Primitivi, titani e sognatori. Studio sui personaggi nel cinema di Werner Herzog

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UNIVERSITÀ DEGLI STUDI DI PARMA

FACOLTÀ DI LETTERE E FILOSOFIA CORSO DI LAUREA TRIENNALE IN

BENI ARTISTICI, TEATRALI, CINEMATOGRAFICI E DEI NUOVI MEDIA

PRIMITIVI, TITANI STUDIO

SOGNATORI.

SUI PERSONAGGI NEL CINEMA DI

E

WERNER HERZOG

Relatore: Prof. ROBERTO CAMPARI

Correlatore: Prof. MICHELE GUERRA

Anno accademico 2009-2010

Laureando:

GIUSEPPE FERRARI



INDICE INTRODUZIONE

I

I. WERNER HERZOG: L’UOMO, IL CINEASTA, IL PERSONAGGIO, I PERSONAGGI I.1 – La vita

1

I.2 – In attesa di una catastrofe inevitabile: La Soufrière

4

I.3 – I personaggi: dignità, comunicazione, emarginazione, dionisismo, ricerca del limite

6

II. I PRIMITIVI II.1 – Il difetto di comunicazione

9

II.2 – I sordociechi: Paese del silenzio e dell’oscurità

11

II.3 – L’Ottocento e L’enigma di Kaspar Hauser

15

II.4 – L’alienato: La ballata di Stroszek

22

II.5 – La morte del linguaggio e della cultura: Dove sognano le formiche verdi

26

II.6 – Sguardi alieni

31

III. I TITANI III.1 – Limite, hybris, caduta, spirale, circolo vizioso

35

III.2 – Anche i Titani hanno cominciato da piccoli

38

III.3 – Uomini forti: Aguirre, furore di Dio

43

III.4 – Sublimazione sfiorata: Grizzly man

50

IV. I SOGNATORI IV.1 – Ex-Stasis

57

IV.2 – Salto con gli sci: La grande estasi dell’intagliatore Steiner

61

IV.3 – I sognatori riescono a spostare intere montagne: Fitzcarraldo

65

IV.4 – Picchi dell’anima: Grido di pietra

71

IV.5 – Stupidità eroica: Il diamante bianco

75

CONCLUSIONE

81

BIBLIOGRAFIA

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VIDEOGRAFIA

89



INTRODUZIONE Werner Herzog è considerato dalla critica uno dei grandi maestri del cinema degli anni Settanta. Cineasta tanto apprezzato dagli addetti ai lavori quanto ignoto al grande pubblico, vanta una filmografia smisurata (comprendente più di cinquanta titoli tra documentari, film di finzione, mediometraggi e cortometraggi), straordinariamente e consapevolmente omogenea1, per quanto riguarda le tematiche autoriali ma anche per l’indomito sforzo autoproduttivo. In aperta polemica con i macrosistemi di stampo hollywoodiano, nel 1963, all’età di ventun anni, fonda una casa di produzione, la Werner Herzog Filmproduktion, tramite la quale spesso per il rotto della cuffia è riuscito a finanziare i propri film e che gli ha permesso di avere una pressoché assoluta libertà d’azione e di scelta. Assimilato con riserva nel filone del Nuovo Cinema Tedesco degli anni Sessanta di Fassbinder, Wenders, Kluge, von Trotta, lui stesso se ne discosta; preferisce rimanere fuori dagli incasellamenti e procedere per la propria strada2. Nell’opera del regista sono numerosi i punti d’intersezione tra film e film, elementi che potremmo definire tòpoi, come il disprezzo per un’umanità piccolo borghese che isola il diverso classificandolo come non normale, il disinteresse nei confronti delle tematiche psicologiche e politiche, la tensione verso una fisicità estrema sia narrata che agita in prima persona, la ricerca di momenti di verità estatica3 a discapito del ritmo e dei sistemi narrativi tradizionali, la sentita responsabilità di portare immagini nuove, vergini ad un mondo il cui bagaglio immaginifico a causa della televisione e della pubblicità si è atrofizzato e ingrigito4, un sentimento altalenante di attrazione erotica e ribrezzo verso una natura indifferente, oscura e misteriosa5, il rifiuto del cinéma vérité6, il tema del viaggio, la concezione dell’ambiente come paesaggio mentale. Tutti cardini di una poetica coerente e sentita, fondata su una concreta partecipazione dell’autore

1 «Un giorno comporrò tutto ciò che ho fatto in un solo, grande film» WERNER HERZOG in Intervista a Werner Herzog, v. videografia in appendice. 2 «Io so da dove vengo, so dove sono e dove sto andando» WERNER HERZOG. Incontri alla fine del mondo. Conversazioni tra cinema e vita, a cura di PAUL CRONIN e FRANCESCO CATTANEO, Minimum Fax, 2009, p.86. 3 «Io penso che la qualità più propriamente umana sia quella di fare un passo al di fuori di noi. L’Ex-­‐Stasis è propriamente l’uscire fuori da se stessi, avere l’esperienza di una qualche forma della verità a cui altrimenti non avremmo accesso» WERNER HERZOG in DANIELE DOTTORINI, Essere esposti alla natura. Conversazione con Werner Herzog, in «Fata Morgana», n.6, settembre-­‐dicembre 2008, p.17. 4 Nel film Tokyo-­‐Ga di Wim Wenders (1985), Herzog chiarisce personalmente la questione: «Bisognerebbe come un archeologo cominciare a scavare con una vanga per riuscire a trovare qualcosa da questo paesaggio offeso […]. Oggi ci sono pochissime persone in questo mondo che lottano per il bisogno di immagini adeguate […]. Io non mi lamento del fatto che spesso si deve salire su una montagna alta 8000 metri per trovare delle immagini pulite, chiare e trasparenti. Qui non c’è più niente» v. videografia in appendice. 5 «Sono affascinato dall’idea che la nostra civiltà sia come un sottile strato di ghiaccio sopra un oceano profondo di caos e di tenebre» WERNER HERZOG. Incontri alla fine del mondo, op. cit., p.16. 6 Nome dato al lavoro di registi (Frederick Wiseman, Richard Leacock, D.A. Pennebaker, Robert Drew, Jean Rouch, ecc.) affermatisi prevalentemente negli Stati Uniti e in Francia nei tardi anni Cinquanta. Ispirandosi ai lavori pionieristici di Robert S. Flaherty e di Dziga Vertov, i rappresentanti del cinéma vérité erano assai consapevoli che la loro cinepresa influiva sugli eventi che cercavano di registrare e perciò assumevano il ruolo di «osservatori partecipanti». Il loro approccio, in parte scaturito dai metodi del giornalismo televisivo, ha dato vita a film che sembravano essere più oggettivi nella rappresentazione della realtà.

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nei confronti delle sue storie; ma c’è un filo rosso che collega e addirittura cuce, stringe tra loro i titoli della sterminata filmografia di Werner Herzog: si tratta dei personaggi7. Le figure umane che vengono messe in scena, dagli esordi nei primi anni ’60 ad oggi, nei documentari come nei film di finzione - il cineasta ultrasessantenne, classe 1942, è tuttora febbrilmente impegnato ad ampliare il proprio lavoro - fanno parte di un’unica grande famiglia8, quando non possano addirittura essere assimilate in un solo homo herzogensis. L’impressione è proprio che le stralunate figure che popolano i suoi film siano intercambiabili tra loro, portatrici di una precisa visione della realtà. Della suddetta famiglia il capostipite, ma anche il cantore, il menestrello, è lo stesso regista, che non guarda, non espone e non giudica ma partecipa, è la propria carne viva quella che plasma9, ma non c’è alcun patetismo, né ambizione in direzione dell’introspezione psicologica. Herzog mostra un campionario di umanità che conosce, perché lui stesso ne fa parte e ne è cosciente rappresentante, spesso in maniera più radicale e significativa delle proprie creazioni di celluloide. Questo lavoro si propone di offrire un’analisi dei personaggi di Herzog partendo quindi proprio da lui, dal demiurgo bavarese. La prodigalità con la quale egli stesso distribuisce informazioni sul proprio lavoro e sulle proprie visioni lo impone: immensa la mole di interviste, tra cui il volume imprescindibile sull’argomento a cura di Paul Cronin10; numerosi e sostanziosi i commenti personali negli extra dei dvd, le dichiarazioni video reperibili sul web e i documentari-intervista11; ricchi di informazioni personali e di idee dell’autore nonché di straordinaria intensità i due diari Sentieri nel ghiaccio12 e La conquista dell’inutile13. La maggior parte del materiale bibliografico è stato ricavato quindi direttamente dalle parole di Herzog. Per i commenti e le critiche ai film si è preferito consultare gli articoli dell’epoca nelle riviste specializzate. La completa filmografia è stata presa in analisi da una distanza contemplativa certamente Herzog gradirebbe14 -, poi divisa in sezioni trasversali, per scendere infine

7 «Egli non sta realizzando una serie di film, ma un unico, lunghissimo film diviso in più capitoli. Personaggi e immagini rimbalzano da un capitolo all’altro». CALLISTO COSULICH, Il mondo di Werner Herzog, in «Cinemasessanta» n°120, 1978, p.23. 8 «Tutti i miei film esprimono un comune sentimento nei confronti della vita e in questo senso costituiscono un tutt’uno. Sono in relazione reciproca come le membra di un enorme corpo e, se visti insieme, compongono un unico film con molte dimensioni diverse piuttosto che una mera catena di film». WERNER HERZOG. Incontri alla fine del mondo, op. cit., p.90. 9 «Non ho mai fatto un film con una persona che non amo. Amo realmente Steiner, Stroszek, Bruno o i sordociechi […]. Molto spesso sento questa gente come se abitasse in me, come se mi sostituisse». WERNER HERZOG, Intervista con Werner Herzog, in «Cinéma79» n°250, ottobre 1979. 10 WERNER HERZOG. Incontri alla fine del mondo, op. cit.

11 v. videografia in appendice: Io sono i miei film (regia di Christian Weisenborn e Erwin Keusch, 1979), Werner Herzog eats his shoe (regia di Les Blank, 1980), Burden of dreams (regia di Les Blank, 1982), Werner Herzog cineasta (regia di Werner Herzog, 1986), Herzog in Afrika (regia di Steff Gruber, 1987), Il mondo contemplativo di Werner Herzog (regia di Peter Buchka, 1989) . 12 WERNER HERZOG, Sentieri nel ghiaccio (Vom gehen in Eis), tr. it. a cura di Anna Maria Carpi, Ugo Guanda Editore, Parma, 1980 (rist. 2008). 13 WERNER HERZOG, La conquista dell’inutile (Eroberung des Nutzlosen), tr. it. a cura di Monica Pesetti e Anna Ruchat, Mondadori, Milano, 2007. 14 «Se si vuole davvero approfondire le cose, bisogna prendere le distanze. Se si vuole scoprire una città e capirne la sua struttura, la cosa migliore è salire su una collina. Da lì si vedono le strade, gli edifici e il panorama generale della città. Cose che non si vedono quando si è in città». WERNER HERZOG in Il mondo contemplativo di Werner Herzog (regia di Peter Buchka, 1989).

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nel concreto con alcune indagini più approfondite di pellicole altamente rappresentative e dense di esempi che possano aiutare a comprendere ed apprezzare un’opera ermetica e difficile da molti punti di vista, ma altrettanto suggestiva e appassionante, opera in cui secondo Cattaneo Il compito di comprendere non è già stato assolto, ma si distende di fronte a noi, in risposta a quell’ignoto che ci chiama in causa, che ci riguarda sempre di nuovo, per quanto noi abitualmente […] non ne siamo consapevoli. La responsabilità cui siamo chiamati sta nell’imparare a metterci in ascolto, ad aprire le orecchie per riuscire ad accogliere, ad ospitare il diverso15.

15 FRANCESCO CATTANEO, L’estasi del saltatore, in «Rifrazioni», n°2, gennaio 2010, p.36.

III



I. WERNER HERZOG: L’UOMO, IL CINEASTA, IL PERSONAGGIO, I PERSONAGGI I.1 - LA VITA «Ho trentotto anni, ho visto tutto. Il lavoro mi ha dato tutto e si è preso tutto. Non posso più essere fuorviato: da chi, da cosa?»1

Werner Herzog, all’anagrafe Werner H. Stipetic, nasce a Monaco di Baviera nel 1942. Trascorre l’infanzia in un isolato villaggio montano bavarese per via della guerra mondiale in corso, un’esperienza naturale che lo influenzerà molto in futuro2. Fin da ragazzo la vita del regista è quasi come un romanzo3, ricca di avventure e di imprese al limite dell’inverosimile, popolata di visioni favolose e di rotte sempre meno metaforiche, «dall’adolescenza trascorsa tra i libri di storia antica e i viaggi verso il Mediterraneo alla scoperta delle proprie radici»4. Tra le altre cose Herzog è andato da Monaco fino in Albania a piedi a soli quindici anni - quella del viaggio a piedi è una passione che si porterà dietro per tutta la vita ha vinto una borsa di studio all’Università di Pittsburgh salvo lasciarla dopo pochi giorni per andare a vivere da senzatetto a New York, ha contrabbandato merci in Messico dove tra l’altro è stato coinvolto nel folle progetto di fondare un utopico stato autonomo; è stato gravemente malato in Africa, ha viaggiato in Inghilterra e in Grecia, ha forzato serrature e ha accoltellato un fratello. Lo stesso Herzog, dei suoi viaggi passati parla come la ricerca di un posto ideale, utopico, di luoghi «dignitosi per la vita»5. Per Grosoli, alla base di queste esperienze non c’è un «vitalismo romantico di maniera» ma semplicemente una strenua volontà di vedere, di comunicare e di conoscere: «in sostanza, il cinema»6. Osservazione che il cineasta conferma in pieno quando dichiara che «quello che sono io personalmente e quello che è il mio cinema, per me, sono un’unica cosa […]. La mia vita finora è stata vissuta quasi esclusivamente nel cinema»7. E di questa compenetrazione tra vita personale e cinema, quindi tra realtà e fantasia, si nutrono tutti i suoi lavori: da una parte, ci sono i film di finzione nei quali la

1 WERNER HERZOG, La conquista dell’inutile (Eroberung des Nutzlosen), tr. it. a cura di Monica Pesetti e Anna Ruchat, Mondadori, Milano, 2007, p.166. 2 «Era anarchia nel senso migliore della parola. Non c’erano in giro padri a dettar legge e non c’erano leggi da seguire» WERNER HERZOG. Incontri alla fine del mondo. Conversazione tra cinema e vita, a cura di PAUL CRONIN e FRANCESCO CATTANEO, Minimum Fax, 2009, p.20. 3 Ed è lui stesso a riconoscerlo: «La mia vita mi è sembrata inventata, con il suo pathos, le sue banalità, i suoi drammi, il suo girare a vuoto». WERNER HERZOG, La conquista dell’inutile, op. cit., p.178. 4 FABRIZIO GROSOLI, ELFI REITER, Werner Herzog, Editrice Il Castoro, Milano 1994 (rist. 2000), p.15. 5 v. videografia in appendice: Io sono i miei film (regia di Christian Weisenborn e Erwin Keusch, 1979). 6 FABRIZIO GROSOLI, ELFI REITER, Werner Herzog, op. cit., p.15. 7 WERNER HERZOG in «Filmcritica» n°403, 1990, pp.119-­‐120.

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realtà, la concretezza della vita sembra sempre tentare di invadere il territorio del filmico dal fuoricampo, che sia perché gli attori sono davvero spaventati quando spinti ad avventurarsi su zattere nelle rapide amazzoniche (Aguirre, furore di Dio – 1972), o perché il regista ha ipnotizzato personalmente tutti gli interpreti meno il protagonista (Cuore di vetro – 1976); che sia perché il protagonista è davvero un alienato (L’enigma di Kaspar Hauser – 1974, La ballata di Stroszek – 1976); oppure perché sono state liberate davvero alcune migliaia di ratti nella cittadina di Delft (Nosferatu – 1979), davvero è stato trainato un battello di centinaia di tonnellate su un pendio nella foresta amazzonica (Fitzcarraldo – 1982), la devastazione causata dall’uragano Katrina è vera (Il cattivo tenente – Ultima chiamata New Orleans – 2009) come vera è la storia di chi ha ammazzato sua madre con un’antica sciabola da cerimonia (My son, my son, what have ye done – 2009). Per quanto riguarda la produzione documentaristica - prolifica tanto quanto quella di fiction, e forse di più - invece, la tendenza è quella di partire dalla terra e a poco a poco ascendere, levitare ed approdare ad un significato altro rispetto a quella pochezza della «verità dei contabili»8, propinata dal cinéma vérité. Tutto ciò a costo di sacrificare, a volte, la realtà dei fatti: esemplari i casi di Rintocchi dal profondo (1993) in cui due ubriachi vengono spinti a strisciare su un lago ghiacciato ma presentati come pellegrini in estasi religiosa e di Incontri alla fine del mondo (2007) in cui similmente Herzog fa credere che degli scienziati possano ascoltare i richiami delle foche appoggiando l’orecchio sulla superficie innevata dell’Antartide. In L’ignoto spazio profondo (2005) il discorso si fa quasi autoironico quando si arriva a presentare immagini di repertorio e della più misera realtà (filmati della Nasa, paesi abbandonati) come fossero finzione: didascalie vi si sovrappongono a narrarci le vicissitudini di una razza aliena. Esistenza da solitario la sua, fin da bambino, portatore di una diversità che lo ha spinto, secondo Cosulich, a un «massimo di radicalismo e di egocentrismo», a un individualismo esasperato che «rappresenta il suo limite, ma anche il suo fascino»9. E lui stesso è portato ad accentuare la sua diversità quando sottolinea, con insistenza, la propria formazione di puro autodidatta e il proprio isolamento, in innumerevoli interviste e dichiarazioni10. Vita alla ricerca di una condizione di realizzazione forse, o di libertà, ma disinteresse verso la felicità intesa nel senso tradizionale del termine11. La sua ricerca tende più precisamente verso quello che lui stesso chiama «clima di eccitazione interiore»12; e si descrive così:

8 Primo punto del manifesto herzoghiano: «A forza di proclamarsi tale, il cosiddetto Cinéma Vérité è privo di vérité. Attinge solo a una verità di superficie, da contabili». WERNER HERZOG, La dichiarazione del Minnesota. Verità e dato di fatto nel cinema documentario, 1999. 9 CALLISTO COSULICH, Il mondo di Werner Herzog, in «Cinemasessanta» n°120, 1968, p.23. 10 «Il cinema è il mio modo di comunicare con gli altri. Mi è sempre stato molto difficile esprimermi a parole». WERNER HERZOG in GIAN LUIGI RONDI, Il cinema dei maestri. 58 grandi registi e un’attrice si raccontano, Rusconi Libri, Milano, 1980, p.330. 11 «Non mi sono mai preoccupato della felicità […]. Non è mai stata un mio obbiettivo. Io non ragiono in questi termini […]. Credo di essere alla ricerca di qualcos’altro…» WERNER HERZOG. Incontri alla fine del mondo, op. cit., p.46. 12 WERNER HERZOG. Incontri alla fine del mondo, op. cit., p.33.

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Immagina la situazione di una persona che sta in casa e che ne vede un’altra fuori che agita convulsamente le braccia in modo strano. Dall’interno non puoi percepire quale bufera si stia scatenando là fuori, e così quel tipo ti sembra bizzarro13.

Il concetto fisicità per Herzog è fondamentale, sia per la realizzazione dei suoi lavori sia nella vita reale: ha una fascinazione particolare per la figura dell’atleta e in generale per le sfide. Herzog è fisico perché è il proprio corpo, perché nei suoi film il corpo (anche il suo di regista) è sempre in primo piano, che lo si veda o che stia fuori campo, perché il suo corpo è sottoposto a prove, sfide, lunghe marce e sollecitazioni14.

Nell’inverno 1974 compie la titanica impresa di attraversare a piedi in linea retta la distanza che lo separa dall’anziana amica e critica tedesca Lotte Eisner, in punto di morte. Decide che se riuscirà nell’intento, la Eisner vivrà. Ma a parte questo, Herzog sente la necessità di stare solo: «Un solo pensiero che domina tutto: via di qui. Gli uomini mi fanno paura»; e ancora: «fa bene la solitudine? Sì, fa bene, solo che dà delle prospettive drammatiche»15. Come sostiene Anna Maria Carpi «un voto superstizioso, ma più forte del voto un’imprevista volontà di apprendere i limiti della propria resistenza fisica e morale»16. La Eisner non morì e della traversata è rimasto un diario che presenta in modo eccezionale la personalità del proprio autore17. Lui stesso quindi appartiene alla galleria di eroi e titani, a volte assurdi, che, come vedremo, popolano il suo cinema e ne è totalmente conscio18. Il documentario La Soufrière, del 1977, ne offre un esempio particolare.

I/1 – Werner Herzog 13 WERNER HERZOG. Incontri alla fine del mondo, op. cit., p.83.

14 BRUNO FORNARA, Immagini estatiche e infiniti mondi, in Tra natura e avventura. Il cinema di Werner Herzog, Cinema Rosebud, Reggio Emilia, 2009, p.9. 15 WERNER HERZOG, Sentieri nel ghiaccio (Vom gehen in Eis), tr. it. a cura di Anna Maria Carpi, Ugo Guanda Editore, Parma, 1980 (rist. 2008), p.15 e p.39. 16 ANNA MARIA CARPI, postfazione di Sentieri nel ghiaccio, op. cit., p.75. 17 «Quel libro mi piace addirittura di più dei miei lavori cinematografici. Anzi, mi è più caro di tutti i miei film messi insieme, forse perché il cinema comporta sempre innumerevoli compromessi» WERNER HERZOG. Incontri alla fine del mondo, op. cit., p.319. 18 Herzog a proposito degli attori: «In molti dei miei film avrei potuto rivestire i panni del protagonista qualora ce ne fosse stato bisogno»; e della scarsità di personaggi femminili: «Non avrei potuto io stesso interpretare quelle parti». WERNER HERZOG. Incontri alla fine del mondo, op. cit., p.90.

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I.2 - IN ATTESA DI UNA CATASTROFE INEVITABILE: LA SOUFRIÈRE

Nel 1977 a Werner Herzog giunse la notizia che il vulcano La Soufrière, nelle Antille Francesi, era sul punto di esplodere. La deflagrazione sarebbe stata di una violenza inaudita, superiore a quella di numerose bombe atomiche e la probabilità dell’evento per i geologi era decisamente alta. Un solo abitante dell’isola aveva rifiutato l’evacuazione ed era rimasto stoicamente sulla propria terra, in attesa della catastrofe inevitabile. Se il film esiste, è proprio perché in quest’uomo il regista ha potuto riflettersi19. Herzog immediatamente sentì la necessità di scoprire cosa legava quest’uomo solitario ad un destino segnato, arruolò due cameraman (Jorge Schmidt Reitwein e Ed Lachman) e si avventurò con loro verso Guadalupe. Nelle immagini iniziali del film, l’isola è deserta, le vie e le abitazioni abbandonate, animali vagano in cerca di cibo, semafori e televisori nelle case sono stati lasciati accesi. Sovrasta la città di Basseterre l’ombra fumante del vulcano. Tramite filmati di repertorio viene raccontato che nel 1902 si verificò una catastrofe simile a Martinica; il bilancio: 30.000 morti. Solo un sopravvissuto: l’«aspetto meraviglioso»20 per il regista è che si trattasse dell’uomo «più cattivo della città», un carcerato che era rinchiuso in una cella d’isolamento senza finestre. Quando gli operatori trovano l’uomo che si era rifiutato di andarsene, alla domanda sul perché sia rimasto ad attendere la morte, egli risponde semplicemente che non ha paura perché è un destino che prima o poi attende tutti. Il regista e i cameraman si avventurano fin sulle pendici del vulcano, alla mercé delle ventate di gas tossici e sempre più vicini al fulcro del pericolo. Lasciano una cinepresa attiva a trentacinque chilometri di distanza per fornire una testimonianza in caso di un’esplosione che li spazzi via. Per la conoscenza, il rischio della morte è il prezzo da pagare, la conoscenza risiede al di là delle colonne d’Ercole21. «Chi non rischia la propria vita non raccoglie nulla»22, dice Herzog. Ma ci tiene anche a sottolineare che non si è trattato di una bravata23. Il vulcano, contro ogni previsione, alla fine non esplose, creando un controsenso tra la «catastrofe inevitabile» e ciò che alla fine accadde, cioè nulla. Il regista stesso ammette la patetica banalità della conclusione della vicenda nel finale della pellicola. Tuttavia i rischi corsi dalla troupe erano drasticamente reali, sono stati vicini al saltare in aria insieme a tutta l’isola. In questo documentario in particolare si trova quindi la forte identificazione di Werner Herzog con i personaggi dei propri film, un’identificazione che in questo caso percorre un sentiero contrario: non è il regista a proiettare se stesso in un personaggio fittizio, ma la realtà – quella dell’imminenza di

19 cfr. CALLISTO COSULICH, Il mondo di Werner Herzog, in «Cinemasessanta» n°120, 1968, p.23.

20 La Soufrière, v. videografia in appendice.

21 cfr. ALBERTO BARBERA, Il rischio e l’estasi, in WERNER HERZOG, L’enigma di Kaspar Hauser, a cura di SANDRO PETRAGLIA, SIMON MIZRAHI e ALBERTO BARBERA, Feltrinelli, Milano, 1979, p.7. 22 WERNER HERZOG in MANUELA FONTANA, Film und drang: nuovo cinema tedesco, Vallecchi, Firenze, 1978, p.52. 23 «Non ho pulsioni suicide, e quell’esperienza non è stata per niente una bravata». WERNER HERZOG. Incontri alla fine del mondo, op. cit., p.179.

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una conflagrazione, che si rivelerà fittizia e ingannevole – a imbrigliarlo e trasformarlo in attore. Herzog dunque presenta se stesso come uno dei suoi ribelli, titanici, folli per l’audacia […] e proprio come loro fallisce. La montagna non esplode: resta con la sua indifferenza ad irridere la scienza che ne aveva decretato la fine e il testimone che l’aveva sfidata24.

I/2 – La salita verso il cratere

I/3 – L’uomo che ha rifiutato l’evacuazione

I/4,5 – La Soufrière

24 FABRIZIO GROSOLI, ELFI REITER, Werner Herzog, op. cit., p.85.

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I.3 - I PERSONAGGI: DIGNITÁ, DIONISISMO, RICERCA DEL LIMITE

COMUNICAZIONE,

EMARGINAZIONE,

«I miei personaggi appartengono tutti alla stessa famiglia, siano essi fittizi o meno»25. «Non potrei mai realizzare un film su qualcuno verso cui non nutra una curiosità alimentata da una simpatia di fondo»26. «…sembrano degli outsiders, ma è il resto ad essere outsider»27. Queste affermazioni permettono di comprendere appieno come, per Herzog, i propri film siano accomunati in modo particolare dai personaggi che li popolano, nei confronti dei quali prova una partecipazione molto forte. È un concentrato di umanità accomunato da un anelito alla propria dignità umana; spesso si ribella per cercare di conquistarla28. Famiglia in quanto molti personaggi ritornano, ricorrono tra film e film, magari solo di sfondo, ma continuano ad essere presenti in un discorso ormai cinquantennale e lo rendono continuo29. Molti di questi personaggi «vengono dalla notte»30: sordi, ciechi, muti, pazzi, handicappati, bambini, mostri, nani e animali; sono figure associate dal rapporto con la cultura e la percezione31. Impediti nella loro comunicazione, ne incarnano un desiderio illimitato. Il regista definisce questa tipologia di figure «militi ignoti del cinema»32. Non hanno ombre, sono senza un passato ed emergono come dall’oscurità; sono ribelli disperati e solitari privi di una lingua e a causa di ciò finiscono inevitabilmente per soffrire. La loro rivolta è condannata fin dall’inizio al fallimento, ma loro non si scoraggiano e lottano senza tregua solo con le proprie forze. Gli eroi herzoghiani sono singoli in opposizione con il gruppo che li circonda, una società castrante, razionalizzante, incasellante, borghese, dalla quale vengono fatti passare per pazzi: Che si tratti di soldati allucinati o di sordomuti o di nani, i miei personaggi non sono né deformi né patologicamente pazzi. A essere pazzi sono la società, le situazioni in cui essi si trovano e gli uomini che li circondano33.

Per quanto riguarda gli attori che li interpretano, quasi mai si tratta di professionisti; spesso sono figure realmente incontrate da Herzog, invitate a mettere in scena loro stesse nella finzione cinematografica. Per lui, «se sono bravi sullo schermo, sono tutti professionisti: questa è la mia definizione di attori professionisti […]. I personaggi reali

25 WERNER HERZOG. Incontri alla fine del mondo, op. cit., pp.88-­‐89.

26 Ivi, p.90.

27 WERNER HERZOG in Intervista a Werner Herzog. Archeologo di un altro pianeta, a cura di ENRICO GHEZZI, in« Duellanti» n°36, ottobre 2007, pp.27-­‐32; 28 cfr. GIAN LUIGI RONDI, Il cinema dei maestri, op.cit., p.332. 29 p. es. i nani di Anche i nani hanno cominciato da piccoli (1970) tornano in L’enigma di Kaspar Hauser (1974), e anche nell’ultimo film My son, my son, what have ye done (2009), v. videografia in appendice. 30 WERNER HERZOG in MANUELA FONTANA, Film und drang, op. cit., p.58. 31 Ungari lo definisce «bestiario fantastico che è prima di tutto un campionario di percezioni anomale» in ENZO UNGARI, Schermo delle mie brame, Vallecchi, Firenze, 1978, pp.169-­‐170. 32 GIORGIO RINALDI, La ballata di Stroszek, in «Cineforum» n°171, gennaio/febbraio 1978, p.66. 33 WERNER HERZOG. Incontri alla fine del mondo, op. cit., p.90.

