L'ESPRESSO 37

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Settimanale di politica cultura economia N. 37 • anno LXVIII • 18 SETTEMBRE 2022 Domenica 3 euro L’Espresso + La Repubblica In Italia abbinamento obbligatorio alla domenica. Gli altri giorni solo L’Espresso 4 euro ITALIA-RUSSIA La spia di Putin amica di Salvini UNIVERSITÀ L’omertà copre i concorsi truccati IDEE Ecco la generazione degli asessuali Mentre dilaga sul web e in tv, la campagna elettorale si tiene alla larga dai luoghi dove maggiore è la sofferenza sociale. Da Nord a Sud i cittadini ignorati ripagano la politica con disincanto e indifferenza. Mentre le mafie sanno bene chi preferire nelle urne  Voto di periferia Poste Italiane s.p.a.sped.in A.P.-D.L.353/03 (conv.in legge 27/02/04 n.46) art.1comma 1-DCB RomaAustriaBelgioFranciaGermaniaGreciaLussemburgoPortogalloPrincipato di MonacoSloveniaSpagna € 5,50C.T. Sfr. 6,60Svizzera Sfr. 6,80Olanda € 5,90Inghilterra £ 4,70
18 settembre 2022 3 Altan

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Editoriale

Prima Pagina

Disincanto di periferia

Gianfrancesco Turano 12 Quanto è lontana Roma Est Gaja Lombardi Cenciarelli  20 “Ho paura per l’ambiente. Per questo digiuno” ChiaraSgreccia 22

Candidato La Qualunque  Antonio Fraschilla 30

In lotta per le briciole Gabriele Bartoloni 34

La cittadinanza fa litigare i candidati del Sudamerica  Federico Nastasi 36 Pd, non parlare della destra  Loredana Lipperini 38 Bonino: senza Calenda, con l’Europa  Federica Bianchi 40 Lega-Russia, soldi e spie  Paolo Biondani 44 Mosca Attrazione fatale  Vittorio Malagutti e Carlo Tecce 48 Industria, la crisi peggiore  Eugenio Occorsio 52 Vicini nella crisi  Andreas Jung 56 Calabria, i diritti negati  Marco Grieco 58

Opinioni

Altan 3

Makkox 8

Grasso 26

Murgia 29 Corleone 42

Serra 81 Cacciari 122

La parola 7

Taglio alto 17

Bookmarks 101 Ho visto cose 118

#musica 118

Scritti al buio 119

Noi e voi 120

La sanità pubblica è in pericolo di vita

Ivan Cavicchi 62 Università = Omertà  Gloria Riva 64 Ungheria feudo di Orbán  Sabato Angieri 68

La guerra dei monumenti  Alice Pistolesi 72 Se il Cile resta a secco ElenaBasso 76 Addio regina degli arcobaleni IvanCanu 82

Idee

Generazione No sex  Simone Alliva 84 Tutto il resto è noia  colloquio con V. Raimo e Tutti Fenomeni di Francesca Sironi 90 Viaggio nel tempo  Giuseppe Fantasia 94 L’importanza di essere dilettanti  Sabina Minardi 98 Zero talento alla Bauhaus  Maurizio Di Fazio 100 Antigone fa la sindacalista  colloquio con Isabelle Huppert di Claudia Catalli 102 Godard, il più geniale, il più solo  Fabio Ferzetti 104

Storie

Il prete colombiano che salva i bambini dai narcos  Luana De Francisco 106

I volontari che danno un nome a chi muore in mare  Linda Caglioni 110 Dopo la xylella:

COPERTINA

Artwork di Alessio Melandri Foto di E. Paoni - Contrasto, E. Cristiani - Agf, A. Zambardino - Contrasto, M. Becker - Contrasto, S.G. Pavesi - Contrasto, S. Dal Pozzolo - Contrasto, Agf, Shutterstock

Rubriche Dimenticano le periferie e si ricordano di Putin Lirio Abbate 11
Sommario
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la nuova vita degli olivi AngiolaCodacci-Pisanelli 114 84 numero 37 - 18 settembre 2022 18 settembre 2022 5 Abbonati a SCOPRI L’OFFERTA SU ILMIOABBONAMENTO.IT L’Espresso fa parte in esclusiva per l’Italia del Consorzio internazionale dei giornalisti investigativi Ricevi la rivista a casa tua per un anno a poco meno di €6,00 al mese (spese di spedizione incluse) Le inchieste e i dibattiti proseguono ogni giorno sul sito e sulle pagine social de L’Espresso. UNISCITI ALLA NOSTRA COMMUNITY lespresso.it @espressonline @espressonline @espressosettimanale

sospetto

Chi tra pochi giorni voterà a cuor sereno? Chi si affiderà senza riluttanza ad alleanze politiche tardive e improvvisate? Chi approverà l’ultimo scalo di Calenda, i falsi sorrisi tra Meloni e Salvini, l’ammucchiata intorno a Letta? Probabilmente tutti, perché tutti sono ormai muniti dell’unica arma che tutela dalla delusione: il sospetto. Meno faticoso del dubbio, più prudente della fiducia, il sospetto consente di immaginare ogni nefandezza (raramente qualche virtù) eliminando la fatica di scegliere. Così un candidato avrà qualche pecca nel passato, un altro progetti nefasti per il futuro e nessuno sarà insospettabile. Certo, in politica il sospetto ha fatto addestramento su bersagli maestosi come Andreotti e ora deve esercitarsi su piccole stature, ma a soccorrerlo interviene l’aiuto complottista dei social e di tutta la potenza di internet. È da lì che il sospetto si diffonde a macchia d’olio, si incontra con le difficoltà reali delle persone e contribuisce ad alimentare la rabbia sociale. Specialmente quando si impegna a trovare facili colpevoli come, ad

esempio, i cinesi che avrebbero inventato volutamente il Covid, a dimostrazione che, per chi vive di sospetti, una risposta falsa è più rassicurante di una verità scomoda. Chissà che penserebbero di questi nostri tempi quei tre grandi, Marx, Nietzsche e Freud, che sono stati chiamati “i maestri del sospetto” proprio perché, ciascuno a suo modo, hanno osservato senza illusioni la propria epoca? Il primo sospettò e svelò che il vero obiettivo delle ideologie a lui contemporanee era quello di preservare gli interessi della classe dominante, il secondo mostrò come fossero fragili le verità umane affidate alla coscienza, il terzo ipotizzò la presenza di una forza che domina le azioni dell’uomo al di là della sua volontà. Ma non dobbiamo dimenticare che il sospetto mostra la sua faccia più emotiva nell’amore di coppia e nel timore del tradimento, animando da sempre la grande letteratura, da Shakespeare a Dürrenmatt, e il cinema più o meno grande. Valga per tutti proprio “Il sospetto” di Hitchcock, film imperdibile di 80 anni fa, del quale però sarebbe un delitto fare qui lo spoiler.

18 settembre 2022 7 La parola STEFANIA ROSSINI
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8 18 settembre 2022
18 settembre 2022 9 Makkox

Dimenticano le periferie e si ricordano di Putin

a vita dignitosa che meritano le persone che vivono nelle periferie doveva spingere la campagna elettorale dei leader a renderla più presente e centrale. Perché è un luogo sul quale bisogna investire, in cui occorre potenziare le scuole, dove le istituzioni devono essere più presenti e credibili, e dove la politica progressista deve facilitare gli investimenti e fare in modo che nessuno resti indietro, risolvendo problemi e facilitando l’integrazione. Per avere così una comunità forte e coesa. Purtroppo, in queste zone delle città, nel periodo elettorale, si vedono solo galoppini di politici vecchia maniera che solcano i condomini, bussano alle porte, avvicinano anziani, per inculcare, spesso con promesse vaghe, il voto da strappare. E chi riempie furgoncini di sacchetti pieni di generi alimentari che il candidato dona in maniera massiccia a chi si ricorderà di lui

L nella cabina elettorale. Vecchie storie che purtroppo in queste zone si ripetono da decenni. Le periferie restano solo un passaggio. E poi nulla più. A proseguire l’impegno ci sono solo pochi volontari, poche associazioni, pochi assistenti sociali che, come una missione, insistono tutto l’anno con la loro passione fra chi è periferico, e chi no, nel tentativo di avvicinarli al centro, o di far avere gli stessi servizi che spettano a tutti i cittadini.

I politici vanno a chiedere voti in luoghi dove non sono mai stati, invece di contribuire a risolvere

i problemi sociali gravissimi di quei territori. E Salvini nega che la Lega abbia chiesto soldi ai russi, come invece è documentato

Si deve tornare a pensare, e a fare, in periferia: dove si conquista, voto su voto, il consenso. E una strada, non c’è dubbio, molto più faticosa dei grandi proclami in televisione alla ricerca di qualche improbabile nuovo leader. C’è bisogno di centinaia, migliaia di persone che tornino a credere nella politica, la politica dei piccoli passi e delle grandi mete.

Non è certo la politica di chi va a Mosca a chiedere soldi per il partito che può essere un esempio. Perché di esponenti politici della Lega di Matteo Salvini abbiamo avuto traccia, in video e audio, che si sono seduti al tavolo con uomini di Putin e avviato una trattativa economica e politica. Era l’ottobre del 2018 all’hotel Metropol a Mosca e il mercanteggiamento era condotto dall’ex portavoce di Salvini, Gianluca Savoini, per finanziare la Lega con denaro russo.

La ricerca di soldi coincideva con il provvedimento di sequestro dei conti correnti del partito da parte della magistratura. Salvini, che ha simpatie per Putin, non ha mai spiegato perché il suo uomo fidato, Savoini, aveva avviato nello stesso periodo trattative di cui avrebbe dovuto beneficiare la Lega. Savoini, come dimostrano i documenti in possesso de L’Espresso, lo dice chiaro: l’obiettivo politico è la costruzione di una nuova Europa, un modello russo organizzato a favore delle forze politiche nazionaliste in Europa. Mosca appare il centro sovranista disposto a offrire denaro e opportunità di affari ai principali attori europei che lavorano per indebolire l’Unione Europea. I sovranisti, insomma, chiedevano aiuto a una potenza straniera.

Nei giorni scorsi un alto funzionario dell’amministrazione Biden in una conference call, ha rivelato che la Russia ha trasferito segretamente dal 2014, anno dell’occupazione della Crimea, oltre 300 milioni di dollari a partiti politici, dirigenti e politici stranieri di oltre una ventina di Paesi per esercitare il suo “soft power”. E queste non sarebbero che “cifre minime” rispetto a quelle che probabilmente Mosca ha speso in questa attività, mentre si prepara nei prossimi mesi ad affidarsi sempre di più ai suoi mezzi di influenza coperta per tentare di minare le sanzioni internazionali per la guerra in Ucraina. Il presidente del Copasir Urso ha detto che «al momento non risulta che il nostro Paese sia nel dossier sui finanziamenti che Mosca avrebbe elargito». E Salvini si è premurato a dire: «Mai chiesto, né preso soldi dalla Russia, facciano i nomi». Stando a quanto dice Urso nessuno in Italia ha ricevuto somme di denaro, ma il leader della Lega non dice una cosa corretta, perché da quello che ci risulta, ed è documentato, la richiesta a Mosca è stata fatta. E questo è un dato politico non indifferente.

EditorialeLirio Abbate
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Verso il voto

Una veduta di Quarto Oggiaro
12 18 settembre 2022
Prima Pagina DISINCANTO DI PERIFERIA QUARTO OGGIARO, HINTERLAND MILANESE. UN PASSATO DI TOTALE DEGRADO, UN PRESENTE DI FATICOSO RISCATTO. MA I PARTITI QUI CANDIDANO PERSONAGGI ESTRANEI AI BISOGNI DEL TERRITORIO   DI GIANFRANCESCO TURANO

Verso

voto

l baby-boomer di Quarto Oggiaro, quartiere di cinquantamila persone al margine settentrionale di Milano, se lo ricorda bene il bar di via Arsia dove il gestore bucava i cucchiaini del caffè per non farseli rubare dagli eroinomani. Erano gli anni Settanta e Ottanta, quando il quartiere dormitorio creato nella sacca fra la linea ferroviaria e la cava di Giuseppe Cabassi, “el sabiunàt”, veniva occupato strada dopo strada dalla famiglia siciliana Crisafulli guidata da Biagio detto “Dentino”, fedina penale sterminata con un’ultima condanna vent’anni per traffico di stupefacenti nel 2018, poi dai campani Tatone, poi dai Carvelli, crotonesi di Petilia Policastro, mentre i baroni della ’ndrangheta al Nord Franco Coco Trovato e Pepè Flachi occupavano “manu militari”ww un territorio che

oltre a Quarto Oggiaro includeva Lecco, Bruzzano, la Comasina.

Quartiere operaio che votava a sinistra, dove i giovani uscivano dalle parrocchie di Santa Lucia e della Resurrezione per entrare nel Movimento studentesco o in Lotta Comunista, Quarto Oggiaro va verso le elezioni del 25 settembre con il disincanto di chi non si aspetta nulla dalla politica.

Dati alla mano il municipio 8, di cui Quarto Oggiaro fa parte, non riserva sorprese. Alle politiche del 2018, con una rappresentanza politica pre-riforma elettorale e collegi diversi, il centrodestra vinse sia al Senato sia alla Camera contro un centrosinistra che, aggregando il voto di Leu e Cinque Stelle, avrebbe avuto una netta maggioranza.

Anche il dato dell’ultima tornata amministrativa del 2021, che ha visto la conferma a sindaco di Beppe Sala con una vittoria schiacciante al primo turno e la vittoria in nove municipi su nove, è in linea con il resto della città. Al municipio 8 il centrosinistra ha

rivinto con la democrat Giulia Pelucchi, 32 anni il prossimo ottobre, di mestiere commercialista con un passaggio a Pwc, uno dei colossi multinazionali della consulenza, e l’esordio in politica nel 2016. Il Pd è maggioritario anche per numero di consiglieri ma la realtà della circoscrizione, che parte dal centro per salire fino al limite del Comune, mette insieme facce molto diverse della città e Quarto Oggiaro ha poco a che vedere con i bei palazzi affacciati sul parco di Trenno o le ville dei calciatori a San Siro.

Il dato dell’astensione è forte, niente di nuovo nemmeno in questo, e non c’è da sperare che migliori. Tra le formazioni principali dell’uninominale Camera, i quartoggiarini potranno votare il berlusconiano di ferro Andrea Mandelli, farmacista monzese, oppure l’avvocato di origine africana Denis Nunga Lodi

Gianfrancesco Turano Giornalista
il
SE UNISSERO LE FORZE SINISTRA E M5S POTREBBERO BATTERE LA DESTRA. MA INVECE DELL’APPREZZATO ASSESSORE ALLA CASA MARAN IL PD PRESENTA TABACCI I
14 18 settembre 2022

D. PiaggesiFotogramma, Tam Tam

per il M5S o, infine, l’interminabile Bruno Tabacci, mantovano di 76 anni schierato dal centrosinistra.

All’uninominale Senato i grillini presentano la civilista milanese Elena Sironi. Ma lo scontro per il seggio sarà tra il democrat milanese Emanuele Fiano, figlio di Nedo sopravvissuto ad Auschwitz, e Isabella Rauti, figlia di Pino fondatore del Centro Studi Ordine Nuovo che, diventato movimento politico, è stato la punta di lancia dell’eversione nera ben oltre lo scioglimento disposto dal Viminale nel 1973 per ricostituzione del Partito Fascista.

È una contrapposizione radicale che, però, viene percepita come lontana nel tempo almeno quanto i cucchiaini bucati del bar di via Arsia. La sinistra qui perde consensi perché l’offerta politica consiste, alla Camera, in un vecchio democristiano riciclatosi con Luigi Di Maio e, al Senato, in un figlio dell’Ulivo che nessuno ricorda protagonista delle battaglie per le perife-

Prima

Condomini di Quarto Oggiaro. La grande maggioranza di alloggi del quartiere è di proprietà di enti pubblici

rie. Eppure a Quarto Oggiaro l’integrazione nel tessuto urbano e l’accoglienza sono i temi principali. Ma sono quasi sempre affidati all’associazionismo territoriale, alla politica di base. Chi cresce dal basso lavorando sul territorio finisce per scontrarsi con il candidato paracadutato dall’alto, in nome di una strategia che mira a conservare il seggio ai membri del cerchio magico. «Poi», dice un iscritto al circolo Anpi “Carla Del Rosso”, «se vanno al governo, bene. Se vanno all’opposizione, meglio. Cinque anni con paga ottima e poca fatica». Anche chi ha lavorato con passione sulle periferie dalla giunta di palazzo Marino è rimasto al palo. Il caso sulla bocca di tutti gli elettori di sinistra è quello di Pierfrancesco Maran, assessore alla Casa e al Piano quartieri del Sala bis, primo classificato per le preferenze alle comunali 2021 con 9166 voti. Molti, forse lui per primo, si aspettavano che venisse proposto a livello nazionale, se non altro per un calcolo contabile di

Foto pagine 12-13: D. SalernoFotogramma, pagine 14-15:
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18 settembre 2022 15

bassa lega. Ma no, niente Maran. C’è Tabacci, una faccia delle tante fra gli ospiti dei talk-show politici.

«Peccato», dice Enrico Fedrighini, residente del Municipio 8 e consigliere comunale per il centrosinistra, «perché non è passata a livello di segreteria nazionale Pd la parte migliore del modello Milano, quella del lavoro associativo forte, capace di rompere le pareti del quartiere ghetto. A Quarto Oggiaro il danno è stato fatto in sede di assegnazione degli alloggi popolari, le case Iacp, i casermoni Ina del piano Fanfani, quelle delle Gescal, riscattate dagli inquilini oppure passate ad Aler e a Mm. Lì in poche strade veniva concentrato il massimo di individui socialmente problematici. Ed è nella stessa sede che questa ferita va sanata».

Come ricorda Fedrighini, negli anni Sessanta e Settanta venivano spediti nel ghetto quartoggiarino i matti, le famiglie con il padre in galera, i “zanza” che facevano le truffe con le rate degli elettrodomestici o i rapina-

Lo sgombero di un appartamento occupato in via Pascarella.

A destra: un murale nel quartiere

tori di banche. Finché sono arrivati i delinquenti di alto bordo. È negli anni di fine boom che nasce la leggenda nera di Quarto Oggiaro. La sacca operaia tra i binari e la cava Cabassi diventa un cono d’ombra urbanistico perfetto per la prosperità del crimine organizzato. Il quartier generale della droga si installa fra le case popolari di via Capuana, via Pascarella, via Lopez, via Satta dove vivono gli operai dell’Alfa Romeo Portello, di Breda, Borletti, Brown Boveri, Innocenti, Alemagna, Pirelli, Campari.

Ma Quarto Oggiaro non è e non è mai stato solo droga. È una storia di preti operai, di società sportive come la Aldini e la Bariviera, oggi fuse in una, di associazioni attive sul territorio come Errante di via Capuana o il centro Carlo Perini. Costituito nel 1962 in nome dell’ex senatore dc presidente dell’Azione cattolica di Milano, il centro Perini è diventato fondazione nel 2003 con un’attività prestigiosa negli studi sulle aree urbane e sull’inclusione e con animatori come Antonio Iosa, democristiano gambizzato dalle Br nel 1980, spina nel fianco della speculazione edilizia e pioniere delle periferie. Quarto Oggiaro è anche una storia di scrittori come Gianni Biondillo, di musicisti che bazzicavano il negozio Urbano e poi finivano a suonare nei Camaleonti, nei New Trolls, con Franco Battiato oppure a fare i turnisti come Giancarlo Porro, il Gianca per gli amici. Porro è

Verso il voto
GLI IMMIGRATI PIÙ NUMEROSI SONO I CINESI, POI I FILIPPINI, GLI EGIZIANI, CINGALESI, PERUVIANI. “IL QUARTIERE È STATO DI FATTO OBBLIGATO A CONSERVARE UNA CULTURA DELL’ACCOGLIENZA”  16 18 settembre 2022

Prima Pagina

un polistrumentista jazz di valore, ha suonato con i grandi. Con il crollo del mercato musicale al Gianca è rimasto l’insegnamento, prima alla scuola media di via Graf e poi all’ex Vico di via Val Lagarina, due avamposti di frontiera vissuti con sofferenza e fatica crescenti. Il professor Porro, passato dalla sinistra ai Cinque Stelle con l’intenzione di tornare a sinistra il 25 settembre, racconta i suoi cinquant’anni di vita del quartiere senza tentazioni di politicamente corretto.

TAGLIO ALTO

Isabella Rauti, candidata per il centrodestra. Sopra: il sindaco di Milano Giuseppe Sala

«Nelle classi delle scuole di qui c’è di tutto dal punto di vista etnico», dice, «e questo ha quasi obbligato il quartiere a conservare una cultura dell’accoglienza. Poi sì, alcuni ragazzi finiscono a fare i cavallini per portare la droga nei bei locali della movida. Davanti a casa mia c’è un asilo chiuso da trent’anni per l’amianto che è stato occupato dai nomadi. E non sappiamo che cosa abbiano nascosto sotto terra sui terreni della raffineria Fina o nell’ex cava Cabassi, dove oggi c’è il centro commerciale Metropoli. Ma Quarto Oggiaro si è molto riqualificata e a me piace stare qui. Non c’è la metropolitana vicina ma con il quadruplicamento della ferrovia arriva il passante. Nel quartiere continuiamo a dire “vado a Milano” ma non sono più i tempi dell’assalto alla diligenza delle linee Q e H, i soli mezzi che servivano la zona».

Oggi oltre al passante ci sono i bus delle linee 57 e 40 sui quali campeggia il faccione pre-elettorale di Matteo Salvini che da queste parti fatica a sfondare. Nonostante gli slogan sulla sostituzione etnica dell’europarlamentare leghista Silvia Sardone, il quartiere conserva la sua identità forte nei decenni e continua a essere in prima fila nell’accoglienza delle ondate migratorie, come quando si veniva qui dal Sud o dal Triveneto per lavorare all’Alfa del Portello.

Il municipio 8 è ancora dietro come percentuale di stranieri residenti rispetto ai municipi 2 (zona nordest) e 3 (zona est) dove la componente immigranti arriva al

MAURO BIANI

E. Contrasto, C. Greco - Agf, P. TreA3
Foto: N. MarfisiFotogramma,
GrossoRedux /
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DOVE CRIMINALITÀ

INCONTRASTATI OGGI

SPACCIO REGNAVANO

SONO UN PARCO

cento delle quattromila case popolari gestite dalla Aler, l’ente milanese che amministra il patrimonio edilizio pubblico, occupate abusivamente e con l’accesso controllato direttamente dagli uomini della ’ndrangheta. Alcuni interventi di polizia hanno fatto emergere un vero e proprio controllo militare dello spaccio tra i casermoni del quartiere con file di acquirenti che si presentavano praticamente alla luce del sole nei vari punti dove operavano gli spacciatori stabilmente presidiati da chi era addetto alla guardia e al rifornimento. Risale allo stesso mese di agosto 2007, e cioè poco dopo il fallito tentativo di “bonifica” di Quarto Oggiaro, l’omicidio proprio di Francesco Carvelli figlio dell’ergastolano Angelo Carvelli e nipote del sorvegliato speciale Mario Carvelli, considerato l’attuale padrone del quartiere».

Da allora gli equilibri sono cambiati e cambiano di continuo anche se alcuni nomi ricorrono, come quello di Davide Flachi, 43 anni. Il figlio del vecchio boss Pepè, morto lo scorso gennaio a 70 anni, è stato arrestato ai primi di settembre insieme all’ex pugile e naufrago dell’Isola dei famosi Franco Terlizzi dopo avere organizzato una rete di narcotraffico che importava hashish dalla Spagna e coca dalla Calabria.

29 e al 25 per cento. Ma la zona 8 fa segnare la maggiore crescita di stranieri dal 2018 al dicembre 2021 in salita dal 18,35 al 20,6 per cento.

Le comunità più forti sono quelle asiatiche con i cinesi in testa seguiti dai filippini. Al terzo posto c’è la comunità egiziana, poi ancora lo Sri Lanka, il Perù e la Romania, che è rappresentata soprattutto dai nomadi raccolti intorno al campo di via Negrotto, o sparsi per il municipio nelle zone più disparate, spesso con accampamenti di fortuna.

Nel complesso, la paventata sostituzione etnica ha dato un contributo positivo, se si confronta la realtà del quartiere di oggi con quella che descriveva la commissione parlamentare antimafia presieduta da Francesco Forgione durante la quindicesima legislatura nel 2008. «Uno spaccato particolare è rappresentato da Quarto Oggiaro, il quartiere popolare da sempre tra i più degradati della periferia nord-ovest di Milano. Una vera e propria zona franca per l’illegalità, con sette-

A Quarto Oggiaro, davanti alla bellissima villa Schleiber, recuperata insieme al parco dopo un lungo periodo di degrado, è stato inaugurato un commissariato di polizia per segnalare che il quartiere non è più un’area fuori del controllo statale. È anche un modo per scaricarsi la coscienza. Nella Milano affamata di droga è la periferia a pagare il conto dei consumi del centro, come accade a Roma, a Napoli, a Torino. Ma non bisogna fermarsi al folklore del trafficante che, mentre i carabinieri sono sulle scale, lancia dalla finestra seimila euro in banconote come ha fatto Marcello Lo Bue, fratello minore di Michelangelo, un boss di zona gambizzato ad aprile del 2018 in via Arsia, quella del bar con i cucchiaini bucati e delle case minime con bagni e docce in comune. Adesso le case Fanfani sono state rase al suolo. Al loro posto ci sono alloggi con servizi e, nella vicina via Otranto, una biblioteca efficiente. Se il crimine a Quarto Oggiaro non è una leggenda, la reazione civica del quartiere è una realtà che la politica nazionale dovrebbe prendere a esempio.

Bruno Tabacci, candidato per il centrosinistra. Sopra: in bicicletta per le vie del quartiere
Verso il voto Foto: E. GrossoRedux / Contrasto,A. BiagiantiAgf
Q © RIPRODUZIONE RISERVATA
E
CI
E UNA BIBLIOTECA. UNA REAZIONE CIVICA CHE DOVREBBE SERVIRE DA ESEMPIO SUL PIANO NAZIONALE
Prima Pagina 18 18 settembre 2022

Verso le sei del pomeriggio di un giorno qualsiasi, le fermate della Metro C a piazza dei Mirti e a piazza delle Gardenie scompaiono dietro nugoli di ragazze e ragazzi. Doppio taglio, borsello a tracolla di Louis Vuitton, jeans strappati, t-shirt di marca, tute costosissime, felpe da collezionisti – alcuni acquistano capi d’abbigliamento in produzione limitata per poi rivenderli on line a prezzo maggiorato - unghie lunghissime e decorate, tatuaggi. La nail art e i laboratori di tattooer professionisti sono tra i nuovi mestieri più ambiti e diffusi tra la fascia giovane di chi vive in questo quadrante e lascia gli studi dopo l’obbligo scolastico. D’estate, la linea automatizzata - diretta discendente della “lilla” di Milano, leggera e completamente driverless

20 18 settembre 2022 Verso il voto TRA I RAGAZZI DELLE PERIFERIE ROMANE. IL LAVORO CHE NON C’È, LA SCUOLA CHE NON AIUTA. MOLTI DICONO CHE ANDRANNO A VOTARE, MA NON SANNO ANCORA PER CHI QUANTO È LONTANA ROMA EST DI GAJA LOMBARDI CENCIARELLI

Prima

vacanze di Natale, uno dei miei studenti, che frequentava un istituto tecnico informatico e viveva a Case Rosse, mi disse: «Piazza Navona è bellissima, ci sono stato una volta sola, da bambino. Mi ci portò mio padre, è ancora così?».

Il più importante privilegio del mestiere dell’insegnante è avere l’opportunità di vivere tra i ragazzi, poterli ascoltare, vederli crescere. Studiare non sembra essere una delle loro priorità. A scuola ci si ri-conosce, ci si identifica in fretta: l’abbigliamento e il linguaggio sono due punti cardine della percezione che i giovani hanno di se stessi e degli altri. Tra loro si chiamano “fra’” (fratello: termine esclusivamente declinabile al maschile, non esiste il corrispettivo “sore’”), “cuore”, vi’ (cioè “vita”, il cui sottotesto è: “mi sei caro come la vita”): per chi, come me, insegna, imparare in fretta la lingua e la prossemica dei ragazzi è fondamentale, quasi quanto imparare al più presto i loro nomi. “Rispetto” è una delle parole più ricorrenti. Tuttavia, spesso, il rispetto deve essere prima ottenuto e, solo in seguito, concesso. Gli insegnanti non rappresentano l’eccezione a questa regola.

- che collega San Giovanni all’estrema periferia est di Roma e che arriva fino a Montecompatri, passa ogni venti minuti. Ora che la scuola è ricominciata si è deciso di potenziare il servizio e di aumentarne la frequenza a 9 minuti, anche se gli studenti che prendono i mezzi pubblici in periferia sono pochi: i ragazzi preferiscono lo scooter o la macchina. Mirti e Gardenie sono tra i punti di ritrovo più frequentati dalla cosiddetta generazione Z che vive nel quadrante est di Roma. Nonostante i social azzerino le distanze tra le persone, soprattutto tra gli adolescenti, le periferie e il Centro di Roma sono più lontane di quanto si creda. Anni fa, poco prima delle

Del resto, uno dei temi centrali della questione scolastica è - cito testualmente Antonello Giannelli, Presidente dell’Associazione Nazionale Presidi - «avvicinare la scuola alle periferie». Se agli insegnanti il concetto di presidio - di legalità, di cultura, di istruzione, di formazione, di educazione (intesa nell’accezione etimologica del termine) - è ben chiaro, agli studenti il vero senso del termine sfugge. In un quadrante come quello della periferia est di Roma, la scuola rappresenta, per certi versi, un’imposizione alla quale non ci si può sottrarre, una sorta di prolungamento della casa che ciascuno arreda come meglio gli conviene. Quasi mai gli studenti considerano la scuola una soluzione ai problemi presenti e futuri. Sono poche le scuole di periferia in cui si fa politica in modo attivo. Stefano F. ha frequentato il Liceo delle Scienze Umane, vive a Centocelle, e ha le idee chiarissime: «La scuola dovrebbe insegnarti a camminare, invece che mostrarti il sentiero che devi percorrere. Dovrebbe insegnarti ad avere un’idea, e non a sposare un’ideologia. La politica dovrebbe rappresentare la cosa pubblica, il problema è che ormai non è più così». Stefano ha deciso di proseguire gli studi, ha scelto Lingue e letterature straniere, studia francese e russo. «Il no-

Foto: Francesco Fotia AGF L’Itis di Vittorio Lattanzio in via Teano a Roma nel quartiere Prenestino
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Verso il voto

stro potere decisionale, quello dei cittadini intendo, è praticamente nullo. Io non mi riconosco affatto in questa politica, certo, andrò a votare. Anzi, mi presenterò alle urne. L’impossibilità di partecipare in modo attivo, la certezza di non essere ascoltato, di non poter fare la differenza, ha creato una distanza abissale tra me e la politica. Per esempio, il Pd: non lo conosco, non mi arriva. È questo loro senso di estraneità al mio territorio che mi respinge».

La periferia Est di Roma comprende quartieri come Tiburtino, San Basilio, Ponte Mammolo, Prenestino, Collatino e - alle estreme propaggini - il cosiddetto municipio delle Torri (Tor Bella Monaca, Torre Angela, Torre Maura, Torre Spaccata, Torre Gaia, tra le altre zone). Le scuole presenti sul territorio sono numerose: Kant, Croce-Aleramo, Von Neumann, Giorgi-Woolf, Lattanzio, Benedetto da Norcia, Enzo Rossi, Amerigo Vespucci, per citarne solo alcune. Licei classici, scientifici, licei delle scienze umane, linguistici, tecnici e professionali. Migliaia di ragazze e ra-

gazzi, migliaia di nuovi elettori. L’unico, solidissimo fil rouge tra loro e gli studenti del centro di Roma - tradizionalmente più impegnati nella politica attiva - sembra essere il consumo di droga: leggera, pesante, in qualsiasi forma, la maggior parte di loro rischia di sviluppare dipendenze e di ritrovarsi, conseguentemente, nei gangli dello spaccio.

Flavia P., con un diploma di operatrice dei servizi socio-sanitari, alla vigilia delle elezioni, ragiona sulla sua esperienza scolastica proprio in relazione alle scelte politiche: «Purtroppo la scuola non mi ha dato nessuno strumento per formarmi una coscienza politica, e non capisco perché, dato che passiamo la gran parte del nostro tempo in una classe. Sicuramente dare la giusta dignità e rilevanza all’istituzione scolastica avrebbe un forte impatto sulla società». Flavia vive a Pietralata, cerca un lavoro stabile.

La sua è una famiglia monoreddito, dove l’unica ad avere uno stipendio fisso è la madre. «Mi sento molto lontana dalla politica, perché non vedo alcun futuro per me. La

“HO PAURA PER L’AMBIENTE. PER QUESTO DIGIUNO”

«Voglio urlare. Ho deciso di intraprendere uno sciopero della fame perché sono preoccupato per il futuro della mia generazione», dice Francesco Bollini che ha sedici anni e abita a Pavia. Fa parte di Ultima Generazione, un movimento di cittadini e cittadine che sostengono: «siamo l’ultima generazione in grado di fare qualcosa per contrastare il collasso eco-climatico». Per questo, per chiedere al governo di intraprendere azioni urgenti e concrete, gli attivisti portano avanti gesti di disobbedienza civile non violenta. «Per reagire al massacro di massa a cui la classe politica ci sta condannando». Come i blocchi stradali sul Grande raccordo anulare di Roma, il blitz alla finale femminile dei mondiali di Beach volley, l’interruzione della prima di Madama Butterfly al Puccini Festival, le irruzioni nei musei di Firenze, Padova, Milano, Venezia. «Quello che faremo nei prossimi due o tre anni determinerà il futuro dell’umanità. Non è una frase detta dall’ultimo arrivato, da un sedicenne come me, è la frase della commissione scientifica di un Parlamento. Abbiamo la possibilità di agire, di cambiare. Non possiamo perdere questo grande privilegio». Così spiega Bollini a chi l’ha raggiunto in Piazza della Scala a

Milano, di fronte a Palazzo Marino in cui ha sede il Comune, dove ha trascorso i giorni dello sciopero della fame: sette. Più uno davanti alla sede di Fratelli d’Italia, in corso Buenos Aires. Durante l’ottava giornata Bollini è tornato a mangiare, seguendo i consigli di familiari e medici, per salvaguardare la salute. Ma ha lasciato il testimone a Alessandro Berti, 40 anni, che ha voluto dare il suo contributo alla protesta, affinché i leader di Fratelli d’Italia, Lega, Movimento Cinque Stelle e Partito Democratico organizzino un incontro pubblico per parlare con i cittadini di transizione energetica. E perché si impegnino, entro un mese dall’insediamento del nuovo governo, a emanare un decreto-legge per interrompere la riattivazione delle centrali a carbone e i nuovi progetti di estrazione di gas naturale. Lo sciopero della fame per Ultima Generazione si è trasformato in una staffetta a cui si uniscono sempre più partecipanti disposti a arrivare fino all’ospedalizzazione pur di essere ascoltati. Perché hai deciso di intraprendere un’azione forte come lo sciopero della fame?

«Perché sono terrorizzato da ciò che il futuro ha in serbo per me e per la mia generazione. Credo che un’azione potente

22 18 settembre 2022

Scritte naziste e fasciste su un muro nel quartiere Tor Bella Monaca di Roma. Sotto: la protesta di Francesco Bollini

cosa più bella a cui andare incontro mi sembra il bacio di Giuda. Perché un giovane dovrebbe appassionarsi alla politica? Il mio politico ideale è una persona coerente, che voglia battersi per i diritti della collettività, che non lasci indietro chi vive ai margini, chi è povero e chi è abbandonato. Attualmente non vedo nessuno in grado di identificarsi in questo ideale e un certo tipo di sinistra, che dovrebbe farsi portavoce dei nostri diritti, non si vede».

In classe ci sono due livelli di comunicazione: quella ufficiale, tra professori e studenti, e quella privata, che circola sotto-

“IL NOSTRO POTERE DECISIONALE È NULLO. L’IMPOSSIBILITÀ DI PARTECIPARE E DI ESSERE ASCOLTATO HA CREATO UN ABISSO TRA ME E LA POLITICA. EPPURE AL SEGGIO CI ANDRÒ”

sia essenziale per creare un collegamento emotivo con la questione climatica. Oggi, poter avere una famiglia, un lavoro, addirittura la disponibilità di beni primari, come cibo e acqua, sono aspetti di una vita normale che non saranno più garantiti. Anzi saranno negati a causa del riscaldamento globale, delle sempre più gravi siccità, della desertificazione e della conseguente, periodica, distruzione delle coltivazioni. Insomma, usando una parola banale, per il “cambiamento climatico”. Negli ultimi anni l’agricoltura ha subito perdite enormi ma noi, come cittadini, non percepiamo ancora le conseguenze: lo Stato può importare da altri Paesi ciò che non riesce a produrre. Però, quando anche nei granai del mondo diventerà impossibile coltivare, saremo costretti a aprire gli occhi e a affrontare un’inimmaginabile carestia». Allora, come mai la questione ambientale non viene trattata con urgenza dai governi? «Qualche mese fa, quando le persone hanno iniziato a morire a causa del Covid-19, il governo ha preso decisioni che sono sembrate drastiche ma che hanno ridotto i danni della crisi. Se solo percepissimo qui e oggi le conseguenze del cambiamento climatico - se tutta Milano rimanesse senza acqua per due mesi, se Venezia venisse inondata o se avessimo accanto a noi un

figlio dilaniato dall’inedia e dagli stenti - non aspetteremmo a agire. Il governo si attiverebbe subito. Ma queste cose non accadono oggi, qui, in Italia. Accadranno fra vari anni, quando vedremo e toccheremo la disperazione della gente, e sarà troppo tardi per cambiare direzione. Potremo solo tormentarci per non aver agito, per aver sprecato l’enorme opportunità che avevamo e che non avremo più».

