiaccio, per ridarle croccantezza, e tagliatela a cubetti.

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il Gianframole Ingredienti

3 avocado varietà Hass 1 peperoncino serrano 1/2 cipolla rossa (40 g ) o 1 scalogno 5 g di coriandolo fresco Il succo di 1 o 2 lime La buccia di 1 o 2 lime 1 pomodoro San Marzano (Roma o Cuore di bue) maturo 3 g di sale Sal’s Seasoning Smoky Chipotle Chili

Prendete gli avocado, tagliateli a metà, eliminate il nocciolo. Trasferite la polpa dei primi due in una ciotola o un mortaio e schiacciate con i 3 grammi di sale in maniera grossolana. Una volta ottenuta una purea non troppo liscia, aggiungete la polpa del terzo avocado, incidendo la polpa ed estraendo i cubetti con il cucchiaio.

Trattate la cipolla come vi ho suggerito nel paragrafo dedicato, tagliatela a cubetti di circa 3-4 mm. Battete al coltello il coriandolo fresco e mettete da parte, eliminate la polpa e i demi del pomodoro e tagliatelo a cubetti di 6 mm. Grattugiate la buccia del lime e spremetelo per ricavare il succo. Unite tutti gli ingredienti e il rub Sal’s Seasoning Smoky Chipotle Chili, senza rimestare troppo, quindi versate in un contenitore e mettete il Gianframole sottovuoto. Lasciate insaporire per un’ora e servitelo con i nachos d’ordinanza. La conservazione Vi sono avanzati degli avocado o ne avete di maturi che rischiano di marcire? Tagliateli a metà, denocciolateli e sbucciateli. Metteteli in un sacchetto e fateli rassodare in congelatore. Quando saranno diventati belli duretti, inseriteli in un sacchetto dedicato e metteteli sottovuoto. Conservateli in frigorifero o in freezer, a seconda della vostra urgenza/esigenza. Ora sapete proprio tutto sul guacamole, quindi vi lascio come farebbe Tony Montana nel leggendario Scarface:

“Amigo, l’unica cosa a questo mondo che conta davvero sono le palle, tu ce l’hai le palle?” Avoja! C’ho il frigo pieno di avocado. 336

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7.3 – IL KETCHUP “Three tomatoes are walkin' down the street. Papa Tomato, Mama Tomato and Baby Tomato. Baby Tomato starts lagging behind, and Papa Tomato gets really angry. Goes back and squishes him and says: “Ketch - up!” Mia Wallace, Pulp Fiction, 1994

Qual è l’elemento che accomuna voi fan di Tarantino da voi altri che proprio lo detestate? Ve lo dico io: entrambi avete consumato ettolitri di ketchup nella vita. Il problema è che poi siete cresciuti, e quando i radical chic del desco hanno iniziato a demonizzarlo, vi siete uniformati ai diktat dei presìdi e delle eccellenze del territorio. "Americanate: sulle patate, ci si mette il rosmarino." Ma la verità è un'altra. Ed è che il ketchup fatto a regola d'arte è una salsa strepitosa che tutti adorano ma che in molti rinnegano. A me lo status quo non piace e sono un grande fanatico del ketchup. Per questo motivo ho deciso di darvi la mia ricetta personale. Non saprei dirvi se è migliore o peggiore di quella Heinz (la mia preferita tra i marchi da supermercato) in senso assoluto, ma per quanto mi riguarda non ha eguali. Perché? Perché prima di metterla a punto mi sono fatto delle domande e mi sono dato delle risposte. 1. Il ketchup non si consuma assoluto, ma si degusta sempre in abbinamento a qualcosa. Quindi va equalizzato alla pietanza da accompagnare. Ne deriva che da solo potrà essere sbilanciato. 2. Essendo in accordo con la pietanza da accompagnare ne deriva che non può esiste UN ketchup ma esistono MOLTI ketchup a seconda del piatto che dovranno accompagnare. Sì, avete capito benissimo. Un ketchup per il cheeseburger potrebbe non andar bene per le patatine fritte e viceversa. Per preparare il ketchup scientifico non accenderete un solo fornello e vi servirà qualche grammo di un particolare additivo alimentare reperibile agilmente online. Il risultato sarà una salsa densa e brillante, lucida e compatta, di grande viscosità e che avvolgerà con un pungente abbraccio le vostre patatine: chips, french fries classiche o country style con la buccia, come piacciono a me. Imparando il processo di costruzione sarete in grado, ovviamente, di produrre delle varianti che meglio si accosteranno ai diversi tipi di abbinamento. Se avete un locale SALSE