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sono bigger than life, straordinari»34. Essi mettono la loro condizione di marginali e diversi al servizio di una visione partecipe e disperata35. La volontà di rivolta, uno spirito dionisiaco che si spinge progressivamente verso il limite per cercare di oltrepassarlo e giungere ad una visione o a una realtà superiore caratterizza un secondo scaglione di personaggi: eroi maledetti, avventurieri accecati dai propri maniacali sogni di potenza, visionari folli protesi a confrontarsi con l’assoluto. Portatori di un superomismo che consiste nel non volersi rassegnare ad un’inevitabile sconfitta. Il fallimento, la marginalità totale o la follia sono il prezzo da pagare per coloro che osano vedere – e far vedere – di più. Infatti il limite verso cui tendono è irraggiungibile: si può avvicinarvisi, ma non raggiungerlo; pena la rovina dell’uomo36. Ma per Herzog sono comunque personaggi che, anche nella sconfitta, vedono di più37. Il limite è sempre presente nell’uomo come soglia da valicare; essi sono portatori di un’insofferenza d’animo – che li porta a rifiutare la razionalità identificata col senso comune e il mito del progresso scientifico – e della vitalità dionisiaca propria di uomini capaci di sognare senza dormire, la stessa che Nietszche riconosceva miticamente negli antichi greci38. Nei capitoli seguenti sarà proposta una suddivisione della filmografia di Werner Herzog in tre grandi settori: i Primitivi, i Titani e i Sognatori; le caratteristiche di ciascun gruppo, accennate nei paragrafi precedenti, saranno motivate e trattate con specifica attenzione riguardo ai vari casi presenti nell’opera filmica. La suddetta catalogazione si basa su un’acuta e originale analisi da attribuirsi a Gilles Deleuze39 riportata per intero di seguito (tra virgolette alte) - un tentativo di parafrasi aggiungerebbe solamente affettata complicazione - corredata dagli efficaci chiarimenti di Grazia Paganelli40 (tra virgolette uncinate): «(Deleuze) riconosce due temi ossessivi nell’opera di Herzog: nel primo “un uomo uso alla dismisura, colma un ambiente esso stesso smisurato, e concepisce un’azione tanto grande quanto l’ambiente”. L’azione, cioè, non è spinta né suggerita dalla situazione, ma è “un’impresa folle nata dalla testa di un visionario”, l’unica in grado di eguagliare l’enormità dell’ambiente. Secondo Deleuze questo caso provoca una sorta di “sdoppiamento tra un’azione sublime, destinata a restare sospesa, senza alcun possibile confronto, e un’azione eroica che trova nell’ambiente il suo interlocutore”. Gli esempi più immediati sono Aguirre, furore di Dio, nel rapporto tra l’azione eroica della discesa delle rapide e l’azione sublime del

34 WERNER HERZOG in GRAZIA PAGANELLI, Segni di vita. Werner Herzog e il cinema, Editrice Il Castoro, Torino, 2008, pp.46-­‐48. 35 cfr. JEAN-­‐PHILIPPE DOMECQ, Le monde croule… je deviens leger: sur Werner Herzog, in «Positif» n°217, aprile 1979, p.3. 36 cfr. ALBERTO BARBERA, Introduzione a GRAZIA PAGANELLI, Segni di vita, op.cit., p.6. 37 «Io non cerco “relitti di umanità” […] ma l’uomo autonomo, forte. Chi ha avuto paura vede di più». WERNER HERZOG in «Film Quarterly», autunno 1977. 38 cfr. ANNA IMPONENTE, Fitzcarraldo, in «Filmcritica» n°345, giugno 1984, pp.276-­‐277. 39 Gilles Deleuze (Parigi, 18 gennaio 1925 – Parigi, 4 novembre 1995): filosofo francese, ritenuto tra i più influenti pensatori del XX secolo e tra i più prestigiosi esponenti della Nietzsche-­‐renaissance che, insieme allo strutturalismo e al pensiero di Jean-­‐Paul Sartre, caratterizzò il pensiero filosofico francese del secondo dopoguerra. 40 GRAZIA PAGANELLI, Segni di vita, op.cit., pp.32-­‐33.

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progetto di Aguirre di sfidare e tradire Dio e il mondo, e Fitzcarraldo, dove l’eroico (la nave che scala la montagna) è strumento per arrivare al sublime (trasformare l’intera foresta vergine in un tempio dell’Opera). Più subdolo e sfaccettato, invece, il secondo tema. In questa sua teoria metafisica, infatti, Deleuze rintraccia “nei piccoli personaggi (i nani, i sordociechi, gli handicappati, i semplici, come Kaspar Hauser, Stroszek o Woyzeck) gli artefici dell’Idea. Costoro instaurano tali rapporti di tatto con il mondo, che gonfiano e ispirano l’immagine”41, da cui le innumerevoli visioni allucinatorie disseminate nel cinema di Herzog»42.

41 GILLES DELEUZE, L’immagine-­‐movimento, Ubulibri, 1993, pp.212-­‐214.

42 GRAZIA PAGANELLI, Segni di vita, op.cit., pp.32-­‐33.

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II. I PRIMITIVI II.1 - IL DIFETTO DI COMUNICAZIONE La prima categoria di personaggi è quella dei Primitivi: quei «piccoli personaggi» di cui parla Deleuze definendoli «artefici dell’Idea»1. I Primitivi sono figure prive di un codice o di un linguaggio, portatori di diversità, carenze fisiche o psichiche, culture o credenze che rendono loro ardua la comunicazione con gli altri o di fatto la impediscono e limitano le loro possibilità d’interazione con la realtà, anche se di frequente sono latori di messaggi profondi, di segreti rivelatori, che di conseguenza rimangono ignoti ai normali. A volte essi vedono e sentono più intensamente degli altri e ciò costituisce un’ulteriore difficoltà comunicativa. L’intensità estrema del loro sguardo, – anche nel caso dei ciechi – che crea ovunque il fantastico intorno a sé, li rende capaci di trasmettere realtà altrimenti indicibili; questa facoltà del primitivo viene spesso portata sullo schermo da Herzog tramite l’uso di immagini strane, evocative, costruite volutamente per causare un effetto di prima visione sulle cose, produrre un’esperienza sensoriale inedita2. Ma la loro condizione li porta inesorabilmente alla solitudine, alla sofferenza e alla sconfitta: si perdono nelle nebbie del tempo, vengono assorbiti, fagocitati dalla natura, dalla società, dalla modernità, dal silenzio, dalla morte. Sono quindi personaggi soli e sofferenti e «c’è un grande pathos in questo»3, segnati dall’alterità e dalla non conciliazione con il resto della società. Gran parte della filmografia di Herzog si dedica con sentita partecipazione e commozione alle tragedie di queste figure: a partire dal mondo dei sordociechi, passando tra pazzi, alienati e tribù semi-primitive minacciate dalla modernità, approdando infine ad un tentativo di materializzare le diversità percettive portate dai Primitivi nel linguaggio cinematografico: sotto forma di una sorta di sguardo alieno. C’è una riflessione attenta sul rapporto tra linguaggio e vita sociale da parte del regista: la società trasmette attraverso la lingua i propri valori e la propria cultura; l’apprendimento dei linguaggi presuppone quello dei comportamenti socialmente accettati. Ne consegue che coloro che non sono in grado di far proprio il mezzo di comunicazione linguistico ufficiale non riusciranno mai nemmeno a inserirsi nella civiltà umana. Quel diverso linguaggio che parlano pazzi, bambini, sordociechi, vampiri, indios, nell’impossibilità di essere capito, viene dapprima negato, poi avversato e infine represso e annichilito, distrutto4. Herzog rimane tuttavia scettico riguardo ai metodi di comunicazione della nostra cultura; da parte del regista, c’è un sentito rimpianto per

1 GILLES DELEUZE, L’immagine-­‐movimento, Ubulibri, 1993, pp.212-­‐214.

2 Si pensi alle visioni di Kaspar Hauser, riprese di paesaggi e uomini proiettate su uno schermo e rifilmate per gonfiarle e dar loro un effetto di mai visto, di apparizioni oniriche. 3 WERNER HERZOG in «Jeune Cinéma» n°81, settembre/ottobre 1974. 4 cfr. SANDRO PETRAGLIA nella prefazione a WERNER HERZOG, L’enigma di Kaspar Hauser, a cura di SANDRO PETRAGLIA, SIMON MIZRAHI e ALBERTO BARBERA, Feltrinelli, Milano, 1979, p.120.

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mondi, epoche, culture, civiltà in cui non è andata perduta la possibilità di avere un contatto e una comprensione più profondi con il e del circostante: L’aumento della solitudine sarà direttamente proporzionale al rapido aumento delle forme di comunicazione a nostra disposizione – che siano fax, telefono, e-­‐mail, internet o altro. Può suonare paradossale, ma non lo è. I mezzi di comunicazione ci fanno uscire dall’isolamento, ma l’isolamento è ben diverso dalla solitudine […]. La solitudine è qualcosa di più esistenziale5.

5 WERNER HERZOG. Incontri alla fine del mondo. Conversazioni tra cinema e vita, a cura di PAUL CRONIN e FRANCESCO CATTANEO, Minimum Fax, 2009, p.186.

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II.2 - I SORDOCIECHI: PAESE DEL SILENZIO E DELL’OSCURITÀ «Chi non l’ha visto non dovrebbe parlare del mio cinema»6.

Nel 1970 Herzog si occupa di bambini focomelici: gira un documentario sul futuro impedito7 di chi a causa della propria sventura non può avere dei contatti normali con la vita di tutti i giorni e sul rifiuto che la società normale istintivamente manifesta nei loro confronti8. Scorrono le immagini di bambini con arti ridotti a moncherini; una voce commenta: «la maggior parte dei cittadini non vuole vivere con loro. Ma come vivono? Dove vivono? E noi cosa sappiamo di loro? Che possibilità dà loro la nostra società? Siamo forse un handicap aggiuntivo per loro?9» Per questi bambini fare le cose più facili, come aprire un rubinetto, diventa un’impresa. L’indifferenza è regola per i rapporti nei loro confronti. Un gruppo di ragazzi più grandi ha un progetto sperimentale per un film: riprendersi mentre rubano qualcosa in un negozio sulle proprie sedie a rotelle. Sono certi che la «barriera trasparente» che li divide dagli altri sia così coriacea che i negozianti farebbero finta di niente. Nei disegni che difficoltosamente i più piccoli riescono a produrre ricorrono simboli di un senso d’isolamento e di solitudine opprimente: prigioni, serpenti dietro le sbarre, figure umane lontane dal resto del disegno. Una bambina dipinge un autoritratto; improvvisamente lo chiede indietro, ha dimenticato qualcosa: disegna delle lacrime sul proprio viso.

II/1 – Futuro impedito

II/2 – «Autoritratto con lacrime»

6 WERNER HERZOG, intervista con W. H., dicembre 1978, a cura di HANS GUNTHER PFLAUM, in La ballata di Stroszek – Nosferatu, il principe della notte (due racconti cinematografici), a cura di HANS GUNTHER PFLAUM e GIOVANNI SPAGNOLETTI, Ubulibri, Milano, 1982, p.18. 7 Futuro impedito, v. videografia in appendice. 8 cfr. CALLISTO COSULICH, Il mondo di Werner Herzog, in «Cinemasessanta» n°120, 1978, p.26. 9 in Futuro impedito, v. videografia in appendice.

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Durante le riprese di Futuro impedito Herzog incontra Fini Straubinger, una donna sorda e cieca dall’adolescenza; la segue per cinque mesi nella sua ostinata ricerca di comunicazione. Paese del silenzio e dell’oscurità, concluso nel 1971, ne è il risultato: un documentario sulla vita di alcuni sordociechi che ad ogni piè sospinto trascende il caso particolare e s’immerge nell’universale, a scandagliare gli abissi profondi del mistero della comunicazione, a scoprire se e in quale modo persone che non possono né vedere né sentire riescano non solo a percepire ma a trasmettere la realtà solo attraverso il tatto e con quali difficoltà10. Cosa succede dentro ai sordociechi al tocco di una mano estranea? Quale abisso di solitudine possiamo immaginare nel loro mondo interiore?11 Sono davvero i personaggi che «vengono dalla notte»12 per eccellenza: Herzog segue da vicino Fini nei suoi incontri con altri sordociechi e ci rende partecipi di quello che dev’essere un mondo completamente diverso da una visione e da un ascolto normali. Tutti gli spettatori diventano quindi dei sordociechi e vanno sollecitati a «sperimentare un esercizio profondo dei loro sensi feriti dall’abitudine»13. «A volte siamo come ciechi, costretti a sviluppare altri sensi. Udito, olfatto devono essere perfetti. Dobbiamo sviluppare una maggiore sensibilità»14. Se in noi c’è «questa terribile difficoltà, questa lotta spaventosa per comunicare, e questa solitudine»15, come può essere la vita di chi ha un terzo delle nostre facoltà fisiche e può utilizzare solo il tatto? Herzog tenta di far ascoltare e vedere ciò che ascolta e vede un sordocieco16. Fini spiega infatti come cecità e sordità non siano condizioni di buio e di silenzio assoluti, ma visioni costellate da esplosioni di luci e di colori, riempite da ronzii variabilmente intensi in sottofondo17. Personaggi estremamente poetici ma non pateticizzati, quelli di Fini e dei suoi compagni di sventura, ad una distanza abissale da noi, pieni di dignità ma decisamente lontani da una prospettiva di felicità18 e allo stesso tempo protagonisti di una situazione che li rende maggiormente recettivi ed eccitabili nei confronti della normalità. Essi possono raggiungere vertici di profondità altrimenti insondabili nel comunicare19: per un sordocieco volare su un aeroplano, toccare un animale o una pianta, pungersi con un cactus, abbracciarsi con un compagno, sentire le vibrazioni di

10 «Penso che possiamo imparare ancora molto sulla natura della visione» WERNER HERZOG in MANUELA FONTANA, Film und drang: nuovo cinema tedesco, Vallecchi, Firenze, 1978, p.61. 11 cfr. FRANCESCO CATTANEO, L’amo della menzogna e la carpa della verità, in «Cineforum» n°462, 2007, p.53. 12 ivi, p.58. 13 FABRIZIO GROSOLI, ELFI REITER, Werner Herzog, Editrice Il Castoro, Milano, 1994 (rist. 2000), p.52. 14 WERNER HERZOG in Location Africa, v. videografia in appendice. 15 WERNER HERZOG, L’enigma di Kaspar Hauser, op. cit., p.126. 16 cfr. ROBERT FISCHER, JOE HEMBUS, PAOLO TAGGI, Il nuovo cinema tedesco 1960/1986, Gremese Editore, Roma, 1987, p.225. 17 FINI STRAUBINGER in Paese del silenzio e dell’oscurità, v. videografia in appendice. 18 «Nel film si trova la più radicale e assoluta dignità umana, la sofferenza umana senza veli», WERNER HERZOG. Incontri alla fine del mondo, op. cit., p.91. 19 cfr. FABRIZIO GROSOLI, ELFI REITER, Werner Herzog, op. cit., p.51.

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una radiolina diventano esperienze talmente forti da avvicinarlo ad una condizione di estasi e di continuo stupore di fronte ad un mondo che si offre con difficoltà ma anche con delizia. Una secondaria dimensione di ricchezza è possibile nel ricordo: in una scena – non autentica ma sintetica di una sensazione reale – Fini ricorda di aver assistito ad una gara di salto con gli sci, da bambina, quando vedeva ancora. L’evento si colora e si anima di poesia20 grazie alle immagini e alla musica con le quali Herzog correda le parole della donna, nel tentativo di farci immaginare, immedesimare in una realtà in cui solo la fantasia e la memoria rendono possibile ancora una percezione visivo-uditiva della realtà. Anche se si tratta di una realtà ormai lontana. Lo spettatore non è portato a provare pietà per questi personaggi ma ad ammirarne le facoltà, le diversità di approccio al reale. Tuttavia, quando vengono filmati i bambini sordi e ciechi dalla nascita, sorge la questione sulla possibilità che abbiano di comprendere concetti astratti; per questi ultimi il pianeta Terra è ancora più distante, la loro diversità è totale21. La cinepresa indugia su Vladimir, sono immagini di un’intensità disturbante: io mostro perché voi guardiate – sembra dirci il regista - perché guardare significa già attribuire un’esistenza ad un tale monstrum. Escluso da ogni possibilità di rapporto, egli vive in una dimensione distaccata e le sue maggiori interazioni con l’ambiente – farsi rimbalzare addosso una palla di gomma – sembrano pervase dall’unica possibilità che conosce per sentirsi vivere. «Non sapremo mai quel che i bambini sordociechi pensano del mondo intorno a loro perché non c’è proprio alcun modo di comunicare con loro»22. Fini esprime una grande vitalità nell’aiutare chi come lei è nella condizione dell’oblio, ma alcune didascalie presentano il sentimento di sgomento che anche lei non può evitare di provare23. «Se ora scoppiasse una guerra, non me ne accorgerei nemmeno»24. Il film si chiude con un’immagine fortemente poetica e commovente: un uomo precedentemente intervistato in un giardino si imbatte improvvisamente nelle fronde di un albero; l’incontro inizialmente è colorato di sconcerto, ma lentamente si trasforma in scoperta. L’uomo inizia a toccare foglie e rami. La sua fiducia cresce tanto che questo sordocieco finisce per abbracciare l’albero. Ciò che abbraccia è quella natura che lo – e ci – allontana da lei con violenza o silenziosa indifferenza ma che non si può astenersi dal tentare di conoscere ed amare25.

20 «Allo spettatore sembra di assistere a un miracolo», CALLISTO COSULICH, Il mondo di Werner Herzog, in «Cinemasessanta» n°120, 1978, p.26. 21 cfr. CALLISTO COSULICH, Il mondo di Werner Herzog, in «Cinemasessanta» n°120, 1978, p.26. 22 WERNER HERZOG. Incontri alla fine del mondo, op. cit., p.96. 23 «È un tale sgomento quando mi tocca qualcuno. Aspettando passano gli anni» FINI STRAUBINGER in una didascalia di Paese del silenzio e dell’oscurità. 24 FINI STRAUBINGER nel finale di Paese del silenzio e dell’oscurità. 25 «La vedo piena di oscenità, più che di erotismo. La natura è violenta, primitiva […] lotta per la sopravvivenza […]. Certo, c’è molta sofferenza, ma è la stessa sofferenza che ci circonda […]. Non c’è armonia nell’universo, dobbiamo renderci conto che non c’è una reale armonia così come l’abbiamo concepita noi. Ma lo dico pieno di ammirazione per la giungla. Non la odio. La amo molto. Ma la amo contro il mio buonsenso.» WERNER HERZOG sulla natura in Burden of dreams, v. videografia in appendice.

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II/3 – Fini Straubinger

II/4 – Comunicazione tattile

II/5 – Giardino botanico

II/6 – Solitudine dei sordociechi

II/7 – La scoperta dell’acqua

II/9,10 – Sequenza conclusiva 14

II/8 -­‐ Vladimir


II.3 - L’OTTOCENTO E L’ENIGMA DI KASPAR HAUSER L’epoca ottocentesca, per Herzog, è un periodo storico connotato dall’essere il preludio per il mondo in cui viviamo oggi: il trionfo della borghesia, del razionalismo, del denaro, del normale, della città sono tutti valori che provengono direttamente dall’Ottocento, secolo durante il quale si sono evoluti e raffinati; il regista parla in particolare esplicitamente dell’epoca Biedermeier26, gretta, conservatrice, restauratrice, mondo di sopraffazione, come radice del male della società moderna27. Significativamente tra il 1974 e il 1978 Herzog gira quattro opere di finzione ambientate nell’Ottocento: L’enigma di Kaspar Hauser (1974), Cuore di vetro (1976), Nosferatu, principe della notte e Woyzeck (entrambi del 1978)28. L’enigma di Kaspar Hauser narra la storia vera di un personaggio nato adulto: ritrovato nella Norimberga del 1826, ha vissuto i suoi primi sedici anni rinchiuso in uno scantinato senza imparare a parlare, scrivere, camminare. Un soggetto quindi di cronaca nazionale, ma fatto proprio ai tempi da tutta Europa. Si ipotizzò addirittura fosse principe di Baden o discendente di Napoleone. Quando Kaspar viene liberato e adottato dalla cittadinanza è costretto a concentrare in un tempo ridottissimo la sua conoscenza di tutte le convenzioni della vita sociale, creando sgomento e scompiglio fino ad essere assassinato. In Cuore di vetro il protagonista è un profeta in un villaggio bavarese: egli vede oltre la razionalità, predice la rovina della propria città, ma nessuno gli crede e viene imprigionato. Si scoprirà in seguito che tutte le sue previsioni erano azzeccate. Nosferatu è la nota storia del vampiro Dracula: la connotazione che Herzog dà alla vicenda punta decisamente sulla pateticità e la tragedia della condizione vampiresca. Nosferatu è un essere disperato, non partecipa della natura umana, è escluso dall’amore e dalla felicità, ma non è morto: né completamente vivo né completamente morto. «La mancanza d’amore è la più crudele e abbietta delle pene»29, dichiara in una scena. Destinato alla sofferenza eterna, per amore distrugge se stesso e la collettività in momenti di malata esaltazione vitalistica30. Da parte loro, i saggi della città nella quale imperversa il vampiro non trovano altra soluzione che rifiutarne razionalmente la stessa esistenza: «viviamo in un’era illuminata: le superstizioni come quelle di cui parla sono state rifiutate dalla scienza»31. Woyzeck è un film tratto dall’omonimo dramma buchneriano nel quale il protagonista è un oppresso che sente cose che gli altri non percepiscono, ossessionato da visioni cosmiche e connotato da una sensibilità

26 L’Epoca Biedermeier (1815-­‐1848) fu contrassegnata da governi dispotici e da una mentalità conservatrice e “bigotta”. Declinazione mitteleuropea della Restaurazione europea, in questo periodo si svilupparono le tendenze nazionalistiche e le rivendicazioni della classe borghese, i moti, la volontà di cambiamento che caratterizzò l’Ottocento romantico. 27 «I tipi strani sono proprio questi maiali addomesticati, questi membri della società borghese […] rimbecillente e scialba» WERNER HERZOG. Incontri alla fine del mondo, op. cit., p.89 e p.137. 28 v. videografia in appendice. 29 Battuta del vampro in Nosferatu, principe della notte. 30 «Volevo dotarlo di angoscia esistenziale, sofferenza umana e solitudine» WERNER HERZOG. Incontri alla fine del mondo, op. cit., p.185. 31 Battuta del dottore in Nosferatu, principe della notte.

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naturale febbrile e sbilanciata che lo vota alla solitudine e alla sconfitta. Il razionalismo dei suoi compaesani – il medico che lo usa come cavia per i propri esperimenti e gli diagnostica un’«aberratio mentalis», il capitano di guarnigione che lo apostrofa duramente: «quanto sei stupido!»32 – è strumento di coercizione e di violenza e non può rispondere pienamente alle loro questioni sulla vita, perché «gli uomini sono come degli abissi: ti gira la testa se provi a guardarci dentro», come afferma Woyzeck in una battuta. Al centro di tutti e quattro i film, c’è quindi il problema del vedere e del sentire, dell’occupare uno spazio da cui si è respinti33.

II/11 – Il profeta Hias di Cuore di vetro

II/12 -­‐ Nosferatu

II/13 -­‐ Woyzeck

L’approfondimento di questo paragrafo è dedicato a Kaspar Hauser, primo non solo cronologicamente, ma anche per coerenza e ricchezza di contenuti. La storia del trovatello tedesco, infatti, si trasforma nel film di Herzog in una lucida e straziante allegoria del rapporto esclusione-repressione, «referto acutissimo sulla tragica impossibilità di conciliazione tra diversità individuale e istituzioni sociali e storiche in un mondo la cui logica contrasta radicalmente con la sua innocenza»34. Kaspar Hauser è stata un’ottima occasione per Herzog per mostrare una sorta di prima visione delle cose35. Il protagonista è vergine di fronte al mondo, sembra caduto sulla terra da un pianeta sconosciuto; è un sordocieco che all’improvviso riacquista udito e vista, il suo isolamento è lo stesso che per anni e anni vivono i personaggi di Paese del silenzio e dell’oscurità36. La pelle di Kaspar è liscia e levigata come quella di un bambino, il suo linguaggio al ritrovamento si riduce ad una semplice frase di cui nemmeno conosce il senso37. Lo stesso Herzog dichiara: «Mi interessava una persona che non avesse la minima idea di niente […]. Un essere senza cultura, lingua o

32 Battute del medico e del capitano di guarnigione in Woyzeck, v. videografia in appendice.

33 cfr. FABRIZIO GROSOLI, ELFI REITER, Werner Herzog, op. cit., p.70.

34 SANDRO REZOAGLI, L’enigma di Kaspar Hauser, in «La rivista del cinematografo» n°7, luglio 1975, pp.325-­‐326. 35 cfr. CALLISTO COSULICH, Il mondo di Werner Herzog, in «Cinemasessanta» n°120, 1978, p.29. 36 cfr. LUCIA COLUCCELLI, Werner Herzog: “il venditore di fiammiferi”, in «Cinema e Cinema» n°11, aprile/giugno 1977, p.53. 37 cfr. CARLO SCARRONE, La domanda scomoda, in «Filmcritica» n°317/318, settembre/ottobre 1981, pp.445-­‐447.

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civilizzazione. Un essere umano quasi primevo […] con quel tipo di intelligenza che a volte si trova negli analfabeti»38. Il film è un trattato sulla comunicazione e sul rapporto con il diverso, inaccettabile nella sua genuina alterità sensoriale; un dramma del linguaggio, una storia fatta di continue rivelazioni, di visioni, sogni, incubi e, soprattutto, di cortocircuiti della percezione39. Una storia di chi ad ogni parola nuova che impara diventa sempre più schiavo; anche se Kaspar nel film ha fiducia nella propria educazione: «Quando avrò imparato più parole, capirò le cose che non ho ancora capito»40. Il processo di apprendimento imposto con la violenza è il reagente davanti a cui si rivelano le vere facce della società borghese41: un uomo nato adulto diventa carne da macello per gli esperimenti antropologici illuministici di una società popolata di razionalisti: il professore di logica, il capitano, lo scrivano, i medici, il suo protettore: pur con tutte le buone intenzioni, queste figure non faranno del bene a Kaspar, ma lo spingeranno sempre di più verso un rifiuto delle convenzioni: infatti egli accetta ciò che è per lui davvero positivo della cultura umana, come la parola, la musica, lo scambio di opinioni. Si costruisce, ove possibile, alcuni spazi d’espressione: il pianoforte, l’aiuola coltivata a formare il suo nome, l’autobiografia. Ma non riesce assolutamente ad assimilare concetti come i ragionamenti logici, i dogmi religiosi, le leggi scientifiche, il fatto che le mele e gli animali non provino sentimenti. Ciò che agli altri, tanta è la loro assuefazione, può apparire normale per lui diventa micidiale; soprattutto i riti e le convenzioni sociali, tanto da fargli rimpiangere lo stato di indigenza in cui viveva, chiuso nella cantina del suo isolamento42. Kaspar ad un certo punto sostiene che la sua apparizione nel mondo è stata una «caduta pesante». Aborrisce tutte queste barriere che il mondo in cui è comparso tenta di porre alla sua fantasia, alla sua vitalità e al suo entusiasmo di emerso alla vita. Tutto ciò che in Kaspar è spontaneo viene sistematicamente mortificato; il protagonista riesce a conservare immacolata la sua dignità umana mentre tutti quelli che gli girano intorno sembrano orribilmente condizionati. La narrazione si concentra su quadri, sequenze autonome che illustrano l’apprendistato di Kaspar alla vita; l’autore stesso ha invitato a leggere la vicenda come una Passione43: la graduale affermazione di una santità del protagonista, punteggiata stazione dopo stazione dalla manifestazione della sua verità interiore44. Prima di essere preso sotto l’ala protettrice del professor Daumer, che assolve alla necessità

38 WERNER HERZOG. Incontri alla fine del mondo, op. cit., pp.138-­‐142.

39 cfr. GRAZIA PAGANELLI, Segni di vita. Werner Herzog e il cinema, Editrice Il Castoro, Torino, 2008, p.84

40 KASPAR in L’enigma di Kaspar Hauser, v. videografia in appendice.

41 cfr. PAOLO MEREGHETTI, Werner Herzog: un cinema aristocratico in cui l’individuo si oppone alla società, in «Cineforum» n°155, giugno 1976, p.362. 42 cfr. CARLO SCARRONE, La domanda scomoda, in «Filmcritica» n°317/318, settembre/ottobre 1981, pp.445-­‐447. 43 Anche la «Cronologia di Kaspar Hauser» presente nel libretto dell’edizione Ripley’s del dvd pare suggerirlo: «Kaspar viene trovato sulla piazza di Norimberga […]. Kaspar viene ferito la prima volta […]. Kaspar viene ferito la seconda volta. ecc. 44 «Kaspar era, nel senso più nobile, un essere senza cultura, senza linguaggio, senza civilizzazione […]. Non un idiota bensì un santo» WERNER HERZOG in L’enigma di Kaspar Hauser, op. cit., p.126.

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filantropica di assimilarlo, riassorbirlo, Kaspar viene addirittura esposto in un circo, accomunato ad altri freaks per il divertimento della gente. Nonostante la repellenza che suscita, infatti, cresce nel popolo la curiosità, la morbosità che porta a istituire una passerella per i monstrum che sfuggono alle spiegazioni razionali45. In una significativa scena, un bambino mostra a Kaspar uno specchio. Questo è proprio ciò che Kaspar sta facendo a tutti quelli intorno a lui: li sta obbligando ad affrontare la vita quotidiana con occhi nuovi46. Ma gli specchi deformanti dell’irregolarità devono essere eliminati per far sì che altri non possano riconoscervi le loro vere sembianze47. Kaspar diventa inquietante per tutti: è l’essere che svela i compromessi della cultura, con la forza del suo agire e vedere senza schemi (autodifensivi) razionalizzanti al momento del contatto col reale48. Pagherà la libertà del visionario, facoltà che gli oppressori non riescono a sopprimere in lui, con la morte, per mano dello stesso personaggio Sconosciuto che lo aveva portato alla luce. Costui è personificazione del braccio armato della società, per Attolini astrazione della società stessa, che si vendica del proprio fallimento assassinandolo49. Il mondo che non riesce ad accettare il fallimento dei propri metodi educativi e coercitivi è costretto ad eliminare quella macchia, quel buco nero, quell’onta, mistero, imprevisto, quella domanda scomoda50 che il puro Kaspar costituisce. O è un criminale, o viene dal nulla51. E nel nulla deve tornare: Kaspar sarà, per il futuro, solo un dilemma accademico, non più una persona viva. Kaspar in letto di morte decide di raccontare a chi lo assiste un proprio sogno: una carovana si sposta nel deserto ed è guidata verso le città del Nord da un vecchio cieco. Di queste città, della continuazione del sogno, Kaspar confessa di non sapere nulla: il sogno si può soltanto avvicinare a quello che intuisce come Assoluto, ma non ne riesce a descrivere la grandezza a parole. Forse è proprio la civiltà ad averlo allontanato dall’Assoluto, per aver spezzato quell’unità indifferenziata del puro stato vegetativo in cui sogno e realtà si confondevano52. Il sogno in ogni caso simboleggia il distacco ineluttabile dalla vita e dalla storia, la morte si presenta come una liberazione crudele ma necessaria da quell’inferno che a Kaspar era stato presentato come un paradiso terrestre, la via più rapida per il raggiungimento di un’estasi, di un’utopica

45 cfr. CARLO SCARRONE, La domanda scomoda, in «Filmcritica» n°317/318, settembre/ottobre 1981, pp.445-­‐447. 46 cfr. WERNER HERZOG, Incontri alla fine del mondo, op. cit., p.137. 47 cfr. LUCIA COLUCCELLI, Werner Herzog: “il venditore di fiammiferi”, in «Cinema e Cinema» n°11, aprile/giugno 1977, p.53. 48 cfr. FABRIZIO GROSOLI, ELFI REITER, Werner Herzog, op. cit., p.67. 49 cfr. GIOVANNI ATTOLINI, Ognuno per sé e Dio con Kaspar, in «Cinemasessanta» n°167, gennaio/febbraio 1986, pp.43-­‐46. 50 «Lo Sconosciuto che viene a colpirlo e ad ucciderlo è il braccio armato della società: l’eliminazione di una domanda scomoda» CARLO SCARRONE, La domanda scomoda, in «Filmcritica» n°317/318, settembre/ottobre 1981, pp.445-­‐447. 51 cfr. PAOLO SIRIANNI, Il cinema di Werner Herzog, La Nuova Italia, Firenze, 1980, p.66. 52 cfr. CARLO SCARRONE, La domanda scomoda, in «Filmcritica» n°317/318, settembre/ottobre 1981, pp.445-­‐447.

