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Artiglio turco sul Kurdistan Marta Bellingreri

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Noi e voi

Noi e voi

Curdi siriani ai funerali delle vittime degli attacchi aerei turchi. I raid avrebbero causato già oltre settanta morti e una nuova massiccia ondata di profughi

na massa ingente di persone si riversa nelle U vie di Kobane, Derik, Qamishlo, nel NordEst della Siria. Alcuni sono funerali, altre manifestazioni di protesta. Urla di dolore si confondono a quelle di rabbia. Nonostante la paura di un imminente attacco turco, la popolazione araba e curdo siriana di questo lembo di terra a Est dell’Eufrate scende in strada per opporsi a qualsiasi incursione del nemico alla frontiera. I funerali si trasformano in cortei per salutare le vittime civili e militari dell’operazione voluta da Ankara, “Spada ad artiglio”: dal 20 novembre colpisce con bombardamenti e droni il territorio governato dai curdi, l’Amministrazione autonoma del Nord-Est della Siria (Aanes), e ha già causato una settantina di vittime. Tra queste, anche soldati dell’esercito governativo di Damasco. La presenza di piazza testimonia che l’unità (non solo territoriale) è più forte del tentativo del presidente turco Erdogan di spezzarla. L’epifania di una sua invasione via terra, per controllare le città di Tel Rifaat, Kobane e Manbij, e così «sbarazzarsi» al confine delle Forze siriane democratiche (Sdf ), curdo-arabe, resta nelle mani della diplomazia di Mosca. Ovvero del successo o meno del tentativo di convincere i curdi ad andarsene da quelle città, senza nessuna battaglia. O, dall’altro lato, del tentativo di far incontrare Erdogan con Assad, il dittatore ancora a capo del governo siriano. Ma nessuno dei due tentativi sembra stia riuscendo.

Fin dal primo giorno, Khalil Bozane non ha avuto dubbi. «La Russia ha consentito il passaggio degli aerei turchi nelle proprie aree. Putin ha dato il consenso ad Erdogan per procedere. Non possono fare l’uno a meno dell’altro», conclude, riferendosi al ruolo del presidente turco nella Nato per le trattative con Putin sull’Ucraina. Khalil Bozane vive a Kobane e lavora per il corrispettivo del ministero dell’Interno dell’Amministrazione autonoma del NordEst della Siria. Dell’attacco su larga scala non è sorpreso: lo aspettavano da mesi, da anni. Anzi quella minaccia non si è mai fermata, soprattutto «in vista delle prossime elezioni turche del giugno 2023», dice Bozane a L’Espresso al telefono, dalla manifestazione di Kobane dove marcia insieme ai suoi concittadini. «Erdogan deve raccattare consenso», fingendo di proteggere la sua popolazione. L’operazione è infatti partita in risposta all’attentato terroristico nel centro di Istanbul, domenica 13 novembre, di cui vengono ritenute responsabili le Unità di protezione del popolo (Ypg ) curde, parte delle Forze siriane democratiche. Nonostante abbiano negato qualsiasi coinvolgimento, Erdogan schiera le sue truppe, pronte ad andare a fondo, in qualsiasi momento. Lo spalleggiano le milizie armate dell’Esercito nazionale siriano, formate ed equipaggiate dalla Turchia, e che occupano già i territori di Afrin e la zona tra Ras al-Ain e Tal Abyad, frutto delle precedenti operazioni militari turche del 2018 e 2019.

Mazloum Abdi, comandante delle Forze siriane democratiche, lo dichiara in termini più diplomatici, ma il significato è lo stesso: «La Russia ha la piena responsabilità di fermare gli attacchi e prendere una posizione ferma, basata sugli accordi di Sochi nel 2019». Evitando l’escalation militare della Turchia, «la Russia si farebbe garante dell’accordo di cessate il fuoco concordato nel 2019». A conclusione di quell’ultima invasione via terra, tra ottobre e novembre 2019, il dispiegamento delle forze governative siriane e russe nella regione, avrebbe avuto il compito di impedire qualsiasi azione militare turca. Abdi ha dovuto anche annunciare l’arresto delle operazioni anti-Isis, anche quelle congiunte con le truppe americane, proprio per fronteggiare le bombe turche. E sono proprio gli Stati Uniti che la Turchia sta testando. Alleati delle Forze siriane democratiche nella battaglia che ha liberato il territorio del Nord-Est della Siria dal gruppo terroristico dello Stato Islamico,

Marta Bellingreri Giornalista

Gli effetti di un attacco turco alla centrale elettrica di Teqil Beqil

anche gli americani hanno bisogno di Ankara sul fronte ucraino. La Turchia ha contribuito a mediare un accordo sostenuto dalle Nazioni Unite per sbloccare i cereali del Mar Nero. Ma più che mediatore innocuo, Erdogan sotto il tavolo ha tutte le sue carte da giocare. Non per ultima, la sua firma mancante per garantire a Svezia e Finlandia l’ingresso nella Nato. Sul piatto, vuole in cambio l’estradizione dei curdi dai Paesi scandinavi. Il primo, presunto affiliato al Pkk (Partito dei lavoratori del Kurdistan) è già stato spedito a Istanbul pochi giorni fa ed è stato immediatamente arrestato.