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potrete mostrare con vanagloria la vostra carta dei ketchup artigianali, fatti in casa, senza alcun conservante. Potrete scegliere il vostro pomodoro e il vostro aceto preferito oltre, ovviamente, al miliardo di spezie e aromi esistenti sul globo terraqueo. La vostra salsa sarà più o meno acidula, più o meno pungente, più o meno piccante, più o meno floreale. Una giostra di sapori. Ammettetelo: quando mai vi ho deluso con una ricetta? IL KETJAP È il nome di una salsa a base di pesce fermentato attualmente ancora in vendita; i primi ad assaggiarla furono gli inglesi, in una regione che corrisponde all’attuale Malesia. Gli albionici pensarono bene di esportarla nelle loro colonie del Nord America, fu lì che cominciarono a replicarla aggiungendo nuovi ingredienti come funghi e noci. I pomodori non pervenuti fino al 1800, ma è all’inizio del ventesimo secolo che avvenne la svolta: la gente diventava sempre più ostile al consumo di cibi pompati coi conservanti. Per chetare gli animi, due uomini di nome Harvey Wiley e Henry Heinz (sì, quell’Heinz che mi piace moltissimo) tirarono fuori dalla manica sporca di ketchup una ricetta con soli conservanti naturali. Preparata esclusivamente con pomodori maturi (e non scarti di produzione del pomodoro), che contengono dosi generose di pectina, un conservante naturale, un po’ di sale e una percentuale di aceto bella importante. Il risultato? Una salsa stabile e da scaffale, che poteva essere serenamente stoccata a temperatura ambiente. COME NASCE UN KETCHUP INDUSTRIALE L'ingrediente principale del ketchup moderno è il pomodoro. La quantità varia a seconda della marca e del tipo. I pomodori vengono lavati e triturati finemente per creare una massa dalla consistenza omogenea e lungo il percorso di produzione, una parte dell'acqua di vegetazione contenuta nel frutto viene fatta evaporare per addensare la salsa. Poiché i pomodori contengono per lo più acqua, circa il 95%, il peso dei pomodori iniziali potrebbe essere superiore al peso effettivo dei pomodori presenti nel ketchup finale. Per esempio, per fare 100 g di ketchup Heinz vengono utilizzati 148 grammi di pomodori. I più maliziosi tra voi potrebbero pensare che la produzione del ketchup sia un pretesto per consumare pomodori marcescenti e di bassa qualità. Tuttavia, spesso è vero il contrario. I pomodori per il ketchup possono essere raccolti in anticipo, poiché il tempo per passare dal raccolto alla produzione è di frequente molto breve. I grandi marchi di salse hanno solitamente un contratto con coltivatori che piantano e raccolgono pomodori appositamente per il loro ketchup. 340