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perfezione53. La disillusione di Herzog dunque non riesce ad immaginare una ribellione finale, ma solo la morte di tutti coloro che hanno potuto considerare «gli uomini come dei lupi» e la propria apparizione nel mondo come una «caduta brutale»54. Nella scena finale, in una sala autoptica, razionalissimi dottori sezionano Kaspar e scoprono in lui una deformazione, una difformità biologica: ha il cervello più piccolo del normale. Era proprio quello che cercavano, e soddisfatti possono archiviare quel caso come una semplice aberrazione di natura. Il personaggio che nelle ultime inquadrature si allontana ripetendo che «finalmente per questa stranissima persona abbiamo trovato una spiegazione»55 simboleggia la società tutta: dopo aver annullato Kaspar, lo cataloga come fosse una farfalla da collezione e continua ciecamente per la propria strada, con le proprie convinzioni, verso uno sfacelo e una rovina che sono costituiti dalla perdita di ogni ricchezza portata dalle diversità. L’attore – non professionista - che interpreta Kaspar è lui stesso un escluso, Bruno S., scoperto grazie al documentario di Lutz Eisholz Bruno der Schwarze56 (1970): subito la vicenda umana di quest’uomo affascina Herzog. Bruno ha passato tutta l’età giovanile tra orfanotrofi e riformatori, è un uomo stralunato e alienato, vaga per Berlino suonando la sua fisarmonica e fruga nella spazzatura per cercare suppellettili utili ad arredare la propria abitazione. È la persona perfetta per interpretare Kaspar: come lui ha perduto l’infanzia e l’inserimento completo nell’ordine sociale gli riesce impossibile. Come lui, afflitto da grandi tare comunicative ma portatore di una ricchezza visionaria che lo accende di una vitalità commovente e illuminante. Proprio lui più di ogni altro può sentire profondamente la passione del personaggio che interpreta. Un Kaspar Hauser fattosi avanti prepotentemente dal mondo reale con la forza disarmante della propria innocenza57. Trasformo Bruno in qualcosa di ancora più grande, gli do una voce e costruisco un monumento per il soldato ignoto del cinema […]. Io non uso mai un attore, collaboro con lui, gli fornisco una faccia, una voce, sostanza, lo costruisco in modo da illuminare il pubblico […]. Bruno diventa talmente grande che i film che ho fatto con lui si trasformano in monumenti per i soldati ignoti58.

Per Barbera, Kaspar Hauser, oltre ad essere un dramma sul linguaggio, è un documentario su Bruno e la sua vita. Bruno è una delle presenze più inquietanti del cinema di Herzog, l’incarnazione stessa di una delle sue ossessioni più profonde. Nella sensibilità, disperazione e fragilità, nella incapacità di comunicare e nella solitudine di Bruno – qualità speculari a quelle di Kaspar – si riflettono le caratteristiche di tutti i personaggi che affollano i suoi film: […] un campionario di

53 cfr. ALBERTO BARBERA, Il rischio e l’estasi, in WERNER HERZOG, L’enigma di Kaspar Hauser, op. cit., p.10. 54 cfr. PAOLO MEREGHETTI, Werner Herzog: un cinema aristocratico in cui l’individuo si oppone alla società, in «Cineforum» n°155, giugno 1976, p.363. 55 L’enigma di Kaspar Hauser, v. videografia in appendice. 56 Bruno der Schwarze. Es blies ein Jäger wohl in sein Horn, v. videografia in appendice. 57 cfr. ROBERT FISCHER, JOE HEMBUS, PAOLO TAGGI, Il nuovo cinema tedesco, op. cit., pp.111-­‐112. 58 WERNER HERZOG in Intervista a Werner Herzog. Archeologo di un altro pianeta, a cura di ENRICO GHEZZI, in« Duellanti» n°36, ottobre 2007, pp.27-­‐32;

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mostri, dove le menomazioni fisiche più diverse e crudeli appaiono come altrettante manifestazioni di una mancanza fondamentale: l’incapacità o l’impossibilità di comunicare59.

Il regista conferma questa tesi: per lui infatti, quello che stavano facendo era anche un film su Bruno60. Herzog pochi anni più tardi deciderà di dedicargli un film quasi biografico, un tributo alle sue sofferenze e a quelle di chi come lui viene escluso dalla civiltà per la propria diversità mentale o percettiva: La ballata di Stroszek61. …Son nato troppo presto o troppo tardi? Che cosa faccio in questo mondo? O voi tutti, la mia pena è profonda: pregate per il povero Kaspar62.

59 ALBERTO BARBERA, Il rischio e l’estasi, in WERNER HERZOG, L’enigma di Kaspar Hauser, op. cit., pp.8-­‐ 9. 60 «Bruno si rendeva conto che il film, raccontando la storia dell’uccisione di Kaspar Hauser […] parlava di come lui stesso fosse stato distrutto dalla società. Forse è questa la ragione per cui ha preferito rimanere nell’anonimato» WERNER HERZOG in Incontri alla fine del mondo, op. cit., p.146. 61 v. videografia in appendice. 62 PAUL VERLAINE, Gaspard Hauser chante, nella raccolta Saggezza, 1880 (rist. Il Filo Editore, 2010).

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II/14 – La «nascita» di Kaspar

II/16 -­‐ Istruzione

II/18 – L’attentato

II/15 – Kaspar arriva in città

II/17 -­‐ Autorappresentazione

II/19 – Una visione di Kaspar

II/20,21 -­‐ Autopsia

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II.4 - L’ALIENATO: LA BALLATA DI STROSZEK Herzog gira La ballata di Stroszek nel 1976: come accennato, il film nasce dalla volontà di dar voce ad un personaggio che non è fittizio, fantasioso, è un uomo reale: Bruno S. (1932 – agosto 2010), alienato berlinese che aveva interpretato con risultati eccezionali Kaspar Hauser nell’omonimo film donandogli una ricchezza di verità come solo una persona effettivamente accomunata a Kaspar dalla vicenda umana poteva fare63. Il film è dichiaratamente fin dall’inizio progetto biografico, su misura: un remake simulatorio della vita di Bruno64: anche se le vicende narrate sono fittizie, gli attori mantengono il loro nome nella narrazione (Bruno, Eva Mattes – unica professionista – il signor Scheitz – matto nella realtà come nella finzione65 – ecc.) e di continuo la realtà fa capolino squarciando la finzione. I luoghi di Berlino mostrati sono quelli davvero frequentati da Bruno: la bettola dove va a bere e il vicolo dove si reca a suonare la fisarmonica, persino l’appartamento dove abita nella finzione, cosparso d’immondizia e di strumenti musicali, è quello che Bruno S. aveva potuto affittare con il compenso per L’enigma di Kaspar Hauser66. Esistono addirittura dialoghi non previsti dalla sceneggiatura in cui la finzione e la realtà diventano una cosa sola; quando per esempio Bruno racconta a Eva del trattamento subito negli orfanotrofi degli anni Quaranta, quando era costretto a tenere sollevate le lenzuola bagnate di urina fino a che non si fossero asciugate, si tratta di una commovente situazione reale poi utilizzata per rafforzare una scena del film: egli ha subito le violenze istituzionali riservate ai presunti ritardati mentali fin da bambino nei riformatori nazisti. Immensa quindi la forza di un’interpretazione che ancor più che in Kaspar Hauser è risultato di una storia vera, vissuta da una persona vera che porta sulla propria pelle, sui vestiti sporchi, sulla puzza che emana67, tutto ciò che ha sofferto, la sofferenza e la disperazione, che nel film sono concretamente palpabili. Emozionante la vitalità di un personaggio/persona che, come Kaspar Hauser, ha una percezione più ricca del mondo68, una speranza nel

63 «Bruno ha una straordinaria profondità e potenza e mi emoziona più di qualsiasi altro attore al mondo […]. Riesce ad irradiare una radicale dignità umana.» WERNER HERZOG. Incontri alla fine del mondo, op. cit., p.136. 64 cfr. FABRIZIO GROSOLI, ELFI REITER, Werner Herzog, op. cit., p.88. 65 «Hanno detto che Herr Scheitz ormai non ha più tutte le rotelle a posto. Ho risposto che non importava e che lo volevo comunque. Era un vecchietto affascinante, che tra due sorsi di caffè era capace di spiegarti il funzionamento del razzo che aveva appena costruito o che poteva dimostrarti, scribacchiando un paio di numeri sulla tovaglia di un ristorante, che Einstein e Newton erano dei pazzi scatenati.» WERNER HERZOG. Incontri alla fine del mondo, op. cit., p.175. 66 «Sappiamo che canta nei cortili, che commenta la propria pittura, che in lui si alternano rabbia, diffidenza e depressione. Tutto ciò deve diventare un monumento per Bruno […]. Quante volte Bruno sia stato picchiato nella vita, lo si capisce guardandolo […]. Ha un po’ quell’aria trasandata da animale maltrattato. Ma dietro c’è un uomo dai sentimenti delicati […]. Possiede ciò che solo pochi hanno: una luce interiore.» WERNER HERZOG in La ballata di Stroszek – Nosferatu, il principe della notte (due racconti cinematografici), op. cit., p.29-­‐32. 67 «L’unico a non sopportarlo era Herr Scheitz, che interpreta l’uomo anziano. Si lamentava sempre del fatto che Bruno puzzava» WERNER HERZOG. Incontri alla fine del mondo, op. cit., p.174. 68 «Ho tentato di sviluppare il suo personaggio intorno alla sua “follia” reale, o comunque la si voglia chiamare. Per me le cose che diceva avevano sempre senso.» WERNER HERZOG. Incontri alla fine del mondo, op. cit., p.176.

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futuro, nella possibilità di comunicare e di amare che finisce per spegnersi nella conclusione ma che continua ad emergere durante tutto il film. La vicenda: Bruno è un quarantenne berlinese appena uscito di prigione. Ha passato tanto tempo entrando e uscendo dal carcere a causa dei suoi problemi con l’alcol; i suoi unici amici sono un corvo69, un pianoforte70, l’anziano vicino di casa, il signor Scheitz, con qualche rotella fuori posto, convinto di aver fatto decisive scoperte sul magnetismo animale, ed Eva, prostituta. Quest’ultima e Bruno vengono maltrattati e malmenati dai protettori di Eva che mal sopportano il loro rapporto; insieme a Scheitz, per sfuggire a questa situazione di sofferenza, decidono di partire per l’America: il vecchio signore infatti ha un nipote che vive lì e potrebbe trovar loro un’occupazione. I tre intravedono la possibilità di cambiare la propria vita e decidono di lanciarsi nell’avventura: raccolgono i soldi necessari, arrivano negli Stati Uniti, acquistano una casa-roulotte e iniziano a lavorare. All’inizio sembra esserci la possibilità di un soddisfacente ménage piccolo-borghese. Ma l’America è diversa dal sogno che si erano immaginati71: New York è un crogiolo confusionario di masse inespressive. La pianura del Midwest dove si stabiliscono è grigia, cupa, novembrina, desolata e triste: è il palcoscenico dell’alienazione ultima72; il corvo viene requisito all’arrivo. Bruno non capisce una parola d’inglese – e questo lo fa rientrare con forza anche simbolica in questa categoria di personaggi perdenti perché non possono comunicare – e viene di conseguenza ridicolizzato dal datore di lavoro e dai camionisti della tavola calda dove lavora Eva; le conversazioni del messo bancario sono per lui del tutto incomprensibili. Eva dal canto suo dopo un po’ torna a prostituirsi abbandonando Bruno. La mobile-home viene sequestrata perché lui non riesce a pagarne le rate. La tragedia di Stroszek nasce dal confronto – scontro – tra individuo e ambiente73: se la violenza a Berlino era fisica e terribilmente tangibile, negli Stati Uniti le cose non cambiano. La violenza è la stessa, anche se più sottile, subdola e colorata di sogno americano. Le porte si chiudono ugualmente. Bruno e Scheitz, con un ultimo slancio di vitalità, progettano di rapinare una banca; ma è chiusa, così queste anime semplici si accontentano dei trentadue dollari presenti nella cassa di un barbiere. Scheitz viene immediatamente arrestato. Bruno, ormai persa ogni speranza, inizia a vagare finché non giunge ad una riserva indiana. Qui una scena surreale nella quale animali ammaestrati sono costretti a divertire i turisti: una gallina balla il boogie-woogie, un coniglio guida il camion dei pompieri. È come il circo dei freaks in cui era stato esposto Kaspar. Il protagonista manomette una seggiovia, vi sale e si spara. La seggiovia continua a girare imperterrita, fredda, spettrale e insensata, circolare simbolo di una situazione senza vie di fuga; nemmeno i poliziotti giunti sul luogo riescono a

69 Ricorrente l’amico corvo per i solitari: anche in La grande estasi dell’intagliatore Steiner, cfr. cap.IV.2, p.63 e in Nessuno vuole giocare con me, v. videografia in appendice. 70 «Se non avessi avuto questo pianoforte, chissà dove sarei finito» afferma Bruno. 71 «Io l’America me l’ero immaginata molto diversa» dirà Bruno. 72 cfr. GIORGIO RINALDI, La ballata di Stroszek, in «Cineforum» n°171, gennaio/febbraio 1978, p.71. 73 cfr. FABRIZIO GROSOLI, ELFI REITER, Werner Herzog, op. cit., p.88.

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fermarla. E d’altra parte quello è il loro unico interesse: sembrano ignorare la presenza di un cadavere74. Egli continuerà ad essere ignorato anche nella morte. Parabola tragica dunque quella di Bruno: se anche il finale di Kaspar Hauser conduceva alla morte una creatura non assimilabile nella società civile, ma con atto di forza proveniente dalla società stessa, nella ballata di Stroszek è Bruno stesso, disgustato e svuotato, a decidere che quello non è un mondo adatto a lui. Nella prima parte del film il protagonista era pieno di speranza e i personaggi al suo fianco fomentavano in lui l’anelito ad un riscatto: significativa la scena in cui il medico gli mostra come un neonato prematuro si aggrappi con caparbietà e incredibile vigore ad un appiglio – la vita – posto sopra di lui, che lo tiene sospeso75. Questa scena, secondo Sirianni, apriva «uno spiraglio molto bello di speranza che a vincere sia proprio quel corpo minuscolo che vuole crescere, contro l’assurdo conflitto che si determina fra titanismo e dissoluzione»76. Nel finale – inversamente – è lo stesso protagonista che dichiara la propria solitudine e l’inevitabile spegnersi di ogni energia vitale: «Mi hanno impiccato, appeso ad un albero. Sono sempre io a pagare, a pagare per tutti». Per Bruno non c’è conforto possibile se non la morte di fronte all’impossibilità di trovare ragioni positive, di sopravvivere nell’orrore della società, nelle sue strutture di oppressione, ora palesi ora mistificate, di fronte alla fatica, alla miseria e alla solitudine77. La disillusione è assoluta: l’Ottocento razionalista, illuminista che aveva annichilito Kaspar Hauser è lievitato ed è diventato il mondo occidentale di oggi: inumano, freddo e inerte per chi ne fa parte; invivibile, distruttivo, mortale per chi non può parteciparvi; i diversi, coloro che hanno difficoltà nel comunicare con gli altri: Bruno. E con lui Werner Herzog, che attraverso la storia della tranquilla anormalità di un emarginato, fa esplodere la folle normalità della vita quotidiana del Nuovo Mondo78. Intanto l’indiano della riserva, inconsapevole del dramma che la storia antica e la cronaca più recente hanno allestito sul palcoscenico della sua terra, con la sua estraneità fornisce l’ultima prova di una degradazione inconsapevole e quindi inarrestabile79.

Il paragrafo successivo sarà dedicato proprio a questi indiani, coloro cioè che pagano con l’estraneità e l’oblio il loro appartenere ad una cultura differente.

74 «Evidentemente per loro non c’è un morto ma solo lo skilift.» WERNER HERZOG in La ballata di Stroszek – Nosferatu, il principe della notte (due racconti cinematografici), op. cit., p.78. 75 cfr. FABRIZIO GROSOLI, ELFI REITER, Werner Herzog, op. cit., p.91. 76 PAOLO SIRIANNI, Il cinema di Werner Herzog, op. cit., pp.88-­‐89. 77 cfr. GIORGIO RINALDI, La ballata di Stroszek, in «Cineforum» n°171, gennaio/febbraio 1978, p.69. 78 Ivi, p.72. 79 Ivi.

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II/22,23 -­‐ Bruno in Germania

II/24 -­‐ Scena del neonato prematuro

II/25 -­‐ Bruno in America

II/26,27 -­‐ Mobile-­‐home

II/28 -­‐ La rapina

II/29 -­‐ La seggiovia

II/30,31 -­‐ Scena conclusiva: il circo degli animali

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II.5 - LA MORTE DEL LINGUAGGIO E DELLA CULTURA: DOVE SOGNANO LE FORMICHE VERDI Il tema dell’incomunicabilità emerge con forza in un gruppo di film nell’opera herzoghiana: quelli dedicati al soccombere di voci e culture diverse di fronte alla strategia del livellamento e della massificazione occidentale80. Gli esponenti di queste culture sono primitivi nel senso antropologico del termine: infatti riescono a comunicare, ma solo fra di loro; il mondo moderno, la globalizzazione, portano progressivamente a diminuire in numero queste sparute comunità, fino a distruggerle, causando la perdita non solo di un linguaggio, ma di tutta una cultura e una civiltà che dal linguaggio verrebbero ricordate e perpetuate81. Herzog sente come molto urgente la questione della perdita dei linguaggi e in generale la condizione di alterità sensoriale propria di altre culture, primitive. In I medici volanti dell’Africa orientale (1969) indaga le differenze percettive e culturali delle tribù africane: presso alcune di esse, scopre che il modo di vedere è completamente diverso da quello occidentale; infatti gli indigeni non riconoscono letteralmente le immagini – disegni del corpo e di animali – che vengono loro mostrate82. La percezione secondo Herzog è condizionata culturalmente: in società diverse, non solo il linguaggio e le convenzioni sociali sono differenti, ma anche le strutture percettive83. In Aguirre, furore di Dio (1972), una Bibbia viene offerta ad un indio della foresta amazzonica dicendogli che contiene la parola di Dio: quando egli, dopo averla accostata all’orecchio, afferma di non sentire nulla, viene giustiziato. In La ballata del piccolo soldato (1984) gli indios Miskito in Nicaragua vengono addestrati da bambini a combattere il comunismo incarnato nei sandinisti, ma alla domanda su cosa sia, non sanno rispondere. In Wodaabe – I pastori del sole (1989), una tribù nomade sahariana i cui componenti si considerano gli esseri umani più belli del mondo, si sente imprigionata benché libera, incatenata perché sradicata dalla propria identità e costretta ad abitare in una baraccopoli84. In Ten thousand years older (2001), si indaga su cosa sia rimasto di una vitale tribù indigena amazzonica scoperta solo nel 1981 quando viveva in una condizione di età della pietra - vent’anni più tardi; la risposta è tragica: gran parte degli indios sono stati falcidiati da banale influenza e i figli si vergognano delle proprie origini.

80 CLAUDIO GROFF in WERNER HERZOG, Cobra verde – Dove sognano le formiche verdi (racconti cinematografici), a cura di Claudio Groff, Mondadori, Milano, 1990, p.13. 81 Sul linguaggio e la trasmissione delle culture, cfr. cap. II.1, p.12. 82 Una voce fuori campo commenta in tono quasi affascinato: «Gli africani quando guardano le stesse cose che noi guardiamo, vedono qualcosa di assolutamente diverso da ciò che vediamo noi.» in I medici volanti dell’Africa orientale, v. videografia in appendice. 83 «Sappiamo pochissimo della visione, del processo di riconoscimento delle immagini e di come la mente le organizza e dà loro un senso. Dopo aver girato I medici volanti ho capito che la percezione è in qualche modo condizionata culturalmente e che in società diverse funziona in modo diverso.» WERNER HERZOG in Incontri alla fine del mondo, op. cit., p.66. 84 cfr. FABRIZIO GROSOLI, ELFI REITER, Werner Herzog, op. cit., p.125.

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II/32 -­‐ I medici volanti dell’Africa orientale: riconoscimento immagini

II/33 -­‐ Wodaabe, i pastori del sole

Ma la pellicola più significativa rispetto alla perdita di linguaggio e alla morte della cultura è certamente Dove sognano le formiche verdi (1984). In questo film, ambientato nelle sterminate pianure australiane, si narra la vicenda dello scontro tra la civiltà moderna e una civiltà primitiva: una società mineraria deve effettuare scavi e sondaggi in un territorio considerato sacro da una tribù di aborigeni: essi credono che in quel luogo sognino le formiche verdi, divinità protettrici la cui fuga causerebbe la fine del mondo. Infatti le formiche verdi sognano l’origine dell’uomo ed «erigono interi universi»85. Rinunciare a quella terra vuol dire distruggere l’elemento spirituale dell’uomo86. Via via che spariscono i luoghi fisici, svaniscono anche le tracce culturali: si pensi ad una scena nel film in cui alcuni maschi della tribù si ritrovano in una corsia del supermercato di recente costruzione perché è il luogo sacro per sognare i propri figli. Gli aborigeni si oppongono agli scavi e la compagnia inizia una serie di negoziati che hanno il solo risultato di convincere maggiormente gli indigeni dell’insensatezza della civiltà occidentale; tesi suggerita anche da un antropologo bianco pentito, passato dalla parte della tribù. Il protagonista, Hackett, direttore degli scavi, non è un pescecane come i burocrati della sua compagnia, i quali quando cercano di avvicinarsi agli aborigeni si comportano come se si trovassero di fronte a dei bambini; tenta di venir loro incontro e di capirli87. Ma è costretto ad ammettere che le possibilità di una condivisione, di una comprensione, di uno scambio, sono ormai perdute. «Pur con tutta la simpatia che ormai nutre verso i due aborigeni rimarrà sempre escluso dal mistero che li circonda»88. Herzog sembrerebbe identificarsi in Hackett quando afferma che «ci sono cose degli aborigeni che non capiremo mai e che sono magnifiche […]. Nutro un

85 WERNER HERZOG, Cobra verde – Dove sognano le formiche op. cit., p.87.

86 cfr. ROBERT FISCHER, JOE HEMBUS, PAOLO TAGGI, Il nuovo cinema tedesco, op. cit., p.211.

87 «Vorrei imparare a conoscere meglio gli aborigeni» dice HACKETT, WERNER HERZOG, Cobra verde – Dove sognano le formiche verdi, op. cit., p.123. 88 WERNER HERZOG, Cobra verde – Dove sognano le formiche verdi, op. cit., p.153.

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profondo rispetto verso di loro, verso la loro lotta per mantenere vive le proprie visioni»89. Le due civiltà non riescono a capirsi nemmeno se ci provano perché ormai lo scarto è troppo grande: da un lato gli aborigeni con la loro cultura originaria, il canto, il suono del digderidou90 e le lingue che quasi più nessuno parla. Dall’altro la moderna civiltà occidentale, bianca, meccanica, razionale, scientifica, esatta, con i propri orologi digitali muniti di sveglie che non si riescono a fermare91 e con i propri ascensori che non si riescono a far ripartire92. Noi occidentali siamo vaccinati rispetto all’intrusione dell’incongruo e dell’incomprensibile. In una scena, Hackett fa un sogno: un treno è in corsa verso un ponte spezzato e non si può fermare; la catastrofe dell’Occidente, per Herzog, sta nelle rigide categorie del pensiero – i binari del treno – e nell’impossibilità di riconoscere un’altra lingua che non sia la propria. Il nostro mondo viaggia verso un ponte che è crollato93; non potrà mai capire perché le formiche verdi devono continuare a sognare, e si avvia verso l’autodistruzione, come sostengono l’antropologo e il capo tribù: «la vostra civiltà distrugge tutto, e alla fine distrugge se stessa». «Voi bianchi siete smarriti nei vostri problemi. Siete smarriti, perché avete perso il contatto con la natura. Per questo siete sospinti così, senza meta. La vostra presenza sulla Terra si avvicina alla fine, senza senso, senza scopo, meta e direzione»94. Esclusa quindi ogni possibilità di mediazione, gli aborigeni si rivolgono al tribunale della corte suprema. Durante il processo, una delle scene cardine: uno degli aborigeni detto il Muto, tiene una lunga requisitoria nella propria lingua incomprensibile; il giudice chiede ai compagni di tradurre, ma non possono: infatti il Muto è l’ultimo discendente della propria tribù, è il sacro custode di un clan estinto, può parlare ma nessuno è in grado di capirlo95. È condannato al soliloquio: «egli è l’Unico e l’Ultimo del suo popolo. Per questo lo chiamano il Muto, perché non ha più nessuno con cui poter parlare»96. Il tribunale, pur riconoscendo il problema dei territori tribali, dà ragione alla compagnia mineraria: il progresso è più importante. E così i lavori continuano, le formiche verdi se ne vanno, gli aborigeni tentano di sostituirle simbolicamente con un aeroplano verde offerto precedentemente dalla compagnia come mezzo di persuasione, ma finiscono per schiantarsi sulle montagne. Come a dire: niente da fare,

89 WERNER HERZOG. Incontri alla fine del mondo, op. cit., p.241.

90 Antico strumento a fiato degli aborigeni australiani

91 Un orologio digitale giapponese donato al capo-­‐tribù non riesce ad essere stoppato nemmeno dal direttore della compagnia mineraria, neanche consultando le istruzioni: «Sono solo in giapponese», WERNER HERZOG, Cobra verde – Dove sognano le formiche verdi, op. cit., pp.127-­‐128. 92 Per due volte, durante la visita da parte dei capi aborigeni alla sede della compagnia, l’ascensore che dovrebbe portarli all’ultimo piano del grattacielo per stupirli di fronte alle grandezze della metropoli, si blocca. 93 cfr. GUALTIERO DE MARINIS, Dove sognano le formiche verdi, in «Cineforum» n°265, giugno/luglio 1987, pp.81-­‐84. 94 Battute dell’antropologo e del capo-­‐tribù in WERNER HERZOG, Cobra verde – Dove sognano le formiche verdi, op. cit., p.123. 95 cfr. ROBERT FISCHER, JOE HEMBUS, PAOLO TAGGI, Il nuovo cinema tedesco, op. cit., p.211. 96 WERNER HERZOG, Cobra verde – Dove sognano le formiche verdi, op. cit., p.146-­‐147.

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gli aerei-formica, frutto della civiltà, anche se verdi, non funzionano nei riti97. «Il terribile boato di una detonazione sconvolge ogni cosa […]. Ciò che resta è più nessuna formica. Ciò che resta è un nulla senza sogni, coperto di polvere»98. Nella sequenza finale, la predetta apocalisse sembra avverarsi: un ciclone si avvicina per distruggere un mondo in cui la morte della cultura e della diversità non è più un rischio evitabile ma una naturale catastrofe frutto dell’evoluzione del mondo moderno. Lo accompagna una didascalia: «piccola fine del mondo». L’uomo bianco s’impone ovunque con la forza distruggendo l’incanto delle altre culture. Il materialismo e la scienza sono campi minati intesi a distruggere l’armonia originaria della natura99. Ciò che è successo al Muto, la tragedia della fine di una cultura e di una civiltà prima o poi succederà anche a noi, pare ammonirci Herzog100. È assolutamente evidente, secondo me, che questa civiltà altamente tecnologica, sovrappopolata com’è, in combinazione con il nostro sconvolgente modo di pensare e di agire in quanto consumatori, non sia più a lungo sostenibile. Non dico che dobbiamo tornare alla precedente civiltà dei cacciatori, ormai ci sono troppe persone. Non possiamo tornare all’esistenza nomadica della preistoria perché quel che stiamo facendo è, in un certo senso, irreversibile. Tuttavia, ci saranno delle forze che ci regoleranno, e arriveranno piuttosto presto

101

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97 cfr. SILVANA CIELO, Quando “Fata morgana” prende il colore dei sogni delle formiche magnetiche, in «Filmcritica» n°376, luglio 1987, pp.434-­‐435. 98 WERNER HERZOG, Cobra verde – Dove sognano le formiche verdi, op. cit., p.88. 99 cfr. FABRIZIO GROSOLI, ELFI REITER, Werner Herzog, op. cit., p.115. 100 «Con il nostro sforzo di preservare le specie in pericolo, trascuriamo qualcosa di altrettanto importante. Per me, significa che siamo una civiltà altamente malata nella quale si accettano i fanatici degli alberi e delle balene, mentre nessuno si preoccupa dell’estinzione di una lingua parlata ormai da un solo uomo» WERNER HERZOG in Encounters at the end oh the world, v. videografia in appendice. 101 WERNER HERZOG in GRAZIA PAGANELLI, Segni di vita, op. cit., p.71.

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II/34 -­‐ Dove sognano le formiche verdi: il didgeridou

II/35 -­‐ Ribellione contro le ruspe

II/36,37 -­‐ Scontro fra civiltà

II/38,39 -­‐ Formiche verdi reali e simboliche

II/40 -­‐ Il Muto 30

II/41 -­‐ Scena finale: il ciclone


II.6 SGUARDI ALIENI Nell’ultimo paragrafo del capitolo sui Primitivi, un caso limite: quello dello sguardo alieno. In quella che dalla critica è stata definita trilogia fantascientifica – classificazione accettata anche se con riserva dallo stesso Herzog102 – troviamo un trio di film che propongono il discorso sulla comunicazione, sulla trasmissione di immagini e concetti, da un punto di vista quindi molto particolare. Già Kaspar era stato definito da Herzog stesso «un alieno che cade in quell’epoca»103; con Fata Morgana (1970), Apocalisse nel deserto (1992) e infine L’ignoto spazio profondo (2005), il regista sperimenta esplicitamente la possibilità di una visione differente di cose normali, esattamente cioè quella che potrebbero avere degli alieni appena arrivati sul nostro pianeta: al pari di Kaspar, questi personaggi stanno ai confini del nostro mondo, ne incrinano codici, significati e convenzioni. Riescono a vedere, ma cosa sentono? Cosa vedono? Cos’è ai loro occhi la realtà? Qual è il senso dei gesti che noi, di contro, ripetiamo con irriflessa abitudinarietà?104 Costoro non possiedono le strutture culturali adatte per interpretare il contesto: il significante c’è, ma si è persa la chiave del significato. In loro «le parole e le immagini hanno perso quello che Aristotele chiamava semantiké (il significato), conservano solo il valore di idea o, meglio, di segno (semeion)»105. Partendo quindi da immagini che per noi sono normali, banali, di tutti i giorni, Herzog attraverso il montaggio, la colonna sonora e soprattutto le didascalie, le presenta come fossero strane, misteriose e nuove; tenta di provocare una crisi, o almeno un arresto passeggero, dei nostri consueti meccanismi percettivi106. Con sguardo alieno osserviamo uomini, animali, paesaggi che si parlano senza mai capirsi107. Nascono così tre documentari atipici. Fata morgana viene concepito proprio come pellicola su degli alieni che, venuti da Andromeda, sbarcano sulla Terra. L’ispirazione fantascientifica si perde non appena iniziano le riprese; ma ciò che rimane continua ad essere uno sguardo alieno su un mondo che non presenta altro che tracce di una civiltà scomparsa108: un’ora e mezza di immagini di miraggi nel deserto accompagnate dalla musica, immagini strane che appaiono mai viste, dune che ricordano anatomie umane e personaggi stralunati e assurdi di cui non si vede mai bene la faccia – lontani o coperti da occhiali o maschere

102 cfr. GRAZIA PAGANELLI, Segni di vita, op.cit., p.166.

