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Scritti al buio

Scritti al buio

di LUIGI VICINANZA

Non b a st an o i s o l di d el Pnr r p er ri s o l l e vare i l Mezz og i or n o

Il Sud è sempre più Sud. Prigioniero dei suoi vizi. Vittima di un antico pregiudizio. E di politiche pubbliche inadeguate ad abbattere l’invisibile muro tra le due Italie. Un muro da valicare con piacere solo in occasione delle vacanze estive, alla ricerca del pittoresco e dell’esperienza esotica nel recinto domestico. O per contaminarsi con un’effervescenza culturale glocal, tradizione e innovazione, linguaggi alti e bassi. Napoli sembra sempre più Napoliwood, immersa in una magica genialità con i suoi registi, scrittori, cantanti, attori: la Vesuvio valley dell’immaterialità artistica. Rassicurante consolazione per l’orgoglio frustrato dei meridionali. Poveri ma belli. Trionfo della creatività, assenza di imprenditorialità.

I numeri sono impietosi. Nel decen-

nio 2010-2020 il divario tra il Nord e il Sud si è ampliato rispetto al passato. «La questione meridionale è diventata ancor più chiaramente parte di una questione nazionale», certifica la Banca d’Italia nel rapporto pubblicato a fine giugno. Per il presidente del Consiglio Mario Draghi «il sud è al centro dell’attenzione dell’esecutivo. Vogliamo che il Mezzogiorno torni ad avere la centralità che merita in Italia e in Europa».

C’è un tesoro da amministrare. Il 40 per cento dei fondi del Pnrr,

pari ad almeno 80 miliardi, sono destinati al Sud proprio per colmare le diseguaglianze territoriali del nostro Paese. Irrompe anche la geopolitica. Con l’invasione russa dell’Ucraina le coste meridionali dell’Italia sono individuate come il terminale naturale per fonti diverse di approvvigionamento energetico. Così la questione del Mezzogiorno, che nell’ultimo quarto di secolo era apparsa un residuo ideologico fuori del tempo, torna al centro del dibattito pubblico. Con mille ambiguità. A partire dal giudizio sull’autonomia differenziata caldeggiata dal Lombardo-Veneto leghista e dalla “rosa” Emilia-Romagna. La ministra forzista (lombarda) Maria Stella Gelmini lavora a una legge-quadro per una maggiore autonomia regionale. In disaccordo con la ministra forzista (salernitana) Mara Carfagna, sensibile invece all’allarme delle classi dirigenti meridionali. Una faglia sismica in movimento nella componente “moderata” del centrodestra.

Gli anni passati hanno provocato lacerazioni profonde. Sia con i governi a trazione leghista sia con

IL DIVARIO CON IL NORD È CRESCIUTO ANCHE PER RESPONSABILITÀ DEL SUD. CHE DEVE DIVENTARE PIÙ EFFICIENTE

i governi controllati dal Pd. Non si è avvertita differenza. La Svimez, la storica associazione di ricerca sulle condizioni del Mezzogiorno, ha calcolato che oltre due milioni di persone hanno abbandonato i paesi del Sud, dove sono nati, per trasferirsi al Nord o all’estero. In prevalenza giovani laureati e diplomati, capitale umano d’esportazione. Un esodo massiccio nell’arco di 15 anni, tra il 2002 e il 2017, tuttora in corso. È come se dalla cartina geografica fossero state cancellate 15 città popolate come Foggia.

Le regioni meridionali sono debo-

li sia sul fronte demografico che su quello economico. La stessa Banca d’Italia ha sottolineato come i tagli al settore pubblico, imposti negli anni della Grande Crisi, abbiano ulteriormente impoverito il Mezzogiorno. Siamo al cortocircuito, perché senza una pubblica amministrazione efficiente è messa a rischio la capacità di spesa degli ingenti fondi del Pnrr.