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Oltre ai pomodoro, gli altri due componenti principali sono solitamente l'aceto e lo zucchero. Entrambi sono essenziali per garantire che i pomodori non si rovinino e che il ketchup possa essere conservato abbastanza a lungo. Nella lista finale degli ingredienti appiccicata allo squeezer troviamo sempre anche sale e spezie. Ma come funziona la linea produttiva? Per prima cosa i pomodori vengono ordinati e lavati. Il processo, da quel momento in poi, varia leggermente a seconda del produttore, ma consiste in alcuni passaggi fondamentali. Come accennato prima, il pomodoro deve essere ridotto in pezzi più piccoli. Può essere macinato o trasformato in poltiglia utilizzando un omogeneizzatore. Talvolta può anche essere pelato, generalmente la pelatura viene effettuata con l'aiuto del vapore. Un breve trattamento a vapore caldo dei pomi ammorbidirà la pelle e ne faciliterà la rimozione. I pomodori devono essere sottoposti ad almeno una fase di trattamento termico, in gergo chiamato "hot break”, che serve a disattivarne gli enzimi. Queste particelle, che sono naturalmente presenti, potrebbero altrimenti rompere la pectina, una grande molecola colloidale che aiuta ad addensare il ketchup. L’altro trattamento termico papabile può essere il processo di cottura. Durante questa fase, il concentrato di pomodoro viene mescolato con l'aceto, lo zucchero e altri ingredienti e cotto insieme per ottenere la consistenza desiderata. Applicando calore l'acqua evapora, concentrando la salsa, ed eventuali microrganismi vengono annientati sul colpo. Il trattamento termico e il processo di cottura non devono necessariamente avvenire in un processo unico. Invece di iniziare con i pomodori freschi, alcuni produttori di ketchup acquistano concentrato di pomodoro già pronto (proprio come faremo noi!) e lo convertono in ketchup. IL FLUSSO DEL KETCHUP È SPECIALE Il concetto è bello articolato: per voi, farò un riassuntino semplice e alla portata di tutti, ma tutti-tutti. Se agitiamo una tazza di the, di latte o di caffè, oppure sciarbottiamo il vino con lesto movimento di polso, per quanto vorticosamente agitiamo questi liquidi essi non cambiano in termini di viscosità. Sono quei fluidi che hanno un comportamento “normale”o newtoniano, in cui gli sforzi sono direttamente proporzionali alla velocità di deformazione: la velocità di flusso aumenta proporzionalmente alla forza applicata. Molti fluidi invece hanno comportamenti diversi a seconda di come li mescoliamo. Questi cattivoni imprevedibili SALSE

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hanno la caratteristica di variare la loro viscosità a seconda delle forze che interagiscono con essi ovvero, se sottoposti alle forze di taglio, evidenziano un flusso di scorrimento che può essere: plastico, pseudoplastico, tixotropico o dilatante. Maionese, grassi solidi, panna e bianchi d’uovo montati sono fluidi non newtoniani con comportamento plastico. Sono sostanze che iniziano a scorrere solo se lo sforzo applicato supera un valore limite, detto sforzo di snervamento. Che si tratti di emulsioni o schiume, questi fluidi si comportano in maniera ordinaria, come quelli newtoniani, solo dopo uno sforzo iniziale. Nella pratica sapete bene come smuovere l’albume montato a neve ferma o la margarina: per farli scorrere è necessario applicare una certa forza iniziale. E ora veniamo aI ketchup. La nostra salsa rossa è un fluido non-newtoniano con comportamento pseudoplastico. Non devo dirvelo io, dressarla dalla sua confezione non è semplice: finché e ferma nella sua bottiglia rimane lì allo stato semisolido ed è necessario qualche colpo per iniziare a farla cadere. La forza applicata modifica la viscosità del ketchup facendolo uscire dalla bottiglia , spesso senza controllo. Questo accade perché le fibre della salsa si agganciano l’una all’altra finché non si somministra una forza, allorché si sganciano (di colpo) e il ketchup fluisce dalla bottiglia; la viscosità si abbassa ma si ricompatta istantaneamente sul piatto. Lo yogurt è un fluido non newtoniano con comportamento tissotropico, ovvero, se lo maltrattate frullandolo e frustandolo, perde struttura e compattezza nel tempo. Gli impasti a base di acqua e maizena, comprese alcune creme, sono invece esempi di fluido non newtoniano con comportamento dilatante. Applicando forze più deboli, come il lento inserimento di un cucchiaio nel fluido, esso si manterrà nel suo stato liquido. Se invece riempite una piscina di acqua e maizena potete correre sul liquido a patto che lo facciate alla Forrest Gump. PERCHÉ PREPARARE IL KETCHUP IN CASA? Beh, vi ribalto la domanda: perché no? Quando si cucina qualcosa da zero, si sa esattamente cosa ci finisce dentro. Il ketchup industriale avrà sempre la sua quota di conservanti e non sarà mai plasmato sui vostri gusti. Non avrà mai il sapore del concentrato

