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A cura di Sabina Minardi L A M O N TA G N A A R R A B B I ATA

Il coraggio per ricucire il rapporto spezzato con la natura. Rileggere Faggiani LAURA PUGNO

Chissà se Franco Faggiani ha letto le poesie “Antisismiche” dell’autrice maceratese Renata Morresi (in “Terzo paesaggio”, Aragno, 2019), dedicate al terremoto che nel 2016 ha colpito il centro Italia, uccidendo centinaia di persone, distruggendo interi paesi, e, scrive Morresi, “devastando intere aree di civiltà del centro Italia”, mentre intanto continua “a prosperare in tutto questo, una retorica, quella sì, inscalfibile.” E di certo, il rischio della retorica si annida e non può non farlo nell’impresa che a circa un anno dagli eventi sismici, durante un viaggio da Bardonecchia a Torino in cui rimane bloccato in autostrada a causa di un incendio doloso, si prefigge l’autore: dedicare un romanzo – accuratamente documentato – ai Vigili del Fuoco. La questione, in casi come questo, è come fare a fronteggiarlo. Per tutelarsi dal pericolo, Faggiani – già vincitore del Premio Biblioteche di Roma e del Premio Selezione Bancarella – si dota metaforicamente di un DPI, un dispositivo di protezione individuale che è al contempo – prendendo in prestito un’espressione cara allo scrittore e maestro di scrittura Giulio Mozzi – un “dispositivo drammatico”. Ovvero, non la cosa più importante di una storia, ma “ciò che la fa essere una storia”. Questo dispositivo drammatico, Faggiani lo incarna letteralmente nella sua protagonista, una giovane geologa solitaria, figlia di imprenditori di successo, che, potendo vivere di rendita nella vicina Svizzera, sceglie invece di arruolarsi nel Corpo, facendo carriera in un ambiente ancora molto declinato al maschile e vivendo una vita dura e remota in cui addestra cani per la ricerca dei morti. È attraverso lo sguardo di questo personaggio – così poco colluso col nostro esistente che la sua vicenda di vita nella seconda parte vira quasi al fiabesco – che scendiamo tra le macerie, verso quelle case ridotte, nella poesia di Morresi, “a descrizione”, da cui ci separa solo un nastro di plastica bianco e rosso, “una linea eloquente, un lungo verso”, ma in cui “non entreremo più”. Q

“T U T TO IL CIELO CHE SERV E” Franco Fag giani Fazi, pp. 280, € 18

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“Un’avventura elettrizzante e survoltata”. Così ha definito l’autore il suo romanzo, nell’introduzione che ne accompagna il grande ritorno in libreria. Riecco l’America cruda anni Sessanta nel primo volume di una trilogia (seguita da “Sei pezzi da mille” e “Il sangue è randagio”) che ha nutrito gli immaginari di molti. Tra crimini, ingiustizie, spionaggi e, al culmine, l’assassinio di John Kennedy. Una storia disperante, in cui non si salva nessuno. Le origini non mentono: e provenire da una famiglia italiana gli ha insegnato che niente è più importante del cibo. L’attore di memorabili interpretazioni (una per tutti: “Il diavolo veste Prada”) si tuffa in un racconto della sua vita attraverso la cucina. Un memoir, e un viaggio tra tavole di tutto il mondo, che dimostra come l’attenzione alla qualità degli ingredienti, la cura nei piatti, le tradizioni culinarie stuzzichino curiosità e gioia di vivere. La passione per un vento, il maestrale. L’attrazione irresistibile per il mare. L’occhio attento del giornalista che registra e restituisce in trascinante narrazione. La storia di un salvataggio, ispirata a un’impresa realmente accaduta al largo delle coste sarde, è qui rievocata col gusto di scrivere tendendo fino al limite personalità ed emozioni. Nude, di fronte al mare. Scoperchiate da onde che fanno paura. Ed esaltate dal coraggio che serve.