103 «Per me la storia di questo ragazzo è quasi come un racconto di fantascienza che riprende l’antica idea di uno sbarco alieno sul nostro pianeta. Non hanno nessun condizionamento sociale umano e camminano in giro confusi e sbalorditi. La vera domanda è forse antropologica: cosa succede a un uomo che si è schiantato sul nostro pianeta senza educazione e cultura? Cosa prova? Cosa vede? Come sarà trattato?» WERNER HERZOG. Incontri alla fine del mondo, op. cit., p.52. 104 cfr. FRANCESCO CATTANEO, L’amo della menzogna e la carpa della verità, in «Cineforum» n°462, 2007, p.53. 105 GRAZIA PAGANELLI, Segni di vita, op.cit., p.84. 106 cfr. FRANCESCO CATTANEO, L’amo della menzogna e la carpa della verità, in «Cineforum» n°462, 2007, p.52. 107 cfr. GRAZIA PAGANELLI, Segni di vita, op.cit., p.83. 108 cfr. DANIELE DOTTORINI, Essere esposti alla natura. Conversazione con Werner Herzog. In «Fata Morgana» n°6, settembre/dicembre 2008.

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– che sembrano davvero essere studiati da creature di un altro mondo. Come lo studioso di rettili ripreso in piani ravvicinati da un obbiettivo deformante o i due componenti di un penoso complessino musicale che cantano canzoni dal testo incomprensibile. Personaggi che per Grosoli diventano «gli ideali sopravvissuti di una catastrofe, gli esponenti tragici o grotteschi di un mondo in cui affiora la consapevolezza della perdita originaria dell’armonia e dove si vive ormai in un totale individualismo»109. Apocalisse nel deserto è costituito da immagini delle distruzioni e dello sfacelo causato dalla guerra del Golfo: misteriosi laghi di petrolio, lingue di fuoco e personaggi che dopo essere riusciti a smorzarne alcune, le riaccendono, perché «ora ci sia di nuovo qualcosa da spegnere»110. Anche questo film, similmente a Fata Morgana, è strutturato in una serie di immagini commentate da musica e didascalie; «non c’è neppure un singolo fotogramma che possa essere ricondotto immediatamente al nostro pianeta, eppure noi sappiamo che deve essere stato girato qui»111. In Apocalisse il discorso si fa più esplicito; la prima didascalia dichiara: «un pianeta del sistema solare». Immediatamente ciò proietta lo spettatore in una dimensione altra, come se fossero degli extraterrestri – in un rovesciamento di ruoli – a vedere l’uomo come una creatura ignota e a raccontarci ciò che percepiscono della nostra terra. Le didascalie continuano con questo tono di scoperta di un mondo, alcune in passato remoto per aumentare la distorsione, lo straniamento. O come se l’Apocalisse presagita nel finale di Dove sognano le formiche verdi sia infine avvenuta, distruggendo una forma di vita: la nostra112. Gli alieni s’incaricano di scoprire ciò che è rimasto nella cenere. «Il primo essere che incontriamo ci vuole comunicare qualcosa». «Vi avevano vissuto delle persone? Trovammo solo tracce». Le immagini di ruspe al lavoro diventano «sauri in viaggio»113. Gli alieni visitano questa terra martoriata, le riprese sono effettuate in gran parte dall’alto a bordo di elicottero e danno ancora di più l’impressione di essere osservazioni di un ufo in viaggio. Infine in L’ignoto spazio profondo, film ingegnosamente costruito quasi esclusivamente con filmati di repertorio della NASA, interviste a scienziati stravaganti e riprese di alcuni sub sotto la calotta antartica, ogni metafora è lasciata da parte. Herzog riprende l’intenzione che aveva nel 1970 quando iniziò a girare Fata morgana: un alieno – geniale presentarlo di aspetto completamente umano114 – guida il nostro sguardo, ci indica cosa vedere e come interpretare quello che è mostrato115. Ci narra le

109 FABRIZIO GROSOLI, ELFI REITER, Werner Herzog, op. cit., p.43.

110 Didascalia in Apocalisse nel deserto, v. videografia in appendice.

111 WERNER HERZOG. Incontri alla fine del mondo, op. cit., p.285.

112 Grosoli legge Apocalisse nel deserto come un’esplicita visione apocalittica del mondo tecnologico in cui si rappresenta «la perdita di sé, dell’uomo stretto dalla spirale del potere e del dominio». FABRIZIO GROSOLI, ELFI REITER, Werner Herzog, op. cit., p.132. 113 didascalie in Fata morgana, v. videografia in appendice. 114 L’attore Brad Dourif. 115 cfr. GRAZIA PAGANELLI, Segni di vita, op.cit., p.164.

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vicende della sua gente, extraterrestri provenienti da Andromeda. Il loro sole stava morendo; arrivati sulla terra con grandi propositi di conquista – esclusivamente commerciale – sono rimasti delusi dall’insuccesso dei loro risultati e dall’indifferenza terrestre. Avendo però portato con sé malattie aliene – come i bianchi con gli indios di Ten thousand years older116 – costringono gli uomini ad avventurarsi a loro volta nell’ignoto spazio profondo per trovare altri pianeti abitabili, fino a giungere su Andromeda, pianeta da cui erano partiti gli alieni; gli astronauti esplorano l’atmosfera di ghiaccio ed elio liquido del pianeta, osservano le forme di vita: allo spettatore vengono mostrate immagini di subacquei in un ambiente glaciale che raccolgono campioni di terra e analizzano alghe ed esseri dei fondali marini. Ma ormai le immagini hanno acquistato una fisionomia talmente estranea da essere credibili. Il film si conclude con gli astronauti terrestri che diventano idealmente alieni loro stessi, nel momento in cui tornano sulla Terra; infatti sono passate centinaia di anni e il pianeta è diventato una riserva naturale, senza più alcun artefatto umano. È diventato quel pianeta sconosciuto, sfuggito ad una creazione fallita o passato per un’apocalisse, di Fata morgana e di Apocalisse nel deserto. La spirale che collega alieni e terrestri è vorticosa, non è più chiaro chi sia chi. Chi sono questi alieni che vedono la terra per la prima volta? Siamo noi? È la Terra o no quella che ci viene mostrata? Brad Dourif è umano o no? L’ignoto spazio profondo si pone cronologicamente all’inizio della trilogia, alla fine, o tutto sommato si tratta di un circolo senza capo né coda? Le incognite e le soluzioni si sovrappongono e s’intrecciano e ricordano che la condizione di alieno, e quindi di Primitivo, di escluso, di emarginato e di diverso è sempre dietro l’angolo per ogni civiltà in ogni epoca, in passato come in futuro. Compito dell’uomo è di preservare, per quanto possibile, le forme di comunicazione che sono rimaste. Unica possibilità di temporanea salvezza, la comprensione.

116 v. videografia in appendice.

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II/42 -­‐ Fata Morgana

II/43 – Lo studioso di rettili

II/44 -­‐ Apocalisse nel deserto: paesaggi alieni II/45 -­‐ «Il primo essere che incontriamo…»

II/47 -­‐ L’ignoto spazio profondo II/46 -­‐ «…di nuovo qualcosa da spegnere.»

II/48 – Filmati NASA 34

II/49 -­‐ Brad Dourif, l’alieno di Andromeda


III. I TITANI III.1 – LIMITE, HYBRIS, CADUTA, SPIRALE, CIRCOLO VIZIOSO I Primitivi, secondo la classificazione proposta da Deleuze1, erano i piccoli personaggi, i portatori dell’Idea. Ma esiste un altro tema nel cinema di Herzog che si traduce in una tipologia completamente diversa di figure e che lui propone anzi come primario, anteponendolo a quello dei Primitivi: si tratta del tema nel quale «un uomo uso alla dismisura colma un ambiente esso stesso smisurato, e concepisce un’azione tanto grande quanto l’ambiente […]. Un’impresa folle nata dalla testa di un visionario». Deleuze inoltre divide in due ulteriori parti questa tematica. Infatti il gesto smisurato provoca una sorta di «sdoppiamento tra un’azione sublime, destinata a restare sospesa […] e un’azione eroica che trova nell’ambiente il suo interlocutore»2. In questo capitolo saranno trattati quei film che presentano dei Titani, personaggi i quali riversano appunto nell’ambiente la propria – più o meno titanica ma sempre disperata e intensa – forza nel tentativo di compiere un gesto eroico, un’impresa, di superare un limite o di liberarsi da una condizione di prigionia; non mancano di una buona dose di ottusità caratteriale: irreparabilmente soli con la stella della propria ossessione, tutto il resto è cancellato ai loro occhi, e ciò li rende disposti a qualsiasi eccesso3. Profondamente differente l’approccio titanico al reale dalla semplice distanza dal mondo, svuotata da velleità rivoluzionarie, di personaggi come Kaspar o come Bruno4. Eroico come scontro con la realtà fisica, scontro reale e terribilmente concreto che non lascia spazio al Sublime5, alla metafora, alla trasposizione onirica o simbolica del desiderio di conquista; per questo decollo mancato il Titano paga con una rovinosa caduta in quel baratro che è il Limite, tanto appetibile quanto insuperabile, a pochi centimetri dal quale si situa la cinepresa di Herzog, precariamente appoggiata sul bordo del crepaccio6. Sull’eroica dissoluzione dell’eroe si pronuncia esplicitamente il regista quando afferma di ritenere che i personaggi dei miei film siano quasi degli eroi. Delle figure eroiche. Eroi nella misura in cui superano le loro condizioni, escono dal proprio schema e vanno ben oltre le loro possibilità, prima di fallire di fronte a questa enorme sfida […]. Questo mi fa sempre pensare alla fisica o alla chimica, quando si fanno ricerche su un materiale sconosciuto: lo si sottopone a delle pressioni, temperature e radiazioni estreme, e in questo modo si riescono a determinare le sue qualità intrinseche. Spesso succede che una pressione eccezionale provochi la dissoluzione del materiale. In questo si inserisce una buona dose di

1 cfr. cap.I.3, pp.7-­‐8.

2 GILLES DELEUZE, L’immagine-­‐movimento, Ubulibri, 1993, pp.212-­‐214.

3 cfr. JONNY COSTANTINO, Sogni snaturati nelle fauci del vuoto, in «Carte di cinema» n°20, gennaio/aprile 2007, p.8. 4 L’enigma di Kaspar Hauser, La ballata di Stroszek, cfr.cap.II.3,II.4, pp.15-­‐25. 5 Sul Sublime, cfr. cap.IV.1, p.57. 6 cfr. FRANCESCO GORI, ANDREA SARTINI, Il desiderio dell’opera, in «Rifrazioni» n°2, gennaio 2010, p.38.

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grottesco. In tutta una serie di film […] il personaggio viene distrutto in modo grottesco da questo 7

desiderio. […] I personaggi ne vengono quasi deformati .

Il Titano è inoltre eroe nell’accezione tragica del termine, colui che compie il gesto imperdonabile perché ciò è nella sua natura; pur conoscendo le conseguenze nefaste del proprio agire non può farne a meno, cerca fino all’autodistruzione di congiungersi con la propria spinta vitalistica fino a giungere alla dismisura, alla tracotanza, alla hybris, e dunque alla punizione e all’umiliazione. I Titani «muoiono perché osano sfidare gli dèi. La loro morte è inevitabile, come l’assurdo destino di Sisifo o di Prometeo, che finiscono con il pagare la loro colpa»8. Si è parlato inoltre del cinema di Herzog come «ultimo grande anelito al sublime romantico che la nostra epoca conosca»9 per quanto riguarda la frequentazione assidua del limite e lo sforzo sovrumano per superarlo e sostenere lo sguardo di Medusa, l’esposizione al Mostro, da parte di corpi soggetti all’immane potenza dell’assoluto. La figura del Titano, solitario, maledetto, folle, attraversa a balzi tutta la filmografia del cineasta: dal primissimo esordio del 1962, con il cortometraggio Herakles10, in cui con leggera ingenuità si ironizza sul culturismo e sulle possibili fatiche di un Ercole moderno; l’iniziale distacco, lo scetticismo con il quale sono presentati i forzuti scomparirà progressivamente: il titanismo eracleo, qui deriso, sarà sentito in un’accezione molto più drammatica, sofferta e partecipe già a partire da Segni di vita11 (1968) e giungerà a poco a poco alla tragicità più estrema e disperata. Nell’ultimo prodotto documentaristico dell’autore, Encounters at the end of the world12 (2007), si presenta fra le altre la vicenda di alcuni pinguini che, presi da una sorta di follia – «ne hanno avuto abbastanza della propria colonia» ci suggerisce Herzog –, abbandonano il branco e partono in linea retta verso i monti, soli, alla volta di una morte assicurata. Niente può riuscire a dissuaderli dal loro titanico proposito. Ci sarà una motivazione valida? La possibilità è lasciata in sospeso, ma la convinzione del regista è che i binari del razionale, in ribellioni come questa, si perdano in nebbie dalla profondità insondabile. Si è accennato all’irraggiungibilità del limite: necessario però notare che esiste la possibilità tutt’altro che remota, che questo tanto agognato limite da superare per giungere a qualcosa d’altro, in realtà non esista; la figura del cerchio13, che ritorna

7 WERNER HERZOG in Il mondo contemplativo di Werner Herzog, v. videografia in appendice.

8 WERNER HERZOG in GRAZIA PAGANELLI, Segni di vita. Werner Herzog e il cinema, Editrice Il Castoro, Torino, 2008, p.25. 9 FRANCESCO GORI, ANDREA SARTINI, Il desiderio dell’opera, in «Rifrazioni» n°2, gennaio 2010, p.39. 10 v. videografia in appendice. 11 cfr. FABRIZIO GROSOLI, ELFI REITER, Werner Herzog, Editrice Il Castoro, Milano, 1994 (rist. 2000), p.23. 12 v. videografia in appendice. 13 In Anche i nani hanno cominciato da piccoli una camionetta gira ininterrotta su se stessa, allo stesso modo del citato furgone nonché della seggiovia in La ballata di Stroszek; In Aguirre, furore di Dio la scena finale propone una zattera che ruota senza controllo sul Rio delle Amazzoni.

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ossessivamente in particolare nei film titanici di Herzog14, quasi sempre opposta alla facile e sicura linearità di chi procede sotto il segno della razionalità e del logos15, offre uno spunto per suffragare questa ipotesi. Il cerchio per Herzog simboleggia una situazione senza uscita, un circolo vizioso egualmente centrifugo e centripeto, ineludibile e infinito. Un cane che rincorre e tenta di azzannare la propria coda. E allora, il limite esiste davvero? O è solo la coda di questi titani, che nel tentativo di superarlo/superarsi si consumano della loro stessa bruciante, autolesionistica passione? In questo caso, non sarebbe tanto la soglia del temerario, dell’impossibile, del tremendo, quindi in estrema sintesi la Natura, l’altro, a causare la rovina dei titani, ma al contrario loro stessi, l’Io che si autodistrugge in una Natura che tuttalpiù rimane indifferente e silenziosa. Più probabile l’ipotesi che le due possibilità s’intersechino e si combinino: in Segni di vita16 (1968) sembra prevalere una dimensione di follia esclusivamente masochistica, causata secondo Ghezzi dall’«impossibilità di stare in un luogo, in un ruolo, volontà di essere fuoco d’artificio e come fuoco d’artificio dissolversi, di essere quindi arte, poesia già dissolta, l’unica possibile e per questo così intensa»17. In Aguirre, furore di Dio18 la situazione pare invece scatenata da una sorta di sfida e conseguente scontro aperto con la Natura. Ciò che rimane, che il limite sia un raggiungimento effettivo – con annessa caduta – del baratro, o che sia in realtà una Fata Morgana, miraggio perpetuo che consuma il cercatore, è la medesima sconfitta, rovina, morte.

III/1 – Herakles

III/2 – Pinguino impazzito in Encounters at the end of the world

14 ENRICO GHEZZI definisce l’opera herzoghiana «cinema della circolarità e del tempo sospeso e dall’altra parte della fisicità, per spaccare questa circolarità» in Una videocosa, v. videografia in appendice. 15 cfr. FABRIZIO GROSOLI, ELFI REITER, Werner Herzog, op. cit., pp.19-­‐20. 16 cfr. cap.III.2, p.38. 17 ENRICO GHEZZI, Una videocosa, v. videografia in appendice. 18 cfr. cap.III.3, pp.43-­‐49.

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III.2 – ANCHE I TITANI HANNO COMINCIATO DA PICCOLI Così come l’esordio assoluto Herakles, anche il primo lungometraggio herzoghiano, Segni di vita19, può essere annoverato tra i film titanici. Esso narra della convalescenza del soldato tedesco ferito Stroszek su un’isola dell’arcipelago greco, Kos, durante la seconda guerra mondiale. Le giornate passano noiose e lente, fino a che un giorno la follia coglie Stroszek: una follia che consiste nell’uscire dalle convenzioni del mondo, nel prendere coscienza di non averne mai fatto parte; una dichiarazione di estraneità a ben vedere comune a tutti i personaggi del cinema di Herzog20. Il soldato intraprende una rivolta titanica e totale contro i suoi stessi compagni, la moglie, il paese; progetta di ribellarsi addirittura contro il Sole21: la guerra alla luce con le sue stesse armi, i fuochi d’artificio, è l’unico gesto possibile per «far tremare la terra» e far uscire ciò che «si nascondeva nelle case»22. Gli esiti saranno ben magri: mirando sulla folla Stroszek riesce a colpire solo un somaro e tentando d’incendiare il Sole e l’universo tutto, brucia solamente una sedia. Scacco derisorio, consapevolezza dell’inanità dello sforzo umano di attuare una sommossa totale. Herzog però ci dice che pur nella sconfitta, in qualche modo, i personaggi come lui sono figure che vedono di più23; non a caso la pazzia del protagonista si scatena quando egli guarda un assurdo, onirico spettacolo di migliaia di mulini a vento. Ciò nonostante la sconfitta rimane inevitabile perché pur vedendo più lontano degli altri, i titani organizzano rivolte fisiche, vogliono sovvertire il mondo reale: la Natura li divora e li annienta con la sua terribile violenza senza nemmeno accorgersene. La voce narrante che accompagna le immagini finali spiega che Stroszek «nella sua ribellione aveva iniziato qualcosa di titanico, perché l’avversario era molto più forte di lui. Così aveva miseramente fallito, come tutti i suoi simili».

III/3 – Il soldato Stroszek

III/4 – «Egli però non riuscì a incendiare il sole sparandogli»

19 v. videografia in appendice.

20 cfr. GRAZIA PAGANELLI, Segni di vita, op. cit., p.15.

21 «In uno scatto d’ira dichiarò guerra a tutti. Alla prima alba si ribellò perfino contro la luce del sole urlando che si poteva affrontare la luce solo con la luce […]. Egli però non riuscì a incendiare il sole sparandogli». Voce narrante in Segni di vita. 22 Voce narrante in Segni di vita. 23 cfr. cap.I.3, p.7.

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Anche i nani hanno cominciato da piccoli (1970) è il secondo lungometraggio di finzione24 del regista; è la vicenda di un istituto di rieducazione per nani i cui ospiti decidono di ribellarsi contro il maestro – nano pure lui –, il direttore e le vessazioni alle quali sostengono di essere sottoposti, come l’obbligo di innaffiare i fiori e di mangiare cibi sgraditi25. Bramano inoltre essere semplicemente notati, rovesciare la loro condizione di esclusi e di invisibili, come più volte affermano: «quando siamo buoni nessuno se ne accorge, ma se sbagliamo non ve ne dimenticate mai»26. Ne deriva una situazione di confusione totale; essi giocano alla rivolta nichilista, anarchica27: impediscono al maestro – che tiene in ostaggio un loro compagno – di uscire dal proprio ufficio e iniziano a distruggere e a saccheggiare l’istituto. Ma tutto lo slancio iniziale si consuma in azioni violente che non portano a nulla, non smuovono niente. Come in una rivolta di bambini28, i nani si abbandonano gioiosamente e malignamente a vandalismi e atti di crudeltà gratuiti contro cose, animali, perfino contro i più deboli fra loro: uccidono una scrofa, fanno combattere dei galli fra loro e vessano due compagni nani ciechi. Ciò che rimane è una «volontà di cannibalismo e defecazione degli idoli del potere, scatenamento – ma non consumazione – di impulsi di morte»29. In un crescendo sempre più frenetico viene abbattuta la palma preferita del direttore, si tenta di convincere una coppia ad utilizzare il letto dello stesso per spiarne gli sviluppi, vengono bruciati i fiori, viene benedetta una tavola imbandita il cui cibo sarà poi usato come arma da lancio, si dà vita ad una blasfema processione con una scimmia crocefissa. La sequenza finale vede il nano protagonista – Hombre – in preda ad un riso meccanico, isterico, agghiacciante, mentre contempla l’agonia di un dromedario inginocchiato che sembra non riuscire a rialzarsi da quella posizione assurda e penosa; come afferma Sirianni, «tocca a lui, testimone fino a quel momento dell’idea per cui “c’è sempre qualcuno più piccolo”, trasformare il messaggio in “c’è sempre qualcuno più debole”»30. La risata è rotta da convulsi colpi di tosse che ne amplificano l’aspetto grottesco, sforzato. Si capisce che non è rimasto più niente da bruciare, distruggere, profanare; la repressione non è mostrata ma incombe imminente. All’isolamento, alla crudeltà di quello stesso invivibile mondo in cui Kaspar e i sordociechi31 vivevano la propria passione e soccombevano, i nani rispondono con una ribellione; ma è solo un atto disperato su cui si richiudono immediatamente la

24 Tra Segni di vita e Anche i nani hanno cominciato da piccoli cronologicamente si situano infatti i due corti Ultime parole e Provvedimenti contro i fanatici, nonché il documentario Fata Morgana trattato nel cap.II.6, pp.31-­‐32. 25 «Basta con il latte in polvere, e innaffiare i fiori!», esclama uno dei nani. «Bruciamo tutto! Bruciamo il granaio!» grida un altro. 26 E anche: «Vogliamo divertirci anche noi! […]. Dobbiamo fare un casino, tanto se facciamo i bravi o no non ci trattano bene comunque […] Mi sembra proprio una vita di merda […]. Battute dei nani. 27 cfr. CALLISTO COSULICH, Il mondo di Werner Herzog, in «Cinemasessanta» n°120, 1968, p.24. 28 Ivi. 29 FABRIZIO GROSOLI, ELFI REITER, Werner Herzog, op. cit., p.46. 30 PAOLO SIRIANNI, Il cinema di Werner Herzog, La Nuova Italia, Firenze, 1980, pp.28-­‐30. 31 Paese del silenzio e dell’oscurità, L’enigma di Kaspar Hauser, v. videografia in appendice e cap.II.2/II.3, pp.11-­‐21.

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desolazione e la sconfitta32, sia perché nessuno assiste33 ad una rivolta partorita proprio con l’intento di sfondare un’indifferenza, sia perché i nani a causa della loro statura non riescono nemmeno ad aprire le porte. Troviamo qui la circolarità bloccata di cui accennato34: una camionetta viene costretta a girare in tondo all’infinito e il suo moto al centro del cortile occupa, anche se in sfondo, una buona metà della pellicola, finchè non viene gettata in un altrettanto significativo crepaccio. Simbolo della spirale senza vie di fuga che costringe gli illusi ribelli ad una giostra infinita, giostra sulla quale i bambini/nani paiono divertirsi un mondo – ridono in continuazione – ma dalla quale non possono scendere né giungere ad una qualche risoluzione. Il realismo che mostra tutto, che presenta le esplosioni di violenza con estrema freddezza e distacco, è impressionante, scioccante per lo spettatore35. Tanto più che una categoria come quella dei nani, normalmente calamita di sentimenti di pietà, viene presentata come una congrega di folli, masochisti e insensati aguzzini. Già Buñuel sapeva che è intollerabile che si mostri come malvagio ciò che borghesemente è destinato a suscitare pietà36. Gli equivoci nascono quando lo spettatore si sforza di razionalizzare ed esorcizzare il suo disagio; all’autore si attribuiscono allora intenzioni negative pertinenti al campo rassicurante del logos: una posizione morale aberrante verso i deformi oppure la volontà di costruire un facile apologo dal sapore reazionario sull’inevitabile fallimento di ogni rivoluzione spontanea37. Ma ciò che per Grosoli risalta fin dalle prime inquadrature è «il senso di assoluta necessità di questa rivolta, che pure contiene in sé, immediatamente, i germi dell’impotenza»38. Quello che sfuggì e sfugge tuttora agli indignati, è stato fatto presente più volte esplicitamene da Herzog: per lui infatti, non sono quei nani ad essere abnormi, sono gli oggetti intorno a loro, il mondo esterno, i comportamenti, che sono diventati abnormi. Abnormi fino all’insopportabilità; da qui la rivolta […]. Kaspar Hauser, quei nani, cosa sono in fondo? Un concentrato di umanità, una umanità che anela alla propria dignità, alla propria norma, e che, perciò, si ribella, o tenta di ribellarsi, alla società attorno che – 39

invece – è abnorme: non le dà spazio, respiro .

La questione quindi è solo ottica: non c’è una vera e propria difformità ma un difetto di proporzioni; gli oggetti (la maniglia della porta, la motocicletta, il furgone, il letto) – che appaiono giganti – sono in realtà fuori misura e propongono la tirannia della realtà

32 cfr. LUCIA COLUCCELLI, Werner Herzog: “il venditore di fiammiferi”, in «Cinema e Cinema» n°11, aprile/giugno 1977, p.53. 33 Il maestro minaccia di chiamare la polizia ma nessuno si fa vivo, il direttore non torna e l’unico arrivo, una macchina accolta con trepidazione dai rivoltosi, si rivela una delusione: il conducente è un’ennesima nana. L’incipit del film è un flashforward che mostra l’interrogatorio dei nani alla centrale di polizia, ma i poliziotti non si vedono mai. 34 cfr. cap.III.1, pp.36–37 35 cfr. GRAZIA PAGANELLI, Segni di vita, op. cit., p.31. 36 cfr. FABRIZIO GROSOLI, ELFI REITER, Werner Herzog, op. cit., p.46. 37 All’uscita del film il regista venne accusato di propensioni politiche vicine al fascismo. 38 FABRIZIO GROSOLI, ELFI REITER, Werner Herzog, op. cit., p.46. 39 WERNER HERZOG in GIAN LUIGI RONDI, Il cinema dei maestri. 58 grandi registi e un’attrice si raccontano, Rusconi Libri, Milano, 1980, p.331.

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contro i protagonisti. C’è la precisa volontà di riprendere dal punto di vista dei nani: «in tal modo ogni cosa, tranne loro stessi, sarebbe stata sproporzionata»40. Non a caso la ribellione rimane all’interno dei confini di una comunità in cui non vi sono adulti o normali. Ma se i nani sono troppo piccoli solamente in rapporto alla realtà circostante, chi sono questi nani in fin dei conti se non proprio noi, eterni titani dalle frustrate ambizioni di fronte ad una Natura che respinge i nostri tentativi di conquista e d’imperio su di lei? Su questa possibilità di nuovo Herzog si esprime personalmente con precisione: «c’è un nano in ciascuno di noi. E questo per noi è un incubo, lo è a tal punto che non riusciamo a esprimerlo»41. Il regista, che notoriamente rifiuta la psicologia e tutto ciò che vi è legato42, stavolta però di fatto propone esplicitamente una soluzione psicoanalitica: i nani del film sono quelli presenti nell’inconscio di ciascuno di noi e proprio per questo sono tanto terribili alla vista, obbrobriosi, sconvolgenti; l’incubo, l’eccesso, l’allucinazione stanno negli occhi di chi li osserva, quindi nei nostri, spettatori quasi inconsapevoli del nero delle nostre angosce43. La loro rivolta appare scioccante perché è segnata da una sconfitta che è la nostra, ogni qualvolta tentiamo di signoreggiare su di una Natura di cui non riusciamo nemmeno ad arrivare alla maniglia d’ingresso. Anche gli uomini hanno cominciato da piccoli, dunque; le batoste non sono servite a scornarli ma d’altra parte le aumentate capacità fisiche proprie della maturità corporea non hanno certo modificato in misura sensibile la condizione di nullità nei confronti dell’enormità del naturale: e così i tentativi adulti di rivolta saranno quelli più violenti ma anche quelli repressi con maggior intransigenza. La sommossa dei Nani era condita d’indifferenza e si concludeva con un banale arresto; quella degli Uomini sarà punita con la rovina e con la morte.

40 WERNER HERZOG. Incontri alla fine del mondo. Conversazione tra cinema e vita, a cura di PAUL CRONIN e FRANCESCO CATTANEO, Minimum Fax, 2009, p.78. 41 WERNER HERZOG in L’enigma di Kaspar Hauser, a cura di SANDRO PETRAGLIA, SIMON MIZRAHI e ALBERTO BARBERA, Feltrinelli, Milano, 1979, p.126. 42 «La psicologia illumina tutto e rende gli uomini ostili». WERNER HERZOG in Io sono i miei film, v. videografia in appendice. 43 cfr. GRAZIA PAGANELLI, Segni di vita, op. cit., p.88.

