Postura Inquinata
Deformazioni coerenti di sei tendenze contemporanee
Progettto di: Susanna Alberti, Giulio Castoro, Giuseppe Ferrari, Valentina Lamantia, Pietro Rotteglia all’interno del workshop: Un odierno atlante del corpo: “De Umani Corporis Fabrica” tenuto da Massimiliano Ciammaichella. Corso di Storia dell’Innovazione Tecnologica tenuto da Raimonda Riccini A.A. 2012/2013
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Indice
Introduzione
Pag. 07
Capitolo 1. L’Emo
Pag. 09
Capitolo 2. L’Hip-hopper
Pag. 15
Capitolo 3. L’Hipster
Pag. 25
Capitolo 4. Il Nerd
Pag. 31
Capitolo 5. Il Raver
Pag. 39
Capitolo 6. Il Tronista e la Velina
Pag. 45
Bibliografia
Pag. 57
Sitografia
Pag. 58
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Ogni impulso individuale può diventare sociale Ogni società in fermento produce subculture Ogni subcultura determina uno stile Ogni stile può estendersi a tendenza Ogni tendenza risveglia l’attenzione dei mass media Ogni caso mediatico può diventare moda Ogni moda livella le diversità Ogni livellamento è un anestetico sociale Ogni anestesia è un’amnesia Ogni amnesia ha smarrito le ragioni Quel che rimane si riflette nella carne, nella pelle, nei muscoli, nelle ossa: Posture Inquinate.
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Introduzione
All’interno di ogni società non vi è un’unica e sola cultura vigente, ma tante piccole realtà altre che si manifestano come subculture. Per subcultura s’intende un gruppo che manifesta opposizione alla società esprimendola in senso culturale, come lotta fra stili di vita, piuttosto che come lotta politica, di classe. Attraverso l’esibizione e la ritualizzazione di uno stile di vita, la subcultura manifesta il proprio dissenso; si fonda su un agonismo espressivo tipico delle avanguardie artistiche, sul capovolgimento di prassi, immagini, sovrastrutture; sulla dimensione ristretta e minoritaria. Il passaggio da subcultura a mainstream è rapido ed è subdolo. Il rumore delle sottoculture, almeno finché appare tale, è interpretato come potenziale anarchia che si oppone alla rappresentazione dei media. Nello stesso tempo, come contenuto proibito, esprime la coscienza della diversità, in atteggiamenti definiti “innaturali”. L’emergere di una sottocultura spettacolare è tipicamente accompagnato da un’ondata di isterismo che oscilla tra il timore e la fascinazione. Essa di solito viene celebrata nelle pagine della moda e attaccata in quelle dei problemi sociali. Ma con la propagazione del fenomeno si attenuano le tensioni, e la sottocultura diventa perfettamente vendibile. Alla fine ogni stranezza viene integrata e si finisce per ridurre l’altro all’identico, oppure a puro elemento di spettacolo, un clown. La sottocultura viene recuperata come spettacolo divertente all’interno della mitologia sociale dominante. La mercificazione delle subculture ha a che fare col fatto che esse riguardano il consumo ed il tempo libero, comunicano quindi attraverso le merci anche se tentano spesso di distorcere il significato degli oggetti. Perciò la sottocultura cerca di contrapporsi alle merci, ma opera inevitabilmente con esse. Così è stato per gli hippie, così per i punk; e così per gli hip hopper, emersi a fatica dagli stenti dei quartieri poveri attraverso la musica, lo stile, una nuova cultura; e per gli Emo, sempre a disagio rispetto al gusto falso tipico della nostra cultura di massa. Non tutte, fra le sei categorie dell’oggi prese in considerazione, sono nate come subculture. Non tutte sono nate per cambiare il mondo. Ma ognuna ha in comune con le altre il tipico prodotto subculturale: un codice comportamentale e di abbigliamento che cerca di tendere alla diversità, ma finisce inevitabilmente per ripetersi e omologarsi. Immagini esteriori codificate vengono indossate quasi fossero travestimenti. Gli individui associati a tali categorie condividono usanze, pratiche e costumi. Tali agenti si ripercuotono su di loro influenzandone la figura e la personalità. La postura è il frutto di tale influenza. L’individuo modifica se stesso, il proprio corpo e la propria postura tramite il rapporto con l’ambiente in cui vive e l’immagine che ha di se all’interno di tale 7
ambiente. Stress, traumi fisici ed emotivi, posture professionali scorrette ripetute e mantenute nel tempo, respirazione scorretta, squilibri biochimici derivati da una scorretta alimentazione: la postura dell’uomo è in costante e progressiva modificazione. Ogni ideale si perde di fronte all’importanza dell’apparire, e quando questo velo superficiale si toglie, ciò che rimane sono i segni profondi che questi stili infliggono al corpo nudo. Corpi sformati, fatti di pelli tatuate, lobi e narici dilatate, capelli piastrati, schiene ingobbite, gambe storte, cicatrici, espressioni cementificate e sguardi impostati, rigidi mustacchi e muscoli turgidi. Sono corpi contemporanei: Posture Inquinate.
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Capitolo 1
l’EMO
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mo nel 21° secolo è un fenomeno mainstream diffuso tra gli adolescenti, che si distinguono dagli altri per una imprescindibile e cronica depressione e uno stile di vestiario preso in prestito da altre subculture: street, gothic, punk.
Scena illustrata che ritrae il caos ai concerti hardcore punk.
In realtà EMO è un fenomeno sviluppatosi a fine metà degli anni ‘80 nei sotterranei della scena musicale punk nei pressi di Washington D.C. e pare che il termine appaia per la prima volta sulla rivista “Flipside” in un’intervista fatta al cantante hardcore punk Ian MacKaye. In quegli anni Washington D.C. era culla e genitrice della scena hardcore punk americano, vi risiedevano gruppi pionieri dello stile: Bad Brains, Minor Threat, Youth Brigade, Government Issue, Marginal Man e Scream.
Nel 1984 esce l’ultimo singolo dei Minor Threat, sciolti ormai da tre anni, “Salad Days”. L’epoca d’oro dell’hardcore punk di Washington D.C. sembra spegnersi e gruppi da tutta l’America iniziano a sperimentare approcci nuovi. Importantissimi in questo senso furono gli Hüsker Dü e i Naked Raygun. Gli Hüsker Dü (delle zone di Minneapolis) pubblicarono nel 1984 l’album “Zen Arcade” che, seppur in stile hardcore punk, aveva una base concettuale ed artistica opposta ai canoni tradizionali dello stile di appartenenza, avvicinandosi al progressive rock e al pop con temi e testi di carattere introspettivo. I Naked Raygun (Chicago) pubblicarono nel 1985 un album hardcore punk melodico, originale, più curato nella tecnica musicale: “Throb Throb”. Di riflesso a Washington D.C. le band hardcore risentono della spinta innovatrice, “addolcita”, ricca di introspezione dei due album. Emo era utilizzato in modo scherzosamente dispregiativo. E’ l’abbreviazione di emotional. La variante melodica dell’hardcore punk. Viene
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I Fugazi in una posa esplificativa dell’animo emocore.
coniata l’etichetta “Emo-core” affibbiata proprio alle band della scena hardcore punk rigenerata di Washington D.C. L’Emo nasce come sottogenere dell’hardcore punk. Attraversa tre fasi nel corso della sua nascita ad nostri giorni attraverso le quali si afferma come genere musicale mainstream. Prima fase, o prima ondata emo, è quella appunto degli albori raccontata precedentemente. Le band al timone del genere sono i Rites of Spring, Embrace, One Last Wish, Gray Matter, Fire party. Doco dopo nasce la band Moss Icon che inserisce arpeggi complessi e melodici nonché una nuova tecnica vocale chiamata “top-of-the-lungs screaming” (urla al massimo dei polmoni) inserita agli apici delle canzoni, nota caratterizzante del movimento Emo futuro. In tutta America si sviluppano band a tema. A New York e nel New Jersey. A San Diego nasce lo “screamo” ovvero un Emo caratterizzato da ritmi più caotici e aggressivi. Anche in California band come Jawbreaker e Samiam univano lo stile emo-core a quello pop punk e il timbro di voce hardcore diveniva sempre più melodico. I Lifetime negli anni ‘90 seguivano quest’onda, la loro musica era definita o Emo o melodic hardcore punk.