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di pomodoro, magari fatto da voi col pomodoro buono, l’aceto selezionato e quell’equilibrio, sfacciatamente soggettivo, tra acidità e dolcezza. COME SI FA UNA SALSA PERFETTA O meglio, quali sono i parametri che ci permettono di crearla. • •

Ingrediente portante. È ciò che compone in quantità maggiore la salsa. Che sia una verdura, un latticino, un legume, un pesce, un piccione in caduta, fate in modo sia di qualità. Grasso. Spesso si parte da sua goduria, il laido grasso, ma non nel caso specifico del ketchup. Ma parlando di salse in maniera generalizzata, non ne abusate (massimo deve essere un terzo degli ingredienti) e tenete in considerazione la sua valenza aromatica. Della serie l’olio e il burro non sono sullo stesso piano del foie gras. Acido. Come la componente grassa, deve stare tra il 10% e il 30% della salsa e ha la funzione di equilibrare i sapori della carne e del grasso disciolto senza sovrastarli, ma accentuandoli. Alcolici, agrumi, panna acida e acqua di pomodoro verde i più usati. Aroma. Siamo totalmente nel campo olfattivo, ma il loro valore è determinante. Parliamo di erbe, spezie, scorze di agrumi o germogli da usare con cautela ma senza timidezza. Diciamo tra il 5 e il 10% del totale.

E infine, la salsa perfetta non può essere mancante dei seguenti parametri: • Sapidità • Dolce • Amaro • Percezioni sensoriali • UMAMI In dosi sufficienti (quanto bastano) per esaltare al massimo le qualità della salsa. GLI INGREDIENTI DEL KETCHUP: IL POMODORO Vi ho parlato a lungo di pomodori. Davvero a lungo, così tanto che arrivati fin qui saprete che la mia varietà preferita è il San Marzano, pomodoro che acquista questo nome e la DOP soltanto da trasformato (pelato e in succo di pomodoro). Da "fresco", dovremmo chiamarlo col nome del suo ecotipo, cioè "Selezione Cirio 3" (ed afferenti). SALSE

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Ma nessuno si offenderà se - tra di noi, veri appassionati di questo rosso frutto - lo chiamiamo San Marzano e ne siamo devoti, vero? Ripetiamo ancora una volta le caratteristiche che dovrebbe avere un buon pomodoro di tipo San Marzano. • La dimensione è medio-grossa, con una lunghezza compresa tra i 60 e gli 80 mm. • La forma è cilindrica e allungata e termina con un picciolo. • Non è presente il peduncolo. • Il colore è rosso brillante, uniforme e tipico. • La buccia, sottile e consistente, si stacca facilmente dalla polpa quando la maturazione è completa. • La polpa è soda ed elastica, poco acquosa e quasi priva di semi. • L’acidità è scarsa, il pH massimo è 4,50. • Infine, il sapore è tipicamente agrodolce, fresco e intenso. Perfetto per il nostro ketchup scientifico. L’ACETO Per questa ricetta preferisco utilizzare un aceto bianco o di alcol che, attenzione, non è l’aceto di vino bianco. Queste due tipologie di aceto, infatti, differiscono in quanto a produzione. L’aceto di vino si ottiene dalla fermentazione acetica del vino (bianco o rosso) ad opera di alcuni batteri chiamati acetobacter che, in presenza di acqua e ossigeno, ossidano l’alcol etilico che è contenuto nel vino. Si ottiene così un liquido e che può avere diverse sfumature di colore. L‘aceto di alcol, invece, detto anche aceto bianco, è semplicemente una soluzione di acqua e acido acetico. Si ottiene tramite doppia fermentazione, prima alcolica poi acetica (opera di batteri), di bevande alcoliche, malti, riso o frutta. Spesso si ricava dalle barbabietole da zucchero. Si presenta sotto forma di un liquido trasparente e per questo viene chiamato anche aceto di cristallo, vi garantisco che anche il supermercato sotto casa lo vende. Ormai mi conoscete come le vostre tasche di manzo, lo Zio è grande fan della nota acida, ma vi incoraggio a sperimentare e provare anche un aceto meno aggressivo e più aromatico, tenendo conto della sua percentuale di acido acetico. Vi faccio un piccolo elenco: • Aceto di mela 5% • Aceto di riso 4% • Aceto di vino bianco 6% • Aceto bianco o di alcol 6%