Quanto tempo abbiamo per invertire la rotta?

«Abbiamo dai due ai tre anni, secondo Sir David King, referente scientifico del parlamento inglese, per garantirci una vita normale. Quindi le scelte che il prossimo governo prenderà determineranno il nostro futuro. Non possiamo assistere in silenzio mentre ci viene sottratto. Spero che qualcuno, sentendo il grido d’allarme, si mobiliti, si opponga a quest’imposizione di sofferenza e di ingiustizia».

Le risposte che state ricevendo dalla politica ti soddisfano?

«Risposte definitive ci devono ancora arrivare. Ma sembra che qualcosa si stia muovendo, vedo delle buone basi per costruire: indipendentemente da quale sarà il governo che verrà penso che la lotta alla crisi climatica sarà presa concretamente in considerazione».

18 settembre 2022 23 Prima Pagina
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Prima Pagina

voce solo tra i ragazzi e fuori dalla scuola. Al di là delle Unità Didattiche di Educazione Civica e dei progetti per l’inclusione, tra i giovani studenti delle periferie si respira spesso un malessere diffuso nei confronti degli “zingari” e degli extracomunitari. Non è raro cogliere affermazioni abusate e false come «ci rubano il lavoro», «ci rubano le case», «violentano le nostre donne», pronunciate in tono apodittico. La perfetta legittimazione di un razzismo la cui origine è confusa, una discriminazione rivolta a destinatari sconosciuti, dato che in ogni gruppo - l’equivalente delle cosiddette comitive, per chi, come me, è stata adolescente negli anni Ottanta - è presente un gran numero di immigrati di seconda generazione, italiani a tutti gli effetti.

Francesca R. abita alle spalle di Largo Preneste, un diploma di maturità classica, ora ha un contratto a tempo indeterminato in un noto locale dell’Eur. Abita con sua madre: anche la sua era una famiglia monoreddito finché Francesca non ha trovato lavoro. «Non credo che la politica sia utile ai giovani. Il punto è che non è utile a nessuno, ora come ora, per via del modo in cui viene fatta. Non c’è lavoro, e non solo per i giovani. Probabilmente è questo uno dei motivi per cui tra noi non parliamo di politica, non è argomento di

Verso il voto

“Domani interrogo” di Gaja Cenciarelli, Marsilio. Sopra: un murale di Blu nel quartiere di Casal de’ Pazzi

conversazione». Francesca nutre poche aspettative da queste elezioni: «Non so bene cosa sperare. Forse spero in un cambiamento, non solo fiscale o infrastrutturale, che pure sono importanti. Quello che vorrei io è un cambiamento sociale, vorrei più diritti civili, vorrei la legalizzazione della cannabis, vorrei più politiche scolastiche. Per questo andrò a votare, anche se non è facile scegliere. Bisogna conoscere il passato della politica per votare in modo consapevole, e sinceramente per me è difficile sentirmi rappresentata da uno schieramento, anche da chi si dichiara portatore dei valori della sinistra».

Il lavoro è stato sempre il suo obiettivo primario, primum vivere, deinde philosophari: «Ho bisogno di mantenermi, e non potevo permettermi di stare ancora troppi anni sui libri. I politici che vengono in periferia, a parlare con noi, ad ascoltarci? Non credo di averne visti, qui facciamo tutto da soli».

Tra una settimana si vota. Gli insegnanti sono tornati in cattedra con nelle orecchie il consueto «Sarà un anno scolastico più com-

plicato dei precedenti». Settembre ci riporta sempre con i piedi per terra: le complicazioni e il precariato sono strutturali alla scuola. Come possono, questi ragazzi, coltivare l’aspirazione alla stabilità quando chi li dovrebbe formare è precario a sua volta? Come si fa a dare un senso di continuità didattica ed emotiva a chi ha bisogno di punti di riferimento quotidiani? È necessaria una soluzione rapida, perché le scuole di periferia tornino a essere luoghi identitari - come accade a molti licei del Centro - sperando che i confini degli studenti si estendano, che i ragazzi imparino una nuova lingua. Augurandoci che la forza centripeta che è il motore di certa sinistra inverta il movimento e torni a occupare lo spazio che gli compete e a incarnare agli occhi dei giovani elettori di periferia “la politica ideale”.

AGF; pag.

M. Frassineti

“NON CREDO CHE LA POLITICA SIA UTILE AI GIOVANI. NON È UTILE A NESSUNO, ORA COME ORA. PER ME È DIFFICILE SENTIRMI RAPPRESENTATA DA UNO SCHIERAMENTO. NON SO BENE COSA SPERARE”
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23: E. Paoni/CONTRASTO
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ANCHE LA MAFIA VOTA

E PUNTA SUL VINCENTE

La campagna elettorale in corso ha tra i grandi assenti i temi della giustizia, della legalità e dell’antimafia. Alcune righe superficiali nei programmi di alcuni partiti, nessun riferimento nei comizi, in tv, sui social. Il tema è fuori dall’agenda, politica e mediatica, ormai da tempo. D’altronde, agli elettori è chiesto esclusivamente di barrare un simbolo, non di scegliere un nome, una storia, una battaglia. L’attuale legge elettorale - lo sciagurato Rosatellum che tutti criticano e nessuno ha modificato - impone un voto secco, e lascia i cittadini disarmati di fronte alla scheda: votare per esprimere un’appartenenza o per chi ha più chance di vincere, per dare una testimonianza ideologica o per impedire “agli altri” di ottenere un potere quasi assoluto? In questo scenario le mafie stanno già facendo ciò che è stato il loro tratto distintivo nei decenni: intrecciare rapporti con quello che considerano il cavallo vincente. La mafia non ha ideologia e, come risulta da tante indagini, non ha disdegnato di avere legami con politici di qualsiasi colore.

Eppure in un recente sondaggio, dati di luglio 2022, il 64 per cento della popolazione ritiene che lo Stato non si stia impegnando al massimo contro le organizzazioni criminali; colpisce poi che ben il 51 per cento ritiene che le mafie siano un problema concreto ma che potrà essere sconfitto, mentre il 41 per cento è ancora più pessimista e lo considera un problema irrisolvibile. Chi, tra i partiti in competizione, si sta rivolgendo a queste persone? Perché nessuno ne sta facendo il fulcro della battaglia di fronte a una situazione economica e sociale che si sta aggravando ogni giorno di più?

Il sospetto, quasi la certezza, è che non convenga: ciò che distingue la mafia da altre organizzazioni criminali, che pur ne hanno mutuato il metodo, è infatti il suo profondo radicamento sociale, la gestione del consenso e il suo interessato rapporto con la politica, un sistema relazionale collaudato con le persone “che contano”. Sorge così la nozione di rapporto clientelare che, come metodo, ha finito con il contaminare anche il rapporto tra elettore e partito politico. L’elettore che chiede benefici ne ricava il convincimento di avere

tratto il massimo vantaggio dall’uso del voto; il partito politico, per la raccolta del consenso, si giova della via più facile, ovvero la promessa di una sapiente e mirata distribuzione delle risorse di cui dispone solo agli “amici”. La centralità dei meccanismi mafioso-clientelari ha addirittura funzionato come fattore di mobilità sociale. La principale possibilità di ottenere un posto, di far carriera, di far affari è stata individuata, a seconda dei casi, nel collegamento con una famiglia mafiosa o con una fazione politica. Quando la mafia, come documentato da numerose indagini, interloquisce nella nomina di primari ospedalieri, nelle raccomandazioni per i concorsi, nelle candidature, nella nomina degli amministratori locali, nelle variazioni dei piani regolatori e così via, concorre alla pianificazione della vita pubblica e alla formazione della borghesia mafiosa, che costituisce l’interfaccia tra la base militare e il blocco politico-affaristico. Senza trascurare che, tra gli uomini d’onore organicamente inseriti nell’associazione mafiosa, si sono scoperti insospettabili medici, avvocati, amministratori, burocrati, bancari, imprenditori.

Non v’è dubbio che il mafioso che accumula enormi profitti, che controlla parti rilevanti del territorio, che influenza a suo favore i flussi della spesa pubblica, non potrà non difendere il suo potere tentando di piegare le istituzioni ai suoi interessi, di procurarsi magari una stampa favorevole e una protezione politica. Possiamo solo immaginare quanto questo possa essere ancor più vero in una fase in cui saranno investiti centinaia di miliardi di risorse pubbliche, attraverso i progetti del Piano Nazionale di Ripresa e Resilienza, in tutto il Paese. È un’occasione unica per trasformare l’Italia, ridurre le diseguaglianze sociali e territoriali, colmare il gap infrastrutturale e tecnologico che ci allontana dagli altri Paesi europei, ma è un’occasione irripetibile anche per le mafie. L’attenzione dovrà essere altissima, ma al momento non lo sembra.

Al contrario, le uniche proposte sulla giustizia entrate nel dibattito elettorale vengono da destra, e destano più che perplessità, perché provenienti da un ex magistrato, indicato come ministro della Giustizia del prossimo governo. La sottrazione al Pm, trasformato in avvocato della

26 18 settembre 2022 L’intervento

Prima Pagina

polizia giudiziaria, del potere di dirigere le indagini, con perdite di quell’indipendenza che rimane una garanzia per i cittadini contro l’abuso del potere; la separazione delle carriere, tema ventennale e ricorrente; l’abolizione dell’obbligo del pm di esercitare l’azione penale, finalizzato a garantire l’uguaglianza dei cittadini dinanzi alla legge, con l’effetto di scelte discrezionali; la limitazione delle intercettazioni telefoniche e ambientali, strumento principale per le indagini contro mafia e corruzione: questi sembrano segnali che possono entusiasmare chi vuole eliminare quei puntelli costituzionali posti a garanzia dell’indipendenza dell’ordine giudiziario dalla politica, al punto di invertire i rapporti tra politica e magistratura per assicurare l’assoluto predominio della prima sulla seconda. Conseguenza ampiamente prevedibile se si pensa al recente ritorno in campo, come protagonisti della politica, di personaggi che hanno espiato la condanna o che sono sotto processo per collusioni con la mafia. Ma non basta. Tale organico progetto politico appare ancora più inquietante nel momento in cui preveda di abrogare la legge Severino anche nella parte della incandidabilità di condannati con sentenza definitiva per gravi reati come quelli di mafia e di corruzione, così come ripristinare l’autorizzazione a procedere, abrogata a furor di popolo nel 1993 dopo Tangentopoli. Non bisogna avere la palla di cristallo per prevedere il crescente gradimento che inizia a riscuotere tale progetto non solo in chi è da tempo impegnato in un regolamento di conti con la magistratura, ma anche da par-

te di chi vuole, per utilizzare un paradosso che possa rendere bene l’idea, legalizzare l’illegalità. Cioè da parte di quel sistema di potere formato da imprenditori, professionisti, speculatori, faccendieri, mafiosi, burocrati e politici corrotti, per i quali nel mondo degli affari, degli appalti, delle pubbliche forniture, della grande distribuzione, l’illegalità è una risorsa, è quel collante per il successo a ogni costo, per una competizione con qualsiasi mezzo. Il rafforzamento del potere esecutivo, rispetto al legislativo e l’attacco all’indipendenza del potere giudiziario appaiono funzionali all’attuazione di un modello di accumulazione di capitali, a prescindere dalla loro provenienza, e alla realizzazione delle grandi opere, in gran fretta, abolendo o riducendo i controlli, all’insegna dell’affermazione di poteri di fatto e dei processi di finanziarizzazione, che offrono nuovi spazi alla simbiosi tra capitali illegali e legali. Le mafie, da parte loro, hanno capito da tempo che la strategia della sommersione paga, che bisogna controllare la violenza, che è più conveniente incrementare il sistema di relazioni. Per l’Italia il quadro che abbiamo tracciato presenta molti elementi che inducono a pensare che ci troviamo di fronte ad una questione morale, che, come diceva Berlinguer già nel 1981, si fa questione politica, e a una prospettiva di sistema di potere in cui l’illegalità viene rovesciata in legalità e questo va oltre la collusione di qualche politico con qualche boss o la commissione di uno o più reati da parte di singoli rappresentanti delle istituzioni. Perciò non basta contrastare la mafia. Bisogna rafforzare la democrazia, pretendere di più da noi stessi come cittadini e da coloro che ci rappresentano nei partiti, nella politica, nelle istituzioni, nei sindacati, nei movimenti, nelle associazioni di categoria. L’antimafia diretta alla repressione della criminalità mafiosa deve essere accompagnata dall’antimafia della correttezza della politica e del mercato, dell’efficienza della pubblica amministrazione, del buon funzionamento della scuola. I magistrati e le forze dell’ordine fanno in pieno il loro dovere. Le istituzioni e la società civile devono fare un salto di qualità, cioè passare dall’emozione al progetto. Il problema è unire valori a interessi, unire la lotta alla mafia a un progetto di sviluppo economico, rafforzando l’economia legale, e a un progetto di partecipazione democratica. Bisogna incentivare la cultura della partecipazione, esatto contrario della cultura della delega. I processi di liberazione non avvengono attraverso la delega a un liberatore ma attraverso un impegno corale, quotidiano. Anche nel momento del voto.

VIOLENZA, I CLAN CONTANO

DEI CENTRI DI POTERE

Manifesti della campagna elettorale per il voto del 25 settembre
18 settembre 2022 27
Q © RIPRODUZIONE RISERVATA Foto: D. PiaggesiFotogramma ABBANDONATA LA
SULLE RELAZIONI ALL’INTERNO

Michela Murgia

Giorgia si propone come genitore 3

L’

Italia si può governare come si cresce un figlio». Mentre Giorgia Meloni pronunciava questa frase la settimana scorsa nello studio di Porta a Porta, era difficile non sentirci dentro l’eco delle parole di Silvio Berlusconi quando nel 2004, a una presentazione di un libro di Bruno Vespa, dichiarava convintamente che: «La media del pubblico italiano rappresenta l’evoluzione mentale di un ragazzo che fa la seconda media e non sta nemmeno seduto nei primi banchi». Sono passati quasi vent’anni, ma dietro entrambe queste affermazioni si annida sempre la stessa concezione di Paese, quella di un giardino d’infanzia composto da sessanta milioni di minorenni della democrazia, ritardatə civili che hanno bisogno non di una classe politica all’altezza della situazione, ma di figure genitoriali e insegnanti di sostegno. Suppongo che gli spin doctor di Meloni pensassero di renderla più rassicurante facendola presentare come la madre di cui l’Italia ha bisogno, la genitrice che nutre, ama e difende il sangue del suo sangue fino al punto di sfoderare la ferocia per proteggere i suoi cuccioli. La categoria retorica del maternalismo ha lo scopo di farci sentire piccolκ e fiduciosκ, prontκ a infilare la manina nella stretta protettiva di Giorgia la madre, la donna e la cristiana. Questa visione di sé da parte di Meloni prevede un corrispettivo simbolico da parte nostra: perché il gioco retorico funzioni, i cittadini e le cittadine si devono effettivamente comportare da cuccioli nei

suoi riguardi, a cominciare dalla rinuncia alla partecipazione. Quella della grande madre della patria esprime un’idea di governo dove non esiste la democrazia quotidiana, quella che chiede conto delle scelte di governo giorno per giorno, perché in una casa i bambini e le bambine non hanno voce in capitolo: decidono gli adulti. In questo strano gioco di ruoli, dove il governo è un genitore e la cittadinanza incarna la prole, è la gerarchia a comandare. Le richieste sociali diventano concessioni e, se verranno soddisfatte, sarà in cambio di obbedienza: bisognerà fare da bravκ per meritarsele. Il dissenso in questa logica non è una componente essenziale del processo democratico, ma diventerà capriccio o ribellione e come tale andrà punita. I servizi di welfare saranno presentati come premura dell’esecutivo, non un diritto che ci spetta per

costituzione. L’assunzione di categorie affettive come quella di madre e figlio uccide l’idea di cittadinanza e installa quella del familismo. Dei dodicenni non molto intelligenti, teorizzati da Berlusconi e confermati tali da Meloni, si richiede l’affidamento e si esclude la partecipazione. Affidarsi è un atto infantile e deresponsabilizza, mentre la partecipazione - che per Gaber era sinonimo di libertà - è un atteggiamento civicamente adulto e implica la capacità di assumersi responsabilità. L’Italia non si può governare come si cresce un figlio, perché i figli si crescono in mille modi e, come qualunque psicologo potrebbe testimoniare, non tutti sono buoni solo perché li ha messi in atto la famiglia. Curioso che Giorgia Meloni, a cui così poco piace l’idea di avere un genitore 1 e un genitore 2, si proponga a tutta Italia come il genitore 3.   Q

Meloni vuole “Governare l’Italia come si cresce un figlio”. Un’idea della società che prevede concessioni dall’alto e obbedienza dal basso
Canu, Manifestazione a favore delle famiglie arcobaleno
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L’antitaliana
© RIPRODUZIONE RISERVATA
Illustrazione: Ivan
F. Lo ScalzoAgf

on conosco bene il territorio, ma conosco l'Abruzzo perché mio nonno era di Amatrice», disse Claudio Lotito, candidato del centrodestra in Molise, mentre la neo forzista Rita Dalla Chiesa in Puglia postava la foto di Giovinazzo scambiandola per quella di Molfetta e l’azzurra Michela Vittoria Brambilla da Lecco metteva per la prima volta piede a Gela stringendo la mano al sindaco e assicurando che «si occuperà adesso del territorio gelese». Basterebbero queste scenette, chiamiamole così, per descrivere come i partiti abbiamo trat-

tato il Mezzogiorno in questo voto per il rinnovo del Parlamento. Un grande bacino di consensi e nulla più.

Non a caso nella campagna elettorale da Roma in giù si è discusso più di queste figure fatte da candidati che evidentemente non conoscono nemmeno i territori dove sono stati imposti dalle segreterie, che di programmi veri per ridurre il divario NordSud. Ad eccezione dei soliti temi che salta-

no fuori a ogni elezione da almeno trent’anni: il Ponte sullo Stretto, gli aiuti a chi non lavora, l’autonomia differenziata che piace a Piemonte, Veneto, Lombardia ed Emilia Romagna con annessi governatori di Forza Italia, Lega e Pd. Per il resto, come sottolineano economisti e imprenditori che lavorano in queste regioni economicamente e socialmente depresse, il Sud «è scomparso da ogni vera agenda politica» ed «è considerato soltanto come corpo elettorale utile ad eleggere classi dirigenti che vivono altrove».

Una cosa è fuor di dubbio: il fenomeno dei paracadutati riguarda quasi tutti i principali partiti e vede soprattutto le regioni meridionali “subire” queste

DI ANTONIO FRASCHILLA MARIA ELENA BOSCHI
30 18 settembre 2022 Verso il voto
CANDIDATO LA QUALUNQUE “PARACADUTATI” DI TUTTI PARTITI IN TERRITORI CHE NON HANNO MAI VISTO. SICURI DI FARSI ELEGGERE MALGRADO LE GAFFE. POLITICI SEMPRE PIÙ DISTANTI DAL PAESE. E A FARNE LE SPESE È IL SUD  N

Prima

scelte. L’Espresso ha fatto i conti: sui circa 190 tra senatori e deputati che verranno eletti nelle regioni del Mezzogiorno, 32 candidati in posizione blindata ed eleggibile provengono da altre parti del Paese e non hanno nulla a che fare con i collegi in questione. E se a questa cifra si aggiungono come è normale anche i leader nazionali candidati come capilista a macchia di leopardo nei vari collegi meridionali, e che quindi per il complesso meccanismo di ripartizione dei seggi potrebbero essere poi eletti al Sud, significa che il venti per cento dei volti eleggibili nel Meridione è stato paracadutato da altre regioni.

Non a caso in queste settimane in diverse città del Mezzogiorno si sta assistendo a scene surreali di candidati che stanno “scoprendo” come in una vacanza territori a loro sconosciuti o quasi: così capita di vedere

Michela Vittoria Brambilla da Lecco arrivare nel profondo Sud a Gela e stringere la mano a un sindaco che non ha mai visto in vita sua, oppure Bobo Craxi aggirarsi per Palermo dove il centrosinistra lo candida all’uninominale perché «questo collegio spettava ai socialisti», facendosi fare foto per le stradine del centro quasi come un turista a passeggio che scopre la città. Un po’ come il fiorentino leghista Alberto Bagnai in giro a Chieti come candidato nell’uninominale al Senato in Abruzzo o l’ex presidente di Palazzo Madama Maria Elisabetta Casellati, che accompagnata a Potenza dal forzista Nitto Palma ai giornali locali ha rilasciato la sua prima dichiarazione da candidata in Basilicata: «Sono felice». E ci mancherebbe, verrebbe da aggiungere.

In Campania il Pd ha fatto cadere dall’alto i ministri Dario Franceschini da Ferrara e

Secondo i calcoli de L’Espresso su circa 190 tra deputati e senatori eleggibili nelle regioni del Mezzogiorno, 32 provengono da altre aree del Paese e se a questa cifra si aggiungono i leader nazionali capilista che potrebbero essere eletti nei seggi meridionali, significa che il 20 per cento dei rappresentanti del futuro Parlamento del Meridione non proviene da questi territori. In alto e nelle pagine successive i volti dei principali paracadutati

LAURA RAVETTO STEFANIA CRAXI BOBO CRAXI MARIA ELISABETTA ALBERTI CASELLATI ELENA BONETTI CLAUDIO LOTITO MARCO MARSILIO
18 settembre 2022 31 Foto: Agf (7), FotoA3
Pagina

Roberto Speranza da Potenza, il partito di Di Maio ha lanciato Davide Crippa da Novara, Forza Italia la compagna di Berlusconi, Marta Fascina, che è stata candidata anche a Marsala per sicurezza (di essere eletta). E sempre sotto il Vesuvio sono candidati la bolognese Anna Maria Bernini per Forza Italia, il toscano Marcello Pera per Fratelli d’Italia, l’ex segretaria della Cgil Susanna Camusso (lombarda) per i dem e il triestino Stefano Patuanelli per il Movimento 5 stelle.

In Puglia Forza Italia punta forte su Rita Dalla Chiesa e sulla milanesissima Licia Ronzulli, ma il segretario dei dem Enrico Letta nella terra di Michele Emiliano piazza in posizione blindata anche il suo braccio destro Antonio Misiani da Bergamo. In Sicilia va in scena la sfida a distanza tra i fratelli Craxi, con Bobo a Palermo per il centrosinistra e Stefania a Caltanissetta per il centrodestra,

mentre la ligure Annamaria Furlan, ex segretaria della Cisl, è capolista dei dem nella circoscrizione Sicilia Occidentale al Senato. Il Terzo Polo candida Maria Elena Boschi in Calabria, Matteo Renzi ed Ettore Rosato da Trieste in Campania e la mantovana Elena Bonetti in Sardegna. Un Sud accogliente e morbido per chi atterra da altre parti del Paese in collegi e posizioni blindate.

Ma a fronte di questo record di paracadutati, il tema Mezzogiorno è scomparso dalla campagna elettorale e gli imprenditori assistono perplessi al tour di candidati semisconosciuti. Nonostante l’economia arretri, come ribadisce il direttore della Svimez Luca Bianchi: «Il Mezzogiorno è scomparso dal dibattito politico se non per la solita retorica della nuova centralità mediterranea e il sempreverde Ponte dello Stretto. Nessuno sta affrontando il tema della riduzione

LORENZO CESA MICHELA BRAMBILLA RITA DALLA CHIESA SUSANNA CAMUSSO ANNAMARIA FURLAN ROBERTO SPERANZA LICIA RONZULLI
32 18 settembre 2022 Verso il voto

del divario tra le due aree del Paese. Nel 2021 al Sud il Pil è cresciuto del 5,9 per cento, mentre a livello nazionale del 6,6. Lo “shock Ucraina” ha allontanato l’economia italiana dal sentiero di una ripartenza relativamente tranquilla e coesa tra Nord e Sud. E la crescita nazionale nel 2022, stimata dalla Svimez al più 3,4 per cento, è stata frenata dal rallentamento dei consumi delle famiglie meno abbienti colpite dal caro vita, concentrate in larga parte al Sud, e dagli investimenti delle imprese. Si è riaperta la forbice Nord-Sud nel ritmo di crescita e lo scenario non migliorerà nel biennio 2023-2024. Il Meridione ha bisogno di investimenti e vanno sanate le due “grandi” divergenze tra Nord e Sud del Paese: quella nell’accesso ai diritti di cittadinanza a partire da scuola, sanità e assistenza sociale, sempre più difficile per i cittadini meridionali, e quello tra strutture produttive sempre più distanti per consistenza numerica e qualità delle produzioni e di offerta di servizi. Temi che non dipenderanno dalla pre-

di diventare produttivo oppure l’intero Paese rischia di rimanere indietro. Noi imprenditori del Mezzogiorno stiamo assistendo a questa campagna elettorale con molta disillusione e ci sentiamo cittadini di un territorio di conquista elettorale e nulla più. I temi sono sempre i soliti, il Ponte sullo Stretto, oppure il reddito di cittadinanza, ma di concreto per aiutare l’occupazione e l’economia delle regioni meridionali non c’è nulla. Il Sud rischia di restare marginale e privo di qualsiasi speranza. Una politica che paracaduta qui i candidati slegati dal territorio è la morte civile. Ma il vero problema del Meridione, ripeto, è che non è in nessuna agenda di partito. Anzi, se c’è e per rivedere gli aiuti. Noi invece abbiamo bisogno di infrastrutture e formazione, perché abbiamo problemi a trovare personale qualificato con competenze. Purtroppo la politica è del tutto incapace di avere una visione e di capire le necessità dei territori. D’altronde una classe politica selezionata nel chiuso delle segreterie politiche, ed è così da 30 anni, cosa può capire dei problemi delle imprese locali?».

senza o dalla qualità del prossimo Ministro per il Sud ma da scelte strategiche che riguardano l’intero esecutivo».

Gli imprenditori nel Mezzogiorno sono sfiduciati da questa pessima campagna elettorale, che vede Salvini e Berlusconi garantire l‘autonomia differenziata quando vanno in Veneto, e dire che il Sud è al centro dei loro pensieri quando sono a Napoli o a Palermo. Dice Giuseppe Russello, patron dell’azienda metalmeccanica Omer, una delle poche quotate alla Borsa di Milano con sede in Sicilia: «Il Sud è fuori da ogni agenda perché la nostra classe imprenditoriale è debole e ha un Pil che non è paragonabile a quello del Nord-Est. Però il Nord deve capire che se 20 milioni di cittadini non producono questo è un problema anche per loro: qui o usciamo tutti insieme dalla crisi consentendo anche al Meridione

Filippo Callipo, titolare dell’azienda di lavorazione ed esportazione del tonno, da Reggio Calabria usa l’espressione «discesa dei nuovi barbari» per definire il fenomeno dei paracadutati: «Sono davvero disilluso e disinteressato a questa campagna elettorale. Ma ci rendiamo conto che rischiamo di avere una classe dirigente locale dimezzata per rivendicare le necessità del Mezzogiorno? Se già ai calabresi in media non interessa il tema dell’arretratezza economica della loro regione, figuriamoci a chi viene eletto qui e proviene da altre aree del Paese. Comunque invece di parlare di Ponte sullo Stretto o altre cose che ascoltiamo da decenni, ancora nessun politico nazionale ha detto chiaramente come intende aiutare le aree depresse del Paese una volta al governo. E come intende evitare che nasca un deserto industriale a causa del caro-energia, che imprese fragilissime come le nostre non potranno affrontare».

Ecco, a proposito di temi che dovrebbero essere affrontati in campagna elettorale soprattutto da Roma in giù. Ma chi non sa dov’è il Molise o per la prima volta arriva in territori difficili come Gela, di cosa può parlare in fondo?

MARTA
18 settembre 2022 33 Prima Pagina
Q ©RIPRODUZIONE RISERVATA IL MEZZOGIORNO È SCOMPARSO DALLA CAMPAGNA ELETTORALE. L’UNICO SLOGAN È IL PONTE SULLO STRETTO. NESSUNO PARLA DEI PROBLEMI VERI CHE SPACCANO IL PAESE IN DUE
FASCINA ANTONIO TAJANI Foto: FotoA3 (3). Mondadori Porfolio, Agf (5)
Verso il voto LETTA CHIEDE UN 4 PER CENTO IN PIÙ. MA NON A SPESE DEL CENTRODESTRA, PIUTTOSTO CONTRO CONTE E CALENDA. COSÌ È FALLITA LA STRATEGIA DEL CAMPO LARGO IN LOTTA PER LE BRICIOLE DI GABRIELE BARTOLONI

La strategia in atto nei partiti del fu “campo largo” è stata esplicitata in maniera netta da Enrico Letta durante il discorso via Zoom rivolto ai candidati della coalizione di centrosinistra: «Un +4 per cento a Calenda o a Conte, tolto a noi, consentirebbero alla destra di superare il 70 per cento di rappresentanza parlamentare», i temuti due terzi dell’emiciclo. L’invito del segretario, dunque, non è tanto quello di andare a prendere i voti nel campo del principale avversario - il centrodestra - bensì di andarli a cercare all’interno del proprio, sottraendoli agli ex alleati. Peccato che anche loro abbiano cominciato a martellare i dem con lo stesso obiettivo. Qualche esempio: il M5S si presenta come il vero partito di sinistra, il Pd, dal canto suo, è convinto di essere l’unico argine alle destre e, infine, Calenda prende di mira tutti rivendicando l’ormai perduta indole riformista dei progressisti italiani. Il risultato è uno scontro fratricida che mira a racimolare qualche voto dall’interno. Qualche 4 per cento, per citare Letta. Mentre il centrodestra si appresta a fare il pieno di voti, negli ultimi giorni di campagna elettorale all’interno del centrosinistra è in atto la guerra per le briciole.

Il fallimento della coalizione e la legge elettorale non hanno fatto altro che acuire le rivalità tra partiti non alleati. Nella sua parte maggioritaria, il Rosatellum, costringe gli sfidanti a una battaglia all’ultimo voto, premiando chi costruisce alleanze larghe e penalizzando chi corre diviso. Il fatto che il centrodestra abbia deciso di riunirsi sotto un unico cartello (operazione riuscita fin da subito), ha presto portato i partiti del centrosinistra verso un’amara rassegnazione: nei collegi uninominali le speranze sono poche, meglio andarsi a cercare i voti nella propria metà campo. È con questa chiave che va letta la campagna sul “voto utile” portata avanti dal Pd: come il tentativo di muovere le preferenze all’interno della propria area. L’iniziativa “scegli”, infatti, punta più ad attrarre i voti dell’elettorato di centrosinistra, piuttosto che quelli del centrodestra. Il fine è quello di presentarsi come unico partito in grado di fare da argine alla destra di Giorgia Meloni e Matteo Salvini. Un ruolo, quest’ultimo, rivendicato anche dagli ex alleati e che pare essere diventato il vero trofeo in palio. Per constatarlo basta fare il giro delle dichiarazioni dei leader in risposta agli appelli al “voto utile”

Prima

lanciati più volte da Letta. Carlo Calenda su Twitter: «Bloccheremo noi la destra sul Senato al proporzionale». Matteo Renzi da Milano: «Il voto ad Azione e Italia Viva è l’unico voto utile di queste elezioni». Giuseppe Conte su Facebook: «Letta vuole costruire un inganno per i cittadini, facendo credere che l’unico da votare in alternativa alle ricette insostenibili e inadeguate della destra della Meloni sia lui con il Pd».

Questo è il clima che si respira all’interno del “campo largo” a pochi giorni dal voto. La guerra per le briciole, però, non si gioca sull’ambìto ruolo di “argine”. In palio ci sarà anche quello di partito-guida della sinistra italiana, quello della “vera” sinistra. Dopo aver fatto fronte comune per almeno metà legislatura, il 25 settembre Movimento Cinque Stelle e Pd si troveranno uno contro l’altro. I cavalli di battaglia su cui i due soggetti hanno deciso di impostare la campagna elettorale sono quasi gli stessi: ambiente, giovani e lavoro. Quello che cambia, semmai, è il modo in cui vengono presentati: Letta si mantiene pacato, mentre Giuseppe Conte ha abbandonato il politichese riscoprendo l’anima movimentista dei Cinque Stelle. Al di là dello stile, però, è un fatto che durante l’arco della legislatura i due partiti si siano molto avvicinati. Difficile dire se lo abbiano fatto anche i rispettivi elettori. Certo è che, col passare del tempo, le battaglie di uno sono diventate quelle dell’altro. Basta pensare al taglio dei parlamentari (votato anche dal Pd) o alle battaglie sui diritti (sostenute dal M5S). Non è un caso che ora i due si ritrovino a pescare i voti dallo stesso bacino.

L’attivismo di Conte spaventa il Nazareno. Prima che entrasse il divieto di pubblicazione dei sondaggi, le agenzie demoscopiche avevano segnalato un Movimento in ripresa a scapito dei dem, soprattutto nel Mezzogiorno. La paura è che l’appello al “voto utile” di Letta, lanciato durante gli ultimi giorni di campagna elettorale, finisca col mancare il destinatario: l’elettore progressista. Merce rara in una campagna d’agosto guidata dalla destra a trazione sovranista, ancor più se a contenderselo non sono solo due partiti (Pd e M5s) ma una galassia di liste chemarciadivisa.Soprattutto durante gli ultimi giorni, nell’ex campo largo è

Gabriele Bartoloni Giornalista
18 settembre 2022 35 Foto: Aleandro Biagianti / AGF
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scattato il tutti contro tutti. Visto l’incerto comportamento di chi nelle rilevazioni si dichiara indeciso o astenuto, nel centrosinistra, nel M5S e nel Terzo polo, l’attenzione ha cominciato a concentrarsi sull’elettorato contendibile. Certo, lo hanno fatto proponendo temi e soluzioni diverse. Carlo Calenda, ad esempio, ha cercato di differenziarsi dall’ex fronte giallo-rosso posizionandosi a favore del nucleare, contro il reddito di cittadinanza e facendo marcia indietro sulla depenalizzazione della cannabis. L’obiettivo dell’ex ministro dello Sviluppo Economico pare essere quello di attirare il voto riformista, attingendo dai moderati di centrodestra e dai delusi da quella che nel Terzo polo viene considerata come la deriva populista del Pd. Dipingere i dem come estremisti di sinistra va in questa direzione. Non è un caso che, ad esempio, dopo la sconfessione del Jobs Act da parte di Letta, dagli ex renziani - padri di quella riforma - siano piovute accuse di bolscevismo. «Archiviano Blair, commemorano la rivoluzione bolscevica del 1917 e fanno i manifesti rosso contro nero. È il nuovo Pd di Letta e Roberto Speranza», ha tuonato Ettore Rosato, coordinatore di Italia Viva. Del resto, il partito di Letta è il boccone più grosso rispetto agli altri partiti. E l’unico che al suo interno può vantare la convivenza di più anime: una parte più moderata (buona per Calenda) e una più a sinistra (appetibile per i Cinque Stelle). La coperta, però, rischia di essere corta. E il bottino, magro.

LA CITTADINANZA FA LITIGARE

I CANDIDATI DEL SUDAMERICA

DI FEDERICO NASTASI

In Brasile ci sono quattrocentotrenta mila votanti per le elezioni politiche italiane. E molti di loro, grazie alla doppia cittadinanza, voteranno anche per le elezioni brasiliane, previste per il 2 ottobre. Dal 2006 infatti, sei milioni di italiani residenti all’estero hanno diritto di voto alle elezioni politiche del Belpaese. In Brasile si trova la quarta comunità italiana all’estero, mentre la prima è in Argentina. I due stati fanno parte del collegio Sud America, nel quale si eleggono due deputati e un senatore, rappresentanza dimezzata a causa del taglio dei parlamentari. Mentre nel resto del mondo i partiti più votati sono quelli presenti anche in Italia, in America Meridionale la parte del leone la fanno due movimenti indipendenti: l’Unione Sudamericana Emigrati Italiani (Usei) di Eugenio Sangregorio, imprenditore delle scommesse e del turismo, e il Movimento Associativo Italiani all’Estero (Maie) dell’italo argentino Ricardo Merlo, sottosegretario con delega agli italiani nel mondo, alleato dell’ex Forza Italia Maurizio Lupi. Uno dei cavalli di battaglia di Usei e Maie è ridurre le estenuanti attese delle pratiche consolari. E proprio nei consolati possono vantare contatti diretti. È il caso, ad

36 18 settembre 2022 Verso il voto
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RIVALI

Giuseppe Conte:

Al centro: Matteo Renzi.

A sinistra: Carlo Calenda

esempio, della vice console di San Isidro, provincia di Buenos Aires, Valeria Sangregorio, figlia del fondatore dell’Usei.

Entrambi i movimenti sono nati in Argentina e si sono espansi a macchia d’olio in tutta l’America del Sud. Basti pensare alla recente affermazione del Maie alle ultime elezioni dei Comites, le rappresentanze degli italiani all’estero, che adesso infatti per la Camera candida Luciana Laspro, la più votata nei Comites brasiliani. Usei risponde con Renata Bueno, eletta alla Camera nel 2013, figlia di Rubens, deputato federale del Paranà. A contendergli i seggi, in un sistema proporzionale puro con preferenze, la destra candida l’uscente Roberto Lorenzato e l’ex campione di Formula 1 Emerson Fittipaldi. Lorenzato accusa il Pd di voler cancellare lo ius sanguinis, il diritto di cittadinanza garantito ai brasiliani discendenti di italiani. «È falso, noi vogliamo lo ius sanguinis e lo ius scholae», replica Fabio Porta, senatore uscente Pd, siciliano, residente in Brasile dagli anni ’90, una vita nel sindacato Uil e ora candidato alla Camera. Insieme a lui corre, per il Senato, Andrea Matarazzo, politico di lungo corso nello Stato di San Paolo, discendente di una famiglia simbolo dell’economia brasiliana.