Ma dallo sciogliersi di vecchie ne nascono di nuove, la più importante e ispiratrice per la seconda ondata Emo è la band Fugazi nata dall’unione degli esponenti di punta dei precedenti Rites of Spring e 10
Embrace. Sunny Day Real Estate è il gruppo capostipite della seconda ondata. Nel 1994 pubblica “Diary” che ottiene grande fama a livello nazionale. Inoltre, gli anni ‘90 sono segnati dall’affermarsi di Internet ed è proprio grazie alla diffusione in rete che i Sunny Day Real Estate fanno il giro degli State diventando più famosi degli stessi Fugazi. I Sunny Day Real Estate mescolano all’emocore un po’ di grunge tipico di Seattle, città da cui provengono... l’emo diventa indie.
I Sunny Day Real Estate in concerto.
A metà degli anni ‘90 il genere approda nel Midwest, nasce così il “midwest emo”. Arriva Phoenix influenzato dall’emocore dei Fugazzi, l’indie emo dei Sunny Day Summer Estate e dal midwest emo. New York predilige l’indie emo ormai lungi dallo stile originario dei Rites of Spring e sporco di contaminazioni. Band fresche di mercato della musica come i Weezer pubblicano “Pinkerton” nel 1996 che verrà etichettato album emo di grande influenza nazionale e internazionale. A fine degli anni ‘90 le major iniziarono ad aver gron considerazione del genere. L’emo era ormai salito sulle scale mobili dell’ascensione e del mainstream. Alla fine degli anni ‘90 il genere emo era considerato di tendenza. E le band pioniere, che avevano un’inclinazione indipendente, scelsero di proseguire per strade differenti per non cadere nelle mani delle major, chi prosegui per il punk rock, chi per il progessive rock e chi per l’emergente pop rock (di quest’ultimo genere facevano parte Green Day e Blink 182). L’indie emo cessa di esistere alla fine degli anni ‘90 e mentre alcune band, dal nome Thursday e Sparta, continuavano la tradizione Fugazi, si conclude un “epoca”. La terza ondata si schiude con lo schiudersi del nuovo Millennio, ed è pop. La scena emo degli esordi era quasi scomparsa. Due band in particolare, i Dashboard Confessional e i Jimmy Eat World, stabilirono definitivamente le basi stilistiche del emo-pop che non aveva più 11
Nell’immaigne in alto sono raffigurati i Jimmy Eat World.
niente a che fare con l’emocore di fine anni ‘80 e gettarono le basi alle future band che ancor oggi fanno il giro delle radio e dei canali televisivi a grande scala di pubblico.
In basso i 30 Seconds to Mars.
Oggi lo scenario legato al genere emo è costellato da una moltitudine di band che nascono e muoiono in pochi anni e subiscono infinite influenze musicali seppur mantenendo una base melodica che si rifà al pop punk e all’alternative rock. I gruppi sulla cresta dell’onda del genere sono la fonte dalla quale gli adolescenti descritti a inizio capitolo assumono stilemi, modi, rituali. I nomi di queste band sono un’emblema che aiuta a capire a primo acchito quale filosofia si cela dietro all’ondata emo finale: 30 Seconds to Mars, A Static Lullaby, Brand New, Fall Out Boy, From Autumn to Ashes, Funeral for a Friend, Matchbook Romance, Panic! At the Disco, The Starting Line, My Chemical Romance, Tokio Hotel...
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Anche se il senso e il motivo di ribellione all’interno della filosofia emo è cambiato nei decenni. Il nuovo emo rimane un ribelle (o crede di esserlo). Tale senso di ribellione è il carattere imprescindibile dell’abbigliamento e dell’aspetto: denutrito perché non si ciba della società che lo circonda. Matita nera attorno gli occhi, vestiti scuri, pelle bianca e capelli tinti neri come nelle migliori tradizioni Goth. Jeans stretti, Vans e scalda polso come gli skater, borchie, tshirt e All Star come i progenitori punk. E’ ovvio che la moda emo subisce le influenze del tempo in cui vive. Probabilmente è per questo motivo che la cresta si è trasformata in un’acconciatura bizzarra che comprende un ciuffo lungo davanti gli occhi, ottenuta con la piastra. O che la lotta contro la società vigente è diventata una lotta contro se stessi combattuta a colpetti di lametta sul braccio e stati di depressione.
Abbigliamento e accessori del nuovo emo.
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Capitolo 2
l’HIP-HOPPER
H
ip Hop è un movimento culturale nato nelle comunità Afro-Americane e Latino-Americane del Bronx, quartiere di New York, all’inizio degli anni ‘70. A seguito di un rinnovamento urbano voluto dal sindaco di New York in quegli anni, tutte le persone di colore di origine afro-americana e ispanocaraibica provenienti dalle più disparate zone della Grande Mela, furono costrette a trasferirsi nel South Bronx.
La figura al centro del testo raffigura uno squarcio del Bronx. Famoso quartiere di New York in cui i gli afroamericani e afro-caraibici vennero ghettizzati.
Tale “ricollocazione” avvenne senza nessun tipo di gradualità e creò una tensione sociale ed economica impossibile da gestire, poiché il trapianto forzato creò una forte crisi di rigetto. Ci si ribellava, infatti, alle varie istituzioni che avevano abbandonato questa massa di persone nella penuria di risorse cittadine, nella mancanza di solide leadership e in un assai limitato peso politico. Questo tipo di realtà molto incontrollata, lasciò spazio a un associazionismo notevole: i giovani facenti parte dello stesso isolato trovarono importante cominciare a uscire di casa in gruppo, principalmente per questioni di sicurezza personale, d’identità (il singolo non esisteva poiché diveniva facile preda) e di sopravvivenza. Nacquero così le cosiddette gang. Vere e proprie bande che offrivano protezione, rifugio e amicizia a tutti gli appartenenti. Se non si faceva parte di una gang si era esposti il più delle volte a ogni tipo di criminalità e violenza urbane. Questo associarsi provocò inevitabilmente una serie di disperati e sanguinolenti scontri fra gang “rivali”, che si protrassero per diversi anni e che fecero affibbiare al Bronx il nome di “Lil’Vietnam” (piccolo Vietnam), a causa delle frequenti sparatorie e lotte che avvenivano ad ogni ora del giorno.
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Le immagini in progressione inserite nel testo dall’alto verso il basso raffigurano elementi imprescendibili del gangster outfits. Armi da fuoco e da taglio erano necessarie per l’autodifesa e si nascondevano bene sotto jeans e maglie larghe.
L’attività e il proliferarsi delle gang hanno raggiunto la punta massima tra il 1968 e il 1974; Black Spades, l’aggregazione afroamericana più numerosa e più pericolosa, aveva al proprio comando Afrika Bambaataa, che, come vedremo, ha avuto un’importanza fondamentale per l’Hip Hop. Il “gangsterismo” divenne quindi un abito alla moda, che portava però in dote nient’altro che violenza.
La divisione a compartimenti stagni delle varie aree urbane e degli stessi quartieri, pur creando isolamento, aveva però paradossalmente, contribuito alla fermentazione di nuove forme di espressione.
I luoghi della decadenza divennero centro nevralgico di creatività. I giovani neri, portoricani, afro-caraibici cominciarono a riunirsi, influenzandosi a vicenda, nelle strade dei vari quartieri, nei playground, 16
nelle metropolitane e nei parchi pubblici. Lentamente convogliarono le loro abilità “ricreative” da occupazioni marginali, a un materiale grezzo da utilizzare per nuove forme di creatività e resistenza nei confronti delle autorità, che nonostante avessero totalmente azzerato la loro attenzione nei confronti del Bronx e delle gang, si ritrovavano comunque di fronte piccoli ma importanti segni di crescente volontà di farsi sentire e iniziare finalmente a contare nella società dalla quale erano stati esclusi.
Un’immagine raffigurante il degrado del quartiere in cui le gang agivano (e l’intera popolazione afro-americana trascorreva la propria quotidianità).