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LO SCIROPPO DI GLUCOSIO Secondo la legge vigente, lo sciroppo di glucosio è una "soluzione acquosa depurata e concentrata di carboidrati alimentari, ottenuta da amido, fecola e/o da inulina, che deve rispondere alle seguenti caratteristiche: • • •

sostanza secca non inferiore al 70% in peso equivalente destrosio non inferiore al 20% in peso sulla sostanza secca, espresso in D-glucosio ceneri solfatate non superiori all'1% in peso sulla sostanza secca.”

Lo sciroppo di glucosio si produce tramite idrolisi acida dell'amido, oppure con la sua trasformazione enzimatica. Si adopera in genere l'amido di mais, ma può essere utilizzato anche quello derivante dalle patate, dal riso e dal frumento. L'amido è un polisaccaride costituito da lunghe catene di molecole di glucosio che vengono “spezzate", fondamentalmente in due modi: con l'aggiunta di acido cloridrico e tramite l'utilizzo di enzimi come l'alfa-amilasi (in grado di ottenere sciroppi col 10-20% di glucosio libero) e la gluco-amilasi (più potente, consente di arrivare al 90% di glucosio libero). Tali enzimi vengono ricavati, industrialmente, da batteri o funghi che vengono coltivati per questo scopo. L'idrolisi acida è utilizzata per produrre sciroppo di glucosio a basso equivalente destrosio (DE), mentre per sciroppi ad alto DE si utilizza il secondo metodo. Lo sciroppo di glucosio viene preferito al normale zucchero, soprattutto nella formulazione del ketchup, per una delle sue proprietà funzionali. Alta fermentescibilità, groscopia, dolcezza, potere anticongelante, capacità di favorire le reazioni di Maillard e, caratteristica che interessa a noi, la viscosità. Anche questo si trova facilmente nel reparto dolciumi e ingredienti per la pasticceria. LA GOMMA DI XANTANO O XANTANA Addensante, emulsionante e stabilizzante perfetto, il modificatore reologico universale: E415. Ahimè non posso suggerire un ingrediente sostitutivo per questa gomma, ma vi assicuro che è facilmente reperibile sia in farmacia che online.

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Tutto sulla gomma di xantano o xantana