“A MERICA N TA BLOID” James Ellroy (trad. S tefano Bor tolussi) Einaudi, pp. 78 4, € 20 “CI V UOL E GUS TO” S tanley Tucci Baldini+Cas toldi, pp. 320, € 20 “M A RE MOS SO” Francesco Musolino edizioni e/o, pp. 179, € 16

MOZ AMBICO Tra g li sfollati di Cab o Delgado in fu ga dalla jihad

Ricco di risorse naturali, il nord del paese è attaccato dai fondamentalisti. Le ong sono a rischio, e i colossi dell’energia devono fermare gli impianti di Marco Benedettelli

Non c’è ombra nel campo per sfollati. Manghi e baobab che di solito coi loro rami proteggono i villaggi africani sono assenti. È sotto il sole, nella sua kaya, lo spazio abitativo formato da capanna e cortile, che Modesta torna sul suo recente passato: «Sono arrivati di notte, urlavano in tante lingue, in kiswahili, in kimwani, in kimacua e in portoghese, sembravano diavoli dalla furia che avevano. Hanno bruciato tutto. Siamo scappati nel mato, (la boscaglia, ndr) e poi dopo giorni di cammino ci siamo messi in salvo, con in braccio mia figlia che non può camminare». Cabo Delgado, provincia settentrionale del Mozambico, è sprofondata dal 2017 nel caos della guerriglia e la donna è una dei suoi 780mila Idps, Internally Displaced People, gli sfollati “interni” costretti a fuggire dai propri villaggi. Gli attacchi tempestati dai vessilli neri della jihad continuano a funestare le comunità di quest’area arborea dell’Africa australe, ricca d’innumerevoli miniere, e gas. Come quello che Eni estrae in mare aperto, 50 km davanti al bacino del fiume Rovuma mentre sulla costa si sono impiantati coi loro giganteschi siti produttivi anche ExxonMobil e TotalEnergies. Il Mozambico è al terzo posto in Africa per gas dopo Nigeria e Algeria, con riserve accertate di circa 3.000 miliardi di metri cubi. Qui Eni ha appena avviato il suo nuovo impianto galleggiante di liquefazione di gas naturale, il Coral Sul, dalla capacità di 3,4 milioni di tonnellate, il primo costruito per pozzi africani. Modesta però nella sua kaya dice che dei siti estrattivi sulla costa ne ha sì e no sentito parlare. Lei che prima era una contadina e ora si ritrova coi figli nel campo per sfollati di Ntocota, uno dei circa venti - ma la situazione è estremamente fluida - agglutinati intorno Metuge, a due ore di jeep dalla capitale provinciale Pemba. La donna, 49 anni, è senza marito. Ha le unghie dei piedi smaltate di azzurro e nessun lamento mentre racconta quanto sia dura la vita nella sua nuova casa di fascine e terra, col pozzo d’acqua a un’ora di cammino e una figlia disabile da crescere. Per fortuna ora la piccola può andare a scuola, grazie al supporto dell’ong italiana Avsi, che nel campo di Ntocota e in tutta l’area è al fianco della comunità con delicati progetti per minori, sostenuti da Unicef e Unhcr. Ogni giorno il fratellino e gli amici la accompagnano sulla sedia a rotelle, lungo i sentieri rossastri, al vicino istituto Namagna, dove le classi sono di pali e tendaggi e gli alunni si sono quintuplicati a oltre 600 col fluire dei profughi interni. Qui il direttore Kurnelio Tangos racconta: «Tanti bambini arrivano fiacchi, denutriti. Succede a fine mese quan-

Foto: M. Longari / AFP via Getty Images Campo profughi a Muagamula, nel nord del Mozambico. Questo reportage è stato realizzato grazie al “Premio Mimmo Cándito - Giornalismo a Testa Alta”

Al lavoro con i bambù nel campo sfollati “25 de junho” di Metuge do le razioni di aiuti umanitari sono agli sgoccioli». Tutto lascia supporre che Ntocota si trasformerà in un villaggio stanziale, come tante altre aree di ricollocamento, perché la gente di tornare al nord non ne vuole sapere, è terrorizzata. Nelle ultime settimane si sono moltiplicate le violenze sempre più prossime a Pemba, nei distretti di Ancuabe, Chiure e Mecufi. 20mila i nuovi sfollati che si aggiungono ai centinaia di migliaia, secondi i dati diffusi da Iom. Ma chi sono i terroristi? Sembrano avvolti dalla nebbia. Il gruppo è noto come Ahlu Sunna Wa Jama (Aswj) ma la gente del luogo li chiama i Machababos, dove ma è il prefisso bantu per “numerosi” e alshababs in arabo significa “i giovani”. Il governo mozambicano dopo aver a lungo minimizzato, ha ammesso la loro esistenza nel 2020, quando a Xitaxi cinquantadue ragazzi che si rifiutavano di unirsi ai rivoltosi sono stati trucidati. A oggi, secondo l’osservatorio Cabo Ligado, i Machababos hanno ucciso più di seimila persone, un terzo civili. La loro ribalta internazionale arriva nel marzo del 2021 con l’attacco a Palma, la città del gas prossima alla penisola di Afungi dove avevano concentrato le proprie attività sia la francese Total con il Mozambique Lng Project, sia in partnership con Eni la statunitense ExxonMobil con il Rovuma Lng Project. E dove il governo ha sgombrato intere comunità di pescatori, per fare largo ai ciclopici hub d’estrazione, liquefazione e trasporto di gas. Con l’esplosione del terrorismo tutto è sospeso per ragioni di sicurezza. Il danno economico intanto è gigantesco. Saipem ad esempio, la controllata Eni, ad Afungi è alla guida della joint venture per la costruzione del Mozambique Lng Project.