Nonostante la Città non offrisse una cura valida al degrado e alla disperazione, queste persone ne crearono una su misura, si chiamava partying: la gente cominciava ad annoiarsi, a volersi divertire e aggregarsi in modi differenti da quanto avessero già conosciuto e rilassarsi, scappando dall’apatia nella quale l’avevano abbandonata. In quel periodo i Dj delle Black Radios a New York inventavano il talk over, la presentazione dei dischi con sovrapposizione di parlato, contemporaneamente, alcuni cantastorie metropolitani inneggiavano all’orgoglio nero (blackness) con uno stile a metà tra parlato e cantato, su tappeto musicale di sapore jazzistico, è proprio qui che si formarono i primi echi di genere Rap e Hip Hop. Le strade, i quartieri, i parchi divennero presto teatro di una rivoluzione non violenta, alimentata da una moltitudine di giovani armati di desiderio di gioia, divertimento e riscatto che li avrebbe accomunati sotto una stessa bandiera. La nascita di nuovi giovani “intrattenitori” stava gettando le basi per costruire una nuova cura che avrebbe salvato molte vite e che era pronta per essere testata su quegli adolescenti che l’aspettavano lungo le fatiscenti strade dei loro quartieri dimenticati: l’Hip Hop. I primissimi precursori del genere sono ancor oggi rispettati e idola 17
Evento Block Party per strada.
trati, la Old School di cui ancora molto oggi sono incensati i testi e le melodie di moltissime canzoni di genere devono il loro dovuto tributo a nomi come Dj Kool Herc, Afrika Bambaataa e Grandmaster Flash. Gli spazi pubblici del ghetto erano quasi sempre invasi dal nuovo fenomeno dei Block Party: feste di strada, in cui i giovani afroamericani e latino americani interagivano suonando, ballando e cantando assieme.
Ragazzi armati di scatoloni pieni di vinili si radunavano nei parchi e suonavano per ore, divertendosi davanti soltanto ad un turntables (giradischi a due piatti) e ad una cassa d’amplificazione. La Old School riveste pressappoco il periodo tra il 1970 e il 1980. I suoi ingredienti principali sono semplici ritmi e cadenze che interrompevano il beat (ossia il battito del ritmo) invece di avvolgerlo semplicemente, com’era comune. I movimenti e le pose ne traevano influenza di conseguenza. Un ritmo isolato e ripetuto, come quello che è tipico della cultura HipHop, richiamava di conseguenza movimenti (sia fisici sia di pensiero) nuovi mai sperimentati fino ad allora, influenze lontanissime dalla cultura bianca della discomusic che in quegli stessi anni ‘70 stava prendendo piede nella New York dello Studio 54 e nell’America tutta. Non si era insomma soltanto trovato una modalità di riempire le giornate che fino ad allora erano fatte di sole scorribande e criminalità, si stava anche sviluppando un prezioso canale di comunicazione all’interno della comunità, che contribuì a fare crescere la propria consapevolezza, amplificando il grido di ribellione e il desiderio di cambiamento al di fuori delle proprie mura. Afrika Bambaataa, come anticipato, fu una delle figure cardine nella cultura Hip Hop. 18
La sua rivoluzione consistette nel fatto che per la prima volta l’Hip Hop, di cui inventò il nome, cavalcò l’onda del successo che aveva saputo creare. Non fu un caso che a dare vita ad un’organizzazione di questo stampo, fosse un ex membro della più temibile gang di New York che aveva sempre predicato però una vita “alternativa”. Il Dj afroamericano da subito fu un grande comunicatore e un grande diplomatico, doti fondamentali per dimostrare che il ghetto e le gang, non erano solo concentrazioni di violenza e illegalità. Si riuscì di conseguenza gradualmente a costruirsi un mezzo di comunicazione pacifico, gettando le basi per farsi sentire in tutti gli angoli remoti della Grande Mela e non solo.
Afrika Bambaataa, famorso gangster del ghetto capostipite dell’hip hop.
Bambaataa aveva sviluppato una coscienza politica perlopiù estranea ai suoi coetanei. Lo slogan che accompagnò la nascita di quest’organizzazione: “Peace, Love, Unity and having Fun” (pace, amore, unità e divertimento), riassumeva lo spirito che pervadeva l’Hip Hop degli esordi. Ma dietro questo sorriso c’era anche rabbia espressa in maniera diversa dalle gang degli anni Settanta: meno violenta ma più penetrante. Ci volle del tempo perché vi fosse una vera e propria affermazione a livello mondiale, ma fu importante notare come le potenzialità 19
Wiz Khalifa rapper/MC.
comunicative di questa nascente cultura andassero oltre le barriere culturali e linguistiche. L’Hip Hop portò un messaggio di ribellione che accomunava tutti gli oppressi, le minoranze e tutti coloro che si rifiutavano di restare succubi. Con il passare del tempo, i Dj cominciarono a presentarsi come performer che dal vivo intrattenevano la folla, cercavano contatto con essa, la eccitavano ed esaltavano l’opera di stessi altri Dj e la parola era al centro di tutto: era nato l’MC (master of ceremony).
Il numero dei ragazzi che saltavano sul palco e stringevano un microfono dando sfogo alle proprie tensioni e comunicando in rima il proprio disagio e la propria rabbia, crebbe senza sosta. Quest’onda di non violenza promossa dai promotori dell’Hip Hop ha portato i giovani ad esprimersi in diverse maniere. Nasce così la moda dei graffiti, il cosiddetto writing, espressione parallela alla musica ma inscindibile dal movimento hip hop, e soprattutto uno stile di danza derivante da influenze caraibiche. Tutta la storia dell’hip hop fin qui trattata è stata efficacemente raccontata nel documentario musicale del 1984 di Stan Lathan, Beat Street. Presentato fuori concorso al 37° Festival di Cannes, il film è ambientato nel South Bronx, e segue la vita all’interno del quartiere di una delle più celebri crew dell’epoca, i New York city Breakers. L’evoluzione e la rapida diffusione del movimento Hip Hop, all’inizio degli anni ‘80, dovettero però fare i conti con la distribuzione di mas20
sa, ovvero con l’industria musicale, con Hollywood, con forme di potere in mano ai bianchi, in grado a quel punto di dare ancor più spazio al movimento oppure racchiuderlo e circoscriverlo in limitati spazi. La cultura Hip Hop si trovava quindi di fronte ad un grande quesito: come avrebbe potuto il rap nato per denunciare situazioni scandalose, povertà, violenza, delinquenza e abbandono, riuscire ad uscire dai quei luoghi che generano e alimentano proprio tutto questo? Quanto fatto e raggiunto fino allora, era parte di una sottocultura riuscita ad arrivare sempre più in alto finché non affiorò su una superficie più mainstream e fu allora che l’inequivocabile segno di vittoria per l’Hip Hop decretò al tempo stesso la morte di quella Old School che lo aveva generato.
Ciondolo in oro raffigurante potere e morte. Figurazione della situazione esistenzioale degli esponenti del genere hip hop.
Di conseguenza si auto-generò una nuova onda hip hop, la New School che ha occupato il panorama musicale della seconda metà degli anni ‘80. Ovviamente non c’è mai stata una netta linea divisoria tra le due Scuole, questa divisione avvenne solo in seguito, con l’arrivo degli anni ‘90. La Old School era basata in primo luogo su musiche disco e successivamente, su elementi elettronici, la New School invece focalizza la sua attenzione su campioni di beat elettronici, che diventeranno poi, insieme al break, la sua chiave compositiva. Le band caposaldo di questa “nuova era” furono (e alcuno sono tutt’ora in attività): Run DMC, Beastie Boys, De La Soul, Cypress Hill e in seguito, con la politicizzazione del genere, si affiancheranno anche nomi del calibro dei Public Enemy.
La differenza tra le due scuole può sintetizzarsi inoltre nel diverso utilizzo di materiale originale per comporre il nuovo sound. I 21
Orologi d’oro, bracciali dìoro, collane spesse, anelli di brillanti: elementi ornamentali immancabili nella manifestazione vanitosa e ostentata dell’abbigliamento hip hop.
maestri della Old School non utilizzavano mai campioni (pezzi di canzoni famose e già edite) già esistenti e le sue radici arrivavano dalla discomusic e dal funk; per quanto riguarda la New School invece, la nuova tecnica del campionamento viene messa da subito alla base del suono prodotto, facendone la sua peculiarità, e preferendo inoltre non solo campioni derivati dal funk, ma anche dal Rock & Roll e da altri generi, lontani dallo stile Hip Hop, tutti quanti ottimamente contestualizzati. Lo stile Hip Hop è quindi ora una commistione notevole tanto quanto strana di tutto quello trattato finora. Lo Urban Style è certamente la base da cui il ragionamento su tendenze e mode Hip Hop deve partire. La vita di (e in) strada, gli spazi pubblici, la costante necessità di aggregazione sociale, mischiata all’attualizzazione dell’immagine del gangster italoamericano classico degli anni ‘30, disegnano un profilo che ricalca perfettamente il controtempo in apparenza scordinato da cui si genera la musica hip hop. La questione interessante relativa alla “moda” Hip Hop è che nonostante siano passati diversi decenni da quando nel South Bronx si formarono le prime avvisaglie di genere, ancor oggi si riscontra nei testi musicali e nelle tendenze di costume, un costante rimando alla difficile vita del ghetto.