È un ingrediente che ha aumentato la sua presenza nei prodotti sugli scaffali ma sempre più frequentemente è usata nelle cucine professionali. Quando compro un alimento controllo spesso le etichette, soprattutto nei prodotti base comuni nella cucina barbecue. Ebbene, lo xantano è ormai sempre presente “in tutte le salse”. Ma cos’è nello specifico? Quali sono i suoi usi e perché è diventata popolare? Essa viene ottenuta mediante processo di fermentazione di glucosio o saccarosio da parte di ceppi naturali del batterio Xanthomonas campestris, purificato per estrazione in alcool etilico; il polimero purificato viene essiccato e poilverizzato. Lo xantano è un polimero a base di D-glucosio e il D-mannosio, nonché degli acidi D-glucuronico e piruvico, e viene preparato sotto forma di sali di sodio, di potassio o di calcio. La sua elevata capacità di solubilità, la stabilità in presenza di sali e la sua resistenza agli enzimi hanno reso questa sostanza uno dei principali polimeri utilizzati nell’industria alimentare. La rigidità strutturale del polimero di questa gomma le conferisce proprietà insolite e vantaggiose difficilmente ottenibili in un singolo additivo alimentare, ovvero: viscosità stabile in ampi intervalli di temperatura e pH resistenza alla degradazione enzimatica. Non è solubile nei solventi organici, compreso l’etanolo. Le soluzioni acquose di xantano sono altamente viscose. Questa viscosità non è influenzata dalla temperatura, né nel congelamento né nel punto di ebollizione. Motivo per il quale lo xantano viene scelto dall’industria alimentare affinché le proprietà dei prodotti finali in cui viene utilizzato rimangano sempre e comunque inalterate. Le soluzioni di xantano hanno caratteristiche reologiche particolari: sono fluidi non newtoniani di tipo pseudo-plastico, caratteristica importante nella stabilizzazione di sospensioni ed emulsioni. Quest’ultima proprietà migliora le caratteristiche sensoriali del prodotto finale (sensazione al palato, e nel rilascio del sapore) garantendo anche un alto grado di miscelazione, di pompaggio e di versamento. Lo xantano non ha effetti gelificanti, viene quindi utilizzato per il controllo della viscosità a causa delle deboli associazioni che gli conferiscono proprietà di formazione di gel deboli. Tuttavia, quando aggiunto ad altri idrocolloidi, può produtte gel forti. Questa gomma può essere aggiunta ad Agar Agar e Carragenina Kappa per formare un gel più stabile. La buona capacità di ritenzione idrica può essere utilizzata per il controllo della sineresi e per ritardare la ricristallizzazione del ghiaccio (crescita dei cristalli di ghiaccio) nelle situazioni di congelamento-scongelamento. Può essere utilizzata anche nei ripieni di pasta frolla, per evitare la trasudazione e il rilascio dell’acqua nel ripieno, proteggendo la croccantezza della crosta. Aggiunto al gelato evita la formazione di cristalli di ghiaccio. È in grado di produrre un grande aumento della viscosità di un liquido anche se aggiunta in quantità molto piccola; nella maggior parte delle applicazioni è usata allo 0,5% o anche a 0,05%. Spesso è usata in condimenti per insalata e salse. Aiuta a prevenire la separazione dell’olio stabilizzando l’emulsione. La gomma di xantano aiuta anche a sospendere le particelle solide, come le spezie. Inoltre, utilizzata in cibi e bevande surgelati, aiuta a creare una piacevole consistenza dei prodotti finali. Non cambia il colore o il sapore degli alimenti e delle bibite. ( a cura di coach Virgilio Brunetti)

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PREVENIRE È MEGLIO CHE CURARE: PER OGNI PROBLEMA UNA SOLUZIONE Prima di svelarvi la ricetta, voglio essere sicuro che non facciate errori maneggiando la xantana da aggiungere al ketchup. Sono due gli scenari nefasti che dovete rifuggire: Problema n°1 Grumi di polvere sospesi nel composto. Causa: la xantana non è stata dispersa in maniera omogenea. Soluzione: miscelate la xantana con lo zucchero e spargetela nel vortice formato dal movimento del mixer. Problema n°2 Il composto non si addensa, anche se i granuli di polvere risultano correttamente dispersi. Cause: 1) Il peso della xantana non è quello giusto. 2) Avete aggiunto nel ketchup succhi di frutta con all’interno enzimi che ostacolano la gelificazione (kiwi, ananans, papaya). Anche l’alcool ostacola il processo. 3) Il ketchup è stato congelato, il congelamento rompe la gelificazione. Soluzioni: 1) Pesate con cura la xantana con una bilancia di precisione 2) Se volete personalizzare il ketchup con del succo di frutta, cuocetelo e usatelo freddo, oppure utilizzate frutta in scatola o congelata 3) Non tenete in freezer il ketchup, potete lasciarlo in congelatore per un massimo di 4 ore

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il ketchup scientifico Ingredienti per 600 ml circa

200 g di doppio concentrato di pomodoro (se riuscite ad ottenerlo da pomodoro San Marzano, molto meglio) 200 g di sciroppo di glucosio (sostituibile con miele di acacia) 130/150 g di aceto distillato di alcol 40 g di zucchero semolato 15 g di sale 1.2 g di xantana 0.4 g di chiodi di garofano in polvere

Per una variante aromatica, aggiungere: 0.4 g cipolla in polvere 0.2 g di noce moscata in polvere 0.2 g di cannella