Il Brasile è stato uno degli ultimi Paesi al mondo ad abolire la schiavitù. E quando lo fece, nel 1888, aprì le porte alla migrazione di massa. Arrivarono in milioni, italiani in testa. Impiegati nelle piantagioni del caffè, nel giro di una generazione divennero piccoli proprietari terrieri. Veneti, friulani, trentini. Ma anche toscani e laziali. Si concentrano a San Paolo, dove, nel 1914, fondarono una squadra di calcio con maglietta tricolore: Palestra Italia. Durante la

seconda guerra mondiale, Italia e Brasile si trovarono su fronti opposti e il governo Vargas non tollerava una squadra con il nome e i colori del nemico. Scompare cosi il rosso, rimangono il bianco e il verde di quella che oggi è una delle squadre più titolate del calcio sudamericano: il Palmeiras. Si stimano 32 milioni di oriundi, brasiliani con sangue italiano. Tra questi, anche Jair Bolsonaro, in questi giorni impegnato in campagna elettorale.

E la concomitanza con le elezioni brasiliane riduce il già scarso interesse per quelle italiane: alle ultime, l’affluenza si fermò al 30%. Intanto, gli elettori hanno già ricevuto a casa le schede. Dopo aver votato, devono spedirle ai consolati più vicini. Ma il cammino è pieno di insidie. Nel 2008, l’elezione del Pdl Caselli, secondo le accuse, sarebbe stata garantita da 22 mila schede compilate dalla stessa calligrafia dentro i locali dell’ambasciata. Nel 2018, la stessa mano votò circa duemila schede, garantendo così l’elezione di Cario per l’Usei e lasciando fuori il Pd Porta, che poi riuscì a farsi dare ragione dalla giunta del Senato. E proprio Porta denuncia il rischio di nuovi brogli: «È stata intercettata una mail con la quale un’esponente dell’Usei chiede agli elettori di consegnare le buste prima che siano votate alla loro organizzazione, che si incaricherà poi di votare al posto loro».

Truffe a parte, per molti italiani del Brasile la cittadinanza è solo un documento di viaggio «c’è una minoranza interessata, ma la maggioranza non conosce l’italiano e ha pochi contatti con il nostro Paese», racconta sconsolato Franco Patrignani, della Cisl di Espirito Santo, che conclude «qui si parla di Lula e Bolsonaro, l’Italia è lontana».

18 settembre 2022 37 Prima Pagina
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PD, NON PARLAR

Nel programma del partito spazio eccessivo agli avversari. E nessuna autocritica sugli errori commessi su immigrazione e scuola  quando è stato al governo

Ipilastri della terra” è un romanzone di Ken Follett, pubblicato nel 1989, che si apre con un’impiccagione e si chiude con re Enrico II che entra nella cattedrale di Canterbury in ginocchio, confessando di aver istigato l’assassinio dell’arcivescovo Thomas Becket. Quando Thomas Stearns Eliot scrive “Assassinio nella cattedrale”, fa dire a uno dei cavalieri omicidi che, insomma, la colpa era però dell’arcivescovo: «Usò ogni sorta di provocazione; dalla sua condotta, passo per passo, non si può concludere se non che: aveva deciso di morire martire».

L’analogia con il programma elettorale del Pd è fin troppo facile: primo, perché al centro del programma medesimo ci sono i pilastri. Niente cattedrali gotiche, ma tre punti: sviluppo sostenibile e transizione ecologica e digitale, lavoro, conoscenza e giustizia sociale, diritti e cittadinanza. Secondo, perché, come si vedrà, non proprio una vocazione al martirio ma una chiusura in difesa è più che evidente.

A favore: questo è un programma scritto come andrebbero scritti i programmi, ovvero con una visione ampia e un approccio concreto ai punti che si intende realizzare.

A sfavore, sempre restando sul piano generale, c’è l’elefante. Se ricordate, l’inizio di questa serie di articoli richiamava George Lakoff e il suo pamphlet sull’importanza di non pensare all’elefante, ovvero di non far proprio il frame dell’antagonista, ma di crearne uno nuovo. Ecco, qui c’è non un solo elefante, ma l’intero corteo degli elefanti rosa di Dumbo (quelli che hanno terrorizzato varie generazioni di bambini con la canzoncina «Son qua… son qua… i rosa elefanti siam»). Nella lunga premessa, infatti, si evoca continuamente la destra, rimarcando l’importanza di «offrire agli Italiani e alle Italiane un progetto limpidamente alternativo a quello di una destra che ha riconfermato tutta la sua inaf-

fidabilità». E ancora: «Un governo di queste destre rappresenterebbe un pericolo per l’Italia», «la destra italiana rappresenta una concreta minaccia per l’economia, la coesione sociale, l’ambiente. La destra italiana propone una visione oscurantista e isolazionista del Paese. La destra italiana diffonde paura, avversione, odio». D’accordo, non hanno letto Lakoff. Se ne era avuta un’avvisaglia in una delle immagini diffuse all’inizio della campagna elettorale, raffigurante un pensoso Matteo Salvini e alcune delle sue, diciamo, promesse: «Faremo centomila espulsioni all’anno», «mi dia due settimane al ministero dell’Interno e ne espello cento al giorno». Ecco, se pensate che gli sia stata contestata l’idea dell’espulsione sbagliate di

Loredana Lipperini Giornalista L’elefantino volante Dumbo e Enrico Letta
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Verso il voto

E DELLA DESTRA

in mare va soccorso e salvato sempre», forse sfugge dalla memoria che quel sempre andrebbe preceduto da un quasi: per esempio, Anna Ascani, vicesegretaria Pd e poi viceministro all’Istruzione, il 20 gennaio 2019 dichiarava: «Non mi vergogno di quanto ha fatto Minniti perché c’era un problema di accessi non regolati nel Mediterraneo mentre ci preoccupavamo solo dei superstiti». Vale la pena di ricordare che il 14 novembre 2017 l’Alto commissario Onu per i diritti umani Zeid Raad Al Hussein aveva definito disumano e vergognoso il memorandum (per il resto, continuare a chiedere a Papa Francesco).

grosso: la scritta (del Pd) era «Un anno con Salvini ministro: 7289 rimpatri, 19,96 al giorno». E subito sotto «Destra italiana: solo propaganda, zero soluzioni». In pratica, gli è stato rimproverato di aver espulso troppo poco.

Già che ci siamo, andiamo a vedere cosa si dice nel programma sui migranti: come forse immaginate, non appare il nome di Marco Minniti. Sì, c’è l’Agenzia di Coordinamento delle politiche migratorie, l’abolizione della Bossi-Fini, l’allargamento dei corridoi umanitari. Ma non si parla del Memorandum Italia-Libia, degli accordi con la Guardia Costiera di Tripoli, e ci si dimentica anche qualcosa: quando nel programma si scrive: «Siamo stati, siamo e saremo sempre contro politiche di respingimenti, apparenti “chiusure dei nostri porti” o, addirittura, non meglio precisati “blocchi navali”: vale il sacrosanto principio per cui chi è in pericolo

Però nel programma ci sono tante sagge proposte. C’è molto spazio alla cultura, al piano nazionale per la lettura, alle periferie. E, a proposito, si parla della «scuola come motore del paese». Benissimo. Però verrebbe sommessamente da ricordare che per 8 degli ultimi 9 anni il Pd poteva ben occuparsi di scuola avendo di fatto avuto quattro ministri dell’istruzione: Maria Chiara Carrozza, Stefania Giannini, Valeria Fedeli, Patrizio Bianchi. Passi. Inoltre, a ben spulciare, si nota che la Buona Scuola di fatto non viene toccata: restano i pieni poteri del Dirigente Scolastico, per esempio, né vengono eliminati i guasti di Letizia Moratti e Mariastella Gelmini, e dunque resta il maestro unico alla primaria, dopo la cassazione dei tre maestri operata da Gelmini. In compenso, non si parla del taglio di 10.000 posti di lavoro nei prossimi anni (Dm 150/22 del 29 giugno, il cosiddetto Decreto Pnrr2) né della creazione del “docente esperto” (Dl 115/22 del 9 agosto), né dell’attribuzione dei fondi per la lotta alla dispersione col criterio delle classifiche Invalsi (Dm 170/22 del 24 giugno) che privilegia i licei classici, esclude i Centri Provinciali per l’istruzione degli Adulti, e privilegia la scuola secondaria rispetto alla primaria, e neppure della sperimentazione del liceo di 4 anni. Ma forse, appunto, è perché qui ci sono le parole, ma certe disattenzioni, diciamo così, trapelano ancora.

E dunque? Alla fine della storia, e dei programmi, non c’è che il voto di domenica prossima. L’analisi fatta in queste settimane è un appello ad astenersi? No, in nessun modo. C’è, invece, l’invito a riflettere, e provare a trovare una possibilità in quello che viene offerto. Sapendo, magari, che la società che sogniamo dobbiamo costruircela tutti e tutte, e non solo trovarla scritta in un programma. Abbiamo cominciato con Eliot, con Eliot chiudiamo: da un’altra opera, “Il canto d’amore di Alfred Prufrock”, questo l’invito, questo il primo gesto:

Allora andiamo, tu ed io,

Quando la sera si stende contro il cielo Q

18 settembre 2022 39 Foto: LMPC -GettyImages, F. FotiaAgf
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Prima Pagina

SENZA CALENDA CON L’EUROPA

74 anni Emma Bonino, fondatrice del partito liberale italiano +Europa e radicale storica, non cessa di combattere e, con quel suo piglio realista e sbrigativo, spesso ironico, si candida nel primo municipio di Roma per un posto al Senato.

Quali sono le due proposte irrinunciabili dell’agenda di coalizione da affrontare in parlamento come prioritarie?

«Non lo so, posso dirle la mia agenda. Il parlamento sarà impegnato sul decreto Aiuti ter ma la cosa più urgente sarà la legge di bilancio, che non è una proposta ma è una necessità concreta e urgente a partire dalla quale affronteremo la questione del debito pubblico e del rapporto con l’Europa. La seconda priorità saranno le bollette e il tetto al prezzo del gas.

È una questione che riguarderà il governo e credo che vada portata avanti la linea Draghi. La Germania ha fatto un’apertura sul price-cap, rimane la chiusura dell’Olanda e di altri Paesi ma bisogna  superare le resistenze».

Un tema direttamente legato alla guerra russa in Ucraina che negli ultimi giorni sta girando bene per gli ucraini con 6mila chilometri riconquistati...

«Noi proponiamo di resistere e di non farci attirare dalle sirene di Putin su un allentamento delle sanzioni o da qualsiasi altra retorica».

Se sarà eletta, come pensa di costruire e mantenere un

dialogo continuo con il suo territorio di elezione? In che modo relazionerà sull’attività svolta? In quali luoghi?

«Grazie alla sapienza del legislatore precedente il mio territorio (il collegio di Roma 1) è composto da 830mila cittadini: una quantità enorme e un collegio grandissimo che fisicamente non è possibile presidiare. Non ho il dono dell’ubiquità. Fatta salva qualche attività in loco, dovrò continuare con social e informazione televisiva, se sarà permesso».

In che senso?

«Sono appena usciti i dati dell’Agcom e noi di +Europa siamo fuori. Abbiamo zero minuti sulla rete di Mentana e 0,88 secondi su altre reti a fronte delle sette ore e molto di più di altri. E se questa è la condizione in par condicio si figuri senza!»

Chi sono i finanziatori della sua attività politica?

«Noi viviamo di finanziamenti pubblici come da legge». In che modo si impegna a rimanere libero o libera da interessi e condizionamenti?

«Io? Ma veramente state parlando con Emma Bonino! Che devo fare giurin-giurello?»

Cosa ha fatto di concreto nel territorio in cui è candidata?

«Ci ho vissuto, ho restaurato una casa fatiscente e ho aiutato la Casa delle Donne. Che domanda è?»

Il suo partito +Europa e Azione di Carlo Calenda erano alleati da mesi in quella

Federica Bianchi Giornalista
40 18 settembre 2022 Verso il voto
PRIORITÀ AI CONTI PUBBLICI E ALLE BOLLETTE. E SULL’EX ALLEATO DICE: MI DISPIACE MA NON LO CAPISCO
BONINO
A
COLLOQUIO CON EMMA BONINO DI FEDERICA BIANCHI

LE 5 DOMANDE DE L’ESPRESSO

pa a due velocità: chi vuole maggiore integrazione e chi preferisce un’Europa soltanto intergovernativa. L’abbiamo già fatto sia con il trattato di Schengen sia con l’euro. È un’architettura complicata ma potrebbe essere una via d’uscita».

Come vede l’Europa dei diritti civili e umani?

che sembrava un’unione ideologicamente coerente. Come ha vissuto l’abbandono?

«Sono stata umanamente molto dispiaciuta e politicamente incredula perché il 2 agosto c’è stata una conferenza stampa sulla base di un documento scritto da Calenda stesso, durante la quale lui ha dato un bacio in fronte a un Enrico Letta imbarazzato. Poi il 7 agosto sul palco dell’Annunziata Calenda annuncia che va da un’altra parte».

Non avete pensato di seguirlo?

«Quando un fidanzato se ne va non lo puoi rincorrere. E comunque non me l’ha chiesto nessuno di andare con Renzi. Sono virtuosa per mancanza di tentazioni».

Crede alle motivazioni addotte da Calenda, ovvero alla scelta di Letta di accogliere in coalizione l’estrema sinistra e i verdi?

«Calenda conosce bene questa legge elettorale che costringe a fare alleanze anche con l’estrema sinistra. In quella conferenza aveva persino detto “Dov’è Fratoianni? Se è tra il pubblico bacio pure lui!” Insomma non è che non lo sapesse». Come vede questa Europa tanto intergovernativa e poco federale?

«Come sempre l’Europa reagisce quando si trova a un metro dal burrone. L’abbiamo visto con il Covid, con il Pnrr, lo stiamo vedendo con Putin, con il gas etc. Quindi il mio problema è che gli Stati membri si accorgano che non ci serve l’Europa solo nelle crisi, anche se meno male che c’è. Spero venga superato il diritto di veto e che il Parlamento Europeo abbia maggiore iniziativa legislativa. Ci serve una politica estera e della difesa comune, una comune politica dell’immigrazione, Macron chiedeva anche un’Europa della salute ma forse se ne è dimenticato. In questi giorni si parla soprattutto di un’Europa dell’energia. Va tutto bene ma il punto è che vanno cambiati i trattati». È fattibile nel breve periodo?

«No. L’Europa è lenta ed è prigioniera degli Stati membri. Però non è un motivo per smettere di lottare per gli Stati Uniti d’Europa. Magari nel frattempo si potrebbe avere un’Euro-

«In Europa i diritti non sono mai stati la priorità. Lo è sempre stato il mercato comune, un vero miracolo, e poi l’euro. Ora l’Europa sta terminando le riforme relative a questi due settori. Ma sui diritti siamo indietro, e bastano due Paesi che si blocca tutto».

Come giudica il rapporto tra l’Europa e la Russia alla luce della guerra e della dipendenza dal gas?

«L’Europa ci serve anche per avere più voce sul tavolo dei colloqui e dei negoziati. Pesiamo molto di più come insieme di 500 milioni di persone che come singoli Stati ma, siccome non tutti si convincono, Putin cercherà sempre di perseguire il suo progetto che è quello di distruggere l’Europa per potere negoziare stato per stato. Con la Cina vale lo stesso ragionamento anche se il discorso è più complicato. Ma non c’è un’altra strada. Ha un peso enorme, anche a livello demografico, ma ha anche bisogno di interloquire con il mondo occidentale. Almeno per ora».

La globalizzazione è morta?

«No, speriamo di no, per carità. Non torniamo all’autarchia. Credo però che le crisi abbiano dimostrato che il vecchio ordine mondiale è finito e che un nuovo ordine, che è indispensabile, stenta ad affacciarsi».

Tornando in Italia, quali sono le misure che potrebbero portare sollievo a chi si trova in difficoltà in un Paese che non si è mai nemmeno ripreso dalla Grande crisi?

«Siamo diventati una “bonuslandia”. Leggo alla rinfusa: negli ultimi anni abbiamo avuto oltre al 110 per cento anche l’ecobonus, il bonus per il sisma, per i mobili, quello verde, idrico, quello per l’acqua potabile, per la ristrutturazione delle facciate, per il restauro prima casa rivolto ai giovani al disotto dei 35 anni, per gli affitti ai giovani al di sotto dei 31 anni, per le zanzariere, per i rubinetti, per i bebè, per il nido, per le nascite, il bonus mamma domani, questi ultimi, va detto, sostituiti dall’assegno unico. E poi il bonus centri estivi, animali domestici, vacanze, terme, pagamenti elettronici, bici, monopattini, auto, rottamazione tv, e mi fermo qui perché temo non avrà spazio in pagina. Credo che siano tutte misure utili per alleviare la situazione ma per fortuna che con il Pnrr si è aperto il capitolo delle riforme, quelle che servivano da anni e che l’Italia non riusciva a fare: burocrazia, digitalizzazione e istruzione. Stiamo affrontando obtorto collo situazioni strutturali. E non mi faccia aprire il capitolo sulla giustizia...»

Ma apriamolo!

«È il nostro problema principale e vale l’1 per cento del Pil. La mala giustizia intasa le carceri. Un problema complicato che riguarda l’obbligatorietà dell’azione penale, la separazione delle carriere e la responsabilità civile dei magistrati. Il fatto che non siano passati i referendum non vuole dire che il parlamento non debba intervenire».

Emma Bonino Tutte le risposte dei candidati ai nostri quesiti sono integralmente pubblicate sul sito lespresso.it
18 settembre 2022 41 Foto: Francesco Fotia / AGF Prima Pagina
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Reti, movimenti, associazioni Partito della Democrazia cercasi

La crisi della politica, della cultura e delle istituzioni è esplosa fragorosamente e la società italiana non può farsi schiacciare dalle macerie. Finalmente i sondaggi tacciono, con la loro presunzione di determinare o condizionare i consensi, e può farsi strada un ragionamento sul futuro, qualunque sia il risultato delle elezioni.

Bruno Manfellotto su L’Espresso del 4 settembre ha compiuto un’analisi impietosa sulla vita dei partiti ridotti a oligarchie e auspica il ritorno ai “partiti forti” per salvare la democrazia. Obiettivo, però, difficile perché quel tipo di organizzazione si è dissolta con la fine della Prima repubblica, contestualmente alla caduta delle ideologie e alle trasformazioni delle classi sociali. Impossibile tornare indietro in assenza delle condizioni strutturali, semmai bisogna immaginare un ritorno al futuro.

Da dove partire? La Costituzione prevede che i cittadini possono aspirare a determinare la politica nazionale attraverso la partecipazione libera in partiti ma, purtroppo, tutte le proposte di regolazione della vita interna e dei diritti degli associati sono state trascurate dal Parlamento. La credibilità di Camera e Senato è scemata progressivamente anche a causa di leggi elettorali cucite su misura delle segreterie dei partiti e il taglio del numero dei parlamentari ne accentuerà la scarsa rappresentatività.

Lo strapotere del Governo, attraverso una decretazione d’urgenza pervasiva e il ricorso ai voti di fiducia, è un altro elemento di rottura dell’architettura dei pesi e contrappesi.

La crisi del referendum determinata

anche da scelte politiche della Corte costituzionale ha alimentato la sfiducia e incrinato l’autorevolezza del giudice delle leggi.

Eppure, la società italiana non è morta o anestetizzata; piuttosto, ha dovuto trovare spazi di attività senza rapporti con la politica, in una separatezza che può condannare all’impotenza, in una crisi diversa ma che si somma a quella dei partiti che sono determinanti per la democrazia. Una ricostruzione che richiede intelligenza, visione e generosità, per mettere in campo una classe dirigente colta e capace di disegnare scenari futuri. Capace di analisi, di proposte nuove e di una comunicazione con la società e gli elettori non delegata e relegata ai social network. Parliamo del campo della sinistra progressista. Dopo la svolta di Occhetto, Alex Langer offrì la sua candidatura a segretario del nuovo soggetto. Purtroppo, la sua sfida non fu colta e le vicende successive, fino a oggi, del Partito De-

mocratico hanno mostrato l’inanità dei tentativi di assemblaggio di storie diverse. È stata una lenta deriva. Che fare dunque? Idee originali vanno messe sul tavolo. Ne suggerisco qui una, che potrebbe coinvolgere tante energie diffuse. Utilizzare lo strumento dello Statuto del Partito Radicale del 1967 che delineava un modello di organizzazione federale, territoriale e tematica, a esaltare radicamento e specificità, rivisitandolo per gli scopi di oggi. La mia ipotesi è di costruire un partito non di ceto politico che veda presenti, in maniera non subalterna, tanti soggetti forti: dalle associazioni del volontariato a quelle ambientaliste, dai movimenti dei diritti civili alle reti sociali, coinvolgendo i circoli culturali. Creare dunque un cantiere non scontato.

Un Partito della Democrazia per il governo dell’altra Italia o per l’alternativa alla Vandea.

Torino, Radicali Italiani, raccolta firme per referendum su eutanasia legale
42 18 settembre 2022 Prima Pagina Il commento di FRANCO CORLEONE
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Guerra, affari e politica

E SPIE

ietro lo scudiero leghista Gianluca Savoini, nella sua missione a Mosca a caccia di rubli, si staglia una colonna di alfieri dei servizi segreti russi. Una cordata quantomeno imbarazzante per il partito di Matteo Salvini, che in questa campagna elettorale, listata a lutto dalla guerra in Ucraina, è impegnato a far dimenticare anni di uscite politiche a favore di Vladimir Putin. È una rete di potere che parte da una spia russa, che ha partecipato al famoso incontro con Savoini all'hotel Metropol, e arriva fino a Daria Du-

gina, la figlia dell'ideologo ultra nazionalista Alexander Dugin, assassinata lo scorso 20 agosto con un'autobomba: un clamoroso attentato per cui il regime di Putin accusa i servizi ucraini.

Tutto inizia il 18 ottobre 2018 a Mosca. Nella hall del Metropol c'è Gianluca Savoini, un fedelissimo di Matteo Salvini, di cui è stato per anni il portavoce. L'esponente leghi-

sta, accompagnato da due consulenti italiani, parla di soldi con tre russi. In quel periodo la Lega ha le casse vuote, dopo la sentenza definitiva che ha ordinato la confisca dei famigerati 49 milioni della truffa dei rimborsi elettorali dell'era di Umberto Bossi. Quel mattino Savoini, senza sapere di essere registrato da uno dei suoi interlocutori, propone un affare d'oro: vendere all'Eni gasolio russo, a prezzi maggiorati, per dividersi la cresta. Il suo obiettivo, dichiarato, è far rientrare milioni di euro in Italia, tramite società di comodo, per finanziare la Lega. A scoperchiare lo scandalo è L'Espresso, con uno scoop di Giovanni Tizian e Stefano Vergine pubblicato nel febbraio 2019. A quel punto la Procura di Milano apre un'indagine, tuttora in corso.

DI PAOLO BIONDANI Gianluca Savoini con Matteo Salvini a Mosca sulla Piazza Rossa Paolo Biondani Giornalista
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LEGA-RUSSIA: SOLDI
L’AGENTE SEGRETO. L’IDEOLOGO DELLA GUERRA. L’OLIGARCA. LA STAR TV ASSASSINATA. ECCO LA RETE DI SAVOINI A MOSCA D

CRONOLOGIA

OTTOBRE 2018:

L’INCONTRO A MOSCA Gianluca Savoini, ex portavoce di Matteo Salvini, si presenta con due consulenti italiani all’hotel Metropol, dove propone a tre russi di vendere gasolio in Italia per finanziare la Lega.

Prima Pagina

Nel giugno 2021 il nostro settimanale aggiunge un altro tassello: uno dei tre russi è schedato come agente segreto di Mosca. Dunque Savoini, al Metropol, stava trattando con un rappresentante dei potentissimi apparati di spionaggio da cui proviene lo stesso presidente Putin. La presenza della spia è stata evidenziata ai magistrati italiani dalla nostra intelligence, che ha ricevuto l'informativa da uno dei Paesi fondatori della Nato (ma non dalla Cia). Di lui però i pubblici ministeri sanno solo che si chiama Andrey Yuryevich Kharchenko, nato nel 1980 a Baku, quando l'attuale Azerbaijan faceva parte dell'Unione sovietica. Le autorità di Mosca non hanno mai risposto alle richieste (rogatorie) della Procura di Milano.

A rivelare i segreti taciuti dal regime di Putin sono diverse notizie segnalate al nostro settimanale da un gruppo di giornalisti che prima della guerra lavoravano in Russia. Le

FEBBRAIO 2019:

LO SCOOP DELL’ESPRESSO

Un articolo di Giovanni Tizian e Stefano Vergine svela la trattativa del Metropol: i due cronisti avevano assistito all’incontro nella hall.

L’Espresso rivela che Matteo Salvini, il giorno prima, aveva visto Savoini e poi incontrato il ministro russo dell’Energia. La procura di Milano apre un’inchiesta.

GIUGNO 2021:

LA SPIA RUSSA L’Espresso rivela che uno dei tre russi incontrati da Savoini è un agente dei servizi segreti di Putin.

loro scoperte sono state verificate e approfondite da testate internazionali come BuzzFeed, Bellingcat, Insider e Istories. Queste informazioni, finora sconosciute ai magistrati di Milano, forniscono conferme decisive sul ruolo di spia di Kharchenko. Con riscontri oggettivi, documentali: l'uomo del Metropol, in particolare, non risulta registrato come dipendente pubblico, però dopo la guerra in Crimea ha potuto viaggiare con uno speciale «passaporto di Stato», che i cronisti russi chiamano «di servizio» e viene rilasciato solo a rappresentanti del governo.

Kharchenko ha usato il passaporto di Stato anche nel novembre 2016, per una missione di servizio: un viaggio ad Ankara insieme ad Alexander Dugin, il teorizzatore dell'annessione della Crimea e della guerra contro l'Ucraina. Pochi giorni prima, l'ideologo e l’agente segreto erano volati insieme proprio in Crimea, per incontrare un consigliere

18 settembre 2022 45 Foto: S. CavicchiLaPresse

Prima Pagina

del presidente turco Erdogan. Dugin e la spia del Metropol, secondo i dati raccolti dai giornalisti investigativi, hanno fatto molti altri viaggi insieme, mai rivelati prima. Interpellato dai cronisti russi, Kharchenko non ha detto nulla sul Metropol, ma ha ammesso di lavorare per la fondazione Eurasia di Dugin, che però non pubblica il suo nome. Dopo la guerra in Crimea Kharchenko non risulta aver presentato, per almeno cinque anni, alcuna dichiarazione dei redditi: un altro segno che il suo lavoro è segreto.

Lo stesso Dugin ha fortissimi agganci con i servizi. Un'eredità di famiglia: prima di essere censurata dal regime, la stampa russa ha fatto in tempo a scrivere che suo padre era un ufficiale del Kgb. La sua immagine di filosofo con la barba ha messo in ombra, almeno in Italia, questi legami spionistici. Che a Mosca appaiono evidenti. Dugin è stato il consigliere di uno dei politici più vicini a Putin, Sergei Naryshkin, quando era presidente del parlamento russo, dal 2011 al 2016. Da allora Naryshkin è diventato il numero uno dei servizi segreti esteri (Fsb).

Dell’ideologo amico delle spie, Savoini è un sostenitore dichiarato da almeno un decennio: la sua associazione Lombardia-Russia ha pubblicato molte loro foto insieme. Il leghista ha visto Dugin, a Roma e a Mosca, anche nei giorni della trattativa al Metropol. Dove Savoini garantiva ai tre russi la sua «totale connessione» con «Alexander».

Nel novembre 2016, dopo la vittoria di Donald Trump negli Usa, è Dugin che ha realizzato l'intervista-shock di Matteo Salvini alla tv russa Tsargrad, in cui il leader della Lega

Guerra, affari e politica

METROPOL

Gianluca Savoini all’Hotel Metropol di Mosca durante gli incontri con i russi svelati dall’Espresso. In alto: Matteo Salvini intervistato da Alexander Dugin per la tv russa Tsargrad

dichiarava che «l'Unione europea non è una democrazia», ma «una costruzione artificiosa che ha già cominciato a crollare». Negli stessi mesi, nonostante la condanna internazionale della Russia con le prime sanzioni per l'invasione della Crimea, Savoini continuava a organizzare incontri, anche in Italia, tra Dugin, Salvini e altri leader dell'estrema destra europea, in qualche caso «da non pubblicizzare», come precisava nelle sue carte. E per le questioni più riservate, indirizzava i suoi messaggi alla mail della figlia dell’ideologo, Daria Dugina. Proprio la conduttrice di Tsargrad, uccisa dall'autobomba che il governo russo ha attribuito a un'agente segreta ucraina scappata in Estonia.

Dugin a Mosca è famoso soprattutto come agitatore televisivo della stessa rete, controllata dall'oligarca ultra ortodosso Konstantin Malofeev. Daria Dugina era la star femminile di quella tv militarista. E usava la mail di Tsargrad anche per comunicare con Savoini.

Come in un gioco di matrioske, insomma, dalla spia del Metropol si arriva a Dugin. E dall'oligarca che lo paga, si torna alla Lega. Malofeev, infatti, è un grande finanziatore del Congresso mondiale delle famiglie, la kermesse integralista che fu ospitata nel 2019 a Verona dai ministri della Lega. Ed è uno degli oligarchi sospettati di manovrare soldi nell'interesse dei servizi di Putin. In Francia procurò a Marine Le Pen, nel 2011, prestiti bancari di favore per 11 milioni di euro. E nel 2018 il leghista Savoini trattò i primi affari petroliferi a Mosca con una società offshore dello stesso Malofeev.

Sul piano legale, come sempre, tutti vanno considerati innocenti fino alle sentenze finali dei giudici. E qui forse un processo non si farà mai: in mancanza di risposte dalla Russia, la stessa Procura potrebbe dover archiviare tutto. Ma il problema non è giudiziario: il caso del Metropol è uno scandalo politico internazionale. Confermato anche dalla ricostruzione dei fatti firmata dal tribunale del riesame e finora mai contraddetta: da tutte le fonti di prova «emerge in maniera nitida» che Savoini, a Mosca, stava «contrattando l'acquisto da parte dell'Eni di ingenti quantitativi di prodotti petroliferi, prevedendo che una percentuale del prezzo, indicata nel 4 per cento, sarebbe stata retrocessa per finanziare la campagna elettorale della Lega». Parola di leghista. Q

46 18 settembre 2022
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Amicizie pericolose

DI VITTORIO MALAGUTTI E CARLO TECCE

a variabile putiniana ha falcidiato le liste. In ossequio all’alleanza atlantica Nato, ben lieti di recuperare qualche poltrona in tempi di carestia e di riduzioni parlamentari, i partiti hanno epurato appassionati, frequentatori, estimatori del regime di Mosca. Nessun perdono. Quasi. Nel centrodestra distribuito in luoghi distinti, però, resiste un terzetto di candidati che, con gradazioni, pensieri, trascorsi diversi, ha disposto di buoni (o buonissimi) canali con la Russia, paria del mondo dopo l’invasione in Ucraina. Dal centro verso destra troviamo Valentino Valentini per Forza Italia, Giuseppe Valditara per la Lega, Giulio Tremonti per Fratelli d’Italia. Le tracce russe, nel manicheismo diplomatico di questo periodo, sono un bel guaio per una coalizione non compatta che di sicuro tenterà di formare un governo e lo farà giurando sul libro bianco degli investimenti in armamenti Nato e sui parametri di finanza pubblica dell’Unione europea.

Per raccontare qualcosa di attuale su Valentini si può cominciare a dire che prima c’era un altro Valentini. Certamente, più riservato, più discreto e dunque più misterioso. Valentini proviene da Fininvest, caratteristica poliglotta (però ha confessato di non sapere il russo), definito interprete, assai riduttivo, usato in forma offensiva, consiglie-

re per i temi internazionali di Berlusconi negli ultimi vent’anni, specialità missioni ufficiali e ufficiose in Russia. Valentini c’era sempre quando c’erano Silvio e l’amico Vlad, una cena di Stato, una cerimonia di insediamento, una gita a Soci, un tè in dacia, il Pinocchio in teatro dell’ex moglie di Putin, una riunione per il gas metano, una scampagnata ilare per distrarsi dalle beghe politiche. E pure quando Silvio non c’era, l’onorevole Valentini, è onorevole dal 2006, prendeva un aereo e volava a Mosca senza avvisare l’ambasciata. Non c’era bisogno di essere introdotti. Era talmente centrale nelle relazioni Roma-Mosca (cioè Silvio-Vlad) che nell’archivio di WikiLeaks ci sono ancora un paio di cablogrammi dell’ambasciata americana in Italia che lo descrivono con una certa severità di giudizio come l’emissario di B. in Russia. Tra l’altro era la stagione che ha stretto - ora è un cappio - il legame di dipendenza energetica di Roma verso Mosca.

Oggi Valentini parla di più, è in campagna elettorale, e ogni volta condanna senza esitazioni la Russia,

Carlo Tecce Giornalista Vittorio Malagutti Giornalista
48 18 settembre 2022 Foto: Getty Images, Fotogramma, Agf, Ansa
L TREMONTI, VALENTINI, VALDITARA. CANDIDATI PER IL CENTRODESTRA. MALGRADO GLI OTTIMI RAPPORTI CON LA RUSSIA. CHE POTRANNO DIVENTARE UN PROBLEMA PER IL PROSSIMO GOVERNO  MOSCA, ATTRAZIO

Prima Pagina

NE FATALE

rimarca le posizioni di lealtà assoluta alla Nato, difende le sanzioni europee contro Mosca, che sia in aula alla Camera, in un comizio di piazza, in una intervista televisiva: «Affermare che il flusso di gas riprenderà quando saranno rimosse le sanzioni è - ha dichiarato di recente - una ritorsione dei russi. Non si deve cedere». Valentini non rinnega passato, strategie, amici e spiega che il dialogo è necessario per costruire la pace. In questo turno è candidato al proporzionale di Bologna. Possibilità di elezione diretta: vicina allo zero. Deve aspettare che la diabolica legge elettorale faccia scattare il suo seggio perché magari se ne libera uno a Reggio Calabria o dalle parti di Trieste. Non è usuale per il capo del dipartimento esteri di un partito. Il sospetto è che qualcuno in Forza Italia abbia approfittato del Valentini versione 1 per scippare la poltrona al Valentini versione 2. Dasvidania.

Invece Giulio Tremonti è cambiato troppe volte, o meglio ha cambiato troppe volte partiti, per sancire quale sia il Tremonti corrente. Non ha contatti privilegiati con le cancellerie europee e chissà se gli americani ne auspicano un ritorno al governo oppure più prosaicamente lo temono. Di sicuro qualche fermezza in più e qualche titubanza in meno sulla guerra avrebbe aiutato. Era il 27 febbraio, l’invasione russa dell’Ucraina era cominciata da tre giorni e il destino di Kiev sembrava ormai segnato. Ospite di una trasmissione televisiva, Tremonti si è esibito con una veronica dinanzi a un quesito su Putin. La giornalista in studio gli aveva chiesto un’opinione sul capo del regime di Mosca. «Non è materia da discutere in questo modo», rispose l’ex ministro che tante volte ha incontrato il presidente russo nel decennio vissuto da titolare dell’Economia nei governi di Berlusconi. Sfilata la scrivania da ministro che fu di Quintino Sella, all’indomani del ribaltone imposto a Roma dalla Banca centrale europea, Tremonti rientrò nel suo studio di commercialista riscoprendosi

Nel fotomontaggio, Giulio Tremonti (in primo piano), Valentino Valentini (a sinistra) e Giuseppe Valditara
18 settembre 2022 49

Prima Pagina

prolifico saggista e commentatore di grandi questioni economiche. Fu allora che la forza delle idee lo spinse nella nascitura Lega nazionale di Salvini, di cui condivideva le critiche all’Europa e alla globalizzazione fondata sui dollari di Washington. In quel periodo, la Russia di Putin diventò un punto di riferimento per molti intellettuali che dopo la Brexit e l’elezione di Trump si allenavano a guidare il nuovo mondo ricco di populismo. Nel maggio del 2017 a Milano ci fu un apposito convegno per discutere di “Sovranità e globalizzazione. Nuovi scenari geopolitici in Europa e negli Stati Uniti”. Una foto ritrae Tremonti, ospite d’onore del dibattito, vicino al moderatore Gianluca Savoini, all’epoca fiduciario di Salvini nei palazzi del regime putiniano a Mosca. Lo stesso Savoini, che un anno dopo verrà coinvolto nello scandalo della trattativa per i presunti finanziamenti di Mosca alla Lega. Allo stesso tavolo, a fianco di Tremonti, sedeva Giuseppe Valditara, un altro intellettuale del nuovo mondo del Carroccio.

A cinque anni di distanza da quel convegno molto, quasi tutto, è mutato in casa Lega. Per riprendere ciò che gli spetta almeno in Parlamento (sarebbe la settima volta), Tremonti ha scelto di candidarsi da indipendente alla Camera con Fratelli d’Italia. Valditara è ancora con Salvini e ormai ha i gradi di ideologo. Il suo ultimo saggio, pubblicato in perfetto sincrono con la scadenza elettorale, si presenta in copertina come “Il manifesto della Lega per cambiare il Paese”. Un libro che aspira a diventare un programma politico, una sintesi delle ambizioni di un partito che arranca nei sondaggi e deve fronteggiare la concorrenza di Fratelli d’Italia.