Il perenne tentativo di emergere da situazioni di degrado e povertà, le vie illegali per la celebrità, la rivalità tra New York e Los Angeles per la supremazia dello stile, sono sempre e comunque i punti fissi anche di nomi e band più recenti, come i vari Ice-T, Tupac, Notorius Big, Pudd Daddy, Eminem, Lil’ Kim, 50 Cent o Snoop Dog. Ed è proprio quest’ultimo che porta all’estremo questa strana dualità fra celebrità sfarzosa fatta di catene d’oro al collo, ville e auto da milioni di dollari che si unisce alle “sacre” radici Afro, all’attaccamento al misero quar22
tiere di provenienza e al legame inscindibile con la propria gang, considerata molto più che una semplice “seconda famiglia”, sulle orme della famiglia tipica dello stile italoamericano.
Snoop Dog esponente simbolo della Nuova Scuola.
Non mancano numerosi riferimenti cinematografici che finiscono di delineare questo panorama fatto di: “orgoglio nero” (il famoso black power di fine anni ‘60), cultura musicale, passione innata per la danza come espressione di una cultura ed infinita celebrazione sportiva (basket soprattutto), che influenzano profondamente la vita e lo stile Hip Hop. Registi come Spike Lee che in film come Malcolm X (1992), Jungle Fever (1991) o He Got Game (1998), raccontano ed esaltano il mito afroamericano, aiutando a diffondersi ancor più massivamente una cultura Hip Hop, che col passare degli anni sembra essere sempre più legata a doppio filo con la tradizione Old School del ghetto Newyorkese di cui non dimentica mai i valori.
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Capitolo 3
l’HIPSTER
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ipster è un termine coniato negli Stati Uniti durante il corso degli anni ‘40 a designare una categoria suburbana ben definita di giovani individui appartenenti alla middle class bianca americana appassionati ed emulatori degli ambienti afro-americani hot jazz e bebop. Il newyorkese jazz club Minton’s Playhouse ne era il covo. Charlie Parker, Thelonious Monk o Dizzy Gillespie divennero i capotribù del movimento.
Hipster emulatori dei re neri del jazz e del bebop.
Nel suo libro Jazz: a History (1977) l’autore, Frank Tirro, descrive l’hipster come «un uomo sotterraneo [...] è amorale, anarchico, gentile e civilizzato al punto da essere decadente. Si trova sempre dieci passi avanti rispetto agli altri grazie alla sua coscienza. Conosce l’ipocrisia della burocrazia e l’odio implicito nelle religioni, quindi che valori gli restano a parte attraversare l’esistenza evitando il dolore, controllando le emozioni e mostrandosi cool? Egli cerca qualcosa che trascenda tutte queste sciocchezze e la trova nel jazz». Tratti distintivi: abiti confezionati su misura, barbetta o pizzetto e cappello bebop. L’evoulzione hipster negli anni fino alla nostra contemporaneità è semplice. Negli anni ‘50 Jack Kerouac descrive l’hipster come un essere portatore di una speciale spiritualità e autocoscienza, accultura
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Charlie Parker, Thelonious Monk o Dizzy Gillespie di fronte al Minton’s Playhouse.
to e sensibile. Norman Malier nel saggio del 1967 “The White Negro” lo descrive come un esistenzialista che impavido decide «divorziare dalla società, vivere senza radici e intraprendere un misterioso viaggio negli eversivi imperativi dell’io». L’hipster diventa un bohemien che esula dal banale, protende all’evasione e eversione nei confronti della società imperante e mainstream. Negli anni ‘90 e a seguire, fino a oggi, hipster è la categoria tipica dei grandi centri urbani. Ne fanno parte giovani, e non solo, di classe medio-alta, istruiti, interessati a una cultura confinata tra arte visiva, design, musica, industria della moda e ramificazioni del concetto di creatività. Sono di mentalità aperta e attenti ai cambiamenti urbani e suburbani, soprattutto a quelli rivolti a moda e tendenze. Non si fanno influenzare da paradigmi commerciali preferendo e promuovendo ideali di bellezza non banalizzati ed etnografici. Preferiscono scelte alimentari politicamente corrette: in molti sono vegetariani o vegani, si cibano di prodotti biologici o provenienti da coltivazioni locali. In città scelgono di andare in bici (un feticcio) piuttosto che con i mezzi pubblici o le automobili. Alcuni, ma rari, utilizzano lo skateboard. Non sono radical chic, né bohemien o neo-liberal: gli hipster non hanno ideali politici definiti e non rivendicano alcuna appartenenza a partiti o correnti. Agli hipster non piace essere definiti e categorizzati in alcuna maniera o aspetto... neanche in quanto hipster. Essendo volutamente appartenenti a nessuna ideologia, simbolismo o credo, gli hipster -scrutatori e critici estetici di ambienti suburbani- selezionano e assumono i tratti estetizzanti (accessori d’abbigliamento, og26
gettistica, tattoo) di una o di un’altra corrente ideologica che fa moda creando nuove e ibride tendenze svuotando tali tratti assunti dello spessore simbolico di partenza. Un esempio al volo: la kefiah.
L’immagine sopra raffigura scherzosamente l’evoluzione hipster dal 2000 al 2009. Sotto figurano solo alcuni dei capi d’abigliamento che i nuovi hipster prediligono.
Non essendo più solo esponenti di razza bianca i neri si sono inventati l’appellativo “blipster” (black + hipster). L’indie rock, art rock, psychedelic, progressive, electronic, fusion folck, beat sono tra i generi prediletti dagli hipster tramite i quali elaborano codici e pratiche di vita quotidiana, abbigliamento, morale, comportamenti. A questo si unisce la predilezione per cinema d’essai e indipendente, l’amore per qualsiasi tipo di mostra e concerto low cost alternativo dal vivo, un’irriducibile preferenza all’acquisto di abiti vintage usati o riciclati.
I guru dell’outfit hipster sono Urban Outfitters and American Apparel. Per la musica Pickfork. Per lo stile di vita Vice è la bibbia! Gli hipster sono romantici e decadenti. Emulatori del passato. Vivono e interpretano la propria esistenza, nostalgici, come un romanzo che ripercorre gli ultimi decenni del secolo scorso. Estetizzano e arricchi 27
Baffo in stile Ottocentesco, caro agli hipster contemporanei.
scono la quotidianità con feticci vintage dall’abbigliamento al taglio di capelli old school alla musica (dagli anni ‘50 in poi) all’uso di dispositivi analogici, come fotocamere o walkman o bici d’epoca. Tali oggetti si distaccano dalle consuetudini contemporanee o legate al mercato di massa. Gli hipster sono moderni e vanitosi. Utilizzano dispositivi firmati Apple, ostentano la propria bellezza e creatività su social network e blog digitali. Preferiscono non fare a meno di Facebook per comunicare. Ballano ai dj set degli amici. Rifiutano il concetto tradizionale di attrazione sessuale lasciandosi influenzare da concetti maturati sulle basi dei movimenti femministi e androgini. L’uomo hipster è spesso magro ed esile quasi ad emulare il fisico delle donne di cui è attratto, rifiuta il prototipo di ragazza costruito sulle basi del sessismo vigente: proporzioni generose, pelle dorata, culturalmente piatta, vestita in modo volgare ed esplicito. Attribuiscono quest’ultimi caratteri a mancanza di sicurezza, scarsa indipendenza e poco rispetto nei confronti delle proprie capacità intellettuali. Per la donna hipster, invece, l’ideale di uomo non è quello del “macho”. Preferisce assetti fisici che non sono simbolo dell’oppressione maschilista e sessista tipici di una elevata tonicità muscolare. Un esempio non banale di hipster al maschile: Devendra Banhart. Uno al femminile: Agyness Deyn. I centri nevralgici dei nuovi hipster nel mondo sono Williamsburg a New York, Echo Park a Los Angeles, Mission District a San Francisco, Wicker Park a Chicago, Shoreditch a Londra, Belleville a Parigi. In Itali a Milano e Bologna. Tratti particolari: al pizzetto dei loro antenati bebop hanno sostituito barba lunga da hobo o baffi come quelli di Frank Zappa. Jeans stretto, perchè no strappato, t-shirt e camicie a quadri di flanella o morbide chiuse fino al colletto. Camicie di seta. Vestitini anni ‘50. Tatuaggi con gusto vintage o lettering elegante, una croce stilizzata, fiori, tanti fiori, un’ancora o una rondine, più rara una barchetta di carta all’interno del braccio. Pelle bianca. Occhiali grandi e montatura alla Sandra Mondaini oppure da nerd. Rossetto rosso (per lei). Chiodo. Scarponcino a punta. Vestiti a fiori. Maglioni larghi. Tutto ciò che appartiene agli anni ‘90 e ‘80. Pork pie hat o trucker hat. Sneakers o retro shoes. Espadrillas o Toms o All Star (meglio se distrutte). Capelli a scodella o rasati da un lato, oppure lunghi che cadono voluttuosi sulle spalle oppure raccolti a formare una cipollina in testa.