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III/5 – La maniglia della natura

III/6 – la palma del direttore

III/7,8 – Questione ottica: la motocicletta, il letto

III/9 – Blasfema processione

III/10 – Esiti: un furgone gira in tondo, una sedia brucia

III/11,12 – Scena finale: «c’è sempre qualcuno più debole» 42


III.3 – UOMINI FORTI: AGUIRRE, FURORE DI DIO Le leggi della fisica insegnano che quanto più grande è la forza peso di un corpo, la spinta che esso imprime ad una superficie, tanto più aumenta proporzionalmente l’attrito con il quale il terreno lo frena. Una metafora banale per capire come una situazione di smacco annunciato non possa essere modificata dall’incremento delle forze in campo; il rischio è piuttosto il peggioramento, lo scatenamento di controtensioni talmente possenti da spazzare via qualsiasi volontà di potenza. È così nella serie di opere in cui Herzog ci presenta come protagonista l’«uomo forte»44, che vuole inserirsi nella Creazione e la fa sprofondare: il soldato, il conquistatore, lo schiavista, il politico, il dittatore, l’imperatore. Tutte figure storiche della dismisura, che si misurano con il limite più terreno che ci sia, la febbre dell’esercizio del potere di un uomo sui suoi simili. Cobra Verde (1987) è «un film sulle grandi fantasie e follie dell’animo umano»45, storia dell’omonimo bandito brasiliano, pura essenza della violenza, «solitario tra i solitari»46 che non si fida di nessuno e non ha «mai avuto un amico in tutta la vita», il quale viene spedito in una missione suicida in Africa a comprare schiavi per le piantagioni di zucchero. Attraverso la violenza del proprio impeto e la propensione alla sopraffazione, inizialmente riesce nei propri intenti, arrivando addirittura a diventare viceré. Lui che nelle prime scene del film sembrava desiderare solamente un amico e «andare via di qui, verso un altro mondo» dove rinascere. Il tentativo di possedere materialmente degli schiavi per supplire alla mancanza di relazioni non è certo la soluzione adatta, se ne accorgerà presto Cobra Verde: il successo ha vita breve, il suo cuore «si fa ogni giorno più freddo»47, la schiavitù viene bandita e ogni cosa si rivolta contro di lui. Nel finale del film, oramai rovinato, il protagonista tenta di spingere in mare una gigantesca scialuppa per fuggire via, ma non riesce a smuoverla nemmeno di un metro, mentre forti ondate lo respingono frustrando ancora di più i suoi titanici e disperati sforzi, ormai totalmente vani, di imporre il proprio Sé all’universo. Bokassa – Echi da un regno oscuro48 (1990) è un documentario su un personaggio storico reale: il generale Jean Bedel Bokassa, ufficiale africano dell’esercito francese, che negli anni ’80 scalò la gerarchia militare fino a proclamarsi imperatore dell’Africa centrale. Una figura che nella sua documentata realtà sembra ancora di più frutto di una fervida fantasia49. Tiranno brutale, sanguinario, picchiatore, torturatore, cannibale, Bokassa – preso da un delirio di onnipotenza – si considerava discendente dei faraoni d’Egitto e di Napoleone. Figura affascinante per il regista in quanto «sembra dar voce

44 «Ho sempre avvertito una notevole affinità con gli uomini forti». WERNER HERZOG. Incontri alla fine del mondo, op. cit., p34. 45 WERNER HERZOG. Incontri alla fine del mondo, op. cit., p.245. 46 Battuta di un vecchio cantastorie nella prima scena di Cobra verde. 47 Battute di Cobra Verde. 48 v. videografia in appendice. 49 «Echi da un regno oscuro, il film che ho girato su di lui, è un tentativo di esplorare i paesaggi oscuri del cuore dell’uomo». WERNER HERZOG. Incontri alla fine del mondo, op. cit., p.250.

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a quella tenebrosità umana che si trova in Nerone o in Caligola, Hitler o Saddam Hussein»50. Come il suo idolo Napoleone costretto ad un esilio in Francia, decise di tornare nel proprio paese nella convinzione di poter risalire al potere ma venne imprigionato. I filmati di repertorio dell’incoronazione e delle parate imperiali – «operette messe su da se stesso»51 agghindate d’oro, di pellicce e di aquile romane – sono i momenti più vividi di esposizione della virulenta follia di un uomo risucchiato da una frenesia verso il potere temporale52 che non trova sbocco nel sublime e rimane perpetuo girotondo in una spirale stordente, allucinante.

III/13,14 – Cobra Verde

III/15,16 – Bokassa -­‐ Echi da un regno oscuro

Aguirre, furore di Dio (1972) si può considerare un vero e proprio manifesto della condizione di Titano: è la cronaca del titanico fallimento di don Lope de Aguirre, conquistador spagnolo realmente esistito, in missione con don Pedro de Ursua nella foresta amazzonica, alla ricerca dell’Eldorado. La verosimiglianza storica interessa poco a Herzog, che sostiene di aver racimolato le notizie più elementari sul protagonista in un libro per bambini53. L’ispirazione realistica che c’è viene principalmente dalla contemporaneità: per esempio i monologhi deliranti di Aguirre sono in gran parte trascrizioni dei discorsi ricolmi di fantasie isteriche e atroci del

50 WERNER HERZOG. Incontri alla fine del mondo, op. cit., p.250.

51 WERNER HERZOG, voce narrante in Bokassa – Echi da un regno oscuro.

52 cfr. FABRIZIO GROSOLI, ELFI REITER, Werner Herzog, op. cit., pp.125-­‐126.

53 cfr. WERNER HERZOG. Incontri alla fine del mondo, op. cit., p.98.

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dittatore ugandese John Okello54, sul cui personaggio Herzog – che lo aveva conosciuto personalmente – vagheggiava un biopic poi non realizzato55. Il personaggio di Aguirre affascina il regista più che altro perché «di solito la storia è dalla parte dei vincitori, mentre lui è un grande sconfitto»56 e come archetipo di chi «è aldilà della cultura e della morale», strumento per «osservare il lato oscuro, preistorico di noi stessi»57; è la personificazione di un istinto tragico di potere e sopraffazione assoluta58. Il protagonista – la cui non-normalità viene subito presentata come tale, soprattutto perché messa a confronto fin dall’inizio con la razionalità di Pedro de Ursua59 – prende con la forza il comando della spedizione, organizza una rivolta totale – che non è altro che una delle tante incarnazioni possibili del desiderio di sentirsi vivere, vitalismo destinato ad autodistruggersi senza alternativa – nella quale coinvolge non solo i compagni del momento, ma addirittura la corona di Spagna, la Chiesa, la Natura, Dio. Dichiara decaduto il re e instaura un nuovo reame che nei suoi progetti dalla giungla si espanderà fino ad inglobare tutto il mondo conosciuto60. Il sogno di Aguirre diventa follia megalomane, che, al prezzo della morte di tutti i compagni, tenta di affermare al di là di ogni misura il dominio su un territorio assolutamente ostile, quello della foresta. Questa solitaria ribellione contro tutti e contro tutto lo porta a proclamare se stesso una sorta di divinità terrena, a identificarsi con la collera di Dio61, in un crescendo di follia sempre più vicina all’illusione, ben esemplificata dai frequenti primi piani del volto di un ammutolito Aguirre con il suo sguardo che scruta l’orizzonte attraverso occhi privi di vista, come quelli di un cieco62. Al protagonista non interessano i soldi, le ricchezze di Eldorado: è il potere nella sua forma più assoluta e pura ciò che lo attrae e lo ipnotizza. «I miei uomini misurano tutto con l’oro. Ma per me conta solo il potere. L’oro lo lascio ai servi»63. La tracotanza di Aguirre – come in una tragedia greca64 – lo spinge

54 Surreale figura storica dell’universo africano (similmente a Bokassa) che a ventotto anni si era proclamato feldmaresciallo ed era mandante di atrocità commesse contro la popolazione araba. 55 Okello: «Io, vostro feldmaresciallo, sto per atterrare. Chiunque stia rubando anche solo un pezzo di sapone sarà chiuso in prigione per duecentosedici anni». Aguirre: «Sono io il più grande traditore: Non ce ne sarà mai uno più grande. Chi solo oserà pensare alla fuga sarà squartato in centonovantotto pezzi […]. Chi mangia un solo chicco di mais o beve una sola goccia d’acqua in più sarà messo in catene e imprigionato per centocinquantacinque anni». 56 WERNER HERZOG. Incontri alla fine del mondo, op. cit., p.99. 57 WERNER HERZOG in GRAZIA PAGANELLI, Segni di vita, op. cit., pp.68-­‐69. 58 cfr. FABRIZIO GROSOLI, ELFI REITER, Werner Herzog, op. cit., p.58. 59 cfr. PAOLO. MEREGHETTI, Werner Herzog: un cinema aristocratico in cui l’individuo si oppone alla società, in «Cineforum» n°155, giugno 1976, pp.359-­‐360. 60 «Abbiamo stabilito di porre fine all’arbitrio del destino. Cambieremo il corso della Storia […] Se io, Aguirre, voglio che gli uccelli cadano fulminati, gli uccelli devono cadere stecchiti dagli alberi. Sono il furore di Dio. La terra che io calpesto mi vede e trema». Battute di Aguirre. 61 cfr. PAOLO. MEREGHETTI, Werner Herzog: un cinema aristocratico in cui l’individuo si oppone alla società, in «Cineforum» n°155, giugno 1976, pp.359-­‐360. 62 cfr. PAOLO SIRIANNI, Il cinema di Werner Herzog, op. cit., pp.45-­‐48. 63 Battuta di Aguirre. 64 «A volte mi sembra che Aguirre stia intenzionalmente conducendo i suoi uomini verso la loro – e la propria – distruzione. È come una tragedia greca: alla fine è chiarissimo che è stato lui stesso a causare gli orrori che lo affliggono». WERNER HERZOG. Incontri alla fine del mondo, op. cit., p.101.

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progressivamente verso un peccato sempre più irrimediabile nel quale con decisione fanatica trascina alla morte – in un folle sogno di gloria e di potere impastato di torva solitudine – il manipolo dei superstiti65; alla fine della storia non è solo lui ad essere pazzo, l’intera situazione appare dissennata66. La lotta intrapresa contro la Natura stessa – trionfante contraltare del protagonista – è una sconfitta già avvenuta67; tra l’altro mentre la vicenda dei nani era ambientata nelle isole Canarie e quella di Segni di vita in Grecia, qui il circostante è la foresta amazzonica, il massimo assoluto di naturalità che possa esistere, un monstrum di ostilità panica – non ancora domato dalle macchine feroci della futura tecnica68 – che, sfidato, reagisce69: subito inizia a mostrare la sua inquietante estraneità e infine circonda e ingoia senza nemmeno accorgersene quelle minuscole creature che vi si oppongono70. La zattera degli spagnoli ad un certo punto viene attaccata dagli indios della foresta, che però non si vedono mai: è come se fosse la foresta stessa, tramite i suoi naturali custodi, a scagliare le proprie frecce contro gli illusi. C’è un momento nel film in cui la realtà sembra quasi sfumare per lasciare il posto ad oniriche visioni: quando i naufraghi avvistano un grande vascello in cima ad un albero, iniziano a chiedersi se l’Eldorado che cercavano non sia una leggenda. Lo spettatore lo sa fin dall’inizio, nei titoli di testa viene informato di come gli indios abbiano inventato la mitica città d’oro per portare alla rovina i conquistatori; e d’altra parte, come può esserci un traguardo da trovare in una Storia per definizione circolare? Quando gli spagnoli vengono colpiti da frecce scoccate da arcieri invisibili non vi fanno nemmeno più caso, convinti che esse non siano reali. Se la freccia è reale, allora lo è anche l’immagine della nave sospesa ad un albero nel cuore della foresta; in ciò il film sembra quasi premonire un’opera successiva, parallela a questa per molti versi ma totalmente diversa negli esiti, nella quale Herzog darà corpo a quell’immagine71. In Fitzcarraldo (1982) infatti il reale, il terreno, rimangono completamente distaccati dalle vicende dell’uomo, che si libra verso l’alto72. Così non è per Aguirre; la parte onirica si ripiega su se stessa, è troppo tardi per aspirare ad una salvezza nel sogno. Aguirre, titano per eccellenza, è troppo legato alla fisicità del reale per non ferirsi nello strisciare a ridosso della terra tentando di abbracciarla e farla

65 cfr. PIETRO PINTUS, Aguirre furore di Dio, in «La rivista del cinematografo» n°10, ottobre 1975, pp.427-­‐428.

66 cfr. WERNER HERZOG. Incontri alla fine del mondo, op. cit., p.99.

67 cfr. FABRIZIO GROSOLI, ELFI REITER, Werner Herzog, op. cit., p.58.

68 cfr. LUCIA COLUCCELLI, Werner Herzog, “il venditore di fiammiferi”, in «Cinema e Cinema» n°11, aprile/giugno 1977, p.51. 69 cfr. FRANCESCO CATTANEO, L’amo della menzogna e la carpa della verità. L’estasi di Herzog al di là di fiction e documentario in «Cineforum» n°462, marzo 2007, pp.49-­‐57 p.54. 70 cfr. FABRIZIO GROSOLI, ELFI REITER, Werner Herzog, op. cit., pp.58-­‐59. 71 cfr. ROBERT FISCHER, JOE HEMBUS, PAOLO TAGGI, Il nuovo cinema tedesco 1960/1986, Gremese Editore, Roma, 1987, p.65. 72 v. videografia in appendice e cap IV.3, pp.65-­‐70.

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propria. Nell’ultima scena, rimasto ormai ultimo superstite sulla zattera, è ancora capace di proclamare folli progetti di dominio sul mondo: Tutta la Spagna cadrà in mano nostra. Pezzo a pezzo costruiremo la storia, come altri allestiscono uno spettacolo […]. Io, furore di Dio, mi sposerò con mia figlia e fonderò con lei la dinastia più pura che abbia 73

mai regnato sulla terra. Noi due insieme regneremo su tutto questo continente .

Ma ad ascoltarlo solo una colonia di scimmie apparse dal nulla che hanno invaso l’imbarcazione ed assistono inerti alla disfatta. La zattera gira in tondo alla deriva sul fiume esattamente come il furgone di Anche i nani hanno cominciato da piccoli e incarna alla perfezione la spirale senza inizio che lega indissolubilmente il ribelle all’oggetto della sua ribellione74 per trascinarlo verso la morte. Questa non viene mostrata ma è lasciata intendere, è una totale fagocitazione da parte di una Natura che Aguirre con la sua volontà di potenza non ha piegato al proprio spettacolo75. Il film è stato accostato per svariati aspetti a Cuore di Tenebra76 di Conrad: infatti simile è l’ambientazione forestale, il fiume trasporta verso il limite e il personaggio di Aguirre nella sua tracotanza che lo porta alla rovina ricorda molto quel Kurtz – uomo prigioniero di un progetto ambizioso e folle, preda della contraddizione di voler imporre al mondo un nuovo ordine con i mezzi atroci che la civiltà da cui vorrebbe separarsi pure gli fornisce77 – che aveva superato la soglia al di là della quale non rimaneva che l’orrore. Tra l’altro, pare che Francis Ford Coppola per Apocalypse Now78 (1979) – esplicito Cuore di tenebra in salsa contemporanea – abbia preso fortemente ispirazione dalla foresta e dal fiume herzoghiani. Tuttavia, l’altro, il personaggio di Marlow, il tramite tra il maledetto Kurtz e il lettore, qui manca: Aguirre stesso è Marlow e Kurtz. Ritroveremo la suggestione conradiana con forza e coerenza maggiori in uno dei lavori più recenti del regista: Grizzly Man (2005)79. Klaus Kinski interpreta magistralmente Aguirre, regalandogli quelle movenze affascinanti fatte di scatti animaleschi, slanci e barcollamenti. L’attore tedesco, insofferente, delirante, paranoico istrione egomaniaco80, figura controversa e folle tanto quanto i personaggi a cui dà corpo – ha lavorato dopo Aguirre insieme ad Herzog per altri quattro film: Nosferatu, Woyzeck, Fitzcarraldo, Cobra Verde – incarna alla perfezione la discesa nel vortice della pazzia del protagonista perché le loro personalità sono suggestivamente vicine: stesso carisma, stessa impressionante forza di volontà, stesso fervore, ma anche medesima cecità nei confronti dell’altro da sé, 73 Ultime battute di Aguirre.

74 cfr. PAOLO MEREGHETTI, Werner Herzog: un cinema aristocratico in cui l’individuo si oppone alla società, in «Cineforum» n°155, giugno 1976, pp.359-­‐360. 75 cfr. ROBERT FISCHER, JOE HEMBUS, PAOLO TAGGI, Il nuovo cinema tedesco, op. cit., p.65. 76 JOSEPH CONRAD, Cuore di tenebra, 1902 (rist. Feltrinelli, 2003). 77 cfr. PAOLO SIRIANNI, Il cinema di Werner Herzog, op. cit., pp.45-­‐48. 78 v. videografia in appendice. 79 cfr. cap.III.4, p.53. 80 cfr. PAOLO SIRIANNI, Il cinema di Werner Herzog, op. cit., pp.45-­‐48.

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stessa tensione autodistruttiva ed esasperazione superomistica81. Le tensioni del set quindi si riflettono sul film, creando quel personaggio che è pura essenza della violenza82. Kinski è il perfetto complementare di Bruno S.; ciò che Bruno rappresentava e viveva realmente come Primitivo, Kinski rappresenta e vive come Titano: anche in lui quindi il mondo della realtà e della finzione s’intersecano. Herzog lo racconta in un film, Kinski – Il mio nemico più caro83 (1999), che è una sorta di omaggio – l’attore era morto nel ‘91, consumato dal proprio ardore vitalistico come il suo Cobra Verde – in cui il regista mostra tutte le difficoltà che la furia dell’attore lo avevano costretto ad affrontare nel corso dei film da lui interpretati, la violenza, l’eccesso e la deflagrazione ma anche la forza, l’intensità di una persona considerata dal cineasta uno dei rari geni del secolo84, un uomo in cui realtà e finzione si mescolano a intermittenza e a cui tutto sommato riconosce di dovere moltissimo, che sente legato a sè in modo indissolubile. D’altra parte, come era stato detto per Segni di vita, Herzog è convinto che pur nella sconfitta i Titani siano uomini che vedono di più85: così anche Kinski, che nel ricordo del regista assume la consistenza quasi eterea, fantastica di un personaggio inventato86, perfetto portavoce del cinema degli eroi e dei titani. Kinski ha una sensibilità esacerbata, per noi inconcepibile. E poiché questa sensibilità è più sviluppata, essa è più reattiva e le sue manifestazioni più intense. Ciò evidentemente ci spaventa, perché non vi siamo abituati: non è previsto nella nostra società […]. È una tradizione storica considerare questo genere di sensibilità come anormale. L’affermazione che Kinski sia pazzo si giustifica solo da un punto di vista piccolo–borghese e meschino […]. Kinski riunisce per noi delle contraddizioni inconiugabili, le opposizioni più selvagge e inimmaginabili. Sono convinto che l’enorme potenza di Kinski venga da queste contraddizioni che si urtano, da questi formidabili campi di forze in movimento. Emana da Kinski un irradiamento erotico intenso, ma ciò che mi appassiona, prima di tutto, è la sua aura di attore. Io lo giudico solo davanti alla macchina da presa: è l’attore più affascinante che conosca87.

III/17,18 – Kinski, il mio nemico più caro: polarità caratteriali 81 cfr. FABRIZIO GROSOLI, ELFI REITER, Werner Herzog, op. cit., p.56.

82 cfr. FABRIZIO GROSOLI, ELFI REITER, Werner Herzog, op. cit., p.120.

83 v. videografia in appendice.

84 cfr. WERNER HERZOG. Incontri alla fine del mondo, op. cit., p.321.

85 cfr. cap.III.2, p.38.

86 «Tutto ciò che tra noi pesava scompare. Tutto diventa bello […]. La sua anima voleva librare il volo». WERNER HERZOG nel finale di Kinski – Il mio nemico più caro. 87 WERNER HERZOG nel Pressbook di Nosferatu, 1979.

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III/19 – Deposizione del Re di Spagna

III/20 – Sguardo cieco

III/21,22 – Inizia la panica repressione

III/23, 24 – Illusione o realtà? Vascello sull’albero, frecce fasulle

III/25,26 – Chiusura: la zattera alla deriva, invasa dalla Natura, gira in tondo

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III.4 – SUBLIMAZIONE SFIORATA: GRIZZLY MAN Per chiudere la carrellata sui Titani, verrà preso in analisi un caso particolare: quello in cui una figura tipicamente titanica – quindi un uomo forte votato al gesto estremo, portatore di una virulenza che lo isola e lo spinge verso il baratro – rimane tuttavia pienamente o parzialmente conscia della propria corsa verso la rovina; di conseguenza tenta di giungere ad una forma di sublimazione del reale avvicinamento verso l’abisso in qualcosa di simbolico, unica possibilità di decollo e salvezza. Il documentario per la tv Fede e denaro (1980) presenta la controversa figura del telepredicatore americano Gene Scott, una sorta di religioso Aguirre: la furia con la quale apostrofa il proprio pubblico per ricevere donazioni, la violenza egotica di fanatici soliloqui, ricordano molto il disperato titanismo degli altri protagonisti di questo capitolo. Tuttavia la tensione religiosa, pur se livellata dalla continua richiesta di denaro, dalla propensione all’appropriazione indebita, dall’evasione fiscale – decine le accuse a suo carico – è un esordio di spinta verso l’alto, uno spunto di ricerca del sublime che non si era mai trovato nel terreno e rovinoso strisciare al suolo di coloro che cercano nel duro scontro con il reale la soddisfazione delle proprie fameliche necessità; «avere fede significa fare l’impossibile», afferma lo stesso Scott ad un certo punto. Per di più il reverendo, intervistato al di fuori del proprio programma, riconosce la propria triste condizione di solitario, di sofferente88, getta la maschera ed ammette che gli piacerebbe volare via, «prendere un aereo e andare in un posto dove nessuno mi conosce»89. «Per quanto pazzo possa sembrare come figura pubblica, c’era in lui qualcosa di commovente, che mi ha toccato […]. In lui c’era senza dubbio un elemento compulsivo»90, afferma il regista. La qualifica di Titano quindi in un personaggio come lui assume una connotazione più che altro di maschera autodifensiva nei confronti di un mondo invivibile nel quale persone straordinarie – fuori dall’ordinario – non riescono a stare, se non simulando una potenza, un carisma di facciata. Apparire titani non è diverso dall’esserlo realmente, negli effetti: la rovina travolge indifferentemente gli assertori di una potenza pretesa o effettiva.

III/27,28 – Gene Scott alterna titaniche sfuriate a dolorose constatazioni esistenziali 88 «Sono sterile […]. Piango spesso […]. Bambini e cani mi adorano».

89 Affermazioni di Gene Scott durante l’intervista.

90 WERNER HERZOG. Incontri alla fine del mondo, op.cit., p.197.

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In Grizzly Man (2005), il discorso si fa ancor più chiaro e coerente. Il protagonista di questo documentario, Timothy Treadwell, rientra perfettamente nella galleria di folli ai quali Herzog ci ha abituati91: è un ambientalista americano che dal 1999 al 2003, durante i mesi estivi, è andato a vivere in Alaska, nella natura selvaggia del cosiddetto «Labirinto dei Grizzly», per proteggere gli amati animali dai bracconieri e per ricavarne dei documentari per le tv statunitensi, fino a quando un orso non lo ha divorato insieme alla sua compagna. Forse al regista Treadwell ricorda se stesso92 più giovane, quando nel 1977 andava sul vulcano della Soufrière93 sperando magari che l’eruzione avvenisse davvero; un’ossessione imperativa li accomuna e li avvicina pericolosamente alla follia, ma se non vi si cade – e questo è il caso di Herzog – si giunge inevitabilmente a qualcosa94. I tempi sono però cambiati dal ‘77: non ci sono più eroi, e toccherà a Timothy scoprirlo95. Il film è originale anche dal punto di vista formale, essendo per la maggior parte costituito dalle riprese effettuate dallo stesso Treadwell nel corso dei suoi soggiorni tra gli orsi, cucite con interviste e commenti effettuati da Herzog. L’abbozzo di sublimazione che caratterizza Timothy è una condizione di metamorfosi96: egli infatti, in cerca forse di un incontro primordiale, si spinge sempre di più verso la natura di orso e si emancipa progressivamente dal suo essere uomo; «nei suoi diari definisce il mondo degli uomini come un oggetto estraneo. Fa una netta distinzione tra il mondo degli uomini e quello degli orsi, che col tempo diventa sempre più marcata»97. In questo modo, tuttavia, valica un limite invisibile – la distanza tra l’uomo e i grizzly – che, come asserisce il nativo direttore del museo di storia naturale, «abbiamo rispettato per 7000 anni. È un confine tacito, sconosciuto, ma quando ci rendiamo conto di averlo superato, paghiamo il fio». Il rapporto di Treadwell con i plantigradi è intenso e quasi morboso: il rifiuto della normalità del proprio mondo lo spinge per converso ad investire l’universo animale di valenze antropomorfe, come il riconoscimento di una sorta di affetto o partecipazione degli animali nei suoi confronti; illusione che si rivelerà chiaramente come tale troppo tardi, nel momento in cui Timothy perde il suo posto sul confine tra universo umano e animale98: la vicinanza con l’orso sarà talmente eccessiva e tracotante da trasformarsi in unità, nella fagocitazione, nel divoramento,

91 cfr. ALBERTO PEZZOTTA, Grizzly Man, in «Segnocinema» n°143, gennaio/febbraio 2007, p.44.

92 «come regista non puoi illuderti di non avere a che fare con la natura umana […]. Cerco di tenermi fuori, ma in qualche modo qualcosa di me entra nel film, non so dire cosa e perché. Cerco di evitarlo, di nasconderlo». WERNER HERZOG in Intervista a Werner Herzog. Archeologo di un altro pianeta, a cura di ENRICO GHEZZI, in« Duellanti» n°36, ottobre 2007, pp.27-­‐32. 93 cfr. cap.I.2, pp.4-­‐5. 94 cfr. PAOLA COLLIARD, Grizzly Man, in «Panoramiques» n°43, II semestre 2006, p.48. 95 cfr. ALBERTO PEZZOTTA, Grizzly Man, in «Segnocinema» n°143, gennaio/febbraio 2007, p.44. 96 «Devo trasformarmi in un animale selvatico», dice ad un certo punto Timothy. «Quanto odio il mondo degli uomini!», scrive sul proprio diario. 97 Voce narrante di WERNER HERZOG. 98 cfr. PAOLA COLLIARD, Grizzly Man, in «Panoramiques» n°43, II semestre 2006, p.48.

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nel darsi letteralmente in pasto al Mostro99. Questo film sembra dirci che l’unica via per l’essere umano di rientrare in natura è di esserne divorato100. Come per le interviste a Gene Scott, ci sono momenti in cui Timothy si confessa alla telecamera, che diventa una sorta di strumento terapeutico di autoanalisi con il quale egli riesce a scrutare gli eccessi della propria anima, frastagliata come il panorama di un ghiacciaio101. Qui sembra che le motivazioni ambientaliste – pretestuose quanto può esserlo la difesa degli animali dai bracconieri in un controllatissimo parco naturale – e la tanto celebrata partecipazione naturale sfumino e lascino spazio a riflessioni molto più consce sulle tare che affliggono il protagonista, come la difficoltà a trovare una ragazza e il senso di solitudine che da sempre lo opprime, il problema dell’alcolismo di cui attribuisce l’affievolirsi proprio all’isolamento nelle lande remote dell’Alaska, la consapevolezza di camminare sul filo del rasoio, sospeso sopra un abisso102. Egli sa che solo sull’orlo del baratro può fare i conti con se stesso, con la sua interiorità frantumata e attratta dal caos. Non vuole prendere antidepressivi, preferisce essere preda degli alti e bassi del suo umore, abbandonarsi al proprio ottovolante emotivo e, sentendo, conoscere se stesso. È impegnato a dirigere un film – Herzog fa notare come ripeta le scene, scelga le inquadrature, si prepari per comparire –, il proprio film su se stesso, tramite il quale sembra riuscire a crearsi una realtà103. Titano introspettivo quindi Treadwell, che alterna tuttavia momenti di coerente riflessione ad altri in cui sembra dimenticare di indossare una maschera terapeutica e diventa reale, incandescente, artistica figura dell’eccesso, eroe della tracotanza, protagonista – non privo di notevole talento performativo – del proprio action movie104, come nella scena in cui esplode inveendo contro le guardie del parco dalle quali si sente – paranoicamente – ostacolato e vessato. Qui non è più un eroe tragico, ma un istrione che dirige un one man show in presa diretta su se stesso, perennemente in scena per la sua telecamera e per l’ignoto spettatore a cui non cessa mai di raccontarsi105, e Herzog ammette di non aver mai visto una simile follia in azione sul set, pur avendo diretto per ben cinque volte Klaus Kinski106. Le valenze umane che il protagonista attribuisce alla natura – avvicinandola a sé in una visione idilliaca in cui sembra ignorare la dura realtà del mondo predatorio animale

99 cfr. FRANCESCO GORI, ANDREA SARTINI, Il desiderio dell’opera, in «Rifrazioni» n°2, gennaio 2010, p.38. 100 cfr. PIETRO BABINA, La spettrale natura della nostra esclusione, in «Carte di cinema» n°20, gennaio/aprile 2007, p.17. 101 «Questo ghiacciaio mi sembra una metafora della sua anima». Voce narrante di WERNER HERZOG. 102 «Ci sono volte che la mia vita è sull’orlo del baratro perché possono azzannarti e ucciderti», afferma Treadwell. 103 cfr. FRANCESCO CATTANEO, L’uomo nello specchio dell’orso. Grizzly man, in «Cineforum» n°460, dicembre 2006, pp.17-­‐19. 104 «Capita che mi sfidino, e allora in quel caso il gentile guerriero deve trasformarsi in un samurai, così formidabile da non temere la morte, così forte da sconfiggere chiunque». 105 cfr. MASSIMO CAUSO, Grizzly Man, in «Duellanti» n°30, novembre 2006, p.18. 106 cfr. JONNY COSTANTINO, Sogni snaturati nelle fauci del vuoto, in «Carte di cinema» n°20, gennaio/aprile 2007, p.7.

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– mentre a sua volta spinge se stesso verso di lei, costituiscono una divergenza profonda di vedute107 tra lui e il regista che viene spesso ribadita: nello sguardo ottuso dell’animale, lontano da quello umano, Herzog non trova alcuna partecipazione o affetto nei confronti dell’uomo. Non c’è assolutamente alcun tipo di fratellanza tra Treadwell e gli orsi se non nella mente di Timothy. Ciò che mi turba è che su tutti i volti di tutti gli orsi ripresi da Treadwell, non ho mai visto affinità, comprensione o pietà. Vedo solo la travolgente indifferenza della natura. Per me non esiste nessun mondo segreto degli orsi. Questo sguardo vuoto suggerisce solo una ricerca quasi meccanica di cibo

108

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Come accennato , in questo film le intersezioni col Kurtz di Cuore di Tenebra si fanno ancor più suggestive che in Aguirre, anche perché meno legate al riconoscimento di assonanze di genere meramente scenografico. Infatti in Grizzly Man, oltre ad esserci il personaggio Kurtz – quel Treadwell che oltrepassa rovinosamente un confine invisibile ma concretissimo – e le comparse di contorno – gli intervistati che narrando la storia di Timothy ci avvicinano a lui come nel romanzo a Kurtz –, c’è il mediatore, Marlow. Si tratta del regista: come in Cuore di Tenebra Marlow accompagna il lettore attraverso la foresta fino al raggiungimento del demone Kurtz, così Herzog è mimetico e si comporta da guida, si fa personaggio pur rimanendo esterno110; la prima persona di Marlow diventa il continuo commento audio fuoricampo del regista, che «ci conduce e ci mostra le tracce che solo lui, da attento osservatore, sa rilevare per indicarci la strada, la strada che conduce di nuovo all’abisso della condizione metafisica dell’uomo»111. Proseguendo lungo questo suggestivo filo di Arianna si arriva a trovare grandi affinità tra il momento culminante del romanzo e una scena cardine del film: il momento in cui Herzog, presente in campo per l’unica volta, di spalle, ascolta la registrazione audio dello sbranamento di Timothy ma poi decide di non farcelo sentire. Per Babina, questo è uno stratagemma drammaturgico di grande livello, poiché egli ci espone e nello stesso tempo ci preserva da quell’orrore; e ancora rivedo Marlow sulla barca mentre riconduce alla civiltà Kurtz e quest’ultimo gli sussurra nell’orecchio: “l’orrore, l’orrore”, ma lo dice a Marlow il quale poi ce lo racconta. Nell’atto di mostrarsi, non narcisistico ma drammaturgicamente fondamentale, Herzog assume la responsabilità del suo ruolo, capisce di doversi esporre di più e di giocare la funzione esplicita dell’artista, di colui cioè che media tra due mondi112.