Così, sui giornali, Valditara è diventato «l’ideologo di Salvini». Già, ma quale Salvini? Quello sovranista, no-euro e filorusso? Oppure la versione moderata e dialogante di questi mesi al governo con Draghi? Il giurista Valditara, ordinario di Diritto Romano all’università di Torino, ha il vezzo di raccontarsi come discepolo del politologo Gianfranco Miglio, la stella polare dei leghisti federalisti di Umberto Bossi. Nel 2001 ci fu la prima conversione: il leghista degli albori è approdato in Senato con Alleanza Nazionale, partito statalista e centralista. Rieletto per due volte, l’ultima sotto le insegne del Popolo della Libertà, Valditara seguì Gianfranco Fini nella fugace avventura di Futuro

GIURISTA

Giuseppe Valditara, Giulio Tremonti e il giurista russo Alexander Linnikov, prorettore della Moscow Financial University, emanazione del governo russo, in una foto del 2018

Amicizie pericolose

e Libertà, per poi ripararsi nel Carroccio. E allora ci fu la svolta nazionalista contro la moneta e le istituzioni europee sintetizzata nel saggio “Sovranismo, una speranza per la democrazia”, firmato da Valditara con postfazione di Marcello Foa, futuro presidente della Rai nominato dal governo gialloverde di grillini e leghisti. Un saggio, il primo della serie, in cui il giurista indica la rotta al partito che fu federalista. «Tra il mio saggio di allora e quello di oggi c’è continuità - spiega Valditara a L’Espresso - perché non ho mai inteso il sovranismo come nazionalismo, ma come sovranità popolare così come è citata nella nostra Costituzione, e di cui il federalismo e la massima espressione».

Un distinguo sottile, da giurista prestato alla politica. Sta di fatto che Valditara nel 2018 fa il suo ingresso in quota Lega al ministero dell’Istruzione con l’incarico di direttore del Dipartimento per la Formazione Superiore e la Ricerca. Il nuovo dirigente vuole lasciare il segno nella scuola italiana. Proprio come vent’anni prima, quando dai banchi del Parlamento, collaborò da relatore alla scrittura della riforma di Mariastella Gelmini. Un suo pallino sono le collaborazioni internazionali. Valditara ha viaggiato e ha conosciuto la corte accademica di Putin. A fine novembre del 2018, mentre era al ministero, la Financial University di Mosca, un’emanazione del governo, gli pagò una trasferta in Russia. Proprio in quei giorni, la stessa università organizzò il convegno per capire “Come entrare nelle prime cinque economie del mondo”. Un evento ai massimi livelli, con la lectio magistralis dell’economista francese, premio Nobel, Jean Tirole. Tutti russi, invece, i relatori al tavolo del dibattito, compresi molti esponenti del governo. Tra loro, un solo ospite straniero: Giulio Tremonti.  Q

50 18 settembre 2022
©RIPRODUZIONE RISERVATA VALENTINI TENEVA I RAPPORTI TRA BERLUSCONI E LO ZAR VLADIMIR AL TEMPO DEGLI ACCORDI SUL GAS. VALDITARA E TREMONTI INSIEME A MOSCA
52 18 settembre 2022 Economia e guerra LA CRISI PEGGIORE INDUSTRIA

STABILIMENTI CHIUSI. LAVORATORI IN CASSA INTEGRAZIONE. PREZZI FUORI MERCATO. PER LE IMPRESE ITALIANE UN’EMERGENZA ENERGETICA SENZA PRECEDENTI. E GLI AIUTI NON BASTANO

DI EUGENIO OCCORSIO

Anche se ha perso un po’ di valore negli ultimi giorni, il gas costa ancora così tanto che è come se il petrolio costasse 400 dollari al barile (88 il Brent martedì scorso, ndr), scrive l’Economist. Nell’Europa a 27, la bolletta elettrica del 2022 supererà i 1800 miliardi di euro contro i 300 miliardi in media degli ultimi anni, calcola la Morgan Stanley. In Italia, ha tuonato il presidente Carlo Bonomi all’assemblea della Confindustria lunedì scorso, la cassa integrazione straordinaria ha superato nei primi sette mesi del 2022 per il 45 per cento il 2021. Già 5,6 milioni di persone sono in Italia in povertà assoluta di cui 1,4 milioni minori, sentenzia l’Istat. Il potere d’acquisto, certifica l’Ocse, scenderà quest’anno del 3 per cento dopo 25 anni di aumenti salariali medi pari a zero.

Eccoli, i costi della guerra di Putin. Salgono esponenzialmente ogni settimana. Anche se i rincari dell’energia erano cominciati prima dell’“operazione speciale”, è con la guerra che sono saliti in modo irrimediabile. Il conflitto è la prima causa di destabilizzazione globale. In Italia, il governo si è limitato (attuando l’accordo di fine luglio a Bruxelles per la riduzione volontaria dei consumi di gas del 15 per cento), a indicazioni di buon senso prive di sanzioni, clausola che potrebbe saltare se la situazione si aggrava (già sull’elettricità si parla di “obbligo”). È la mini-stretta per la quale si spera in un risparmio di 3,2 miliardi di metri cubi di gas (su 76 di fabbisogno 2021 di cui il 29 per cento dalla Russia) più 2,1 producendo elettricità da combustibili diversi a partire dal carbone.

È sul settore produttivo che le conse-

guenze rischiano di essere catastrofiche. Il governo ha già impegnato 49 miliardi dall’inizio dell’anno - Draghi e Daniele Franco hanno fatto i salti mortali per trovarli senza “scostamenti” - per ristori, contributi, crediti d’imposta, indennizzi. Ci si è concentrati sulle famiglie in difficoltà e sulle industrie più “energivore”: vetro, siderurgia, ceramica, carta, auto. Ma ora che in extremis il Parlamento uscente sta dando il via libera al decreto aiuti-bis da altri 17 miliardi, e che il governo lascia in eredità un tesoretto da un’altra decina di miliardi per l’aiuti-ter, bussano allo sportello-Stato altri comparti della manifattura e dei servizi: nella ristorazione, avvisa Confcommercio, 370mila posti di lavoro sono a rischio, i piccoli esercizi - dice Confesercenti - pagheranno nel 2022 una bolletta da 11 miliardi contro i 3 del 2021, nell’ospedalità privata (che copre secondo l’organizzazione del settore Aiop il 25 per cento dei servizi sanitari pubblici) l’elettricità è lievitata del 400 per cento fino a 1,6 miliardi. La richiesta minima è che si estenda la cassa integrazione gratuita (senza che lo Stato prelevi dalle aziende un’addizionale), già concessa a più riprese in pandemia e dopo l’invasione dell’Ucraina.

«Quello che fa rabbia è che gli ordini da tutto il mondo sono a livelli da record e rischiamo di non riuscire a soddisfarli per l’esplosione dei costi», dice Marco Ravasi, presidente di Assovetro (103 aziende per 16.200 dipendenti). «Vanno bene sia il mercato interno che l’export, con una forte domanda di bottiglie e vasetti. Siamo riusciti a bat-

Eugenio Occorsio Giornalista Al lavoro in una acciaeria
18 settembre 2022 53 Foto: Getty Images Prima Pagina

Economia e guerra

tere, complice il rialzo dei trasporti, la concorrenza di Turchia e Portogallo che valevano il 20 per cento del mercato, ad aumentare la produzione del 9,4 per cento nel 2021 e del 3,4 nel primo trimestre 2022. Poi il tunnel: l’energia vale il 25 per cento dei nostri costi, e visto che il gas è decuplicato in 18 mesi, per recuperare dovremmo moltiplicare per quattro i prezzi. Le pare possibile?»

Come sempre la crisi è più forte dove il tessuto economico è più debole. L’Alfa Acciai di Brescia, “regina” del tondino da cemento armato, ha chiuso (“temporaneamente”) l’impianto di Catania - 500 dipendenti, 500mila tonnellate annue prodotte, 150 milioni di fatturato - per i costi energetici. Con conseguenze a catena per l’edilizia, già in confusione per i pasticci del superbonus. Cassa integrazione per tutti. Anche la Arvedi a Terni ha dimezzato la produzione. Ferma la storica vetreria Ivv di San Giovanni Valdarno (che ha appeso ai cancelli due bollette del gas: 61.797 euro nel luglio 2021, 218.351 nel luglio 2022) e ingresso sbarrato perfino al distributore di metano di Genova Bolzaneto per non far pagare il gas 4,5 euro al litro, come tre euro per un litro di benzina. È riuscita a riaprire il 12 settembre la gloriosa cartiera Pirinoli di Cuneo, «anche se da 400mila del pre-pandemia la bolletta del gas è schizzata a 3,2 miliardi», dice il presidente Silvano Carletto. «Per ora abbiamo riscattato dalla cassa integrazione i nostri 90 dipendenti, ma il futuro è incerto». È un peccato, spiega Massimo Medugno, dg di Assocarta, «perché nel nostro settore siamo riusciti a creare una solida economia

circolare con un efficace riciclo». Le asimmetrie concorrenziali «da quando la voce energia ha superato il 50 per cento dei costi rispetto ai competitor americani e asiatici che pagano il gas molto meno - aggiunge Antonio Gozzi, presidente di Federacciairischiano di essere difficilmente rimediabili». L’unica, chiosa Giovanni Savorani, capo di Confindustria Ceramica, 137 aziende e 20mila dipendenti di cui 2000 in cig, «è una moratoria sui prestiti come successe durante il Covid, e l’Abi ci ha dato segnali di apertura. Non riusciamo neanche più a chiudere i contratti di fornitura perché i piccoli distributori di gas sono presi nella stessa trappola dei prezzi impazziti all’origine». Non è un problema solo italiano. Il primo atto della premier britannica Liz Truss è stato l’accantonamento di 100 miliardi di sterline (160 miliardi di euro), il 2,5 per cento del Pil, per congelare i costi dell’energia, impossibile da imitare in Italia causa debito. Anche la Germania può permettersi misure draconiane: mentre rinviava la chiusura degli ultimi quattro reattori nucleari prevista per il 2022 e portava la produzione a carbone a un terzo del totale, ha stanziato 65 miliardi (1,8 per cento del Pil) per impor-

54 18 settembre 2022
346 Massimo storico del gas (euro per MWh), raggiunto alla chiusura del 26 agosto 2022 EURO PER MWH 38,9 Percentuale del gas russo sul fabbisogno nazionale importato nel 2021 (record storico) PER CENTO 4,4 Estrazione in Italia sul fabbisogno complessivo (76,1 miliardi di metri cubi nel 2021) PER CENTO AGOSTO 2017AGOSTO 2018AGOSTO 2019AGOSTO 2020AGOSTO 2021AGOSTO 2022 -20 -10 0 10 20 30 40 50 Una centrale elettrica  COSÌ L’ENERGIA GONFIA I PREZZI Componente energetica dell’inflazione in percentuale

re un price cap interno ai costi dell’elettricità. Quanto al price cap europeo, è tutto rinviato al Consiglio dei capi di governo del 6 ottobre. L’Italia spinge per un “cap” generalizzato, «esponendosi però al rischio che gli altri fornitori a parte la Russia vendano il loro gas sui mercati extraeuropei», spiega Davide Tabarelli, presidente di Nomisma Energia. «Sarebbe una beffa e un tragico arretramento: meglio predisporre un serio piano di razionamento per l’inverno e riavviare l’estrazione domestica». Altra ipotesi è il “disaccoppiamento”: «Distinguere fra l’energia prodotta con il gas e quella con altre fonti è una delle poche cose realisticamente fattibili», dice Massimo Nicolazzi, docente di Economia delle fonti energetiche all’università di Torino. «Diverse sono le metodologie applicabili: la Spagna ha scelto di rimborsare parzialmente chi compra gas per la generazione elettrica, ma ci sono altri sistemi. In ogni caso, i benefici sulla bolletta possono superare il 20 per cento». Su una cosa manager, esperti e accademici sono concordi: questa è la più grave crisi energetica della storia, peggio anche di quella del 1973.

Prima

DIVERSIFICARE, UN OBBLIGO

CHE COSTA CARO

Quanto costerà realmente la crisi del gas? Di sicuro, molto di più di quanto indica la lineare progressione del Ttf di Amsterdam. L’affannoso shopping per diversificare le fonti di gas di Draghi, Cingolani e Di Maio ha portato sì ad una serie di pre-accordi con partner vecchi e nuovi, ma ha aggiunto ulteriori costi che si scaricheranno sulle bollette e sulla fiscalità generale. I due rigassificatori che dovrebbero attraccare ai moli di Ravenna e Piombino sono già stati acquistati dalla Snam (di proprietà del Tesoro tramite Cdp).

Quello di Piombino è costato 330 milioni: bisognava fare presto perché la domanda di queste navi-piattaforma è furibonda, e affittarla costa 50 milioni l’anno. A vendere è la Golar, primo gruppo mondiale della rigassificazione quotato al Nasdaq (dove in un anno è salito da 11 a 28 dollari): la promessa è di inserire in rete dall’aprile prossimo 5 miliardi di mc, sempre che si superino le contestazioni e si riesca a costruire le infrastrutture di raccordo. Da coprire anche le bollette gratis promesse alla cittadinanza. Il secondo rigassificatore, quello di Ravenna - dove l’accoglienza è più benigna - è costato ancora di più perché si è perso un mese nella scatenata gara mondiale. Per ora è al lavoro in Egitto e dovrebbe entrare in servizio nel 2024. Il gnl è cruciale: lo sanno Exxon e Qatar, soci nel rigassificatore di Rovigo, che investiranno 250 milioni per potenziarlo.

Draghi e i ministri hanno poi concordato con il governo di Baku, Azerbaigian, il raddoppio in cinque anni da 10 a 20 miliardi di mc del Tap (17 miliardi per l’Italia). Ma servono investimenti fino a 1,2 miliardi per due nuove centrali di compressione in Albania e Grecia che dovranno accollarsi gli azionisti, ovvero per il 20 per cento Snam, per una quota uguale il partner azero e poi altri soci. Importanti investimenti serviranno anche in Algeria, da cui già compriamo 22 miliardi di mc: l’Eni in partnership con compagnia statale Sonatrach, per potenziare la fornitura per 5 miliardi di mc dovrà migliorare le infrastrutture visto che il Paese non investe da decenni nell’esplorazione.

Analogo problema per la Libia, candidata a un potenziamento da 2 miliardi di mc dagli 1,5 di oggi ma difficile da trattare. Sempre l’Eni, secondo gli accordi politici, dovrà aiutare Congo, Angola e Mozambico - tutti visitati dai nostri ministri nei mesi scorsi - a dotarsi di strutture adeguate per l’estrazione e la liquefazione. Sembra che nel solo Congo ci sia da investire un miliardo secco, che certo non si può chiedere al partner africano. E.O. Q

18 settembre 2022 55 Foto: Getty Images
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Europa deve avvicinarsi. Lo ha dimostrato recentemente la grave crisi energetica causata dalla guerra in Ucraina. Solo unita l’Europa può vincere questa sfida e, in termini pratici, ciò significa che alle dichiarazioni dei politici devono ora seguire azioni concrete verso una sovranità europea anche nel settore energetico. Con l’attuazione di un’Unione Europea dell’Energia, l’Europa può non solo dimostrare il potere della solidarietà in momenti di crisi, ma addirittura emergere da questi tempi difficili più forte nel lungo termine e fare progressi significativi sulla strada della neutralità climatica.

Le reazioni nazionali sembrano promettere una soluzione rapida di fronte alla crisi. Ma nel medio e lungo periodo nessuna nazione può farcela da sola: abbiamo bisogno del buon senso europeo anche per il gas e l’elettricità, per il carbone e il petrolio. Un esempio di come la collaborazione e l‘unirsi di forze e risorse sia fondamentale a livello europeo è stata l‘emergenza della pandemia, una situazione completamente diversa ma in qualche modo analoga. All’inizio ogni Paese ha combattuto il virus da solo. Dopo settimane difficili, è stata finalmente trovata l’unità europea nello sviluppo e nell’approvvigionamento dei vaccini. L’accordo sul fondo di ricostruzione è stato un altro passo decisivo, non solo per uscire dalla crisi, ma anche sulla strada della solidarietà europea.

Guardando allo status quo, esiste una buona base: il cosiddetto “regolamento SOS”, un meccanismo europeo di solidarietà che mira a garantire l’approvvigionamento di gas nell’Ue. Tutti i Paesi sono chiamati a prepararsi alle emergenze elaborando soluzioni per un’eventuale carenza di energia. L’idea di fondo è chiara: chi vuole contare sulla solidarietà deve prima utilizzare il proprio potenziale e mettere la responsabilità nazionale a servizio della precauzione comune. Ciò significa che tutti devono innanzitutto risparmiare, generare energia e mobilitare risorse per evitare l’emergenza.

Una base fondamentalmente buona, con un’unica fregatura: Il regolamento può entrare in vigore solo se accordi bilaterali chiari definiscono nei dettagli l‘attuazione

VICINI

NELLA CRISI

Di fronte all’emergenza gas i paesi dell’Ue collaborano. Ma anche nel lungo periodo nessuno può farcela da solo. Per questo è necessaria un’Unione dell’Energia

DI ANDREAS JUNG

dello stesso in caso di emergenza. Perché quando il gioco si fa duro, la solidarietà non deve essere solo proclamata, ma anche messa in pratica.

L’AUTORE

Andreas Jung è Vicepresidente federale della Cdu e portavoce per la protezione del clima e l’energia del gruppo parlamentare Cdu/Csu. Membro del Bundestag dal 2005.

Dal 2019 membro dell’Assemblea parlamentare franco-tedesca.

Dal 2022 membro del Comitato franco-tedesco per la cooperazione transfrontaliera.

Dal 2021 membro della Commissione per la protezione del clima e l’energia del Bundestag tedesco.

Ad oggi esistono solo pochi accordi a livello bilaterale tra gli Stati membri. In Germania, per ora, esistono solo con Austria e Danimarca. Inoltre, questi accordi già esistenti risalgono a prima della crisi e di conseguenza non contengono norme adeguate alla situazione attuale. La Germania non ha alcun accordo di solidarietà con altri partner europei, nemmeno con la Francia, la Polonia o l’Italia. (E che sia membro dell’Ue o meno, quanto sostenuto finora vale anche per la Svizzera: se possono, i vicini dovrebbero aiutarsi a vicenda nei momenti di bisogno. Il confine esterno dell’Ue non dovrebbe diventare un muro per gli aiuti reciproci di emergenza). L’ideale sarebbe un accordo europeo Nord-Sud attraverso le Alpi con Germania e Francia, Austria,Svizzera e Italia. Ma questa aspirazione è ancora molto lontana.

È anche evidente che ogni Paese ha potenzialità e sfide diverse. Ma perché non combinare le risorse esistenti? Prendiamo l’esempio franco-tedesco, il cosiddetto motore europeo. Esiste il Trattato di amicizia

L’
Europa Oggi 56 18 settembre 2022

di Aquisgrana del 2019, ma sette mesi dopo l’inizio della guerra in Ucraina, i due Paesi non hanno ancora un accordo di solidarietà, né una clausola di assistenza energetica in caso di necessità. E potrebbe accadere che quest’inverno la Francia abbia un problema di elettricità e la Germania una carenza di gas. Ciò significa che è urgente un accordo di solidarietà. E anche se negli ambienti governativi si afferma che siano stati fatti i primi passi, senza un accordo concreto, queste rimangono di fatto solo dichiarazioni d’intenti non vincolanti, proprio come il già citato “Regolamento SOS” europeo.

Di fronte alla grave minaccia e al drastico aumento dei prezzi dell’energia, regolamenti e accordi non sono sufficienti. L’Europa deve compiere ulteriori passi verso l’integrazione: un’Unione Europea dell’Energia è attesa da tempo, anche se per il momento le diverse posizioni politiche (ad esempio sul nucleare) si scontreranno.

Perché nonostante tutte le differenze, le potenzialità esistenti potrebbero essere combinate: con partenariati per l’elettricità verde, ad esempio, o con gasdotti transfrontalieri e una rete europea dell’idrogeno. E anche se dovessimo dipendere dalle

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IL TEMA

L'Europa ha la possibilità di uscire vincitrice dalla grave crisi energetica causata dalla guerra in Ucraina. Mentre reazioni nazionali sembrano promettere una soluzione rapida, nel medio e lungo periodo nessuno può farcela da solo: sia i meccanismi europei di solidarietà sia i trattati bilaterali devono essere portati avanti. Se non si trova un terreno comune, gli Stati europei rischiano di ricadere nell'egoismo nazionale invece di dimostrare la forza europea nell'approvvigionamento energetico

importazioni, agire insieme come Ue sarebbe sicuramente più efficace di perseguire strategie nazionali che finirebbero solo per creare competizione tra gli Stati membri. Tutto ciò rappresenterebbe un importante progresso. Anche se, a guardare alla storia dell’Unione europea si tratta in realtà di un ritorno alle origini- dopo tutto, la Comunità del carbone e dell’acciaio nata dopo la Seconda guerra mondiale è stata il primo passo verso la creazione dell’Ue. Il passo successivo è l’Unione dell’energia. E non deve passare più di mezzo secolo perché ciò avvenga. Abbiamo già aspettato troppo a lungo in termini di protezione del clima. Bisogna agire immediatamente, con decisione e in modo sostenibile.

In sostanza, la situazione attuale è un test per l’Ue per vedere se alla retorica politica seguiranno azioni concrete. Se non troviamo un nuovo terreno comune, gli Stati europei rischiano di ricadere nell’egoismo nazionale invece di dimostrare la forza europea nell’approvvigionamento energetico. Solo questa, però, è la nostra garanzia per il futuro.

Traduzione : Amélie Baasner  con Amanda Morelli

Emmanuel Macron e Angela Merkel firmano il trattato di Aquisgrana
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CALABRIA

I DIRITTI NEGATI

In provincia di Cosenza, l’appello alla coscienza nella Sanità può diventare un diritto feudale di vita e di morte sulla salute della donna e sui suoi diritti, come quello all’aborto. Sebbene per legge l’interruzione volontaria di gravidanza sia garantita in Italia dal 1978, in alcune aree della Calabria, l’unica regione insieme al Molise dove la sanità è commissariata da oltre dieci anni, l’aborto è un diritto campito in una lettera scarlatta. A Cosenza, per esempio, la provincia dove sempre meno ospedali e un pulviscolo di cliniche private gestiscono la salute di oltre 70mila abitanti, sul corpo della donna si

consuma uno scontro politico ancora più esacerbato nel clima pre-elettorale.

Se l’appello a invertire la rotta dell’emigrazione di cui beneficia la Sanità del nord urlato da Giorgia Meloni in piazza Kennedy ha infiammato gli animi in una notte di fine agosto, poco lontano altre donne urlavano la rivendicazione dei loro diritti: si tratta delle femministe di Fem.In. Cosentine in lotta, incatenatesi ai cancelli dell’ospedale Annunziata qualche giorno dopo la dipartita dell’ultimo medico non obiettore del nosocomio: «Dopo le

SOPRATTUTTO LE Marco Grieco Giornalista
58 18 settembre 2022 Salute ABORTIRE È IMPOSSIBILE. E ANCHE I REPARTI DI GINECOLOGIA SONO CARENTI. NELLA REGIONE L’EMERGENZA SANITÀ COLPISCE
DONNE

Ipa

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nostre pressioni, l’azienda ospedaliera è corsa ai ripari facendo un bando apposito per l’assunzione di un consulente esterno per garantire l’aborto», spiega Jessica Cosenza in una piazza abbacinata dal sole d’agosto, ma silente: la drammatica resa del silenzio a cui sono condannate tante donne cosentine. Oggi la provincia ha affidato l’incarico professionale a una dottoressa, che con due accessi a settimana dovrebbe permettere alle donne di abortire: «Ma si tratta pur sempre di una consulenza esterna, che dura mesi e ha un costo diverso rispetto all’assunzione di un interno. Per di più, la clausola dell’obiezione di coscienza in un futuro concorso pubblico non è consentita

per legge, quindi non sappiamo se i medici che verranno assunti saranno obiettori o meno» puntualizza Cosenza. Una soluzione tampone, che mostra la fragilità di un diritto.

In una provincia dove la Sanità è sempre più simile a un ospedale da campo, chi può va ad abortire altrove. A Vibo Valentia, per esempio, la realtà è molto diversa, come spiega Lia Ermio, direttrice dell’Unità operativa complessa di Ginecologia ed Ostetricia vibonese: «Abbiamo circa il 60 per cento di medici non obiettori: una percentuale più alta rispetto ad altre realtà». Ermio collabora anche con Vita di donna, l’associazione che offre sostegno medico alle donne che

Protesta a Celico (Cosenza) contro la chiusura del consultorio. Nella foto grande: l’ospedale di Vibo Valentia
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Salute

ne hanno bisogno, e sa per esperienza quanto l’obiezione di coscienza pesi sulle donne e sul personale non obiettore: «Se c’è un solo medico non obiettore, il carico di lavoro ricade su lui solo, senza gratificazioni di natura economica. A volte si è costretti a fare l’obiezione di coscienza per non finire sovraccaricati di lavoro. Si può, quindi, condannare chi non regge più il ritmo?».

È il paradosso della legge che rafforza un diritto e ne indebolisce un altro, della libertà di coscienza che si trasforma in costrizione e anche in stigma sociale per chi opera l’aborto: «Per anni io ero chiamata Erode, come altri miei colleghi. Intanto chi fa una scelta diversa dalla nostra pensa che l’obiezione sia a tutto tondo, quando non è così». L’articolo 9 della 194, infatti, dà la possibilità al perso-

PER INTERROMPERE LA GRAVIDANZA E PER LE CURE ONCOLOGICHE BISOGNA ANDARE ALTROVE. LE CURE FUORI

REGIONE COSTANO 40 MILIARDI

nale medico-sanitario di sollevare obiezione di coscienza nel «compimento delle procedure e delle attività specificamente e necessariamente dirette a determinare l’interruzione della gravidanza», ma non nella «assistenza antecedente e conseguente all’intervento». Così lo iato tra la legge e la realtà può essere lungo decine di chilometri per una ragazza che, spesso, è lasciata sola. Le attiviste di Fem.In cercano di colmare il loro senso di abbandono e la richiesta di privacy: «Le maggiorenni che ne hanno la possibilità, non ne parlano in famiglia. Davanti a tanti disagi c’è chi ammette che sarebbe più facile abortire all’estero che qui». Non è raro che il marchio di “interrotte” sia impresso su di loro: «La cosa più assurda che ci è capitata accompagnando una ragazza al Pronto soccorso ginecologico di Castrovillari è stato vedere le guardie decidere quali casi hanno o meno la precedenza. A Lamezia, invece, il personale voleva che la donna vedesse il monitor dell’ecografo, che per molte può essere traumatico. Per questo, chi può sceglie di an-

Il Pronto Soccorso dell'Ospedale dell'Annunziata di Cosenza

dare altrove, come a Lagonegro, in Basilicata» spiega Cosenza.

I primi ostacoli sono nei consultori, scatole vuote con personale sottodimensionato, denuncia Fem.In: «A volte manca l’ostetrica, o l’assistente sociale, o lo psicologo. Per esempio, in un consultorio abbiamo scoperto che la dottoressa assegnataria di servizio non si presentava al lavoro, per cui le liste erano lunghissime. Altrove mancavano ginecologo e strumentazioni». Il disservizio diventa paradosso nel consultorio dell’Università della Calabria, dove circa la metà degli studenti è donna in età sessualmente attiva: «Nel consultorio dell’Unical non c’è un ecografo» spiega Caterina Falanga, poi Jessica Cosenza aggiunge: «Ti fanno le visite manualmente, come negli anni Ottanta, e se c’è necessità di un’ecografia sono costretti a mandarti in un altro consultorio o in ospedale. Tempo fa abbiamo accompagnato una studentessa rimpallata dal consultorio al pronto soccorso. Ma come si fa?».

Persino l’aborto farmacologico che, grazie alle linee guida diramate dal Ministero della Salute due anni fa, alleggerirebbe l’accesso alle Ivg, in Calabria è stato recepito in parte, comunque a distanza di anni luce da regioni più virtuose come la Toscana dove, a partire dallo stesso 2020, sono state emanate indicazioni per l’utilizzo dei farmaci Mifepristone e Prostaglandine in ambulatorio extra-ospedaliero oppure collegato con una struttura ospedaliera. Nel cosentino, se non mancano le strutture, esse non sono sempre attrezzate. E così, nella babele delle lunghe

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Prima

liste d’attesa, la presenza di un personale obiettore appesantisce il carico di lavoro sulle spalle dei non obiettori, come denuncia la dott.ssa Ermio: «L’obiezione è una coperta che viene tirata a proprio piacimento. Chi non vuole fare questo lavoro, non dovrebbe fare il ginecologo».

Ma la partita politica in atto non riguarda solo la libertà di scelta. Nella regione dove il piano di rientro del debito sanitario resta un rebus irrisolvibile per Roma, l’emigrazione per ragioni sanitarie è una costante drammatica. Nel 2019, infatti, dalla provincia di Cosenza emigrava il 40 per cento dei calabresi, cioè più di 21mila ricoveri per un valore di prestazioni di oltre 86 milioni di euro. Una fetta consistente dei ricoveri (il 30 per cento) riguardava operazioni di chirurgia generale, ginecologia ed ostetricia ed ortopedia, spesso in relazione a terapie oncologiche. Sono cifre che ha ben presenti Carlo Guccione, attuale responsabile per la sanità nel Mezzogiorno del Partito democratico: «Cambiano i commissari, ma i numeri restano gli stessi: la provincia di Cosenza dovrebbe avere almeno 705 posti letto: ne ha meno di 500» ammette con amarezza. La situazione ristagna drammaticamente nelle cure oncologiche: «Oggi spendiamo 40 milioni di euro per le terapie fuori regione quando, con due miliardi di euro che la Calabria ha stanziati per l’ammodernamento della sanità, non riusciamo ad acquistare i tre acceleratori nucleari che snellirebbero le liste di attesa con cure più appropriate». Ancora una volta, questa paralisi del servi-

zio sanitario territoriale si gioca sulle donne, come spiega l’attivista di Fem.In, Vittoria Morrone: «Fino a poco tempo fa, il settore privato colmava il vuoto pubblico su interventi emergenziali di oncologia femminile, come le mastectomie. Ma si trattava di speculazioni su singoli interventi, perché venivano esclusi tutti i servizi collaterali di cui necessita una paziente nel percorso della sua malattia». Per questo motivo, con il dca del 5 luglio 2020, il commissario ad acta di allora, Carlo Cotticelli, ha istituito le breast unit, strutture ad hoc per il trattamento del tumore alla mammella. Una decisione lodevole sulla carta per arginare il monopolio delle cliniche private, ma che nella pratica ha lasciato un vuoto organizzativo pagato dalle stesse pazienti: «Ci vuole tempo perché sia attivato un percorso di breast unit e spesso il numero degli interventi chirurgici per avviarlo non è un requisito sufficiente. Ma in base a cosa vengono stabiliti tali requisiti? Quando c’è una sanità che fa acqua da tutte le parti, le buone intenzioni contano poco» dice Morrone. Così alcune pazienti sono costrette ad operarsi in un ospedale e fare la terapia altrove, sottoponendosi a uno stressante rimpiattino in una provincia costellata di comunità nell’entroterra e quindi, orograficamente, poco accessibile. Il paradosso è che, se si fa della donna alfa ed omega di uno scontro politico o di coscienza, si perde di vista il tempo e lo spazio in cui una donna ha il diritto di vivere o, ingiustamente, di morire.

Carlo Guccione, responsabile per la Sanità nel Mezzogiorno del Partito democratico. Sopra: la dottoressa Lia Ermio. A sinistra: manifestazione per l’applicazione della legge 194 davanti all’azienda ospedaliera di Cosenza

18 settembre 2022 61 Foto: Fotogramma
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LA SANITÀ PUBBLICA È IN PERICOLO DI VITA

Il diritto alla salute, articolo 32 della Costituzione, la cosa più preziosa e più civile che abbiamo, è seriamente in pericolo.

La salute per la Costituzione è sia un diritto fondamentale dell’individuo che un interesse collettivo.

A metterlo in pericolo oggi più che mai c’è la grande questione irrisolta della sostenibilità cioè trovare il modo di far coesistere diritti e risorse senza aver bisogno di metterli in opposizione.

Di sostenibilità è morto, circa mezzo secolo fa, il sistema mutualistico crollato sotto il peso dei debiti e di sostenibilità rischia di morire l’attuale sistema pubblico universale e solidale .

In campagna elettorale nessuno dei partiti ha osato porre onestamente questo problema, eppure a causa della pandemia sono aumentati i costi complessivi del sistema, insieme alla crescita dell’inflazione, del debito pubblico, e al rischio di recessione. Tutti i partiti nessuno escluso, ma anche i sindacati, per la Sanità chiedono semplicemente più soldi come se fosse facile e scontato trovarli quando così non è.

In ragione di una fraintesa e sbagliata idea di sostenibilità la sinistra di governo quindi il Pd a partire dagli anni 90 ha messo in campo uno sconsiderato neoliberismo cioè l’idea del tutto arbitraria che l’unico modo per rendere sostenibile la sanità pubblica fosse la sua aziendalizzazione e la sua privatizzazione .

Il Pd in testa con la scusa della sostenibilità ha pesantemente controriformato l’art. 32. Quattro le circostanze storiche da ricordare: 1) l’aziendalizzazione (1992) cioè il teorema cheidirittidebbanoesseresubordinatialladisponibilitàdelle risorse; 2) le privatizzazioni della Bindi (1999) che scavalcando la sanità integrativa introdotta da De Lorenzo ammette l’intra moenia (i cittadinichepossonopagarsileprestazioniesconodalle lista di attesa) e la sanità sostitutiva (i cittadini che se lo possono permettere possono sostituire la sanità pubblica con una sanità privata); 3) la controriforma costituzionale del titolo V voluta da D’Alema per arginare, alla fine degli anni 90, l’avanzata della Lega senza la quale oggi l’autono-

mia differenziata di Salvini sarebbe impossibile; 4) il jobs act diRenzi(2014)cheasuondiagevolazionifiscalipagateconle tasse dei cittadini ha cercato di americanizzare la sanità pubblica italiana (welfare on demand) spianando la strada ai fondi e alle mutue definite attraverso i contratti di lavoro, cioè ha opposto alla sanità pubblica il welfare aziendale.

Dulcis in fundo recentemente il Pnrr di Speranza cioè lo sfoggio del pensiero vuoto di una sinistra di governo che non è più ne di sinistra e ne di governo. Il niente nascosto dietro l’alibi della pandemia.

Con Speranza abbiamo buttato alle ortiche almeno 20 milardi, ma senza risolvere una sola delle grandi contraddizioni strutturali e funzionali della Sanità pubblica riconducibili alla rogna della sostenibilità. Lasciando quindi gli ospedali ancora in balia di vecchie politiche di deospedalizzazione (Dm70 del 2015), lasciando insoluta la grande questione dei medici di medicina generale e delle cure primarie, (Dm71 del 2022) e il grande problema degli operatori la cui assunzione ancora oggi resta subordinata a superati tetti di spesa.

Il Pnrr con Speranza, alla fine, sul piano politico non è stato altro che una gigantesca auto-assoluzione di tutte le fesserie politiche fatte dal Pd in Sanità contro l’art. 32 in questi ultimi decenni.

Per la campagna elettorale in Sanità, con la pandemia che non sembra mollare resta quindi tutto come prima: nessun limite alla privatizzazione, via libera al welfare aziendale, autonomia differenziata, grande delega al privato sociale soprattutto per i soggetti più deboli (anziani, non auto-sufficienti, malati cronici) .

La controriforma dell’art. 32 iniziata principalmente dalla Bindi e poi rafforzata con Renzi e mai ridiscussa dal Pd di Letta è quindi interamente confermata e ribadita.

Il paradosso oggi è che il Pd in sanità vuole come Salvini il regionalismo differenziato, ma è di fatto più neoliberista della destra, o almeno, sempre per restare nel paradosso il centrodestra se volesse risolvere alla vecchia maniera la questione della sostenibilità non dovrebbe fare altro che continuare a fare quello che fino ad ora ha fatto la sinistra. Cioè privatizzare.

L’intervento
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Prima

Il paradosso a questo punto diventa un super paradosso al limite del crampo mentale: per salvare l’art 32 oggi, la destra se andasse al governo, soprattutto quella sociale, cioè quella che tradizionalmente coniuga giustizia, nazionalismo, comunitarismo e antiliberismo, dovrebbe opporsi alla deriva neoliberista e secessionista del Pd e della Lega.

Un salto mortale davvero difficile da immaginare.

È noto che il centro destra sulla sanità oggi si presenta con intenzioni molto pericolose e contro-riformatrici (si pensi alla questione dell’autonomia differenziata).

Nel caso dovesse vincere la coalizione di centro destra il vero guaio per la sanità pubblica non è solo lo spasmodico desiderio della Lega di far saltare il Servizio Sanitario Nazionale o quello altrettanto morboso del Pd di privatizzare ancora di più il sistema, ma la più totale assenza di pensiero nei confronti della vera sfida che ripeto oggi più di ieri resta la sostenibilità. È evidente che per vincere questa sfida ci vorrebbe un progetto di riforma ma che nessuno ha. Né a destra né a sinistra.

Il Pd in una delle sue tante agorà elettorali (8 giugno 2022) ha negato che esista un problema di sostenibilità limitandosi a promettere alla Sanità semplicemente più soldi.

Italia Viva, quindi Renzi, per finanziare la Sanità propone di chiedere al Mes un prestito dunque di aggiungere al pro-

blema sempre più pesante degli scostamenti quello di un ulteriore indebitamento e senza cambiare di una virgola il sistema che c’è.

In sintesi oggi la situazione è la seguente: il sistema pubblico è sempre più regressivo, offre sempre di meno in ogni senso ma allo Stato costa sempre di più. La gente che vuole curarsi e che se lo può permettere è come costretta a ricorrere al privato. Nel pubblico resta il popolo degli sfigati. Si aggiunga il regionalismo differenziato della lega e del Pd. In queste condizioni è impossibile che l’art. 32 sopravviva .In sanità le immorali diseguaglianze tra regioni esploderanno e dispoticamente comanderanno le differenze di reddito.

La soluzione per salvare l’art. 32 ci sarebbe. Non è vero che la sanità è per forza insostenibile e che l’art. 32 è una utopia. Solo pochi anni con lungimiranza qualcuno prevedendo il peggio avanzò una proposta di “quarta riforma” .Ma nessuno lo ascoltò.