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Altro esempio di outfits al femminile caratterizzante hipster.
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Capitolo 4
IL NERD
N
ERD è una tendenza la quale comparsa ha avuto una rapida tanto quanto strana evoluzione, basti pensare a quanto può essere difficile (ma inevitabile), intenderla come moda a tutti gli effetti, quando i tratti caratteristici del Nerd, sono proprio quelli di non essere alla moda, non seguirla, forse ignorarla, il più delle volte rifiutarla e, soprattutto negli ultimi anni, fare una bandiera del fatto di essere il più distante possibile da essa, prendendo così coscienza di essere una “categoria” e di aver creato inconsapevolmente la moda della non-moda.
Modello IBM 5150 datato 1981.
Anche l’origine del termine stesso è assai oscuro e nebuloso; deriva dal gergo giovanile inglese, e si sviluppa anch’esso gradualmente tanto quanto la “moda” stessa. Quattro sono le ipotesi che vengono prese in considerazione, tutte quante più o meno accostabili e riconducibili a elementi del genere stesso. . La prima ipotesi è anche quella relativamente più lontana nel tempo: si riconduce la sua apparizione nel libro “If Ran the Zoo” dello scrittore e fumettista statunitense Dr. Seuss, nel 1950, dove in questo caso era semplicemente il nome di uno degli animali immaginari del libro. . La seconda teoria sostiene che il nome provenisse da una storpiatura di uno dei pupazzi del comico e ventriloquo americano Edgar Bergen; tale pupazzo, il più sfortunato e deriso del gruppo, aveva appunto il nome di Mortimer Snerd. . La terza ipotesi è più recente e più legata ad uno degli accessori tipici dei nerd, il pocket protector, divenuto col tempo uno dei must have della categoria. Si crede che il nome possa derivare dall’acronimo di Northern Electric Research and Development, un’azienda informatica in cui gli impiegati erano riconosciuti per possedere appunto nel
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Carradine Robert interpreta il ruolo del nerd nel film “La rivincita dei Nerd” (Revenge of the Nerd, 1984).
loro taschino, l’oggetto “salva camicia” che serviva semplicemente ad evitare che le penne spandessero e macchiassero di inchiostro l’indumento. Ogni pocket protector di ciascun impiegato aveva inoltre stampato sopra l’acronimo N.E.R.D.. . Ultima ipotesi è quella più appartenete a influenze recenti, e sostiene che la parola non sia nient’altro che la parola drunk (ubriaco in inglese), letta al contrario knurd, e venga usata per definire chi non beve alcolici durante i ritrovi sociali, tratto caratteristico dei nerd. La nascita del genere Nerd è parallela se non proprio strettamente collegata alla nascita e diffusione dei PC. Nerd è infatti colui che “smanetta” tutto il giorno al computer tralasciando i rapporti sociali, costruendosi una vita parallela in rete, divenendo così un essere solitario abietto alla vita sociale, non solo però per sua diretta volontà. Nemico del Nerd è infatti “il bullo”, il belloccio campione di baseball della scuola, tutto muscoli e niente cervello, che non perde occasione per prendersi gioco dello sfortunato Nerd, soprattutto per alimentare la sua fama di dominatore, “aiutando” il Nerd nella sua asocialità.
I primi esempi di Nerd, sono forse anche i più celebri della categoria: nomi come Bill Gates (fondatore di Microsoft) e Linus Torvalds 32
(fondatore di Linux), ricalcano e anzi inventano più o meno involontariamente uno stilema del genere; occhialuti, fuori forma, sempre in camicie di qualche misura più grande e soprattutto sempre chini davanti al computer, hanno dato il via alla definizione di un’intera generazione di “secchioni” che trova la massima esaltazione quotidiana nella programmazione web e nelle scienze matematiche.
In progessione dall’alto al basso tutto ciò di cui un nerd non potrebbe fare a meno.
Andando ad analizzare i tratti “anatomici” caratteristici legati alla moda della non-moda, troviamo degli elementi che delineano così “l’uniforme nerd”: pocket protector, bretelle, gilet, mocassino, occhiali grossi e spessi, apparecchio, marsupio, la camicia sempre inserita saldamente in jeans a vita alta fuori moda da almeno dieci anni. Alcuni di questi elementi, però sono riusciti a uscire dallo stilema del secchione, divenendo col tempo, tratti cruciali di molte altre mode e/o tendenze giovanili come hanno fatto gli hipster ad esempio con le bretelle o gli occhiali grossi e neri (il più delle volte con montatura finta).
E’ proprio grazie a queste commistioni che si focalizza l’attenzione su di un genere da sempre bistrattato e ghettizzato, e arriva subito il punto di svolta nell’evoluzione del modo in cui il Nerd viene visto dalla società e allo stesso tempo da come si concepisce lui stesso.
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Sopra sono raffigurati alcuni toy della saga cinematografica fantasy cult “Il signore degli Anelli“ iniziata nel 2001, regia di Peter Jackson.
Il Nerd inizia a prendere coscienza di sé, inizia a capire che il mondo è affollato di altri secchioni come lui ed esce dalla sua stanza andando a ritrovarsi con altri Nerd per giocare con carte fantasy di draghi e stregoni, come è avvenuto alla fine del secolo scorso grazie alla diffusione di Magic: l’Adunanza, game card espansosi a macchia d’olio e praticato anche da giovani che nulla avevano a che fare con il mondo Nerd.
Sotto, invece, lettura ironica di Katy Perry principessa nerd.
Grandi ritrovi a carattere planetario sono invece gli eventi come le convention di presentazione di prodotti Apple, in cui si ritrovano diverse centinaia di Nerd tutti chini sui loro laptop, che divengono col passare degli anni sempre più imperdibili eventi mainstream, da seguire anche da casa in diretta streaming pronti a commentare su apposti forum dove altrettanti Nerd si scambiano opinioni e pareri sul nuovo ritrovato in campo tecnologico.
Non è più quindi un solitario giocatore di scacchi al pc il Nerd del nuovo millennio, ora la sua sete di socialità emerge e viene “saziata” nei forum di giochi on-line, in quelli che nel settore vengono chiamati MMORPG (Massively Multiplayer Online Role-Playing Game, giochi di ruolo on-line per multigiocatori), in cui per diverse ore Nerd da tutto il mondo si ritrovano per giocare e crearsi degli alter-ego che soddisfino virtualmente esigenze impossibili da soddisfare nella realtà. 34
Questo passo in avanti verso una socializzazione fittizia viene però vista molto positivamente da tutta la comunità nerd, che ora si ritrova categorizzata in centinaia di siti sparsi per la rete, di cui loro stessi sono abili programmatori. E’ l’era digitale, l’era per eccellenza del Nerd. Tutto ora passa attraverso lo schermo e quindi quale occasione migliore, per un “secchione informatico”, per assumere ruoli più elevati nella società ed aspirare perfino ad ottenere il tanto agognato rispetto (anche nel mondo reale) dopo anni di soprusi passati fra gli armadietti del collage.
Poster del film cult “Revenge of the Nerd” (La rivincita dei Nerd) 1984 diretto da Jeff Kanew.
Il cinema e la televisione non fanno altro che aumentare la mitizzazione del Nerd, alimentando ancor più il focolaio di espansione della non-moda Nerd: film come
La rivincita dei Nerd (Jeff Kanew, 1984) che ha avuto in seguito ben tre sequel, Napoleon Dynamite (Jared Hess, 2004), o serie-tv come Chuck, Diario di una Nerd, ma anche in Italia il format televisivo. 35
L’immagine è tratta dalla sitcom “Big Bang Theory“ ideata e scritta da Ghuck Lorre e Bill Prady nel 2007.
La Pupa e Il Secchione, ed infine la più recente e forse più influente sit-com Big Bang Theory, categorizzano il personaggio Nerd creando delle Star da imitare in tutto e per tutto. Film considerati da sempre nerd, come quelli che completano le due più famose saghe cinematografiche: Star Wars e Il Signore degli Anelli, aiutano a creare un territorio sotterraneo vastissimo fatto di citazioni e gadget che diventano irrinunciabili anche per tutti i non-Nerd.