João Feijó è un ricercatore dell’istituto Omr - Observatório do Meio Rural di Maputo, che sta analizzando i gruppi rivoltosi: «Sono soprattutto di Cabo Delgado, dei distretti di Mocímboa da Praia, Palma, Macomia e Quissanga. Non solo. Grazie alle interviste raccolte sappiamo che c’è una componente internazionale. Con combattenti arrivati dall’Africa dell’est e i “bianchi”, dai Paesi arabi». Il leader degli Aswj, o dei Machababos, è nato a Palma. Si fa chiamare Omar Saìdè e per le sue abilità è noto col soprannome di Rei della Floresta. Difficile quantificarli, sono qualche migliaia, agiscono frazionati in gruppi. Reclutano i giovanissimi con promesse di riscatto sociale, denaro, lavaggio del cervello. Spiega il professor Feijó: «Ex prigionieri raccontano che i Machababos nelle sessioni di indottrinamento mescolavano fanatismo religioso e rivendicazione delle ricchezze territoriali. Dichiaravano con enfasi populista di voler prendere il controllo dei “campuni iamafuta”, le compagnie petrolifere, e che avrebbero dato lavoro alla gente dei villaggi invece che ai “kafir” di Maputo, gli infedeli della capitale».

Una veduta del campo di Metuge

Resta ora da chiarire chi li finanzi, al di là dei loro contrabbandi di legname, avorio e traffico di droga che sbarca dall’Asia. E quale sia il supporto ai Machababos dalla jihad globale: in questo senso sembrano sempre più evidenti i collegamenti con l’Aid, l’Allied Democratic Forces, organizzazione islamista nata in Uganda ma che ora semina terrore nel nord del Kivu, la disgraziata provincia della Repubblica democratica del Congo. Anche se hanno perso capacità logistica e forza d’iniziativa, finora a Cabo Delgado nessuno è riuscito a stanare i rivoltosi. Né l’esercito mozambicano, né i contractor russi di Wagner o del sudafricano Dyck Advisory Group, né le truppe ruandesi coinvolte dopo la mediazione di Parigi, né quelle della missione Samim spedite dalla Comunità di sviluppo dell’Africa Australe. I soldati regolari piuttosto si sono resi protagonisti, in documentate occasioni, di repressioni sommarie e brutali tra i locali. E i Machababos che resistono nella boscaglia si stanno sempre più radicalizzando.

Chiedere di terrorismo agli sfollati significa perdersi in una selva di diffidenza, paura, risposte laconiche. Ci sono delle donne sole che non sanno giustificare l’assenza dei loro uomini, lo scrive anche Feijó nei suoi articoli. Tra i sentieri qualcuno vocifera: «Sono tornati a fiancheggiare i Machababos» e diversi rivoltosi potrebbero anche essersi infiltrati nei campi. Il nordest in preda alla guerriglia è impenetrabile, le notizie sono avvolte nelle tenebre. Entrano giusto Médecins Sans Frontières, con interventi mirati in aree sicure. Di certo chi è rimasto, e parliamo di un milione di persone, è abbandonato a sé stesso. Gli ospedali sono bruciati, le istituzioni scomparse, non arrivano farmaci, i malati di Hiv non ricevono più i retrovirali. Tra le ong italiane in prima linea a Cabo Delgado c’è anche Medici Con l’Africa Cuamm che nei campi di tutta l’area opera per il supporto sanitario e psicologico. Elisa Tembe è una giovane donna mozambicana che fa parte del suo staff come psicologa, anche lei è una sfollata. Al momento degli scontri a fuoco tra i Machababos e l’esercito era a Maconia. «Soffriamo tutti di stress post traumatico, io sono guarita aiutando gli altri. C’è chi ha assistito a decapitazioni, mutilazioni. I più turbati sono i bambini. Gli uomini sono depressi perché col ricollocamento hanno perso il ruolo patriarcale - racconta sotto i rami di un mango del presidio medico gestito da Cuamm - Arrivano anche donne rapite e ridotte in schiavitù dai terroristi, che riescono a scappare». I campi sono sorti tumultuosamente dal 2020, nel periodo più cruento degli attacchi. Mentre anche in Mozambico si affacciava il Covid, ogni giorno decine di migliaia di persone attraversavano la boscaglia, oppure sbarcavano via mare scendendo lungo la costa sulle barche, per cercare scampo a Pemba. La città, distesa sull’Oceano indiano e immersa tra le palme da cocco, vive oggi un forte stress. Qui gli Idps hanno trovato ospitalità da familiari e amici e la popolazione è aumentata di 170 mila persone. I prezzi sono schizzati, le scuole e gli ospedali già disastrati esplodono. La spiaggia di Paquitequete è disseminata di relitti delle imbarcazioni usate dai profughi. Durante i picchi dell’emergenza la gente del quartiere si è mobilitata in un gigantesco slancio di solidarietà. Si portava acqua, si grigliavano i grandi tonni per sfamare gli sbarcati che via via venivano ricollocati. «Questo è un bairro di lacrime», racconta una ragazza all’ombra di un tendone mentre una squadra carica sulle navi ormeggiate sacchi di aiuti alimentari del Food World Program. Sono destinati agli sfollati che invece vivono a Ibo, l’isola nell’arcipelago delle Quirimbas dove le donne in tempo di pace si adornano con leggerissimi monili d’argento. Un paradiso tropicale perduto. Q