La vera futura pandemia nel nostro paese è imminente causerà milioni di “morti bianche” soprattutto tra i bassi redditi e sarà politica perché dipenderà non da un virus ma dalla morte dell’art. 32. Q

* Filosofo della scienza, docente all’Università Tor Vergata di Roma

E SINISTRA UNITE NEL TAGLIARE, PRIVATIZZARE

CHIEDERE L’AUTONOMIA DIFFERENZIATA

Roma. Il Pronto Soccorso dell’Ospedale San Camillo
Foto: Agf DESTRA
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UNIVERSITÀ

= OMERTÀ

reste Gallo è uno dei pochi camici bianchi a usare la tecnica microinvasiva per verificare la presenza di cellule tumorali del cavo orale. Dirige il reparto di Otorinolaringoiatria all’ospedale universitario fiorentino Careggi ed è professore all’Università di Firenze. Nonostante il suo curriculum e le 225 pubblicazioni scientifiche, la sua carriera nell’università italiana non proseguirà oltre. Nel 2017 si è presentato alla Procura fiorentina anticipando i nomi dei vincitori di alcuni imminenti concorsi per professori ordinari. Da quella segnalazione è partita l’indagine Cattedropoli, a cui sono seguite altre inchieste che hanno messo in luce una rete di concorsi pilotati. «Diversamente dai colleghi sostengo che le cattedre vadano assegnate secondo il merito e il bisogno assistenziale. Per questo ho fatto denuncia. E cos’è cambiato? Possibilmente la mia posizione è ulteriormente peggiorata, mentre il sistema difende benissimo le pro-

prie logiche clientelari. Sono stato vittima di diffamazione, di sanzioni disciplinari e depredato di un lavoro scientifico. La mia unità operativa è stata svuotata, sono rimasto a gestire una struttura a direzione universitaria senza alcun professore universitario. Anche l’attività medico-assistenziale ha subito contraccolpi». Nel 2020 Gallo pubblica sulla rivista The Lancet uno studio scientifico nel quale si stima che il 94 per cento dei concorsi viene vinto da un membro interno all’amministrazione che lo bandisce e nel 62 per cento dei casi si presenta un solo candidato, cioè il predestinato.

E allora perché pochi denunciano? Lo ha spiegato Giambattista Sciré, portavoce dell’associazione Trasparenza e Merito, alla Commissione Antimafia che ha chiesto contezza della situazione nelle università italiane: «Il sistema è omertoso. C’è una diffusa mafia accademica che si basa

Gloria Riva Giornalista
64 18 settembre 2022 Scandali italiani
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SI MOLTIPLICANO LE INDAGINI SUI CONCORSI TRUCCATI. SE NE OCCUPA ANCHE L’ANTIMAFIA. TUTTI SANNO, POCHI DENUNCIANO. PER PAURA DELLE RITORSIONI

su scambio di favori, controllo del potere, spartizione dei posti e una stretta osservanza del codice del silenzio». Sciré, che a sua volta è finito nel tritacarne di un concorso preassegnato alla facoltà di Storia a Catania, si rifà alle parole del Pm catanese Raffaella Vinciguerra, che parlando dell’operazione “Università bandita” ha detto: «Sul codice sommerso di comportamento dei docenti siamo rimasti, noi magistrati, basiti nel ritrovare delle conversazioni e delle modalità procedurali para-mafiose. È un codice sommerso basato sul ricatto e sul guadagno reciproco che prescinde assolutamente dal merito. La cosa che rattrista è che quella che dovrebbe essere la culla della scienza e quindi la speranza del Paese, in realtà adotta gli stessi metodi che noi magistrati ritroviamo nelle associazioni mafiose». Numerose le inchieste che la magistratura sta conducendo sul sistema  clientelare, che gli investigatori paragonano a quello mafioso, dell’assegnazione delle cattedre universitarie. Oltre all’inchiesta catanese “Università bandita”, c’è la fiorentina “Concorso-

La sede del Politecnico di Torino. Un procedimento partito dalla denuncia di un ricercatore escluso è stato archiviato dopo cinque anni

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poli”, l’indagine “Magnifica” di Reggio Calabria che ha portato la magistratura a contestare il reato di associazione a delinquere e l’indagine della Procura di Roma che ha condannato in primo grado il rettore di Roma Tor Vergata Giuseppe Novelli dopo la segnalazione di illeciti nella gestione dei concorsi da parte dell’avvocato Giuliano Grüner e dell’attuale sottosegretario alla Sanità, Pierpaolo Sileri. Altre inchieste hanno coinvolto le università di Genova, Perugia, Torino, Palermo, Sassari, la Statale di Milano e l’Università San Raffaele con il coinvolgimento di dieci rettori. «Probabilmente sarebbe ancora più estesa se ci fosse un sistema a tutela di chi denuncia. Al contrario, chi si affida alla giustizia finisce isolato dal resto dell’università e non sempre ottiene soddisfazione da parte della magistratura», afferma Sciré, che proprio in questi giorni sta attendendo l’avvio del processo a nove docenti imputati nel procedimento “Università bandita” il prossimo 21 settembre. Fra i reati contestati c’è l’abuso d’ufficio, il falso, la corruzione per atti contrari ai propri doveri. La Corte d’Appello deciderà se accogliere il ricorso della Procura che vuole la conferma del capo d’imputazione principale, ovvero l’associazione a delinquere. Se ciò non avvenisse, l’intera inchiesta potrebbe velocemente sgonfiarsi perché la depenalizzazione del reato di abuso d’ufficio, riforma voluta e ottenuta da M5S, Lega e Pd a inizio 2021 è una pietra tombale per i concorsi falsi, tanto che nel corso degli ultimi due anni sono decine le sentenze di archiviazione sulle università, fra le altre di Pescara, Foggia, Macerata, Firenze, Torino. Senza il supporto della magistratura, chi denuncia resta solo.

L’alternativa è andare all’estero, come ha fatto l’ingegnere Luciano Demasi, che oggi è professore ordinario al dipartimento di Aerospace Engineering della San Diego University, in California, dopo aver tentato per decenni di conquistare una cattedra al Politecnico di Torino, «ma ai concorsi vinceva sistematicamente il candidato interno al Politecnico di Torino. Nel 2016 ho denunciato alla Procura diverse irregolarità documentate da una sentenza del Tribunale amministrativo e dal Consiglio di Stato, che infatti hanno annullato il concorso stesso. L’inchiesta giudiziaria è andata per le lunghe e, a causa della depenalizzazione dell’abuso d’ufficio, il procedimento è stato archiviato», dice l’ingegnere, che continua: «I concorsi truccati bloccano

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l’afflusso di docenti e ricercatori stranieri, sistematicamente respinti perché i posti sono stati preassegnati per lo più a candidati interni all’ateneo che bandisce il concorso. È un danno enorme per la ricerca italiana, che così facendo ha creato un drenaggio di ricercatori verso l’estero e non potrà mai, di conseguenza, raggiungere i livelli di Francia, Inghilterra, Spagna, Stati Uniti e Germania, al dilàdiquantisoldisiscelgadiinvestiresull’università italiana».

Scalfire il sistema è oltremodo difficile, perché ad assecondarlo non sono solo le commissioni, scelte ad hoc per assegnare le cattedre ai candidati prescelti, ma l’intero mondo universitario. La riprova viene dalla delibera del comitato etico dell’università di Pisa, chiamato a esprimersi rispetto alla vicenda della docente di Economia Aziendale Giulia Romano. Nel 2017 l’allora ricercatrice denuncia alla Procura un concorso truccato nel suo dipartimento. Poco dopo il marito, Andrea Guerrini, a sua volta professore di Economia a Verona, incontra il presidente della commissione di quell’esame, Luciano Marchi, all’epoca docente di Economia Aziendale a Pisa, il quale ammette che il concorso a cui aveva partecipato Giulia Romano era stato prefigurato e che lei, nonostante fosse un’eccellente professoressa, non avrebbe mai fatto carriera perché non era sufficientemente accondiscendente rispetto al sistema. Guerrini registra quella conversazione e la invia alla Procura e al comitato etico dell’Università di Pisa. Quest’ultimo si è espresso nel maggio 2022 (ovvero cinque an-

ni dopo aver ottenuto la registrazione, le intercettazioni e altro materiale dalla Procura di Pisa) archiviando il caso. Perché? Perché l’università ha deciso di oscurare i nomi delle intercettazioni e, nonostante il contenuto della registrazione facesse emergere «un sistema patologico di selezione del personale docente», si legge nel resoconto del senato accademico che ha espresso il parere etico, l’assenza dei nominativi «non consentiva di collegare i soggetti alle condotte eticamente riprovevoli per la difficoltà oggettiva di decontestualizzarli con certezza». E il processo? «Era partito sotto i migliori auspici: le intercettazioni avevano fatto emergere che più di un concorso era stato pilotato e che la condotta illecita era sistematica al punto da far ipotizzare alla Procura di Pisa l’esistenza

LA DEPENALIZZAZIONE NEL 2021 DEL REATO DI ABUSO DI UFFICIO

HA FATTO SÌ CHE PARECCHI PROCESSI FINISSERO CON UN NULLA DI FATTO

di un’associazione a delinquere tra alcuni professori. Ma poi, dopo circa due anni, il reato di associazione a delinquere è stato “cancellato per errore” dalla stessa Procura. A cinque anni di distanza il processo a Marchi, quello che riguarda la registrazione e che è stato interrotto per vari rinvii, si appresta a riprendere il prossimo mese con un nuovo giudice», racconta Giulia Romano, che nel frattempo è riuscita a conquistare un ruolo da professore associato attraverso un concorso durato oltre due anni, fra rinunce e dimissioni dei commissari. «Sul processo c’è anche la spada di Damocle della prescrizione, che scatta a gennaio 2024» e potrebbe salvare l’imputato: «Dopo quella denuncia sono stata allontanata dalla stragrande maggioranza dei colleghi e l’esito della commissione etica dell’ateneo è stata una grande delusione. Nella registrazione il professor Marchi diceva che io avevo tutto l’ateneo coalizzato contro. I fatti per ora non mi hanno convinto del contrario, purtroppo».

L’università di Catania. Sull’ateneo è in corso l’inchiesta “Università bandita”
66 18 settembre 2022 Prima Pagina Scandali italiani Foto: AlamyIpa
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FEUDO  DI ORBÁN UNGHERIA

Ungheria, a mio avviso, si è spinta molto oltre, sull’orlo di una specie di abisso; e ora deve decidere se allontanarsi da questo baratro o correre un rischio e fare un salto, sulle cui conseguenze non voglio fare ipotesi». Si è espresso così il ministro per gli Affari Europei della Repubblica Ceca, Mikulas Bek, il 9 settembre scorso a proposito del veto di Budapest alle sanzioni europee alla Russia. Qualche giorno prima il governo ungherese aveva annunciato che si sarebbe opposto al nuovo pacchetto di misure punitive contro Mosca se gli altri Paesi Ue non avessero accettato di escludere tre oligarchi russi (Alisher Usmanov, Viktor Rashnikov e Petr Aven) dal provvedimento. L’Ue stavolta non si è piegata e poco dopo l’Ungheria ha ceduto rimandando l’opposizione alla prossima scadenza, prevista per marzo.

Non sempre, tuttavia, gli Stati europei si sono dimostrati

altrettanto compatti rispetto agli aut aut del governo di Viktor Orbán; anche perché il leader ungherese negli anni si è costruito una solida reputazione tra tutti i partiti di destra e di estrema destra europei che aspirano a governare con il pugno di ferro e anche nel pieno della campagna elettorale italiana è frequente imbattersi in comparazioni con il modello ungherese.

Più che un Primo ministro oggi Orbán è il re dell’Ungheria e ha creato un sistema neo-feudale che gli garantisce il controllo capillare di quasi ogni aspetto della vita quotidiana del Paese. Sul piano interno due sono gli strumenti principali che gli hanno permesso di mantenere il potere così a lungo: il controllo dei media e le riforme costituzionali. Il primo l’ha ottenuto grazie alla riforma del 2010 che consegnava al governo direttamente o indirettamente l’80 per cento dei canali di informazione, il secondo per mezzo della nuova legge elettorale del 2012 che sembra cucita ad-

68 18 settembre 2022 Dove la destra è al potere
CON DUE TERZI DEI DEPUTATI IL PARTITO DEL PREMIER DECIDE DA SOLO. E LA DERIVA DEI DIRITTI UMANI SEMBRA INARRESTABILE
L’

dosso al suo partito, Fidesz, e che da 10 anni gli assicura più dei due terzi dei seggi nell’Assemblea Nazionale consentendogli di approvare riforme costituzionali senza bisogno di alleanze.

Sul fronte internazionale la solida alleanza con i costruttori di auto tedeschi, il gruppo Volkswagen in primis, assicura al Primo ministro magiaro un appoggio strategico fondamentale in seno allo stato leader dell’Ue nonché, secondo l’Istituto centrale di statistica ungherese, tra il 9,5 e il 13,5 per cento del Pil (dati 2019). È significativo notare che fin dall’insediamento di Orbán, i giornali tedeschi sono stati i suoi più attivi detrattori, con picchi durante la crisi migratoria del 2015 e nella primavera del 2021 contro la legge anti lgbtq.

D’altronde, sui media ungheresi gli attac-

Prima

chi della stampa estera sono (quasi) un motivo di vanto: le democrazie liberali sono in crisi d’identità e Orbán è fiero di essere a capo di una «democrazia illiberale» (così come egli stesso l’ha definita). La propaganda è massiccia e incessante e c’è sempre un nemico in agguato. All’inizio erano i socialisti, poi i migranti, la lobby lgbtq, i rom, l’Unione Europea. Senza contare l’anti semitismo strisciante della classe dirigente che imputa a George Soros tutte le teorie complottiste possibili.

Un’infaticabile macchina del fango che ha permesso al governo ungherese di approvare una serie di misure e di smantellare ciò che restava del welfare pubblico. Quando nel 2018 il governo approvò la cosiddetta “legge schiavitù”, che innalzava a 400 ore annuali il tetto di ore di straordinario legale, Orbàn dichiarò che finalmente chi voleva guadagnare di più aveva il diritto di farlo. In altri termini, chi restava povero sceglieva di esserlo. Nello stesso anno

Viktor Orbán Sabato Angieri Giornalista
18 settembre 2022 69 Foto: A. KisbenedekAfp / Getty Images
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Dove la destra è al potere

un emendamento costituzionale stabiliva che dormire all’aperto in luoghi pubblici era illegale e quindi che i senzatetto diventavano criminali.

Nel 2021 il parlamento di Budapest ha posto tutte le università e le istituzioni culturali sotto il controllo di fondazioni private istituite ad hoc e presiedute da sodali di Fidesz. In parallelo, si è smantellata la Ceu (l’Università del Centro Europa) voluta e finanziata da George Soros e al suo posto il governo ha firmato un accordo miliardario per la costruzione di una succursale dell’Università cinese di Fudan. Molti analisti vedono in quest’intesa solo la punta dell’iceberg delle nuove relazioni economiche e strategiche tra Ungheria e Cina.

Ultima in ordine temporale, la legge sulla cosiddetta “prevenzione della pedofilia” che accomuna la pedofilia all’omosessualità e vieta la propaganda di contenuti che diffondano un’idea diversa di famiglia rispetto a quella tradizionale. Dopo anni di minacce l’Ue ha aperto una “procedura di infrazione” che puntava a fare pressione con lo spauracchio del taglio dei finanziamenti. Orbán, per dimostrare all’Europa che gli ungheresi erano dalla sua parte, ha indetto un referendum in concomitanza con le elezioni dello scorso aprile. Ma alle urne la dissidenza si è manifestata con l’astensionismo e la consultazione è risultata nulla per il mancato raggiungimento del quorum. Tuttavia, contestualmente, su 199 seggi disponibili, Fidesz, ne ha conquistati ben 135, riuscendo a mantenersi

oltre la fatidica soglia dei due terzi.

Senza contare le riforme volte a controllare i sindacati, a imbavagliare i media indipendenti in nome della “sicurezza nazionale”, a decurtare fondi dalla scuola pubblica per assegnarli agli istituti religiosi, a impiegare in massa poveri e rom nei lavori pubblici per pochi fiorini al mese e licenziare i dipendenti statali che ora sono disoccupati e credono che «gli zingari gli abbiano rubato il lavoro». E, ovviamente, i ripetuti tentativi di porre anche la magistratura sotto il controllo dell’esecutivo, culminati, all’inizio del 2020, con l’istituzione di tribunali speciali, controllati dal ministero della Giustizia, chiamati ad esprimersi su varie questioni: dal diritto di assemblea alla stampa, dagli appalti pubblici alle elezioni. Ma la decisione più nota, quella che probabilmente identificherà per molti anni a venire il governo di Viktor Orbn, è la costruzione del famoso “muro” al confine con la Serbia.

Eppure, in un Paese di dieci milioni di abitanti dove i figli

della borghesia liberale espatriano sempre prima e la popolazione invecchia, il discorso fa presa. E le critiche dell’Ue non fanno che rafforzare la retorica del giusto tra gli improbi, del difensore della cristianità dal pervertissement liberale delle lobby ricche. Intanto la situazione è tutt’altro che rosea e negli ultimi anni si è registrato un aumento considerevole del costo della vita. A titolo di esempio si consideri che un insegnante a Budapest spende in media il 70% del suo salario per un affitto e un agente di polizia è spesso costretto ad avere un secondo lavoro come trasportatore o rider per sbarcare il lunario. E la colpa è sempre di qualcuno altro, in una guerra tra poveri che viene alimentata costantemente dalla ricerca di nemici esterni, come nel caso dei migranti alla frontiera serba, e interni, come i rom.

Nell’ottavo distretto di Budapest, a Dioszegi utca, le case delle famiglie rom sono catapecchie fatiscenti mangiate dall’umidità e dalla puzza malsana delle fogne mai ripara-

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IL PRIMO MINISTRO PARLA DI “DEMOCRAZIA ILLIBERALE”. SEMPRE PIÙ VICINA A RUSSIA E CINA. E L’EUROPA STA A GUARDARE

Da sinistra in senso orario: una casa occupata da migranti al confine tra Serbia e Ungheria; Bashir, ragazzo siriano di 20 anni in fuga da cinque; un locale di jazz manouche, legato alla tradizione musicale gipsy, a Budapest; una donna rom in una casa dell’ottavo distretto; una migrante somala vicino al confine serbo

te. Nel nord del Paese, a Ozd e a Salgotarjan (dove raggiungono 1/3 della popolazione cittadina) sono ai margini dell’abitato, separate da larghi viali da quelle degli “ungheresi” e spesso non servite dalla rete idrica ed elettrica. Nell’est, a Miskolc il governo locale ha attuato tra il 2014 e il 2015 una campagna di sfratti e demolizioni che ha devastato la zona delle “vie numerate” lasciando macerie e degrado e costringendo oltre 120 famiglie ad emigrare con compensazioni che andavano dai 6000 euro (per abbandonare la propria casa di proprietà) a zero. A pochi passi si è costruito uno stadio di calcio.

Non è un caso se in più occasioni i rom d’Ungheria sono stati etichettati come “migranti interni”. Difatti, il trattamento loro riservato è spesso simile a quello utilizzato contro i migranti che, intanto, continuano a tentare di attraversare la frontiera romena e da lì (data l’assenza del muro) di entrare in Ungheria per proseguire verso ovest. Salvo poi essere ricacciati indietro nella maggioranza dei casi e ri-

tentare i giorni seguenti. Lo chiamano “il gioco”, con una macabra ironia che ben descrive la situazione.

Sul dramma di queste migliaia di persone l’Ue generalmente non si esprime, consapevole di ciò che avviene alle proprie frontiere e quindi, in una certa misura, connivente. Personaggi come Orbàn (che non è l’unico della sua specie, va sottolineato) in alcuni casi risultano utili ed è in queste faglie che prosperano. Poi passano gli anni e l’opposizione interna si ritrova a non avere più spazio nel dibattito pubblico e a ottenere il 34 per cento dei voti pur avendo tentato di candidare insieme quasi tutti, dai socialisti agli ultra-conservatori, mentre la televisione e i siti internet legati al governo continuano a parlare del rischio della sostituzione etnica, della propaganda della lobby lgbtq, del complotto giudaico-massonico e del fatto che la crisi energetica è colpa delle sanzioni occidentali e non della decisione di Putin di invadere l’Ucraina.

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GUERRA

MONUMENTI

DI ALICE PISTOLESI

i fa i conti con una memoria che è scomoda per molti nei Paesi baltici. Il processo che sta portando Estonia e Lettonia a “sbarazzarsi” dei simboli del proprio passato sovietico non si può considerare senza intoppi. Narva ne è un esempio. La terza città dell’Estonia, al confine con la Federazione Russa fa parte della contea di Ida-Virumaa, ed è, secondo le statistiche ufficiali, di etnia russa per tre quarti. La rimozione, il 16 agosto, di una replica di un carro armato T-34, che commemora i soldati sovietici che morirono combattendo la Germania nazista durante la seconda guerra mondiale ha suscitato non poche proteste. Il primo ministro estone Kaja Kallas aveva rassicurato dicendo che il memoriale avrebbe trovato posto nel sistema museale e che «continuerà a essere un rispettato luogo di commemorazione dei morti». La premier aveva poi affermato che la rimozione di questi simboli era necessaria per proteggere l’ordine pubblico e per impedire a Mosca di seminare discordia. La decisione di abbattere il tank non è però andata giù a molti. Sulle rive del fiume Narva, laddove si trovava il carro armato, si è ricreata una sorta di infiorata-monumento improvvisato, che viene curata ogni giorno da decine di persone.

ta in Russia ed è in gran parte portata avanti dai parenti dei 20milioni di caduti nella seconda guerra mondiale. «La memoria», prosegue un’altra volontaria, «non può essere cancellata rimuovendo un simbolo, ma quello stesso simbolo ci serve per ricordare il sacrificio di chi è morto combattendo contro il nazismo».

I legami di Narva con la Russia sono sempre stati forti: la città è contigua alla russa Ivangorod e a 159 chilometri da San Pietroburgo. Il 97 per cento delle quasi 60mila persone

UN CARRO ARMATO RIMOSSO. UN OBELISCO DIVELTO.

MA CANCELLARE IL PASSATO SOVIETICO NON È FACILE

che abitano nella città è russofono, per questo Narva è uno dei più grandi luoghi di lingua russa nell’Unione Europea per proporzione di popolazione.

«Il carro armato», racconta una delle volontarie, «era stato costruito in onore dei liberatori. La sua distruzione ha lasciato un grande vuoto in tutti noi che abbiamo avuto almeno un parente morto nella seconda guerra mondiale. Per onorare la memoria dei nostri eroi continueremo a portare fiori». La grande “aiuola commemorativa” è colma di piante, corone, disegni, candele e riporta una ricostruzione del carro armato appena rimosso. L’iniziativa pare godere del sostegno popolare, visto che molte delle auto che transitano suonano il clacson per manifestare approvazione. Curare i monumenti che ricordano i caduti è una tradizione molto senti-

Prima dell’invasione del 24 febbraio 2022 a Narva la popolazione guardava i programmi russi in televisione ma poi l’Estonia li ha banditi poiché considerati in gran parte propaganda del Cremlino. Attraversare il confine per i cittadini di Narva e Ivangorod era la normalità, mentre oggi è sempre più complicato. Entro il 19 settembre gli Stati baltici e la Polonia chiuderanno quasi completamente le frontiere ai cittadini russi, rendendo di fatto sempre più difficile poter entrare in Europa, anche per turismo. In una dichiarazione congiunta i capi di governo dei quattro Paesi membri hanno sottolineato che «viaggiare nell’Unione europea è un privilegio, non un diritto umano», aggiungendo di rite-

Foto: Jeff J Mitchell / Getty Images Paesi Baltici
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Prima Pagina Il monumento in memoria dei caduti sovietici rimosso il 16 agosto scorso in Estonia 18 settembre 2022 73

nere «inaccettabile che i cittadini dello Stato aggressore possano viaggiare liberamente nell’Ue, mentre allo stesso tempo le persone in Ucraina vengono torturate e uccise».

Il tank rimosso ad agosto non è il primo monumento che l’Estonia ha deciso di eliminare da quando il Paese ha riconquistato l’indipendenza nel 1991. Un precedente è stato nel 2007, quando lo spostamento di un monumento dedicato a un soldato dell’Armata Rossa a Tallinn scatenò giorni di rivolte. Con la guerra tra Ucraina e Russia la scelta di rimozione si è fatta più netta: in agosto il governo ha annunciato lo spostamento di sette monumenti di epoca sovietica a Narva.

Scelta criticata dalla Russia. «L’eliminazione», aveva dichiarato il portavoce del Cremlino Dmitry Peskov, «dei monumenti a coloro che hanno salvato l’Europa dal fascismo è ovviamente oltraggiosa. Non fa credito a nessuna nazione».

Il tentativo di rimuovere il passato non è quindi una novità per i Paesi baltici. «Abbandonare il passato comunista», spiega a L’Espresso Simone Paoli, ricercatore di Storia delle Relazioni Internazionali presso il Dipartimento di Scienze Politiche dell’Università di Pisa, «è stato relativamente semplice. Nelle strade si è fatto, ad esempio, eliminando in tempi piuttosto rapidi le statue di Lenin o Marx. Fare i conti con la memoria dell’Urss, invece, era ed è più complicato perché il regime sovietico ha rappresentato oppressione ma anche liberazione dal nazismo, soprattutto per le minoranze russe. Credo che alla base di queste e di altre rimozioni in parte del mondo ex sovietico ci sia anche il tentativo di reinterpretare la storia della Seconda Guerra Mondiale, facendola passare da guerra contro la Germania nazista a guerra dell’Occidente contro i totalitarismi».

La rimozione del tank ha provocato anche un’ondata di attacchi informatici, descritti da Luukas Ilves, sottosegretario estone per la trasformazione digitale, come «i più estesi che il Paese ha dovuto affrontare dal 2007». I tentativi di hackeraggio si sarebbero però rilevati «inefficaci». A rivendicarli il gruppo di hacker russo Killnet, affermando tramite il proprio account Telegram di aver bloccato l’accesso a oltre

200 istituzioni statali e private estoni. Anche la Lituania era stata nel mirino del gruppo nel mese di giugno. E non c’è solo il tank estone a far discutere. Il 17 agosto anche la Lettonia ha compiuto una scelta di rimozione abbattendo un obelisco di 79 metri, divenuto secondo il Governo  un punto di raccolta per i sostenitori del Cremlino. Anche nel caso lettone la decisione aveva provocato le proteste della minoranza russa, che nello Stato baltico costituisce circa il 30 per cento della popolazione. Costruito nel 1985 (quando la Lettonia faceva ancora parte dell’Unione Sovietica) il Monumento ai Liberatori era composto da un obelisco e da alcune statue. E anche in questo caso la rimozione non sarà l’unica. Recentemente il parlamento ha infatti votato in favore dell’eliminazione, entro la metà di novembre 2022, di tutte le statue, le targhe e i bassorilievi sovietici rimasti nel Paese.

«Con la guerra in Ucraina», continua Paoli, «la paura della Russia è tornata a essere più forte. Questo è legato anche alla difficile gestione delle minoranze russe che, soprattutto in Estonia e Lettonia, sono ancora cospicue. Le mai sopite tensioni interetniche sono una potenziale bomba a orologeria. Anche se ritengo poco probabile un’aggressione diretta da parte della Russia contro Paesi membri della Nato, la presenza di significative minoranze russe e la pretesa di Mosca di farsene paladina non può non suscitare antichi timori in importanti Paesi dello spazio post-sovietico».

Percorrendo le strade delle capitali dei tre Paesi (membri sia della Nato che dell’Unione Europea) il sostegno all’Ucraina e la condanna alla Russia di Putin è lampante. Le bandiere giallo-azzurre sono ovunque: nelle strutture pubbliche, in molte case private e sono vari i negozi che riportano cartelli con scritto «Non entrare se pensi che Putin sia cool». Molti anche i monumenti illuminati con i colori di Kiev. A Vilnius, in Lituania, su ogni autobus di linea appare una scritta luminosa a favore della popolazione vittima del conflitto e sulle rive del fiume Neris campeggia “Slava Ucraini” (Gloria all’Ucraina) realizzata con fiori. Un’altra frase che ha trovato spazio nella città è «Putin The Hague is waiting for you» (Putin, il tribunale dell’Aja ti sta aspettando). A scriverla in caratteri cubitali in una strada vicino l’ambasciata era stato per la prima volta lo stesso sindaco Remigijus Simasius, mentre oggi il cartello campeggia su un grattacielo di proprietà del comune. Nella capitale estone l’ambasciata russa è presidiata dalla polizia e sulle transenne che la circondano centinaia di cittadini lasciano foto di caduti in guerra, cartelli, pensieri e accuse.

Sul fronte militare i tre Stati hanno incrementato da anni il proprio investimento militare in funzione anti-russa. Secondo i dati del Sipri (l’Istituto Internazionale di Ricerche sulla Pace di Stoccolma) l’Estonia è passata da una spesa in armi di 386milioni di euro nel 2014 a 646milioni nel 2021, la Lettonia da quasi 223milioni a 699 e la Lituania da 321milioni di otto anni fa, ha superato il miliardo di euro di investimento in armi lo scorso anno. Spese che hanno fatto superare a tutti e tre la soglia del 2 per cento del Pil nel 2021, come fortemente richiesto dalla Nato. Q

Ex militare sovietico alla Festa della Vittoria a Narva
Prima Pagina Paesi Baltici Foto: Xinhua News Agency / eyevine / Contrasto
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Arrivando a Petorca si passa sopra un ponte, sotto si vede il grande letto del fiume completamente asciutto. Al centro qualcuno ha composto con i sassi una grande scritta su cui si legge «Apruebo» (approvo). Vedendola oggi sembra uno scherzo del destino: la provincia di Petorca, che conta su poco più di 80mila abitanti, è una delle più aride di tutto il Cile e il 4 settembre scorso gli abitanti della zona hanno votato contro la nuova Costituzione che avrebbe sostituito quella attuale, scritta durante la dittatura di Augusto Pinochet, e che avrebbe tutelato le aree che hanno problemi legati all’acqua. I cittadini di questa zona hanno scelto l’opzione

76 18 settembre 2022 Dopo il referendum RESTA A SECCO  SE IL CILE LA NUOVA COSTITUZIONE AVREBBE GARANTITO L’ACQUA ANCHE AI POVERI. È STATA BOCCIATA. MA GLI ATTIVISTI CONTINUANO A COMBATTERE  DI ELENA BASSO DA SANTIAGO DEL CILE

«rechazo» (rifiuto) come la maggioranza delle province del Paese, il 4 settembre infatti quasi il 62 per cento dei cittadini cileni ha deciso di non accettare la Costituzione proposta, ma Petorca è finita al centro del dibattito. Il testo, composto da 388 articoli, è stato scritto nell’ultimo anno da 154 cittadini democraticamente eletti e avrebbe garantito un numero record di diritti alla popolazione cilena. Gli analisti si aspettavano quindi che soprattutto le fasce più povere della popolazione, che sarebbero state tutelate dalla nuova Costituzione, avrebbero votato a favore del nuovo testo ma, a

DELUSIONE

Sopra e a sinistra: manifestanti a favore della nuova costituzione chiedono di ricominciare la revisione di quella ereditata dal regime di Pinochet. La bozza era nettamente a favore di poveri e minoranze ma è stata rifiutata anche dagli abitanti delle zone più disagiate

Prima

sorpresa, anche nei comuni meno abbienti ha vinto il rifiuto. Un cortocircuito nella società cilena su cui dal 4 settembre giornalisti e politologi stanno indagando e che ha trovato il proprio emblema proprio a Petorca, che da anni è conosciuta nel Paese per l’enorme problema di siccità che la colpisce. Come è possibile che questa provincia, che da tempo si batte per la mancanza di acqua, abbia votato contro una Costituzione che finalmente avrebbe messo al centro del dibattito il diritto all’acqua come bene pubblico?

«È facile giudicare i cittadini della provincia», afferma Ignacio Villalobos Henríquez, 43 anni, sindaco di Petorca, «ma basta pensare che il giorno della votazione del referendum ai seggi c’erano i più grandi proprietari terrieri della zona. Come si può pretendere che una persona voti senza timore se lo deve fare di fronte al proprio datore di lavoro? Se non è generare timore questo non so cosa lo sia. Ovviamente chi ha dei privilegi oggi non li vuole perdere. Se i grandi proprietari terrieri hanno diritto a 300 litri d’acqua al secondo non li vogliono dividere con nessuno, non gli importa se il vecchio contadino al lato della loro proprietà non può più coltivare». Il Cile è l’unico Paese al mondo in cui l’acqua è privata: con la Costituzione scritta durante la dittatura di Pinochet è diventata un bene di mercato come qualsiasi altro.

Le conseguenze di queste politiche si rispecchiano perfettamente nel territorio di Petorca dove, da oltre dieci anni, le sterminate coltivazioni di avocado hanno prosciugato le risorse acquifere della zona. I letti dei fiumi sono completamente secchi, è impossibile per i cittadini coltivare o allevare animali. Due scuole lo scorso anno hanno dovuto interrompere le lezioni per la mancanza d’acqua, gli abitanti fanno fatica perfino a farsi la doccia o a cucinare e dipendono dall’acqua trasportata a casa loro da camion pagati dal governo. Ma a Petorca si è anche immersi nel verde: si è circondati da migliaia e migliaia di rigogliose piante di avocado. È impressionante vedere il lato delle montagne diviso in tre livelli. Il primo - non coltivato - grigio e completamente arido, il secondo - di un piccolo produttore - secco ma con alcune piante che sopravvivono, e il terzo - di coltivazione industriale - verdissimo e rigoglioso. Poco più sotto, nella valle, si trovano decine di grandissime vasche piene di acqua trasparente. È così che i grandi proprietari ter-

Elena Basso Giornalista
18 settembre 2022 77 Foto: J. Torres TORRESAfp via Getty Images, C. Abarca SandovalNurPhoto via Getty Images
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Dopo il referendum

rieri si assicurano di avere sempre  l’acqua di cui hanno bisogno. «Prima dell’inizio dell’inverno 189 comuni cileni, fra cui Petorca, hanno dichiarato di avere problemi legati alla siccità», assicura Henríquez. «Più di 8 milioni di persone in questo Paese hanno problemi per accedere all’acqua. Moltissimi ospedali rurali e scuole non possono andare avanti. Ci sono comuni in cui non si possono produrre alimenti. A Petorca ci sono località che dipendono al 100% dall’acqua dei camion». Per coltivare un solo chilo di avocado servono oltre duemila litri d’acqua (dieci volte in più rispetto a quella necessaria per un chilo di pomodori) e quindi a Petorca, dove non piove quasi mai, per ogni ettaro di piantagione servono circa centomila litri d’acqua al giorno, il quantitativo che potrebbe soddisfare il fabbisogno di circa mille abitanti. «In Cile le priorità sono rovesciate: prima l’avocado, poi gli animali e solo all’ultimo le persone e l’ecosistema», afferma Marileu Avedaño Flores, 30 anni, attivista per l’acqua e presidente della Confederazione nazionale contadina. Il Paese è uno dei principali esportatori di avocado in tutto il mondo e soltanto il 30 per cento della produzione è destinata al mercato interno. Oltre il 70 per cento dell’avocado destinato all’esportazione viaggia proprio verso l’Europa, dove il consumo del frutto continua a crescere.

«In questa zona sono disseminati ovunque pozzi illegali per rubare l’acqua. Le multe sono irrisorie per le grandi aziende agricole, quindi preferiscono pagarle e continuare a rubare», spiega Carolina Vilches Fuenzalida, 37 anni, geografa e portavoce nazionale di Modatima, movimento nato nel 2010 a Petorca in difesa dell’acqua e dei piccoli produttori. A causa della privatizzazione dell’acqua prevista dalla Costituzione di Pinochet, chi possiede i diritti sulle fonti può decidere di tenerla per sé lasciando decine di migliaia di persone sprovviste. A spartirsi i diritti sull’acqua a Petorca sono poche famiglie, ma potentissime. E come denunciano gli attivisti della zona, sembrano intoccabili. «Chi possiede l’acqua controlla la valle», spiega Fuenzalida, «Il furto dell’acqua è una crisi umanitaria: stiamo privilegiando l’esportazione di frutta alla salute della zona. Qui sta morendo l’economia locale, gli animali, l’agricoltura dei piccoli produttori. C’è sofferenza e molta depressione fra gli abitanti».

Ovunque sui muri dei piccoli paesi ci sono

murales sull’acqua con le scritte «No es sequía, es saqueo» (Non è siccità, è un saccheggio), «Estamos secos» (Siamo a secco) e «Approviamo per recuperare l’acqua rubata». Fuenzalida, che è stata eletta come membro dell’Assemblea costituente, spiega: «Con il referendum abbiamo perso un’enorme occasione, l’acqua finalmente avrebbe smesso di essere privata. Ma la lotta non è finita». Negli ultimi mesi la campagna contro la nuova Costituzione, in cui privati cittadini hanno investito cifre milionarie, è stata feroce e il testo è stato al centro di decine di notizie false rilanciate dai media tradizionali e dai social media. E i cittadini di Petorca sembrano non esserne stati immuni. «Con la nuova Costituzione mi avrebbero

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«QUI LE PRIORITÀ SONO ROVESCIATE: PRIMA VENGONO GLI AVOCADO, POI GLI ALLEVAMENTI DI ANIMALI E PER ULTIMI PERSONE E AMBIENTE»

portato via la casa», assicura Jorge, 61 anni. «Da anni non abbiamo l’acqua in questa zona, se la tengono i ricchi. Ho votato “rechazo” perché non sarebbe cambiato nulla», aggiunge María, 54 anni. «Non riuscivo a capire il testo, mi sono fidata di quello che ho visto alla televisione e ho votato contro. Noi poveri continueremo a non avere nulla», afferma Paula, 49 anni. Negli ultimi anni sono aumentate le pressioni verso chi denuncia la crisi idrica della provincia: gli attivisti vivono sotto costante minaccia di morte.