Anche in Italia, fioriscono numerosi i siti “filo nerd” (orgoglionerd.it, leganerd.it, mondonerd.it e wired.it) che sulle orme del maggior sito di riferimento Nerd del mondo slahsdot.org, fanno da punto d’incontro virtuale di numerosissimi Nerd, in cui oltre a parlare di tecnologia e web, si danno anche il via a tendenze che partiranno sempre ed inevitabilmente dalla non-moda. Il Nerd esce definitivamente quindi dalla sua stanza in cui vegetava costantemente on-line, portandosi sempre però con se i suoi disagi da secchione solitario e i suoi grossi occhiali neri tenuti assieme da del nastro adesivo.
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Immagine tratta dal film “Napoleon Dynamite� diretto da Jared Hess.
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Capitolo 5
IL RAVER
R
ave in inglese significa “delirio”, ma in senso piu ampio sta ad indicare la voglia comune di svincolarsi da regole e convenzioni socialmente imposte, la ricerca di una libertà totale fisica e mentale che si esprime attraverso il ballo e anche attraverso il consumo di droghe. Le origini della cultura rave sono varie e differenti. I generi techno e house si sviluppano negli anni ’80 soprattutto nei club di Houston e Chicago, frequentati in particolare da afroamericani e omosessuali, e raggiunge ben presto l’Inghilterra, dove una generazione di ragazzini soffocati dal rigore sociopolitico, trova finalmente un luogo di ritrovo dove socializzare, condividere interessi e divertirsi con i coetanei.
L’immagine sotto ritrae la moltidutine di folla ad un rave.
Mentre il pub rimane il luogo degli adulti, dove vige la tradizionale cultura dell’alcool e dell’intrattenimento, il club si caratterizza per la giovane età dei suoi frequentatori, tra i 15 e i 24 anni, le cui parole d’ordine sono “ballo ad oltranza” ed “Ecstasy” (brillante esempio della situazione è il film Human Traffic del 1999, del giovane regista Justin Kerrigan). Le droghe pesanti (ecstasy, MDMA, LSD) entrano molto presto a far parte dei capisaldi della cultura rave, come rievocazione dell’intenso periodo di attività politica e sociale degli anni ’60, ricontestualizzazione della controcultura hippy, e forma contemporanea di un atteggiamento bohémien di massa. L’atmosfera nei locali notturni, grazie proprio all’uso di queste sostanze, diveniva intensa ed amicale, favorendo la spontanea integrazione tra individui di classe, etnia e orientamento sessuale differenti. Il consumo di droghe determina tuttavia un’ulteriore repressione go
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Nell’mmagine sopra un esempio pasticche. Nell’immagine sotto un raver si ciba di mystica.
vernativa che porta alla chiusura dei locali e allo spostamento delle feste in altre location. Già negli U.S.A. era in effetti molto diffusa la festa warehouse (magazzino); in particolare nella periferia di Detroit, fabbriche e capannoni industriali in disuso venivano occupati per serate o interi weekend come simbolo di liberazione dell’uomo dalla catena del lavoro: “per un’intera notte quella fabbrica riprenderà vita e le macchine fino ad allora produttrici di merci saranno teatro di una nuova, forte espressione musicale che si esprime in un suono senza strumenti né spartiti, ma scandito da suoni elettronici e casse ritmiche”1 Anche nei suoi mixati (sirene, antifurti, suoni di macchinari industriali), evidente era il legame con la realtà urbana della metropoli. All’occupazione di edifici, si sommano le azioni di disturbo del traffico urbano (racchiuse nello slogan “Reclaim the street”) da parte di masse di giovani in bicicletta (critical mass) o con l’organizzazione di street party in cui migliaia di giovani danzano in corteo seguendo i carri sui quali sono montati i sound system (al momento le più famose sopravvissute sono la Love Parade di Berlino e la Street Parade di Zurigo).
Si delineano così le molteplici forme di T.A.Z. (Temporary Autonomous Zone), che in Inghilterra rivelano sempre l’eredità dei festival openair come Woodstock e di un certo spirito nomade che da il via al movimento dei traveller: gruppi in continuo movimento su furgoni, che organizzavano fiere gratuite e aperte a chiunque, da cui nacque il concetto di festa libera, in seguito maggiormente politicizzato nello slogan “freedom for the right to party” usato contro il governo conservatore del Regno Unito, negli anni ’80. Il termine free non si riferisce soltanto al fatto che l’accesso a queste manifestazioni è gratuito, ma soprattutto al principio di totale libertà rispetto a qualunque regola o convenzione.
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Parallelamente alla situazione nazionale, nella sua teoria del rave come forma di turismo interiore2, Antonio Melechi cita anche la scena musicale di Ibiza, al tempo nido di piccole comunità hippy, meta privilegiata delle vacanze dei giovani inglesi, non soddisfatti dai soli weekend di “vacanza dalla vita di tutti i giorni”.
Un giovane ironizza simulando una pistola alle spalle di un uomo in giacca e cravatta.
Negli anni ’90 questo nuovo genere di musica e tutto l’aspetto rituale attorno ad esso, si trasformò in un fenomeno di moda diffuso e condiviso tra le giovani generazioni, perdendo progressivamente tutto il lato politicizzato e di protesta. I rave party illegali si fanno sempre più rari e la loro forma di serata viene reinterpretata in forma legale in locali in e discoteche, soprattutto francesi. In Italia la scena rave si sviluppa con ritardo, e all’inverso: a partire dalle serate nei locali più d’avanguardia della capitale, si fa strada un ritorno della scena illegale guidato dai Sound System e dalle Tribe, gruppi di persone che astutamente organizzano eventi in luoghi dislocati; fabbriche o capannoni industriali abbandonati, campi lontani da luoghi abitati, etc... Le indicazioni relative alla festa vengono tenute segrete fino a poche ore dall’inizio della serata, e poi diffuse per passaparola, o mettendo a disposizione un numero telefonico attivo solo da una certa ora, stampato sui flyer. In questo modo nel momento in cui le forze dell’ordine vengono a conoscenza dell’evento, il luogo dell’evento è già massicciamente occupato e la festa ormai, non può essere interrotta. Ad oggi rave party e teknival (feste che durano più giorni) sono molto diffuse in Inghilterra, nel nord e nel sud d’italia (in particolare nella campagna del Salento), in Slovenia e in altri stati dell’est Europa, ma 41
Capo e accessorio tipico dell’abbigliamento raver.
dei bei tempi che furono, sembra sopravvivere solo la tendenza a privilegiare l’edonismo piuttosto che l’impegno sociale, e fare di questa forma di protesta un semplice intrattenimento giovanile, apparentemente alternativo, ma ormai largamente codificato. Il frequentatori abituali rientrano sempre nella fascia d’età a cavallo dei 20 anni, nel loro abbigliamento rievocano lo scally (stile baggy originario di Liverpool), caratterizzato da pantaloni larghi tenuti ben sotto la vita, e il perry (più sportivo, che prende il nome dalla marca di abbigliamento Fred Perry). A queste tendenze se ne sono ibridate molte altre, come il look rasta rivisitato in chiave cyberpunk, nel quale creste di treccine vengono abbinate a dettagli fluo e gadjet metallici; molto diffusi sono collane e bracciali handmade realizzati con tubi idraulici, bulloni, viti, molle, etc...
Un altro articolo irrinunciabile del raver tipo del 2012, è il cane, migliore amico dell’uomo, preferibilmente se di taglia grossa o incrociato con Pitbull o Amstaff, ovviamento agghindato in coordinato al padrone con collare a strozzo o borchiato. La sperimentazione con le droghe, e il relativo spaccio, rimane sempre uno dei fulcri della serata, insieme al ballo fino all’alba seguendo il ritmo della frenchcore e della tekcore, musica techno hardcore sempre più veloce (fino a 180bpm) e forse più adatta alle nuove sostanze.
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Il pitbull è il migliore amico del raver.
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Capitolo 6
IL TRONISTA E LA VELINA
T
ronisti e Veline sono entrambi fenomeni che hanno un’accezione tutta italiana e sono ambedue derivati da programmi d’intrattenimento propri della televisione commerciale delle reti Mediaset negli ultimi vent’anni. Sia la Velina che il Tronista sono due categorie molto particolari, che nel giro di poco tempo hanno fatto “scuola” in campo televisivo e non solo, modificando quella che era fino ad allora la figura della spalla del conduttore tv e uniformando e appiattendo il campo della conduzione, del modo di fare televisione e, ad una visione più approfondita, della società italiana. Velina e Tronista, sono due termini entrati di recente anche nei più importanti dizionari di lingua italiana, data la loro notevole diffusione nella lingua di tutti i giorni. Ovviamente utilizzati per indicare un tipo di fenomeno visto in modo negativo, poiché riassumono in loro, le caratteristiche di figure facenti parte del mondo dello spettacolo, di basso profilo qualitativo e che hanno fatto “carriera” senza specifici meriti professionali o artistici.