Il regista quindi ci salva dallo sforamento di un limite che anche noi siamo tenuti a rispettare se non vogliamo cadere nella hybris. Istintivamente vorremmo sapere cosa contiene quella registrazione, ma Herzog sa che non deve lasciarcela ascoltare, ci

107 cfr. JONNY COSTANTINO, Sogni snaturati nelle fauci del vuoto, in «Carte di cinema» n°20, gennaio/aprile 2007, p.9. 108 Voce narrante di WERNER HERZOG. 109 cfr. cap.III.3, p.47. 110 cfr. PIETRO BABINA, La spettrale natura della nostra esclusione, in «Carte di cinema» n°20, gennaio/aprile 2007, pp.16-­‐17. 111 Ivi. 112 Ivi.

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tutela così nei confronti dell’orlo di quel baratro verso il quale egli, forse, si sente preparato e parzialmente immune. Si è parlato nell’introduzione dello sfioramento della sublimazione nella religione per Gene Scott: nel caso di Treadwell il discorso è parzialmente differente. Durante l’intervista ai genitori, la visita della borghesissima, normalissima casa dell’infanzia e dell’adolescenza, la macchina da presa si sofferma su un orso di pelouche, compagno di giochi preferito del protagonista da bambino. Lo stesso orsacchiotto torna in una ripresa di Timothy stesso, in cui lo stringe a sé durante una notte di tempesta nel Labirinto dei Grizzly. Il rapporto di Treadwell con gli orsi diventa così un «mysterium tremendum»113: cosa cerca l’uomo nella bestia? Che rapporto c’è tra i pelouche e i mastodontici animali con cui Timothy trascorre le sue giornate da adulto – animali che alla fine, quasi a conclusione di una parabola fatale, ribaltano i ruoli e lo riducono a qualche libbra di carne? Se ciò che permette la salvezza dallo slancio verso l’abisso è la sublimazione attraverso il simbolo, paracadute della situazione, a ben vedere ciò che il protagonista fa è l’esatto contrario: Timothy si ritrae nelle proprie ossessioni fino a materializzarle114 e il pelouche dell’infanzia, innocuo simbolo borghese e civile della violenza naturale dell’Orso, diventa animale reale e concreto come non mai; dal simbolo al reale il passo sembra breve – Treadwell accarezza orsacchiotti vivi e parla loro come fossero bambini o cagnolini –, ma è solo una terribile illusione. Il balzo nella realtà dal simbolico è inoltre più subdolamente sottile dello scontro aperto con la Natura; la confusione tra realtà e simbolo diventa perciò per Cattaneo causa e strumento della disfatta: «l’irrequieto Timothy tenta l’inaudito: tenta di far coincidere il pelouche borghese con il grizzly selvaggio, il simbolo culturalmente depotenziato con la strapotenza in carne e ossa, la “parola” con la “cosa”»115. Il momento della disillusione arriverà tardi: solo quando ormai lo scontro con la realtà è già avvenuto, egli stesso è diventato pupazzo tra le zampe delle bestie che aveva scambiato per pelouche e le fauci per niente metaforiche dell’orso stritolano già quel Titano – quasi – mancato che credeva di poter plasmare se stesso a immagine della Natura e la Natura a propria immagine.

113 FRANCESCO CATTANEO, L’uomo nello specchio dell’orso. Grizzly man, in «Cineforum» n°460, dicembre 2006, pp.17-­‐18. 114 cfr. PAOLA COLLIARD, Grizzly Man, in «Panoramiques» n°43, II semestre 2006, p.48. 115 FRANCESCO CATTANEO, L’uomo nello specchio dell’orso. Grizzly man, in «Cineforum» n°460, dicembre 2006, pp.17-­‐18.

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III/29 – Momenti d’idilliaca illusione

III/30 – L’eroe nel proprio action movie

III/31,32 – Avvicinamento e ingresso nella comunità

III/33 – «Un limite durato 7000 anni è stato infranto»

III/34 – Mediazione dell’orrore

III/35 – Il rassicurante simbolo borghese

III/36 – La realtà: meccanica, costante ricerca di cibo 55


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IV. I SOGNATORI IV.1 – EX-STASIS L’ultima tipologia di personaggio tratteggiata da Deleuze è accostata – nel sottoinsieme della dismisura1 – a quella eroica dei Titani; ma il pluricitato «sdoppiamento tra un’azione sublime, destinata a restare sospesa [...] e un’azione eroica che trova nell’ambiente il suo interlocutore»2 in questo caso è sbilanciato antititanicamente nella direzione del Sublime, del sospeso, del sogno. Nell’universoHerzog, come già accennato3, da sempre riveste un ruolo decisivo il concetto di estasi, quella qualità umana che consiste nel fare un passo al di fuori di noi4. È il regista stesso, in una recente intervista, a proporla in una sfaccettatura originale. L’estasi non è semplicemente la conquista di un’illuminazione – anche se la possibilità non viene esclusa – ma si tratta di un momento molto preciso dell’esistenza umana descritto da Longino5, nel quale attraverso il simbolo, l’uomo riesce a raggiungere uno stato di «ExStasis, l’uscire fuori da sé in uno stato di sospensione, nel quale ci leviamo al di sopra della nostra natura e che, “come un lampo che guizza improvviso”, rivela il Sublime»6. Tutte le pellicole di Herzog in cui si ha una sorta di lieto-fine, un epilogo pacificato, la vittoria di uno dei personaggi, sono caratterizzate dal fatto che l’unico modo per giungervi è attraverso un processo di sublimazione, di conquista dell’estasi. Il limite, se non oltrepassabile, sembra in questo modo se non altro aggirabile, anche se solo in senso metaforico o simbolico. Il simbolo – che agisce come catalizzatore – permette a chi lo utilizza come rampa di lancio per il Sublime di decollare e di approdare così sull’altra sponda, entrare nella dimensione separata, estatica di cui accennato, quella che la pochezza mentale e la malafede ideologica chiamano delirio, ma che è più semplicemente la condizione per cui nella fantasia è possibile sganciarsi dalla catastrofica spirale del reale, uscire da quelle rotaie del razionale che portano ad un ponte crollato7, realizzare il desiderio impossibile, ricondurre la realtà alla volontà. Come afferma Sproccati, l’utopia cinematografica di Herzog è di poter rendere concreta l’utopia medesima, sì che i suoi films – utopici per elezione e per definizione – sono sempre contemporaneamente rappresentazione amorosa dell’utopia e inseguimento di un’utopia ulteriore, la quale insiste sul fatto che in essi accade ciò che il

1 cfr. cap.III.1, p.35.

2 GILLES DELEUZE, L’immagine-­‐movimento, Ubulibri, 1993, pp.212-­‐214.

3 cfr. Introduzione, p.I.

4 cfr. WERNER HERZOG in DANIELE DOTTORINI, Essere esposti alla natura. Conversazione con Werner Herzog, in «Fata Morgana», n.6, settembre-­‐dicembre 2008, p.17. 5 L'estetica del Sublime fu elaborata per la prima volta dallo Pseudo Longino, il cui trattato del Sublime (I secolo d.C.) studia il fenomeno in relazione agli effetti che l'opera esercita sull'animo umano, anziché occuparsi della sua intrinseca natura. 6 WERNER HERZOG in GRAZIA PAGANELLI, Segni di vita. Werner Herzog e il cinema, Editrice il Castoro, Torino, 2008, pp.187-­‐189. 7 cfr. cap.II.5, p.28, il sogno di Hackett in Dove sognano le formiche verdi.

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nostro comune – ma non per questo meno frustrante – concetto dell’accadimento nega che possa 8

accadere .

La capacità di sognare ad occhi aperti, vivere nella fantasia, è considerata da Herzog una capacità fondamentale, salvifica9; è il presupposto fondamentale che accomuna questi personaggi, che di conseguenza chiameremo Sognatori. Se il sogno – svuotato però da qualsiasi pretesa psicoanalitica10 – è la base d’innesto per l’utopia, il catalizzatore del Sublime è sempre un simbolo di ascesa, di levitazione, come il volo11, che è centro generatore di energia e di tensione tra spazio aereo e suolo, tra desiderio e pericolo, tra vita e morte, ed è pressoché protagonista di un gruppo di film che per Piccardi «risultano così, nella loro successione cronologica che si distribuisce in un arco di trent’anni circa, uniti da un filo rosso identificabile al di là di ogni dubbio»12. Il mettersi a salire sulle vie più rischiose, sopra i tetti e le torri dell’irrealtà e senza la minima vertigine diventa così la prova comune a cui Herzog sottopone i suoi personaggi e se stesso13, e che per il filosofo tedesco Nietszche costituiva il richiamo superomistico14 dell’arte agli artisti. Interessante inoltre notare come per il regista il volo, pur essendo un volo prima di tutto interiore15, non sia tensione verso un’estasi di tipo religioso, incontro con il divino; anche se questa tematica verrà sfiorata da Kalachakra, la ruota del tempo16. Come acutamente nota Zambaldi, il desiderio del volo, ossia il volo come desiderio sono nient’altro che la risposta ad una tensione tutta umana dell’uomo verso l’uomo […]. L’utopia non è dell’ordine del divino o della religione, essa appartiene all’uomo come il nucleo della sua più antica, e più tradita, vocazione. Ciò che ha distinto l’uomo, nella propria comparsa (senza dubbio sciagurata) sul pianeta in cui vive, è esattamente l’atto di protendersi verso l’alto: il corpo che si leva. Le zampe anteriori (finalmente?) superflue che si trasformano in braccia e producono mani, e che con le mani iniziano a trasformare la realtà, costruendo utensili e spostando oggetti. La testa che, eretta e alta, inizia a scrutare l’orizzonte per dipingervi il proprio prospettico schema di dominio. In questo straordinario levarsi del corpo è tutto l’uomo e la sua follia o penosa anomalia. Dio non c’entra. L’alto è all’uomo prediletto fino al punto che tutto in lui tende

8 SANDRO SPROCCATI e NAZARIO ZAMBALDI, Concrete utopie, in «Carte di cinema» n°20, gennaio/aprile 2007, p.19. 9 Il concetto si ritrova con frequenza sia nelle dichiarazioni del regista – «Non sogno mai. Forse voglio creare per lo schermo le immagini che non vedo durante la notte» – che all’interno di dialoghi in varie opere, come in Futuro impedito, in cui una bambina focomelica, alla domanda «sogni molto?» risponde «quando ho gli occhi aperti, sì». 10 «I sogni apparentemente non sono influenzati dalla cultura: sono non-­‐coltivati, a-­‐culturali, anarchici, primordiali […]. Esiste una qualità nei sogni che è preistorica, e lo dico senza fare allusioni alla psicoanalisi. Vado al di là della psicoanalisi, che non mi piace affatto; credo che sia una grave sconfitta nella nostra civiltà andare a scavare nella psiche e nei sogni, cercando di analizzarli». WERNER HERZOG in GRAZIA PAGANELLI, Segni di vita, op. cit., p.67. 11 «Il tema del volo, del volare è spesso presente nei miei film. Questo aspetto ha sicuramente un’origine autobiografica, perché sin da quando ero piccolo avevo il desiderio di poter volare». WERNER HERZOG in DANIELE DOTTORINI, Essere esposti alla natura. Conversazione con Werner Herzog, in «Fata Morgana», n.6, settembre-­‐dicembre 2008, p.11. 12 ADRIANO PICCARDI, Voli, in «Cineforum» n°462, marzo 2007, p.65. 13 cfr. ANNA IMPONENTE, Fitzcarraldo, in «Filmcritica» n°345, giugno 1984, pp.276-­‐277. 14 Sul tema ricorrente del vitalismo superomistico, v. anche cap.I.3, p.7, cap.III.1, p.36 e cap.III.3, p.47. 15 cfr. ADRIANO PICCARDI, Voli, in «Cineforum» n°462, marzo 2007, p.67. 16 cfr. cap.IV.4, pp.71-­‐72.

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all’alto e il basso gli ripugna. Altissime ambizioni di superare i bassi istinti: per protendere il capo, il cervello, verso la posizione dominante della “veduta dall’alto”. Tale è il volo di cui, in tutte le sue opere cinematografiche, più o meno metaforicamente o letteralmente, ma sempre dialetticamente tentando di comprenderne il senso, Herzog ci parla17.

Tali riflessioni sembrano combaciare alla perfezione con il pensiero dell’autore quando sui propri diari appunta frasi come: «il desiderio di volare è in qualche misura innato in tutti gli animali? Si osservi […] lo struzzo, con le sue ali che non lo sollevano; non è forse in questo senso il più irredento di tutti gli esseri viventi?»18. La combinazione di sogno e realtà nel Simbolo consente a questi personaggi di situarsi a metà strada tra gli estremi opposti ugualmente perdenti dei Primitivi e dei Titani: infatti i Sognatori riescono a superare i propri deficit comunicativi attraverso l’espressione di abilità che li fanno sentire realizzati (p. es. il saltatore Steiner19) e nel contempo, trasferendo il campo di battaglia nel mondo del sogno, sono in grado di sorvolare l’Abisso che attirava magneticamente e risucchiava inesorabilmente i Titani. Non a caso, i vari film primitivi trattati nel cap.II, sono costellati da riferimenti al volo: in Paese del silenzio e dell’oscurità20 una delle prime sequenze mostra la pura sospensione gioiosa che il «primo volo»21 regala ai sordociechi; in I medici volanti dell’Africa orientale22, l’aeroplano è insieme strumento e metafora del tentativo dei medici di mettersi in comunicazione con idee del mondo del tutto diverse e misteriose dalle loro, come pure in qualche modo in Dove sognano le formiche verdi23. In L’ignoto spazio profondo24, l’astronave è il mezzo che conduce prima gli alieni e poi gli uomini in direzione di una possibile salvezza, per quanto illusiva essa poi si rivelerà. Nell’ultimo brillante documentario Encounters at the end of the world25 (2007), già citato per i titanici pinguini26, Herzog esplora la base scientifica di McMurdo in Alaska, nella quale si riuniscono a frotte personaggi che il regista definisce «professional dreamers», professionisti del sogno. E si chiede: «chi erano le persone che volevo incontrare alla fine del mondo? Quali erano i loro sogni?»27. La macchina da presa ci rivela figure stralunate: un filosofo che «ha viaggiato con la fantasia», un linguista appassionato di idiomi scomparsi, un vulcanologo new age, un viaggiatore fuggito attraverso la cortina di ferro, munito di zaino, sempre pronto a partire, un fisico che

17 SANDRO SPROCCATI e NAZARIO ZAMBALDI, Concrete utopie, in «Carte di cinema» n°20, gennaio/aprile 2007, p.20. 18 WERNER HERZOG, La conquista dell’inutile (Eroberung des Nutzlosen), tr. it. a cura di Monica Pesetti e Anna Ruchat, Mondadori, Milano, 2007, pp.188-­‐189. 19 La grande estasi del saltatore Steiner, v. videografia in appendice e cap.IV.2, pp.61-­‐64. 20 cfr. cap.II.2, pp.11-­‐14. 21 Didascalia che apre la scena del battesimo dell’aria per i sordociechi. 22 cfr. cap.II.5, p.26. 23 cfr. cap.II.5, pp.26-­‐30. 24 cfr. cap.II.6, pp.32-­‐34. 25 v. videografia in appendice. 26 cfr. cap.III.1, p.36. 27 WERNER HERZOG, voce narrante in Encounters at the end of the world.

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studia ciò che di più inconsistente possa essere concepito – i neutrini –, uno scienziato chitarrista, un biologo con la passione delle immersioni sotto i ghiacci e un altro, solitario studioso dei pinguini, un ex banchiere filantropo, un idraulico che vanta discendenze da una famiglia reale Azteca. Tutta «gente che ha intenzione di saltare oltre le linee della mappa»28. Herzog li intervista e li riprende in primi piani ravvicinati, come se li stesse davvero analizzando, come se stesse cercando di comprendere cosa lui stesso cerca nella figura del Sognatore. La soluzione forse sta in ciò che li accomuna tutti: la nausea nei confronti del frastuono del mondo «civilizzato», il deficit comunicativo, la diversità, ma anche – e soprattutto – il fatto di essere riusciti in fin dei conti nel candido, onirico paesaggio antartico, a pacificare la loro inadeguatezza, il loro male di vivere.

IV/1,2,3,4,5,6 – «Professional dreamers» in Encounters at the end of the world

28 WERNER HERZOG, voce narrante in Encounters at the end of the world.

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IV.2 – SALTO CON GLI SCI: LA GRANDE ESTASI DELL’INTAGLIATORE STEINER Dopo aver narrato le vicende dei Primitivi per eccellenza nel film sui sordociechi nel 197129 e la caduta rovinosa del Titano Aguirre30 nel 1972, Herzog si dedica per la prima volta ad un Sognatore, ad un personaggio estatico, con La grande estasi dell’intagliatore Steiner (1973)31, di cui già il titolo annuncia il tema di fondo. Si tratta di un documentario sui generis sulla disciplina sportiva del salto con gli sci; il regista segue per un’intera stagione le imprese dello svizzero Walter Steiner, detentore del primato mondiale. La breve inquadratura dello sciatore volante che appariva due anni prima in Paese del silenzio e dell’oscurità – quando Fini raccontava un ricordo di bambina32 – si gonfia qui a dismisura fino a diventare un intero film. L’argomento è decisamente autobiografico perché Herzog stesso durante l’infanzia ha praticato per anni da atleta promettente questo sport, prima di essere costretto a smettere per via di un incidente33; il salto con gli sci è rimasto per lui un «sogno imperterrito», «insistente»34. Il regista segue quindi con particolare partecipazione35 la vicenda di Steiner: un bel giorno arriva uno svizzero che vola come un uccello, vola in aria senza marchingegni. Ecco qualcuno che vive fisicamente il mio sogno […]. Il suo lavoro è scolpire il legno, ma nel profondo della sua anima è un uomo che vola, che sogna di volare, che sogna un’estasi […] È uno che, nel suo mondo dei sogni, ha annullato il peso e la forza di attrazione terrestri36.

Il confronto intimamente sentito fra questi due compagni di destino fa sì che si produca un’adesione affascinata alle azioni sublimi del campione e al tempo stesso un’amplificazione epica, tutta herzoghiana, del senso di quelle imprese, tanto che alla fine ci è impossibile distinguere esattamente qual è il soggetto che parla e sogna nelle affermazioni di Steiner37. 29 cfr. cap.II.2, pp.11-­‐14.

30 cfr. cap.III.3, pp.43-­‐48.

31 «La grande estasi dell’intagliatore Steiner è senza dubbio uno dei miei film più importanti». WERNER HERZOG. Incontri alla fine del mondo. Conversazione tra cinema e vita, a cura di PAUL CRONIN e FRANCESCO CATTANEO, Minimum Fax, 2009, p.119. 32 cfr. cap.II.2, p.13. 33 «Se non fossi divenuto regista sarei stato campione mondiale di salto con gli sci. È stato solo un incidente molto grave che mi ha impedito di diventare campione mondiale. Lo sarei diventato. Io sono l’unico legittimo rivale di Steiner». WERNER HERZOG in EZIO MONTELEONE, Werner Herzog, Circuitocinema, Venezia, 1981, p.8. 34 «Il pensiero insistente dello sci acrobatico mi rende leggero», «Pensavo al fascino del salto dal trampolino con gli sci, che vive in me come un sogno imperterrito» in WERNER HERZOG, Sentieri nel ghiaccio (Vom gehen in Eis), tr. it. a cura di Anna Maria Carpi, Ugo Guanda Editore, Parma, 1980 (rist. 2008), pp.43-­‐44 e in WERNER HERZOG, La conquista dell’inutile, op. cit., pp.188-­‐189. 35 «Anche l’amicizia fra me e Steiner è qualcosa di naturale, di ineluttabile. Nasce insomma, di continuo, una specie di simbiosi quasi coercitiva fra me e determinati personaggi». WERNER HERZOG, intervista con W. H., dicembre 1978, a cura di HANS GUNTHER PFLAUM, in La ballata di Stroszek – Nosferatu, il principe della notte (due racconti cinematografici), a cura di HANS GUNTHER PFLAUM e GIOVANNI SPAGNOLETTI, Ubulibri, Milano, 1982, p.12. 36 WERNER HERZOG in Il mondo contemplativo di Werner Herzog, v. videografia in appendice. 37 cfr. FABRIZIO GROSOLI, ELFI REITER, Werner Herzog, Editrice Il Castoro, Milano, 1994 (rist. 2000), p.63.

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Questo sport non viene presentato con il sensazionalismo della straordinarietà televisiva – abile a vellicare la nostra curiosità provvedendo al contempo a farci rimanere comodi sulle poltrone –, nella quale lo straordinario appunto non è che eccezione, rovescio dell’ordinario, del comunemente accettato, quindi sua propaggine, prolungamento38. Non si punta enfaticamente l’occhio sulla qualifica di estremo di cui uno sport come il salto con gli sci può fregiarsi, sull’impresa titanica di eroi che non temono la morte; si privilegiano gli aspetti estatici della disciplina. Svariate inquadrature mostrano l’espressione di stupore39 che i saltatori inevitabilmente assumono: bocca spalancata e sguardo nel vuoto40, perso ogni tipo di contatto con la pesantezza del mondo terreno, come sopraffatti dalla meraviglia incontenibile e angosciosa per la sovrabbondanza che li pervade e li incalza. Dopo la spinta a questi uomini non resta che abbandonarsi al gesto, facendosi suonare dal vento come la corda di uno strumento musicale. Lassù essi ri-­‐scoprono la plasticità dell’aria, la leggerezza e fragilità del proprio corpo, la costitutiva solitudine della propria esperienza – esperienza che l’uomo 41

deve assumersi sempre in prima persona, senza mai poter delegare .

Gli sciatori raggiungono quindi il sublime attraverso il catalizzatore del salto, che li proietta in una dimensione onirica nella quale realizzano i propri desideri e riescono a sentirsi liberi, in una solitudine perfetta che è l’unico istante di autentica vittoria sulla paura; il decollo fa assaggiar loro la sola possibilità per un uomo di uscire dal proprio corpo42; e ciò funziona proprio perché il sogno non è incosciente, ma ad occhi aperti: «è un’estasi puramente fisica, nient’altro che fisica […]. Lui esce dai nostri confini umani perché vola, e vola davvero»43, chiarisce lo stesso regista. Anche se gli sciatori «non parlano mai di paura»44, il tema del limite insuperabile45 rimane: Steiner deve contenere strenuamente la sua spinta verso l’infinito, per evitare di atterrare troppo avanti, nella zona della morte, dove la pendenza della pista d’atterraggio scema, dove il salto inebriante perderebbe il suo carattere di volo estatico46. Nelle interviste, la sua personalità oscilla sempre tra la voglia di aumentare rischi e risultati e il timore, la consapevolezza del possibile castigo: «ci stiamo avvicinando al limite», «il brivido spinge ad andare avanti»47. L’incidente, il dolore, la vulnerabilità del corpo umano, al limite la morte costituiscono eventualità tutt’altro che remote, da fronteggiare in una sempre precaria alchimia tra le possibilità stilistico 38 cfr. FRANCESCO CATTANEO, L’estasi del saltatore, in «Rifrazioni» n°2, gennaio 2010, pp.36-­‐38.

39 Sul concetto di stupore, cfr. cap IV.5, pp.77-­‐78.

40 «molti di loro non riescono a volare senza tenere aperta la bocca, il che conferisce una splendida aura estatica al gesto nel suo complesso». WERNER HERZOG. Incontri alla fine del mondo, op. cit., pp.120-­‐121. 41 FRANCESCO CATTANEO, L’estasi del saltatore, in «Rifrazioni» n°2, gennaio 2010, pp.36-­‐38. 42 cfr. GRAZIA PAGANELLI, Segni di vita, op. cit., p.89. 43 WERNER HERZOG in GRAZIA PAGANELLI, Segni di vita, op. cit., p.102. 44 WERNER HERZOG, voce narrante in La grande estasi dell’intagliatore Steiner. 45 Sul tema del limite, cfr. cap.III.1, pp.35-­‐37. 46 cfr. GRAZIA PAGANELLI, Segni di vita, op. cit., pp.64-­‐65. 47 Dichiarazioni di Walter Steiner.

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artistiche del campione e le caratteristiche oggettive dell’impianto in cui la gara si svolge48. «Quando i saltatori cominciano a scendere dal trampolino niente può fermarli»49. Walter sa che una spinta eccessiva, totale, lo porterebbe di certo allo schianto. Insistite riprese di rovinose cadute di saltatori – oltre a sintetizzare lo spirito da grande festa sacrificale del campo di gara, dove tutti tendono a godere, al limite sadicamente, di uno spettacolo giocato anche sul rischio fisico, mortale50 – sottolineano efficacemente l’assoluta concretezza della possibilità di sfracellarsi: il diaframma che divide l’inghiottimento dei Titani dall’estasi dei Sognatori è molto sottile e non va sfidato con l’assurda sicurezza del tracotante. Come accennato nel paragrafo introduttivo, la trasposizione onirica dei desideri dell’uomo, la sublimazione simbolica, permettono a personaggi Primitivi, deficienti nella comunicazione, come Steiner il Saltatore, di giungere ad una propria realizzazione; quello che per Kaspar Hauser erano solo i sogni51, diventa realtà per Steiner, il campione ammirato e apprezzato. Lo stesso Walter ha un retroterra malinconico: infanzia solitaria52, il suo unico amico era un corvo53 spennato che non riusciva a volare. La sua sola possibilità è quindi proprio il volo, la condizione di estasi che riesce a raggiungere nel salto, una condizione temporanea ma efficace, nella quale prende forma e sostanza una realtà in cui Io dovrei essere solo al mondo, io, Steiner, e nessun’altra forma di vita. Niente sole, niente cultura, io nudo sopra un’alta roccia, senza tempeste, senza neve, senza banche, senza soldi, senza tempo e senza respiro. 54

Allora di sicuro non avrei più paura .

48 cfr. ADRIANO PICCARDI, Voli, in «Cineforum» n°462, marzo 2007, p.65

49 WERNER HERZOG. Incontri alla fine del mondo, op. cit., pp.120-­‐121.

50 cfr. FABRIZIO GROSOLI, ELFI REITER, Werner Herzog, op. cit., p.64.

51 cfr. cap.II.3, p.18.

52 «fin da piccolo avevo sempre la testa tra le nuvole, sognavo di volare» afferma Walter Steiner nel film.

53 come Bruno in La ballata di Stroszek, cfr. cap.II.4, p.23 e il bambino solitario protagonista in Nessuno vuole giocare con me, v. videografia in appendice. 54 Didascalia in coda all’ultima scena del film, ispirata ad una poesia di Robert Walser. Se ne ritroverà un adattamento coerentemente volto al passato anche nel finale di L’ignoto spazio profondo: «La Terra non era più abitata. Era divenuto un parco nazionale […]. Non c’erano più aeroporti, città, ponti, dighe, soldi, banche, tempo, vita», cfr. cap.II.6, pp.32-­‐33.

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IV/7 – L’intagliatore Walter Steiner

IV/8 – Partecipazione diretta del regista

IV/9 – Bocca spalancata, sguardo perduto nel vuoto

IV/10 – Atterraggio

IV/11,12 – «Quando cominciano a scendere dal trampolino, niente può fermarli»

IV/13 – La storia del corvo 64

IV/14 – Il trionfo del Primitivo


IV.3 – I SOGNATORI RIESCONO A SPOSTARE INTERE MONTAGNE: FITZCARRALDO Il film forse più ricco e rappresentativo per la categoria dei Sognatori è Fitzcarraldo (1982), uno dei più apprezzati dalla critica (premio per la miglior regia a Cannes ’82), ma anche il più criticato e controverso soprattutto durante la preproduzione, durata ben tre anni e costellata d’imprevisti55. Il film narra la storia di Brian Sweeny Fitzgerald detto Fitzcarraldo, sognatore di origini irlandesi risiedente ad Iquitos, nella foresta amazzonica; è il regno della Natura incontaminata, ma anche dei baroni del caucciù, opulenti e insolenti uomini d’affari56, rappresentanti di una civiltà che non ha mai sognato, o che non sogna più, che ha trasformato l’Ideale in pragmatismo quotidiano di bassa lega, in mercificazione57. Laggiù egli, strenuo ideatore e sperimentatore di progetti arrischiati, innamorato di un assoluto che non è il potere ma la musica, «costruttore di cose inutili» – come lo apostrofa uno dei ricchi possidenti suoi rivali – come una ferrovia transandina o una fabbrica di ghiaccio, decide un giorno – nella sua quasi imbarazzante devozione all’arte – di fondare un grande teatro dell’Opera, un teatro nella foresta che non abbia nulla da invidiare a quelli europei e di tale prestigio da riuscire a richiamarvi il proprio idolo Enrico Caruso. L’Opera – motivo ispiratore, spinta primaria del protagonista – in questo film è esplicitamente presentata come soglia del mondo dei sogni: infatti, come afferma Herzog e come farà dire al suo protagonista, proprio l’inconcepibile è il bello di questa storia, o meglio del genere operistico in sé, perché proprio ciò che nessun calcolo delle probabilità, per quanto astruso, può prendere in considerazione, appare nell’Opera – che è potente trasfigurazione in musica di un intero mondo – la cosa più naturale […]. Sono assiomi del sentimento e questo è ciò che accomuna l’Opera e la foresta vergine58.