Il procedimento è semplicissimo, vi occorreranno soltanto un mixer (o un minipimer) e una bilancia di precisione. Mescolate a mano il doppio concentrato di pomodoro e l’aceto, aggiungete lo sciroppo di glucosio (o il miele di acacia), amalgamate con cura per evitare che lo sciroppo si depositi sul fondo e versate il tutto nel mixer. Provate prima con 130 g di aceto ed assaggiate, siete sempre in tempo per aggiungerne dell’altro. Azionate la macchina (o il minipimer) e versate lo zucchero miscelato con la xantana nel vortice. Unite quindi i chiodi di garofano in polvere, il sale, e se vi piacciono, cipolla in polvere, noce moscata e cannella. Non lavorate troppo la salsa, bastano pochi colpetti. Trasferite il tutto in un barattolo o uno squeezer munito di tappo e conservate in frigorifero per un massimo di due settimane. E ricordate : cosa scegliete, la maniera in cui lo avete preparato, il modo in cui avete scelto di conservarlo. Questi sono gli elementi che vi diranno già oggi cosa troverete nel vasetto domani.

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Gianfranco Lo Cascio nasce a Palermo il 4 settembre 1974. A 9 anni viene iniziato dai genitori alla passione per i cibi cotti sul fuoco e a 10 anni il padre gli fa costruire un grill in acciaio inox adatto alla sua piccola età. Da quel momento non smette mai di grigliare. La sua ricerca costante sulle cotture sul fuoco lo porta negli Stati Uniti e lo mette in contatto con il mondo del barbecue americano. Si accorge che sul web italiano non esiste alcun punto di riferimento per gli appassionati e decide di crearne uno. Nasce così, il 16 ottobre 2006, il dominio bbq4all.it, inizialmente un forum dedicato agli estimatori della griglia. Nel 2009 comincia a collaborare con l'Italian Food Style Education Culinary Institute (IFSE), quando il direttore Raffaele Trovato lo nomina docente di Scienza dell'affumicatura. Nel 2010 BBQ4All diventa la più grande community italiana di cultori della cucina sul fuoco, con migliaia di utenti attivi, trasformandosi in sito web. L'intenzione è quella di forgiare un'identità solo italiana del barbecue, prendendo come riferimento tecniche e dispositivi dagli americani. Da qui, il claim "American Skills, Italian Style". Nel 2012 nasce la BBQ4All University, la scuola di cucina alla griglia, che finalizza centinaia di corsi l'anno in tutta Italia e consegna migliaia di attestati di


partecipazione ad altrettanti entusiasti frequentatori. Gianfranco Lo Cascio è stato Brand Ambassador di Weber Stephen Italia ed ha contribuito, in qualità di coordinatore didattico, alla fase di startup della Grill Academy by Weber, la grande scuola di cucina al barbecue. Già autore del best seller "Diventare Grill Master, la via italiana al Barbecue" pubblicato nel 2015 (Comunica Edizioni) e ristampato, in una versione aggiornata ed ampliata, nel 2018 (Multiplayer Edizioni). Rossella Gallotta aka Neiadin, classe 1986, è autrice dalla penna vivace nel settore enogastronomico. È anche fotografa, specializzata in fotografia di cibo e prodotti. Ha collaborato con diverse aziende nel campo agroalimentare e con professionisti della ristorazione e pasticceria; le sue fotografie sono state utilizzate in moltissime campagne di advertising. Prima editor, fotografa e successivamente caporedattore della testata online dissapore.com (dal 2013 al 2017), è direttore e fotografa della rivista mensile BBQ4All Magazine - il primo magazine italiano dedicato agli appassionati di cottura sul fuoco vivo - e di tutto il reparto media di BBQ4All, l'azienda fondata e capitanata da Gianfranco Lo Cascio.


“Codice Lo Cascio è un libro che vi aiuterà ad analizzare ogni ricetta in modo oggettivo, a rimettere tutto in discussione sfidando i pregiudizi e ad applicare quei micro-processi che la scienza ha messo a beneficio della gastronomia, per migliorare la resa di ogni piatto. Non è solo una raccolta di ricette, ma la trascrizione di un metodo che insegna a legare il pensiero scientifico alla cucina”.


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