Due veline mandano un bacio prima della sigla conclusiva di “Striscia la notizia”.
Erede (seppur con qualche cromosoma mutato durante la sua evoluzione), della figura “classica” della soubrette, la velina è un personaggio che si è diffuso nei mass media e nel gergo quotidiano fin dalla fine degli anni ‘80, grazie al programma televisivo Striscia la Notizia, nato da un’idea di Antonio Ricci. Le ragazze scelte sono spesso coppie di giovani e avvenenti ragazze, il cui ruolo si limita di volta in volta, a consegnare le notizie (veline, appunto) ai conduttori presenti in studio.
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Sotto è raffigurato un estratto di una velina fascista.
Come detto, la velina deriva alla lontana dalla figura della soubrette, di cui però ha perso nel giro di pochi anni, quasi tutti i tratti caratteristici, come l’essere brillante in scena, avere notevole presenza attiva nello spettacolo riuscendo anche ad andare oltre al ruolo di semplice spalla e conducendo anche da sola qualche segmento interno al programma tv. A oggi invece la velina si riduce a una mera figura d’accompagnamento al conduttore, sempre di bell’aspetto, ma nella maggior parte dei casi allo spettatore non è dato conoscere nemmeno la sua voce, poiché le funzioni cui deve limitarsi sono il ballo e il sorridere costantemente, mentre “immobile” affianca il conduttore di sesso maschile. Il termine soubrette indicava anche figure femminili provenienti dal mondo del teatro e diversi furono gli esempi di donne che dal palcoscenico, sono poi passate allo spettacolo di varietà televisivo, grazie al talento dimostrato nel corso della loro carriera, i più celebri nomi che si ricordano sono: Delia Scala, Sandra Mondaini, Lauretta Masiero e Marisa Del Frate. Nonostante questo passato glorioso, ora il termine soubrette ha subito l’influenza della “generazione veline” ed è erroneamente utilizzato per indicare personalità nate e divenute celebri esclusivamente nel mondo dell’intrattenimento televisivo, ma che non presentano particolari doti di recitazione, di canto o di ballo.
Il vocabolo trae origine dalle “veline”, foglio d’ordine (redatto su fogli di carta velina) contenente le disposizioni che il regime fascista impartiva alla stampa quotidiana e periodica. Le veline del regime co46
minciarono a circolare già dalla metà degli anni ‘30. Con l’istituzione del Ministero della Cultura Popolare, che controllava organi come la SIAE, fu deciso, l’1º ottobre 1937, che le veline dovessero assumere carattere ancora più pressante anche nei confronti degli organi di stampa che ormai avevano perso la loro indipendenza. Erano dispacci in carta velina, poiché dovendo essere scritte a macchina e in molte copie e più sottile era la carta, più se ne potevano scrivere con una singola battitura, ponendo la carta carbone tra l’una e l’altra. Proprio da questa precisa accezione storica prende il nome l’attuale idea di velina che c’è ai giorni nostri: inizialmente le due ragazze erano le “addette” alla consegna delle notizie nel programma televisivo Striscia la notizia, il cui esordio fu contemporaneo e legato alla coeva trasmissione Odiens. In molte puntate di Odiens il corpo di ballo era vestito, in chiave goliardica, con costumi ispirati al ventennio fascista e le due componenti femminili erano in principio identificate col nome di “littorine”. La sigla che le introduceva in onda faceva il verso alla celebre canzone del regime “All’armi siam fascisti” e recitava: “All’armi! All’armi! All’armi siam le Littorine - Dell’italica tivù…”, dopo qualche puntata, la scelta è invece caduta sul definitivo nome di veline, andando chiaramente a parodizzare il famoso termine di stampo fascista. Nonostante il ruolo potesse sembrare parallelo, molta differenza si è notata da subito rispetto a tutte le altre tipologie di “ragazze immagine” presenti in televisione. Nulla avevano a che fare con le annunciatrici televisive, molto più sobrie e contenute o con le vallette tipiche della conduzione festivaliera di San Remo, ad esempio. Le veline cambiarono il modo di presentarsi al pubblico attraverso la televisione, vestendo da sempre abiti, e assumendo pose, molto sexy e provocanti. Dal 1994 in poi furono scelte costantemente una ragazza bionda ed una mora, andando molto spesso ad alimentare le pagine del gossip nazionale. I nomi, divenuti celebri grazie all’aver calcato la scrivania di Striscia la Notizia, sono stati: Ana Laura Ribas, Laura Freddi, Alessia Merz, Elisabetta Canalis, Maddalena Corvaglia, Giorgia Palmas e Melissa Satta. La fama di gran parte delle veline, però non si deve solo alla loro partecipazione televisiva o alla bella presenza. Numerosissimi, infatti, sono stati gli “scandali rosa” che le hanno viste protagoniste; nel tempo, differenti sono state le storie affettive che le riviste di settore hanno pubblicato costantemente a ogni stagione del programma, tanto da creare il mito della velina che tende ad accostarsi facilmente all’uomo sportivo del momento, nella fattispecie, le prede preferite dalle veline (ma anche viceversa) sono da sempre i calciatori. 47
La prima immagine ritrae la corona di Miss Italia, tappa obligatoria per l’ascesa al ruolo di velina di molte ragazze. Sotto la corona Bobo Vieri, promettente calciatore, abbracciato alla sua compagna Elisabetta Canalis, talentuosa velina.
L’accoppiata velina/calciatore, che ha raggiunto il suo apice con la relazione sentimentale più celebre nata tramite il mondo patinato dei mass media, è stata quella che vedeva protagonisti Elisabetta Canalis (velina dal 1999 al 2002) e il calciatore Christian Vieri. Il successo conquistato dalle veline ha influenzato, alterandola drasticamente, la concezione della donna in televisione e nel mondo dello spettacolo in generale.
Da diversi anni a questa parte, infatti, ogni programma di varietà o d’intrattenimento si “dota” fin da subito di una o due ragazze (ma in alcuni casi anche di un corpo di ballo intero formato da più di due elementi femminili) che ricoprano il ruolo di semplice ragazza immagine, alla quale non è richiesta alcuna dote particolare, se non la bellezza estetica. Sono nate di conseguenza, grazie alle veline, altre “professioni” di ragazze televisive tutte riconducibili alle due ragazze di Striscia la Notizia, ad esempio: le Letterine di Passaparola, le Letteronze della serie Mai Dire.., le Schedine di Quelli che il calcio…, le 48
Meteorine del TG4 e le Ereditiere de L’Eredità. Cambiano i nomi ma purtroppo i risultati sono i medesimi: nulla più che ragazze di semplice bella presenza, bionde o more, vestite in abiti sensuali, “sfruttate” all’unico fine di sollevare lo share dell’auditel televisivo.
Un accenno alla tipologia di accessori cari alla velina.
Con gli anni inoltre, il ruolo, già “misero” di postine di notizie per i conduttori di Striscia la Notizia, si è notevolmente ridotto unicamente a quello di ballerine protagoniste di “stacchetti musicali”. Sulle note delle hit del momento, circondate da numerosi “accessori” di scena come ventilatori e docce, hanno come scopo quello di puntare al riferimento erotico, senza nemmeno l’utilizzo di troppe metafore.
Per sfruttare maggiormente il successo mediatico ottenuto dalle due ragazze di turno, dalla stagione 2002-2003, le veline iniziarono a essere scelte attraverso un concorso estivo condotto da Teo Mammuccari prima e da Ezio Greggio poi. Anche questa trovata televisiva si rivela fruttuosa, tant’è che l’autore e padre di Striscia la Notizia, Antonio Ricci, decide di creare un concorso e un programma parallelo a quello di Veline, scegliendo come protagoniste questa volta, donne over sessantacinque, sovrappeso, e dando a quell’edizione il titolo di Velone (2003).