Per Fitzcarraldo la vita è come un’Opera o, forse, l’Opera è la vita59. Non è un sogno fine a se stesso il suo, che magari si può dimenticare una volta svegli o rientrati all’ordine60; i sogni ad occhi aperti dei personaggi herzoghiani si concretizzano perciò qui in un referente ben preciso, lo spettacolo operistico, il cui mondo permette un salto nel sublime e li trasforma in quei «personaggi improbabili ma assoluti dell’Opera», come li chiama il protagonista, che – in qualche modo – sfuggono alla circolarità del reale. Anche se ad un occhio smaliziato – o forse ormai compromesso dalla

55 «È difficile intraprendere questo lavoro, avvicinarsi a questo enorme fardello di sogni» scrive Herzog nel giugno 1979, a inizio produzione. WERNER HERZOG, La conquista dell’inutile, op. cit., p.11. 56 «la realtà del Suo mondo è solo la caricatura di ciò che si può vedere nei teatri dell’Opera» esclama Fitzcarraldo in una battuta, rivolgendosi ad uno dei baroni del caucciù. In un altro momento avrà modo di ribadire che «non sopporto questa gente che pensa si possa comprare tutto». 57 cfr. CLAUDIO M. VALENTINETTI, Soyez réalistes, démandez l’impossible: Herzog, Fitzcarraldo e qualcos’altro, in «Cinema e Cinema» n°34, gennaio/marzo 1983, pp.72-­‐74. 58 WERNER HERZOG, La conquista dell’inutile, op. cit., p.204. 59 A conferma del fatto che l’importante sia essere Opera, Herzog ha affermato nel 1981 di «non essere finora mai stato all’Opera come spettatore», in La conquista dell’inutile, op. cit., p.315. 60 cfr. CLAUDIO M. VALENTINETTI, Soyez réalistes, démandez l’impossible: Herzog, Fitzcarraldo e qualcos’altro, in «Cinema e Cinema» n°34, gennaio/marzo 1983, pp.72-­‐74.

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spregevolezza del mondo – essi possono apparire patetici: in una delle prime scene, nella quale mentre assiste all’Ernani di Verdi all’Opera di Manaus il protagonista capisce di essere chiamato ad una missione61, la macchina da presa scivola progressivamente fino ad arrivare nei pressi del palco; qui ciò che lo spettatore ha modo di osservare – ma che sfugge a Fitzcarraldo – è per Costantino lo iato che si spalanca tra il rapimento che traspare dal primo piano di quel testimone primonovecentesco del sublime che è il protagonista e il campo medio, che rivela la pochezza dello spettacolo che lo incanta, ritraendo un Enrico Caruso bolso e grottesco e una Sarah Bernhardt vetusta e anchilosata, doppiata da una cantante obesa rintanata nella fossa dell’orchestra e interpretata da un uomo che, incipriato e agghindato a puntino, digrigna la bocca silenziata ed enfatizza la ridicola 62

precarietà di un’artrosica discesa dalla scala .

Per realizzare il suo progetto, Fitzcarraldo ha bisogno di molti soldi. Decide di dedicarsi al fruttuoso commercio del caucciù come i suoi compaesani ed acquista un terreno considerato irraggiungibile nella giungla. Oltre ad essere infestato di indios tagliatori di teste, infatti, per giungervi bisogna passare attraverso il Pongo das Mortes, un dedalo di terribili rapide nel quale le navi non hanno possibilità di rimanere integre. Il protagonista tuttavia scopre che un fiume corre parallelo al primo e permette di evitare la barriera liquida. Tuttavia, per trasportare il caucciù, sarà necessario trascinare la nave su per il ripido istmo che separa i due fiumi. Sembrerebbe un’impresa impossibile63, un’esplicita trasposizione del titanico mito di Sisifo64, ma Fitzcarraldo, grazie all’aiuto di centinaia di indios che pare lo ritengano una divinità per via della sua mise candida – che costituisce fra l’altro l’ennesimo elemento simbolico65 –, riesce dopo innumerevoli sforzi a valicare il colle con la nave, come aveva predetto Molly, la sua compagna, quando aveva gridato in faccia ad uno dei baroni del caucciù che «i sognatori riescono a spostare intere montagne». Nella nave troviamo il secondo forte simbolo del Sublime, dell’«Ideale che trionfa sulla materia resistente»66: se il desiderio dell’Opera permetteva di entrare in un mondo di sogno nel quale tutto è possibile, l’ascesa della nave è metafora del volo, forte tanto quanto il salto con gli sci e forse di più, considerato l’enorme peso dell’imbarcazione, che la rende oggetto naturalmente refrattario a qualsiasi proposito di leggerezza.

61 Caruso punta il dito in aria e Fitzcarraldo si convince di essere proprio lui la persona indicata.

62 JONNY COSTANTINO, Sogni snaturati nelle fauci del vuoto, in «Carte di cinema» n°20, gennaio/aprile 2007, p.8. 63 «“Bisognerebbe poter volare.” “Volare si può già da un pezzo”, dice Fitzcarraldo. Un’idea, che non si discosta molto dalla pazzia, l’ha improvvisamente afferrato». Dialoghi del film da WERNER HERZOG, Fitzcarraldo – racconto, tr. it. a cura di Bruno e Claudio Groff, Ugo Guanda Editore, Milano, 1982, p.44. 64 Herzog la definisce «una storia sull’opera lirica nella giungla, con in più alcuni elementi riecheggianti Sisifo». WERNER HERZOG. Incontri alla fine del mondo, op. cit., p.201. 65 «nella mia immagine interiore si è già consolidato in un archetipo, con il suo abito di lino chiaro e il grande cappello di paglia […]. Se io, in quanto pubblico, molto tempo dopo aver visto il film mi ricordo di Fitzcarraldo, il personaggio deve essere un concetto chiaro dal punto di vista fenotipico, e il principio irriducibile di un unico abito bianco può essere spezzato solo alla fine con un frac». WERNER HERZOG, La conquista dell’inutile, op. cit., p.267. 66 MAX TESSIER, Fitzcarraldo, in «Revue du Cinema/Image et Son» n°373, giugno 1982.

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La nave trascinata sulla montagna è la metafora centrale del film. Metafora di che, mi ha chiesto lui. Gli ho detto che non lo sapevo. Che era soltanto una grande metafora. Forse si tratta semplicemente di un’immagine che sonnecchia dentro ciascuno di noi e io sono soltanto colui che la mette in contatto con un fratello che non abbiamo ancora conosciuto67.

Per di più, la forza di tale metafora è ancora più grande se si tiene conto non solo del risultato filmico, ma della produzione stessa dell’opera: infatti ciò che Fitzcarraldo fa nel film è esattamente ciò che è costretto a fare Herzog nella realtà. Rifiutate con sdegno le proposte della produzione di utilizzare un modellino per il battello68, sostenendo – a ragione – che ne vada dell’efficacia della sua citata «metafora centrale», s’impegna lui stesso nella folle impresa del traino della nave, spinto come il proprio protagonista dalla convinzione che solo col portare il sacrificio di sé, anche fisicamente, ai limiti estremi, sia possibile poi conquistare il successo, cioè l’emozione estatica69. le scene del film in cui gli indios faticano agli argani sono così intense perché reali, fiction e realtà corrono qui parallele e sovrapposte, il film diventa perciò «documentario sul suo stesso farsi»70 – un farsi peraltro faticoso fino all’inverosimile – in cui Herzog coglie la finzione in un puro stato di realtà71. Per questo Valentinetti considera il cineasta «primo regista moderno a ribaltare la regola del cinema; invece di usare la finzione per riprodurre la realtà, si serve della realtà per affermare la finzione e il sogno»72. Herzog ci regala una memoria vivida delle proprie realissime fatiche quando pubblica nel 2004 il diario di lavorazione, La conquista dell’inutile73, stilato tra il 1979 e il 1981, nel quale si possono toccare con mano i momenti di sgomento e di sconforto74, la frustrazione per le tante critiche che piovvero dalla stampa internazionale per presunti sfruttamenti della popolazione india, le difficoltà nei rapporti con gli attori – in special modo con il solito Klaus Kinski75, protagonista – ma anche la ferma determinazione76 nel voler realizzare un sogno:

67 WERNER HERZOG, La conquista dell’inutile, op. cit., pp.245-­‐246.

68 «Qui considerano ovvio e scontato trainare una riproduzione in plastica della nave su una collina in studio […]. Ho detto che io considero ovvio e scontato che si lavori con una nave vera su una collina vera, e non per amore di realismo, ma per la stilizzazione di un grande evento dell’opera lirica. Da quel momento, sulle cortesie che ci siamo scambiati è calato un velo sottile di gelida brina». WERNER HERZOG, La conquista dell’inutile, op. cit., p.13. 69 cfr. FABRIZIO GROSOLI, Fitzcarraldo, in «Cineforum» n°220, dicembre 1982, pp.55-­‐60. 70 Così lo definisce FABRIZIO GROSOLI in Werner Herzog e il documentario, v. videografia in appendice. 71 cfr. MICHELANGELO BUFFA, Fitzcarraldo, in «Filmcritica» n°333, aprile 1983, pp.189-­‐190. 72 CLAUDIO M. VALENTINETTI, Soyez réalistes, démandez l’impossible: Herzog, Fitzcarraldo e qualcos’altro, in «Cinema e Cinema» n°34, gennaio/marzo 1983, pp.72-­‐74. 73 WERNER HERZOG, La conquista dell’inutile, op. cit. 74 «Per un attimo sono stato colto dalla sensazione che il mio lavoro, la mia visione, mi distruggerà», «…impressione che sto facendo qualcosa che va oltre le mie forze e le mie possibilità», «pesi enormi su di me, è tutto troppo faticoso», «non c’è nessuno dalla mia parte, neanche uno, nessuno, non uno, non una singola persona […]. La solitudine come un gigantesco animale furioso mi respinge. Ma io ho visto qualcosa che gli altri non hanno visto». WERNER HERZOG, La conquista dell’inutile, op. cit., pp.73, 110, 175, 273. 75 Argentieri scorge fra l’altro in Fitzcarraldo «un lontano discendente di Aguirre […]. Ma in Fitzcarraldo non v’è più la presunzione di superare se stesso, né ebbrezza di aneliti di onnipotenza, né orgoglioso egotismo […]. Al catasto delle delusioni e delle sconfitte sopravvive il primato della creatività, la fascinazione inestinguibile dello spettacolo, l’alchimia di vita e di invenzione, il regno necessario e

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una visione si era radicata dentro di me: l’immagine di un grande battello a vapore su una montagna, la barca che si trascina tra i fiumi grazie alla sua stessa forza, risalendo un ripido pendio nel cuore della giungla e, in mezzo alla natura che annienta senza distinzione i deboli e i forti, la voce di Caruso, che riduce al silenzio il dolore e il clamore degli animali nella foresta amazzonica e smorza il canto degli uccelli […]. Eravamo completamente soli con la foresta vergine, oscillavamo piano sopra le sue cime fumanti, e il pensiero di trasportare sulla montagna una nave gigantesca non mi spaventava più, anche se tutto in questo mondo carico di pesantezza dovesse dimostrarsi avverso77.

E così se la nave è la stessa, l’impresa è la stessa, medesimo il protagonista – Herzog il pioniere pensò addirittura di interpretare personalmente la propria maschera, Fitzcarraldo78 –, anche il desiderio dell’Opera è lo stesso; traslato nel tempo, diventa per il regista desiderio del Cinema, regno del sogno e del possibile per eccellenza79. La riuscita realizzazione e il trionfo del film diventano così non solo vittorie di un regista ormai affermato e delle sue manie80, ma conferma stessa delle possibilità di un approccio onirico81, etereo, sublimante nei confronti del reale: ciò che Steiner faceva con gli sci82, Herzog fa con il cinema83 e ciascuno può fare con i propri mezzi e capacità. Tornando alla trama del film – la cui validità narrativa è comunque ormai completamente sottomessa all’imperio dell’estatico – il trionfo della salita della nave è momentaneo: presto si scopre che le motivazioni che hanno spinto gli indios – popolo di sognatori per cultura che «pensano che la nostra vita non esista, che sia soltanto un’illusione dietro la quale si nasconde la realtà dei sogni; una concezione forse teatrale, ma molto profonda»84 – sono decisamente sfavorevoli ai progetti del protagonista; infatti essi vogliono dare il battello in pasto alle rapide per placare la rabbia delle loro divinità, e lo fanno. In questo peraltro, secondo Grosoli, si può vedere

insurrogabile delle fantasie, che rischiarano l’opacità del quotidiano». MINO ARGENTIERI, Fitzcarraldo, in «Cinemasessanta» n°151, maggio/giugno 1983, pp.54-­‐55. 76 «La mia esistenza è ridotta a una sola dimensione: una rampa e una nave ai piedi della rampa». WERNER HERZOG, La conquista dell’inutile, op. cit., p.287. 77 WERNER HERZOG, La conquista dell’inutile, op. cit., pp.9, 162. 78 «Perché non recitare io stesso la parte di Fitzcarraldo? Me la sentirei, perché i miei compiti sono diventati quelli del personaggio». E poi: «A questo punto l’unico che potrebbe fare Fitzcarraldo è Kinski: senza dubbio sarebbe anche migliore di me». WERNER HERZOG, La conquista dell’inutile, op. cit., pp.165-­‐ 166. 79 «in Fitzcarraldo non sono stati i soldi a issare la nave sulla cima della montagna: è stata la fede». WERNER HERZOG. Incontri alla fine del mondo, op. cit., p.238. 80 Opinioni discordi in proposito: per la Maderna, «l’avventura sudamericana di Herzog ha trasceso sì il film stesso, che è la trasposizione di un sogno. Ma si tratta di sogni pericolosi, per quella sete di avventure quasi patologica […], che ci fa chiedere se, nel caso del regista tedesco, si tratti di talento oppure di follia». MARIA MADERNA, Fitzcarraldo, in «Segnocinema» n°7, marzo 1983, p.57. 81 «Vorrei essere altrove, dove gli esseri umani volano via sopra i campanili, i campanili sopra i campi coltivati, le navi sopra le montagne, i continenti sopra gli oceani». WERNER HERZOG, La conquista dell’inutile, op. cit., p.295. 82 «Fitzcarraldo è fratello di sangue di Steiner». WERNER HERZOG. Incontri alla fine del mondo, op. cit., p.121. 83 «Se abbandonassi questo progetto mi ritroverei ad essere un uomo senza sogni e io non voglio vivere così». WERNER HERZOG. Incontri alla fine del mondo, op. cit., p.219. 84 Battuta di un prete missionario incontrato da Fitzcarraldo durante la risalita del Rio Urubamba.

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l’ennesimo «omaggio a una dimensione di vita costruita sul sogno, sull’immaginazione e che contempla l’assoluta esclusione di ogni costrizione materiale»85. Pur sopravvissuto alle rapide, Fitzcarraldo si trova al punto di partenza, il suo piano è fallito come quello per la ferrovia nella foresta o la produzione di ghiaccio. Per un attimo sembra che «tutto sia stato inutile […]. Il sogno è finito, tutto è stato vano»86. Ma egli, imbattibile perché completamente distaccato dalla fisicità del reale, dalle tragedie del concreto, ha ancora un’idea per «trasformare la sconfitta in trionfo attraverso la potenza della sua immaginazione e del suo spirito creativo»87: vendendo la nave ormai malconcia, riesce ad assoldare una compagnia operistica e a portarla per un giorno solo ad Iquitos ad eseguire la Norma belliniana proprio sul ponte dell’imbarcazione. E così, è proprio grazie al disastro che il sogno si è finalmente liberato esteticamente, si è realizzato per se stesso88; con il protagonista circondato dall’amata musica si conclude pacificamente il film realizzando la tanto agognata utopia di leggerezza ed alleggerendo anche lo spettatore ormai coinvolto nelle peripezie dell’eroe, regalandogli una speranza nuova di poter realizzare i propri desideri. È del resto questo l’obbiettivo verso il quale tende esplicitamente il regista: come lui noi tutti dobbiamo tentare di realizzare i nostri sogni, anche se abbiamo scarse possibilità di riuscita. Un’immagine come quella della barca che riesce a superare la montagna sembra infonderci coraggio per i nostri stessi sogni. Questo è un film che sfida le più elementari leggi della natura. Le barche non sono fatte per volare sopra le montagne. La storia di Fitzcarraldo è la vittoria della leggerezza dei sogni sulla pesantezza della realtà. Sfida la gravità a testa alta, e io spero che alla fine del film gli spettatori si sentano straordinariamente esaltati e perfino più leggeri di quanto lo fossero prima della 89

visione .

Applaudito dagli abitanti del paese, concretamente fallito ma idealmente trionfante, Fitzcarraldo/Herzog90 è riuscito a coronare il suo sogno e ad intersecarlo con la realtà. «La musica sovrasta tutto. Fitzcarraldo butta fuori una nuvola di fumo. Sta facendo il suo ingresso ad Iquitos, un ingresso da re, e porta con sé la Grande Opera. E QUESTO LO RENDE FELICE»91.

85 FABRIZIO GROSOLI, Fitzcarraldo, in «Cineforum» n°220, dicembre 1982, pp.55-­‐60.

86 WERNER HERZOG, Fitzcarraldo – racconto, op. cit., p.125.

87 WERNER HERZOG. Incontri alla fine del mondo, op. cit., p.219.

88 cfr. FRANCESCO CATTANEO, L’amo della menzogna e la carpa della verità. L’estasi di Herzog al di là di fiction e documentario, in «Cineforum» n°462, marzo 2007, pp.53-­‐54.

89 WERNER HERZOG. Incontri alla fine del mondo, op. cit., pp.219-­‐220.

90 Parallelamente: «Oggi, mercoledì 4 novembre 1981, poco dopo mezzogiorno, siamo riusciti a portare la nave dal Rio Camisea al Rio Urubamba facendole valicare una montagna. Tutto quello che c’è da dire è questo: io vi ho preso parte». Conclusione di WERNER HERZOG, La conquista dell’inutile, op. cit., p.338. 91 Ultime parole della sceneggiatura del film. WERNER HERZOG, Fitzcarraldo – racconto, op. cit., p.132.

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IV/15 – Trasfigurazione del mondo in musica

IV/17 – «…la voce di Caruso, che riduce al silenzio il dolore e il clamore degli animali»

IV/16 – La vocazione

IV/18 – «Documentario sul suo stesso farsi»

IV/19 – L’Archetipo e il suo sogno

IV/20 – Il simbolo della gravità inizia a levitare

IV/21 – «Oggi, mercoledì 4 novembre 1981…»

IV/22 – Le rapide: per un attimo sembra che «tutto sia stato inutile»

IV/23 – Il sogno liberato esteticamente 70

IV/24 – «…E questo lo rende felice»


IV.4 – PICCHI DELL’ANIMA: GRIDO DI PIETRA Quale ennesima metafora dell’ascensione ad un mondo estatico troviamo in alcuni titoli della filmografia herzoghiana il tema della scalata alpinistica: Gasherbrum - la montagna lucente (1984) è il primo della lista; si tratta di un documentario che in superficie racconta «semplicemente» di un’avventura montana mai tentata prima e mai ripetuta dopo, svolta da Reinhold Messner e Hans Kammerlander: la scalata delle due vette himalayane Gasherbrum 1 e 2, 8000 metri l’una, in un’unica tirata, senza sherpa e senza ossigeno. Ma già dall’inizio Herzog afferma esplicitamente che la sua idea «non era quella di fare un film sull’alpinismo. Quello che volevamo scoprire era ciò che succede nella mente degli scalatori quando si tuffano in imprese così estreme. Che fascino li porta a queste sommità come fanatici». «Queste montagne e queste vette non esistono in fondo nell’anima di ognuno di noi?»92, si chiede il regista. Un abbozzo di risposta sembra darlo lo stesso Messner quando afferma che «tracciare linee sulle montagne come un maestro le traccia su una lavagna» gli consente di arrivare ad una sorta di realizzazione; sa bene che solo lui può vederle, ma esse costituiscono il suo tramite verso il sublime come il salto con gli sci lo era per Steiner. Messner parla anche del suo sogno di «camminare attraverso gli anni senza guardarmi indietro, senza guardare avanti fino ai confini del mondo»93. «È strano, io ho esattamente lo stesso sogno», gli fa eco Herzog. In Kalachakra - La ruota del tempo (2003) riecheggia suggestivamente questo tema nel pellegrinaggio dei fedeli che ogni anno si recano sui monti sacri per la religione buddista e ne percorrono il perimetro a 5000 metri d’altezza in cerca della stessa illuminazione che trovò Buddha nel suo cammino. Il seme dell’illuminazione – e del Sublime, aggiungiamo noi – infatti è presente allo stato latente in tutti gli esseri viventi, spiega un monaco. Alcuni pellegrini hanno percorso, ci dice Herzog, migliaia di chilometri sulle montagne solo per arrivare al luogo sacro prostrandosi per anni in più di due milioni di contatti con il terreno, forse «per misurare la grandezza del mondo con il proprio corpo»94. E «c’è perfino gente che muore in quell’occasione, ci sono persone che accettano di morire per quella visione»95. La ricerca di una laica illuminazione, del Sublime attraverso il cammino96 accomuna così lo scalatore Messner, i pellegrini buddisti e anche – capostipite cronologico – lo stesso regista, che nel 1974 percorrendo a piedi la strada innevata tra Monaco e Parigi che lo separa da Lotte Eisner97 sembra riuscire a trovare progressivamente una personale pacificazione e leggerezza, testimoniata dallo straordinario diario di viaggio Sentieri nel ghiaccio pubblicato nel 1980. «Il sogno di levarsi anche lui in volo, come lo

92 WERNER HERZOG, voce narrante in Gasherbrum, v. videografia in appendice.

93 Parole di Reinhold Messner intervistato.

94 WERNER HERZOG, voce narrante in Kalachakra, v. videografia in appendice.

95 WERNER HERZOG in GRAZIA PAGANELLI, Segni di vita, op. cit., p.93.

96 cfr. GRAZIA PAGANELLI, Segni di vita, op. cit., p.89.

97 cfr. cap.I.1, p.3.

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sciatore o come gli uccelli, è nel diario un motivo ricorrente […]. Il viaggio è un’autoiniziazione, si direbbe, che come l’iniziazione dei Primitivi, lo porta, fisicamente, nell’adlilà. In questo caso nel regno dei personaggi da lui stesso inventati»98. Quando Werner finalmente, dopo settimane di fatiche, riflessioni, solitudine, giunge davanti all’amica, tutto ciò che gli rimane da dire è: «Apra la finestra, da qualche giorno io so volare»99.

IV/25 – Gasherbrum: «Queste montagne e queste vette non esistono in fondo nell’anima di ognuno di noi?»

IV/26 – Kalachakra: Nel cammino la ricerca dell’illuminazione

Grido di pietra (1991) è il film in cui si fondono più apertamente – al limite ingenuamente – il tema del sogno e quello della scalata. Il soggetto – firmato Reinhold Messner – tratta della titanica competizione tra due archetipi: l’alpinista navigato – Roccia – e il giovane climber sbruffone, Martin. Il vecchio e il giovane si sfidano a vicenda a scalare il Cerro Torre, la cima maledetta, considerata irraggiungibile. Il regista ci indica apertamente che la vetta qui è «più l’emblema di una paura mortale che una semplice montagna»100. Uno dei personaggi nel film afferma che «non è una montagna, è un grido di pietra». La storia quindi esordisce e si dipana come una tipica avventura da Titani, con l’aggiunta di un confronto tra due eroi ugualmente potenti e fiduciosi delle proprie capacità. La sfida si risolverà come previsto nella rovina, i due contendenti erano già perduti in partenza perché sedotti dal fascino della conquista101. Ma il finale stravolge completamente il significato del film: infatti l’inesperto e audace Martin muore nel tentativo di scalata; Roccia invece riesce a raggiungere la cima, ma all’arrivo la vittoria si tramuta in delusione, sconcerto assoluto, quando scopre di non essere stato il primo a violare il cocuzzolo. Il folle Senzadita, personaggio macchiettistico, farneticante visionario, ossessionato dall’attrice Mae West, che non aveva ricoperto nessuna importanza nello svolgersi dello scontro fra i Titani, è arrivato

98 ANNA MARIA CARPI nella postfazione di WERNER HERZOG, Sentieri nel ghiaccio, op. cit., p.76.

99 Ultime parole del diario. WERNER HERZOG, Sentieri nel ghiaccio, op. cit., p.73.

100 WERNER HERZOG. Incontri alla fine del mondo, op. cit., p.259.

101 cfr. FABRIZIO GROSOLI, ELFI REITER, Werner Herzog, op. cit., p.130.

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prima di lui: sulla cima del Cerro Torre campeggia una fotografia della musa cinematografica a cui Senzadita ha intitolato così il trionfo dell’impresa; rimarrà visibile per sempre, là in alto, come monito e beffa per chi vorrà sfidare la montagna102. Nell’ultima scena la macchina da presa – a bordo di un elicottero – gira attorno al monte inquadrando lo sgomento di Roccia e immediatamente il pensiero corre al famoso finale di Aguirre, furore di Dio103. Come riconosce Conforti, «è questo il più segreto messaggio trasgressivo di Herzog; esso non è racchiuso nell’epica messneriana dell’alpinsimo puro e umano, ma nella potenza del sogno e dell’illusione che il cinema rappresenta»104. Mae West è proprio questo: in Grido di pietra, gli unici vincitori sono la forza onirica del cinema e colui che del sogno si fa alfiere, un uomo all’apparenza pazzo ma che è riuscito in ciò che gli altri – nella loro futile competizione – non hanno potuto fare, o per lo meno non prima di lui, e certo non con altrettanta levità. Tutto ciò grazie a quell’utopia di leggerezza che è il cinema, uno strumento che più di altri è in grado di far decollare la fantasia e il sogno ad occhi aperti, permettendo quindi l’agognata Ex-Stasis e in definitiva la vittoria di chi vi si affida con la visionarietà di un Primitivo, dotato però di uno strumento che gli consenta di spiccare il volo.

102 cfr. FRANCO PRONO, Grido di pietra, in «Cinema Nuovo» n°334, novembre/dicembre 1991, pp.52-­‐53.

103 cfr. cap.III.3, p.47.

104 ANGELO CONFORTI, Grido di pietra, in «Cineforum» n°308, ottobre 1991, pp.23-­‐24.

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IV/27 – Roccia, l’alpinista navigato

IV/29 – Senzadita, il visionario

IV/28 – Martin, il climber sbruffone

IV/30 – «L’emblema di una paura mortale»

IV/31,32 – La sfida titanica

IV/33 – lo sgomento di Roccia all’arrivo 74

IV/34 – Mae West, la forza del cinema


IV.5 – STUPIDITÀ EROICA: IL DIAMANTE BIANCO

La carrellata di leggeri si conclude con tre documentari dedicati al volo meno metaforico che ci sia, ma sempre motivato da profonde aspirazioni alla levità: quello a bordo di macchine volanti; Il volo meccanico – pur rendendo possibile l’ascensione ad altitudini altrimenti irraggiungibili – è il più sbilanciato verso la realtà fisica, di conseguenza è il sistema più rischioso per il raggiungimento dell’Ex-stasis e il più vicino ad un titanico fallimento. Come testimonia il mito di Dedalo e Icaro, nel volo si congiungono inscindibilmente lo spirito prometeico e la punizione della violazione dei limiti. L’aria è l’elemento degli uccelli; è la terra lo spazio assegnato al bipede implume. Nella storia delle invenzioni, delle sfide e degli azzardi dell’uomo, l’ascesa vertiginosa s’intreccia con la caduta più rovinosa, l’estasi con l’amarezza e con la disperazione105. Significativo in questo senso il fatto che dei tre film, due narrino in effetti di rovinose cadute ed uno di un successo parzialmente incrinato dalle tragedie occorse per raggiungerlo: solo chi si libra in volo conosce davvero la forza di gravità. In Little Dieter needs to fly (1997) il regista fa raccontare a Dieter Dengler la sua storia di giovane tedesco sognatore ossessionato dal desiderio di volare che decise di arruolarsi come pilota per la guerra in Vietnam106, ma venne abbattuto finendo nelle mani dei guerriglieri. Non è un caso il fatto che il regista – alla ricerca come sempre di una fessura adatta ad amplificare vicende singolari colorandole di assoluto – decida di suddividere il film in quattro capitoli dal sapore biblico: «L’uomo», «Il suo sogno», «Punizione», «Redenzione». Similmente, Wings of hope (1999) è il racconto in prima persona di Juliane Köpke, che da ragazza precipitò nel bacino amazzonico con un bimotore tra i cui passeggeri fu l’unica a salvarsi. Riuscita a sopravvivere sia allo schianto che alla permanenza nella giungla, porta ancora i segni della terribile esperienza. Suggestivo il fatto che Herzog conosca la storia di Juliane perché sarebbe dovuto essere anche lui a bordo di quell’aereo: biglietto prenotato, perse il decollo per una semplice coincidenza; come al solito il diaframma tra incredibile e reale si fa estremamente sottile nella vita e nelle opere del cineasta.

IV/35 – Little Dieter needs to fly

IV/36 – Wings of hope

105 cfr. FRANCESCO CATTANEO, La danza dei rondoni sul cuore del mito, in «Cineforum» n°456, luglio 2006, pp.19-­‐20. 106 «Non voleva andare in guerra, aveva solo il desiderio di volare». WERNER HERZOG, voce narrante in Little Dieter needs to fly, v. videografia in appendice.

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Il diamante bianco (2004) è l’opera più ricca e significativa per il tema del volo meccanico: Graham Dorrington, studioso britannico, docente di ingegneria aerospaziale, ha il sogno di riuscire a sorvolare in dirigibile il territorio inesplorato della foresta pluviale in Guayana, nelle vicinanze delle cascate Kaieteur. «Vorrei sorvolare la foresta in silenzio; col silenzio si può pensare», ci dice. Da anni lavora in funzione di questo sogno, il primo tentativo non è andato in porto; ma ora sembra essere riuscito a progettare un pallone talmente efficiente e manovrabile da rendere possibile l’impresa. L’eroe di Il diamante bianco è una sorta di Fitzcarraldo107 precipitato nel reale, nel contemporaneo. Come nota la Delvecchio, egli vorrebbe fendere il cielo come la nave di Fitzcarraldo fendeva orgogliosamente e follemente le acque della foresta amazzonica, in un rifiuto romantico della ragione che insegue un’impossibile sottrazione di peso, ossia di tutto il residuo di materia del corpo di cui l’anima è costretta a farsi carico […]. Poco importa che sia un sogno futile o folle o irresponsabile come quello di sorvolare con un piccolo dirigibile artigianale l’immensa cascata di Kaieteur: «io sono l’astratto» aveva detto Fitzcarraldo […], in un elogio della futilità contro la logica dell’utile. In questo senso anche Dorrington è un eroe sciamano, che risponde alla precarietà e alla privazione dell’esistenza trasportandosi in un altro mondo e, così facendo, trasforma la sofferenza in leggerezza108.