L’ECCIDIO DI SALUSSOL A Il par tigiano Jac on dalle Madonie a Biella mor to p er non tradire

Era tra i garibaldini della Zoppis. Un suo compaesano repubblichino gli promise di risparmiarlo. Rifiutò: “Non posso salvarmi da solo” di Chiara Sgreccia

Capiva il bielèis a stento quando si unì alla Resistenza. Eppure, per Jacon il distaccamento garibaldino Zoppis diventò subito una famiglia. E scelse di morire pur di non abbandonare i compagni. «Salvarmi vuol dire dannarmi», disse al comandante del contingente fascista, suo compaesano, addetto alla sorveglianza dei 33 partigiani catturati mentre riposavano in una cascina tra le colline del Monferrato, in Piemonte, stremati da giorni di cammino con i fucili in spalla e i fazzoletti rossi al collo. «Ho deciso di non tradire. Io sono del Sud, sono della Sicilia e quando noi diamo una parola è quella».

Giovanni Ortoleva, Jacon il nome di battaglia da quando prese parte alla lotta per la Liberazione dell’Italia dal nazifascismo, era l’unico meridionale tra i partigiani ammazzati a Salussola all’alba del 9 marzo 1945, poche settimane prima della fine della Seconda guerra mondiale, mentre l’armata tedesca si ritirava dal Nord protetta dagli irriducibili di Salò. Arrivava da Isnello, un piccolo comune vicino Palermo, tra le montagne delle Madonìe, che lasciò quando Mussolini portò l’Italia in guerra.

Quarto di sette figli, due maschi e cinque femmine, è un ragazzo come tanti finché la morte improvvisa del padre non lo costringe, ancora adolescente, a diventare il capofamiglia. A febbraio del 1942 Jacon, neanche ventunenne, dice addio alla sua terra ed entra a far parte del 117° reggimento di artiglieria, fino all’Armistizio, firmato nella frazione siracusana di Cassibile.

Quando l’Italia si arrende incondizionatamente agli Alleati, l’esercito è allo sbando. Migliaia di giovani in divisa sono senza patria, né ragioni per cui combattere. I tedeschi, amici fino a poco prima, sono diventati avversari da cui scappare per evitare i campi di prigionia. Tra i soldati senza più un comando, in cerca di un rifugio, c’è anche Jacon che in fuga dal sud della Francia si dirige verso la pianura piemontese. Per 10 mesi rimane nascosto

Giovanni Ortoleva, nome di battaglia Jacon. La sua storia è raccontata nel libro “Non posso salvarmi da solo”, di Antonio Ortoleva, (2021, Navarra Editore). Accanto, tre comandanti partigiani

Uno dei partigiani impegnati in Val d'Ossola. A destra, tenente della Cri, passata con la Resistenza pressi del torrente Elvo, senza nessuna pietà.

Come ha raccontato per 50 anni “Pittore”, Sergio Canuto Rosa, l’unico partigiano sopravvissuto all’eccidio di Salussola, «Jacon è stato il primo a essere portato via». Tra lui e il comandante del contingente addetto alla sorveglianza, che proveniva da Isnello, ci sono molti colloqui. Dopo l’ultimo, il partigiano siciliano dice ai compagni che potrebbe salvarsi se accettasse di passare dalla parte dei fascisti. Ma non lo fa.