Come detto, il termine velina è oramai in uso nel linguaggio comune, tant’è che è stato introdotto anche nei principali dizionari italiani. In senso lato, sintetizzando, è utilizzato in modo dispregiativo per indi 49
Giulia Calcaterra, finalista di “ Velina 2012”.
care un’agognata carriera nel mondo dello spettacolo che apre alle giovani le porte della notorietà e del benessere economico senza necessità di fare studi impegnativi o lunghe gavette. La moda tutta italiana delle veline, è però un fenomeno televisivo da sempre presente nelle televisioni nazionali e non. Seppur con altro tipo di successo, infatti, basta andare indietro di qualche anno e pensare alle ragazze Cin Cin di Golpo Grosso (in onda già dal 1987), e alle prime e tanto discusse esibizioni tv, delle allora provocanti gemelle Kessler nel programma di Rai1 Studio Uno. La velina ha però modificato il genere, riducendo all’osso le capacità performative minime richieste nel mondo dello show televisivo.
Alcuni scandali che hanno coinvolto anche personalità politiche e il costante gossip a cui vengono sottoposte diverse ragazze della “generazione veline”, al giorno d’oggi non hanno fatto nient’altro che ricoprire con accezioni notevolmente negative, il ruolo della donna nei mass media. Le troviamo oramai, spesso limitate al semplice ruolo di accompagnatrici e, purtroppo, con nulla da cui invidiare alle funzioni meramente decorative di una bambola Barbie, con le pose di una Paris Hilton qualunque.
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Nato e cresciuto al centro del suo harem televisivo, il tronista ricalca perfettamente i tratti del Latin Lover, rispetto al quale però ha perso l’istinto dell’essere cacciatore, divenendo invece preda incatenata al suo trono d’orato posto all’interno di un’arena fatta di sole donne, pronte a tutto pur di conquistarlo. Uomini e Donne è il programma ideato e condotto da Maria De Filippi, dove va in onda ogni pomeriggio dal 1996 ad oggi, uno degli esperimenti sociologici più strani ma interessanti del panorama televisivo contemporaneo.
Due tronisti seduti sul trono durante la trasmissione pomeridiana Uomini e Donne, condotta da Maria de Filippi.
In quello che è esattamente un ibrido tra un talk show e un reality show, troviamo al centro della scena una poltrona stile Luigi XIV, dove a turno siede un uomo o una donna single, pronti ad accogliere fra le loro braccia il compagno/a della vita. Niente di più semplice, se non fosse che a contendersi la preda in questione, ci sono una dozzina di pretendenti che devono convincere e convincersi che la persona seduta in quel momento sul trono è quella con cui passare il resto della propria vita. Un esperimento sociologico interessante, dovuto soprattutto all’intelligenza e alla furbizia di autori televisivi che di volta in volta scelgono protagonisti con tratti fisici e intellettuali simili, che ridisegnano i luoghi comuni del tamarro, riuscendo sempre nell’impresa di far nascere storie di corteggiamenti originali ed eccentrici, giocando costantemente con i limiti della credibilità del reality show. Il tronista (maschio), è come detto, il classico uomo mediterraneo geneticamente portato da sempre a cercare il centro dell’attenzione, conscio della sua prestanza scenica che non passa mai inosservata. Le donne, tutte procaci e di bell’aspetto, sono chiamate a fare la parte dell’uomo nel giocare a esporsi il più possibile per agguantare le attenzioni del belloccio, che nel frattempo, seduto e annoiato, attende l’attacco delle sue cacciatrici. Il disegno che ne viene fuori da questo ribaltamento dei canoni del maschio latino è assai strano. Il tamarro che abituato da sempre a 51
Costantino Vitagliano.
competere con quelli della sua specie per “vincere” la donna migliore, siede già vincitore attendendo di scoprire quale sarà il suo premio. Il tronista è quindi un leone di razza tenuto in gabbia: deve sottostare al corteggiamento della donna, deve imparare a difendersi per vincere, nonostante la sua indole di attaccante fuoriclasse. Il leone costretto ad essere un gattino narciso e mansueto, crea un personaggio che non ha precedenti nella storia della società italiana. L’uomo posto al centro della scena, sotto la luce dei riflettori e davanti agli occhi di tutti, si vede costretto a mostrarsi al meglio di sé in una competizione che gli ha levato la sete di conquista. Da sempre “mammone doc”, questa versione 2.0 del tamarro però, piace anche alle madri altrui, tanto quante alle figlie, allargando democraticamente così, il suo pubblico. Ora non spaventa più il latin lover, poiché non graffia più e non attende altro che gli ordini del suo cacciatore/domatore donna, prima di ogni movimento.
Non v’è più il maschio dominante, ora tocca a lui essere dominato. Capofila di questa nuova schiera di latin lover è il tronista per eccellenza: Costantino Vitagliano, personaggio televisivo, attore, condut52
tore radiofonico ed infine anche scrittore: Costantino Desnudo (2004, Rusconi Libri) e Dedicato a Voi (2005, Mondadori).
Accessori del tronista non fa mai a meno.
Balzato all’attenzione delle cronache rosa nel 2003, dopo aver assunto il ruolo di corteggiato all’interno del programma Uomini e Donne, è stato fin da subito accostato al nome della sua cacciatrice: Alessandra Pierelli. Insieme, i due crearono un vero e proprio fenomeno mediatico causato dalla sovraesposizione dei loro personaggi sugli schermi televisivi dovuta alla loro onnipresenza nei programmi di Maria De Filippi e di suo marito Maurizio Costanzo, che hanno saputo sfruttare l’interesse del pubblico di Uomini e Donne, portando le storie della coppia anche in numerosi altri programmi di Canale 5.
Fulcro di ogni “corteggiamento” sono le cosiddette esterne: ovvero la possibilità per il tronista d’incontrare alcune sue pretendenti al di fuori della trasmissione per 20-30 minuti, in svariate situazioni e location scelte sia dalla ragazza sia dal tronista, cercando così di approfondire la conoscenza reciproca, sotto l’occhio delle telecamere. E’ proprio durante queste situazioni, al di fuori degli studi tv di Cinecittà, che il tronista può dimostrare quanto vale realmente. Come un re attorniato di sudditi compiacenti, si sente nuovamente a proprio agio nel suo ruolo, nonostante sia la sua controparte femminile a dover fare il “lavoro sporco”. Lui torna a sentirsi (finto) conquistatore. Il tronista per le esterne, non sceglie le discoteche, dove la sua “preda” potrebbe cadere nelle fauci di altri leoni, ma da “romantico” qual è diventato, preferisce le lunghe passeggiate al mare in inverno. Ora il tronista neomelodico, preferisce disegnare sulla sabbia le iniziali sue e della sua bella, piuttosto che scatenarsi al centro delle piste da ballo. 53
Il poster di “Troppo Belli“ film del 2005 diretto da Ugo Fabrizio Giordani.
Al ritorno nel mezzo della gabbia televisiva, però, si ritrova nuovamente in catene: il pubblico lo costringe a lunghe discussioni e polemiche, che analizzano ogni parola che ha rivolto alle sue belle, ed è ormai per lui solo un ricordo, l’era in cui non doveva guardare in faccia a nessuna, solo lottare e conquistare. Il predatore ritorna mansueto. Le influenze del tronista derivano quasi tutte da miti televisivi o pubblicitari. Sui muri della sua stanza a casa di mamma, non ci sono più donne seminude e provocanti, ma poster di calciatori impomatati da imitare (vedasi David Beckham o Cristiano Ronaldo). Il tronista è l’evoluzione corrotta del dandy che però crede (o forse meglio spera) di avere nel petto il cuore duro del gangster italoamericano.
Il suo mocassino laccato deriva più da influenze tipo: “Prima Comunione coi parenti”, che dai rimasugli d’italica Dolce Vita. Il sopracciglio zebrato, è oramai uno dei pochi residui rimasti sul corpo della sua precedente vita da lottatore e dominatore della Savana. Punto di rife54
rimento e bibbia del neo latin lover è inoltre il film del 2005, che vede protagonisti i suoi beniamini numeri uno: Troppo Belli (di Ugo Fabrizio Girodani) con Costantino Vitagliano e Daniele Interrante (ex tronista anch’esso). I due personaggi di questa storia, ritenuta all’unanimità capolavoro italiano del trash, sono due “leoni di razza” che tentano per tutto il film di infrangere il record di numeri “cambi d’abito” delle vallette al Festival di Sanremo. E’ questo, concludendo, il tronista: ex latin lover, ex conquistatore, neo tamarro; un modello che non ha nulla da invidiare alla donna in quanto a conoscenze nel mondo della cosmetica, del trucco e del benessere del corpo. Il corpo è tutto per il nuovo maschio latino. Il corpo parla per lui, che forse da ex leone di razza, con le parole non è ancora troppo a suo agio. Il corpo è l’unica cosa su cui può puntare, e il tronista “fortunatamente” questo l’ha capito e diviene ora il suo nuovo unico oggetto d’interesse. La sua nuova preda.
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Tavole
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