Una delle persone più a rischio è Veronica Vilches, 52 anni, che sulla sua auto ha appiccicato un cartello che recita: “Basta al furto dell’acqua”. Quando gli autisti dei camion che trasportano l’acqua agli abitanti

Prima

Festeggiamenti per la bocciatura della costituzione. Sopra, da destra: un camion porta l’acqua a Petorca; quel che resta del fiume che attraversa la regione dopo mesi di siccità

della provincia la vedono prendono il telefono per avvisare qualcuno: sanno che Vilches sta di nuovo denunciando quello che succede. «Vengono fino a casa mia per minacciarmi», dice. «Hanno incendiato l’auto di mio padre, hanno provato a comprarmi in ogni modo. Mi hanno offerto di tutto. Ma io continuerò fino alla fine a denunciare, non possono fermarmi». La pratica di scavare pozzi illegali con cui i grandi proprietari terrieri, che già possiedono la maggior parte dell’acqua della zona, ne rubano altra destinata alla popolazione, è così diffusa che mentre Vilches guida a poche centinaia di metri da casa sua vede alcuni uomini che stanno bucando il terreno. Quando scende dall’auto per girare un video gli uomini la insultano e spengono il macchinario. Nelle strade vicino alla sua abitazione si vedono ovunque scritte contro di lei: «Veronica Vilches ruba la nostra acqua» o «Veronica Vilches usa l’acqua per coltivare i suoi avocado». Di fronte ai pochi alberi di limone che ha nel suo giardino si trova un grande ritratto dell’attivista: lo hanno fatto alcuni studenti dell’Universidad de Valparaíso alcuni giorni dopo l’incendio dell’auto di suo padre. Mentre osserva il murales, in cui Vilches ha un grande cuore formato dall’acqua, dice: «Ora metto alcune cose in uno zaino e me ne vado. Non posso dormire qui stanotte, non posso rimanere a casa mia dopo che mi hanno visto un’altra volta con una giornalista. Verranno sicuramente di nuovo qui per minacciarmi».

18 settembre 2022 79 Foto: M. BernettiAfp via Getty Images, C. Reyes / Afp via Getty Images,
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Esclusivo: Carlo III

repubblicano

Ecco alcune rivelazioni inedite per chi vuole ancora notizie sulla

migliaia di ore di trasmissioni televisive

Se siete tra coloro che, dopo venti minuti di telegiornale sulla Royal Family, avete accolto con profondo fastidio l’irruzione delle notizie minori (guerra in Ucraina, elezioni in Italia, crisi mondiale dell’energia, eccetera), questo articolo è dedicato a voi. Contiene importanti rivelazioni che i media italiani hanno omesso.

Le rivelazioni   Per esempio: di quale colore sono i sottobicchieri nel castello di Balmoral? Sono acquamarina con venature pervinca. Chi si prende cura delle siepi di bosso nel cottage del Worcestershire dove risiede nelle mezze stagioni la principessa Anna? Anna in persona, con l’aiuto del fido giardiniere Hugh. Come si chiama il Polfershire Terrier della dama di compagnia della defunta regina, miss Angelica Trelawney? Si chiama Paffy, e va pazzo per le crocchette di tacchino. Questa e altre suggestive pennellate aiutano a completare l’appassionante affresco di famiglia che tanto ci entusiasma da anni, al punto di desiderare ardentemente di saperne di più, sempre di più.

Gli eredi   Oltre a William e Kate, e a Harry e Megan, ci sono numerose altre coppie dei rami minori che in caso di

morte, purché simultanea, dei dodici attuali eredi in linea diretta, potrebbero salire al trono. Si tratta di George e Susan, Robert e Masha, Wilfred e Mary, Manfred e Lara, Gordon e Milly, Samuel e Betsy, Rudolph e Molly, Jacob e Louise, August e Fanny, James e Vanessa, Philip e Mario. Imparate la sequenza a memoria e ripetetela spesso, se volete occuparvi di politica internazionale per un giornale italiano. Ciascuna di queste coppie ha una vita privata vivacissima, vive in dimore storiche, si occupa attivamente di beneficenza, e sta per pubblicare un libro di memorie nel quale recrimina sul sostanziale ostracismo che Buckingham Palace oppone al loro amore e alla loro ascesa pubblica. Su tutti grava la maledizione che minaccia, da secoli, i membri di tutte le case regnanti: andare a lavorare.

Il Commonwealth  Quale destino per il Commonwealth? Possibile che le isole Toboga, l’arcipelago di Papadoo, gli atolli australi, le tribù aborigene di Bolabalomba, Gibilterra, le Malvinas, gli orsi bianchi della banchisa artica, i pinguini delle distese antartiche, possano fare a meno della protezione e della benevolenza della Corona Britannica? Possibile che un pescatore di perle di Papurawi possa non com-

muoversi al suono delle cornamuse scozzesi? È assurdo solo pensarlo. Per rinsaldare i rapporti con questi lontani sudditi, sono previste cordiali visite diplomatiche di George e Susan, o Robert e Masha, o Gordon e Milly, o una a caso delle altre giovani coppie di lontani parenti, molto moderne e dai modi informali, sulle quali Buckingham Palace fa affidamento, soprattutto per togliersele di torno.

L’incidente   Si mormora che Robert e Masha, andati di loro iniziativa nella sperduta isola di Takarakanga per verificare lo stato dei rapporti con gli indigeni, in tutto due famiglie, titolari di due spiagge, siano stati divorati, subito dopo lo sbarco, dal feroce varano locale.

La Compagnia delle Indie  La gloriosa istituzione, che ha cessato l’attività nel 1874 perché la predazione coloniale era ormai ridotta a pochi spiccioli, non è più in grado di avanzare pretese rilevanti. Smentite anche le voci su una sua prossima rifondazione, con il compito di restituire almeno parte del bottino nei luoghi depredati lungo i secoli. L’anziano Lord Mabee, che conserva il titolo onorario di Tesoriere della Compagnia, ripete spesso il motto che fu dei suoi avi: «Cosa fatta, capo ha».

King Charles III  Non è solo ambientalista, è anche repubblicano convinto, ma ha deciso di comunicarlo al popolo solo quando il popolo sarà pronto, cioè mai.

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Royal Family inglese dopo
è
Michele SerraSatira Preventiva 18 settembre 2022 81 COME SI CHIAMA IL TERRIER DELLA DAMA DI COMPAGNIA? QUAL È IL COLORE DEI SOTTOBICCHIERI DI BALMORAL? Illustrazione: Ivan Canu

Addio regina degli arcobaleni

Non ho niente contro l’idea di un Padreterno, ma non sono molto d’accordo su quella di una madre eterna... Lo disse Edoardo, primogenito scontroso della regina Vittoria. Carlo, che con maggior pazienza e stile ha atteso la corona, diventa il terzo del suo nome. Dovrà vedersela con le pulsioni centrifughe in casa, non solo quelle del suo figlio minore. A noi, che siamo nati quando Elisabetta era LA Regina e cresciuti sperando irrazional-

Omaggio pop a Elisabetta II. E a re Carlo III che, con pazienza e stile, ha atteso la corona di Ivan Canu

mente che lo sarebbe stata per sempre, come il mitico Artù, farà effetto sentire l’inno: God Save the King. Elisabetta una volta citò Groucho Marx: «Tutti possono diventare vecchi: tutto ciò che devi fare è vivere abbastanza a lungo». Quando la rivista “Oldie” ebbe la furbata di insignirla del titolo di “Anziana dell’Anno”, la regina declinò glissando sulla gaffe: «Sei vecchio se ti senti tale». Così ha vissuto Elisabetta fino agli ultimi giorni. L’amato Filippo l’ha lasciata il 9 Aprile 2021 con «quel luccichio malizioso e interrogativo» degli occhi fino alla fine. Da quel momento, è parso che Elisabetta volesse riposarsi, lontana dalle luci del giubileo, dalle beghe di una famiglia bizzosa, dal cupio dissolvi del mondo in preda a pandemie e guerre. L’abbiamo vista minuta e fragile, appoggiarsi al bastone e sorridere. Ora l’autunno si avvicina con le prime piogge. La regina è stanca. “Cadrà dolce la pioggia” recita una poesia di Sara Teasdale a chiusura di “Cronache marziane” di Ray Bradbury. Un doppio arcobaleno si è disegnato netto sul cielo fra i merli di Balmoral, fotografato nell’ora in cui Elisabetta Alexandra Mary Windsor se ne andava per sempre. Q

Le illustrazioni di queste pagine sono tratte dal libro “God Save the Queen”  di Ivan Canu, pubblicato da Centauria (pp. 128, € 16,90)

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Stili di vita

Zero desiderio. Scarsa intimità. Timore dei nuovi virus. In un’epoca di corpi esposti e passioni esibite, a sorpresa avanza tra i più giovani la recessione sessuale

di Simone Alliva illustrazione di Irene Rinaldi
84 18 settembre 2022
Idee

Stili di vita

n principio era il sesso. Una forza potente, libera e primitiva. Presenza originaria, ingombrante per le religioni, che spesso tentano di incanalarla, controllarla e regolamentarla. Il sesso esiste e resiste da sempre. Eppure, oggi la mancanza di libido ed erotismo si estende davanti a noi come un inatteso arcipelago arido. È un tempo nuovo, molto diverso da quello che ci lasciamo alle spalle. In passato l’assenza di un argomento dalla conversazione, dal discorso pubblico, indicava in realtà una presenza molto forte. Oggi è il contrario. Viviamo un’epoca di post-modernismo: le pensose riflessioni sulla definizione della propria identità sessuale non coincidono necessariamente con l’esperienza diretta della propria sessualità. «Ho pazienti giovanissime e giovanissimi che riflettono con competenza sulla loro identità, ma non hanno mai neppure dato un bacio», racconta a L’Espresso lo psicoanalista e psichiatra Vittorio Lingiardi.

Siamo indotti a credere che viviamo in un’epoca sessualmente liberata eppure la sessualità umana contemporanea, quella

della generazione Z soprattutto, ribolle di verità sommerse. «Il conflitto tra ciò che la società ci impone di sentire e ciò che sentiamo realmente è probabilmente la principale fonte di confusione e sofferenza del nostro tempo», racconta Leo, 21 anni.

Il desiderio, l’intimità, il sesso sono in crisi. E già gli esperti parlano di “recessione sessuale”. Un fenomeno che arriva da lontano.

In America, dal 1991 al 2017, il Centers for Disease Control and Prevention’s Youth Risk Behavior Survey ha rilevato che la percentuale di studenti delle scuole superiori che avevano avuto rapporti sessuali era scesa dal 54 al 40 per cento. In altre parole, nello spazio di una generazione, il sesso era passato da qualcosa che la maggior parte degli adolescenti ha sperimentato a qualcosa che la

maggior parte non fa più. Poi il 2020, l’arrivo del Covid-19 e il crollo inevitabile dei rapporti sessuali. L’Italia ha registrato in quell’anno un calo della libido dell’83 per cento, come ha affermato una ricerca promossa da Durex nell’ambito della campagna globale “Safe is the new normal”, realizzata in collaborazione con Anlaids, associazione per la lotta contro l’Aids. C’era già stato un tempo, molto simile, in cui il sesso libero (sempre consenziente, piccolo dettaglio ma non superfluo) aveva conosciuto una frenata. Era un’altra pandemia, quella dell’Aids. Oggi è invece un insieme di fattori a portare al ritiro dell’intimità, come spiega Vittorio Lingiardi: «Innanzitutto la vita online, che per molte persone, giovani o meno, si è mangiata buona parte della vita offline. Il fatto che la vita di molti si sia virtualizzata e il contatto con “la brutalità delle cose”, per citare un’espressione usata dalla psicoanalista Lorena Preta, si sia rarefatto, rende probabilmente più ritrose, insicure e vulnerabili, anche narcisisticamente, molte persone».

Un fenomeno che si inserisce in maniera sottile in un tempo fatto di incertezze sociali e sanitarie: «In generale», continua Lingiar-

A Londra, una parata dell’orgoglio asessuale. A fianco, Todd Chavez, personaggio asessuale della serie “BoJack Horseman” I “L’intellettualizzazione della sessualità l’ha resa più intelligente ma meno desiderante. E in molti riflettono sull’identità , senza mai aver dato un bacio” 86 18 settembre 2022

di, «penso che, rispetto per esempio alla mia giovinezza, oggi la maggior esposizione dei corpi, e quindi la loro assenza dalla scena misteriosa e anche trasgressiva della loro esplorazione, li abbia paradossalmente resi meno “desideranti”. Potremmo dire, in modo un po’ provocatorio, che l’intellettualizzazione della sessualità l’ha resa più intelligente ma meno desiderante. A questo va aggiunto il capitolo sanitario, che ha un peso notevole. Se già l’HIV può avere contribuito a frenare lo slancio sessuale, certo la pandemia e il conseguente distanziamento fisico hanno fatto la loro parte. Soprattutto in alcuni adolescenti, magari già portati a una posizione di “ritiro”, il distanziamento sociale da pandemia può avere avuto una ricaduta negativa sulla capacità di costruire un’intimità. Consegnarsi all’intimità, del resto, non è mai stato semplice: si apprende a piccoli passi esplorando e mettendosi in gioco nelle relazioni. Il recente e sventurato, ancorché circoscritto, affacciarsi sulla scena del monkeypox ha poi ulteriormente incupito la scena».

Nella scena, come la definisce Lingiardi, fa capolino sotto il cono di luce una comunità sempre più consapevole, rappresentata

Orgoglio asex da “Loveless” a “BoJack Horseman”

Serie tv, cartoni animati, libri. Lentamente il mondo asessuale viene riprodotto nella forma dell’immaginazione. Si diffonde, costringe chi lo guarda a entrarci dentro. Nell’ultimo libro di Alice Oseman, “Loveless” (Mondadori, traduzione di Martina Del Romano), la protagonista si lancia alla ricerca l’amore. Quello “propagandato” dalla società. Con il tempo apprenderà come possano esistere anche altri modi di amare. Si scopre quindi asessuale e aromantica.

In “BoJack Horseman”, serie di punta su Netflix, Todd Chavez, il coinquilino del protagonista arriva dopo diverse stagioni al coming out: «Ci si sente bene a dirlo ad alta voce». È un percorso tortuoso: Todd non crede «di meritare l’amore» dopo aver interrotto una relazione proprio a causa della sua scarsa libido. Alla fine scende a patti con la propria asessualità, creando una app per appuntamenti asex in cui incontra l’amore della sua vita, la coniglietta Maude. In “Sex Education”, è il personaggio di Florence nella seconda stagione a raccontare quanto sia difficile per una persona asessuale vivere in un contesto così sessuale come il liceo. Florence è parte del cast teatrale scolastico di Romeo&Giulietta. Durante le prove, Lily le fa notare la sua mancanza di chimica con il coprotagonista, Jackson. «Romeo e Giulietta parla di due adolescenti arrapati, e a me non sembra che tu voglia fare sesso con Jackson». Questo porterà la ragazza a pensare di “essere rotta” fino a che non decide di affrontare l’argomento con Jean, la terapista della scuola che le spiegherà il concetto di asessualità e il perché non è il sesso ciò che rende le persone complete e felici: «Il sesso non ci rende integri, quindi come puoi essere rotta?». S.A.

Foto: Alamy Idee
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dall’ultima lettera nella sigla Lgbtqa, ma pochissimo raccontata: quella delle persone asessuali. Su di essa c’è una ricerca italiana dal titolo “Studio di validazione Sexual Desire and Erotic Fantasies nella popolazione asessuale” realizzata dallo stesso Vittorio Lingiardi e Filippo Maria Nimbi del Dipartimento di Psicologia Dinamica dell’Università La Sapienza di Roma. La prima sulla comunità asessuale in Italia e che L’Espresso racconta in anteprima: «Lo scopo di questa ricerca è stato quello di esplorare possibili differenze nell’espressione del desiderio sessuale e delle fantasie erotiche in termini di contenuti, emozioni e frequenza tra le persone che appartengono allo spettro asessuale», spiega il dottor Nimbi: «Parola che include asessuali, demisessuali, grey-sessuali e questioning, cioè persone che si stanno interrogando rispetto al proprio orientamento asessuale».

Lo studio ha coinvolto 1.041 persone italiane che dichiarano di appartenere allo spettro asessuale reclutate tramite internet e i social network. L’età dei partecipanti è tra i 18 e i 25 anni, in prevalenza donne (69 per cento) e persone non binarie (14,7 per cento),

seguite da persone che si stanno interrogando rispetto alla propria identità di genere (8,5) e uomini (7,8). I partecipanti definiscono il proprio orientamento sessuale come demisessuale (31,8), asessuali (28,5), grigio-asessuali (11,9) e questioning (27,8). Quasi il 60 per cento riporta di essere single. Le persone asessuali riportano più bassi livelli di desiderio di masturbazione e di attività sessuale con un partner rispetto a tutti gli altri gruppi, una minore frequenza di fantasie se confrontati con altri gruppi. Questa differenza non viene vissuta in maniera ostile dalle persone asessuali, le quali non riferiscono disagio o emozioni negative riguardo alle proprie fantasie. Come spiega Nimbi: «All’interno dello spettro asessuale c’è un mondo di esperienze diverse con la sessualità e può essere riduzionistico considerare una persona asessuale come semplicemente non attratta dal sesso». Che non sia una categoria omogenea lo conferma la stessa comunità. Becks ha 22 anni e il suo approdo alla comunità “Ace” (abbreviazione fonetica di “asexual”) arriva in piena adolescenza: «Avevo 14 anni, stavo con il mio primo e unico ragazzo ma qualcosa non andava. Non ho

Le parole per dirlo

Asessuali

Persone che non hanno attrazione sessuale verso nessun genere. Non vanno confusi con le persone caste, o con coloro che non possono, per motivi fisici, avere o desiderare rapporti sessuali. L’asessualità rappresenta un punto dello spettro sessuale, ma costituisce anche una variante in sé. Esiste una gamma di gradazioni, che vede ai suoi estremi “sessuale” e “asessuale”, e in mezzo una zona grigia.

Demisessuali

Le persone demisessuali sviluppano un’attrazione sessuale solo se con l’altra persona esiste un forte legame emotivo.

Gray area, “area grigia”

Le persone che rientrano in quest’area, hanno attrazione sessuale per gli altri molto più bassa rispetto alla media, oppure la possono provare a tratti, in periodi particolari.

Le stesse “intensità” che si hanno nell’attrazione sessuale, si hanno anche nell’attrazione romantica. Una persona, può, dunque, definirsi:

Aromantica

Le persone aromantiche non sono attratte da nessuno in senso romantico. Non vogliono quindi avere una relazione di questo tipo.

Demiromantica

Sono persone che, come nel caso dei demisessuali, possono avere un’attrazione romantica verso qualcuno, ma solo dopo che sia stata sviluppata una certa familiarità con questa persona.

Stili di vita 88 18 settembre 2022

mai amato molto il contatto fisico. Solo abbracci, tenersi per mano, darsi baci a stampo. Tutto il resto non mi interessava, pensavo di essere sbagliato. Poi ho fatto una ricerca e ho scoperto tramite il web tutte le definizioni delle sessualità. Ho deciso che per un anno avrei continuato a conoscere persone per capire se c’era attrazione fisica e sessuale. Non c’era. A 15 anni ho iniziato a identificarmi come asessuale. Sto bene così. Ho una libido ma non è rivolta agli altri e se ho desideri li soddisfo da solo». Non è così per Samuele che ha 21 anni: «Moltissime persone asessuali sentono la loro libido e la soddisfano da soli, io invece ho anche una libido molto bassa. Mi sono sempre sentito sbagliato, sin dall’adolescenza. Fingevo di provare qualcosa che non avevo. Poi ho conosciuto il mondo dell’asessualità e mi sono ritrovato». Oggi Samuele è fidanzato con una ragazza, non asessuale. «Ma ci sono molti modi di essere intimi con una persona: io creo intimità parlando, condividendo attività, tenerezze». Alice, che di anni ne ha appena 18, insiste: «Ci sono molte cose che vanno oltre le relazioni sessuali che ci vengono vendute come se fossero il centro della società. La nostra

identità non finisce soltanto con il desiderio». Sembra farle eco Andrea, 24 anni: «L’asessualità più diffusa di quello che si pensa. Ci sono donne che fanno sesso con il compagno semplicemente per accontentarlo ma non trovano soddisfazione nell’atto in sé: anche quella è una forma di asessualità».

Ma quanto l’approdo sull’arcipelago del mancato desiderio è frutto di pensieri lunghi e autocoscienza? «Sono stato tentato a fermarmi un attimo e pensare il perché di questa mia mancanza», risponde Samuele: «Poi sono arrivato alla consapevolezza che poco importa. Lascio questa ricerca alle persone più esperte, agli studiosi, sperando che riescano a tenere gli occhi aperti sulle esperienze delle persone e del loro sentire. Io per adesso sto bene così».

Proprio sul tema il panorama scientifico resta diviso. Per Lori Brotto, psicologa clinica e sessuologa ricercatrice presso la University of British Columbia, l’asessualità è un orientamento sessuale al pari dell’eterosessualità, dell’omosessualità e della bisessualità. «E va distinta dall’astinenza sessuale, che è la decisione consapevole di non fare sesso anche in presenza di desiderio sessuale. Negli individui asessuali, il desiderio di sesso non esiste né è mai esistito». Per altri, e tra questi Vittorio Lingiardi, «il ritiro o il disinteresse per la vita sessuale può rimandare a molti e diversi percorsi di sviluppo e di personalità. Provo a elencarne alcuni, che ovviamente possono intrecciarsi: un temperamento biologicamente poco propenso alla ricerca sessuale, la timidezza, l’insicurezza o l’evitamento come tratti caratteristici della propria personalità o del proprio sistema di meccanismi di difesa, oppure come conseguenze di precedenti esperienze spiacevoli o addirittura traumatiche. Detto questo, lo spettro dei comportamenti cosiddetti “asexual” è molto ampio, dal disinteresse all’indifferenza alla repulsione. Un’altra riflessione che un buon clinico dovrebbe fare, di fronte a queste tematiche, riguarda il rapporto tra la vita fantasmatica (desideri e fantasie) e l’esperienza nella vita reale. A questo aggiungerei una riflessione sul ruolo svolto dalla sessualità online (anche ma non necessariamente dalla pornografia) nella vita di un individuo. È un fenomeno segnalato, inevitabilmente auto-etichettato, amplificato online, su cui è utile sia sociologicamente sia psicologicamente, avviare una riflessione». Il dibattito resta aperto. Le nuove generazioni camminano alla ricerca di un’identità tra le lettere di una sigla che diventa sempre più lunga – bisex, gay, lesbica, etero, pansessuale, asessuale... – e che punta a comunicare chi siamo e cosa desideriamo: «Anche se va detto che non esiste un vero asessuale. Se vi sembra una parola utile, usatela. Quel che importa è quanto a fondo capiamo noi stessi, e non in che misura corrispondiamo a chissà quale idea platonica del nostro orientamento. Termini come asessuale sono solo strumenti per aiutare le persone a capirsi meglio». Proprio come sostiene David Jay, l’attivista asessuale di maggior rilievo al mondo, ritenuto il fondatore del movimento asex.

“Termini come “asessuale” sono solo strumenti per aiutare le persone a capirsi meglio. Se vi sembra una parola utile, usatela”
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In alto: bandiera degli asessuali durante il Pride di Helsinki 2022; attivista asessuale al Pride di Londra 18 settembre 2022 89

Tutto il resto è

noia

La creatività, l’ispirazione, i temi comuni. E il rapporto col pubblico e coi lettori. La scrittrice e il cantautore dialogheranno a Romaeuropa Festival. L’Espresso ha anticipato il loro incontro

colloquio con Veronica Raimo e Tutti Fenomeni di Francesca Sironi

Da una parte una scrittrice, dall'altra un musicista. Lui ha scritto, in una canzone: “Tu vuoi solo un senso come antidoto alla noia (Alla noia) / E vivi di nascosto come antidoto alla moda (Alla moda) / Tu vorresti questo, quello più forte (Forte) / Tu vuoi solo sesso come antidoto alla morte (Morte)”. Lei ha scritto, nel suo ultimo libro: “Quando finalmente arrivò la scoperta dei libri, non fu una forma di evasione, piuttosto una rasserenante coalescenza di noia. Riuscivo quasi a visualizzarla, bianca e melmosa: leggere era come sprofondare in un acquitrino di latte. Restavo immersa per ore, fino a quando pure il corpo si faceva flaccido, con l'acqua stagnante che penetrava nei pori. Sentivo che all'improvviso tutto acquistava un senso, un fenomeno di transustanziazio-

ne, la mia carne diventava noia”. «Diamo l'idea di due persone che si divertono un sacco», ride Veronica Raimo, vincitrice del Premio Strega Giovani con “Niente di vero” (Einaudi), il suo quarto romanzo. Lui è Giorgio Quarzo Guarascio, in arte Tutti Fenomeni, due dischi all'attivo, l'ultimo, “Privilegio Raro”, uscito con 42 Records. Insieme saranno a Romaeuropa Festival il 23 settembre per “Le parole delle canzoni”, progetto ideato da Treccani per mettere in dialogo musica e scrittura. L'Espresso li ha riuniti per un ante-dialogo, una conversazione in prova, proponendodipartiredaalcuniluoghiche sembrano avere in comune i loro testi.

La noia...

Veronica Raimo: «Il passaggio che ha citato è emblematico dell'operazione che ho provato a fare in questo libro: capire cosa significa scrivere e raccontare, partendo da infanzia e giovinezza

90 18 settembre 2022 Le parole e la musica

intrisa di libri; il fatto è che la scrittura per me non è né una dannazione né una salvezza. Per me il lavoro artistico nasce e sta in quella noia. Nel libro volevo togliere enfasi all'idea di letteratura come dannazione o salvezza».

Giorgio Guarascio (D'ora in poi citato col suo nome, anziché col nome d'arte; il perché lo spiega lui stesso dopo): «Un fenomeno di transustanziazione…».

V. R.: «Sì, il corpo che diventa noia...». G. G.: «Tutti i miei punti di riferimento sono degli anni '70. Se fossi nato allora probabilmente non mi sarei mai permesso di scrivere o cantare. Ma sono figlio di quest'epoca e faccio ciò che posso. Scrivere canzoni mi salva dalla noia. Sono curioso, cerco, prendo, aggiungo pezzetti alla mia curiosità».

V. R.: «A volte mi chiedo: se non fossi stata così pigra, così indolente, e sto solo peggiorando, cosa avrei fatto, cosa avrei potuto fare? Non so se rispondo

per giustificarmi, ma penso che se non fossi stata così in grado di annoiarmi avrei cercato un lavoro più attivo, e alla fine non avrei scritto».

G. G.: «Beh, leggerai molto però».

V. R.: «Sì, ma anche leggere è un esercizio di noia. Non negativo certo, possono esserci, rari, momenti di esaltazione. E va riconosciuto che la noia salva dalle questioni pratiche. Però...»

G. G.: «Per me si tratta di avere pazienza, nella noia. C'è quella frase, sul fatto che l'opera si metterà in moto, se non mi sbaglio è in quel frammento sull'ala gialla di Proust... Continuo a stare in questa vaghezza... È così».

Lasciamola sospesa. L'indeterminatezza sembra un tratto che vi accomuna. Eppure ci sarà un traino che vi fa sentire sufficientemente saldi da superarla, la gomma della noia; che vi fa credere sufficientemente in voi stessi, e sufficientemente a lun-

go, per poter realizzare qualcosache sia un disco o un libro. Cos'è?

V. R.: «Che dire... io non ho molta costanza, né pazienza. Lavoro per accelerazioni e poi pause, messe in crisi che non reggo, momenti positivi. Percepisco più la fallibilità, la paura, che non la convinzione della solidità del mio lavoro. So di poter fallire. Ed è una sensazione che non va persa».

G. G.: «Sì anch'io mi sento sempre fallibile. Forse per questo mi nutro di cose inattuali, di frammenti del passato, temo quello che potrebbe stufare anche me un domani»

V. R.: «Tu la gratificazione, l'endorfina, da dove la ricavi?».

G. G.: «Vivo per aneddoti o frasi che sento, mi colpiscono, e vorrei che gli altri non si perdessero. Il mio processo è un puzzle. Prendo queste cose, e le unisco, cercando una coerenza fra elementi differenti, provando a fissare delle immagini con le parole. Ecco, mi esalto quando questo puzzle si incastra, quando funziona».

V. R.: «Anch'io lavoro per suggestioni... scrivo sempre in posti affollati, al bar, perché anche una frase a caso può essere un stimolo per innescare un pensiero. Per il mio secondo romanzo avevo provato a stendere una trama da romanzo, classica, e non ha funzionato. È il mio libro meno riuscito. Gli altri vengono spacciati per romanzi ma hanno una forma più frammentaria, senza uno schema rigido. Invidio chi riesce a scrivere grandi architetture. Poi se ci penso però, anche da lettrice preferisco le forme caotiche».

G. G.: «Anch'io invidio chi ha il dono delle lunghe parabole, non me la sentirei oggi di affrontarle. Mi muovo per componimenti brevi, leggo molta poesia. Scrivere una canzone è un collage, come unire puntini che nel tempo arriveranno a qualcosa».

C'è un altro elemento che vi accomuna: le bugie. Leggo da “Niente di vero”, libro dove il mentire è al centro di molto: “Comunque chi l'ha detto che avere un talento sia meglio che non avercelo? se mi chiedessi ora cosa so fare, sprofonderei nello stesso imbarazzo dei miei vent'anni,

Sopra: la scrittrice Veronica Raimo. Nell’altra pagina: il musicista Tutti Fenomeni, nome d’arte di Giorgio Guarascio
18 settembre 2022 91 Idee Foto: I. Ieie, S. GengottiThe New York Times

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Le parole e la musica

ma se c'è qualcosa che ho capito da allora è che temo la verità più della morte”. E da “Mister Arduino” di Tutti Fenomeni: «Le grandi verità non mi pagano e queste bugie mi appagano». Com'è questa passione? Vi capita mai di essere dall'altra parte, di non riuscire a capire?

V. R.: «Io sono sedotta dagli imbroglioni. Sento le bugie come elemento comico. Certo, quando succede a me di essere dall'altra parte mi serve un processo minimo di elaborazione del lutto della segretezza, ma poi emerge questo elemento comico, della persona che si barcamena con una bugia, che deve costruire una storia; e mi affascina quel disagio, l'imbarazzo, il tentativo di mettere una toppa. Mi interessa più guardare a questo che non all'esempio di virtù. E poi «dire la verità» mi sembra un imperativo minaccioso, violento. Magari non la sai neanche tu, quale sia la verità. Un po' come quelli che ti dicono: «Devi essere te stesso! Raggiungi i tuoi sogni!». È difficile sapere chi siamo. È più bello inventarcelo». G. G.: «Io sono un grande bugiardo nella vita, a partire da questa identità di cantante che porto. Parlo spesso di idiosincrasia per la verità. In un'altra canzone ho detto: “Muro di cartone portante mi protegge dalla verità”. È uno dei temi più importanti per me, insieme alla morte. Mento. Ma soprattutto e innanzitutto con me stesso. Ho sempre paura di crollare, paura che una delle mille maschere che metto per scrivere crolli. Più maschere metto più si accresce il personaggio, più ho paura di crollare. Ho sempre negato, dato pochissime informazioni sui social o nelle interviste su me stesso. Ovviamente non so chi sono. Quando parlo della verità è per scagliarmi contro chi pensa di detenerla. Anche il mio

Una scena dello spettacolo “Bianco su Bianco” della Compagnia Finzi Pasca, in programma dal 19 al 23 ottobre al Teatro Vittoria di Roma in occasione di Romaeuropa Festival 2022. La rassegna, diretta da Fabrizio Grifasi, porterà in luoghi diversi della Capitale, fino al 20 novembre, alcuni tra i più interessanti spettacoli della scena contemporanea

nome d'arte non mi piace». Come conciliate ritrosia e richieste del pubblico?

V. R.: «È la prima volta che un mio libro vende e che mi confronto con un pubblico più largo. Tra l'altro all'inizio, ammetto, guardavo continuamente le classifiche: sono numeri, ma sono persone che hanno apprezzato il libro. Questa novità mi ha insegnato una cosa: prima mi lamentavo perché i miei libri avevano magari un'ottima ricezione critica ma giravano solo in una bolla, di conoscenze, amici, critici. Ora mi rendo conto che se non ci fosse questa bolla sarei disperata. Prima la bolla era frustrazione, ora la percepisco come vitale. È fondamentale avere una comunità attorno».

G. G.: «Quando guardo sono le frasi che chi mi ascolta riutilizza, o sente sue, è incontrollabile; è una sensazione veramente strana».

V. R.: «È vero, mi succede sui social. Mi capita di lavorare linguisticamente sulle frasi fatte, per ribaltarle».

G. G.: «Assolutamente, anch'io lo faccio sempre».

V. R.: «Il fatto è che queste figure funzionano, troppo: sono le parti del mio libro più riprodotte sui social network. Mi fa paura immaginare di inseguire quell'effetto».

G. G.: «Ripetere una formula è un pensiero paralizzante, sì. Ho imparato ad apprezzare i concerti pian piano, ad esempio. All'inizio la timidezza. Poi il fatto che i concerti sono per metodici: io invece sono lì e magari non mi va, faccio fatica. C'è una scaletta, una sequenza ripetitiva, anche questo all'inizio era paralizzante. Poi impari. Potrei ogni volta inventare qualcosa di nuovo, ma non ho sempre cose nuove da dire. Quando c'è un pubblico partecipe è invidiabile, è gente che è lì per te».

C'è in fondo un metodo, in quello che raccontate.

G. G.: «Tutta la parte artistica per me non è a comando. I miei punti di riferimento durante il giorno sono solo il pranzo dalla nonna e passare a vedere mio padre il pomeriggio. Per il resto, creo quando capita. La produzione dell'album è stata di Niccolò Contessa: ero ai suoi ordini. A volte andavo in studio e non ero ispirato, e litigavamo. A volte erano momenti creativi puri, bellissimi. È una fase delicata quando la canzone entra sulla musica. Dopo due dischi è difficile capire cosa farò, per non ripetermi».

V. R.: «Nei momenti vuoti inizio a fare qualcosa di nuovo, per capire se mi piace. “Niente di vero” è nato dopo aver iniziato a scrivere monologhi per delle attrici. È stato bellissimo sentire le reazioni del pubblico, le risate, alle mie parole recitate da loro. Così è iniziato questo monologo più lungo che è il libro. Ora sono spaventata dal rischio di ripetermi. Voglio prima capire, magari c'è altro che mi va di fare».

“Lavoro per accelerazioni e poi lunghe pause, messe in crisi e momenti positivi.
Percepisco più la fallibilità che non la convinzione della solidità del mio lavoro”
92 18 settembre 2022
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Viaggio nel tempo

Cosa trapela quando i cerchi e gli ovali diventano i punti di riferimento per la navigazione spaziale di un edificio con una pianta ortogonale? Cosa accade quando uno schermo, anch’esso ovale, posto orizzontalmente sopra le nostre teste, crea effetti che destabilizzano il nostro equilibrio e cosa succede, ancora, quando lo stesso effetto marezzato emerge in una nuova opera d’arte che impiega la tecnologia della realtà virtuale, generando nuovi modi

di esperire lo spazio e di guardarci mentre osserviamo? Sono domande, queste, solo all’apparenza complicate, dei punti da cui partire per capire al meglio “Nel suo tempo”, la nuova mostra di Olafur Eliasson, che dal 22 settembre prossimo aprirà la stagione culturale fiorentina d’autunno. Fino al 22 gennaio del 2023, uno dei più originali e visionari artisti contemporanei, porterà a Palazzo Strozzi le sue luci e le sue ombre, i suoi riflessi e i suoi colori che lo hanno fatto e continuano a farlo apprezzare in tutto il mondo, coinvol-

gendo l’architettura rinascimentale di quel posto in un suggestivo percorso di opere storiche e nuove produzioni, tra cui una grande installazione site specific per il cortile e uno speciale progetto d’arte digitale creato utilizzando la tecnologia VR.

Il percorso inizia con “Under the weather”, che vi accoglierà all’ingresso, costituita da una grande struttura ellittica di 11 metri sospesa a 8 metri di altezza, capace di creare ai vostri occhi un gioco di interferenze visive a dir poco piacevoli. È l’effetto moiré tanto ca-

Arriva a Palazzo Strozzi, a Firenze, Ólafur Elíasson,  uno dei più visionari artisti contemporanei.
Con il suo attuale e sorprendente racconto di luci, di ombre e di riflessi
di Giuseppe Fantasia
94 18 settembre 2022 Grandi mostre

Idee

“Firefly doublepolyhedron sphere experiment”, una delle opere in mostra a Firenze.

A destra: l’artista danese, di origini islandesi

ro a Eliasson, impiegato in questo caso per destabilizzare la rigida architettura ortogonale di Palazzo Strozzi e metterne in discussione la percezione di struttura storica. Ci avevano già provato Ai Weiwei, Marina Abramoviü e Jeff Koons - protagonisti di altrettante, fortunate e visitatissime mostre del palazzo fiorentino – ma questa volta il curatore Arturo Galansino, già direttore generale della Fondazione Palazzo Strozzi, è andato oltre. «La mostra, che continuerà il successo intrapreso con Donatello, il Rinascimento, sarà un ve-

ro e proprio viaggio attraverso il nostro tempo, ovvero il tempo del luogo a cui si vuole dar voce e il tempo dei visitatori, sia a livello individuale che collettivo, composto dalle loro percezioni e memorie, dai loro sensi e pensieri».

Fuori e dentro l’edificio, sarete così attratti da molteplici stimoli luminosi, cromatici ed olfattivi e invitati a riflettere sulle modalità di relazione con l’ambiente che vi circonda, provando il “seeing yourself sensing” di Eliasson, la celebre formula con cui descrive questa esperienza di percezione amplificata e consapevole. Le installazioni si trasformeranno di continuo davanti ai vostri occhi e attraverso il movimento interagirete a seconda della vostra posizione.