Se si vuole rilanciare la questione

del Mezzogiorno occorre un nuovo paradigma. Il Sud deve accettare la sfida dall’efficienza. Serve affrancarsi dall’immagine lamentosa, perché il Sud parte dei ritardi li ha accumulati per propria responsabilità. Se davvero si vuol pesare di più nel contesto europeo e internazionale, questo è il momento storico per un nuovo patto nazionale: il Mezzogiorno come motivo d’interesse per la crescita dell’intero sistema Italia. Funzionerà? Q

©RIPRODUZIONE RISERVATA

trari al ribaltamento. Una risoluzione anticipata settimane prima da una fuga di notizie senza precedenti. Il fatto che ogni Stato potrà decidere in autonomia, rende molto complicato tracciare il quadro di questi Usa post-Roe. L’impressione è quella di una nazione immersa nella confusione assoluta. Se è vero che metà del Paese, quella a guida democratica, più progressista e liberale, continuerà a blindare il diritto all’aborto, quello che sta accadendo nell’altra metà è ancora difficile da codificare.

Si tratta di un limbo legale che getta nel caos pazienti, cliniche e medici. Un puzzle di leggi, di proposte di leggi antiabortiste, con restrizioni, tempi e sanzioni diverse. Molti Stati avevano già in canna le cosiddette «trigger laws», pronte a diventare effettive appena i giudici avessero affossato la sentenza del ’73. Alcune di queste leggi dovranno attendere trenta giorni dalla sentenza, altre sono state bloccate da tribunali locali a seguito di denunce o aspettano di venire certificate. Ad esempio in South Dakota, Louisiana e Kentucky, subito dopo il rovesciamento della sentenza, l’interruzione di gravidanza è automaticamente diventata illecita, anche in presenza di incesto e violenza. Negli ultimi due Stati, però, sono state intentate cause per bloccare l’applicazione delle leggi, ora temporaneamente paralizzate. Nel tentativo di aiutare la gente a capire cosa stia succedendo a casa loro, i media americani propongono mappe aggiornate in tempo reale che indicano gli Stati in cui l’aborto è legale, illegale, potenzialmente illegale o a breve illegale.

Non sono mancate scene di panico davanti alle cliniche, perché subito dopo il pronunciamento i medici avevano smesso di lavorare per paura di essere incriminati. Tra i milioni di donne lasciate allo sbaraglio, pure una bambina di dieci anni. Vittima di abusi, è stata costretta ad andare in Indiana ad abortire, perché dove risiede, in Ohio, è entrata immediatamente in vigore una restrizione che proibisce l’interruzione dopo la sesta settimana. Nessuna eccezione, neanche per la piccola, in attesa da sei settimane e tre giorni.

In questa parte del Paese, la confusione genera paura. Così, dopo quasi mezzo secolo, stigma e pregiudizio riconquistano la scena. Il movimento pro choice cerca di fare muro in ogni modo possibile. Prima di tutto con campagne che puntano a mobilitare la gente, a farla votare in massa alle elezioni di metà mandato a novembre; mentre nel quotidiano si raccolgono fondi, si creano siti appositi per diffondere informazioni, denunciando le leggi anti abortiste.

Nel settore privato tante aziende - incluse Amazon e Netflix - si sono rese disponibili a coprire le spese delle dipendenti che saranno costrette ad attraversare i confini. Google, invece, si è impegnata a cancellare in automatico i dati di geolocalizzazione degli utenti che visiteranno luoghi sensibili come ad esempio una clinica dove viene praticato l’aborto. La privacy è infatti ora al centro del dibattito. E a preoccupare ora sono anche le comuni applicazioni che tracciano il ciclo mestruale.

«I pro life non vogliono difendere il concetto di vita. Stanno solo cercando di controllare le donne, ancora una volta», dice indignata Benny Del Castillo, presidente del DC abortion fund, con sede a Washington, che offre sostegno finanziario alle donne indigenti che scelgono di interrompere la gravidanza. «Pochi giorni prima della sentenza sull’aborto, la Corte ha deciso che a New York per andare in giro armati

FRONTI OPPOSTI

Dimostranti per i diritti all'aborto e manifestanti contro l'aborto si affrontano davanti all'edificio della Corte Suprema a Washington