«Lo guardammo sbalorditi e perplessi, nessuno parlò, nemmeno il commissario di distaccamento: sapevamo tutti che avrebbe potuto essere una scelta tra la vita e la morte.

Ci guardava ad uno ad uno come se si aspettasse una parola, un consiglio, poi ruppe il silenzio con voce che tradiva il pianto mentre accarezzava le mostrine partigiane: “Non posso, questa è la mia divisa e i miei compagni siete voi, siete i miei amici, qualunque sia la nostra sorte, io sarò al vostro fianco”. La scelta era fatta, ci stringemmo attorno a lui commossi: eravamo fieri di quel nostro compagno che, lontano dalla sua terra e dalla sua famiglia, non aveva tradito». Così riferì “Pittore”, ancora stordito dal terrore e dalle percosse, quando raggiunse, dopo una lunga fuga, il comando dei partigiani della quinta divisione Garibaldi, a Sala Biellese, secondo la versione della staffetta partigiana e scrittrice Cesarina Bracco. Così riporta il giornalista siciliano Antonio Ortoleva, autore del libro “Non posso salvarmi da solo”, edito da Navarra, che ricostruisce la storia di Jacon e dei suoi compagni. «Partigiano per caso, eroe civile per scelta», spiega Ortoleva: Jacon diventa un simbolo di Resistenza per la forza morale che tira fuori nel modo più semplice possibile. «Come conseguenza di una scelta umana di un ragazzo poco più che ventenne che non aveva neanche la quinta elementare e nessun background politico-culturale, si tratta di una scelta che ha a che fare con la carne». Ma anche perché è la testimonianza che la lotta per la Liberazione dell’Italia è stata una faccenda nazionale. In Piemonte, che fu il vero cuore della Resistenza, soprattutto nelle valli, sono stati censiti settemila parti-

Foto di gruppo dei partigiani della Seconda divisione dall’album "Esercito Sud e Partigiani" giani provenienti dalle sei regioni meridionali sui 40 mila in azione nelle 50 divisioni sul territorio, senza contare i figli nati al Nord delle numerose famiglie di emigrati. L’apporto che il Sud ha dato al movimento partigiano è stato ben più di un contributo. È stata vera e propria partecipazione. L’hanno chiarito anche l’Anpi, l’Associazione nazionale partigiani di Italia, e il suo presidente emerito, appena scomparso, Carlo Smuraglia che ha scritto: «Molti pensano che la Sicilia sia estranea alla Resistenza e la apprezzano più per le sue bellezze storiche e ambientali... È un grave errore, frutto di scarsa conoscenza storica e di antichi pregiudizi. È un grave errore che tutti dobbiamo contribuire a correggere, anche sul piano politico, culturale e storico».

Terra martire del’43, la Sicilia è stata la regione con più vittime civili fino all’armistizio dell’8 settembre. Oltre ottomila senza contare i feriti, i dispersi e i mutilati, secondo l’Istat. Perché le truppe inglesi e americane prima dello sbarco hanno seminato il panico tra la popolazione con lo scopo di fiaccare la fiducia nel governo mussoliniano. Ma è stata anche una terra in cui la ribellione è scoppiata prima del tempo, come avvenne a Mascalucia nell’agosto del 1943 quando, ancor prima delle quattro giornate che portarono alla liberazione di Napoli, gli abitanti del paese alle pendici dell’Etna hanno imbracciato i fucili e scacciato i tedeschi che si preparavano alla ritirata. In Sicilia ha avuto luogo un conflitto che è durato ben oltre la fine della Seconda guerra mondiale. Perché i partigiani, e chi ha respirato gli ideali della lotta di liberazione nazionale, hanno dovuto resistere e combattere contro un altro nemico: la mafia. Un’altra guerra che ha prodotto la scia di sangue innocente che da Portella della Ginestra, dalla repressione della rivolta contadina, arriva allo stragismo degli anni Novanta. Così i principi che hanno dato forma alla Repubblica e alla Costituzione, trasformato l’Italia in un Paese moderno, sono il risultato dell’impegno di tutto il popolo: dalla Valsesia in Piemonte, al Gargano in Puglia, alle Madonìe. E la storia di Jacon è importante per ricordarlo. Per celebrare la forza di chi, pur potendo, non ha girato lo sguardo, né tradito le proprie idee e i compagni con cui lottava per realizzarle. Q

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