«La mostra “Nel tuo tempo” rende possibile l’incontro tra opere d’arte, visitatori e lo stesso palazzo che è un contenitore d’arte, ma soprattutto un coproduttore di questa mostra e un partecipante attivo di un viaggio nel tempo», precisa l’artista danese-islandese che vive a Berlino. Anche noi visitatori abbiamo viaggiato e ha ragione lui quando dice che ogni nostra versione temporale, del nostro corpo e della nostra mente, «è diversa dalle altre» e – in quanto tale, «va vissuta fino in fondo». Alle prese con i nostri viaggi individuali, con i trascorsi e le esperienze diverse, «ci incontriamo così nel qui e ora».

«Le opere che ho concepito per questa mostra, a cui ho iniziato a pensare dopo una visita del palazzo nel 2015 si intromettono negli spazi esistenti con le loro particolarità, creando una coreografia di cui ciascuno è parte attiva, uno spettacolo di flussi e di trasformazioni spaziali, di movimenti esplorativi e momenti di contemplazione», racconta.

Opere che ci invitano a «divenire consapevoli dei nostri corpi, delle nostre menti, delle nostre emozioni»,

scrive nel catalogo illustrato, pubblicato da Marsilio, «perché sono opere che ci fanno guardare dentro di noi per riflettere sul modo in cui vediamo, in cui ci muoviamo, su come trascorriamo il tempo e pensiamo con l’arte». Una maniera per volgere lo sguardo all’esterno, agli spazi sociali che abitiamo, permettendoci di percepire e considerare il modo in cui li occupiamo: ed è sempre una sorpresa.

Del resto, allo stupore e all’inaspettato, Eliasson ci aveva già abituati nel 2003, quando l’allora giovanissima Tate Modern di Londra visse per qualche mese immersa nel tramonto ininterrotto di “The Weather Project”, l’opera che gli garantì la fama mondiale. Prima c’erano stati i progetti Green River in varie città, le quattro cascate artificiali del New York City Waterfalls poste lungo l’East River, in particolare sotto il ponte di Brooklyn, e quello alla Serpentine Gallery. Sempre a Londra, la Tate Modern è stata protagonista della monografica più ampia mai organizzata su di lui, “In Real Life” (che anticipò l’ultima mostra, “Life”, nel 2021 a Basilea) - l’ultima grande mostra vista prima delle chiusure per il Covid-19. Entrare e percorrere la stanza con l’opera vivente “Din blinde passage” (2010), avvolti in una nebbia gialla che diventava sempre più fitta, è stato uno dei tanti modi – il più sorprendente e coinvolgente – per renderci partecipi e consapevoli dei nostri sensi, delle persone che ci circondano e del mondo in generale. Alcune delle opere esposte ci introducevano negli spazi delle gallerie tra fenomeni naturali come gli arcobaleni, la pioggia, il vapore mentre altre ancora usavano riflessi e ombre per giocare con i nostri sensi e per testare il modo in cui percepiamo e interagiamo con il mondo esterno. Molte opere derivano dalle sue costanti ricerche nel campo della geometria complessa e dei mo-

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Grandi mostreIdee

Sopra: le opere “Beauty”; “Solar compression”, fatta di specchi convessi; “Room for one colour” con una luce gialla che inonda totalmente l’ambiente

delli di movimento e nascono tutte dal suo interesse spasmodico per la teoria dei colori. Ne avrete conferma visitando la mostra fiorentina, ben organizzata nel piano nobile come negli spazi della Strozzina, con le celebri “Fivefold dodecahedron lamp” (2006) - un dodecaedro che contiene un tetraedro di vetro a elevata riflettanza –e l’ipnotica “Eye see you” (2006) – in acciaio inox, alluminio, filtro di vetro colorato e luce monofrequenza.

Con “Your view matter”, il suo regalo a Firenze, potrete indossare uno speciale visore che vi permetterà di entrare in un mondo digitale costituito da sei diversi spazi virtuali e tutto da esplorare come il piano nobile del palazzo. Eliasson si confronta con le finestre storiche in un gioco continuo ed altalenante tra realtà e rappresentazione, presenza e assenza, luci, colori e ombre continue da far apparire il tutto come un grande set di un film. Dovunque volgerete lo sguardo, sarà la bellezza ad avere il sopravvento e non è un caso se “Beauty”, da lui realizzata negli anni Novanta e presente in mostra, sia la sua opera più iconica, un’installazione che vi porrà di fronte a un arcobaleno in cui fasci di luce bianca sono scomposti nei colori dello spettro visibile attraverso una cortina di nebbia. Iconiche sono anche opere come

“How do we live together” (2019), con il suo grande arco metallico, “Solar compression” (2016) e “Room for one colour” (1997), entrambi con una luce gialla che inonda l’ambiente, uno spazio vuoto in cui la vostra percezione sarà alterata dall’immersione nella luce di lampade monofrequenza che trasformano tutti i colori in sfumature di grigio, giallo e nero, accentuando la percezione dei dettagli.

Ultimo, non certo per importanza, il grande poliedro di vetri colorati “Firefly double-polyhedron sphere expe-

riment” (2020) che dialoga nella stessa stanza con “Colour spectrum kaleidoscope” (2003), grande caleidoscopio esagonale fatto di specchi dicromatici di vari colori, un oggetto da lui molto amato, perché – dice – «i caleidoscopi giocano sul fatto che ciò che vediamo può essere facilmente disorganizzato o riconfigurato. Utilizzano un approccio ludico per mostrarci diversi modi di guardare il mondo, rappresentano una prospettiva diversa: non sono meravigliosi?».

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L’importanza

di essere dilettanti

di Sabina Minardi

Non è un libro per chi ha la sindrome dell’impostore. E neppure per chi crede che competenza e professionalità valgano tutto. Per non parlare del talento: requisito troppo random ed elitario per puntarci su. Meglio scommettere su una qualità più democratica e universale: il dilettantismo. Siamo tutti principianti, non facciamoci illusioni.

“Il perfetto dilettante”, del designer e curatore d’arte olandese Erik Kessels, è un libro pubblicato da Corraini Edizioni e una mostra in corso a Mantova, “Complete amateur. Professione dilettante” (alla Galleria

Corraini fino al 14 ottobre), con le immagini di capolavori di dilettanti assoluti. Colpi di genio, trovate casuali, formidabili incastri ottenuti attraverso l’istinto più che la pratica e l’esperienza: equipaggiamenti, assicura l’artista, che imbrigliano la fantasia e spuntano la libertà creativa. Del resto, non è stato un abate agostiniano come Gregor Mendel, che sperimentava sulle piante nel suo tempo libero, a dare vita alla genetica moderna? E un’anonima baby-sitter – la riscoperta Vivian Maier - non ha forse fotografato i newyorchesi, nei loro vezzi e gesti privati, meglio di tanti professionisti? Gli esempi “jazzistici” - di gente non bloccata dai co-

dici e dalle regole - non mancano. Kessels ne allinea un bel po’: tatuaggi di mappe sulle mani per non perdersi mai; auto da sogno realizzate con materiali improbabili; minuscole sculture sulla punta di una matita; autoritratti via webcam dalle telecamere di sicurezza di tutto il mondo. Bizzarrie, arte che strappa spesso il sorriso, lapidi e menu, murales e veicoli, meglio se ricoperti interamente di peluche. Soluzioni poetiche, modi ingegnosi, rimedi estremi: come i vinili dei Beatles e i Rolling Stones, stampati di nascosto sulle radiografie dai ragazzi sovietici, negli anni in cui erano sonorità vietate. Esempi da non dimenticare, sembra suggeri-

Competenza, esercizio, professionalità? Strade sicure per l’omologazione, dice l'artista Erik Kessels. Nell’arte, come nella vita, serve la libertà del principiante. Sovversiva
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"Il perfetto dilettante” di Erik Kessels (Corraini Edizioni, pp. 156, € 26,50)

Da sinistra, in senso orario, arte dilettantesca: piccola scultura di Dalton Ghetti, artista che porta all’estremo le sculture in miniatura e incide la mina delle matite;

fruttiera trasformata in oggetto artistico da Daniel Eatock, rubando alla madrea l’idea di incollare bollini;

Sam Barsky e le foto ricordo dei posti che visita, indossando maglioni freestyle realizzati da lui stesso;

Window Shopping di Ralph Smith, fotografo surrealista di Derby, il telaio di una finestra regge due buste della spesa;

vinili stampati sulle radiografie, trucco usato dai ragazzi sovietici negli anni Cinquanta e Sessanta contro la musica straniera messa al bando

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Copertine di dischi fatte a mano da Mingering Mike, nome d’arte di un collezionista che ha “prodotto” da sé 150 cover di vinili di cartone.

A destra: dal libro “Il perfetto dilettante”, “Come vendere cianfrusaglie. Rispondi senza pensarci troppo. Questa distinta signora ha un paio di consigli per te”

re Kessels, che li ha scovati frugando tra soffitte, mercatini, gallerie: soluzioni non zavorrate dai know-how e dai codici dei mestieri.

Certo, non che di un elogio dell’improvvisazione si sentisse l’impellenza: tra mito della disintermediazione e spontaneismo social, il muscolo del dilettantismo è oggi quanto mai ben allenato e in libera circolazione. Forse la provocazione dell’artista è un’altra, ed è difficile resisterle: dimentichiamo ciò che sappiamo. Abbandoniamo le strade sicure. E, senza temere di sbagliare, muoviamo guerra a noia e banalità.

Zero talento alla Bauhaus

Semplicità, estetica, funzionalità. La forma segue la funzione. «Quindi, crede di avere talento?». «Credo, sì, forse… vorrei…». Gropius lo scruta. «Non ne hai colpa, Erich. Non lo sai, e nessuno te lo avrà mai detto. Ma il talento non conosce scorciatoie. Non è possibile». Walter Gropius è il deus ex machina della Bauhaus, Erich Kroll il protagonista e l’unico personaggio di fantasia de “La linea e l’ombra” (Giunti), romanzo di Alfredo Accatino ambientato nella leggendaria scuola di Dessau. Siamo nella Germania degli anni Venti del Novecento: qui, dopo il trasloco da Weimar e prima dell’apocalisse con vendetta nazista, viene inseguito il sogno di una rivoluzione nel design e nell’architettura che vive ancora oggi nelle tecniche, negli arredi e nelle facciate dei nostri palazzi. La cattedrale didattica e programmatica Bauhaus apre i suoi corsi nel 1926. I maestri sono mitologici (da Kandinskij a Klee), gli studenti creativi, ambiziosi, febbrili. A cominciare dall’élite dei Bauhäusler. Erich non riesce a essere uno di loro, scopre di non detenere quelle qualità che si era illuso di possedere. Non avere talento nel luogo supremo del talento. Una catarsi. «La Bauhaus ha rappresentato una delle più geniali utopie di tutti i tempi, un mondo nuovo giustiziato in culla», spiega  Accatino: «È stato la mia “Balena Bianca”: è sorprendente constatare quanto del nostro presente derivi ancora da quella visione. Il Bauhaus è morto e Ikea è il suo profeta. I social? Non voglio demonizzare questo strumento. Il rischio è credere che questo tipo di celebrità sia permanente. Se non possiedi strategia e contenuti, sparisci. Trovo meravigliosa la battuta “Essere famosi sui social è come esser ricchi a Monopoli”». Gli influencer come “uomini senza qualità” al potere? «Sono comparse di quello stesso sistema che li genera e li nutre. Quasi tutti svaniranno, resteranno solo i talentuosi». A proposito di talento: «Pesa meno di quanto dovrebbe ma se non ne hai sei spacciato».

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Bookmarks/i libri

A cura di Sabina Minardi

PROCESSO ALLA DEMOCRAZIA

Guerra, vaccini, partiti: “Non nel mio nome” scandisce Michele Santoro

FRANCESCA DE SANCTIS

La democrazia? «Una bugia, come la guerra». Ecco la frase chiave del j’accuse di Michele Santoro, che affida le sue riflessioni a un libretto snello ma denso, dove ce n'è un po' per tutti, a destra e a sinistra: “Non nel mio nome” (Marsilio), pamphlet che potrebbe far gridare allo scandalo - come già qualcuno ha fatto definendo Santoro un “putiniano” e un “novax” - o che potrebbe aprire uno squarcio nel muro del “pensiero unico” prevalente su tante questioni, dal Covid-19, appunto, alla guerra russo-ucraina. Un libro in perfetto stile Santoro, insomma. Schietto, feroce, provocatorio. E allora o con lui o contro di lui? Non è questo l'intento del saggio, in cui l'autore più che dare risposte sembra voler guidare a porsi le domande giuste: siamo sicuri che in Italia, che è una democrazia, si possa esprimere liberamente il proprio pensiero? L’unità nazionale è finita con la caduta del governo Draghi o prima? Perché la nostra democrazia ha smesso di essere quella che sognavano i padri fondatori? La sua analisi della democrazia («un gioco truccato che, invece di rimuovere privilegi e ingiustizie, li consolida e li difende») parte dall'Ucraina bombarda-

ta, per proseguire con una spietata critica nei confronti dei nostri politici, da Letta a Salvini, da Berlusconi al Movimento 5 Stelle («Mi sono stati subito simpatici. Mi inquietavano, però, la loro indifferenza alla forma delle istituzioni e della democrazia, l’ostentata autosufficienza che poi si è rivelata una corazza fragile per proteggere e nascondere impreparazione politica e ignoranza»). I ricordi accompagnano il ragionamento, che sottolinea come siano i cittadini a pagare le conseguenze. Anche di una informazione sbagliata, perché quando i mass media si alleano col governo «fanno comunicazione, non informazione». Santoro non nasconde di non avere una rappresentanza politica. Eppure, «sono sicuro che esiste un’altra strada da percorrere. Dobbiamo metterci in cammino con la forza e la determinazione dei migranti che attraversano il deserto». Servirebbe un partito che non c'è. Q

“NON NEL MIO NOME” Michele Santoro Marsilio, pp. 128, € 12

Vivere con la paura, con l’ansia che ti insegue, con il senso permanente di vulnerabilità. Accade alla protagonista di questo incalzante, commovente romanzo: una madre israeliana che col marito ha lasciato il suo Paese per far crescere il figlio in un posto più sicuro. In California ha tutto, finché quell’equilibrio si rompe, il passato torna e quel figlio adorato richiede uno sguardo nuovo. L’autrice, formazione da psicologa, scandaglia colpa e innocenza (traduzione di Raffaella Scardi).

“DOVE SI NASCONDE IL LUPO”

Ayelet Gundar-Goshen Neri Pozza, pp. 297, € 19

Più grande, più imponente, più forte: le basterebbe una scrollata di spalle per disfarsi di noi e prosperare come e meglio di prima. Appassionante nel tema e coinvolgente nella scrittura, l’evoluzionista racconta “storie di microbi, di umani e di altre strane creature”. Frutto di una natura più grande di noi per la sua diversità ancora largamente sconosciuta. Un viaggio in una trama di relazioni, che ci coinvolgono più di quanto siamo consapevoli.

“LA NATURA È PIÙ GRANDE DI NOI”

Telmo Pievani Solferino, pp. 199, € 16

Un patchwork di storie. Un collage di aneddoti. O, come suggerisce l’autrice, frammenti di emozioni incastrati come tetramini, i blocchi del Tetris che cadono dall’alto ma qui non importa che combacino tutti. Pezzi di Roma, la sua bellezza e la decadenza, le strade e gli interni, la pigrizia e gli slanci, i monumenti di ieri e gli abitanti di oggi, le cose che ama e quelle che detesta: le tante Roma narrate da poeti e romanzieri in un omaggio colto, ironico, coinvolgente.

“ROMA DAL BORDO” Loredana Lipperini Bottega Errante Edizioni, pp. 175, € 17

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Protagonisti

Nella serie di successo

“Call my agent” l’abbiamo vista ironizzare sulla sua presunta dipendenza da lavoro. La vedevamo fare acrobazie pur di stare su più set contemporaneamente, nella vita reale ha girato oltre centosessanta film di cui quattro mentre la maggior parte del mondo era fermo, durante la pandemia. Tra questi “L’ombra di Caravaggio” di Michele Placido, al cinema da novembre. Instancabile e pluripremiata, l’attrice francese Isabelle Huppert ha appena presentato alla 79° Mostra del Cinema di Venezia il film “La syndacaliste” di Jean-Paul Salomé, incentrato sulla storia vera di Maureen Kearney, rappresentante sindacale della centrale nucleare di una multinazionale francese. Sola contro tutti, denunciò pericolosi accordi top secret per difendere oltre cinquantamila posti di lavoro e fu vittima di violenza e abusi senza mai essere creduta.

Oltre alla lotta di Maureen per difendere i lavoratori, il film racconta anche il clima di sospetto che si genera intorno alla protagonista e allesueaccuse.

«Ho fatto un lavoro duplice, ci tenevo a rendere credibile sia il personaggio che i sospetti che si creano attorno a lei, vittima sospettata di aver messo su una montatura».

Quello degli abusi sulle donne è un temadecisamenteattuale.

«Non riguarda solo le donne, ma tutti, purtroppo. È un film che porta sullo schermo una storia importante, di cui sin dalla prima lettura avevo intuito tutto il potenziale politico».

Dal cinema alla realtà: si è mai chiesta se Maureen fosse o meno unavittima?

«Non mi importa saperlo, la considero una materia cinematografica e non mi interessa farmi un’opinione. Non ci interessava raccontare la storia “vera”, altrimenti sarebbe stato un documentario».

Invece è un film tratto dalle pagine della giornalista Caroline Mi-

Antigone

fa la sindacalista

chel-Aguirre. L’ha incontrata di persona?

«Abbiamo conosciuto sia lei che Maureen, sono venute sul set e mi sono state di grande ispirazione».

Che cosa l’ha colpita della vera Maureen?

«I suoi capelli biondi e gli occhiali inconfondibili, ho voluto copiare il suo look perché racconta molto di lei. L’ho considerata una sorta di maschera che mi ha aiutato a interpretarla, sono i piccoli dettagli che aiutano a rendere verosimile un personaggio». Non le fa effetto interpretare una donnarealmenteesistente?

«Anche i personaggi immaginari nella mia testa li vivo come reali. Allo stesso modo invento delle cose mie quando mi trovo a interpretare donne reali». Segue un metodo particolare nel farlo?

«Non ne ho uno specifico. Sul set prendo e vado, senza pensarci troppo. Un po’ come fa Maureen, che finisce in questa grande battaglia legale perché non si prefigura nulla prima, non sa a che cosa va incontro. Il film diventa sempre più cupo, il sospetto contagia tutti, persino il marito stenta a crederle. È un personaggio tragico, un’Antigone contro tutti».

Il coraggio di una donna sola. In lotta con un gigante economico che da vittima la trasforma in sospettata. La grande attrice francese porta in scena una toccante vicenda umana e giudiziaria
colloquio con Isabelle Huppert di Claudia Catalli
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È una donna che lotta per i diritti degli altri.

«Non è poco battersi per il bene di 50mila persone contro colossi dell’energia nucleare. Sin dall’inizio si ritrova a dover superare montagne».

Le attribuisce qualche colpa?

«Non essersi resa conto di combattere con i giganti, soltanto questo».

La ritiene più una vittima o un’eroina?

«Un’eroina, pronta a farsi portavoce di chi di voce non aveva. Non ci tiene a fare la vittima, vuole solo che la sua verità venga ascoltata».

Non è la prima volta che interpreta

donne che combattono ingiustizie, è una sua priorità nella scelta dei copioni?

«No, non ho una vocazione in questo senso, non ho mai considerato il mio mestiere come una missione».

Come mai?

«Perché il cinema non deve avere altra missione se non creare mondi immaginari. Non deve dare risposte.

Tutt’al più sollevare domande».

Dove sono finiti tutti i personaggi che ha interpretato finora?

«Altrove. Non li trattengo, non li sogno nemmeno. Neanche fatico per uscire da un personaggio: appena fini-

sco di girare sono già fuori».

C’è qualcosa per cui lotta oggi?

«Lascio guerre e combattimenti ad altri, mi batto solo per cose che non amo rendere pubbliche. Potrei dirle che mi batto per il cinema, inteso come il mio cinema Christine 21 a Parigi. Ma sarebbe una mezza bugia».

Perché?

«Perché di fatto se ne occupa mio figlio Angelo».

Sua figlia Lolita Chammah, invece, ha seguito le sue orme, e reciterà con lei in Caravaggio.

«Nel film c’è, ma non abbiamo scene insieme. Io interpreto una dama della nobiltà che si prende cura di Caravaggio e lo protegge».

Ha un lungo rapporto con il cinema italiano, in passato ha recitato con Gian Maria Volonté, è stata diretta da Marco Bellocchio, i fratelli Taviani, Marco Ferreri e adesso da Michele Placido.

«È stato bello ritrovarci, lo conobbi diversi anni fa sul set di “Storia di Donne” con Dominique Sanda e ho scoperto quanto sia bravo anche dietro la cinepresa».

Lei è una delle pioniere tra le attrici che hanno avuto ruoli femminili di spessore, le fa piacere essere considerata un modello?

«Ogni carriera e ogni storia personale è a sé. Alcune donne devono lottare per lavorare, io per fortuna no, mi è difficile immaginarmi come un modello per loro».

La situazione delle donne nel mondo del cinema nel frattempo va migliorando. Lo conferma anche lei?

«Negli ultimi anni le cose stanno cambiando, è un fatto innegabile. Ci sono importanti novità nel modo in cui le donne vengono trattate oggi, specialmente a livello economico, in varie parti del mondo».

Come vive il passare del tempo, da attrice?

«Non pensandoci, e sentendomi grata di avere ruoli importanti, come questo che mi ha donato Jean-Paul Salomé, richiamandomi dopo aver girato insieme “La Padrina”.

L’attrice Isabelle Huppert, 69 anni, all’ultima Mostra del Cinema di Venezia
18 settembre 2022 103 Idee Foto: M. BertorelloAfp / Getty Images
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Godard

Il più geniale, il più solo

Le opere del regista scomparso hanno segnato generazioni di cineasti e di spettatori.

E ora meritano di essere riscoperte

Era il più grande, il più geniale, il più incontenibile, il più autodistruttivo. E naturalmente il più solo. Con la morte di Jean-Luc Godard si chiude definitivamente l’epoca in cui il Cinema dominava incontrastato sul regno delle immagini. Nessuno infatti ha incarnato il destino della settima arte come il creatore della Nouvelle Vague. Nessuno più di lui, il primo a rinnegare la sua creatura, ne ha precorso tanto lucidamente l’evoluzione.

Gli spettatori ricordano soprattutto i suoi capolavori anni ’60. “Fino all’ultimo respiro”, “La donna è donna”, “Questa è la mia vita”, “Le petit soldat” (censurato per i riferimenti alla guer-

ra d’Algeria), “Il disprezzo”, “Bande à part”, “Masculin Féminin”. E “Pierrot le Fou”, dove il Jean-Paul Belmondo di “À bout de souffle” torna per fuggire verso la libertà. Salvo fallire e farsi esplodere dipinto di blu avvolto da candelotti di dinamite gialla sui versi de “L’eternité” di Rimbaud.

Destinato a segnare generazioni di cineasti (e di spettatori), quel finale indimenticabile segnava però anche un nuovo inizio. Dopo aver glorificato la bellezza di Jean Seberg, Anna Karina, Brigitte Bardot, Marina Vlady, Godard diceva addio al racconto e alle lusinghe del verosimile. L’ex critico autore di testi scintillanti, il figlio ribelle dell’alta borghesia ginevrina che

a 24 anni era stato bandito dai funerali della madre, il protestante mai sazio di provocazioni, liquidava la Nouvelle Vague per invitarci a non credere alle immagini ma a smontarle e interrogarle. Magari scoprendo l’immensità del cosmo in una tazzina di caffé (“Due o tre cose che so di lei”). Anche se la strada sarà ancora lunga.

Il ’68 lo vede al servizio della causa rivoluzionaria (“Lotte in Italia”, “Vento dell’Est”, “Crepa padrone, tutto va bene”, con le star di sinistra Jane Fonda e Yves Montand). Dal lutto di quelle utopie nasce la decostruzione delle immagini all’opera in lavori inclassificabili come “Ici et ailleurs”, “Numéro deux”, “Comment ça va”. Negli anni ’80 torna al cinema-cinema e ai grandi festival con “Sauve qui peut (la vie)”, “Passion”, “Prénom: Carmen”. Ultimi fuochi di un gusto iconoclasta paradossalmente fuso a un’incontenibile passione per il bello. Non solo cinema ma musica, arte, letteratura: nessuno contamina forme e materie meglio di Godard.

Tanto che nell’ultimo capitolo il cinema - immagine, suono, montaggio - diventa macchina per pensare e ripensare la Storia. E con essa le immagini che ci accompagnano da millenni, in uno slancio quasi religioso che costituisce uno dei punti più ardui e vivificanti di ciò che ci ostiniamo a chiamare cinema ma che con ogni evidenza va trasformandosi sotto i nostri occhi. E dopo la sua morte non sarà più lo stesso.

La sua opera alla fine è così vasta e labirintica da mettere in crisi gli esegeti. Ai saggi seguono le biografie, fitte di rimandi fra l’arte e la vita. Mentre le interpretazioni critiche culminano in Dizionari affannosi e innamorati. Nessuno dei suoi coetanei è stato forse più amato e odiato in vita. Ma nessuno, specie nell’era di TikTok e dello streaming, merita di essere riscoperto come lui.

di Fabio Ferzetti Jean-Luc Godard e l’attrice Anna Karina, nel 1960
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1930 – 2022Idee Foto: Getty Images
Una ragazza sul balcone di casa a Medellín
America Latina
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Il prete colombiano che dalla Liguria salva i bambini dai narcos

Don Rito Alvarez, sacerdote a Ventimiglia, ha fondato una onlus che ha sottratto migliaia di ragazzi alla schiavitù delle coltivazioni di coca nel suo paese

Luana De Francisco

Sa cosa cantano i contadini che lavorano nei campi di coca? “Il problema non è nostro: viene da lontano. Noi la coltiviamo, ma all’estero è dove va a finire. Sono i gringos che se la mettono nel cervello, dai più poveri alla più alta società. Noi, lavoratori a giornata, raccogliendo le foglie di coca sopravviviamo”. Sono nato nel Catatumbo, una regione a nord-est della Colombia al confine con il Venezuela, e a 21 anni ho avuto la fortuna di trasferirmi in Italia e di studiare: è stata la mia salvezza, perché invece di diventare uno schiavo dei narcos, ora predico la pace e offro a mia volta un’alternativa ai bambini».

Rito Julio Alvarez è stato ordinato sacerdote nel 2000 nella diocesi di Ventimiglia-Sanremo. Ci era arrivato nel 1993, grazie a una borsa di studio, ma già a 8 anni i genitori avevano pagato un maestro per insegnargli a leggere e scrivere nel villaggio controllato dai guerriglieri in cui abitavano. La sua famiglia viveva della coltivazione del caffè e questo avrebbe forse continuato a fare anche lui, se, verso la fine degli anni Ottanta, non fossero comparse le piantagioni di coca. Erano state sostituite alle colture locali con la promessa di nuove e migliori opportunità di vita per tutti e la popolazione si illuse che sarebbe stato davvero così. E invece, gli unici ad arricchirsi furono i gruppi armati che ne controllavano produzione e traffico. Finché, nel 1999, l’arrivo dei para-

militari inviati dal governo come strumento di controinsurrezione, per difendere i diritti dei contadini benestanti, non impresse un’ulteriore svolta, peggiore della prima. Perché fu da quel momento, con l’imporsi delle Autodefensas unidad de Colombia (Auc), di estrema destra, sui guerriglieri, raccolti chi nelle Fuerzas armadas revolucionaria de Colombia (Farc) e chi nell’Ejercito de liberacion nacional (Eln), tutti di estrema sinistra, che alle sopraffazioni si aggiunse l’uso sistematico della violenza e che la regione piombò nell’incubo dei massacri.

Basterebbe ascoltare i narcocorrido, le ballate della droga, per cogliere i sentimenti di una popolazione che, messa alle strette dalla miseria e dalla paura, da decenni ormai fatica a liberarsi dal giogo degli interessi criminali internazionali. Don Rito ci è riuscito e ha convertito l’atrocità delle esperienze vissute sulla propria pelle in energia positiva. Lo ha fatto nel 2007, inventandosi una fondazione che potesse offrire ai bambini le stesse occasioni che ebbe lui. “Oasis de Amor y Paz”, così si chiama l’organizzazione non governativa che ha istituito ad Abrego, nel dipartimento di Norte de Santander, rappresenta non soltanto un tetto, ma anche e soprattutto una prospettiva di istruzione ed emancipazione per centinaia di giovani altrimenti condannati a crescere nei campi, raccogliendo foglie di coca, o a impugnare un’arma al servizio delle

Foto: Lianne Milton / Panos Pictures / LUZ Storie
SFRUTTAMENTO
di
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organizzazioni che si contendono il controllo del territorio e, in particolare, della frontiera. «La nostra non è una mensa per bambini poveri, ma un luogo in cui coltivare i sogni e impegnarsi a realizzarli», spiega don Rito, che nella sua amata terra torna almeno due volte l’anno. «È questo che dovrebbe sapere chi consuma droga negli Stati Uniti e in Europa: dietro ogni dose, c’è una creatura mandata nelle piantagioni per settimane in cambio di un pezzo di pane». In Italia, sono state le donazioni raccolte dall’associazione “Oasi angeli di pace Odv” di Sanremo a contribuire alla costruzione di diverse case famiglia e al finanziamento degli studi, anche universitari, dei ragazzi.

«Potevo finire male anch’io e invece sono stato aiutato. Ma quando nel 2000 rientrai in Colombia per un mese - ricorda don Rito - non feci altro che celebrare i funerali di parenti e amici. Fu una strage. In una regione che conta circa 300 mila abitanti, si registrarono più di 10 mila morti. Tutte persone uccise dai paramilitari con rappresaglie

ed esecuzioni sommarie: chi con il machete o la motosega, chi trascinato dai cavalli o gettato in pasto ai coccodrilli. Anche mio cugino Michelangelo fu giustiziato - continua -. Gli spararono tre colpi di pistola alla testa davanti a un’assemblea, perché si era rifiutato di pagare una mensilità. A quel punto, settimo di undici figli e con la famiglia sfollata nel villaggio dei nonni, mi trovai a un bivio. Ma alla fine, tra la guerra e la pace, scelsi appunto la via della riconcilia-

zione». Una scommessa vinta, a giudicare dalle storie dei piccoli, anche orfani, strappati a quelle violenze. «Erano bambini arrabbiati – spiega –. Ricordo la risposta di Wilfran, quando gli chiesi cosa volesse fare da grande: “vendicare l’omicidio di mio padre”, disse tutto d’un fiato. Aveva appena 10 anni e pensai che fosse nostro dovere rimuovere quel pensiero. Il risultato è che ora va in giro a testimoniare messaggi di pace». Tra i tanti esempi, anche quello di Jorge. «È parente di un noto narcotrafficante e avrebbe potuto diventarlo a sua volta - afferma il sacerdote -. Ma ha vissuto con noi, si è laureato in Ingegneria e si è sposato. E di recente gli hanno anche proposto di candidarsi a sindaco». Non fu così per Fabian, amico d’infanzia di don Rito, che sognava di diventare un operatore turistico e finì invece ammazzato e poi sbranato da cani e avvoltoi, dopo essersi lasciato convincere a partire con i narcos.

Quella del Catatumbo, che nella lingua delle comunità indigene significa “territorio dei lampi e dei tuoni”, per la

Don Rito con i bambini  nella ”Oasis de Amor y Paz” ad Abrego, nel dipartimento colombiano di Norte de Santander Don Rito Julio Alvarez
America Latina
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frequenza delle scariche elettriche che lo attraversano, è una storia legata a doppio filo anche con l’Italia. «Ci sono almeno due nomi da tenere a mente - avverte don Rito -. Il primo è quello dell’ex presidente colombiano Álvaro Uribe, che appoggiò i gruppi paramilitari responsabili dei più sanguinosi eccidi anche tra i civili. Il secondo è quello di Salvatore Mancuso Gòmez, nato in Colombia da padre italiano emigrato da Sapri, in Campania, e messo a capo di quelle milizie». Soprannominato “El Mono”, la scimmia, Mancuso è stato estradato negli Stati Uniti nel 2008 con una condanna a 15 anni e 10 mesi per narcotraffico internazionale. Sarebbe stato lui, saldando gli interessi incrociati dei cartelli e della politica, a ordinare l’uccisione di almeno 837 persone in 136 mattanze. E sempre lui, d’accordo con la ’ndrangheta, a fare arrivare ingenti carichi di droga nel porto di Gioia Tauro. Dopo l’arresto, era stato suo cugino Domenico Antonio Mancuso a raccoglierne l’eredità, macchiandosi di ogni genere di crimini. Anche con lui il

filo porta all’Italia: ricercato con ordine di cattura internazionale, Domenico scelse di trasferirsi a Imperia, dove, dopo due anni vissuti senza neppure bisogno di cambiare identità, nel 2014 è finito a sua volta in manette.

Ultimamente le leggi sono migliorate - osserva don Rito, passando in rassegna i passi in avanti compiuti dal governo di Bogotà per smobilitare le formazioni paramilitari e per firmare accordi di pace con i guerriglieri -, ma alla base di tutto c’era e resta la piaga della corruzione. Lo Stato, nella nostra regione, è sempre stato assente e questo ha permesso alla cocaina di diffondersi. Oggi, con oltre 40 mila ettari di campi coltivati, la produzione totale annua supera le 500 tonnellate. Ma attenzione: i signori dei cartelli non vivono in Colombia. Lì, sono tutti vittime del sistema». Lo raccontano bene le due serie di “Narcotica”, che il giornalista Valerio Cataldi ha realizzato qualche anno fa per la Rai proprio con la collaborazione di don Ri-

to, e alcune delle inchieste sui traffici di droga con la Calabria coordinate dal procuratore Nicola Gratteri.

Esempio vivente di come una via d’uscita esista sempre, nel 2020 don Rito si è inventato la scuola del caffè. «Ho voluto offrire un’alternativa anche economica ai ragazzi e alle loro famiglie», spiega. È nato così l’“Oasis Cafè Colombia. Donde la coca ya non crece”, un progetto che, attraverso l’Oasis for peace di Monaco, aiuta i campesinos a riconvertire, laddove il clima lo consenta, la produzione della coca in quella del caffè. I chicchi vengono poi importati in una torrefazione di Ventimiglia, tostati e distribuiti in Italia e nel resto d’Europa. I proventi, va da sé, vengono reinvestiti in opere di bene per il Catatumbo. «La mia regione ha sofferto tanto», continua, ricordando come prima dell’avvento dei guerriglieri, a sterminare le comunità indigene dei Motilones Barì fossero stati i conquistadores e a distruggerne il territorio, radendo al suolo le foreste e inquinando le acque, fossero state le multinazionali petrolifere degli Usa sostenute dal governo colombiano.

«Credo in una Chiesa aperta, con i preti che vanno ad ascoltare i problemi della gente, anche quelli più scomodi, e che rientrano in parrocchia con la puzza delle pecore addosso - dice don Rito -. Certo, sono stato minacciato di morte, anche qui in Italia quando nel 2016 davo accoglienza ai migranti. Ma non ho paura, perché la mia opera non è contro qualcuno, bensì a favore dei più deboli. Di quei bambini che, per esempio, in una lettera mi scrissero di essere della Camorra, perché questo era il nome dato al villaggio in cui vivevano: non ne conoscevano neppure il significato». La sua missione ha salvato già un migliaio di destini, ma don Rito, che ora ha 50 anni, sa bene che la strada è ancora lunga. «Vorrei lanciare una sfida allo Stato - dice -: a me il 5 per cento dei soldi spesi per elicotteri e armi. Li spenderò in matite e quaderni. E tra dieci anni tireremo le somme, per vedere se abbiano reso più dieci mila soldati o mille insegnanti».

Ragazzi al lavoro nella ”Oasis de Amor y Paz”
Storie
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Fortezza Europa Ad Ady hanno tolto la figlia perché non poteva dimostrare di essere vedovo. Khaled invece ha ritrovato la tomba del padre. Così la Croce Rossa scava tra inchieste e faldoni per identificare chi è solo un numero MEDITERRANEO Dopo il naufragio, la burocrazia: a Catania tra i volontari che danno un nome a chi muore in mare di Linda Caglioni 110 18 settembre 2022

Chi non conosce Catania ha bisogno di qualche tempo prima di riuscire a orientarsi all’interno del suo camposanto. Grande da sembrare una città, di una città ricalca anche la vastità confusa, l’opposizione tra quartieri e stili. Dall’ingresso principale, una scalinata conduce ai mausolei dove riposano i resti delle famiglie nobili, mentre l’oro delle cappelle in stile neoclassico contrasta con la nudità della terra destinata alla sepoltura dei migranti, una distesa in cui si susseguono file tutte uguali di paletti neri. Sul loro acciaio portano incise combinazioni di numeri e lettere che servono a identificare coloro che sono stati sepolti anonimamente. Ma negli anni quei codici hanno finito per sostituire anche i nomi e cognomi di chi avrebbe potuto essere o era già stato identificato, ed è stato tuttavia registrato ufficialmente come

salma senza identità, a causa di una burocrazia lenta, complessa, per molti aspetti controintuitiva.

«Quando siamo sbarcati a Catania ho riconosciuto davanti alla polizia il cadavere di mia moglie. Ho confermato la sua identità, ho mostrato la foto del suo passaporto. Ho spiegato che la bambina di sette mesi che era con me era nostra figlia. Mi è stato detto che non c’era garanzia che io fossi il padre, e ci hanno separati, siamo rimasti lontani per qualche mese. Nel frattempo, senza che io venissi avvisato mia moglie è stata seppellita. E anche se so esattamente dove si trova, sulla lapide al posto del nome c’è un codice». Gli eventi a cui Ady si riferisce risalgono alla tarda primavera del 2017. Aveva circa 30 anni quando, con la moglie poco più giovane di lui e la figlia di pochi mesi, lasciò la Nigeria, terra d’origine, e partì dalle coste libiche per fare ciò che a

migliaia avevano già tentato di fare prima di lui: attraversare il Mediterraneo. Giunse in Italia solo grazie ai soccorsi, intervenuti per recuperare i superstiti dell’imbarcazione su cui erano rimasti bloccati da giorni, troppi. «Sono arrivati a salvarci proprio poco dopo che mia moglie era morta. In quei giorni non mangiavo, non avevo più forze. Ancora oggi mi sento in colpa: era mio compito proteggerla ma non ci sono riuscito».