Nella prima settimana di “Spada ad artiglio” un drone turco ha colpito una base ad Hasakah, in Siria, arrivando a 300 metri dalle truppe americane. Senza nominare l’alleato Nato, il Pentagono ha dichiarato che l'attacco ha «minacciato direttamente» le forze statunitensi e continua ad opporsi fortemente a un ingresso via terra. «Il proseguimento del conflitto, in particolare un’invasione via terra, metterebbe gravemente a rischio le conquiste faticosamente ottenute dal mondo contro l’Isis e destabilizzerebbe la regione», ha affermato un portavoce del Pentagono. Con l’evacuazione del suo personale dal Nord-Est della Siria verso Erbil, nel Kurdistan iracheno, gli Stati Uniti mostrano che non solo la minaccia è reale, vicina, ma che loro hanno già pronta la via di fuga. I loro alleati curdi e arabi dell’Amministrazione autonoma non hanno invece scelta.

«L’ennesima invasione della Turchia provocherebbe, oltre a nuove vittime, un’enorme ondata di sfollati in una Siria già prostrata da instabilità, crisi economica, e dallo spettro del colera», dice Jamila (non pubblichiamo il cognome per proteggere la sua identità) che lavora come coordinatrice medica. Nella voce di Jamila ci sono oltre dieci

anni di guerra: la rivoluzione contro la dittatura di Assad e la successiva corsa, da un fronte all’altro, a fianco dei feriti. Per questo è ricercata da tutti: dal governo di Assad, dall’Isis, dalla Turchia. Dopo aver visto nelle settimane passate le esplosioni in più villaggi, Jamila conclude con il messaggio più triste. «Ci siamo abituati alla guerra. Andiamo avanti». Il problema sarà come ricominciare daccapo con feriti, funerali, campi per sfollati. E chi è già stato sfollato negli anni passati, «lo sarà per una seconda o terza volta». Nel villaggio di Teqil Beqil, non distante da Derik, una centrale elettrica è stata colpita all’inizio dell’operazione tra il 19 e il 20 novembre: nel doppio attacco a poche ore di distanza 11 civili sono rimasti uccisi, lasciando i villaggi dell’area senza elettricità. Una settimana dopo, il 28 novembre, sono state uccise otto guardie del campo di al-Hol, dove risiedono famiglie sospettate di aver far parte dell’organizzazione Stato Islamico e dove alcune cellule sono attive, come dimostrano i numerosi omicidi nel corso degli ultimi anni. Nel primo caso, gli americani sono stati testimoni dei civili uccisi, come riportano alcuni parenti delle LA RUSSIA HA CONSENTITO IL PASSAGGIO DEGLI AEREI NELLE PROPRIE AREE PER L’ATTACCO SU VASTA SCALA CON BOMBE E DRONI. FORMALMENTE UNA RISPOSTA ALL’ATTENTATO DI ISTANBUL vittime al Rojava information center. Nel secondo caso, il pericolo dell’Isis e lo sforzo di contenerlo è il motivo per cui gli Stati Uniti non hanno lasciato la Siria. Proprio nei giorni in cui è stata resa pubblica la notizia dell’uccisione in ottobre del leader dell’Isis e l’annuncio del nuovo, la Turchia colpisce i luoghi dove si prova a contenere l’Isis, come il campo di al-Hol e la prigione di Jerkin. Nel campo, dopo l’attacco, si è registrato un tentativo di fuga in contemporanea. Secondo il giornale Al-Monitor, invece, alcuni pozzi di petrolio e strutture collegate sono stati danneggiati dall’aggressione turca, vicino al confine con l’Iraq. Di questi, potrebbero essere clienti diverse compagnie petrolifere internazionali. Dove altro vuole arrivare Erdogan? «Né russi né americani: a nessuno importa di noi» dice Khalil Bozane, ancora dalla sua marcia. «Per questo protestiamo: resta a noi popolo farci carico del nostro destino».

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