BATTAGLIA SUL CONTROLLO DEGLI SPOSTAMENTI. GOOGLE SI IMPEGNA A CANCELLARE I DATI DI GEOLOCALIZZAZIONE DI PUNTI SENSIBILI COME LE CLINICHE

non serva una licenza; non mi sembra che i giudici siano preoccupati di salvaguardare le vite delle persone se si rifiutano persino di proteggere i bambini dalle sparatorie nelle scuole. Invece vogliono controllare il nostro corpo». La sua organizzazione si prepara al boom di richieste già in arrivo dagli Stati repubblicani. «Le donne hanno sempre abortito e continueranno (in Usa una donna su quattro abortirà comunque entro i 45 anni, ndr). C’è chi lo farà clandestinamente, con rischi enormi e spesso tragici; c’è chi sceglierà di viaggiare. Purtroppo i tempi di attesa si dilateranno, con gravissimi disagi». A pagare, ancora una volta, non saranno le donne benestanti delle classi medie e alte. «Saranno le minoranze, le indigenti, quelle che non possono permettersi biglietti aerei, assenze dal lavoro, hotel, babysitter, oltre ai costi della procedura». Ecco perché associazioni come la sua sono fondamentali, oggi più che mai. «In pochi giorni abbiamo raccolto trecentomila dollari. La comunità c’è e si fa sentire».

Quel che inquieta Del Castillo è la zona grigia normativa. «I nostri volontari vanno protetti perché il quadro legale è incerto. Politici e gruppi pro life cercano di intimorirci, paventano arresti per chi aiuta le donne ad abortire negli Stati democratici. Tutti potenzialmente potrebbero essere complici di un reato, persino il pilota che trasporta queste persone da uno Stato all’altro».

Il quadro in realtà è incerto anche perché disomogeneo è altresì il movimento antiabortista, uscito vittorioso. Se infatti la maggioranza dei pro life ha come obiettivo il divieto dell’aborto, una frangia di estremisti invoca la criminalizzazione dell’interruzione di gravidanza, equiparandola all’omicidio e considerando per questo la donna colpevole, tanto da proporre in alcuni casi addirittura la pena di morte. Sebbene, come ricorda il New York Times, questi gruppi siano malvisti finanche dalla fascia mainstream dei conservatori, negli ultimi anni hanno guadagnato terreno, alimentati dalla destra religiosa fondamentalista e non estranea alle manifestazioni più violente. Aiutati, inoltre, dall’attivismo social e dall’appoggio di Trump che nel 2016 ipotizzò «qualche forma di punizione» per le donne. Non solo provocazioni: secondo i dati del National advocates for pregnant women, dal 2006 al 2020, circa 1.300 donne hanno subito arresti o accuse.

«Il movimento antiabortista strumentalizza il cristianesimo; afferma di agire in nome di Dio, ma l’agenda politica riguarda controllo e potere», sottolinea da Apex, nella Carolina del Nord, la reverenda battista Katey Zeh, a capo della Religious coalition for reproductive choice, un’organizzazione per il diritto di aborto. «La narrazione dominante è in effetti quella secondo cui tutte le persone di fede siano contrarie, ma non è così. Tanti come me appoggiano la libertà di scelta. Mi rincuora che il presidente Biden, molto cattolico, abbia detto che proteggerà chi avrà bisogno di attraversare i confini statali per ricevere assistenza», dice.

«I giorni bui vissuti da mia nonna evidentemente non sono ancora passati», sbotta Alexander Sanger, attivista ma soprattutto nipote di Margaret Sanger, l’infermiera che nel 1916 fondò Planned parenthood, la più famosa e importante organizzazione di cliniche ginecologiche degli Stati Uniti, a cui migliaia di donne si rivolgono ogni anno. Una rete di oltre seicento centri, che provvede a quasi il 40 per cento degli aborti praticati in America, oltre a fornire supporto legato a contraccezione e screening ginecologici. «L’impegno non cambia, nonostante la sentenza. Tutte le cliniche sono rimaste aperte. Al momento stiamo lavorando a portali che permettano alle donne di individuare il posto più vicino in cui interrompere la gravidanza legalmente. Stato per Stato, stiamo contestando le leggi locali. Ogni giorno in più in cui riusciamo a tenerle bloccate è un successo». Perché quel giorno i medici potranno lavorare e le donne avere diritto a un aborto legale e sicuro. Q

SENTENZA STORICA

L'avvocato Gloria Allred e Norma McCorvey, ovvero “Jane Roe” nel caso giudiziario Roe vs. Wade, durante il Pro Choice Rally del 4 luglio 1989 a Burbank, in California. In alto, un antiabortista con un rosario in mano durante una manifestazione a Manhattan

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