Dal giorno di quel lutto ci sono voluti quattro anni prima che Ady riuscisse a ottenere un certificato di morte che gli permettesse, a cascata, di stringere in mano tutti i documenti che un adulto immigrato deve avere in tasca per vivere legalmente in Italia. «Poiché Ady si presentava agli uffici sempre come padre di una bambina, era come se mancasse perennemente un pezzo della sua storia personale, perché la madre era considerata viva dall’ambasciata ni-

La tomba di un migrante a Catania. A sinistra:  soccorsi durante un naufragio
Foto: A. Solaro / AFP via Getty Images, F. Villa / Getty Images Storie
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Fortezza Europa

geriana. Se affermava che era morta e che l’affidamento della figlia spettava a lui, gli chiedevano di presentare l’atto di morte. Che lui, però, non sapeva come ottenere», spiega Daniele Beretta, l’avvocato che ha aiutato Ady nel complicato iter per l’ottenimento di un atto civile che testimoniasse che era vedovo. «Ovunque andasse, qualunque richiesta facesse, la prima domanda che si sentiva rivolgere era “e la madre della bambina, dov’è?”».

Il paradosso burocratico in cui Ady si è ritrovato non è un’eccezione. Ogni anno, centinaia di persone tentano di mettersi in contatto con le associazioni che operano nei luoghi di sbarco per scoprire cosa ne è stato dei loro cari. A ogni corpo mai trovato corrisponde una famiglia costretta a rimanere sospesa. Per avere un’idea realistica della vastità del problema, basti sapere che secondo il rapporto Counting the Death elaborato dalla Croce Rossa Internazionale con la delegazione del dipartimento forense di Parigi, si hanno i resti utili all’identificazione soltanto del 13.1 per cento dei 19.803 migranti risultati dispersi tra il 2014 e il 2019 in Italia, Grecia e Spagna.

Questo è il motivo per cui le madri, i padri, i figli che riescono ad avere conferma del decesso del proprio congiunto si ritengono fortunati. Anche se, nella maggior parte dei casi, devono poi affrontare un altro calvario: l’iter per avere un certificato che ne attesti la scomparsa, un pezzo di carta senza il quale rischiano di restare bloccati in un tempo indefinito in cui la persona cara non è più viva, ma la legge non la riconosce ancora in quanto morta. «Non avere un atto di morte significa per i parenti non essere considerati vedovi, non poter chiedere l’affido dei figli del defunto, non poter ereditare. In sostanza, comporta l’impossibilità di andare avanti», racconta Silvia Dizzia, responsabile del servizio Restoring Family Links di Catania, il programma della Croce Rossa che lavora al ripristino dei contatti familiari. «Quando la nostra città ha iniziato a essere luogo di sbarco, molte persone si sono messe in contatto con noi per sapere dei loro ca-

ri. Ma non sempre era possibile rispondere. Così abbiamo sentito il bisogno di trovare un nuovo e più efficiente modo di restituire un nome alle salme».

Tutto è partito dalla mappatura dell’area cimiteriale, e dal successivo studio dei faldoni depositati in Procura, la cui sequenza identificativa di numeri e lettere ricalca quella riportata sulle lapidi anonime. Il secondo passaggio ha riguardato l’incrocio di tutte le notizie a disposizione sulle vittime, un confronto tra gli elementi forniti dalle famiglie e le informazioni contenute nei documenti di indagine: dalle caratteristiche fisiche agli effetti personali, dalle notizie sul viaggio alle testimonianze di chi era presente al momento del decesso. Lettere, fotografie, oggetti e segni particolari come cicatrici o tatuaggi si sono così trasformati in strumenti per ordire la trama in cui riscrivere un unico nome, diverso dagli altri 260, tante sono le persone migranti sepolte al cimitero catanese. «Siamo partiti dall’idea che i corpi abbiano qualcosa da raccontare. Quando abbiamo iniziato a sfogliare i fascicoli grazie a un protocollo siglato

con la Procura, con il Comune, e tutte le autorità coinvolte nelle operazioni di sbarco, ci siamo accorti che a volte le salme erano già state riconosciute dai parenti o dagli amici», continua Silvia. «Solo che i nomi erano rimasti fermi lì, agli atti del procedimento penale a carico di ignoti aperto per indagare su quelle morti».

Un responsabile di questa falla comunicativa tra uffici, tuttavia, non esiste. In Italia non c’è alcuna legge che preveda che le informazioni contenute nei faldoni delle indagini, tra cui a volte anche gli stessi nomi di chi muore, siano trasmesse all’Ufficio morti del Comune e possano essere usate per evitare l’anonimato. Si tratta di un mancato passaggio tra piano penale e piano civile a causa del quale, però, decine di nomi scivolano nell’oscurità, rischiando di restare intrappolati non sui fondali del mare, ma nei cassetti e negli archivi delle varie procure.

Nell’opacità di una normativa che si è rivelata quanto mai inadeguata nel far fronte alle responsabilità etiche e ai bisogni emersi con la crisi migratoria, la squadra del Restoring Family Links della Croce Rossa di Catania ha trovato il

Un naufrago in attesa di essere soccorso dalla nave di una Ong tedesca nel Mediterraneo
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modo di portare un po’ di luce lungo il sentiero dei diritti. «Studiando nel dettaglio la legge, abbiamo scoperto che ogni persona che abbia interesse a che l’identità sia recuperata può depositare un’istanza in Procura e far sì che quest’ultima, a sua volta, si attivi per chiedere al Tribunale civile di rettificare gli atti di morte anonimi e sostituirli con certificati con nome e cognome», prosegue Silvia. In sostanza, al procuratore viene chiesto di “riaprire il caso”, e di sfruttare ai fini della identificazione le informazioni raccolte durante le indagini e rimaste inutilizzate.

È grazie a questo meccanismo che Ady è riuscito a dimostrare alla burocrazia che sua moglie era morta. Ed è sempre grazie allo stesso iter che lo scorso 18 giugno, durante la cerimonia di inaugurazione ufficiale di questo nuovo servizio, tre migranti hanno ricevuto una vera lapide. Uno di loro è Hussein Mohammed Chreiki, siriano di 68 anni che ha perso la vita in un naufragio avvenuto nel 2016. «Quando da Catania ci hanno telefonato per dirci che avevano scoperto dove era stato sepolto mio padre, ho pensato per prima cosa a mia madre. Non poteva accetta-

re che i suoi resti fossero finiti persi nel Mediterraneo o, peggio, che il suo corpo fosse stato bruciato», ha raccontato Khaled, il figlio di 34 anni. Benché non sia riuscito a partecipare alla cerimonia della posa della nuova lapide, è attraverso una chiamata WhatsApp dalla Germania che ha condiviso i dettagli della storia di suo padre. «Il giorno in cui è morto sono stato chiamato nella notte da un conoscente. Quando ho sentito quelle parole ho avvertito la mia vita farsi nera. Mio padre era un signore di 67 anni. Sapeva nuotare, appena si è accorto che l’imbarcazione si stava spezzando sotto di lui mi hanno detto che ha aiutato quante più persone ha potuto, finché non ce l’ha più fatta. Una volta recuperato, il suo corpo è stato messo sottoterra con la sigla N.N. Ma ora ha di nuovo un nome».

Adesso che questo sistema è stato ufficialmente inaugurato, l’obiettivo è farlo conoscere, diffonderlo ad altri luoghi di sbarco affinché si dia vita a un sistema di dati incrociato sempre più ampio. Ma la strada è lunga. Le cifre dicono che in Italia dal 2014 al 2019, il tasso

di identificazione dei corpi recuperati è del 27%, poco più di un quarto. Secondo Filippo Furri, ricercatore associato per il progetto Morti in contesto di migrazione (Mecmi), il problema è connesso tra le altre cose a un’idiosincrasia fra le tempistiche necessarie alla burocrazia per l’identificazione e quelle previste per la sepoltura. «I corpi non possono “aspettare”, rispondono a una dimensione più sbrigativa rispetto alle carte. I tanti indizi presenti nei documenti della Procura e della Prefettura potrebbero essere usati per l’identificazione, ma per il loro utilizzo occorre la mobilitazione delle famiglie che, nel frattempo, devono ottenere visti per muoversi, spedire documenti. Senza contare che, in alcuni casi, scoprono della morte quando ormai il corpo è stato sepolto», spiega l’antropologo, che anni fa, insieme alla collega Carolina Kobelinsky, aveva steso una guida per le famiglie sulle procedure di identificazione. «Prima della sepoltura viene estratto il Dna, per garantire di poter effettuare l’identificazione in caso di richiesta successiva. Ma è un tipo di esame che porta con sé non poche complicazioni pratiche, oltre al fatto che è molto costoso», conclude Furri.

La normativa italiana prevede che debbano trascorrere dieci anni prima che sia decretata la morte presunta di una persona di cui non si sa più nulla. «Ma, anche prendendo in considerazione questa ipotesi, non è detto che si tratti di un passaggio che coincide con l’ordinamento dei paesi d’origine», fa presente Cecilia Siccardi, ricercatrice dell’Università Statale di Milano esperta di problematiche giuridiche legate al fenomeno migratorio. «Purtroppo nel nostro Paese non c’è nessuna norma che preveda che l’identificazione sia un diritto. Ma è ovvio che se non si identifica un corpo, oltre a violare la dignità dei morti, che è un principio costituzionale, si lasciano i familiari in una situazione di sofferenza estrema perché continuano a cercare. Tutte le persone, però, come ha stabilito la Convenzione europea dei diritti dell’uomo, hanno il “right to truth”, il diritto a sapere».

Il padre di un migrante morto, identificato dalla Croce Rossa, viene accolto a Catania
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Incroci, droni e pellet.  Per gli olivi in Salento inizia una vita nuova

Nuove varietà resistenti al batterio killer. Tecnologie d’avanguardia per risparmiare acqua. E uno sbocco economico per gli alberi secchi. La corsa verso nord dell’epidemia forse rallenta, ma di certo l’inventiva cresce

di Angiola Codacci-Pisanelli

Il futuro del Salento corre a fianco della superstrada Brindisi-Lecce. Sono i piccoli olivi argentati che ogni tanto spiccano ai lati del nastro d’asfalto, con i loro tronchi sottili allineati in fitti filari legati con un tubo di plastica nera. È l’avanguardia dell’olivicoltura: piante piccole come alberi da frutto, pronte a offrire il raccolto a macchine in grado di raccogliere le olive rapidamente, riducendo tempi e costi del lavoro umano. Il passato è nei campi nati coperti di olivi inariditi, con i tronchi contorti circondati da una raggiera di rametti secchi, un’aureola grigia che chiunque abbia frequentato il Salento negli ultimi dieci anni ha imparato a riconoscere. Qualche decina di chilometri a Ovest, verso Gallipoli, alberi ormai morti da anni vengono sradicati, fatti a pezzi e trasformati in cippato, pellet di grandi dimensioni da bruciare nei termovalorizzatori. Anche questa è una novità: fino all’anno scorso il legno degli olivi uccisi dalla xylella non aveva nessun valore. Con la guerra in Ucraina, però, con il crollo delle importazioni di legname e i prezzi del combustibile per le stufe schizzati alle stelle, si è aperto un mercato. A chi inorridisce all’idea che gli olivi vengano bruciati risponde Fernando Carlino, che ha iniziato a trasformare il legno d’olivo in cippato una ventina d’anni fa, quando il legno disponibile era solo quello della pota-

tura: «Ogni estate vanno a fuoco decine di oliveti abbandonati, con grande rischio per animali, case e vigili del fuoco. E un inquinamento incontrollato: gli incendi producono diossina che nei termovalorizzatori, con la combustione a 800 gradi, si disintegra».

Il futuro cresce nelle serre in cui si selezionano nuove piante resistenti alla xylella, il batterio che in poco meno di dieci anni ha ucciso quasi tutti gli olivi del Salento. Finora solo due varietà sono state certificate come resistenti alla malattia: una è antica, il leccino, l’altra moderna, la F17/Favolosa, selezionata dal Cnr. «Ma due sole varietà non bastano, non possiamo pensare di rilanciare l’olivicoltura locale con così pochi tipi di piante», spiega Giovanni Melcarne, olivicoltore di Gagliano del Capo che è da anni in prima fila nella ricerca di una soluzione all’epidemia. La prima frontiera è stato l’innesto: rami delle due varietà resistenti vengono innestati su tronchi secolari di altri tipi di olivi. Tre anni fa Melcarne ha presentato il primo olio spremuto dal raccolto di piante innestate, ma presto questa strada ha mostrato i suoi limiti: «È una soluzione importante da un punto di vista paesaggistico perché permette di mantenere in vita olivi secolari, ma non è pensabile per una produzione che dia risultati economici accettabili», ammette. Sono di nicchia anche le pro-

spettive di coltivazioni tropicali: «Ci vuole un terreno particolare, e anche l’acqua per l’irrigazione deve avere determinate caratteristiche. In Italia l’avocado, come le altre coltivazioni tropicali, resta una possibilità di nicchia, non una soluzione per una voragine economica come quella provocata dalla xylella». Per questo i tecnici del Cnr che si appoggiano ai terreni di Melcarne stanno selezionando nuovi esemplari. «Abbiamo incrociato le due varietà resistenti con le piante tradizionali come la cellina di Nardò», continua Melcarne. «Le abbiamo fatte crescere qualche anno e in questi giorni stiamo inoculando il batterio della xylella». A guidare lo studio è Maria Saponari del Cnr di Bari, che è tra i massimi esperti del batterio. Ha anche partecipato al recente studio che fa risalire la contaminazione all’arrivo di una pianta di caffè dal Costa Rica nel 2008: due anni prima che gli agricoltori notassero i primi segnali di un disseccamento “strano”, e cinque anni prima dell’allarme ufficiale. Questo significa che il batterio ha avuto cinque anni per correre libero nel Salento e oltre, trasportato nelle regioni del Nord dalle ruote delle macchine dei turisti al ritorno delle vacanze. Non solo: da quando è stata dichiarata l’emergenza, dal Salento non si può esportare neanche una foglia di cappero, una perdita enorme per i vivai locali. Per

Resilienza
DOPO LA XYLELLA
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anni però è continuato lo scempio degli olivi sradicati e rivenduti in Norditalia. L’idea che tra il 2008 e il 2013 quegli alberi avrebbero potuto portare la xylella nell’intero Paese mette i brividi, ma evidentemente la Natura era dalla nostra parte. Del resto in California, dove un batterio simile aveva iniziato ad aggredire le viti, per salvare l’industria del vino è bastato spostare le coltivazioni verso Nord.

Come le guerre, i terremoti e le altre calamità, anche l’epidemia di xylella ha portato alla luce il meglio del Salento e della solidarietà di tutto il mondo. Alla fine di ottobre conosceremo i vincitori del concorso organizzato dall’Università del Salento e dal gruppo bancario Sella per idee innovative per il rilancio dell’economia e del territorio. Tra i progetti finalisti, adozione a distanza di olivi (Olivami) ma anche riforestazione (XFarms), rilancio della

macchia mediterranea (Mirtiko!) e resistenza all’epidemia attraverso il controllo dell’insetto che trasporta il batterio (VAX) o lo sviluppo di microrganismi antagonisti (SIRITA). È già partita invece la sperimentazione del progetto OliveMatrix, sostenuto dalla Coldiretti: un sistema di controllo fatto con sensori e droni collegati a un software finalizzato principalmente alla riduzione del consumo di acqua, un tema particolarmente importante per le nuove piantagioni che hanno bisogno di un’irrigazione continua, a goccia o sotto terra. Intanto la Fondazione Sylva, ideata e presieduta da Luigi De Vecchi, continua a riforestare terreni demaniali incolti che diventano allo stesso tempo verde pubblico, scuola di ecologia, scrigni di biodiversità e bastioni contro la diffusione della xylella. Per questo alberi e cespugli (in un solo anno di vita la fondazione ne ha già

piantati 50mila) sono rigidamente scelti tra specie che non rientrano tra quelle colpite dal batterio, che attacca oltre settanta specie, dal mirto alla rosa, dal cisto al pistacchio. L’ultimo progetto realizzato da Sylva sono dieci ettari a Minervino, il prossimo, grande il doppio, sarà a Specchia. «Prima della deforestazione che ha portato alla monocoltura di olivi, il Salento era un’enorme foresta di lecci e querce vallonee», racconta De Vecchi. «Noi cerchiamo di ricreare la biodiversità dando un esempio che speriamo venga imitato. Come stanno facendo le scuole: a Minervino abbiamo spiegato che oltre ai 3500 abitanti del paese stavano per arrivare altri 10mila esseri viventi, gli alberi. E l’entusiasmo dei ragazzi è stato tale che l’associazione Il Veliero, una rete di cinquanta scuole della provincia, ci ha già proposto di ripetere l’esperimento in altri comuni».

Foto: Pischettola NurPhoto via Getty Images Un oliveto a Ruvo di Puglia, nella zone a rischio di diffusione dell’epidemia di xylella
Davide
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Storie
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La morte degli olivi di Puglia ha colpito l’opinione pubblica in tutto il mondo. «Gli esperimenti sulle piante li facciamo in una “screen house” che ci è stata regalata anni fa da una rivista svizzera», ricorda Melcarne. «Un giornalista di Merum era venuto a intervistarci all’inizio dell’allarme. La redazione e i lettori sono rimasti così colpiti dalla storia da raccogliere trentamila euro, con una colletta che ha coinvolto tedeschi, svizzeri e austriaci». Si rivolge ai finanziatori anglofoni invece Helen Mirren nel video girato da Edoardo Winspeare per Save The Olives, associazione portata alla Milano Design Week dall’azienda Natuzzi, che le ha dedicato l’installazione “Germogli". «Ventuno milioni di olivi sono morti», ricorda l’attrice inglese, che ha scoperto il Salento nel 2007, quando la campagna era ancora verde, e proprio negli anni in cui la xylella cominciava a diffondersi ha comprato l’ormai famosa masseria di Tiggiano. Quest’anno è stato particolarmente duro in questa parte del Salento. «La costa tra Leuca a Otranto sembrava essere stata risparmiata», conferma Patrizio Ziggiotti di Save The Olives, «e ora sembra che gli olivi siano stati colpiti tutti insieme». La galoppata verso Nord inve-

ce sembra aver rallentato: alberi infetti sono stati trovati a Monopoli e Alberobello, ma a Canosa la strategia di eradicazione ha funzionato, facendo sparire i segni di infezione scoperti due anni fa. È forse la prima volta che si registra il successo di una strategia che fin dall’inizio è stata presentata come unica speranza ma che sembrava arrivare sempre troppo tardi: il batterio resta latente per almeno tre anni, quindi alberi che sembrano indenni possono essere malati e infettivi. «Davvero non capisco perché tra Bari e Brindisi gli olivicoltori tendano a ripetere i nostri errori», si chiede Ziggiotti, «invece di fare quello che noi abbiamo imparato troppo tardi». Delusa finora la speranza di trovare un pesticida in grado di combattere il batterio (ma uno studio promettente sul controverso Dentamed è stato pubblicato in aprile da Nature), l’unica strategia concreta è l’innesto preventivo. «Si prende un olivo ancora sano, lo si pota completamente e si innesta con rami di una delle specie resistenti», spiega Ziggiotti. In due o tre anni la chioma è di nuovo folta: «Per gli alberi millenari tra Brindisi e Bari c’è ancora speranza, ma non si deve perdere tempo».

Intanto, a dieci anni dall’allarme per

l’epidemia, gli ulivi uccisi dalla xylella conquistano un posto nell’immaginario pop e artistico. A Nardò un campo di olivi secchi è diventato un’opera di “land art” dopo l’intervento di Ulderico Tramacere, che lo ha intitolato “Il campo dei giganti”. Tronchi rinsecchiti o sformati da potature parziali si incontrano anche nelle immagini che accompagnano una nuova canzone di Giuliano Sangiorgi, a denunciare il contrasto tra ieri e oggi, tra le fronde dei campi del Barese ancora sani e gli scheletri che costellano il Salento. Scheletri che danno una fitta al cuore di chiunque sia cresciuto circondato da quel verde, che fanno pensare ai salentini quello che confida un’amica: «Per fortuna quando gli olivi hanno cominciato a morire, mia madre già non c’era più». Nel video di “Giovani wannabe” dei Pinguini Tattici Nucleari però il tronco secco di un olivo sorregge le effusioni di una coppia in vena di romanticismo: il contrasto non c’è più, la tragedia è passata, il dramma è finito. In fondo è normale, ai ventenni che affollano le discoteche di Ugento e Gallipoli questo paesaggio non fa impressione: loro gli ulivi del Salento li hanno visti soltanto così.

Olivi uccisi dalla xylella a Gagliano del Capo. A destra: Giovanni Melcarne mostra alcune piantine degli incroci a cui sta lavorando assieme al Cnr
Storie Foto: Nicola Zolin / Redux / Contrasto (2) Resilienza
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Ho visto cose/tv

IL PROGRAMMA DI DIACO? BELLA, MAH

Il nuovo talk pomeridiano di Rai Due è un confuso confronto tra generazioni

BEATRICE DONDI

Uno spettro si aggira per la televisione. E no, non è il gender, anche se volendo scendere nel dettaglio, il dibattito sul pericolo Peppa Pig sarebbe quasi più avvincente. Si tratta invece di “BellaMa’” (Rai Due), il primo caso di programma del tutto improvvisato nonostante gli estenuanti mesi di preparazione atletica millantati a più non posso. Le certezze di questo “gioco di parola”, sulla carta un’arena generazionale di intrattenimento pomeridiano, sono due: la prima è che sono previste diverse puntate. La seconda è che il titolo deve essere piaciuto parecchio perché viene declinato appena possibile, con la Bella prof, il Bello Quiz e così via. Per il resto invece, si va un po’ come viene. Dovrebbe essere, forse, un quiz sul significato dei termini, di ieri e di oggi (e che Rispoli li perdoni), intervallato qua e là da repertorio, interviste fiume a personaggi scelti per meriti anagrafici e molti applausi, per un incrocio avanzato tra età diverse che potrebbero incontrarsi a un certo punto. Da una parte quindi ci sono i giovani, under 26 che dicono cose estreme come tag, stories, trapper, dall’altra i boomer, dai 56 ai novant’anni, che per far vedere di essere in target lavorano copertine all’uncinetto per i pronipoti. Il restante popolo non è invece pervenuto, ma difficile pensare che si stia strappando i capelli

per l’esclusione forzata. E tra «citazioni giocose perché sono nel gioco» si galleggia in una vaghezza che ricorda gli acquari casalinghi, con pietruzze buttate a caso sul fondo, pescetti spauriti che si schiacciano contro il vetro e briciole di cibo sulla superficie. Alla guida di questo certo non so che, è stato posto un eroico Pierluigi Diaco, che per confrontare due generazioni inconfrontabili, ha buttato la camicia alle ortiche, visto che il maglioncino a pelle fa sempre giovane quasi come Berlusconi su Tik Tok. Con un tono di voce sopra di qualche ottava e una forzata cadenza romanesca («ho sbagliato ma chissene», «Se semo capiti», «Così so boni tutti»), diffonde baci e abbracci, saluta i suoi molteplici amici («Ciao Valeria, ciao Alex, ciao Maurizio») e intervalla il tutto con frasi alla mano, tipo «Io ho dimestichezza col lato B». Alla fine di tre lunghissime manche in cui i concorrenti usano pupazzi di gomma al posto dei pulsanti e si saltella tra incursioni social, rapporti con Dio e ricordi d’amore delle signore imbiancate, viene da chiedersi a chi si dovrebbe rivolgere questo oggetto bizzarro, a cui mancano varie cose ma soprattutto l’acca perduta di Gianni Rodari: che se si fosse intitolato Bella Mah forse sarebbe stato tutto più chiaro. Q

Un’icona dei nostri tempi. Dove cercarla? Come stabilire a chi affidare questo difficile fardello? Mentre ci pensate arrivano a raffica i post di Britney Spears, che dice che quasi quasi decide di non esibirsi mai più nella vita perché troppo traumatizzata. Mentre lo dice posta una foto di lei nuda di spalle, con un cuoricino sul fondoschiena. Voi tornate alla vostra ricerca, senza farvi distrarre, ma Britney è più forte. Arriva l’annuncio di Elton John, o meglio della

sua sezione Esercito della salvezza, che dopo George Michael, Robbie Williams e altre star in crisi, ha pensato di dover aiutare Britney e quindi incidere un pezzo insieme a lei. Peccato che Elton negli ultimi tempi ha capito che la cosa migliore, per fare meno fatica possibile, è plagiare se stesso, cosa legalmente non perseguibile perché nel caso dovrebbe fare causa a se stesso, e quindi riprende le quattro note che erano il gancio melodico della vecchissima Tiny dancer, quando dice “hold me closer” e fa un nuovo pezzo che si intitola giustamente Hold me closer, sul quale duetta con Britney.

Lodevole, ma se andate a leggere la cronaca dell’evento scoprite che il pezzo è stato registrato a distanza, Britney in una saletta di Beverly Hills circondata da candele profumate in compagnia di suo marito Sam Asghar, e Elton con suo marito nella sua villa nel sud della Francia, e neanche nello stesso momento. Quindi aiutare sì ma fare due chiacchiere in presenza sarebbe stato troppo oneroso.

A quel punto voi tornate alla vostra ricerca di chi potrebbe impersonare il ruolo di icona dei nostri tempi, ma vi riappare con prepotenza un altro post di Britney che balla, neanche troppo

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GINO CASTALDO#musica Alla ricerca dell’icona perduta

Scritti al buio/cinema

MAIGRET INDAGA SULLA SETTIMA ARTE

La miracolosa espressività di Depardieu per la creatura più nota di Simenon

FABIO FERZETTI

Il titolo è infedele, l’adattamento libero, l’ambizione scoperta. Portare sullo schermo “Maigret e la giovane morta”, 45mo titolo del ciclo, intitolandolo seccamente “Maigret”, significa voler dare una sorta di versione definitiva, o almeno aggiornata, della creatura più celebre di Simenon. Affidarlo a un Depardieu ormai prigioniero della sua stazza (oltre che della sua storia), ma ancora di miracolosa espressività, porta poi il film di Leconte in una direzione doppiamente personale. Come se attraverso il corpo e lo sguardo del commissario, Depardieu indagasse anche sullo stato di salute del cinema. O meglio di quanto resta di un cinema che una volta esprimeva star del suo genere. La settima arte, macchina delle illusioni ma non solo, ha infatti un suo ruolo nell’inchiesta sul caso di una ragazza ritrovata misteriosamente morta che in apertura abbiamo visto recarsi a una fastosa festa di nozze. Quanto alla salute malferma del commissario, invade lo schermo fin dall’inizio. Proiettando quel caso in una dimensione ancora più intima. Biancheria dozzinale sotto un abito da gran sera, il corpo devastato dalle coltellate, l’uccisa non sembra aver lasciato tracce. Chi era, da dove veniva, come viveva? La brutalità del delitto e la pulizia di quel viso risvegliano in Maigret il

bene, davanti al telefonino e ai suoi 42 milioni di follower come una qualsiasi ragazza del pianeta che senza alcun motivo al mondo si riprende mentre accenna qualche passo di danza per nulla originale, quelle cose che si fanno vedere ai propri amici, a patto che non siano più di una quindicina. Lei ora è libera, da pochi mesi si è liberata da 13 anni di sottomissione alla tutela paterna, descritti come un incubo. Voi non vi fate influenzare, guardate altrove, scorrete i volti e le facce dei più potenti e vistosi personaggi della nostra epoca, per un momento pensate anche di prendere a simbolo il mondo Ferragnez, che i figli li mostrano con disinvoltura, senza un briciolo di rimorso, ma lei, Britney, ritorna in pista

ricordo della figlia scomparsa - ma è solo un attimo, un’ombra scura che Leconte riassorbe nel passo lento delle indagini, nella disillusione totale del commissario («Come si sente?», gli chiedono alla morgue davanti al cadavere. E lui: «Nudo»). Ma anche nell’uso magistrale di forme e tic da “cinéma de papa”, e in particolare delle scenografie. Una Parigi anni Cinquanta che non sembra ancora uscita dal dopoguerra, popolata da sopravvissuti lituani, da affittacamere ficcanaso. E da un mondo di ragazze di provincia che cercano strade facili per la sopravvivenza (sì, volendo c’è anche l’ombra del MeToo).

Un’occasione d’oro per il regista di “Monsieur Hire” (altro Simenon), “Il marito della parrucchiera”, “La ragazza del ponte”, uno degli ultimi esponenti di quel gusto sapientemente artigianale, sempre corretto da un tocco personale, chesprofondainquestopassatofittizioconlavoluttàdell’ultima volta. E la classe del grande direttore d’orchestra che sa accordare alla perfezione giovani semisconosciute a un mostro sacro come Depardieu. Q

anche su questo perché lei al contrario i figli non li vede da tempo e dice di soffrirne a bestia, che da quando si sono allontanati da lei, il suo cuore si è come fermato. Nel frattempo continua a postare foto e brevi video con piroette, nudità discinte coperte da cuoricini, sembra soffrire, sono immagini inquietanti dietro le quali si percepisce il riverbero sonoro dei suoi successi, di milioni di copie vendute, di ascese, decadenze, disturbi mentali, si vede il peso del successo quando è troppo, quando è troppo artificioso, quando è insostenibile. Alla fine viene quasi un sospetto. E se fosse lei l’icona dei nostri tempi che cerchiamo? No, non può essere.

Britney Spears e Elton John
18 settembre 2022 119 Foto courtesy of: AnsaUfficio Stampa RAI, J. Mc CarthyGettyImages
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Noi e Voi

ULTIMA CENA, DOV’È LO SCANDALO

RISPONDE STEFANIA ROSSINI

Cara Rossini, non sono un bigotto, tutt’altro, però non posso trattenermi dal giudicare vergognoso lo spot che da giorni viene trasmesso in tv. Mi riferisco ad una pubblicità che propone le polizze assicurative più convenienti usando indebitamente una versione animata dell’Ultima Cena di Leonardo da Vinci e presentando Gesù e gli apostoli come avventori da strapazzo in una degradata bettola riducendoli al ruolo di scadenti comparse. Strano che i pubblicitari non abbiano insozzato ancora di più la scenografia dello spot usando suore e sante che girano per i tavoli in minigonna mescendo vino. E allora? Viva la volgarità e la blasfemia e si brindi al dio-denaro... tanto, qua, Allah non ci sta! Se è questo lo specchio dei tempi siamo proprio nella più puzzolente cloaca che cerca di coprirci anche gli occhi. Io non ci sto! C’era una volta sulla bocca di tutti il detto “Scherza con i fanti ma lascia stare i santi!” Personalmente ai pubblicitari offro “l’altra mia guancia”: è un fallimento per voi e per la società che pubblicizzate e ricordatevi che “Dio non paga il sabato”! Naturalmente, senza rancore!

Si è proprio offeso il nostro lettore per quello spot che prende a prestito uno dei momenti fondativi della cristianità per farne un messaggio pubblicitario. Tanto offeso da usare un proverbio “Dio non paga il sabato” che, per chi non lo sapesse o non lo ricordasse, è quasi una maledizione. Infatti è legato all’usanza di pagare i lavoratori di sabato e indica che la punizione di Dio può forse arrivare in ritardo, ma sarà inevitabile e terribile. Ho guardato lo spot e devo riconoscere che colpisce per la voluta malagrazia: i personaggi sono sciatti nell’aspetto, rozzi nel linguaggio con una cadenza pesantemente romanesca e parlano solo di pasta alla carbonara. Ma non l’ho trovato scandaloso come il signor Pisani, che è cattolico e se ne sente doppiamente colpito. In quanto all’uso disinvolto di un capolavoro artistico come “L’Ultima Cena”, è giusto ricordare che l’opera di Leonardo, ritoccata e deformata secondo necessità, è da sempre uno dei testimonial più usati dalla pubblicità. Un veloce giro sulla rete ne mostra a decine: uno con Gesù rimasto solo perché tutti gli apostoli sono corsi a vedere i programmi di Fox tv, uno con i più famosi supereroi del cinema e dei fumetti seduti intorno a un Cristo-Batman (con Wonder Woman al posto di San Giovanni), un altro ancora con Giuda che parla al cellulare per pubblicizzare un gestore telefonico, fino a quello in cui tutti e tredici i commensali hanno musi da topo e sono stati invitati alla loro ultima cena da un produttore di ratticidi. In fondo da quando l’arte è entrata nell’epoca della sua riproducibilità tecnica, per citare un po’ impropriamente Walter Benjamin, è inevitabile accettare che l’aura di un lavoro artistico si svaluti se viene riprodotta, figuriamoci se viene deformata e ridicolizzata per usi commerciali. Ma come è accaduto anche per la Gioconda dello stesso Leonardo, neanche rendere i suoi capelli lisci, gassati o altro, ne ha intaccato la misteriosa magia.

120 18 settembre 2022 L’ESPRESSO VIA IN LUCINA, 17 - 00186 ROMA LETTEREALDIRETTORE@ESPRESSOEDIT.IT PRECISOCHE@ESPRESSOEDIT.IT - ALTRE LETTERE E COMMENTI SU LESPRESSO.IT
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Parole

Quei “moderati”   che non decidono

Molti si chiederanno nel corso di questa incredibile competizione elettorale come mai, se corriamo pericoli così esiziali, coloro che ce ne avvertono ininterrottamente non abbiano dato vita, come sarebbe stato dovere, a forti coalizioni. Le risposte, temo, non possono essere che le seguenti: o si tratta di gente irresponsabile, oppure l’allarme per l’abisso in cui precipiteremmo se il “nemico” vincesse è pura propaganda, oppure ancora non si disponeva di alcun programma, di alcuna idea su cui fondare l’indispensabile unità delle forze anti-populiste, anti-sovraniste, ecc.ecc. Rimaneva l’anti-, come fu, per tanti versi, anche nei lunghi anni del confronto con Berlusconi. Ancor più paradossale suona il fatto che, da un lato, si ricorra alla retorica degli “anni decisivi”, e, dall’altro, ci si affanni ad apparire e rappresentare “i più moderati”. Se l’epoca impone decisioni - il termine significa, letteralmente, “dare un taglio” - è evidente che il moderatismo non funziona e occorre piuttosto preparare “salti” politici e istituzionali.

Se l’ora presente è “decisiva” si è alla sua altezza non certo ricorrendo a vie di mezzo capaci al più di tenere

in piedi questo o quel pezzo dell’edificio. Se la crisi che attraversiamo è di sistema, non sarà “moderando” i programmi di riforma che essa verrà affrontata. E tantomeno con governi di “salute pubblica”, deresponsabilizzanti per loro natura. Sotto traccia, nell’infuriare di accuse demonizzanti da una parte e dall’altra, è questa intenzione che spesso invece balena, una sorta di inconfessabile nostalgia per governi di tutti e di nessuno, come gli unici in grado di evitare che una parte sola sia costretta ad assumere l’onere e l’onore di governare una situazione già drammatica e destinata a diventarlo ancora di più.

I nodi che oggi le nostre forze (sic) politiche sarebbero chiamate a decidere risultano molto semplici da definire. Il problema ha alcune variabili note e insindacabili: esse riguardano i vincoli posti da ordinamenti e accordi comunitari per sostenere i nostri conti. La Meloni potrebbe ignorarli altrettanto poco di Rifondazione comunista, a meno di cadere in preda a un irrefrenabile cupio dissolvi . Le discussioni intorno all’ovvio sono risibili depistaggi dell’opinione pubblica dal problema che tocca invece a noi, al governo italiano: con quali misure fiscali, con quali politiche di spesa e distribuzione del reddito si intende far fronte al vertiginoso aumento del debito? Come combattere la crescita delle disuguaglianze? Come non continuare a scaricare sul futuro dei giovani il peso della crisi? Qui occorre

dare i numeri. Riforme senza spesa non esistono. Esistono riforme che si devono finanziare, o con riduzioni di spesa per altri settori o con politiche fiscali adeguate. O, meglio, attraverso entrambe le vie. Dove i nostri eroi intendono tagliare (per decine di miliardi, se la cosa ha un senso)? E quali interventi in materia fiscale, così da poter “distribuire” a favore della scuola, del diritto allo studio, della promozione di giovane imprenditoria? Sulle rendite da capitale? Sul patrimonio immobiliare? Sulle tasse di successione? Si ritiene che una patrimoniale sia pura bestemmia, oppure si pensa che nella drammaticità della crisi essa sia, come in altri momenti della nostra storia, praticabile? Che quegli interventi, e tutti gli altri assolutamente necessari per difendere i ceti più deboli da inflazione e recessione, si possano sostenere con aiuti comunitari o con l’aumento ulteriore del debito, è criminale anche solo lasciarlo intendere.

Di questo si dovrebbe discutere in una seria campagna elettorale; queste le decisioni che davvero starebbero a noi. Ma “i moderati” si guardano bene dall’affrontarle. Noi stiamo saldi nel mezzo, prudenti, in attesa che “i tecnici” ci soccorrano, chiamati dal Presidente della Repubblica, nel mezzo anche lui, da decenni ormai, tra una forma di parlamentarismo che non funziona più e un presidenzialismo occasionale e surrettizio, che non potrà mai funzionare.

La campagna elettorale ignora le questioni cruciali. Come trovare i fondi per le riforme necessarie e proteggere i più deboli da inflazione e recessione
Massimo Cacciari con la rubrica Parole nel vuoto sarà in questa pagina ogni due settimane alternandosi con Dentro e fuori di Bernardo Valli
122 18 settembre 2022
Q © RIPRODUZIONE RISERVATA
Illustrazione: Ivan Canu
nel vuotoMassimo Cacciari

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