Il film inizia con un excursus sulla conquista umana del cielo109: sogno folle che l’uomo ha perseguito – o fantasticato – sin dai tempi primitivi; storia che sembrerebbe più una collezione di rovinose cadute – come quelle di Dieter Dengler e Juliane Köpke – che di eroiche gesta. Si va dai primi aeroplani alla titanica tragedia dell’Hindenburg; poi Dorrington ci presenta il suo piccolo dirigibile bianco: un biposto estremamente silenzioso, mosso da un motore strabiliante, progettato da un inventore misterioso che non è ingegnere e non conosce la matematica. Il protagonista racconta della sua aspirazione a volare, della sua utopia di leggerezza che lo spinge al decollo fin da piccolo, quando perse tre dita tentando di costruire un razzo110. Da sempre desidera sciogliere i vincoli con il pesantore della terra, inchiodato al suolo dalla forza di gravità. Le parole «leggerezza» e «galleggiare» ricorrono con una frequenza ossessiva nei suoi discorsi. Il volo, per il dottor Dorrington, «non è solo una questione meccanica, tecnica: in esso convergono una dimensione passionale e vocazionale e una dimensione utopica»111. L’ambientazione si sposta in Guayana, dove sarà varato il pallone. Momenti di ineffabile incanto si alternano qui a sequenze in cui vince la pesantezza cui l’umanità è vincolata dalla legge di gravità, a maggior ragione nel momento in cui tenta concretamente di sfuggirle112. I primi tentativi infatti non sono coronati da successo per 107 cfr. cap.IV.3, pp.65-­‐70.

108 MARINA DELVECCHIO, Segni di vita, in «Filmcritica» n°566/567, giugno/luglio 2006, p.320.

109 «Sogno del volo nella storia», suggerisce una didascalia.

110 «Ho sempre sognato di volare e di osservare la vita dall’alto», afferma Dorrington.

111 FRANCESCO CATTANEO, La danza dei rondoni sul cuore del mito, in «Cineforum» n°456, luglio 2006, pp.19-­‐20. 112 cfr. ADRIANO PICCARDI, Voli, in «Cineforum» n°462, marzo 2007, p.66.

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avarie tecniche; il trionfo sembra essere lontano. Come ogni sogno in cui l’uomo si trova a rimettere in discussione i propri limiti, anche quello del volo presenta un inestricabile connubio tra estasi e abisso, tra esaltazione e dramma113. La vicenda personale del protagonista porta lo stigma di questa ambivalenza: anni prima114, il suo operatore Dieter Plage – regista di avventurosi documentari nella cui figura Herzog pare a tratti rispecchiarsi – aveva trovato la morte cadendo da un dirigibile ancora imperfetto mentre tentava di recuperare la cinepresa impigliata tra le frasche. Filmati di repertorio mostrano un’intervista a Plage nella quale afferma, profeticamente, herzoghianamente: «filmare la natura può diventare pericoloso». Come se, per lui, La Soufriére avesse deciso di esplodere115. La memoria del passato è un peso che Dorrington fatica a obliare; «sento ancora un peso […]. Se non avessi avuto quel sogno, quell’Idea, Dieter sarebbe ancora vivo», afferma; anche per questo motivo si rifiuta inizialmente di far salire il regista sul volo di prova, temendo il ripetersi della catastrofe. Ma Herzog gli fa notare come rifiutargli la possibilità di filmare dall’alto il varo del dirigibile sarebbe una stupidità stupida: «esistono stupidità dignitose, stupidità eroiche, e a volte stupidità stupide. E sarebbe una stupidità stupida decollare senza telecamera a bordo»116. Di quest’enfasi attribuita al concetto di stupidità, Cattaneo propone un’interpretazione molto calzante che riportiamo per intero: la stupidità, a sentire Herzog, si dice in molti modi. In particolare, ve n’è di tre tipi: una stupida, una dignitosa e una eroica. Cosa sia una stupidità stupida lo si capisce paradossalmente proprio in virtù della formulazione tautologica […]. Ben diverso è il caso di una stupidità dignitosa o addirittura eroica. Ma come può la stupidità darsi in queste due ulteriori vesti, e che eventuale connessione hanno con la prima? […] In un suggestivo risalimento etimologico si può riscontrare come stupidità rimandi al latino stupor, che è a sua volta un derivato del verbo stupire, stupirsi. Lo stupore indica uno stordimento, un inebetimento. Si rimane a bocca aperta – come si dice – sospesi in uno stato quasi catatonico […]. Ma lo stupore è, al contempo, la condizione di un’apertura, di una particolare disponibilità contemplativa e visionaria alle cose intorno a noi, tanto quelle eclatanti quanto quelle ordinarie e consuete, che improvvisamente si mostrano inedite, perturbanti, come se ci si facessero incontro per la prima volta […]. La stupidità è l’esperienza di un cono d’ombra, di una latenza, sia quando essa ci fa ricadere su di noi (stupidità stupida) sia quando ci proietta oltre noi stessi (stupidità eroica). Che dire invece dell’eroismo? Eroico è colui che si spinge in territori eccezionali senza tema di sacrificare se stesso. […] Eroico è chi per una nobile causa è disposto a mettere in gioco persino la sua vita. C’è poi quell’eroismo stravagante e sregolato di chi persegue senza risparmio, quasi eclissando se stesso, una fantasia all’apparenza impossibile o delirante. Quest’eroismo venato di tratti romantici si estrinseca negli slanci solitari e allucinati di coloro che si muovono ai margini della ragionevolezza e della sensatezza consolidate; appartiene, dunque, ai diversi, ai folli, ai sognatori, irrimediabilmente avvinti da un pensiero dominante di cui non conoscono la provenienza, ma che non possono omettere di seguire. Il loro è un eroismo che, come un destino o una vocazione, scaturisce da un punto cieco, impenetrabile e inspiegabile e le cui eventuali ragioni emergono a posteriori, vengono dopo. In questo senso si tratta di un eroismo stupido.

113 cfr. FRANCESCO CATTANEO, Werner Herzog. Incontri alla fine del mondo, op. cit., p.352.

114 Nel 1993.

115 cfr. cap.I.2, pp.4-­‐5.

116 Parole di Werner Herzog, rivolto a Graham Dorrington.

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Porta la traccia, lo stigma di qualcosa di cui non si è padroni, che non si può dominare, ma da cui invece si è trasportati, come in sogno117.

«In celluloid we trust!» esclama infine Werner il Sognatore, pretendendo in nome del cinema di salire anche lui sul dirigibile. Perché questo cineasta di genio non è meno stupido – eroicamente dignitosamente voluttuosamente – dei suoi condottieri. Egli è un funambolo che si lascia contagiare dall’ardimento del gesto acrobatico di un altro funambolo. Meglio: è un Sancho Panza che segue istiga registra le imprese dei desperados che ha consacrato propri don Chisciotte. Per dare un nome al proprio demone, per scacciarlo fuori di sé, per fronteggiarlo in carne e ossa. Perché Chisciotte, in verità, è il sogno di Sancho118 […]. Il che non significa che questo funambolo dello spirito condivida per forza la visione o le motivazioni dei cavalieri erranti che si è prescelto119.

Il pallone tuttavia ha bisogno di ulteriori miglioramenti, il fantasma della tragedia di tanti anni prima continua ad aleggiare e significativamente, solo dopo che Dorrington si convince a raccontare completamente la storia di Plage, sembra riesca a superare il trauma e gli basta svuotare la zavorra di una bottiglia d’acqua perché il dirigibile si alzi correttamente in volo sopra la foresta. È un rastafariano del luogo, Mark Anthony Yhap – sulla cui saggezza primeva, sull’attitudine contemplativa mai defalcatrice o invasiva, sul rispetto per il mistero e sulla cui propensione all’incanto120 si sofferma a intermittenza la macchina da presa121 –, estasiato dalla visione, a battezzare il pallone: «galleggia nell’aria senza scopo, è bellissimo. Sembra un diamante». Il sogno sembra quindi realizzarsi: il diamante bianco riesce a sorvolare la foresta silenziosamente e l’utopia di Dorrington prende il volo. Rimane tuttavia sempre presente, come nel caso di Steiner il saltatore122, il necessario senso del limite. Qui l’abisso è materializzato nella cascata Kaieteur (parola indigena che significa caduta di Kaie, anche il mito non manca di richiamare alla mente il rischio del capitombolo), linea di forza verticale, spumeggiante, impassibile e vertiginosa, metafora imponente della legge di gravità123: il progetto iniziale prevedeva la possibilità di sorvolarla, ma subito ci si accorge che sarebbe un azzardo imperdonabile; le correnti risucchierebbero il piccolo dirigibile come fosse un palloncino. Il riconoscimento della cascata come limite si fa esplicito quando Herzog manda un operatore a scrutarne e filmarne l’interno, vergine all’occhio umano, ma poi,

117 FRANCESCO CATTANEO, La danza dei rondoni sul cuore del mito, in «Cineforum» n°456, luglio 2006, pp.18-­‐19. 118 «Nel corso degli anni, durante le ore della sera e della notte, Sancho Panza, che però non se ne è mai vantato, procurò al suo diavolo, cui diede in seguito il nome di Don Chisciotte, una quantità di romanzi di cavalleria e di brigantaggio e riuscì ad allontanarlo da sé in maniera che questi, privo di controllo, compì le più matte gesta, le quali però, in mancanza d’ogni oggetto prestabilito – che avrebbe dovuto essere appunto Sancho Panza –, non fecero del male a nessuno. Da uomo libero Sancho, imperturbabile e forse animato da un certo senso di responsabilità, seguì Don Chisciotte nelle sue scorribande e ne ricavò, sino alla sua fine, un grande utile e divertimento». FRANZ KAFKA, La verità intorno a Sancho Panza, nella raccolta Racconti, 1917 (rist. Arnoldo Mondadori Editore, 1970). 119 JONNY COSTANTINO, Sogni snaturati nelle fauci del vuoto, in «Carte di cinema» n°20, gennaio/aprile 2007, pp.8-­‐9. 120 cfr. Ivi, p.9. 121 «Non ha istruzione ma è molto saggio, ha molte conoscenze» ci dice Herzog. 122 cfr. cap.IV.2, pp.62-­‐63. 123 cfr. ADRIANO PICCARDI, Voli, in «Cineforum» n°462, marzo 2007, pp.67-­‐68.

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convinto dal capo indigeno del luogo che teme la morte del mito124, si rifiuta di mostrarcene le immagini; esattamente come aveva fatto per l’audio della tragedia di Treadwell125. L’inconoscibile della cascata è necessario e deve quindi rimanere ciò che è, il misterioso regno di migliaia di rondoni che vi nidificano e che compiono inarrestabili giri tra l’interno e l’esterno dello scroscio d’acqua126. Come riconosce Sproccati, l’utopia ha infatti senso solo quando configura un luogo che è sì assente, ma che è anche per definizione (ipoteticamente) raggiungibile […]. Vi è, nel film, un non-­‐luogo per eccellenza: ed è la caverna, imprendibile dietro la cascata, in cui nidificano i rondoni. Ma la scoperta che i rondoni vi nidifichino, recandovisi in picchiata, ne rende materiale l’esistenza ed appetibile il raggiungimento. Il diamante bianco, il pallone ultraleggero e quantomai efficace che – anche a pena di sconfitte sempre in agguato e di morti incombenti – è stato allestito per «volare presso la cascata», esiste in realtà per quell’inconfessabile scopo, entrare nella caverna dei rondoni127.

Per raggiungere il sublime, è necessario quel distacco dalla fisicità del reale, che rimane avvolto nel sogno, nel mistero, nella suggestione del cinema; suggestione simboleggiata da una bella inquadratura che ci mostra la cascata attraverso una goccia d’acqua. Mark Anthony guarda estasiato. «Attraverso quella goccia tu vedi l’universo?» gli domanda Herzog. Ma l’indigeno è talmente assorto che non sente la domanda, è come se si stesse davvero guardando dall’esterno, estaticamente. In una delle ultime scene, Herzog lascia la vicenda del dirigibile e decide di esplorare le vicinanze; si imbatte in una miniera di diamanti e chiede ad un operaio di mostrare alla videocamera un diamante grezzo: come è deludente quel minuscolo, sporco sassolino raccolto nel fango rispetto al Sublime del Diamante Bianco di Dorrington, che nel frattempo sta sorvolando silenzioso la giungla. In questo confronto sta tutta la differenza tra i Titani e i Sognatori: grazie alla leggerezza, questi ultimi hanno l’opportunità di raggiungere vette di esaltazione che i più pregiati valori terreni non saranno mai in grado di conquistare/acquistare. «Ho imparato che i sogni si possono realizzare con un po’ di determinazione […]. Basta avere un sogno e decollare»

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124 «Se perdiamo quel segreto la nostra cultura finirà per sempre», afferma il capo, e nelle sue parole risuonano suggestivamente quelle degli aborigeni di Dove sognano le formiche verdi, cfr.cap.II.5, pp.26-­‐ 30. 125 cfr. cap.III.4, p.53. 126 «Che il regno segreto dei rondoni viva fino alla fine dei tempi», recita la didascalia in coda all’ultima scena del film. 127 SANDRO SPROCCATI e NAZARIO ZAMBALDI, Concrete utopie, in «Carte di cinema» n°20, gennaio/aprile 2007, pp.19-­‐20. 128 Graham Dorrington in Il diamante bianco.

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IV/37 – Sogno del volo nella storia

IV/38 – Graham Dorrington

IV/40 – Mark Anthony: «Sembra un diamante»

IV/39 – Werner Herzog: «In celluloid we trust!» IV/41 – Scrutare oltre il limite

IV/42 – «che il regno segreto dei rondoni viva fino alla fine dei tempi»

IV/43,44 – «Attraverso quella goccia d’acqua tu vedi l’universo?»

IV/45,46 – Umiltà di un diamante reale di fronte alla maestosità del diamante simbolico 80


CONCLUSIONE Werner Herzog – sessantotto anni compiuti a settembre – sembra non essere per nulla stanco di costruire visioni. Come dice Steff Gruber, egli «non avrà mai una vita tranquilla. Realizzato un sogno, ce n’è subito un altro da inseguire e vivere, perché un sogno realizzato non è più un sogno»1. Nell’ultimo decennio, dopo un periodo – gli anni Novanta – di leggera fiacchezza, ha sfornato capolavori del documentario che mettono in forse la preminenza attribuita fino ad ora ai lavori del ventennio ‘70/’80, come Grizzly Man, Il diamante bianco, L’ignoto spazio profondo ed Encounters at the end of the world. Dopo aver dedicato quest’ultimo ai professionisti sognatori in Antartide2, ha intitolato a due figure titaniche le ultime fatiche americane (2009): Il cattivo tenente – Ultima chiamata New Orleans e My son, my son, what have ye done. Si tratta di due film pieni di riferimenti a tutta la cinematografia dell’autore, i cui protagonisti si fanno portavoce di quell’umanità disperatamente titanica che lotta per emergere contro la soffocante violenza del reale. In particolare My son, my son, what have ye done – ennesima storia vera di un folle pericoloso metà poeta metà visionario, Mark Yavorsky/Brad McCullum, che uccise sua madre negli anni Settana – oltre a raccogliere in modo forse un po’ pedissequo flash provenienti da tutti i film precedenti3, regala però una scena illuminante che diventa in un certo senso apice e ultima parola riguardo al discorso sui Titani. Un personaggio del film, il regista teatrale, spiega così il ruolo di Oreste al protagonista, che deve interpretarlo a teatro e finirà per identificarvisi anche troppo aderentemente fino a «non riuscire più a scrollarselo di dosso»4: quando Oreste ritorna, decide di vendicare il padre uccidendo la sua stessa madre. Ma c’è una lunga storia dietro la maledizione che grava dietro queste persone. Gli omicidi vanno avanti da generazioni. Oreste è soltanto l’ultimo anello di una catena di sangue. Tutto ha inizio con Tantalo, colui che passa tutta l’eternità negli inferi incatenato a una roccia dagli dèi, ardentemente bramoso dell’uva che lo separava di poco dal suo braccio. È dalla parola Tantalo che otteniamo tentare, tormentare, ed è l’inizio della maledizione, il supplizio di desiderare qualcosa che non possiamo avere. Cercava di sfidare gli dèi, questo Tantalo. […]. Egli poté dar vita ad altri cannibali ed assassini, proprio come suo figlio Atreo […]. Sto dicendo, che per comprendere Oreste e la sua tragedia dovete sentire tutto il peso di questa miserabile stirpe di Tantalo, un’intera dinastia di re spietati e di diaboliche regine che mangiavano l’uno le carni dell’altro e scopavano l’uno le mogli degli altri, secolo dopo secolo, generazione dopo generazione, e soltanto Oreste può spezzare la maledizione. Ma per poterlo fare deve uccidere la propria madre. E dunque, sarà dannato se lo compirà, e dannato se non lo compirà, ma doppiamente dannato se finirà con l’esitare.

1 STEFF GRUBER, voce narrante in Location Africa, v. videografia in appendice.

2 cfr. cap. IV.1, pp.59-­‐60.

3 Il viaggio in Perù, la discesa delle rapide in cui muoiono tutti i compagni come in Aguirre, il sogno di un treno senza controllo come in Dove sognano le formiche verdi, il nano, l’attore Brad Dourif, gli struzzi che non possono volare, la scena del mercato himalayano, i fenicotteri come in Provvedimenti contro i fanatici, scene immobilizzate come in Cuore di vetro. 4 Battuta del regista teatrale in My son, my son, what have ye done.

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«Questo è il punto!» esclama Brad in risposta. Sembra di vedere Herzog mentre spiega al proprio ultimo Titano in che modo, forse, sacrificandosi, può spezzare la maledizione. Ma il perdono delle Eumenidi, l’assoluzione di Oreste sono ancora vaghi all’orizzonte; Brad ucciderà la propria Clitemnestra senza esitare. Avrà riscattato il peso della sua «miserabile stirpe»? Ai posteri l’ardua sentenza. E così, se davvero il percorso dei Titani è giunto a compimento, il caso di Cave of forgotten dreams, ennesimo ritorno al documentario, coerentemente si occupa di Primitivi e di Sognatori: presentato lo scorso 13 settembre al Toronto Film Festival, si tratta un’esplorazione cinematografica delle grotte Chauvet in Francia, ricoperte dalle più antiche pitture rupestri finora conosciute. Le critiche statunitensi riferiscono di filosofici quesiti su «cosa costituisca l’attributo di umano»5 e sull’evoluzione della creatività: un’indagine agli albori di quell’eterna frustrata aspirazione umana che è la comunicazione. Ennesimo ritorno al Primitivo dunque, condito però – come lo stesso titolo esplicita, «grotta dei sogni perduti» – da riflessioni sull’onirico mondo del possibile. Lo stesso mezzo cinematografico viene qui nuovamente chiamato in causa come macchina del sogno, con una sorpresa: il film è girato in 3D, per valorizzare forse le potenzialità estatiche della nuova tecnologica. Limite, comunicazione e sogno continuano quindi ad intersecarsi e la prolificità del regista non accenna a calare, almeno per il momento. Il suo «unico, grande film»6 continua a l(i)evitare come quel diamante bianco che, tra cadute e difficoltà ma con strenua determinazione, si librerà infine estaticamente sopra la terra, ammirandone dall’alto abissi, crepacci, rapide, foreste, fiumi, cascate, ghiacciai, vette, oceani, deserti, vulcani, grotte e ogni altro paesaggio capace di farsi specchio della profondità, della ricchezza e della complessità dell’animo umano.

IV/47 – My son, my son, what have ye done

IV/48 – Cave of forgotten dreams

5 ERIC KOHN, A Natural Museum In 3-­‐D: Werner Herzog’s “Cave of Forgotten Dreams”, in «Toronto Review», 14 settembre 2010. 6 v. Introduzione, p.I, nota 1.

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W. H., Auch Zwerge haben klein angefangen (Anche i nani hanno cominciato da piccoli), 1970 sceneggiatura: Werner Herzog fotografia: Thomas Mauch, Jörg Schmidt-Reitwein montaggio: Beate Mainka-Jellinghaus musica: Florian Fricke (Popol Vuh), canzoni popolari interpreti: Helmut Döring (Hombre), Gerd Gickel (Pepe), Gisela Hertwig (Pobrecita), Gerhard Märtz (Territory) produzione: Werner Herzog Filmproduktion durata: 96’ location: Lanzarote, Isole Canarie prima proiezione pubblica: Festival di Cannes ‘70;

W. H., Behindere Zukunft (Futuro impedito), 1971; W. H., Land des Schweigens und der Dunkelheit (Paese del silenzio e dell’oscurità), 1971 sceneggiatura: Werner Herzog fotografia: Jörg Schmidt-Reitwein montaggio: Beate Mainka-Jellinghaus con la partecipazione di: Fini Straubinger, Vladimir Kokol, Heinrich Fleischmann, ecc. produzione: Werner Herzog Filmproduktion durata: 85’ location: Monaco, Bassa Baviera, Hannover prima proiezione pubblica: Festival di Mannheim ‘71;

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W. H., Aguirre, der Zorn Gottes (Aguirre, furore di Dio), 1972 sceneggiatura: Werner Herzog fotografia: Thomas Mauch montaggio: Beate Mainka-Jellinghaus musica: Florian Fricke (Popol Vuh) direttori di produzione: Walter Saxer, Lucki Stipetić interpreti: Klaus Kinski (Lope de Aguirre), Helena Rojo (Inez de Atienza), Ruy Guerra (Ursùa) produzione: Werner Herzog Filmproduktion – coproduzione: Hessischer Rundfunk durata: 93’ location: Perù (valle dell’Urubamba, Rio Huallaga, Rio Namay, Cuzco);

W. H., Die grosse Ekstase des Bildschnitzers Steiner (La grande estasi dell’intagliatore Steiner), 1973 sceneggiatura: Werner Herzog fotografia: Jörg Schmidt-Reitwein montaggio: Beate Mainka-Jellinghaus musica: Florian Fricke (Popol Vuh) direttore di produzione: Walter Saxer voce narrante: Werner Herzog con la partecipazione di: Walter Steiner produzione: Werner Herzog Filmproduktion – coproduzione: Süddeutscher Rundfunk durata: 47’ location: Germania (Oberstdorf e Garmisch–Partenkirchen);

W. H., Jeder für sich und Gott gegen alle (L’enigma di Kaspar Hauser), 1974 sceneggiatura: Werner Herzog fotografia: Jörg Schmidt-Reitwein montaggio: Beate Mainka-Jellinghaus musica: Florian Fricke (Popol Vuh) direttore di produzione: Walter Saxer costumi: Gisela Storch interpreti: Bruno S. (Kaspar), Walter Ladengast (Daumer), Helmut Döring (il re nano), Walter Steiner (bracciante), Clemens Scheitz (scrivano) produzione: Werner Herzog Filmproduktion – coproduzione: Zweites Deutsches Fernsehen (ZDF) durata: 109’ location: Dinkelsbühl premi: Premio speciale della Giuria e Premio internazionale della critica al Festival di Cannes ’75;

W. H., Herz aus Glas (Cuore di vetro), 1976; W. H., How Much Wood Would a Woodchuck Chuck, 1976; W. H., Mit mir will keiner spielen (Nessuno vuole giocare con me), 1976; W. H., Stroszek (La ballata di Stroszek), 1976 sceneggiatura: Werner Herzog fotografia: Thomas Mauch, Ed Lachman montaggio: Beate Mainka-Jellinghaus direttore di produzione: Walter Saxer interpreti: Bruno S. (Stroszek), Eva Mattes (Eva), Clemens Scheitz (Scheitz) produzione: Werner Herzog Filmproduktion – coproduzione: Zweites Deutsches Fernsehen (ZDF) durata: 108’ location: Berlino, New York, Wisconsin, Northcarolina premi: Primo premio al Festival delle Nazioni di Taormina ’77;

W. H., La Soufrière – Warten auf eine unausweiliche Katastrophe (La Soufrière – In attesa di una catastrofe inevitabile), 1977 sceneggiatura: Werner Herzog fotografia: Jörg Schmidt-Reitwein, Ed Lachman montaggio: Beate Mainka-Jellinghaus direttore di produzione: Walter Saxer voce narrante: Werner Herzog produzione: Werner Herzog Filmproduktion – coproduzione: Süddeutscher Rundfunk durata: 31’ location: Guadalupa;

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F. FORD COPPOLA, Apocalypse Now, 1979; W. H., Nosferatu – Phantom der Nacht (Nosferatu – Il principe della notte), 1979; W. H., Woyzeck, 1979; C. WEISENBORN, E. KEUSCH, Was ich bin, sind meine Filme (Io sono i miei film), 1979; L. BLANK, Werner Herzog eats his Shoe, 1980; W. H., Glaube und Währung (Fede e denaro), 1980; W. H., Huie’s Predigt (Il sermone di Huie), 1980; L. BLANK, Burden of Dreams, 1982; W. H., Fitzcarraldo, 1982 sceneggiatura: Werner Herzog fotografia: Thomas Mauch montaggio: Beate Mainka-Jellinghaus musica: Florian Fricke (Popol Vuh) direttore di produzione: Walter Saxer costumi: Gisela Storch interpreti: Klaus Kinski (Brian Sweeny «Fitzcarraldo» Fitzgerald), Claudia Cardinale (Molly), con la partecipazione degli indios Ashininka–Campa del Gran Pajonal produzione: Werner Herzog Filmproduktion – coproduzione: Zweites Deutsches Fernsehen (ZDF), Pro-jekt Filmproduktion im Filmverlag der Autoren durata: 157’ location: Iquitos e Rio Camisea (Perù), Manaus (Brasile) premi: Premio per la miglior regia, Festival di Cannes ’82;

W. H., Ballade vom kleinen Soldaten (La ballata del piccolo soldato), 1984; W. H., Gasherbrum – Der leuchtende Berg (Gasherbrum – La montagna lucente), 1984; W. H., Wo die grünen Ameisen Träumen (Dove sognano le formiche verdi), 1984 sceneggiatura: Werner Herzog fotografia: Jörg Schmidt-Reitwein montaggio: Beate Mainka-Jellinghaus interpreti: Bruce Spence (Hackett), Wandjuk Marika (Miliritbi) produzione: Werner Herzog Filmproduktion – coproduzione: Zweites Deutsches Fernsehen (ZDF) durata: 100’ location: Coober Pedy, Melbourne prima proiezione pubblica: Festival di Cannes ’84;

W. WENDERS, Tokyo–Ga, 1985; W. H., Werner Herzog Filmemacher (Werner Herzog cineasta), 1986; S. GRUBER, Location Africa, 1987; W. H., Cobra Verde, 1987; P. BUCHKA, Bis ans Ende… und dann noch weiter. Die ekstatische Welt des Filmemachers Werner Herzog (Il mondo contemplativo di Werner Herzog), 1989; W. H., Wodaabe – Die Hirten der Sonne (Wodaabe – I pastori del sole), 1989;

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W. H., Echos aus einem düsteren Reich (Bokassa – Echi da un regno oscuro), 1990; W. H., Jag Mandir: Das exentrische Privattheater des Maharadscha von Udaipur, 1991; W. H., Schrei aus Stein (Grido di pietra), 1991 sceneggiatura: Hans-Ulrich Klenner, Walter Saxer, Robert Geoffrion, da un’idea di Reinhold Messner fotografia: Rainer Klausmann montaggio: Suzanne Baron produttore esecutivo: Walter Saxer interpreti: Vittorio Mezzogiorno (Roccia), Stefan Glowacz (Martin), Donald Sutherland (Ivan), Brad Dourif (Senzadita), Hans Kammerlander, Werner Herzog produzione: SERA filmproduktion – coproduzione: Molecule, Les Stock Films International, Zweites Deutsches Fernsehen (ZDF), Canal+ durata: 105’ location: Patagonia (Argentina), Monaco prima proiezione pubblica: Festival di Venezia ’91;

W. H., Lektionen in Finsternis (Apocalisse nel deserto), 1992 sceneggiatura: Werner Herzog fotografia: Paul Berriff montaggio: Rainer Standke voce narrante: Werner Herzog produzione: Werner Herzog Filmproduktion – coproduzione: Paul Berriff, Premiere Hamburg durata: 52’ location: Kuwait;

J. RALSKE, Vergangen, vergessen, vorüber, 1993; W. H., Glocken aus der Tiefe (Rintocchi dal profondo), 1993; W. H., Tod für fünf Stimmen (Gesualdo – Morte per cinque voci), 1995; W. H., Little Dieter needs to fly (Il piccolo Dieter ha bisogno di volare), 1997; W. H., Julianes Sturz in den Dschungel (Wings of hope), 1999; W. H., Mein liebster Feind - Klaus Kinski (Kinski – Il mio nemico più caro), 1999; W. H., Gott und die Beladenen (Cristo e demoni in America Latina), 1999; W. H., Invincible (Invincibile), 2001; W. H., Pilgrimage, 2001; W. H., Ten Thousand Years Older (episodio di AA.VV., Ten Minutes Older: The Trumpet), 2001; W. H., Wheel of Time (Kalachakra – La ruota del tempo), 2003; Z. PENN, Incident at Loch Ness, 2003; L. STRAUB, Intervista a Werner Herzog, 2003; W. H., The White Diamond (Il diamante bianco), 2004 sceneggiatura: Werner Herzog, Rudolph Herzog fotografia: Henning Brümmer, Klaus Scheurich montaggio: Joe Bini musica: Ernst Reijseger, eseguita da Mola Sylla e dai cori sardi Tenore e Cuncordu de Orosei voce narrante: Werner Herzog con la partecipazione di: Graham Dorrington, Mark Anthony Yhap produzione: Marco Polo Film – coproduzione: NDR Naturfilm, NHK durata: 87’ location: Inghilterra, Guyana;

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J. BINI, In the edges: the Grizzly Man session, 2005; E. GHEZZI, Una videocosa, 2005; F. GROSOLI, Intervista, 2005; W. H., Grizzly Man, 2005 sceneggiatura: Werner Herzog fotografia: Peter Zeitlinger montaggio: Joe Bini musica: Richard Thompson voce narrante: Werner Herzog con la partecipazione di: Timothy Treadwell, Carol Dexter, Sam Egli produzione: Real Big Production, Discovery Docs durata: 104’ location: Alaska prima proiezione pubblica: Festival di Toronto ’06;

W. H., The Wild Blue Yonder (L’ignoto spazio profondo), 2005 sceneggiatura: Werner Herzog montaggio: Joe Bini musica: Ernst Reijseger, eseguita da Mola Sylla e dai cori sardi Tenore e Cuncordu de Orosei interpreti: Brad Dourif produzione: Werner Herzog Filmproduktion, West Park Pictures, Tetra Media durata: 81’ location: California prima proiezione pubblica: Festival di Venezia ’05;

E. GHEZZI, Incontro con Enrico Ghezzi. Intervista e commento a Grizzly Man, 2006; F. GROSOLI, Werner Herzog e il documentario, 2006; W. H., Rescue Dawn (L’alba della libertà), 2006; L. PHILLIPS, Walking to Werner, 2006; W. H., Encounters at the End of the World (Incontri alla fine del mondo), 2007; E. DELL’ACQUA, Commento a Bokassa – Echi da un regno oscuro, 2009; W. H., Bad Lieutenant – Cop ohne Gewissen (Il cattivo tenente – Ultima chiamata New Orleans), 2009; W. H., My son, my son, what have ye done, 2009; W. H., La Boheme, 2009.

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A chi ha dettato, chi ha lasciato leggere, chi ha letto, chi ha corretto, chi ha supportato, chi ha sopportato, chi ha nutrito, chi ha voluto vedere, chi ha capito tutto al primo colpo, chi ha prestato, chi ha fotocopiato, chi ha noleggiato, chi ha apprezzato, chi apprezzerà, Grazie.

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